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“Macchine del tempo” in mostra a Torino



Dal 15 marzo 2025 la mostra Macchine del Tempo. Il viaggio nell’Universo inizia da te atterra alle Ogr Torino, per offrire un viaggio interattivo alla scoperta di stelle, galassie, pianeti extrasolari, asteroidi e buchi neri. Dopo il successo della prima edizione presso il Palazzo Esposizioni Roma, un’esperienza immersiva trasformerà gli spazi del Binario 1 delle Ogr in un vero e proprio portale spazio-temporale.

Ideata dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), realizzata dalle Ogr Torino e progettata da Pleiadi, con il contributo di Infini.to Planetario di Torino-Museo dell’astronomia e dello spazio “Attilio Ferrari” e MU-CH Museo della chimica, la mostra sarà visitabile fino al 2 giugno 2025.


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

Macchine del Tempo propone un viaggio interattivo alla scoperta delle meraviglie del cosmo, dalle stelle alle galassie, dai pianeti extrasolari agli asteroidi, fino ai misteriosi buchi neri. Il percorso espositivo combina installazioni immersive, ambientazioni interattive e videogiochi ispirati agli anni Ottanta, offrendo al pubblico un’esperienza innovativa tra passato, presente e futuro della ricerca astrofisica. L’esposizione si distingue per l’integrazione di macchine del tempo futuristiche progettate dall’Inaf, che consentono di esplorare la storia dell’universo attraverso le più recenti scoperte scientifiche.

La mostra non si rivolge solo agli appassionati di scienza, ma coinvolge chiunque desideri lasciarsi affascinare dalla storia e dai misteri dell’universo. Inserita nella programmazione culturale delle Ogr Torino, l’esposizione conferma l’impegno dell’istituzione nella promozione della ricerca e della divulgazione scientifica, consolidando il suo ruolo di polo d’eccellenza per l’innovazione e la cultura contemporanea.


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

«La mostra Macchine del tempo rappresenta la visione con cui la Fondazione Crt ha immaginato le Ogr: un hub di idee, possibilità ed eventi per la città, un luogo di incontro e contaminazione tra mondi diversi», dice il segretario generale della Fondazione Crt Patrizia Polliotto. «Questa iniziativa mette a sistema e crea sinergie tra tanti soggetti dell’ecosistema scientifico torinese, una vera e propria “galassia” di collaborazioni. Fondazione Crt è al fianco di molti di questi enti, sostenendo e promuovendo la divulgazione scientifica come leva di crescita e innovazione».

«Con questa mostra offriamo al pubblico un’esperienza che unisce arte, scienza e tecnologia in un viaggio affascinante attraverso l’universo», dice Davide Canavesio, presidente delle Ogr Torino. «Le Ogr si confermano un laboratorio di sperimentazione e innovazione, un luogo in cui il sapere si traduce in esperienze immersive e coinvolgenti. Ospitare Macchine del Tempo significa non solo dare spazio alla divulgazione scientifica, ma anche contribuire a rendere la conoscenza accessibile e stimolante per un pubblico sempre più ampio e diversificato. Questo è dimostrato dall’adesione di oltre cento scuole, un vero e proprio segnale di risposta alla necessità urgente di insegnare attraverso esperienze immersive e di qualità. Il nostro obiettivo con questa mostra è ispirare curiosità e meraviglia, offrendo nuove prospettive sul cosmo e sul nostro ruolo al suo interno».


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

«Con Macchine del Tempo, l’Istituto nazionale di astrofisica mostra al pubblico gli strumenti che scrutando il cielo esplorano l’universo in epoche lontane dalla nostra, dagli 8 minuti che la luce del Sole impiega a raggiungerci, ai miliardi di anni percorsi dai messaggeri che provengono dalle galassie più lontane», spiega Roberto Ragazzoni, presidente dell’Inaf. «Il nostro istituto è leader nell’esplorazione dell’universo e nella progettazione delle macchine che ci permettono di svelarne i segreti, ma anche nella sperimentazione di nuovi linguaggi per appassionare il pubblico e guidarlo in questo straordinario viaggio di scoperta. Dalle meraviglie del Sole e delle stelle, agli “innumerabili mondi” vicini e lontani, passando per la nostra galassia e quelle più remote, dalle stelle compatte ai buchi neri, dalle onde gravitazionali alla ricerca della vita nell’universo. Tutto questo e molto altro potrete scoprire visitando Macchine del Tempo, un viaggio che speriamo accenda la curiosità di tutte e tutti e magari ispiri le menti più giovani a intraprendere la strada della ricerca scientifica, perché un giorno siano loro a scrivere i prossimi capitoli delle scoperte nel cosmo».


Informazioni visitare la mostra:

  • Sito web della mostra: macchinedeltempo.inaf.it
  • Costo del biglietto: intero 10 euro, ridotto:8 euro
  • I biglietti sono disponibili online sul sito ogrtorino.it e su macchinedeltempo.inaf.it
  • Le visite guidate sono prenotabili gratuitamente con l’acquisto del biglietto dal 15 marzo ogni venerdì alle ore 18.00, ogni sabato alle ore 10.30, ogni domenica alle ore 18.30. Straordinariamente, le visite guidate si terranno anche il 18, 21 e 25 aprile, il 1 maggio e il 2 giugno, alle 18.30


Alle galassie piace ruotare in senso orario



Guardate questa immagine. Quali cerchietti vi sembrano più numerosi, quelli rossi o quelli blu?


L’area di cielo osservata dal programma Jades con indicate le 263 galassie a spirale studiate da Shamir. Quelle nei cerchietti blu stanno ruotando in senso orario rispetto alla Terra, al contrario di quelle nei cerchietti rossi. Crediti: L. Shamir, Mnras, 2025; Nasa, Esa, Csa, M. Zamani

Lungi da qualsiasi allusione calcistica, i colori rosso e blu indicano in questa immagine il verso in cui una galassia sta ruotando. Ogni cerchietto racchiude infatti niente meno che una galassia a spirale. Galassie che girano, girano, ma non nel modo in cui ci si aspetta. Sembrerebbe ci sia un verso preferenziale negli eterni giri che stelle e gas compiono all’interno delle galassie. Lo studio che lo racconta è uscito il mese scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e lo ha scritto Lior Shamir, professore associato della Kansas State University, nello stato omonimo. Shamir ha analizzato attentamente le immagini del programma Jades (James Webb Space Telescope Advanced Deep Extragalactic Survey), realizzato col telescopio Webb. Scoprendo che i moti delle galassie non sono distribuiti casualmente, come ci si sarebbe aspettato. Delle 263 galassie selezionate nelle immagini, ben due terzi sta ruotando in senso orario – quelle nei cerchietti blu, se ci avete visto bene -, e solo un terzo in quello antiorario.

I dettagli dello studio sono raccontati da Shamir: «L’analisi delle galassie è stata fatta tramite un’analisi quantitativa delle loro forme, ma la differenza è così ovvia che chiunque guardi l’immagine può vederla», afferma l’autore dello studio. «Non c’è bisogno di abilità o conoscenze speciali per vedere che i numeri sono diversi. Con la potenza del telescopio spaziale James Webb, chiunque può vederlo.» Il campione di oggetti studiato da Shamir è stato selezionato per consentire una stima accurata del verso di rotazione e conta, come si diceva, quasi trecento galassie a spirale. Fondamentali sono state le impressionanti immagini di NirCam, portentosa camera a bordo di Webb che osserva nell’infrarosso.

È proprio un rompicapo, questo qua. Per l’idea che ci siamo fatti dell’universo, non dovrebbe esserci una direzione privilegiata dei moti all’interno delle galassie. Le galassie che ruotano in senso orario ci si aspetta che come numero siano pari a quelle che ruotano in senso antiorario, rispetto alla Via Lattea. Seppur nutrendo alcune perplessità, Shamir prova ad avanzare qualche ipotesi su come questo sia possibile. «Non è ancora chiaro cosa causi questo, ma ci sono due possibili spiegazioni principali», afferma lo scienziato. «Una spiegazione è che l’universo sia nato ruotando. Questa spiegazione concorda con teorie come la cosmologia dei buchi neri, che postula che l’intero universo sia l’interno di un buco nero. Ma se l’universo è effettivamente nato in rotazione, significa che le teorie esistenti sul cosmo sono incomplete.»


Zoom su un gruppo di galassie a spirale studiate da Shamir. Crediti: L. Shamir, Mnras, 2025; Jades collaboration

Centrifugato da un buco nero. Così insomma, sarebbe nato l’universo. Un’altra spiegazione ha a che fare col verso in cui la Terra, assieme al sistema solare, sta ruotando attorno al centro della Via Lattea. Ricordiamoci infatti che, anche se ci sembra di star fermi, siamo attualmente in viaggio alla non trascurabile velocità di 220 chilometri al secondo attorno al nucleo della nostra galassia. A causa dell’effetto Doppler relativistico, ci si aspetta che la luce proveniente dalle galassie che ruotano nel verso opposto rispetto alla Terra – e che a noi appaiono ruotare in senso orario – sia più brillante. Questo fenomeno, finora ritenuto trascurabile, potrebbe spiegare perché le galassie che ruotano in senso orario sono più comuni. Ne vediamo di più perché sono più brillanti e quindi si vedono meglio nelle immagini. A differenza di quelle animate dal moto in senso antiorario, che non possono godere di questo contributo extra di brillantezza.

«Se è davvero così, dovremo ricalibrare le nostre misure della distanza per l’universo profondo», conclude Shamir. «La ricalibrazione delle misure della distanza può anche spiegare diverse altre questioni irrisolte in cosmologia, come le differenze nel tasso di espansione dell’universo – la cosiddetta tensione di Hubble – e le grandi galassie che, secondo le misurazioni della distanza esistenti, ci si aspetta che siano più vecchie dell’universo stesso».

Per saperne di più:



Hera completa il flyby di Marte



Ieri, mercoledì 12 marzo, la missione Hera dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha effettuato un flyby di Marte, parte integrante della sua fase di crociera nello spazio profondo. Oggi le immagini inedite sono state presentate in anteprima dal team scientifico di Hera al centro di controllo Esoc dell’Esa a Darmstadt, in Germania. Al team si è unito anche Brian May, celeberrimo chitarrista dei Queen ma anche astrofisico esperto di asteroidi e membro onorario di Hera, la prima missione in assoluto di difesa planetaria.


Il team scientifico di Hera e le prima immagini del flyby. In basso a sinistra, Brian May. Crediti: Esa

Il flyby di Marte è una manovra orbitale che ha permesso di utilizzare la gravità del Pianeta rosso per accelerare la sonda spaziale e migliorare la sua traiettoria verso il sistema di asteroidi binari Didymos e Dimorphos, accorciando il viaggio di alcuni mesi e permettendo di risparmiare molto carburante. Il flyby ha consentito inoltre il primo utilizzo e la calibrazione scientifica di alcuni strumenti di Hera per osservare Deimos, la più piccola e misteriosa delle due lune di Marte.

«Hera si è avvicinata fino a 5000 km dalla superficie del Pianeta Rosso e a soli 300 km da Deimos», dice Monica Lazzarin dell’Università di Padova, membro dello Science management board. «Le immagini che stiamo vedendo ci mostrano in anteprima assoluta il lato oscuro di Deimos, una delle due lune di Marte, la più piccola e lontana, in orbita intorno al pianeta alla distanza di 23 mila chilometri. Deimos, che ha un diametro di 12,4 chilometri, ruota in modo sincrono intorno a Marte e come la Luna non mostra mai il suo lato nascosto. Oggi invece abbiamo potuto osservarlo dalla distanza di circa mille chilometri».

«Deimos è particolarmente interessante perché da tempo la comunità scientifica discute se si sia formato da Marte o se sia un asteroide catturato dalla sua orbita», continua Lazzarin. «Tre strumenti in particolare – dei dodici complessivi a bordo di Hera – ci hanno permesso di osservare Deimos in modo del tutto inedito. Nelle immagini che Hera ci ha inviato era ben visibile anche Marte sullo sfondo, alla distanza di circa 9000 km. Le immagini della camera Hyperscout ci mostrano Marte – il Pianeta rosso – in modo inedito, stranamente di colore blu per via della lunghezza d’onda infrarossa a cui è stato osservato».


Marte e Deimos visti dalla Asteroid Framing Camera di Hera. Crediti: Esa

I tre strumenti di Hera attivati e calibrati durante il flyby sono: la Asteroid Framing Camera, dedicata alle osservazioni monocromatiche nel visibile, utilizzata sia per la navigazione che per le indagini scientifiche; l’imager iperspettrale Hyperscout-H, che osserva in una gamma di colori oltre i limiti dell’occhio umano, in venticinque bande spettrali del visibile e del vicino infrarosso, e che aiuterà caratterizzare la composizione dei minerali; e Tiri (Thermal Infrared Imager di Hera), fornito dall’agenzia aerospaziale giapponese Jaxa, sensibile al medio infrarosso per rilevare la temperatura della superficie, ottenendo proprietà fisiche come la rugosità, la distribuzione delle dimensioni delle particelle e la porosità.

«Abbiamo iniziato a prepararci per il œ già un mese dopo il lancio – avvenuto il 7 ottobre da Cape Canaveral – con una serie di manovre per variare la sua velocità. La prima di 50 m/s, e poi altre minori di 17 e 9 cm/s per apportare ulteriori correzioni alla traiettoria. Questi cambi di velocità sono serviti per poterci avvicinare a Marte nel modo giusto e riuscire a sfruttare il suo campo gravitazionale per aumentare la velocità della sonda», spiega Ian Carnelli, responsabile del Dipartimento dei sistemi spaziali di Esa e project manager della missione Hera. «Possiamo dirci molto soddisfatti perché per la prima volta siamo riusciti a ottenere la traiettoria che avevamo previsto con una precisione di pochi metri di errore e con un errore sulla velocità di pochi millimetri al secondo».


Infografica del flyby e dell’incontro con Deimos. Crediti: Esa-F. Zonno

La destinazione finale di Hera è il sistema asteroidale composto da Didymos (di 780 m di diametro) e Dimorphos (di soli 151 m), corpi molto più piccoli del satellite Deimos. Una serie di accensioni di propulsori “a rendez-vous impulsivo” a partire dall’ottobre 2026 metterà a punto la rotta di Hera per raggiungere il sistema di Didymos nel dicembre successivo.

«Questa è stata la prima, emozionante, esperienza di esplorazione del team Hera, ma non l’ultima. Tra 21 mesi la sonda raggiungerà i nostri asteroidi bersaglio e inizierà l’indagine sul luogo dell’incidente dell’unico oggetto del nostro Sistema solare la cui orbita sia stata alterata in modo misurabile dall’azione umana», ricorda Carnelli. «Siamo pronti per lavorare alla fase finale della missione, ovvero volare il più vicino possibile agli asteroidi mantenendo la sonda in sicurezza».

Se la giornata non fosse sembrata abbastanza ricca di emozioni, aggiungiamo una novità. È stata lanciata oggi e mostrata in anteprima – poco dopo le immagini del flyby – anche la versione vocale di Hera Space Companion, uno strumento di intelligenza artificiale che permette a chiunque di accedere alla telemetria e ai dati reali della missione, per interagire in modo diretto e in near real time con Hera.

Intanto Hera si avvicina sempre più al suo obiettivo, ovvero studiare in modo ravvicinato gli effetti dell’impatto della sonda Dart della Nasa ,che ha colpito Dimorphos nel settembre 2022. Hera contribuirà a rendere la tecnica dell’impattatore cinetico per la deviazione degli asteroidi pienamente compresa e potenzialmente ripetibile. Il sistema dei due asteroidi verrà raggiunto nel dicembre 2026, quando saremo già nel pieno dei preparativi della missione Ramses, che incontrerà a sua volta l’asteroide Apophis nel 2029.

Guarda l’animazione sul canale YouTube dell’Esa:

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Cambiamento climatico e sindrome di Kessler



La maggior parte della ricerca sui cambiamenti climatici causati dai gas serra immessi nell’atmosfera terrestre si è sempre concentrata sulla troposfera, perché le alterazioni che avvengono in questa regione hanno conseguenze immediate sulla biosfera terrestre. Tuttavia, con il rapido aumento dell’utilizzo di satelliti nell’orbita terrestre bassa (Low Earth Orbit, Leo) è aumentata notevolmente la dipendenza da questa regione che si estende dai 200 fino ai 2000 km al di sopra della superficie terrestre. La zona Leo, però, non è al di sopra dell’atmosfera, ma è in parte immersa nella termosfera, la quarta regione in cui viene idealmente divisa l’atmosfera terrestre, che si estende da 95 fino a 550 km. Ad esempio, visto che orbita a circa 400 km di quota, la Stazione spaziale internazionale si muove all’interno della termosfera e periodicamente i motori di assetto ne devono aumentare la quota per evitare che cada sulla Terra. Se proprio vogliamo essere pignoli, l’atmosfera terrestre non termina nemmeno con la termosfera: oltre si trova uno strato ancora più rarefatto, l’esosfera, che progressivamente svanisce nello spazio.


Le tracce lasciate da un satellite in Leo della costellazione dei Globalstar ripreso il 5 febbraio 2025 dal sistema Tandem della Stazione astronomica di Loiano dell’Inaf Oas Bologna, nell’ambito delle attività di sorveglianza spaziale e tracking satellitare. Nel centro dell’immagine la traccia diventa più luminosa per effetto della rotazione del satellite attorno al proprio asse. Crediti: A. Carbognani/Inaf

La termosfera si contrae e si espande con un periodo di circa 11 anni in risposta al normale ciclo di attività del Sole. Quando l’attività del Sole è bassa, la Terra riceve meno radiazioni Uv/X e l’atmosfera più esterna si raffredda e si contrae, prima di espandersi di nuovo durante il massimo solare successivo. Negli anni Novanta del secolo scorso i ricercatori che si occupavano del clima iniziarono a chiedersi come avrebbe reagito la termosfera in seguito all’aumento dei gas serra. I primi modelli matematici mostrarono che, mentre i gas serra tendono a intrappolare il calore nella troposfera favorendo un aumento globale della temperatura, gli stessi gas irraggiano calore a quote più elevate, raffreddando la termosfera che, di conseguenza, dovrebbe contrarsi riducendo la densità atmosferica alle alte quote. Nell’ultimo decennio, grazie alle misure sull’attrito atmosferico sperimentato dai satelliti, questo effetto di contrazione sistematica è stato effettivamente verificato. Questa contrazione della termosfera si sovrappone al ciclo naturale di espansione e contrazione dovuto al Sole.

Un gruppo di ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) si è chiesto come la risposta della termosfera ai gas serra possa influenzare il numero di satelliti in grado di operare in sicurezza nell’orbita bassa terrestre e il risultato che hanno trovato è molto interessante. Attualmente in Leo ci sono oltre diecimila satelliti operativi che forniscono servizi essenziali tra cui Internet, comunicazioni, navigazione, previsioni meteorologiche e servizi bancari. La popolazione dei satelliti in questa regione è aumentata vertiginosamente negli ultimi anni anche grazie al contributo della costellazione degli Starlink e gli operatori devono eseguire regolari manovre anticollisione per minimizzare la probabilità che i propri satelliti vengano colpiti da qualche frammento o collidano fra loro. Dal 1961 sono stati registrati più di 650 eventi di frammentazione in orbita. Solo 7 eventi sono stati associati a collisioni e la maggior parte degli eventi attuali sono state esplosioni di veicoli spaziali e stadi di razzi, tuttavia in futuro le collisioni diventeranno la fonte dominante di detriti spaziali. Qualsiasi esplosione o collisione può generare space debris che possono rimanere in orbita per decenni o secoli, aumentando la possibilità di collisioni con satelliti vecchi e nuovi.


Numero di oggetti noti in orbita terrestre in funzione del tempo. UI = Non identificato; RM = Oggetto correlato alla missione di un razzo; RD = Detriti razzo; RF = Detriti di frammentazione razzo; RB = Corpo del razzo; PM = Oggetto correlato alla missione del carico utile; PD = Detriti del carico utile; PF = Detriti di frammentazione del carico utile; PL = Carico utile. Crediti: Esa/Space Environment Report 2024

Come misura per limitare il numero di satelliti abbandonati in Leo, la Federal Communications Commission degli Stati Uniti ha recentemente approvato una norma che richiede di deorbitare il satellite “il prima possibile e non più di cinque anni dopo la fine della missione” e anche l’Esa raccomanda una tempistica simile. Tuttavia, fino a poco tempo fa, una deorbitazione di 25 anni dopo la fine della missione era lo standard. Queste indicate però sono solo linee guida, non un obbligo e per i satelliti non manovrabili – ossia privi di motore che ne possa ridurre la velocità per farli ricadere in modo controllato verso terra – la tempistica di deorbitazione dipende interamente dal decadimento dovuto all’attrito atmosferico e qui sorge il problema. Se la termosfera si contrae per effetto del raffreddamento innescato dall’eccesso di gas serra, allora i satelliti non più operativi e gli space debris restano in orbita più a lungo perché l’operazione di frenamento – con conseguente “pulizia” – che esercita l’atmosfera è ridotta. Come conseguenza gli space debris si accumulano e aumenta la probabilità di collisioni, che a loro volta generano altri space debris e così via fino alle estreme conseguenze: la temuta sindrome di Kessler, in cui c’è un incremento esponenziale della probabilità di collisione e l’orbita bassa diventa talmente ostile che nessun satellite può sperare di sopravvivere. Alcune regioni ad alta quota hanno già una densità di oggetti sufficientemente elevata da poter manifestare un’instabilità incontrollata, in particolare tra i 900 e i 1400 km.

I ricercatori del Mit hanno simulato diversi scenari di emissioni di gas serra per indagare le conseguenze sulla densità atmosferica e l’attrito che subiscono i satelliti mentre orbitano attorno alla Terra. L’orbita bassa è stata suddivisa in diversi “gusci” e all’interno di ciascuno di questi sono state modellate le dinamiche orbitali e la probabilità di collisioni in base al numero di oggetti all’interno del guscio. Nello scenario che vede continui aumenti delle emissioni di gas serra, il team stima che entro la fine di questo secolo il numero di satelliti che potranno essere ospitati in sicurezza fra 200 e 1000 chilometri di quota potrebbe essere ridotto del 50-66 per cento rispetto a uno scenario in cui le emissioni di gas serra rimangono ai livelli dell’anno 2000. Se il numero massimo di satelliti venisse superato, anche solo in una regione locale, allora si sperimenterebbe una “instabilità incontrollata”, ovvero una cascata di collisioni che creerebbe così tanti space debris che i satelliti non potrebbero più operare in sicurezza – in pratica, la sindrome di Kessler.

«Non c’é dubbio che le prospettive per l’utilizzo a lungo termine della regione dei Leo dipendono in larga misura dalla nostra capacità di mantenere l’alta atmosfera quanto più libera possibile dai detriti spaziali», commenta Alberto Buzzoni, astronomo all’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio dell’Inaf di Bologna ed esperto di tecnologie spaziali. «Difficilmente questa pulizia potrà delegarsi per intero a un nostro intervento attivo tramite missioni ad hoc di satelliti “spazzini”. La tecnologia è certamente matura e attuabile, ma a costi assolutamente proibitivi a fronte dei potenziali benefici sul lungo termine. Appare quindi realistico pensare che l’effetto auto-pulente dell’atmosfera rimarrà il vero meccanismo primario su cui contare per gestire in sicurezza il nostro accesso allo spazio nel futuro prossimo: un motivo in più per cercare di invertire (o per lo meno controllare) il trend attuale delle emissioni di gas serra».

Per saperne di più:

Guarda su MediaInaf Tv questo servizio del 2021:

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Lynds 483 come non si era mai vista



Oggi la Nasa l’ha scelta come immagine astronomica del giorno. È un nuovo scatto ad alta risoluzione catturato dal James Webb Space Telescope e mostra nuovi e straordinari dettagli della struttura di Lynds 483 (L483), una nebulosa oscura distante 650 anni luce, in direzione della costellazione del Serpente, nel cui centro due stelle si stanno attualmente formando. È l’immagine più dettagliata di L483 mai realizzata fino a oggi, ottenuta grazie alla sovrapposizione di diverse esposizioni della Near-Infrared Camera (NirCam), strumento che permette di osservare nell’intervallo delle lunghezze d’onda dell’infrarosso vicino. A ogni porzione di questo intervallo è stato assegnato un colore della luce visibile, ottenendo le sfumature arancioni, rosa e blu mostrate nell’immagine qui sotto.


L’immagine mostra Lynds 483 (cliccare per ingrandire). Le frecce della bussola indicano l’orientamento dell’immagine nel cielo. La relazione tra nord e est nel cielo (vista dal basso) è invertita rispetto alle frecce direzionali su una mappa terrestre (vista dall’alto). La barra delle scale è etichettata in anni luce, che è la distanza percorsa dalla luce in un anno terrestre. La legenda dei colori mostra quali filtri NirCam sono stati usati e quale colore della luce visibile è stato assegnato a ognuno. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci

Le due protostelle responsabili di questo spettacolo sono al centro della clessidra, in un disco di polvere e gas freddo che nell’immagine è grande quanto un pixel. Per oltre una decina di migliaia di anni hanno periodicamente emesso gas e polvere nel mezzo interstellare, creando enormi coni semitrasparenti illuminati di arancione. Una volta nello spazio, il materiale più recente colpisce quello più vecchio, compattandolo e facendolo vorticare, causando nel tempo una serie di reazioni chimiche che producono una varietà di molecole e composti organici.

Se si guarda la parte superiore della nube, dove il rosa incontra l’arancione, si può notare un’area dove il materiale appare disordinato. Questi nuovi dettagli incredibilmente fini rivelati da Webb, insieme a tutte le peculiari simmetrie e asimmetrie che le nubi presentano, in futuro potranno essere approfonditi e spiegati tramite la ricostruzione della storia delle espulsioni stellari e l’aggiornamento di modelli che ne riproducono gli effetti. Un’altra regione di rilevante importanza è quella oscura ai lati della regione centrale, resa tale da un’alta concentrazione di polvere che impedisce alla luce di passare facilmente. La NirCam di Webb rileva le stelle dietro questa polvere come tenui puntini arancioni, molto diverse da quelle rilevate fuori da questa regione, che brillano di un’intensa luce bianca e blu.

L483 è troppo grande per essere catturata in un’unica immagine di Webb. La foto è stata scattata specificatamente per catturare la sezione superiore, motivo per il quale la parte inferiore è mostrata solo parzialmente.

Tra milioni di anni, quando le due stelle avranno completato la loro formazione, potrebbero raggiungere ciascuna una massa simile a quella del nostro Sole. Il flusso di materiale in uscita avrà ripulito l’area nei loro dintorni, lasciando solamente un piccolo disco di gas e polvere dove potrebbero eventualmente formarsi dei pianeti.



Poker di mondi per la stella di Barnard



È una vecchia conoscenza degli astronomi, la stella di Barnard: antica e flebile nana rossa situata in direzione della costellazione dell’Ofiuco, è la stella a noi più vicina – meno di sei anni luce – subito dopo le tre che formano il sistema di Alpha Centauri. Già si sapevala conferma era giunta lo scorso ottobre grazie allo strumento Espresso del Vlt – dell’esistenza di un pianeta che le orbita attorno. Ora però i mondi si sono moltiplicati: da uno a quattro. Quattro minuscoli esopianeti, tutti molto più piccoli della Terra: le loro masse vanno dal 20 al 30 per cento di quella del nostro pianeta. A rendere possibile la scoperta, riportata ieri su The Astrophysical Journal Letters, è stato Maroon-X, uno strumento progettato specificamente per cercare esopianeti intorno a stelle nane rosse e montato sul telescopio Gemini North, alle Hawaii.


Rappresentazione artistica degli esopianeti in orbita attorno alla stella di Barnard. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/P. Marenfeld

Si tratta di una scoperta degna di rilievo per più d’un motivo. Anzitutto per l’astro attorno al quale questi mondi orbitano: quella di Barnard è infatti una stella singola, come il Sole. Non fa cioè parte di un sistema doppio o triplo, qual è per esempio quello di Alpha Centauri. Detto altrimenti, nel cielo dei quattro mondi che le ruotano attorno splende un sole soltanto – non due o più, come avviene nei sistemi stellari multipli. E fra i sistemi planetari formati da una sola stella quello di Barnard, come dicevamo, è quello a noi più vicino.

Ma c’è altro. Uno dei mondi appena annunciati è l’esopianeta meno massiccio che sia mai stato scoperto con la tecnica delle velocità radiali. Poiché il segnale rilevato da questo metodo dipende anche dalla massa del pianeta, essere riusciti a sfruttarlo per individuare l’esistenza di un pianeta così leggero induce un certo ottimismo sulla possibilità di trovarne altri attorno alle stelle più vicine. «È una scoperta che segna un punto di svolta nella precisione di questi nuovi strumenti rispetto alle generazioni precedenti», commenta entusiasta il primo autore dello studio, Ritvik Basant, dottorando all’Università di Chicago.


Lo strumento Maroon-X montato sul telescopio Gemini North. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/J. Bean

Se nella nuova scoperta ha avuto un ruolo fondamentale la sensibilità dello spettrografo Maroon-X, capace di riconoscere gli effetti gravitazionali impressi sul moto della stella dai pianeti che le ruotano attorno, non da meno è stata decisiva la perseveranza degli astronomi, che per avere la certezza di non aver preso un abbaglio hanno sorvegliato la stella di Barnard per ben 112 notti nell’arco di tre anni.

Proverbiale per essere ingannevole agli occhi dei cacciatori di mondi alieni, che in passato già avevano annunciato la presenza, là attorno, di esopianeti per poi essere smentiti, la stella di Barnard si era infatti guadagnata nel tempo il soprannome di “grande balena bianca” – in senso melvilliano, dunque di obiettivo inseguito ossessivamente ma capace di eludere ogni tentativo di raggiungerlo. Questa volta, invece, la fiducia nel risultato è pressoché totale, grazie anche al fatto che le osservazioni sono state condotte da due telescopi in due diversi emisferi – da quello australe con il Vlt, da quello boreale con Gemini North. «Abbiamo osservato a ore diverse della notte e in giorni diversi. Loro sono in Cile, noi alle Hawaii. Le nostre squadre non si sono coordinate in alcun modo», sottolinea Basant. «Questo ci dà la certezza che quelli che abbiamo visto nei dati non sono fantasmi».

Purtroppo, a causa dell’angolazione con la quale si presentano a noi che li osserviamo dalla Terra, i quattro pianeti non transitano mai davanti alla loro stella, e ciò rende difficile determinarne la composizione. Ma è quasi certo che siano tutti pianeti rocciosi, con periodi di rivoluzione che vanno dai 2.3 ai 6.7 giorni terrestri, dunque brevissimi. Gli autori dello studio sono anche stati in grado di escludere, con ragionevole certezza, che nella zona abitabile della stella di Barnard – quella compatibile con la presenza di acqua liquida in superficie – orbiti qualche esopianeta, perlomeno non di massa paragonabile a quella della Terra.

Per saperne di più:

Guarda l’animazione sul canale YouTube del NoirLab:

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William Herschel: intervista al pronipote Will




Caroline Herschel prende appunti mentre il fratello William osserva al telescopio il 13 marzo 1781, la notte in cui William scoprì Urano. Crediti: Wikimedia Commons

Mentre scrivevo il mio ultimo libro, Pianeti mancanti, mi sono ritrovato a raccontare di William Herschel, sua sorella Caroline e suo figlio John. Le vicende di questa famiglia sono infatti strettamente collegate alla storia dell’astronomia, e in particolare a quella dei pianeti mancanti: del resto Urano, scoperto per caso da William, è il primo pianeta mai scoperto dopo i cinque visibili a occhio nudo, e ha di colpo raddoppiato le dimensioni del Sistema solare. Quella scoperta avrebbe poi guidato alla caccia a Nettuno, nel secolo successivo, e a quella Planet X nel ‘900.

La scoperta di Urano è avvenuta nel 1781, che sembra lontano, ma a ben vedere è un battito di ciglia nella storia, e sono poche le generazioni che ci separano da quegli eventi. Allora mi sono chiesto: come posso trasmettere la vicinanza temporale di questi avvenimenti? La risposta è venuta da sé: ho cercato un discendente della famiglia Herschel per porgli qualche domanda sull’eredità scientifica della sua famiglia.

Ho contattato l’Herschel Museum of Astronomy, situato a Bath (Regno Unito), proprio nella casa in cui William viveva quando scoprì Urano. La segreteria del museo mi ha subito messo in contatto con Will Herschel-Shorland, uno dei pronipoti di William e curatore dei beni ereditati dalla famiglia. Un vero gentleman inglese, che è stato più che disponibile nel rispondere alle mie domande.


Will Herschel-Shorland, “champion of the archival cause” della famiglia Herschel

Qual è il suo rapporto di parentela con William Herschel?

«Sono un discendente diretto di William Herschel con il lignaggio più antico, ed egli è perciò direttamente il mio bis bis bis bisnonno. Il doppio cognome Herschel-Shorland è una conseguenza del fatto che la generazione di mia nonna era composta di sole figlie (e nessun figlio), ed essendo la figlia più grande mia nonna ha sposato Christopher Shorland. Il cognome è stato messo con il trattino per evitare che si perdesse il materno Herschel».

Nella sua famiglia sentite l’importanza dell’eredità astronomica – e scientifica – di William, Caroline e John Herschel?

«La ricca eredità dei traguardi di William, Caroline e John Herschel è molto apprezzata e rispettata dall’attuale famiglia estesa – che attualmente è davvero molto estesa visto che John ha avuto dodici figli, sette dei quali hanno avuto famiglie a loro volta. Il mio lignaggio è quello più antico tramite William, John, William James, eccetera. I risultati ottenuti dal triumvirato William, Caroline e John sono di grande ispirazione per tutta la famiglia (e lo sono stati per tutte le generazioni che si sono susseguite); questo fatto pone certamente l’asticella molto in alto per le nostre ambizioni. Anche se sappiamo che è impossibile da eguagliare, spesso rifletto a cosa loro avrebbero fatto in alcune situazioni di oggi o per affrontare alcune sfide nel quotidiano (desidererei la loro saggezza!)».


William Herschel, in un dipinto di fine ‘700. Crediti: Wikimedia Commons

Quale pensa sia stata la forza dei tre Herschel?

«I loro risultati sono particolarmente degni di nota per l’ampiezza e la profondità degli sforzi in una pletora di discipline diverse. Alcune sono molto ben note (astronomia, ottica, e musica), e altre meno note, come quelle in cui si cimentò il polimate John, come chimica, matematica, geologia, fotografia e tangenzialmente sociologia e pedagogia, per nominarne alcune. Sono tutte materie il cui interesse perdura attraverso le generazioni fino a oggi».

In cosa consiste la loro eredità materiale?

«Ogni generazione della famiglia, da William in poi, è stata riverente ed entusiasta nel condividere, conservare e archiviare la vastità di materiali di studio che sono stati generati. Questi sono in genere responsabilità del champion of the archival cause, che al momento sono io. Alcuni materiali sono ancora custoditi dalla famiglia, mentre nel corso degli anni altri sono passati nelle mani di alcune istituzioni accademiche come la Royal Astronomical Society e la Royal Society. Abbiamo comunque ancora il privilegio di possedere una certa quantità di materiali d’archivio e alcuni più effimeri, ma che ancora danno una grande ispirazione a noi in quanto famiglia, e ai ricercatori che li consultano per scopi accademici con una certa regolarità».


La camera lucida di John Herschel. Crediti: National Maritime Museum, Greenwich, London, Herschel Collection

Ci sono alcuni oggetti in particolare, fra quelli meno noti, di cui ci può raccontare?

«Non è facile citare solo alcuni oggetti che risaltino rispetto a tutti quelli che sono arrivati fino a oggi, ma ci sono tre favoriti che riflettono la varietà di attività svolte dai nostri illustri avi e li tengono vicini ai nostri cuori. Questi sono la scatola del tabacco di William (attualmente in prestito all’Herschel Museum of Astronomy di Bath), il delicato vestito di mussola di Caroline (anche questo in prestito allo stesso museo) e la fotocamera lucida di John, usata spesso e da lui molto amata. Questi tre oggetti evocano la vista, i suoni e gli odori che riportano i tre vicino a noi, con visioni di William che indulge su un pizzico di tabacco raffinato, Caroline che si aggira con il suo vestito, e John che disegna con la sua fotocamera che usò in tanti viaggi in Europa e in Sudafrica. Ed è così che l’eredità di William, Caroline e John è ancora molto evidente e fornisce quotidianamente alla famiglia una ricca ispirazione sia nei dettagli della vita quotidiana che nel perseguire ambizioni lontane senza confini!».

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Guarda il video di presentazione del libro di Luca Nardi:

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Ritorno al futuro: l’evoluzione dei cicli glaciali



Le possibili cause dei cicli glaciali sono state oggetto di numerose ricerche paleoclimatologiche negli scorsi decenni, ma senza ottenere risultati certi. Un significativo avanzamento arriva ora dai risultati delle analisi messe in atto da un team di ricercatori della Uc Santa Barbara, pubblicati il mese scorso su Science. Gli autori dello studio hanno rilevato come piccoli mutamenti nell’orbita terrestre siano correlati a cambiamenti nel clima del pianeta sul lungo periodo, ossia nell’arco di millenni.


La Terra si avvierebbe verso una nuova era glaciale tra circa 10mila anni. Ma le emissioni di gas serra d’origine antropica potrebbero aver spostato radicalmente la traiettoria del clima. Crediti:
Matt Perko/UC Santa Barbara

La Terra segue serie temporali che vedono alternarsi periodi di glaciazione, quando avviene un generale abbassamento delle temperature globali, e deglaciazione. I collegamenti tra parametri orbitali terrestri e le fluttuazioni climatiche sono sotto la lente d’ingrandimento della comunità scientifica da oltre un secolo, ma le prime reali conferme a riguardo sono giunte soltanto negli anni ’70. Si tratta di studi estremamente complessi, a causa della difficoltà di indagare ciò che è accaduto in epoche remote, ma ricercatori non si sono dati per vinti, e hanno posto la loro attenzione soprattutto sui fattori che portano all’esordio dei vari periodi glaciali.

Il team dell’università californiana ha esaminato un intervallo temporale molto grande, pari a circa un milione di anni, focalizzandosi sulle variazioni nelle dimensioni delle calotte terrestri presenti nell’emisfero boreale e sulla temperatura dell’oceano profondo. Da tali analisi è risultata evidente una forte correlazione tra l’alternanza dei cicli glaciali e alcuni parametri orbitali. L’avvio delle deglaciazioni è probabilmente dovuto a una combinazione degli effetti della precessione e dell’obliquità, cioè l’inclinazione dell’asse di rotazione della Terra rispetto all’asse dell’eclittica. Quanto alle glaciazioni, la principale responsabile del loro innesco sembrerebbe essere l’obliquità, mentre le diminuzioni dell’eccentricità consentirebbero la crescita di enormi calotte.


Nell’immagine soprastante sono evidenziate le correlazioni tra la morfologia dei cicli glaciali e i parametri orbitali della Terra. Crediti: Stephen Barker et al., Science, 2025

La peculiarità che ha sorpreso gli studiosi consiste nell’aspetto fortemente deterministico dei cicli glaciali degli ultimi 900mila anni. «Siamo rimasti stupiti nel trovare un’impronta così chiara dei diversi parametri orbitali sui dati climatici», sottolinea a questo riguardo il primo autore dello studio, Stephen Barker, dell’Università di Cardiff (Regno Unito). «Si fa fatica a credere che questo schema non sia stato notato prima».

Dallo studio emerge che i cicli glaciali rispettano uno schema prevedibile: uno schema che mostra come attualmente il pianeta si trovi nel bel mezzo di un periodo interglaciale e che lo attenda in futuro, tra circa 10mila anni, una diminuzione della temperatura in grado di dare il via a una nuova era glaciale – questo in assenza di emissioni di gas serra di origine antropica. «Abbiamo trovato un modello prevedibile per la tempistica dei cambiamenti climatici della Terra tra le ere glaciali e i periodi miti e caldi come quelli odierni, chiamati interglaciali», aggiunge una delle coautrici dello studio, Lorraine Lisiecki, del Dipartimento di scienze della Terra a Uc Santa Barbara.

Nonostante i risultati ottenuti, gli autori sottolineano come la possibilità che tutto vada secondo i “piani della natura” sia piuttosto bassa, considerando l’effetto dirompente dovuto alle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e, in generale, alle attività umane. La loro intenzione è ora quella di partire dai dati delle proprie scoperte per realizzare una linea temporale delle evoluzioni climatiche per i prossimi millenni, basandosi anche sulle variazioni passate. Tenendo questa volta conto anche di quanto questa evoluzione potrebbe essere perturbata dai cambiamenti climatici di origine antropica.

«È molto improbabile che una transizione verso uno stato glaciale avvenga nel giro di 10mila anni», conclude un altro dei coautori dello studio, Gregor Knorr, dell’Alfred Wegener Institute, Helmholtz Centre for Polar and Marine Research, «perché le emissioni umane di anidride carbonica nell’atmosfera hanno già deviato il clima dal suo corso naturale, con impatti a lungo termine nel futuro».

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Così si formano e si accendono le stelle



Il progetto AlmaGal inizia a fornire nuove e decisive informazioni su come si formano le stelle nella nostra galassia, osservando più di mille regioni di formazione stellare con un livello di dettaglio senza precedenti. Grazie alla potenza del radiotelescopio Alma (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array) situato sull’altopiano di Chajnantor, nel deserto di Atacama in Cile, il team di AlmaGal è riuscito a esplorare queste enormi “fucine cosmiche” in maniera completamente nuova, offrendo una visione impareggiabile dei processi che portano alla nascita delle stelle. Il progetto AlmaGal, una collaborazione internazionale guidata dall’Istituto nazionale di astrofisica, insieme all’Università di Colonia, l’Università del Connecticut e all’Academia Sinica, è nato per gettare nuova luce sui processi che portano le nubi molecolari a frammentarsi nei nuclei elementari da cui poi si formano le singole stelle.


Collage di alcune fra le più di mille regioni di formazione stellare osservate in AlmaGal. Le immagini rappresentano l’emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d’onda di 1.38mm. Crediti: Eso/Alma/AlmaGal. Created by C. Mininni

«AlmaGal rappresenta un salto quantico rispetto ad altri progetti che studiano la nascita di nuovi ammassi stellari», dice Sergio Molinari, responsabile italiano del progetto e ricercatore dell’Inaf di Roma. «Osservando più di mille di queste regioni, AlmaGal da solo è quattro volte più grande di tutti gli altri programmi simili messi insieme permettendo per la prima volta studi quantitativi statisticamente significativi».

Le nubi molecolari – enormi agglomerati di gas e polveri presenti nello spazio interstellare – sono le fucine in cui si generano le stelle. Da decenni i ricercatori che studiano la formazione stellare stanno cercando di comprendere perché le nebulose, pur utilizzando elementi costitutivi simili – per lo più idrogeno, elio e piccole quantità di elementi più pesanti – producono stelle con masse molto diverse da caso a caso. Il radiotelescopio Alma osserva la radiazione cosmica a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche molto più lunghe di quella visibile. Questo lo rende perfetto per osservare oggetti celesti freddi, proprio come la polvere e il gas delle nubi molecolari, che emettono proprio a quelle lunghezze d’onda. Inoltre, poiché Alma combina la luce di 66 antenne situate anche a chilometri di distanza l’una dall’altra, è in grado di distinguere dettagli in questa finestra osservativa come nessun altro strumento oggi operativo.

All’interno delle nubi molecolari, polvere e gas si addensano per creare strutture più piccole chiamate “grumi” (clumps in inglese), di dimensioni fino a qualche anno-luce. Questi grumi si frazionano ulteriormente in ammassi di oggetti più piccoli chiamati “nuclei” (o cores), densi agglomerati in cui si formano le singole stelle. Oltre alla gravità, si pensa che diversi processi come la turbolenza nel gas o i campi magnetici controllino il modo in cui le nebulose si frammentano in grumi e nuclei.

AlmaGal è progettato per capire meglio come tutto ciò avviene: è il primo censimento completo che ha osservato grumi di tutte le età, masse e ubicazioni in tutti i quartieri della nostra galassia, fornendo un quadro imparziale. I risultati iniziali basati sull’analisi di 800 grumi e più di 6000 nuclei, evidenziano che non tutte le regioni di formazione stellare sono uguali. Le analisi presentate in questi primi articoli suggeriscono che i grumi più densi tendono a produrre un numero maggiore di nuclei, e quindi di stelle. Curiosamente, è la maggiore concentrazione di materiale presente in un grumo, e non solo la sua quantità, che determina una sua maggiore capacità di formare nuove stelle. I nuclei hanno bisogno del materiale dei loro grumi iniziali per crescere, e i grumi più densi e massicci sono in grado di produrre un maggior numero di nuclei che sono anche più ricchi di massa.


Questa immagine mostra diverse antenne Alma durante le osservazioni. Sopra di esse, è visibile la luminosa Via Lattea. Crediti: Eso/Y. Beletsky.

«La vastità del campione di strutture analizzato ci ha permesso di rivelare e di descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la varietà delle caratteristiche fisiche (oltre che statistiche) di questi nuclei, ad esempio in termini di massa, dimensioni e densità», spiega Alessandro Coletta, dottorando dell’Inaf di Roma. «Inoltre, è stato possibile indagare se, e in quale misura, tali caratteristiche siano legate alle proprietà dei grumi ospitanti: ciò ci ha consentito di interpretare i risultati ricavati dalle osservazioni nel più ampio contesto del processo di formazione stellare, formulando dei primi scenari coerenti per arrivare a spiegarne i meccanismi».

Osservando infatti regioni di età diverse, AlmaGal ha scoperto che queste fucine si trasformano nel tempo. La maggior parte dei grumi più giovani mostrano solo pochissimi nuclei, e con il procedere del tempo la frammentazione ne produce un numero sempre crescente, che si distribuiscono nel modo più vario: da strutture circolari a distribuzioni filamentari, sviluppando geometrie più intricate.

«Questo è solo l’inizio», conclude Molinari. «Per comprendere davvero quali siano i meccanismi fisici dominanti che giustifichino questi risultati è di fondamentale importanza il confronto con predizioni teoriche. Con il progetto Rosetta Stone, sviluppato all’interno del progetto Erc Synergy EcoGal (di cui AlmaGal è parte), siamo pronti per il confronto delle immagini AlmaGal con un’ampia gamma di simulazioni numeriche in cui i processi di frammentazione e formazione stellare vengono riprodotti al computer».

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Un secondo per decifrare l’onda 



Quando due stelle di neutroni si scontrano e si fondono, producono onde gravitazionali che viaggiano nello spazio-tempo, percorrendo milioni di anni luce: un segnale che, talvolta, viene registrato sulla Terra. Segnale che con gli attuali rivelatori di onde gravitazionali produce alcuni minuti di dati, mentre nei futuri osservatori, più sensibili, potrebbe generare anche ore o giorni di dati. L’interpretazione di questi segnali è estremamente complessa e rappresenta, ogni volta, una vera e propria sfida tecnologica.


Rappresentazione artistica della fusione di una stella binaria di neutroni che emette onde gravitazionali e radiazioni elettromagnetiche. Crediti & copyright: Mpi for Intelligent Systems / A. Posada

L’analisi tradizionale di questi dati richiede ingenti risorse computazionali e tempi di elaborazione molto lunghi, rallentando così il processo di follow-up, vale a dire il successivo puntamento dei telescopi verso l’evento cosmico “per vederlo”, cioè per osservarne le controparti elettromagnetiche. Per superare queste difficoltà, un team di ricerca internazionale guidato dal Max Planck Institute for Intelligent Systems (Mpi-Is) ha sviluppato Dingo-Bns (Deep Inference for Gravitational-wave Observations from Binary Neutron Stars), un avanzato algoritmo di apprendimento automatico (machine learning) basato su una rete neurale addestrata per estrarre le informazioni contenute nelle onde gravitazionali e caratterizzare completamente le fusioni di stelle di neutroni in circa un secondo. Un progresso straordinario rispetto ai metodi tradizionali, che richiedono almeno un’ora per ottenere risultati simili.

«Un’analisi rapida e accurata delle onde gravitazionali è fondamentale per localizzare la sorgente e dirigere i telescopi nella giusta direzione, in modo da osservare tutti i segnali che l’accompagnano», spiega Maximilian Dax, ricercatore presso il Max Planck Institute e il Politecnico di Zurigo, primo autore dello studio pubblicato la scorsa settimana su Nature. L’importanza della rapidità nell’osservazione astronomica risiede nel fatto che le fusioni di stelle di neutroni emettono non solo onde gravitazionali, ma anche segnali elettromagnetici, come luce visibile e raggi gamma. Riuscire a rilevare questi due diversi tipi segnali simultaneamente rappresenterebbe un grande passo avanti per la cosiddetta astronomia multi-messaggera.

«Questo studio apre scenari potenzialmente molto interessanti per quanto riguarda la ricerca di controparti elettromagnetiche di eventi di onde gravitazionali registrate dagli interferometri terrestri», dice Paolo D’Avanzo, astrofisico dell’Inaf di Brera non coinvolto nello studio, al quale ci siamo rivolti per un commento. «Sebbene sia un’ipotesi preliminare, la possibilità di poter ridurre da qualche minuto a pochi secondi i tempi necessari per ricavare i parametri di un evento gravitazionale, localizzazione nel cielo inclusa, è sicuramente intrigante» .

Attualmente, gli algoritmi utilizzati dalla collaborazione Lvk (Ligo-Virgo-Kagra) per l’analisi rapida sacrificano la precisione a favore della velocità. Il nuovo metodo basato sull’intelligenza artificiale colma questa lacuna, aumentando la precisione della localizzazione dell’evento del 30 per cento rispetto alle tecniche approssimative. «Il nuovo algoritmo», aggiunge Jonathan Gair del Max Planck Institute for Gravitational Physics, «affronta le carenze di quelli attualmente in circolazione e fornisce un’inferenza completa della fusione binaria dei due oggetti cosmici in appena un secondo».

Dingo-Bns, infatti, non solo accelera il processo di identificazione delle fusioni stellari, ma fornisce anche informazioni cruciali come la posizione, la massa, l’inclinazione e gli spin delle stelle di neutroni coinvolte. La sua rapidità e precisione consentirebbero di sfruttare al meglio il tempo di osservazione dei telescopi, migliorando la sinergia tra interferometri per onde gravitazionali e rivelatori di segnali elettromagnetici.

«Qualunque sia il metodo utilizzato per ottenere i parametri e la localizzazione dell’evento che ha generato le onde gravitazionali, la possibilità di avere queste informazioni entro pochi secondi dall’evento – o addirittura prima della coalescenza – potrebbe avere ricadute significative. Ad esempio per la ricerca dell’eventuale gamma-ray burst (Grb) – una rapida emissione di lampi gamma di durata tipica inferiore a pochi secondi -– che segue la fusione».


Rappresentazione artistica del Grb 211211A e della kilonova a esso associata (sulla destra).. Crediti: Aaron M. Geller/Northwestern/Ciera and It Research Computing Services

La necessità di un metodo veloce per analizzare le onde gravitazionali è, quindi, cruciale per l’astronomia multi-messaggera che, grazie alla combinazione di osservazioni gravitazionali ed elettromagnetiche, consente di approfondire la nostra comprensione dell’universo. Un esempio storico è stato l’evento Gw 170817 del 2017, la prima fusione di stelle di neutroni osservata sia attraverso le onde gravitazionali sia mediante segnali elettromagnetici. Tuttavia, il ritardo nell’analisi dei dati ha impedito una localizzazione tempestiva della sorgente. L’efficacia della combinazione tra moderni algoritmi di apprendimento automatico e le conoscenze astrofisiche consentirà di identificare con estrema rapidità la posizione del segnale gravitazionale e di trasmettere le coordinate ai telescopi in tempo quasi reale. Non solo: Dingo-Bns potrebbe aiutare a rilevare segnali elettromagnetici prima che avvenga la fusione, permettendo di studiare in modo dettagliato anche il fenomeno delle kilonove, ancora poco compreso, e analizzare meglio i processi di fusione e le esplosioni che ne conseguono studiando gli eventi cosmici con maggiore dettaglio.

«Nello studio in questione si fa riferimento anche alla possibilità di ottenere le informazioni sugli oggetti compatti prima che la coalescenza abbia luogo. C’è da dire», precisa a questo proposito D’Avanzo, «che questa possibilità di early warning è, in linea di principio, già realizzabile con le procedure standard della collaborazione Ligo-Virgo-Kagra, sebbene finora questo sia avvenuto molto raramente».


Il Neil Gehrels Swift Observatory è un satellite che studia i gamma-ray burst, le esplosioni più potenti dell’universo, e altri oggetti ed eventi cosmici. Crediti: Nasa

«Il team del Neil Gehrels Swift Observatory – il satellite Swift, dedicato alla ricerca dei lampi gamma osservati da galassie lontane – ha implementato una modalità nota come continuous commanding che permette al satellite di puntare l’oggetto entro circa dieci secondi da quando il comando viene inviato», continua D’Avanzo. «In caso di un early warning ci sarebbe, quindi, la possibilità di avere gli strumenti del satellite già puntati verso la regione di cielo dove la coalescenza di stelle di neutroni sta per avere luogo ed essere così in grado di rivelare il Grb associato». In questo modo, la precisione nella localizzazione di un Grb è estremamente superiore rispetto a quella che si otterrebbe con gli interferometri. «Una volta ottenuta una localizzazione precisa, tutte le campagne osservative di follow-up con i telescopi dalla Terra e dallo spazio diventerebbero estremamente più semplici da gestire ed efficaci nel massimizzare le nostre conoscenze scientifiche», conclude D’Avanzo.

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Grosso buco nero nella Grande Nube di Magellano



Buttate fuori di casa come degli inquilini insolventi: è il destino toccato a certe stelle della Grande Nube di Magellano, galassia prossima alla Via Lattea, e che sono venute a chiedere asilo niente meno che alla nostra galassia. Sono le stelle iperveloci identificate da un gruppo internazionale di ricercatori in una regione periferica della Via Lattea, ma che con la Via Lattea non hanno proprio niente a che fare, stelle indiavolate che si muovono alla velocità forsennata di milioni di chilometri orari. Astri sbandati, che hanno consentito ai ricercatori di compiere una straordinaria scoperta, astronomicamente “dietro casa”. Scoperta che prende le mosse dalla semplice domanda: chi le ha buttate fuori di casa?


La Grande Nube di Magellano immortalata dal telescopio Vista dell’European Southern Observatory. Crediti: Eso/Vmc Survey

La risposta la troviamo in un articolo appena accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal e disponibile su arXiv. Utilizzando i dati del satellite europeo Gaia, i ricercatori, guidati da Jesse Han del Center for Astrophysics (Harvard & Smithsonian) di Cambridge, in Massachusetts, hanno potuto ricostruire da dove provengono queste stelle e il meccanismo che le ha fatte arrivare fin qua, nella Via Lattea. Meccanismo che vedrebbe come attore principale niente meno che un buco nero supermassiccio. Di cui nessuno si era accorto. E che troneggia indisturbato nella Grande Nube di Magellano.

«È sorprendente scoprire che abbiamo un altro buco nero supermassiccio proprio dietro l’angolo, cosmicamente parlando», commenta Han. «I buchi neri sono così furtivi che questo è stato praticamente sotto il nostro naso per tutto questo tempo».

Oltre ai dati di Gaia, che hanno tracciato le orbite delle stelle nella nostra galassia con una straordinaria accuratezza, fondamentale è stata una ricostruzione dettagliata dell’orbita che la Grande Nube di Magellano compie attorno alla Via Lattea, ricostruzione ottenuta da un altro gruppo di ricercatori. In totale, gli studiosi hanno identificato ventuno stelle ad alta velocità di origine sospetta. Secondo i modelli, le stelle iperveloci sono il prodotto di un incontro ravvicinato tra un sistema binario di stelle e un buco nero supermassiccio. L’irresistibile attrazione del buco nero separa irrevocabilmente i destini della coppia di stelle. Una viene catturata in un’orbita stretta attorno al buco nero. L’altra viene invece scaraventata lontano, a velocità di diverse centinaia di chilometri al secondo. Una metà delle stelle iperveloci studiate da Han e compagni sarebbe stata espulsa dal buco nero supermassiccio che alberga nella regione centrale della Via Lattea, grosso quattro milioni di volte il Sole. Le altre avrebbero un’origine esterna. Le avrebbe buttate fuori di casa il buco nero nella Grande Nube di Magellano, per l’appunto. Più piccino di quello della Via Lattea e con una massa di seicentomila stelle come il Sole.


Ricostruzione artistica che mostra uno zoom sul buco nero supermassiccio nella Grande Nube di Magellano. Notiamo un ex sistema binario di stelle, separato dall’attrazione gravitazionale del buco nero. Una stella rimane a orbitare attorno al buco nero mentre l’altra viene espulsa a grande velocità e diventa una stella iperveloce, che vediamo in basso a destra nel riquadro. Crediti: CfA/Melissa Weiss

«Sapevamo che queste stelle iperveloci esistevano da un po’, ma Gaia ci ha fornito i dati di cui avevamo bisogno per capire da dove provenissero realmente», afferma il coautore Kareem El-Badry del Caltech di Pasadena, in California. «Combinando questi dati con i nostri nuovi modelli teorici su come viaggiano queste stelle, abbiamo fatto questa straordinaria scoperta».

Secondo il modello elaborato dagli astronomi, un buco nero supermassiccio nella Grande Nube di Magellano avrebbe generato un gruppo di stelle iperveloci in una regione specifica della nostra galassia, a causa del moto orbitale della nostra vicina di casa attorno alla Via Lattea. In particolare, le stelle espulse nella direzione del moto della Grande Nube di Magellano avrebbero dovuto ricevere una dose extra di velocità, effetto che è stato confermato dalle osservazioni.

Gli studiosi hanno escluso altri meccanismi per l’origine delle stelle iperveloci. Le esplosioni di supernova in sistemi doppi di stelle, che pure potrebbero espellere stelle a folle velocità, non sarebbero compatibili con i dati osservati. Così come un meccanismo che coinvolga i sistemi doppi di stelle, senza però il contributo di un buco nero supermassiccio.

«L’unica spiegazione che possiamo trovare per questi dati è l’esistenza di un buco nero mostruoso nella nostra galassia accanto», conclude Scott Lucchini, sempre tra i coautori. «Quindi nel nostro vicinato cosmico il buco nero supermassiccio della Via Lattea non è il solo a scacciare le stelle dalla sua galassia».

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Riti primaverili a Lykosoura nel II secolo a.C.



Fiaccole accese nell’oscurità. Nell’aria un profumo intenso. Centinaia di individui, esausti, si stringono accovacciati nei loro mantelli nel rigore tagliente delle prime ore del mattino alle soglie della primavera. Tutti attendono con trepidazione e in religioso silenzio l’alba, assiepati nel vasto piazzale di fronte al tempio: tra poco i raggi del Sole nascente illumineranno il volto della Despoina, la loro dea – Signora della Natura – alla quale sono devoti.


In basso, Annalisa Lo Monaco fra due delle statue del santuario di Lykosoura. In alto, una ricostruzione di come dovevano apparire le statue

Siamo in Grecia, circondati da boschi sulle montagne scoscese dell’Arcadia, nel cuore del Peloponneso. È una notte intorno al 20 marzo, nei primi decenni del II secolo a.C. Gli uomini e donne che adesso riposano qualche ora prima hanno offerto sacrifici, mangiato, bevuto, assunto oppio e danzato sfrenati, al ritmo di flauti e strumenti a corde, con maschere animali sul volto. Il rito al quale hanno partecipato è stato coinvolgente, intenso e segreto: è un rituale misterico, che prevede tappe successive di iniziazione e il divieto assoluto di farne menzione ai non iniziati.

Location dell’evento è il santuario di Lykosoura, individuato nel 1889 dalla Società archeologica greca e oggetto di una rapida campagna di scavi, che permise il recupero di edifici e materiali votivi offerti in dono nell’area sacra. Intorno al 200 a.C. il santuario aveva conosciuto un’importante fase di restyling, con la straordinaria concezione del tempio nell’assetto che ci è stato restituito dagli scavi. Al suo interno era stato appositamente realizzato un nuovo gruppo di statue di culto, impostato su un’alta base che occupava quasi per intero lo spazio interno della cella. Sulla base erano le statue delle divinità: al centro, sedevano Demetra e la figlia Despoina – la dea a cui era intitolato il santuario –, ai loro lati erano invece Artemide (la dea dei boschi) e Anytos (un eroe locale che la tradizione vedeva come il padre putativo di Despoina). Un bel quadro di famiglia, in forme decisamente monumentali: le statue al centro erano alte quasi quattro metri!

Tutto questo era noto da tempo. Ora però, grazie al nostro lavoro, siamo di fronte a una nuova scoperta, riportata in due articoli – firmati dai due scriventi, Annalisa Lo Monaco, professoressa di archeologia classica presso il Dipartimento di scienze dell’antichità in Sapienza Università di Roma, e Salvo Guglielmino, ricercatore all’Inaf di Catania – usciti questa settimana sul nuovo Supplemento della rivista Scienze dell’Antichità in un volume dedicato al politeismo in Grecia.

L’unione dei dati astronomici con le evidenze fornite da documentazione archeologica e fonti letterarie ci ha portato a proporre che questo rituale segreto si svolgesse in due giornate all’inizio della primavera. Clou del sistema sono da considerare osservazioni accertate su base astronomica circa le fasce orarie relative all’illuminazione di alcuni edifici del santuario (il tempio, la gradinata teatrale a sud di esso). Sulla scorta di queste nuove evidenze sono state poi scanditi i diversi momenti del rito, sulla base di analogie con altri rituali misterici noti nel mondo greco.

Ma partiamo dall’inizio.

Non possediamo alcuna informazione diretta sul calendario di questa festa religiosa, in grado di farci sapere in quale momento dell’anno essa venisse celebrata. È proprio il suo carattere segreto ad avere tenuto nascosti fino ai nostri giorni molti dettagli del rituale. Tuttavia, la misurazione in pianta dell’orientamento del tempio all’interno del santuario ha permesso di osservare che il suo asse è rivolto esattamente a est, ad azimut uguale a 90° sull’orizzonte.

Tramite un’applicazione per le mappe satellitari di Google Earth che permette di ottenere l’orario e la direzione dell’alba, mezzogiorno e tramonto per un dato punto geografico, è stato possibile verificare questo allineamento. Questo fa sì che la luce del Sole batta perpendicolarmente alla facciata del tempio quando il Sole sorge all’equinozio di primavera e di autunno, mentre si trova in corrispondenza dell’equatore celeste e si leva esattamente nel punto cardinale est.


Crediti: Google Earth/Airbus, Cnes/Airvus, Maxar Technologies

Dato che il santuario è disposto su una stretta terrazza, arroccato sul fianco di un monte, e l’orizzonte est risulta libero, all’alba nei giorni attorno agli equinozi i raggi solari entravano all’interno del tempio fino a penetrare nella cella interna. Visto che il tempio era stato appena ricostruito, ciò non può essere frutto del caso: la festa doveva dunque cadere in un periodo dell’anno coincidente con uno dei due equinozi. Sin qui l’astronomia. La menzione delle offerte vegetali presentate alla dea (piante con fioritura nella prima parte dell’anno), la natura stessa del rituale sfrenato e orgiastico e la personalità della dea, che traspare dalle offerte votive e dal tipo di rituale svolto in suo onore, suggeriscono che si tratti di una festa legata alla fertilità umana, e in generale al risveglio della natura. Tutto porta dunque a ritenere che si trattasse di un rito primaverile.

Il rito solenne doveva essere celebrato a cadenza annuale, al ripresentarsi della primavera dopo il rigido inverno.

Nel primo giorno della festa, oltre all’arrivo e ad alcune operazioni preliminari, doveva avvenire la prima “catechesi” dei fedeli: è a questa funzione che è destinata la gradinata imponente e ripida sul lato meridionale del tempio, proprio di fronte a una piccola porta sulla parete laterale del tempio.

L’entrata laterale del tempio era esposta esattamente verso sud (azimut pari a 180° sull’orizzonte) e veniva illuminata frontalmente a mezzogiorno. È verosimile quindi che quello fosse il momento in cui la sacerdotessa, abbigliata opportunamente, apparisse alle centinaia di fedeli qui riuniti in attesa, seduti e in piedi sulla gradinata, per mostrare loro oggetti sacri o dare informazioni sulle fasi della liturgia che doveva seguire. Di questo purtroppo non sappiamo nulla di più. Non sappiamo quanto durassero queste catechesi: le gradinate restano illuminate dal Sole per qualche ora, fino al primo pomeriggio.

Qualche ora dopo doveva avvenire il grande sacrificio di animali (ognuno portava quello che voleva) dati alle fiamme su uno degli altari davanti al tempio, sulla terrazza accanto alla gradinata. Centinaia di persone si muovevano qui, e, intorno al fuoco, danzavano con il volto coperto da maschere di maiali, arieti e asini, abbandonate a ritmi sfrenati che duravano per gran parte della notte. Solo ad alcuni era riservata l’iniziazione vera e propria, all’interno di uno stretto porticato sulla terrazza superiore.


I gradini e il tempio di Despoina oggi

Per la conclusione dell’evento si doveva ancora aspettare l’alba. Solo poco prima delle sei del mattino, infatti, i fedeli assiepati nel piazzale avrebbero potuto vedere le statue di Demetra e della figlia Despoina illuminarsi, colpite dai raggi del Sole nascente. Considerando l’ampiezza della porta e lo spazio residuo tre le due colonne centrali del tempio, si può osservare che dal piazzale non sarebbero state visibili le statue laterali. Il cono di luce illuminava con effetto teatrale le sole due divinità principali, spostandosi via via sulla destra mentre il Sole iniziava la sua lenta ascesa diurna e determinando in tal modo un effetto di luce maggiore su Despoina. Soltanto a una distanza ravvicinata, entrati pochi alla volta nel tempio, nel campo visivo sarebbe apparso il gruppo nel suo insieme, con la luce che a poco a poco, e per una mezz’ora ancora, si sarebbe spostata pian piano sulla destra. Despoina al centro era la dea più a lungo illuminata del gruppo. La sua apparizione nella luce doveva sembrare una vera e propria “epifania”, una rivelazione liturgica che chiudeva e coronava con grande effetto scenografico l’iniziazione dei fedeli avvenuta nelle ore precedenti.


Copertina del volume che ospita i due studi

Archeologia e astronomia insieme hanno ora così permesso di fare nuova luce su un rituale tenuto segreto per molti secoli. È uno dei risultati più recenti nel campo dell’archeoastronomia nel mondo classico, che rimane ancora poco esplorato sotto questa prospettiva. Nell’ultimo decennio, i contesti archeologici greci e romani sono stati oggetto di una revisione negli approcci di interazione tra archeologia e astronomia, e promettono per il futuro di riservare nuove scoperte grazie alla collaborazione degli studiosi di queste due discipline.

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Nova rovente nella Grande Nube di Magellano



Le nove sono esplosioni prodotte da sistemi binari di stelle in cui una nana bianca, il residuo di una stella simile al Sole al termine della sua evoluzione, sottrae materia a una stella gigante rossa compagna. Questo processo, noto come accrescimento, porta all’accumulo di materiale sulla superficie della nana bianca fino a quando pressione e temperatura diventano sufficientemente elevate da innescare una colossale esplosione termonucleare. Tale evento provoca il brillamento del sistema binario, dando origine a quella che viene definita, appunto, “nova”.


Illustrazione artistica che mostra un’esplosione di nova in un sistema binario di stelle costituito da una nana bianca e una gigante rossa. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/M. Garlick, M. Zamani

Esistono due principali tipologie di nove: le nove classiche, che esplodono una sola volta su scale temporali relativamente lunghe, e le nove ricorrenti, che si manifestano periodicamente a intervalli regolari di anni o decenni. Mentre nella Via Lattea sono state individuate meno di una dozzina di nove ricorrenti, nelle galassie esterne il loro numero risulta significativamente più elevato. Un esempio di nova ricorrente extragalattica è Lmc 1968-12a, alias Lmc68: la prima di questo tipo a essere scoperta. Situata nella Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea, Lmc68 presenta un intervallo di esplosione di circa quattro anni, il terzo più breve tra le nove conosciute. La sua prima esplosione osservata risale al 1968, mentre l’evento più recente si è verificato nell’agosto del 2024.

Utilizzando il telescopi cileni Gemini South e Magellan Baade Telescope, un team di ricercatori guidati dalla Keele University, nel Regno Unito, ha studiato per la prima volta questa nuova esplosione alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso, raccogliendo dati fondamentali sulle sue caratteristiche. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Gli astronomi hanno osservato Lmc68 rispettivamente 8 e 22 giorni dopo l’esplosione. Per farlo hanno utilizzato lo spettrografo Flamingos-2 montato sul telescopio Gemini South e lo spettrografo Fire del Magellan Telescope. Grazie a queste indagini, è stato possibile analizzare la fase ultra-calda della nova, durante la quale gli elementi presenti nel materiale espulso vengono altamente energizzati. Dall’analisi degli spettri ottenuti, è emerso un segnale particolarmente intenso prodotto da specifici atomi ionizzati. In particolare, i ricercatori hanno identificato la firma dell’emissione di atomi di silicio privati di nove dei loro quattordici elettroni, un processo che richiede un’energia estremamente elevata.

Oltre a questa peculiare riga di emissione del silicio ionizzato – che dà conto dell’elevata luminosità del brillamento, pari a 95 volte quella del Sole a tutte le lunghezze d’onda -– gli spettri hanno mostrato un’altra caratteristica che ha lasciato gli scienziati sorpresi: l’assenza di firme prodotte da altri elementi pesanti ionizzati. Negli spettri di emissione delle nove osservate nella Via Lattea sono generalmente presenti righe di emissione dello zolfo, del fosforo, del calcio e dell’alluminio, ma negli spettri di Lmc68 l’unica riga visibile era quella del silicio ionizzato [Si X]. Per gli scienziati, questi risultati indicavano una cosa soltanto: una temperatura eccezionalmente elevata del gas esploso.

«Questa sorprendente assenza, combinata con la presenza della forte firma del silicio, implica una temperatura del gas insolitamente alta, che la nostra modellazione ha confermato», dice a questo proposito Sumner Starrfield, scienziato dell’Arizona State University e co-autore dello studio.


Grafico che mostra gli spettri nel vicino infrarosso di Lmc68 ottenuti con il telescopio Magellan Baade (in rosso) e il telescopio Gemini South (in giallo) rispettivamente 8 e 22 giorno dopo l’esplosione del 2024 della nova (cliccare per ingrandire). L’emissione del silicio ionizzato intorno a 1.4 micron, che domina entrambe gli spettri, è evidenziata In azzurro. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/T. Geballe/J. Pollard

Le simulazioni condotte dai ricercatori indicano che, nella sua fase post-esplosione nota come fase coronale, la temperatura del gas espulso abbia raggiunto i tre milioni di gradi, un valore che rende Lmc68 una delle nove più calde mai registrate. Una temperatura così estrema implica un’esplosione particolarmente violenta, probabilmente legata alle particolari condizioni ambientali della galassia, sottolineano i ricercatori.

Ma quali condizioni? Una di queste potrebbe essere la metallicità della galassia. Rispetto alla Via Lattea, La Grande Nube di Magellano presenta una minore abbondanza di atomi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, elementi che gli astronomi chiamano metalli. Nei sistemi ad alta metallicità, gli elementi pesanti intrappolano il calore sulla superficie della nana bianca, favorendo esplosioni precoci durante l’accrescimento.

Nel caso della Grande Nube di Magellano, i ricercatori ipotizzano che la mancanza di questi elementi potrebbe determinare un maggiore accumulo di materia sulla nana bianca prima che la temperatura e la pressione raggiungano i valori critici per l’innesco della fusione termonucleare. Ciò potrebbe spiegare la violenza dell’esplosione di Lmc68. Inoltre, il gas espulso potrebbe aver interagito con l’atmosfera della stella compagna, generando un violento shock che potrebbe aver ulteriormente aumentato la temperatura dell’ambiente.

«Con solo un piccolo numero di nove ricorrenti rilevate all’interno della nostra galassia, la comprensione di questi oggetti è progredita in modo episodico», conclude Martin Still, responsabile dell’International Gemini Observatory. «Ampliando il numero di nove extragalattiche scoperte utilizzando grandi telescopi come il Gemini South, gli astronomi potranno accelerare il progresso della ricerca e comprendere meglio il comportamento di questi oggetti in ambienti chimici diversi».

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Così prendono forma i pianeti senza stella



Li chiamano oggetti rogue, termine inglese che può significare sia ribaldo, canaglia sia isolato, solitario. E in effetti si tratta di pianeti – o meglio, di oggetti di massa planetaria, nome in codice Pmo (planetary-mass objects) – che più asociali non si può: vagano per la galassia senza alcuna stella attorno alla quale orbitare. Sulle loro origini è mistero fitto, ma ora un team d’astronomi guidato da Deng Hongping dello Shanghai Astronomical Observatory (Cina), utilizzando simulazioni avanzate, ha mostrato un possibile processo di formazione per questi enigmatici oggetti, basato sulle interazioni tra dischi interstellari nei giovani ammassi di stelle. Il risultato è stato pubblicato il mese scorso su Science Advances.


Questa regione di formazione stellare di un milione di anni contiene migliaia di nuove stelle e centinaia di oggetti di massa planetaria. Crediti: Nasa, Esa, Csa /M. McCaughrean, S. Pearson

Pur avendo origini oscure, l’esistenza dei Pmo è ben nota. Si tratta di corpi celesti spesso osservati in giovani ammassi stellari, come quello del Trapezio nella costellazione di Orione. Sono oggetti con masse inferiori a tredici volte quella di Giove che vagano liberamente nello spazio, non essendo legati, appunto, ad alcuna stella. Precedenti teorie riguardo la loro origine affermavano che i Pmo potessero essere nane brune o pianeti eiettati dal proprio sistema solare, ma questi modelli non riescono a spiegare il loro grande numero, il fatto che vengano frequentemente osservati in accoppiamenti binari e il loro moto sincronizzato con le stelle all’interno dell’ammasso.

«I Pmo non si lasciano incasellare in alcuna categoria esistente di stelle o pianeti», osserva Deng. «Le nostre simulazioni mostrano che probabilmente si formano attraverso un processo completamente diverso, legato alle dinamiche caotiche dei giovani ammassi stellari».

Usando simulazioni idrodinamiche ad alta risoluzione i ricercatori hanno ricreato gli incontri ravvicinati tra due dischi circumstellari, le corone rotanti di gas e polvere che circondano le giovani stelle. Quando i dischi collidono – avvicinandosi, a velocità di 2-3 km/s, fino a distanze di 300-400 unità astronomiche – le loro interazioni gravitazionali stirano e comprimono il gas in “ponti mareali” elongati. Questi ponti collassano in densi filamenti destinati a frammentarsi in nuclei compatti una volta raggiunta una massa critica, producendo Pmo con masse circa dieci volte quella gioviana.


Rappresentazione della formazione di Pmo binari attraverso gli incontri di dischi circumstellari. Crediti: Deng Hongping

Lo studio ha mostrato che fino al 14 per cento degli oggetti di massa planetaria si forma in coppie o triplette, con una separazione tra le 7 e 15 unità astronomiche, spiegando così l’elevato tasso di Pmo binari in alcuni ammassi. Negli ambienti densi degli ammassi, inoltre, gli incontri fra dischi circumstellari sono frequenti, dunque possono arrivare a generare centinaia di Pmo, e questo contribuisce a giustificare il grande numero osservato di questi oggetti.

Oltre a suggerire una nuova ipotesi riguardo la nascita di questi strani corpi celesti, la ricerca ha dato un’interpretazione alla particolare composizione chimica dei Pmo. Essi, infatti, ereditano materiale dalle regioni più esterne dei dischi circumstellari, finendo così per avere una composizione unica, che riflette quella delle zone periferiche povere di metalli dei dischi, dove gli elementi pesanti sono scarsi. È stato inoltre osservato che molti Pmo sono circondati da dischi gassosi, fino a 200 unità astronomiche di diametro, suggerendo la possibilità che attorno a questi oggetti ribelli possano formarsi lune o addirittura pianeti.

«La scoperta ridisegna in parte il modo in cui vediamo la diversità cosmica», dice uno dei coautori dello studio, Lucio Mayer dell’Università di Zurigo. «I Pmo potrebbero rappresentare una terza classe di oggetti, nati non dalla materia prima delle nubi di formazione stellare o da processi di costruzione planetaria, ma piuttosto dal caos gravitazionale delle collisioni dei dischi».

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Cattura anche tu un radio burst solare



Immaginate di poter contribuire in prima persona alla scoperta dei misteri del Sole, l’affascinante e complessa stella al centro del nostro sistema planetario. Con il progetto “Solar Radio Burst Tracker”, dedicato all’analisi dei burst solari di tipo III e disponibile sulla piattaforma di citizen science Zooniverse, è ora possibile. Provenienti dall’atmosfera del Sole e dallo spazio interplanetario, i burst radio solari offrono un’opportunità unica per comprendere come il Sole rilascia energia e particelle nello spazio. Passando al setaccio i dati inviati a terra dalla sonda Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea, raccolti attraverso lo strumento Radio & Plasma Waves (Rpw), i partecipanti al progetto avranno il compito di identificare questi segnali contribuendo così a creare il catalogo più completo mai realizzato.


La schermata iniziale del progetto “Solar Radio Burst Tracker” sulla piattaforma Zooniverse

La campagna, ideata da Aikaterini Pesini e Antonio Vecchio della Radboud University (Nijmegen, Paesi Bassi) insieme ad alcuni colleghi dell’Observatoire de Paris e dell’Inaf di Roma, prenderà il via la prossima settimana, dalle ore 15:00 di martedì 11 marzo. Ne parliamo con Monica Laurenza, prima ricercatrice Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’Inaf di Roma, coinvolta nell’iniziativa.

Qual è lo scopo del vostro progetto? E come vi è venuta l’idea di aprirlo alla citizen science?

«L’obiettivo di “Solar Radio Burst Tracker”, nell’ambito di Zooniverse, è creare per la prima volta un catalogo completo di radio burst solari di tipo III, utilizzando dati dallo spazio che permettono di osservare frequenze non visibili da terra. Sebbene siano stati fatti degli studi per rilevare automaticamente questi burst, gli algoritmi attuali hanno difficoltà a identificare i segnali più deboli o più complessi. L’iniziativa è nata pensando che la partecipazione del pubblico potesse aiutare a risolvere questo problema. Chiediamo alle persone di identificare le regioni degli spettri in cui sono visibili i burst solari, consentendoci di creare un catalogo affidabile. Tale catalogo, che sarà reso pubblico, rappresenterà uno strumento prezioso per la fisica solare e per lo space weather – vale a dire la meteorologia spaziale».


Monica Laurenza, prima ricercatrice all’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali

Quale sarà il contributo scientifico di “Solar Radio Burst Tracker” alla ricerca sul Sole?

«I radio burst solari di tipo III sono strettamente connessi ai brillamenti solari, cioè improvvise e intense emissioni di luce su molte frequenze che avvengono durante le cosiddette eruzioni solari. In concomitanza dei brillamenti solari, vengono accelerate particelle molto veloci che viaggiano attraverso il mezzo interplanetario. Queste particelle interagiscono con il plasma circostante, producendo i radio burst che osserviamo. Il nostro progetto, tramite la realizzazione del catalogo dettagliato di questi burst, consentirà di studiare in maniera più approfondita il rilascio di energia nei brillamenti solari, i meccanismi alla base dell’accelerazione delle particelle e il modo in cui le onde radio viaggiano nello spazio. Questa ricerca permetterà di migliorare anche la nostra capacità di previsione degli eventi di space weather che possono influenzare e compromettere sistemi tecnologici e infrastrutture, le attività umane e la vita stessa».

Cosa devono fare i partecipanti per contribuire al progetto?

«Anzitutto occorre andare sul sito di Zooniverse ed entrare nella sezione dedicata a “Solar Radio Burst Tracker”. Dopo aver completato un tutorial obbligatorio per imparare a identificare con precisione i burst di tipo III, l’identificazione vera e propria può iniziare cliccando su “Classify”. La pagina web del progetto fornisce anche ulteriori informazioni sulla scienza alla base dei burst di tipo III e offre uno spazio per domande e discussioni. Chi è interessato ad altri progetti di citizen science può creare un account per esplorare e rimanere aggiornato sui vari progetti in corso».

Qual è il contributo che può dare una comunità di appassionati rispetto a un team di esperti?

«Spesso si crede che la scienza sia distante e inaccessibile, ma in realtà è parte della vita di tutti. Progetti di citizen science come il nostro permettono di abbattere queste barriere consentendo a chiunque di contribuire a vere scoperte scientifiche. Gli esperti possono condividere le proprie conoscenze, formare volontari e suscitare curiosità, rendendo la scienza più fruibile e appassionante. Coinvolgere il pubblico comporta anche vantaggi unici. Mentre gli esperti offrono conoscenze specializzate e strumenti analitici, una vasta comunità di volontari può elaborare grandi quantità di dati più rapidamente e spesso individuare schemi o eventi rari che i sistemi automatizzati potrebbero non notare. Questa collaborazione ci consente di creare un catalogo di burst di tipo III dettagliato e accurato, cosa che sarebbe impossibile per un piccolo team di ricerca da solo».

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Cosa vi augurate che possa imparare – o scoprire – chi parteciperà al vostro progetto?

«Anzitutto speriamo che il pubblico impari a conoscere i burst radio solari [avviando il video qui sopra ne potete “sentire” uno grazie a una sonificazione, ndr] e gli obiettivi più ampi della nostra ricerca. Puntiamo a creare un maggiore interesse riguardo al Sole, la stella a noi più vicina, e una maggiore consapevolezza dei suoi effetti sull’ambiente terrestre e circumterrestre e delle ricadute sulla nostra società. Più in generale, coinvolgendo i partecipanti con dati scientifici reali, puntiamo a suscitare curiosità sul processo scientifico e a ispirare un interesse più profondo per la scienza nel suo complesso. Crediamo che coinvolgere il pubblico nella ricerca sia un modo potente per promuovere consapevolezza e pensiero critico, entrambi essenziali per comprendere il mondo che ci circonda e prendere decisioni informate».

Per la ricerca solare, invece, quale potrebbe essere l’apporto della citizen science?

«La speranza è di avanzare le nostre conoscenze della fisica solare e delle relazioni Sole-Terra sfruttando a pieno le potenzialità che derivano dalla grande mole di dati che le missioni in corso – e future – ci stanno fornendo. Il contributo del pubblico è fondamentale perché i sistemi automatici, basati ad esempio sul machine learning, hanno necessità di dati precompilati per essere addestrati e in alcuni casi, come lo studio in oggetto, non sono ancora abbastanza precisi nell’identificare tutte le caratteristiche delle emissioni radio».

Come vede il futuro della ricerca sul Sole? Quali scoperte ci attendono nei prossimi anni?

«Credo la ricerca sul Sole abbia un futuro brillante e pieno di scoperte. Siamo in una fase in cui le osservazioni continue da terra sono coadiuvate da molte missioni spaziali che forniscono dati in quantità e qualità senza precedenti. Inoltre, missioni di nuova generazione sono in fase concettuale o di design per essere lanciate nel prossimo futuro. La sonda Solar Orbiter ha da poco iniziato il suo viaggio fuori dal piano dell’eclittica e permetterà presto di osservare le regioni polari del Sole per la prima volta con diverse tipologie di strumenti. Questo consentirà di avanzare la nostra conoscenza sui meccanismi di generazione del campo magnetico del Sole. Inoltre, la presenza di sonde mai così vicino al Sole, quali Parker Solar Probe oltre a Solar Orbiter, in combinazione con gli osservatori da terra, può favorire la comprensione di fenomeni quali il riscaldamento della corona solare e dell’accelerazione delle particelle energetiche solari. Misure effettuate contemporaneamente da diverse sonde in diversi punti di osservazione consentiranno di capire l’evoluzione e la propagazione delle perturbazioni emesse dal Sole che investono la Terra e gli altri pianeti. Ne conseguirà una maggiore precisione nella previsione degli eventi di space weather per mitigarne gli effetti e proteggere il pianeta e la nostra società».



Due oggetti enigmatici nel Braccio del Centauro



Biologi e astrofisici discutono da tempo della possibilità che le molecole complesse alla base della vita sulla Terra siano state “importate” dallo spazio profondo. Uno dei siti di provenienza di queste molecole potrebbe essere rappresentato dai ghiacci interstellari. Si tratta di grani di dimensioni micrometriche che si formano nelle regioni più fredde e dense d’una galassia, tipicamente all’interno di nubi molecolari, per apposizione di atomi e molecole sulla superficie della polvere interstellare, particelle composte principalmente da carbonio, ossigeno, silicio, magnesio e ferro presenti nel mezzo interstellare. Poiché le reazioni chimiche che avvengono su substrati solidi sono molto più efficienti nel produrre molecole organiche complesse rispetto a quelle che avvengono allo stato gassoso, gli scienziati ritengono che i ghiacci interstellari siano cruciali per la formazione molecolare, funzionando di fatto da vere e proprie fabbriche molecolari.


Illustrazione artistica della Via Lattea. I quadratini verdi sono le posizioni dei due oggetti interstellari stimate dai ricercatori. Crediti: Takashi Shimonishi et al., ApJ, 2025

Utilizzando i dati del satellite a infrarossi Akari, nel 2021 un team di astronomi ha scoperto due luminose regioni interstellari che presentavano profonde bande di assorbimento tipiche di questi ghiacci. La prima ipotesi considerata dai ricercatori fu che si trattasse di due nubi molecolari. Tuttavia, le successive analisi spettrali mostrarono che i due oggetti, situati nel piano galattico della Via Lattea, in direzione del Braccio del Centauro, non appartenevano a nessuna regione di formazione stellare nota, lasciando numerosi interrogativi sulla loro natura. Un team di ricerca guidato dall’Università di Niigata (Giappone) ha ora indagato a fondo le caratteristiche questi oggetti, confermando quanto suggerito dagli studi precedenti. La loro conclusione, riportata in un articolo pubblicato lo scorso mese sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal, è che i due corpi – chiamati dai ricercatori Oggetto 1 e Oggetto 2 – potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari.

Per studiare le proprietà dei due misteriosi oggetti gli scienziati hanno utilizzato Alma, la schiera di 66 antenne radio situate nelle Ande cilene. Utilizzando i dati di Alma, il team ha calcolato la distanza e studiato il movimento e la composizione chimica del gas molecolare associato ai due oggetti.

Le osservazioni nell’infrarosso condotte con il satellite Akari indicavano caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e delle polveri che sono spesso osservate in oggetti stellari giovani, stelle evolute che mostrano un’intensa perdita di massa o stelle luminose situate dietro dense nubi molecolari. Le indagini con Alma raccontano invece una storia diversa. La distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso dei due oggetti, la presenza di caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e della polvere, le dimensioni compatte della sorgente e l’ampia emissione molecolare dominata dall’ossido di silicio rilevata dai ricercatori non possono essere facilmente spiegate da nessuna delle sorgenti interstellare note che formano ghiaccio interstellare.

I risultati delle indagini suggeriscono che i due oggetti si trovano a circa 30mila e 40mila anni luce di distanza dalla Terra rispettivamente. Sarebbero oggetti isolati, caratterizzati da una forte emissione di monossido di carbonio e ossido di silicio, con un rapporto tra i due gas insolitamente alto. La rilevazione di ampie linee di emissione molecolare indica inoltre che questi oggetti sono associati a fonti di energia turbolente.


Le linee di emissione molecolare ottenute da Alma hanno consentito di stabilire la composizione dei due misteriosi oggetti (a sinistra). In alto a destra, lo spettro infrarosso, con bande d’assorbimento, relativo all’oggetto più in alto dell’immagine di sinistra osservato dal satellite Akrai. In basso a destra, posizione dei due oggetti ghiacciati nel piano galattico (immagine modificata dai dati di Gaia). Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), T. Shimonishi et al. (Niigata Univ.)

Le osservazioni hanno anche fornito informazioni sulle dimensioni dei due oggetti. Comparando i dati di Alma con quelli ottenuti dal satellite Akari, i ricercatori hanno scoperto che Oggetto 1 e Oggetto 2 hanno dimensioni comprese tra cento e mille unità astronomiche. Si tratta di dimensioni considerevoli, ma comunque più piccole rispetto a quelle tipiche delle tipiche regioni di formazione stellare.

Gli oggetti interstellari noti per essere associati alla formazione di ghiacci solitamente sono immersi in grandi quantità di polvere interstellare che li fa brillare intensamente nell’intervallo di lunghezza d’onda che va dal lontano infrarosso al sub-millimetrico. Le osservazioni di Alma non hanno rilevato alcuna radiazione sub-millimetrica provenire dai due oggetti. I due corpi, inoltre, hanno mostrato un’insolita distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso. Tutte queste caratteristiche, spiegano i ricercatoti, non sono compatibili con alcun oggetto noto in grado di formare ghiacci interstellari.

Ma cosa potrebbero essere, allora, Oggetto 1 e Oggetto 2? Come anticipato, l’ipotesi dei ricercatori è che si tratti di oggetti interstellari di un tipo precedentemente sconosciuto.

«Studio i ghiacci interstellari da quasi 18 anni, ma questi due oggetti mi hanno lasciato perplessa», sottolinea il primo autore dello studio, Takashi Shimonishi, della Niigata University. «In quanto diversi da qualsiasi altra sorgente nota associata alla formazione di ghiacci interstellari, le due regioni potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari al cui interno c’è un ambiente favorevole alla formazione di ghiacci e molecole organiche».

La vera natura di questi due oggetti interstellari compatti e isolati rimane al momento ancora sconosciuta, concludono gli autori. Tuttavia, nuove osservazioni ad alta risoluzione del gas associato ai due oggetti condotte con Alma, insieme a studi più dettagliati dei ghiacci e delle polveri che li costituiscono con il telescopio spaziale James Webb, potrebbero aiutare a svelare il mistero.

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Lune che nascono dalle polveri



Essendo nati in un sistema planetario di mezza età – il Sole ha ormai 4,5 miliardi di anni – siamo costretti a immaginarne l’origine ricostruendo la storia a posteriori, cercando indizi e tracce provenienti dal passato come degli archeologi dello spazio. Oppure, e questo forse ci regala uno strumento in più rispetto agli archeologi, possiamo guardare cosa succede in sistemi planetari che vediamo formarsi proprio ora, e scoprire per esempio come si formano le lune attorno ai pianeti più giovani. È quanto ha fatto un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona, osservando due giovani pianeti in orbita attorno a Pds 70 – una stella molto giovane di circa 5 milioni di anni nella costellazione del Centauro, a 370 anni luce dalla Terra – e vedendo anelli di polvere che circondano pianeti appena nati. L’articolo è pubblicato su The Astronomical Journal.


Ciambelle di polvere: illustrazione artistica del sistema Pds 70 con i suoi due protopianeti, ciascuno circondato da anelli di polvere illuminati dalla luce stellare. I pianeti stessi (non in scala) hanno sottili anelli di plasma riscaldati a circa 14 mila gradi, che brillano alla linea di emissione rossa della luce H-alfa. Crediti: Emmeline Close e Laird Close

Per come è raccontata qui sopra, sembrerebbe una procedura lineare e semplice: si sceglie una stella giovane attorno alla quale si è visto un sistema planetario altrettanto giovane, magari appena formato, e si osservano nel dettaglio i pianeti per vedere come sono fatti e, appunto, se stanno sviluppando delle lune. La verità, però, è che fino a pochi anni fa una frase simile avrebbe fatto sorridere qualunque astrofisico, perché la tecnologia non consentiva affatto di raggiungere un simile dettaglio nelle osservazioni. Al massimo si poteva pensare di avvicinarsi alla risoluzione richiesta usando un telescopio spaziale, o sperando nell’arrivo di giganti come Webb, ma certamente era un’operazione impensabile da fare con gli strumenti a terra. Invece, e qui sta la notizia nella notizia, la stella Pds 70, i suoi pianeti e gli anelli di polvere attorno ad essi sono stati osservati con uno strumento chiamato Magellan Adaptive Optics Xtreme, o MagAo-X, situato ai telescopi Magellano di 6,5 metri di diametro dell’Osservatorio di Las Campanas, in Cile. Nemmeno i più grandi che ci siano.

Si tratta, come dice il nome stesso, di un sistema di ottica adattiva: uno specchio deformabile che cambia forma rapidamente (si potrebbe dire in tempo reale) e corregge la distorsione atmosferica in un modo che ricorda il modo in cui le cuffie a cancellazione attiva filtrano il rumore. Le immagini che si riescono a ottenere con questo sistema ottico superano addirittura la risoluzione di telescopi spaziali come Hubble o James Webb. In pratica, annulla il grosso svantaggio di rimanere sulla Terra invece di osservare dallo spazio, ovvero corregge le turbolenze dell’atmosfera che degradano le osservazioni astronomiche. In pratica, il sistema elimina lo “scintillio” delle stelle, consentendo al telescopio di produrre immagini che rivaleggiano con quelle di un telescopio ottico spaziale.

«La forma dello specchio cambia così velocemente che sarebbe come modificare la regolazione ottica di un occhiale da vista duemila volte al secondo», spiega Laird Close, professore di astronomia all’Osservatorio Steward, nel College of Science dell’Università di Los Angeles, e primo autore dell’articolo. «Poiché la nostra tecnologia elimina le perturbazioni dell’atmosfera, è un po’ come prendere lo specchio di un telescopio di 6 metri e mezzo e metterlo nello spazio con un clic del mouse. Per darvi un’idea della risoluzione, immaginate me a Phoenix e voi a Tucson [circa 180 km, la distanza che separa Roma da Napoli, ndr], e con MagAo-X sareste in grado di vedere se sto tenendo in mano una moneta da un quarto di dollaro o due».

Close e coautori ritengono che il Sistema solare, ai tempi della sua nascita, potesse assomigliare a una versione più piccola del sistema planetario Psd 70. La stella osservata, infatti, è circondata un disco gigante a forma di pancake (gli astronomi usano spesso questo termine per descrivere oggetti celesti) di gas e polvere, interrotto però da un’ampio vuoto di polveri nel mezzo, sintomo della presenza di pianeti. «Più pianeti massicci agiscono come scope o aspirapolvere», continua Close. «In pratica disperdono la polvere e ripuliscono il grande vuoto che osserviamo in questo grande disco che circonda la stella».

È davvero raro riuscire a vedere pianeti nascenti, in gergo protopianeti, come Pds 70 b e c (quelli che orbitano attorno a Pds 70), e questi sono gli unici noti agli astronomi su cinquemila esopianeti confermati. Hanno solo cinque milioni di anni, contengono già diverse volte la massa di Giove e non hanno ancora finito di crescere. Lo si capisce, ancora una volta, dalle osservazioni condotte con MagAo-X. Quando i pianeti guadagnano massa dalla nube di gas e polvere che circonda la giovane stella (il disco protoplanetario), “cascate” di idrogeno gassoso cadono su di loro, facendo brillare i pianeti a una precisa lunghezza d’onda che gli astronomi chiamano H-alfa, emessa proprio dall’idrogeno gassoso quando si trova in uno stato eccitato provocato dall’urto del gas che colpisce la superficie del pianeta.

Ricapitolando, quindi, osservando il sistema planetario attorno alla stella Pds 70 con i telescopi Magellano, in Cile, con un filtro che ha selezionato la lunghezza d’onda H-alpha emessa da un processo che avviene tipicamente nei protopianeti e rimuovendo il rumore grazie al nuovo strumento di ottica adattiva MagAo-X, i ricercatori sono riusciti a vedere per la prima volta gli anelli di polvere che circondano i protopianeti. Polvere che, nei prossimi milioni di anni, probabilmente collasserà formando delle lune attorno a ciascuno di questi. E c’è di più: i ricercatori hanno visto uno dei pianeti (Pds 70 b) ridursi a un quinto della sua luminosità originale nell’arco di soli tre anni, mentre l’altro (Pds 70 c) è raddoppiato, come se fosse cambiata drasticamente la quantità di idrogeno gassoso che cade su entrambi. Un’osservazione che, per ora, rimane senza spiegazione, ma che sicuramente avrà creato un precedente, considerando che MagAo-X ha dato vita a un nuovo modo osservativo dalla terra.

«Uno dei nostri obiettivi principali era dimostrare quanto bene si possano fare queste osservazioni con i telescopi a terra», conclude Jared Males, principal investigator di MagAo-X e coautore dell’articolo. «Possiamo costruire grandi telescopi più facilmente a terra che nello spazio, e questo risultato dimostra quanto sia importante costruire la prossima generazione di telescopi ancora più grandi e dotarli di strumenti come MagAo-X».

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Due giorni con Simp 0136, solitario e mutevole




Rappresentazione artistica dell’oggetto celeste “solitario” Simp 0136. Crediti: Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)

Simp 0136 è un gigante gassoso, molto gigante e molto gassoso. E assai peculiare. Anzitutto, a differenza di Giove e Saturno, non vive in un condominio planetario come il nostro Sistema solare, ma se ne sta isolato, per i fatti suoi, a circa vent’anni luce da noi, in direzione della costellazione dei Pesci. Senz’alcuna stella attorno alla quale orbitare. Anzi, forse è lui stesso la “stella”: la sua importante massa – oltre 13 volte quella di Giove – lo colloca infatti sull’incerta zona di confine fra pianeti e nane brune.

Gigante e solitario, senza alcuna fonte di luce nei dintorni che accecando l’osservatore ne pregiudichi la visibilità, è dunque un soggetto ideale per essere studiato dai telescopi, complice anche la distanza relativamente ridotta che lo separa da noi. Hanno puntato lo sguardo su di lui molti telescopi da terra. Lo hanno fatto dallo spazio i due osservatori della Nasa Hubble e Spitzer. E ora anche il telescopio spaziale Webb, che non l’ha perso di vista per due “giorni” interi, vale a dire per quasi cinque ore, considerando che un giorno, là su Simp 0136, dura poco più di 140 minuti. Collezionando con NirSpec (lo spettrografo nel vicino infrarosso di Webb) migliaia di spettri da 0.6 a 5.3 micron – uno ogni 1.8 secondi per più di tre ore, mentre Simp 0136 compiva una rotazione completa. E immediatamente dopo, durante una successiva rotazione, acquisendo centinaia d’altre misure spettroscopiche – una ogni 19.2 secondi, questa volta con lo strumento Miri (sensibile al medio infrarosso), da 5 a 14 micron. Scoprendo così un altro tratto peculiare di questo eremita celeste: la varietà della sua composizione atmosferica.

Le centinaia di curve di luce dettagliate raccolte da Webb mostrano infatti, per ciascuna lunghezza d’onda, come la luminosità cambia man mano che l’oggetto ruota. Per capire il motivo di questa variabilità, il team che ha compiuto le osservazioni si è avvalso di modelli atmosferici, così da individuare la regione atmosferica d’origine delle emissioni alle diverse lunghezze d’onda. «Le diverse lunghezze d’onda forniscono informazioni sulle diverse profondità dell’atmosfera», spiega Allison McCarthy, dottoranda alla Boston University e prima autrice dello studio che riporta questa settimana i risultati delle osservazioni su The Astrophysical Journal Letters. «Abbiamo iniziato a capire che le lunghezze d’onda con forme delle curve di luce fra loro più simili erano anche riconducibili alle stesse profondità, rafforzando così l’idea che a causarle sia lo stesso meccanismo».


Queste curve di luce mostrano la variazione di luminosità di tre diverse serie di lunghezze d’onda della luce nel vicino infrarosso proveniente dall’oggetto isolato di massa planetaria Simp 0136 durante la sua rotazione. Il diagramma a destra illustra la possibile struttura dell’atmosfera di Simp 0136, con le frecce colorate che rappresentano le stesse lunghezze d’onda della luce mostrate nelle curve di luce. Le frecce spesse rappresentano più luce, le frecce sottili meno luce. Crediti:
Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)

Il gruppo di lunghezze d’onda indicato nell’infografica qui sopra in colore rosso, per esempio, ha origine in strati profondi dell’atmosfera, dove potrebbero esserci nubi a chiazze composte da particelle di ferro. Un secondo gruppo, quello in giallo, proviene da nubi più alte, che si pensa siano costituite da minuscoli grani di minerali silicati. Le variazioni in entrambe le curve di luce sono dunque legate alla disomogeneità degli strati di nubi. Un terzo gruppo di lunghezze d’onda, qui rappresentato dal colore blu, ha invece origine ad altissima quota, molto al di sopra delle nubi, e sembra seguire l’andamento della temperatura.

Ci sono poi anche alcuni hot spot – “punti caldi” luminosi – che potrebbero essere collegati alle aurore, rilevate in precedenza a lunghezze d’onda radio, oppure alla risalita di gas caldo da zone più profonde dell’atmosfera. Non mancano, infine, curve di luce il cui andamento non può essere spiegato né dalla presenza di nuvole né dal variare della temperatura, esibendo piuttosto cambiamenti che potrebbero essere dovuti alla presenza, in atmosfera, di sacche di monossido di carbonio e anidride carbonica che entrano ed escono dalla visuale, oppure a reazioni chimiche che alterano l’atmosfera nel corso del tempo.

«La chimica ancora ci sfugge», ammette la principal investigator del programma osservativo condotto con Webb, Johanna Vos, del Trinity College di Dublino. «Ma si tratta di risultati davvero entusiasmanti, perché ci mostrano che le abbondanze di molecole come il metano e l’anidride carbonica potrebbero cambiare da un luogo all’altro e nel tempo. Se stiamo dunque osservando un esopianeta e possiamo ottenere una sola misurazione, dobbiamo mettere in conto che potrebbe non essere rappresentativa dell’intero pianeta».

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Al via la quarta edizione di “Donne fra le stelle”




La locandina dell’iniziativa

Donne spaziali che apriranno le porte dei loro mondi di ricerca nel settore astrofisico, aerospaziale e astronautico in una conferenza di due giorni a cavallo proprio dell’8 marzo. Anche quest’anno l’evento “Donne fra le stelle”, giunto alla sua quarta edizione, si terrà ad Abano Terme, in provincia di Padova, al teatro “Pietro D’Abano”.

«Per sfatare lo stereotipo che la scienza non sia un mestiere per donne ci vogliono modelli di ruolo che dimostrino che è possibile che le donne si realizzino e abbiano successo nelle carriere scientifiche e tecnologiche», dice a Media Inaf Patrizia Caraveo, astrofisica dell’Inaf e presidente del comitato scientifico dell’associazione “Donne fra le stelle”. «In altre parole, occorrono esempi di scienziate e ingegnere che sono perfettamente a loro agio nel loro ambiente di lavoro e che sono felici di condividere il loro entusiasmo. Per questo, “Donne fra le stelle” darà voce ad astronaute, astrofisiche, geofisiche, ingegnere aerospaziali e ricercatrici per fornire una panoramica che spazia dallo studio del nostro pianeta, con particolare attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico, allo studio dell’universo e all’esplorazione umana dello spazio. Le relatrici mostreranno l’impegno e i risultati delle donne in un settore tradizionalmente dominato dalla presenza maschile per dimostrare che la ricerca, la tecnologia, l’esplorazione non hanno genere».

E, se non si può fare a meno di notare che una conferenza interamente dedicata al ruolo delle donne nel settore astrofisico e spaziale si svolga proprio a cavallo dell’8 marzo, scorrendo il programma salta subito agli occhi come anche l’organizzazione degli argomenti rispecchi temi di grande attualità: la prima giornata si apre con una mattinata dedicata ai temi dell’ambiente, delle variazioni climatiche e dell’ecologia spaziale. Si parlerà di qualità dell’aria che respiriamo, di innalzamento delle temperature, ma anche di costellazioni di satelliti, spazzatura spaziale e legislazione spaziale. E proprio alla gestione dello spazio è dedicata la sessione pomeridiana, che tratterà i temi dell’esplorazione umana dello spazio, della possibilità di creare colonie e insediamenti a lungo termine portando ad esempio l’agricoltura fuori dalla Terra; ma anche di architettura spaziale, e del Sole, la stella che permette la vita sulla Terra e l’unica che abbiamo per poterla salvaguardare, la vita. Entrambe le sessioni si chiuderanno con la presentazione di un libro sull’argomento: il mattino, Ecologia spaziale, l’ultimo libro di Patrizia Caraveo; il pomeriggio, Due soli nel Sole, la stella a noi più cara fra verità scientifiche e fantasie, di Francesco Veltri. Sabato 8 marzo è giornata di premiazioni: alle 10 verrà consegnato ad Amalia Ercoli Finzi il premio “Donne fra le stelle”, mentre il pomeriggio, dopo una sessione dedicata all’esplorazione del cosmo e alle nuove tecnologie, ci sarà la consegna del premio nazionale “Rossella Panarese”, giunto alla seconda edizione e dedicato alla giornalista scientifica di Rai Radio3Scienza scomparsa nel 2021.

«Sono molto felice di poter contribuire a “Donne fra le stelle”, un evento rivolto al grande pubblico che mira a far conoscere il contributo delle donne all’attuale comprensione della fisica dell’universo», dice a Media Inaf Viviana Casasola, ricercatrice all’Inaf di Bologna e relatrice durante la seconda giornata dell’evento. «Presenterò alcuni dei miei risultati scientifici con l’obiettivo di condividere la conoscenza e la bellezza del cosmo, ma anche di incoraggiare le giovani e i giovani a inseguire i propri sogni senza farsi scoraggiare dalle difficoltà che inevitabilmente incontreranno».

Due giorni vivaci e molto vari, con partecipazione libera, di cui trovate informazioni più dettagliate sul sito web dell’iniziativa e nel programma qui sotto.


Il programma dettagliato (cliccare per ingrandire) della quarta edizione di “Donne fra le stelle”, che si terrà il 7 e l’8 marzo ad Abano Terme (Pd), al Teatro Marconi

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Quando attraversammo la Nebulosa di Orione




Immagine della costellazione di Orione prodotta con Stellarium, un software gratuito e open-source. Le sue stelle principali sono collegate da linee rette blu e alcune di esse sono etichettate con il loro nome. La Nebulosa di Orione, detta anche M 42, è identificata dal quadrato rosso. Crediti: Stellarium (Gnu); Efrem Macon

Il Sistema solare non sta mai fermo: è in continuo movimento attorno al centro della Via Lattea. E questo suo peregrinare fa sì che interagisca con svariati ambienti galattici, incluse regioni gassose molto dense. Incontri che possono comprimere l’eliosfera, la bolla protettiva del sistema planetario, potenzialmente esponendo l’atmosfera terrestre alla polvere interstellare.

Utilizzando osservazioni spettroscopiche e dati ottenuti dalla missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un team di ricercatori guidato dall’Università di Vienna ha scoperto che, in un’epoca compresa tra 14.8 e 12.4 milioni di anni fa, il Sistema solare – attraversando l’Onda di Radcliffe, una struttura sottile e vasta, formata da regioni di formazione stellare interconnesse tra loro – ha solcato anche la grande nube molecolare del complesso di Orione.

«Questa regione è facilmente osservabile dall’emisfero nord durante l’inverno e dall’emisfero sud durante l’estate», dice João Alves, professore di astrofisica all’Università di Vienna e coautore di uno studio che il mese scorso, su Astronomy & Astrophysics, riporta il risultato. «Guardate verso la costellazione di Orione e la nebulosa di Orione: il Sistema solare proviene da quella direzione!»

«Immaginatelo come una nave che salpa attraverso mari dalle condizioni molto differenti. Quando il Sole ha attraversato l’Onda di Radcliffe, nella costellazione di Orione, ha incontrato una regione ad alta densità gassosa», aggiunge il primo autore dello studio, Efrem Maconi, dottorando all’Università di Vienna.

«Questa scoperta si basa sul nostro lavoro precedente che aveva l’obiettivo di individuare l’Onda di Radcliffe,» ricorda Alves. «Abbiamo attraversato la regione di Orione nel momento in cui ammassi stellari conosciuti, come Ngc 1977, Ngc 1980 e Ngc 1981 si stavano formando».

Lo studio evidenzia come l’incremento del flusso di polvere interstellare dovuto a questo incontro potrebbe aver causato svariati effetti. È possibile che essa abbia penetrato l’atmosfera terrestre lasciando tracce, nei registri geologici, di elementi radioattivi provenienti dalle supernove. Inoltre, una maggiore quantità di polvere potrebbe aver alterato il bilancio radiativo della Terra, con un conseguente effetto di raffreddamento. «Sebbene la tecnologia attuale non sia abbastanza sensibile per la rilevazione di queste tracce, futuri rilevatori potrebbero renderlo possibile», suggerisce Alves.

La ricerca del team indica che il passaggio del Sistema solare attraverso la regione di Orione avvenne circa 14 milioni di anni fa. Questo periodo temporale coincide con la transizione climatica del Medio Miocene, che fu un significativo spostamento da un clima variabile e caldo a un clima più freddo, portando alla riorganizzazione del clima terrestre e all’espansione della calotta glaciale antartica. Nonostante lo studio suggerisca la possibilità di un collegamento tra la traversata del Sistema solare nel vicinato galattico e l’influenza della polvere interstellare sul clima terrestre, gli autori enfatizzano la casualità della connessione e la necessità di ulteriori studi.


Rappresentazione dell’onda di Radcliffe. Le nubi che compongono questa struttura sono evidenziate in rosso e sovrapposte a un’illustrazione della Via Lattea. La posizione del Sole è evidenziata dal punto giallo. Crediti: Alyssa A. Goodman/Harvard University

«Anche se i processi fondamentali responsabili della transizione climatica del Medio Miocene non sono stati completamente identificati, le ricostruzioni disponibili suggeriscono che una diminuzione della concentrazione di anidride carbonica, il gas serra atmosferico, sia la spiegazione più probabile, sebbene esistano molte incertezze. Tuttavia, il nostro studio evidenzia come la polvere interstellare correlata al passaggio attraverso l’Onda di Radcliffe possa aver influenzato il clima del pianeta Terra e possa aver avuto un ruolo in questa transizione climatica. Per poter alterare il clima terrestre, la quantità di polvere extraterrestre presente sulla Terra dovrebbe essere molto maggiore di quanto suggeriscano i dati finora. Future ricerche approfondiranno il significato di questo contributo. È cruciale notare», sottolinea Maconi, «che questa passata transizione climatica e l’attuale cambiamento climatico non sono paragonabili, dal momento che la transizione climatica del Medio Miocene è avvenuta durante un periodo temporale durato centinaia di migliaia di anni, e l’attuale riscaldamento globale sta evolvendo a un ritmo senza precedenti, nell’arco di decenni o secoli, a causa delle azioni dell’uomo».

Questo studio è importante perché aggiunge un altro pezzo del puzzle che compone la storia del Sistema solare. «Siamo abitanti della Via Lattea», dice Alves. «La missione Gaia dell’Esa ci ha fornito i mezzi per tracciare il nostro percorso più recente nel mare interstellare, permettendo agli astronomi di confrontare le proprie conoscenze con geologi e paleoclimatologi. È davvero emozionante».

In futuro, il team guidato da Alves intende approfondire lo studio dell’ambiente galattico incontrato dal Sole durante il suo viaggio, e le possibili conseguenze sulla Terra.

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Segnale radio? Era solo una trasmissione tv



Mentre la crescente attività dei satelliti in orbita intorno alla Terra minaccia il futuro della radioastronomia, un segnale televisivo casualmente riflesso da un aereo di linea ha spinto un gruppo di ricerca della Brown University negli Stati Uniti a elaborare una nuova tecnica per individuare – ed eliminare – i segnali radio indesiderati che costituiscono una fonte di disturbo per i radiotelescopi.

Per un certo periodo di tempo, durante l’analisi dei dati prodotti dal Murchison Widefield Array (un radiotelescopio situato nell’Australia occidentale), gli astronomi si sono imbattuti inaspettatamente nell’interferenza di un segnale che non proveniva dalle fonti astronomiche che stavano studiando. Il fatto risultava decisamente strano, perché il radiotelescopio si trova in una zona di silenzio radio regolata dal governo australiano per tutte le apparecchiature di radiocomunicazione – compresi i trasmettitori televisivi, i dispositivi bluetooth, i telefoni cellulari – con lo scopo di ridurre al minimo le interferenze con i telescopi situati in quella zona.


Il Murchison Widefield Array, situato nell’Australia occidentale. Questa immagine ritrae una parte delle antenne dell’array. Crediti: Natasha Hurley-Walker/Mwa Collaboration & Curtin University

«Erano quasi cinque anni che vedevamo questi segnali e diverse persone avevano ipotizzato che si trattasse di aerei che riflettevano segnali di trasmissioni televisive. Ci siamo resi conto che per una volta avremmo potuto confermare questa teoria», dice Jonathan Pober della Brown University (Usa), responsabile del programma di ricerca statunitense per il Murchison Widefield Array.

Lo studio, pubblicato il mese scorso su Publications of the Astronomical Society of Australia, non solo conferma l’ipotesi che i segnali provengono da un aereo ma fornisce anche un nuovo metodo per identificare e filtrare le radiofrequenze indesiderate: un obiettivo che diventa sempre più importante man mano che i cieli della Terra, con il dispiegamento di un sempre maggiore numero di satelliti, diventano più rumorosi .

«L’astronomia sta affrontando una crisi esistenziale. C’è una crescente preoccupazione – anche riportata in alcuni documenti ufficiali – per il fatto che gli astronomi potrebbero presto non essere in grado di effettuare osservazioni radio di alta qualità, come le conosciamo, a causa delle interferenze delle costellazioni satellitari», ricorda Pober. «Questo è particolarmente difficile per telescopi come il Murchison Widefield Array, che osserva l’intero cielo contemporaneamente. Non c’è modo di puntare i nostri telescopi lontano dai satelliti».

«Tradizionalmente, quando nei dati dei radiotelescopi vengono rilevati segnali indesiderati, noti come interferenze di radiofrequenza (Rfi), i dati vengono scartati in quanto contaminati. Questo perché questi segnali sono imprevedibili e, senza un modello chiaro della loro origine, è quasi impossibile sottrarli dai dati», spiega prima autrice dello studio, Jade Ducharme, della Brown University. «Si finisce per buttare via una quantità pazzesca di dati per non contaminare nessuna parte dell’osservazione».

Per Ducharme e Pober, il nuovo studio è utile per gettare le basi di una soluzione a questo enorme problema, sviluppando un nuovo metodo per rintracciare le interferenze nelle frequenze radio provenienti da oggetti vicini. Per farlo, si sono combinate due tecniche di tracciamento già esistenti. La prima è nota come correzioni del campo vicino, e regola il telescopio in modo tale da mettere a fuoco gli oggetti più vicini alla Terra che normalmente causano interferenze. I telescopi sono progettati per guardare in profondità nello spazio ma le correzioni del campo vicino permettono loro di seguire con maggiore precisione gli oggetti a poca distanza. La seconda tecnica, il beamforming, affina la messa a fuoco di un oggetto creando un “fascio” più preciso che individua la provenienza dell’interferenza, in questo caso il rimbalzo di un aereo.
Combinando i due metodi, i ricercatori hanno tracciato l’aereo e analizzato la curvatura delle onde radio riflesse sulla sua superficie. Ciò ha permesso di calcolare che l’aereo volava a una quota di circa 11.5 km e si muoveva alla velocità di poco meno di ottocento km/h. Pober e Ducharme hanno anche scoperto che il segnale di interferenza che rimbalzava sull’aereo proveniva dalla banda di frequenza associata a Channel 7 della tv digitale australiana.

«Si tratta di un passo fondamentale verso la possibilità di sottrarre dai dati le interferenze causate dall’uomo», dice Pober. «Identificando e rimuovendo con precisione solo le fonti di interferenza, gli astronomi possono sfruttare un maggior numero di osservazioni, ridurre la perdita di dati e aumentare le possibilità di fare importanti scoperte».

I prossimi passi del progetto prevedono il tentativo di rimuovere effettivamente i segnali di interferenza trasmessi dai dati analizzati con il Murchison Widefield Array. L’obiettivo è poi quello di perfezionare ulteriormente il metodo e di estenderlo per filtrare le interferenze dei satelliti e di altri oggetti spaziali, il cui tracciamento è molto più impegnativo.


Altre antenne del Murchison Widefield Array. Crediti: Icrar/Curtin

«Per garantire coperture più capillari e connessioni più veloci, oltre alle nuove generazioni di telefonia mobile terrestre, nei prossimi anni verranno lanciati in orbita circa dieci satelliti ogni giorno. Ciò rappresenta una notevole minaccia alla radioastronomia che già oggi vede molte delle proprie osservazioni dell’universo contaminate dalla presenza di interferenze a radiofrequenza prodotte da sistemi di telecomunicazioni», commenta il referente Inaf per la protezione delle bande di frequenza assegnate al servizio di radioastronomia, Pietro Bolli, non coinvolto nello studio della Brown University. «Come evidenziato nello studio di Ducharme e Pober, anche radiotelescopi localizzati in zone estremamente remote, quali il deserto australiano, non sono immuni da tali disturbi: la sensibilità degli strumenti radioastronomici è infatti tale che un emettitore televisivo terrestre può produrre segnali spuri verso il cielo che riflessi dalla fusoliera di un aereo tornano a terra finendo nel fascio di radiazione del radiotelescopio assieme al segnale naturale prodotto dall’universo».

Si prevede che il boom di satelliti si espanderà ulteriormente nei prossimi decenni, ponendo una sfida importante alla capacità della radioastronomia di studiare fenomeni come i buchi neri, la formazione delle galassie e le origini dell’universo. Ma cosa possiamo fare? «Se non riusciamo a trovare un cielo tranquillo sulla Terra, forse la Terra non è il posto giusto», dice Pober. «Qualunque cosa facciamo, non abbiamo altra scelta che investire in migliori tecniche di analisi dei dati per identificare e rimuovere le interferenze generate dall’uomo».

«I radioastronomi si adoperano per arginare problematiche di questa natura contribuendo ai tavoli che regolamentano l’utilizzo dello spettro radio e sviluppando tecniche di monitoraggio e mitigazione hardware e, come in questo caso, software sempre più evolute per riconoscere il segnale interferente e sottrarlo dal dato celeste minimizzando così la perdita di informazioni utili», cocnlude Bolli. «Se i radioastronomi riusciranno a ingegnarsi con tecniche di mitigazione sempre più avanzate per preservare le proprie osservazioni, oppure se sarà veramente necessario costruire i futuri radiotelescopi nella faccia nascosta della Luna – sempre che le interferenze non arrivino anche là… – lo capiremo solo in futuro».

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Blue Ghost, un nuovo lander sulla Luna



Missione compiuta per l’azienda texana Firefly Aerospace con l’approdo sulla Luna del suo lander Blue Ghost, secondo di una società privata a essersi posato sul suolo del nostro satellite e primo in assoluto a esserci riuscito con pieno successo. Già nel febbraio dell’anno scorso, infatti, era parzialmente riuscito nell’impresa Odysseus, il lander di Intuitive Machines, adagiandosi però su un fianco. Nessun intoppo invece per Blue Ghost, che alle 9:34 ora italiana di ieri, domenica 2 marzo, al termine di un viaggio durato 45 giorni e lungo quasi cinque milioni di km, ha toccato dolcemente la superficie della Luna nel sito programmato – una regione del Mare Crisium, il vasto mare di lava che si trova sul lato che guarda alla Terra – “in una configurazione verticale e stabile”, scrive Firefly Aerospace nel suo comunicato.

We’re baaack!

Blue Ghost has landed, safely delivering 10 NASA scientific investigations and tech demos that will help us learn more about the lunar environment and support future astronauts on the Moon and Mars. pic.twitter.com/guugFdsXY3

— NASA (@NASA) March 2, 2025

«Firefly è sulla Luna, letteralmente e metaforicamente», ha dichiarato il Ceo dell’azienda Jason Kim. «Il nostro lander Blue Ghost ha ora una casa permanente sulla superficie lunare, con dieci payload della Nasa e una targa con il nome di ogni dipendente di Firefly».

Uno dei dieci strumenti a bordo è il ricevitore satellitare made in Italy LuGre: frutto della collaborazione fra l’Agenzia spaziale italiana e la Nasa, è infatti stato costruito in Italia dalla Qascom di Bassano del Grappa con il supporto scientifico del Politecnico di Torino. Il suo scopo è dimostrare la fattibilità dei servizi di navigazione per l’esplorazione lunare.


La Apod (Astronomy Picture of the Day) di oggi, lunedì 3 marzo, mostra l’ombra del lander Blue Ghost sulla superficie lunare. Crediti: Firefly Aerospace

Oltre a Lugre, fra gli strumenti scientifici commissionati dalla Nasa che Blue Ghost dispiegherà nel corso dei circa sessanta giorni di missione in programma c’è PlanetVac: generando un piccolo vortice artificiale solleverà e catturerà la polvere lunare. Sempre a bordo del lander si trova anche il telescopio Lexi per l’acquisizione d’immagini a raggi X della magnetosfera terrestre – immagini che dovrebbero portare a una migliore comprensione del modo in cui il campo magnetico terrestre protegge la Terra dal vento e dai brillamenti del Sole

La missione Blue Ghost rientra nel programma Commercial Lunar Payload Services (Clps) della Nasa, che attraverso la collaborazione con aziende private intende raccogliere dati e testare tecnologie utili alle future missioni umane del programma Artemis. Il lancio era avvenuto il 15 gennaio scorso con un razzo Falcon 9 di SpaceX. A bordo c’era anche il lander Resilience dell’azienda giapponese ispace, ancora in viaggio.

Blue Ghost è attualmente l’unico lander attivo sulla superficie lunare. Ma se tutto va secondo i piani già entro la fine di questa settimana dovrebbe arrivare a fargli compagnia – approdando vicino al Polo sud lunare – il lander Athena della missione Im-2 di Intuitive Machines, in queste ore in viaggio verso la Luna.

Rivedi al live del lancio sul canale YouTube della Nasa:

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Così splende in banda radio il Sole al Polo Sud



L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico – frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dall’Università di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del Pnra (Piano nazionale di ricerca in antartide)– finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.

Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 Ghz l’evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di Capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti.


Prima immagine del Sole in banda radio osservato alla frequenza di 95 GHz dall’Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris

«La possibilità di monitorare, comprendere e prevedere la mutevole fenomenologia solare e il suo notevole impatto con l’ambiente spaziale e il nostro pianeta è una sfida che acquista sempre più importanza», dice Alberto Pellizzoni, astrofisico Inaf e responsabile scientifico del progetto Solaris. «Per affrontare questa sfida è necessario investire per trasformare e potenziare strumenti già esistenti o crearne di nuovi in una efficiente rete solare internazionale, anche nel contesto degli accordi in essere tra diversi enti in Italia (Inaf, Ingv, Asi, Aeronautica militare e varie università) per sviluppare servizi dedicati allo space weather, e capire come il Sole influisca sulle nostre tecnologie e la nostra vita sulla Terra».

Il progetto Solaris prevede l’implementazione di ricevitori radioastronomici dedicati e intercambiabili su piccoli radiotelescopi della classe di 2.6 metri di diametro, già presenti in Antartide nelle basi italiane Mario Zucchelli e Concordia e adattati per osservazioni solari ad alta frequenza, dell’ordine delle decine di gigahertz. Ciò consente di ricevere onde radio emesse dal Sole, la cui lunghezza d’onda varia da qualche centimetro a qualche millimetro. Con questo tipo di osservazioni è possibile avere una nuova “finestra” in cui studiare il Sole e i suoi fenomeni, rilevando con precisione la temperatura e i brillamenti della corona solare e fare previsioni sulle possibili tempeste geomagnetiche. Al progetto, oltre alle sedi Inaf di Cagliari, Bologna, Trieste, Milano e alle università di Milano e Milano-Bicocca, partecipano le università di Roma Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, l’Agenzia spaziale italiana, l’Aeronautica militare italiana, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Consiglio nazionale delle ricerche.

«Vediamo finalmente venire alla luce i primi risultati di un lungo progetto a cui abbiamo lavorato per quasi dieci anni», dicono Francesco Cavaliere e Marco Potenza, del Dipartimento di fisica dell’Università di Milano, «dopo che il Pnra ci aveva chiesto di prenderci carico delle infrastrutture nelle due basi. Il lavoro da fare è ancora moltissimo, ma i primi risultati sono di grande soddisfazione anche in funzione delle scarsissime risorse che abbiamo avuto a disposizione. La riuscita di questa prima fase è anche una valorizzazione delle attività svolte proprio a Milano, dove abbiamo un telescopio prototipo con cui validare tutte le procedure e risolvere gran parte dei problemi prima di arrivare a lavorare al Polo».

«Solaris rappresenta uno dei progetti di punta del Pnra in campo astrofisico e uno tra i più promettenti programmi astrofisici che operano nelle aree polari a livello internazionale», aggiunge Massimo Gervasi, docente a Milano-Bicocca e membro del Physical Science Group dello Scar (Scientific Committee on Antarctic Research). «L’analisi delle immagini di Solaris, correlata con le immagini fornite dai satelliti a più alte energie da un lato e i dati sulle particelle energetiche solari dall’altro, aiuterà a comprendere meglio i fenomeni fisici che stanno alla base delle emissioni solari energetiche».

In presenza di condizioni di visibilità del cielo ottimali come quelle antartiche, Solaris sarà l’unica installazione a offrire un monitoraggio continuo del Sole ad alte frequenze radio permettendo di osservare le variazioni che avvengono nella cromosfera solare, uno strato dell’atmosfera della nostra stella in cui si formano fenomeni altamente energetici come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Monitorare le variazioni in questa banda radio permette di identificare segnali precursori di tempeste geomagnetiche, che potrebbero interferire con le nostre tecnologie nello spazio e a terra.

La scelta di posizionare a una latitudine così meridionale Solaris non è dovuta solo alla limpidezza dell’atmosfera, garantita dalla bassa umidità che altrimenti assorbirebbe i segnali radio ad alta frequenza, ma anche e soprattutto alla lunga persistenza del Sole nel cielo durante l’estate antartica (che corrisponde al nostro periodo invernale), seppure molto basso rispetto all’orizzonte. Nei pressi dei poli terrestri, infatti, è possibile – durante i rispettivi periodi estivi – osservare la nostra stella per oltre venti ore al giorno.

Per poter offrire un monitoraggio solare costante durante tutto l’anno, il progetto Solaris sarà dunque implementato anche nell’emisfero settentrionale con lo sviluppo di una stazione sulle Alpi (presso l’Osservatorio climatico Testa Grigia del Cnr, a 3500 metri s.l.m., in Valle D’Aosta) e altre in Scandinavia e regioni artiche, grazie all’interesse internazionale destato da queste prospettive.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Ritratto di famiglia della Galassia di Andromeda



Come fastidiosi granelli di polvere depositati su una vecchia fotografia analogica esaminata da chi voglia contemplare la nostra vicina di casa, la Galassia di Andromeda anche detta M31, con la sua forma a sigaro in questa immagine, ma a spirale nella realtà tridimensionale dei fatti. Puntiformi irrilevanze che, se esposte all’occhio acutissimo del telescopio spaziale Hubble, si avvicinano e avvicinano mostrandosi per quelle che sono, in questi dettagliati ritratti di famiglia: decine di galassie nane che gravitano attorno ad Andromeda come condor che sorvolano un pasto prelibato. Ritratti che hanno consentito agli scienziati di mappare la struttura tridimensionale di questa famiglia numerosa, che conta ben 36 componenti, e di ricostruire quanto efficacemente queste piccolette abbiano generato stelle lungo l’intera esistenza dell’universo.


Il sistema di galassie nane che circonda la Galassia di Andromeda (M31) in un’immagine realizzata da terra. Le trentasei galassie nane oggetto dello studio appaiono come dei granelli di polvere all’interno dei cerchi. Oltre a M31, dalla forma a sigaro e visibile vicino al centro dell’immagine, la galassia più prominente è M32, che nell’immagine appare come un punto localizzato su di essa. Crediti: Nasa, Esa, Alessandro Savino (Uc Berkeley), Joseph DePasquale (Stsci), Akira Fujii Dss2

Questa saga familiare ci viene raccontata da un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Alessandro Savino in un articolo uscito il mese scorso su The Astrophysical Journal. Una storia di famiglia che appare molto diversa da quella che caratterizza la Via Lattea, la nostra galassia, accompagnata solo da uno scampolo di galassiette. Spesso accostate per la loro forma affine, Andromeda e la Via Lattea, e in verità si scoprono con una storia familiare che ha percorso traiettorie differenti. Quella di Andromeda sembrerebbe ben più accidentata, caratterizzata da uno scontro con una galassia di massa simile qualche miliardo di anni fa. Collisione che spiegherebbe, assieme alla sua massa doppia rispetto alla nostra “casa”, la ricchezza di galassie satelliti e le loro caratteristiche. Che sembrerebbero peculiari.

«Vediamo che la durata per cui le galassie satelliti possono continuare a formare nuove stelle dipende da quanto sono massicce e da quanto sono vicine alla galassia di Andromeda», dice Savino, della University of California a Berkeley. «È una chiara indicazione di come la crescita delle piccole galassie sia disturbata dall’influenza di una galassia massiccia come Andromeda».

«Tutto ciò che è sparso nel sistema di Andromeda è molto asimmetrico e perturbato. Sembra che qualcosa di significativo sia accaduto non molto tempo fa», aggiunge Daniel Weisz, ricercatore presso la stessa struttura. «C’è sempre la tendenza a usare ciò che comprendiamo nella nostra galassia e generalizzarlo per le altre galassie nell’universo. Ci sono sempre state preoccupazioni sul fatto che ciò che stiamo imparando sulla Via Lattea si applichi più ampiamente ad altre galassie. E se ci fosse più diversità tra le galassie esterne? Hanno proprietà simili? Il nostro lavoro ha dimostrato che le galassie di piccola massa in altri “ecosistemi” hanno seguito percorsi evolutivi diversi da ciò che sappiamo dalle galassie satellite della Via Lattea».


Ritratti di quattro delle trentasei galassie nane ottenuti con il telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Alessandro Savino (Uc Berkeley), Joseph DePasquale (Stsci), Akira Fujii Dss2

Studiare il sistema di galassie satelliti che circonda la Via Lattea è più complesso perché ci troviamo dentro di essa. Come cantava Niccolò Fabi in Lontano da me, “alla giusta distanza la vista migliora”. Vale nelle nostre imperfette relazioni, e vale pure per le galassie, talvolta.

Nella folta famiglia di Andromeda, esemplare di spicco è senza dubbio M32, galassia ellittica compatta che potrebbe costituire il nucleo rimasto spoglio di una galassia molto più grande che ha interagito con Andromeda in passato. M32 contiene stelle piuttosto vecchie. Sembrerebbe però che un’ondata di formazione stellare l’abbia investita qualche miliardo di anni fa, a seguito della tempestosa interazione. Le galassie nane che attorniano Andromeda hanno messo in piedi il grosso della loro massa in un’epoca molto antica e hanno continuato a generare stelle con un ritmo lento, consumando in modo fiacco ma costante il gas che si trovava al loro interno. In questo sono molto diverse dalle galassiette che sguazzano attorno alla Via Lattea.

«La formazione stellare è continuata molto a lungo, il che non è affatto ciò che ci si aspetterebbe da queste galassie nane», aggiunge Savino. «Questo non appare nelle simulazioni al computer. Fino ad ora nessuno sa come ciò sia possibile». Oltre a questo, gli astronomi non si spiegano perché le galassie sembrino confinate in un piano e orbitino tutte nella stessa direzione. «È bizzarro. In realtà è stata una sorpresa totale trovare i satelliti in quella configurazione e ancora non capiamo del tutto perché appaiano in quel modo», conclude Weisz.

Il telescopio Hubble ha fornito il primo gruppo di immagini con cui gli astronomi hanno potuto quantificare il moto delle galassie nane. Nell’arco di cinque anni un secondo gruppo di immagini sarà ottenuto da Hubble o dal telescopio Webb, e consentirà di ricostruire la dinamica di tutte le 36 galassie, permettendo agli astronomi di riavvolgere il nastro e di capire come il complesso ecosistema di Andromeda si sia formato miliardi di anni fa.

Nel video qui sotto, animazione che mostra un viaggio immaginario, lungo due milioni e mezzo di anni luce, verso la Galassia di Andromeda. Oltrepassate le stelle della Via Lattea, Andromeda si mostra circondata dal suo stuolo di galassie satelliti. La struttura tridimensionale mostrata nel video è stata realizzata grazie ai dati di Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Christian Nieves (Stsci), Alessandro Savino (Uc Berkeley); Ringraziamenti: Joseph DePasquale (Stsci), Frank Summers (Stsci) e Robert Gendler

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Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Hubble Space Telescope Survey of M31 Satellite Galaxies. IV. Survey Overview and Lifetime Star Formation Histories” di Alessandro Savino, Daniel R. Weisz, Andrew E. Dolphin, Meredith J. Durbin, Nitya Kallivayalil, Andrew Wetzel, Jay Anderson, Gurtina Besla, Michael Boylan-Kolchin, Thomas M. Brown, James S. Bullock, Andrew A. Cole, Michelle L. M. Collins, M. C. Cooper, Alis J. Deason, Aaron L. Dotter, Mark Fardal, Annette M. N. Ferguson, Tobias K. Fritz, Marla C. Geha, Karoline M. Gilbert, Puragra Guhathakurta, Rodrigo Ibata, Michael J. Irwin, Myoungwon Jeon, Evan N. Kirby, Geraint F. Lewis, Dougal Mackey, Steven R. Majewski, Nicolas Martin, Alan McConnachie, Ekta Patel, R. Michael Rich, Evan D. Skillman, Joshua D. Simon, Sangmo Tony Sohn, Erik J. Tollerud e Roeland P. van der Marel


La Iss? Più “sporca” è meglio



Simbolo di cooperazione internazionale e laboratorio di ricerca scientifica in microgravità, la Stazione spaziale internazionale (Iss) offre agli astronauti un’esperienza di vita unica. La permanenza a bordo, a circa 400 km di quota, pone tuttavia diverse sfide. Una delle principali, per la quale esiste una pletora di letteratura scientifica, è quella legata ai rischi per la salute.


In primo piano, la Stazione spaziale internazionale. Sullo sfondo, l’orizzonte terrestre e l’oscurità dello spazio. L’immagine è stata scattata nel 2010 dall’equipaggio della missione Sts-130. Crediti: Nasa

Oltre alla perdita di massa ossea e muscolare e alle alterazioni del sistema cardiovascolare, sulla Iss gli astronauti sperimentano comunemente eruzioni cutanee, allergie atipiche e altri processi infiammatori, sia acuti che cronici. Tutte queste condizioni sono riconducibili a una disfunzione del sistema immunitario. Un nuovo studio pubblicato ieri sulla rivista Cell edita da Cell Press suggerisce che tutti questi problemi potrebbero avere un’origine comune: la natura eccessivamente “sterile” della navicella spaziale.

Condotto da un team di ricerca guidato dall’Università della California a San Diego, lo studio ha dimostrato che la Stazione Spaziale Internazionale ha una diversità microbica molto inferiore rispetto agli ambienti naturali terrestri, con la maggior parte del germi presenti appartenenti al microbioma cutaneo, cioè l’insieme dei germi naturalmente residenti sulla nostra pelle. Inoltre, sarebbe eccessivamente pulita. Poiché sempre più studi collegano le malattie infiammatorie croniche alla ridotta esposizione microbica propria di ambienti troppo lindi, l’ipotesi dei ricercatori è che il problema delle risposte infiammatorie sviluppate dagli astronauti sulla Iss potrebbe essere collegato a questi aspetti. Insomma, il mantra per vivere meglio sulla Iss sarebbe lo stesso che i pediatri e le pediatre ci ripetono sin da piccoli: bisogna sporcarsi, troppa igiene fa male.

Per giungere alla loro conclusione, i ricercatori hanno esaminato ben 803 campioni – 100 volte più di quelli prelevati nelle precedenti indagini – raccolti all’interno dell’US Orbital Segment (Usos), l’unità orbitale costruita e gestita dalla Nasa, dall’Esa, dall’Agenzia spaziale canadese (Csa) e dall’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa). L’esperimento si chiama three-dimensional microbial mapping (3dmm), un’ambiziosa indagine il cui obiettivo era mappare le comunità microbiche e le specie chimiche presenti sulle superfici della Iss.

A prelevare i campioni da analizzare con una sorta di cotton fioc strisciato su una generica area – tamponi di superficie, è così che si chiamano – sono stati gli astronauti della Expedition 64, la 64esima missione sulla Stazione spaziale internazionale, iniziata il 21 ottobre 2020 e conclusa il 17 aprile 2021.


L’astronauta della Expedition 64 Kate Rubins con in mano i tamponi di superficie per l’indagine 3dmm. Crediti: Nasa

La missione portava a bordo circa mille dispositivi di campionamento. Per portare a termine l’esperimento, agli astronauti è stato chiesto di tamponare una superficie di 5 cm x 5 cm in specifiche posizioni all’interno di nove degli undici moduli orbitali della Usos. Lo sforzo di campionamento, effettuato con strisciate a zig zag per coprire tutta la superficie in esame e favorire il trasferimento dei germi al cotton fioc, ha richiesto in totale 6 giorni, impegnando gli astronauti per 23 ore e 52 minuti. I campioni sono giunti sulla Terra conservati a meno ottanta gradi Celsius, e hanno mantenuto questa temperatura fino all’arrivo ai laboratori di ricerca dell’Università della California a San Diego. Qui, dopo l’inventariazione, i campioni sono stati aperti e sottoposti a una duplice analisi: chimica, per identificare residui di sostanze utilizzate per l’igiene degli ambienti; e genomica, per caratterizzare e identificare i ceppi batterici presenti. Come gli esseri umani, anche i batteri possiedono infatti un codice genetico univoco. L’analisi dell’ordine dei mattoncini che lo compongono – le basi azotate – tramite il sequenziamento del Dna, fornisce ai ricercatori indizi sulla loro identità.

Il primo risultato delle indagini è venuto fuori dal confronto del microbioma della Iss con quello di ambienti terrestri. I ricercatori hanno scoperto che le comunità microbiche presenti erano meno diversificate rispetto alla maggior parte dei campioni prelevati sulla Terra. In particolare, le superfici erano prive di microbi ambientali liberi che si trovano di solito nel suolo e nell’acqua, con una composizione più simile ai campioni provenienti da ambienti industrializzati e isolati, come ospedali, habitat chiusi e case presenti in aree urbanizzate. I germi più rappresentati erano quelli che costituiscono il microbioma umano, ovvero l’insieme di microbi che popolano naturalmente – perché sì, che ci piaccia o no li abbiamo, ed è pure un bene – la nostra pelle.

Il secondo risultato delle analisi è che la diversità microbica nella Iss variava a seconda del modulo di provenienza del campione. Tale diversità, spiegano i ricercatori, non può dipendere da fattori ambientali condivisi tra moduli interconnessi, come pressioni parziali atmosferiche, temperatura ed esposizione alle radiazioni, ma è influenzata dallo specifico tipo di utilizzo che gli astronauti fanno del modulo. Ad esempio, le aree di ristorazione e preparazione del cibo contenevano più microbi associati agli alimenti, mentre la toilette conteneva più microbi associati alle attività di minzione e defecazione. Il terzo risultato, infine, quello che più di tutti ha sorpreso gli scienziati, è che ovunque erano presenti tracce di sostanze chimiche tipiche dei prodotti per l’igiene e la disinfezione.

«Abbiamo notato che l’abbondanza di disinfettante sulla superficie della Stazione spaziale internazionale è strettamente correlata alla diversità del microbioma in diversi ambienti», dice a questo proposito Nina Zhao, ricercatrice dell’Università della California a San Diego e co-autrice dello studio.

Alla luce di questi risultati, l’ipotesi dei ricercatori è che la perdita di diversità microbica sulla Iss possa essere associata all’eccessivo uso di disinfettanti e che questo sia a stretto giro correlato alle disfunzioni del sistema immunitario. Sempre più studi suggeriscono infatti che un’esposizione microbica diversificata può giovare alla salute umana, contribuendo alla produzione di un ventaglio di anticorpi che rendono le nostre difese immunitarie più forti. Per ovviare a questi problemi gli autori propongono due soluzioni, entrambe in grado di salvaguardare la salute degli astronauti senza sacrificare l’igiene.


Nel riquadro (A) è mostrata la configurazione del segmento orbitale statunitense della Iss. I moduli campionati in questo studio sono visualizzati a colori, mentre gli altri in grigio. Nel riquadro (B) sono visualizzati i grafici che mostrano il numero di campioni raccolti in ciascun modulo oggetto dello studio. Il riquadro (C) mostra il flusso di lavoro per l’analisi dei campioni. Il riquadro (D), infine, mostra la visualizzazione 3D del campionamento. Crediti: Rodolfo A. Salido et al., Cell, 2025

La prima soluzione consiste nel creare all’interno della Iss ambienti popolati da microbi che di solito si trovano in ambienti naturali, ad esempio i giardini.

«Invece di fare affidamento su spazi altamente sanificati, le future stazioni spaziali potrebbero trarre vantaggio dall’introduzione intenzionale di comunità microbiche che permettano di imitare l’esposizione naturale a germi che si sperimenta sulla Terra», dice a questo proposito Rodolfo Salido, ricercatore all’Università della California a San Diego e primo autore dello studio.

La seconda soluzione proposta è una sanificazione basata sull’utilizzo di probiotici (batteri “buoni”) anziché di sostanze chimiche, un metodo che consente di ridurre la contaminazione delle superfici da parte di germi patogeni sfruttando la competizione biologica tra questi batteri e microrganismi innocui per la salute.

«Se vogliamo davvero che la vita prosperi fuori dalla Terra, non possiamo semplicemente prendere un piccolo ramo dell’albero della vita, lanciarlo nello spazio e sperare che funzioni», continua Salido. «Dobbiamo iniziare a pensare a quali altri compagni utili dovremmo inviare con gli astronauti, per aiutarli a sviluppare ecosistemi che saranno sostenibili e benefici per tutti».

L’assenza di microbi ambientali terrestri, combinata con l’elevato uso di disinfettanti suggerisce che la Iss possa essere un ambiente non ottimale per supportare la funzione del sistema immunitario, concludono i ricercatori. Questo studio fornisce prove preziose circa il fatto che sulla Iss esiste un gradiente microbico e chimico collegato all’utilizzo dei vari moduli abitativi che a sua volta è connesso a vari rischi sulla salute, offrendo spunti che possono aiutare la progettazione delle future stazioni spaziali per missioni a lungo termine.

Per saperne di più:

  • Leggi su Cell l’articolo “The International Space Station has a unique and extreme microbial and chemical environment driven by use patterns” di Rodolfo A. Salido, Haoqi Nina Zhao, Daniel McDonald, Helena Mannochio-Russo, Simone Zuffa, Renee E. Oles, Allegra T. Aron, Yasin El Abiead, Sawyer Farmer, Antonio González, Cameron Martino, Ipsita Mohanty, Ceth W. Parker, Lucas Patel, Paulo Wender Portal Gomes, Robin Schmid, Tara Schwartz, Jennifer Zhu, Michael R. Barratt, Kathleen H. Rubins, Hiutung Chu, Fathi Karouia, Kasthuri Venkateswaran, Pieter C. Dorrestein e Rob Knight


Integral, fine delle trasmissioni



Dopo più di 22 anni, non potremo più vedere l’universo attraverso gli occhi di Integral. Occhi molto speciali in grado di vedere le lunghezze d’onda energetiche dei raggi gamma, la cui vista dalla Terra è impedita dalla presenza dell’atmosfera. Occhi che ci hanno consentito di studiare fenomeni misteriosi come i gamma ray bursts, per comprendere che quelli “più lunghi”, che durano diversi secondi, potrebbero essere dovuti al collasso spontaneo di stelle massicce che diventano supernove, mentre quelli più brevi a buchi neri e stelle di neutroni che si scontrano tra loro. Non solo, il telescopio ha catturato il lampo gamma più luminoso mai osservato, avvenuto in una galassia distante quasi due miliardi di anni luce.


Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Integral dell’Esa. Il satellite ha un’altezza di circa 9 metri con pannelli solari larghi 15 metri, per un peso totale di 3600 kg. Crediti: Esa

«Veramente difficile da digerire, dopo trent’anni anni dall’approvazione da parte di Esa della realizzazione dell’Osservatorio spaziale Integral, che la missione verga terminata», commenta amareggiato a Media Inaf Pietro Ubertini, principal investigator dello strumento Ibis a bordo del satellite. «In realtà, dal momento che il telescopio ha da poco iniziato una nuova orbita, impiegherà tre giorni per arrivare all’apogeo a 153 mila chilometri dalla Terra (per poi tornare indietro) e continuerà a trasmettere dati scientifici fino all’ultimo. Poi, una volta raggiunto il punto più vicino alla terra entrerà in eclisse il 4 marzo e per sei ore sarà alimentato dalle batterie di bordo. Da quel momento non invierà più dati scientifici a terra. Dal punto di vista del satellite però non cambia molto, perché rimarrà attivo, ma cambierà tutto per la comunità scientifica mondiale delle alte energie. Tecnicamente il centro di controllo di Esoc [il centro controllo missioni dell’Agenzia spaziale europea a Darmstadt, in Germania, ndr] dovrà controllare che tutto funzioni come prima: per poter assicurare un rientro sicuro anche gli strumenti scientifici saranno operativi perché necessari al corretto bilancio termico. L’unica differenza sarà l’interruzione della trasmissione dei dati scientifici. Anche questo difficile da digerire. Per risparmiare meno dell’un per cento del costo della missione non riceveremo più dati definiti “outstanding”, di grande valore scientifico. Basti pensare che per l’ultimo anno di osservazioni l’Esa ha ricevuto da astrofisici di tutto il pianeta proposte scientifiche che richiedono quattro anni di osservazioni di Integral».

Integral era stato lanciato il 17 ottobre 2002 dal cosmodromo russo di Baikonur, in Kazakistan. Al momento del lancio era il più avanzato osservatorio di raggi gamma e il primo osservatorio spaziale in grado di vedere oggetti celesti contemporaneamente nei raggi gamma, nei raggi X e nella luce visibile. Il telescopio è – o forse dovremmo dire era – dotato di un campo visivo molto ampio che copre circa 900 gradi quadrati di cielo nei raggi X e gamma più energetici, ed è in grado di produrre, simultaneamente, immagini e spettri dettagliati alle energie più elevate, aiutandosi con camere a raggi X e ottiche per individuare le sorgenti di raggi gamma.


Pietro Ubertini (Inaf), principal investigator dello strumento Ibis a bordo di Integral, durante i test pre-lancio del satellite nella clean room al centro spaziale di Esa-Estec, in Olanda, nel dicembre 2001. A sinistra la maschera codificata di tungsteno utilizzata per ottenere le prime immagini in raggi gamma ad elevata risoluzione delle sorgenti cosmiche osservate. Crediti: Angela Bazzano

Ed è grazie a questo se il telescopio si è mostrato lo strumento giusto anche per svolgere osservazioni per le quali non era stato concepito. Fra tutte, la capacità di rintracciare le sorgenti nel cielo che hanno generato alcune delle onde gravitazionali e dei neutrini ad altissima energia catturati dagli strumenti specializzati a terra. Al momento del lancio di Integral non si era nemmeno sicuri che le onde gravitazionali potessero essere rilevate direttamente: la loro prima osservazione è stata effettuata 13 anni dopo, dai rilevatori di onde gravitazionali Ligo negli Stati Uniti, nel 2015. E nemmeno due anni più tardi Integral, insieme al satellite Fermi della Nasa, ha registrato un segnale in raggi gamma 1,7 secondi dopo l’arrivo delle onde gravitazionali dell’evento Gw 170817 – il primo, e a oggi unico, evento di astronomia multimessaggera di questo tipo.

Concludiamo quindi la Hall of fame di Integral con altre due targhette: recentemente il telescopio ha anche guidato intuizioni uniche su come le esplosioni termonucleari guidano i getti nelle stelle di neutroni e ha catturato la rarissima esplosione di una magnetar extragalattica, che ha emesso una quantità di energia pari a quella prodotta dal nostro Sole in mezzo milione di anni che ha addirittura perturbato l’alta ionosfera terrestre. In tutto il segnale registrato è durato meno di un secondo, sufficiente però per una scoperta pubblicata su Nature Communications.

«Dopo oltre 2886 orbite e 22 anni di osservazione delle profondità del nostro cosmo, oggi i sensibili strumenti di Integral smettono di raccogliere dati scientifici. Ma l’eredità dell’osservatorio di raggi gamma dell’Esa servirà agli scienziati per molti anni ancora», conclude Matthias Ehle, mission manager di Integral all’Esa. «La ricchezza di dati raccolti in due decenni sarà conservata nell’Integral Science Legacy Archive. Sarà essenziale per la ricerca futura e per ispirare una nuova generazione di astronomi e ingegneri a sviluppare nuove entusiasmanti missioni».

A questo punto, una domanda doverosa per la fine di una missione spaziale. Che fine farà Integral, ora che non trasmette più dati scientifici? Quando il telescopio è stato lanciato, nel 2002, l’Agenzia spaziale europea non prevedeva alcuna procedura di deorbiting dei suoi satelliti per evitare che questi, una volta dismessi, diventassero spazzatura spaziale. Nel 2015 però, il team dell’Agenzia spaziale europea che controllava il volo di Integral si rese conto che eseguendo una manovra specifica per modificare l’orbita si sarebbe potuto evitare che il telescopio rimanesse, al suo spegnimento, un detrito spaziale per i secoli a venire. Una manovra che, inaspettatamente, complicò la vita del telescopio, ma che garantirà il naturale rientro di Integral nell’atmosfera terrestre nel 2029, fra quattro anni.

Come mai questa manovra complicò la vita del telescopio? Se avete ascoltato la puntata di Houston (il podcast di Media Inaf) “Tre ore per salvare Integral” già lo sapete: a causa del propellente impiegato per modificarne l’orbita durante quella manovra – e in seguito a un problema avvenuto a maggio 2020 – da quasi cinque anni il telescopio spaziale vola senza propulsori, capovolgendosi regolarmente per scaricare le ruote di reazione e mantenere la stabilità operativa. Una procedura mai pensata prima al centro di controllo dell’Esa a Darmstadt, che ha trovato un ottimo compromesso con le osservazioni e che ha impedito la sua prematura fine e altri quattro anni e mezzo di osservazioni.

Se volete saperne di più su questa vicenda, potete ascoltare la puntata del podcast sul canale Youtube MediaInaf Tv al link qui sotto oppure su Spotify o Apple podcast.

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Lunar Trailblazer è in volo verso il nostro satellite



È partita all’una e 16 ora italiana di ieri notte, fra mercoledì 26 e giovedì 27 febbraio, la sonda Lunar Trailblazer della Nasa, decollata a bordo di un Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center, in Florida. Selezionata nel 2019 come tassello del programma Small Innovative Missions for Planetary Exploration con l’obiettivo di mappare le fonti di acqua presenti sul suolo lunare, per volare verso il nostro satellite Lunar Trailblazer ha chiesto un “passaggio” alla missione Intuitive Machines Im-2, il cui lander Athena approderà sulla superficie della Luna non prima del 6 marzo, trasportando tecnologie innovative fondamentali per comprendere in maniera più accurata l’ambiente lunare.

Lunar Trailblazer ha una massa di circa 200 kg e un’ampiezza – a pannelli solari totalmente dispiegati – di 3.5 metri. Per raggiungere la sua orbita finale, la sonda sfrutterà i campi gravitazionali del Sole, della Terra e della Luna, seguendo una cosiddetta traiettoria di trasferimento a bassa energia. Per ben 12 volte al giorno la sonda invierà dati sulla composizione della Luna ed esaminerà, in particolare, i crateri situati in corrispondenza del Polo Sud, che potrebbero contenere fino a 600 milioni di tonnellate di acqua allo stato solido, ossia ghiaccio.


Infografica in inglese della campagna di raccolta dati del Lunar Trailblazer (cliccare per ingrandire). Crediti: Filo Merid for Lunar Trailblazer (Pcc/Caltech)

Tra i principali strumenti presenti nella navicella vi è il Lunar Thermal Mapper (Ltm), realizzato da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di fisica dell’università di Oxford. La sua funzione consiste nella misurazione della temperatura superficiale e nell’analisi dei minerali che danno al corpo celeste il suo tipico aspetto. I dati raccolti saranno estremamente utili per confermare la presenza di acqua sul satellite e per definire le specifiche posizioni in cui sarà individuata. La struttura dell’Ltm si basa su quattro canali a banda larga che lavorano nell’infrarosso, adatti per la determinazione della temperatura del suolo lunare, mentre altri undici canali cattureranno le più piccole variazioni nella composizione dei silicati che costituiscono le rocce. Questi fattori possono largamente influenzare l’abbondanza di acqua in ogni specifica regione.

Il Lunar Thermal Mapper produrrà inoltre una scansione delle aree mappate, realizzando immagini utili per caratterizzare la temperatura superficiale. Contemporaneamente, al suo fianco lavorerà anche un altro strumento, l’High-Resolution Volatiles and Minerals Moon Mapper (Hvm3) della Nasa: il suo compito sarà segnalare le impronte spettrali, cioè le lunghezze d’onda della luce solare riflessa, delle differenti forme di acqua situate sulla superficie della Luna. I due strumenti procederanno dunque all’unisono, perseguendo l’obiettivo di determinare il ciclo dell’acqua sul satellite.


Uno degli obiettivi di Trailblazer è lo studio della variabilità temporale di alcune sostanze volatili lunari. Crediti: Caltech

Come se non bastasse, i risultati della missione IM-2 porteranno notevoli vantaggi in molti ambiti di ricerca. I percorsi tracciati potranno essere seguiti in future esplorazioni da parte di rover.

Il viaggio di Lunar Trailblazer e, più in generale, l’intera missione Im-2 rappresentano un passo in avanti per gli studi che verranno in relazione al possibile impiego delle fonti di acqua lunare. Risorse idriche che potrebbero essere adoperate nei modi più svariati: da una potenziale purificazione per renderle potabili ad una trasformazione in carburante od ossigeno, magari in previsione di sbarchi umani sul corpo celeste.

«Il Lunar Thermal Mapper è stato progettato, costruito e testato qui a Oxford», dice Neil Bowles dell’Università di Oxford, instrument scientist di Ltm. «Le misurazioni della temperatura aiuteranno a confermare la presenza del segnale dell’acqua nei dati di Hvm3 e i due strumenti lavoreranno insieme per mappare la composizione della Luna, mostrandoci dettagli che in precedenza erano stati solo accennati».

Guarda su MediaInaf Tv il servizio video sul lancio della missione Im-2:

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Al via le celebrazioni per l’Anno cassiniano




Giovanni Domenico Cassini (17esimo secolo, olio su tela, Museo di Palazzo Poggi-Università di Bologna). Crediti: Università di Bologna

L’8 giugno 1625 nasceva Giovanni Domenico Cassini. Il Cassini della divisione degli anelli di Saturno. Quello della sonda Cassini-Huygens, lanciata nel 1997 per studiare Saturno e le sue lune, che ci ha regalato immagini mozzafiato e il celebre ultimo “tuffo”.

Per celebrare il 400esimo anniversario della nascita dello scienziato, oggi si apre l’Anno cassiniano e Media Inaf per l’occasione ha intervistato Francesco Poppi, astrofisico dell’Inaf di Bologna ed esperto di ricerca storica, con particolare attenzione alla storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana dell’Ottocento, e la valorizzazione del patrimonio storico-culturale.

Poppi, prima di entrare nel dettaglio del personaggio storico, può dire ai nostri lettori cosa avete in programma per il 400esino anniversario della nascita di Cassini?

«L’Anno cassiniano sarà l’occasione per celebrare e riscoprire l’importanza di Giovanni Domenico Cassini attraverso varie attività rivolte a studenti, studiosi e largo pubblico nei principali luoghi cassiniani: Bologna, Perinaldo (in provincia di Imperia, dove nacque), Genova, Roma – dove Cassini si recava per le sue frequentazioni, in particolare con la Regina Cristina di Svezia – e Loiano (in provincia di Bologna), dove il telescopio più grande è intitolato a proprio a lui. Le celebrazioni sono promosse dal Comitato nazionale istituito dal Ministero della Cultura e sostenute dall’Inaf (sedi di Bologna e Roma), dall’Università di Bologna (Difa e Accademia delle Scienze) e dal Comune di Perinaldo, col patrocinio della Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, Comune di Loiano e Università di Genova. Prevedono eventi aperti alla cittadinanza, tra cui l’osservazione del passaggio del Sole al solstizio sulla Meridiana di San Petronio a Bologna e sulla Meridiana della Visitazione a Perinaldo, conferenze pubbliche e spettacoli sul territorio nazionale dedicati alle tematiche astronomiche affrontate da Cassini, e un congresso storico-scientifico sulla figura di Cassini che si svolgerà a Bologna nei giorni 18-20 giugno 2025. In particolare, questo pomeriggio si terrà a Bologna una conferenza pubblica presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle scienze, che sarà possibile seguire anche da remoto, in diretta streaming».

Perché Cassini è considerato una figura così importante nella storia dell’astronomia?

«Giovanni Domenico Cassini nacque l’8 giugno 1625 a Perinaldo (oggi in provincia di Imperia) e aveva appena compiuto otto anni quando Galileo fu costretto a pronunciare l’abiura del copernicanesimo. Cassini si trovò immerso nell’astronomia post-galileiana, ed anzi ne fu uno dei maggiori artefici. I suoi contributi alla comprensione del Sistema solare – che costituiva di fatto l’intero universo per la sua epoca – sono universalmente riconosciuti in Italia e all’estero. Ma Cassini non è stato solo questo. Egli ha partecipato appieno al fermento scientifico che ha caratterizzato il XVII secolo, diventando uno degli attori principali di un nuovo fenomeno, quello della nascita delle Accademie, luoghi di incontro, scambio e crescita per coloro che si occupavano di scienza. Va ricordato che Cassini fu chiamato dal ministro Jean-Baptiste Colbert alla corte di Luigi XIV nel 1669 per dirigere il completamento della costruzione dell’Observatoire de Paris, primo osservatorio astronomico moderno, dove si fermò fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1712, e dove diede origine ad una dinastia di astronomi fino alla quarta generazione».

Quale fu il suo ruolo all’Università di Bologna e come contribuì alla crescita della scuola astronomica bolognese?

«Cassini, dopo aver compiuto i suoi studi presso il Collegio dei Gesuiti di Genova ed essendosi distinto in particolare nell’astronomia, fu invitato dal marchese Malvasia, membro del Senato di Bologna, a occuparsi del suo osservatorio privato di Panzano, oggi in provincia di Modena. Nel 1650 gli fu affidata la cattedra di Astronomia all’Università di Bologna. Nel periodo bolognese, durato quasi vent’anni e terminato col trasferimento a Parigi, Cassini avviò i suoi studi sui corpi del Sistema solare. Si dedicò all’osservazione delle comete e alla previsione del loro moto, aprendo la strada ai lavori di Halley sulle orbite cometarie. Grazie anche ai telescopi di Giuseppe Campani, uno dei migliori ottici dell’epoca, scoprì la macchia rossa di Giove ed alcune macchie sulla superficie di Marte che gli consentirono di calcolare con buona precisione il periodo di rotazione dei due pianeti. Ma i lavori che contribuirono enormemente alla sua fama sono principalmente due».


Linea della meridiana di Cassini, all’interno della basilica di San Petronio, a Bologna

Quali sono questi due lavori?

«Ricordiamo che siamo in piena epoca post-galileiana e la discussione verteva innanzitutto su quale dei due sistemi del mondo fosse quello reale: quello geocentrico, o quello eliocentrico. Per dare una risposta a questa domanda era necessario migliorare la precisione nella conoscenza del moto apparente del Sole e dei pianeti. In particolare era nota una variazione del moto solare, che non è costante nei diversi periodi dell’anno. Si trattava di verificare se tale variazione fosse reale, come previsto dalla seconda legge di Keplero avvalorando il sistema eliocentrico, oppure solo apparente e dovuta alla diversa distanza Terra-Sole durante l’anno, prevista in modo più marcato nei sistemi geocentrici. A tale scopo nel 1655 Cassini realizzò la meridiana di San Petronio come un vero strumento astronomico, che egli chiamava “eliometro”. La grandezza e precisione dello strumento consentirono a Cassini di compiere un accurato confronto tra la variazione del diametro del Sole proiettato e la variazione della velocità del moto durante l’anno, dimostrando che la variazione della velocità è reale e non solo apparente e fornendo così la prima prova sperimentale della seconda legge di Keplero. Inoltre, uno degli scopi della meridiana di San Petronio era anche la verifica della bontà della riforma del calendario introdotta nel 1582 da papa Gregorio XIII. Dello scopo scientifico abbiamo già detto in precedenza».

E il secondo lavoro?

«Come abbiamo visto, Cassini era interessato a migliorare la precisione nella misura dei moti dei corpi del Sistema solare. Questo lo portò a realizzare nel 1668 le effemeridi dei satelliti medicei, di gran lunga le più precise disponibili all’epoca, che offrirono una soluzione all’annoso problema del calcolo della longitudine terrestre. Inoltre, esse furono utilizzate con successo in altre importanti attività e scoperte, come la misura della distanza Terra-Marte, che lo stesso Cassini eseguì insieme al suo assistente Jean Richier in occasione dell’opposizione del pianeta del 1672, e la verifica della velocità finita della luce ad opera di Ole Roemer nel 1675. Anche dopo il suo trasferimento a Parigi, Cassini continuò ad avere contatti con l’area bolognese. Si pensi che il suo nome continuò a essere scritto nei registri dei professori fino all’anno della morte, a dimostrazione del fatto che il Senato accademico auspicava un suo rientro a Bologna. In realtà solo nel 1695 Cassini fece un breve ritorno a Bologna insieme al figlio Jacques per restaurare la meridiana di San Petronio. Attraverso i contatti con Luigi Ferdinando Marsili e gli astronomi Eustachio Manfredi e Vittorio Stancari, Cassini ha poi contribuito a porre le basi per la fondazione dell’Accademia delle scienze di Bologna e dell’Osservatorio astronomico, oggi Museo della Specola».


Cassini, G.D., Guglielmini, D.: “La Meridiana del Tempio di S. Petronio. Tirata e preparata per le Osservazioni astronomiche l’anno 1655. Rivista e restaurata l’anno 1695″, Bologna, 1695

In che modo il suo lavoro a Bologna lo portò a essere chiamato in Francia da Luigi XIV?

«Furono proprio le Ephemerides Bononienses mediceorum siderum del 1668, le tavole dei moti e delle occultazioni dei satelliti di Giove, così precise e fondamentali per il calcolo della longitudine e dunque per la scrittura delle mappe e dei confini dei territori, che resero Cassini così importante agli occhi di Luigi XIV. A Parigi, Cassini sposò il programma di astronomia applicata alla geografia e alla cartografia base dell’attività dell’Académie des Sciences e negli anni si adoperò per creare una rete di osservatori astronomici europei collegati con l’Observatoire de Paris. Per quanto riguarda l’osservazione planetaria, negli anni parigini Cassini scoprì la divisione degli anelli di Saturno e i quattro satelliti Giapeto, Rea, Dione, Teti. Ricordiamo che i lavori di Cassini sullo studio del sistema di Saturno hanno portato le grandi agenzie spaziali Nasa ed Esa, assieme all’Agenzia spaziale italiana, a denominare “Cassini-Huygens” la missione che tra il 1997 e il 2017 ha esplorato da vicino il pianeta e il suo satellite maggiore, Titano. Inoltre, Cassini realizzò una mappa dettagliata della Luna e studiò le anomalie del moto lunare. E ancora, scoprì la causa della luce zodiacale come effetto di riflessione e diffusione della luce solare sulle polveri interplanetarie presenti sul piano dell’ecclittica».


Francesco Poppi è primo tecnologo all’Inaf di Bologna e si occupa di ricerca storica, con particolare attenzione alla storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana dell’Ottocento, e la valorizzazione del patrimonio storico-culturale. Dal 2020 al 2023 è stato curatore del Museo astronomico e copernicano dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Roma

Ci sono ancora oggi tracce del suo lavoro a Bologna che possiamo vedere o visitare, oltre alla meridiana?

«Naturalmente l’eredità più evidente che Cassini ha lasciato a Bologna è la meridiana di San Petronio, ancora la più lunga al mondo che consente di seguire interamente il moto del Sole dal solstizio d’estate a quello invernale, ed è meta di numerosi turisti tutto l’anno. Presso il museo di San Petronio è poi possibile vedere alcuni degli strumenti originali ideati da Cassini per la costruzione della meridiana. Sempre in San Petronio, in alto all’interno del finestrone sul portale d’ingresso è presente un traguardo che Cassini utilizzava per misurare l’altezza della stella polare. Nel museo di Palazzo Poggi nella sezione di fisica e possibile vedere alcune lenti e il prezioso laboratorio di ottica di Giuseppe Campani, che ricordiamo fu uno dei migliori costruttori di telescopi del Seicento, probabilmente i preferiti da Cassini tanto che pretese ne fosse dotato anche l’Osservatorio di Parigi. Sempre presso il museo di Palazzo Poggi esiste un ritratto, olio su tela, XVII secolo, di Giovanni Domenico Cassini».

Cassini applicò le sue conoscenze scientifiche in altri ambiti oltre l’astronomia?

«Sì, come comunemente capitava in passato, l’astronomo doveva occuparsi anche di attività pratiche legate al territorio, oltre alla cartografia. Cassini era ingegnere idraulico del pontefice e dunque era chiamato a sovrintendere la gestione delle acque. Inoltre in ambito militare si occupava di fortificazioni. Inoltre, eseguì esperimenti di trasfusione del sangue e si occupò di osservazioni di insetti».


Per saperne di più sugli eventi in programma:

Il programma delle iniziative per l’Anno cassiniano è consultabile sul sito web dedicato.

L’Anno cassiniano si apre oggi, giovedì 27 febbraio con la conferenza pubblica che si terrà alle 16 presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle Scienze, a Bologna in via Zamboni 31, dal titolo “La misura del mondo: da Cassini ai tempi moderni”, di Bruno Marano (Università di Bologna e Accademia delle scienze di Bologna) e Sandro Bardelli (Istituto nazionale di astrofisica). Sarà possibile seguire l’evento in streaming a questo link.

A questa seguirà una seconda conferenza, il 7 marzo alle 18, presso la Piazza coperta di Salaborsa, Piazza Nettuno 3, Bologna, dal titolo «Une déclaration d’amour»: la mappa lunare di Cassini”, di Fabrizio Bònoli (Università di Bologna) e Agnese Mandrino (Istituto nazionale di astrofisica).



Punch, tutto il Sole in uno sguardo



La Terra è costantemente investita da un flusso di particelle cariche proveniente dal Sole, noto come vento solare. Questo fenomeno influisce non solo sul nostro pianeta, ma anche sui satelliti in orbita, sugli astronauti nello spazio e sulle infrastrutture a terra. La missione Punch (Polarimeter to Unify the Corona and Heliosphere) della Nasa sarà la prima a osservare simultaneamente la corona solare e il vento solare, offrendo una visione integrata del Sole, del vento solare e della loro interazione con la Terra.


Questa animazione mostra l’eliosfera, la vasta bolla generata dal campo magnetico del Sole che avvolge tutti i pianeti. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab

La missione Punch sarà lanciata a bordo di un razzo Falcon 9 di SpaceX dalla base spaziale di Vandenberg in California. Fornirà nuove informazioni sulla formazione e l’evoluzione degli eventi solari potenzialmente dirompenti, e questo potrebbe migliorare la capacità di prevedere con maggiore precisione l’arrivo di eventi meteorologici spaziali sulla Terra. È programmata per condurre attività scientifiche per almeno due anni, dopo un periodo di messa in servizio di 90 giorni dal lancio.

I quattro satelliti della missione Punch, ciascuno delle dimensioni di una valigia, avranno campi di vista sovrapposti che si combinano per coprire una porzione di cielo più ampia rispetto a qualsiasi missione precedente dedicata allo studio della corona e del vento solare. Distribuiti nell’orbita terrestre bassa, forniranno una visione globale della corona solare e della sua transizione verso il vento solare, tracciando sia le tempeste solari che le espulsioni di massa coronale (Cme). Grazie alla loro orbita sincrona con il Sole, potranno osservarlo ininterrottamente 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con il campo visivo solo occasionalmente ostruito dalla Terra.


I campi di vista dei quattro satelliti della missione Punch. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center

Le immagini tipiche delle telecamere sono bidimensionali e comprimono il soggetto 3D in un’immagine 2D, perdendo informazioni, ma Punch sfrutterà la polarizzazione della luce per ricostruire le immagini in 3D. Quando la luce del Sole viene riflessa sulla materia di cui è composta la corona e il vento solare, si polarizza e ogni satellite è dotato di un polarimetro che utilizza tre distinti filtri polarizzatori per catturare informazioni sulla direzione in cui si muove il materiale che andrebbero altrimenti perse.

«Questa nuova prospettiva permetterà agli scienziati di individuare l’esatta traiettoria e la velocità delle espulsioni di massa coronale mentre si muovono attraverso il Sistema solare interno», afferma Craig DeForest, principal investigator di Punch al Southwest Research Institute’s Solar System Science and Exploration Division a Boulder, in Colorado. «Questo costituisce un miglioramento rispetto agli strumenti attuali per due motivi: le immagini tridimensionali ci permettono di localizzare e seguire le Cme che vengono direttamente verso di noi, e l’ampio campo di vista ci permette di seguire queste Cme lungo tutto il percorso dal Sole alla Terra».

Tutti e quattro i veicoli spaziali sono sincronizzati per servire come un unico “strumento virtuale” che copre l’intera costellazione Punch. I satelliti Punch comprendono un Narrow Field Imager e tre Wide Field Imager. Il Narrow Field Imager (Nfi) è un coronografo che blocca la luce del Sole per vedere meglio i dettagli della corona solare, ricreando ciò che sulla Terra si osserva durante un’eclissi totale di Sole. I Wide Field Imagers (Wfi) sono immagini eliosferiche che visualizzano la porzione molto debole e più esterna della corona solare e il vento solare stesso, offrendo un’ampia visione del vento mentre si diffonde nel Sistema solare.


Rappresentazione artistica dei quattro satelliti della missione Punch, in orbita terrestre bassa. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center

Quando queste strutture del vento solare raggiungono il campo magnetico terrestre, possono provocare dinamiche che influenzano le cinture di radiazioni della Terra. Per lanciare i veicoli spaziali attraverso queste fasce, compresi quelli che porteranno gli astronauti sulla Luna e oltre, gli scienziati devono comprendere la struttura del vento solare e i cambiamenti in questa regione.

«La missione Punch è costruita sulle spalle di giganti», dichiara Madhulika Guhathakurta, scienziato della Nasa. «Per decenni, le missioni eliofisiche ci hanno fornito scorci della corona del Sole e del vento solare, offrendo una visione fondamentale ma parziale dell’influenza della nostra stella sul Sistema solare».

Quando gli scienziati combineranno i dati di Punch e della sonda Parker Solar Probe della Nasa, che vola attraverso la corona del Sole, vedranno sia il quadro generale che i dettagli ravvicinati. Lavorando insieme, Parker Solar Probe e Punch copriranno un campo visivo che va da poco più di un chilometro a oltre 260 milioni di chilometri.


Mercoledì 22 gennaio 2025, presso la Astrotech Space Operations, nella base spaziale di Vandenberg, in California, sono stati effettuati ulteriori test per il dispiegamento del campo solare dei satelliti Punch (Polarimeter to Unify the Corona and Heliosphere) della Nasa. Crediti: Ussf 30° Stormo Spaziale/Alex Valdez

Inoltre, il team Punch combinerà i propri dati con diverse osservazioni provenienti da altre missioni, come Codex (Coronal Diagnostic Experiment) della Nasa, che studia la corona dal suo punto di osservazione privilegiato, sulla Stazione spaziale internazionale. I dati di Punch andranno a integrare anche le osservazioni di Ezie (Electrojet Zeeman Imaging Explorer) della Nasa – il cui lancio è previsto per marzo 2025 – che studierà le perturbazioni del campo magnetico associate alle aurore terrestri ad alta quota, che Punch individuerà nel suo ampio campo di vista. Infine, quando il vento solare che Punch osserverà si allontanerà dal Sole e dalla Terra, sarà studiato dalla missione Imap (Interstellar Mapping and Acceleration Probe), il cui lancio è previsto per il 2025.

«La missione Punch farà da ponte tra queste prospettive, fornendo una visione continua senza precedenti che collega il luogo di nascita del vento solare nella corona alla sua evoluzione nello spazio interplanetario», conclude Guhathakurta.




Al Cern, un nuovo magnete a forma di fusillo



Si chiama proprio come uno dei formati di pasta più classici, Fusillo, il nuovo prototipo magnete superconduttore in via di sviluppo al Cern. Un concetto di forma sviluppato per adeguarsi a futuri acceleratori di particelle compatti, come il nuovo anello di accumulazione per l’esperimento Isolde del Cern, ma che ha già trovato un possibile impiego anche in campo medico, ad esempio nella terapia adronica per il trattamento del cancro.


Nell’immagine, il tecnico meccanico del Cern Frédéric Garnier controlla il processo di inserimento del former interno nel former esterno. Sono visibili le scanalature nella struttura esterna del magnete Fusillo, in cui è stato successivamente inserito il cavo. Crediti: M. Struik/Cern

La base del progetto di Fusillo è costituita da un cavo avvolto in due bobine annidate. Le bobine sono inclinate seguendo le scanalature del cosiddetto “former”, una sorta di stampo che potete vedere nell’immagine a destra. La bobina interna è inclinata in direzione opposta rispetto a quella esterna e insieme producono un dipolo all’interno del tubo. Si tratta di un nuovo approccio alla creazione di un campo di dipolo, testato per la prima volta con questo prototipo. Sebbene l’idea di base esista da molti decenni, la potenza di calcolo necessaria per la sua progettazione è stata disponibile solo negli ultimi anni. Per produrre un magnete che possa essere alimentato da una bassa corrente, il team del Cern guidato da Ariel Haziot ha deciso di attorcigliare più fili isolati in una specie di corda che viene poi avvolta intorno al former. I singoli fili sono collegati in modo da permettere alla corrente di fare molti giri intorno alle bobine, creando un elettromagnete con una forza utilizzabile elevata (3 tesla al centro), ma che richiede una quantità relativamente piccola di corrente (300 ampere).

Il concetto di Canted-Cosine-Theta – Cct, un magnete acceleratore che sovrappone campi di solenoidi annidati e inclinati in modo opposto – è un concetto che risale agli anni ’60 ed è in fase di sviluppo al Cern dal 2014. Il progetto di costruzione del dimostratore Cct curvo Fusillo ha già richiesto circa due anni e mezzo. La fase di costruzione sta per concludersi e i primi test su scala reale di questo nuovo magnete sono previsti per aprile. Dopo diverse valutazioni in scala ridotta, infatti, questi test confronteranno il comportamento del magnete con i risultati delle simulazioni e determineranno le fasi successive del processo di sviluppo. Come dicevamo, si prevede che i magneti come Fusillo saranno utilizzati nel nuovo anello di accumulazione (in inglese storage ring) per Hie-Isolde entro circa cinque anni e potrebbero poi essere ulteriormente sviluppati per altre applicazioni, tra cui la terapia adronica – o adroterapia.

L’adroterapia è un tipo di radioterapia che utilizza fasci di protoni o ioni leggeri per irradiare il tessuto canceroso. Rispetto ai raggi X, che utilizzano fasci di luce, i fasci di ioni rilasciano meno energia lungo il loro percorso e più energia in un punto specifico. Ciò provoca meno danni da radiazioni ai tessuti sani che circondano il tumore e consente di somministrare in modo sicuro un dosaggio più elevato, con conseguente distruzione più rapida del tumore. La riduzione dei danni ai tessuti circostanti comporta anche un tasso di tossicità inferiore, il che significa che il paziente si sentirà meglio durante e dopo il trattamento. Negli ultimi decenni, in tutto il mondo sono state costruite oltre cento strutture per la terapia adronica. Tuttavia, pochi centri medici hanno i mezzi per acquistare le macchine per questo trattamento, poiché i magneti necessari sono costosi e in genere richiedono risorse come correnti elevate e raffreddamento con elio. Finora la terapia adronica è offerta solo in alcuni paesi europei e asiatici e negli Stati Uniti, mentre non ne esistono in Africa e c’è solo un centro in costruzione in Sud America. Con il magnete Fusillo, il trattamento potrebbe diventare in futuro più accessibile: la nuova tecnologia richiede infatti una corrente molto più bassa, ha un costo relativamente contenuto ed è anche più compatta, grazie a un design semplificato che richiede meno componenti rispetto ad altri magneti. Si prevede inoltre che Fusillo possa essere raffreddato più facilmente “a secco”, senza utilizzare elio liquido, a differenza di molti altri magneti superconduttori.



Eppur si muovono, ruotando: le galassie di Lewis



Nuovi dettagli sulle galassie ultra diffuse (Udg, dall’inglese ultra diffuse galaxies) sono stati svelati grazie a due studi pubblicati questo mese sulla rivista Astronomy & Astrophysics. I lavori, realizzati con un contributo fondamentale di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica, hanno mappato per la prima volta la cinematica stellare di circa trenta Udg nell’ammasso galattico dell’Idra, distante oltre 160 milioni di anni luce da noi.

La scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della loro storia di formazione ed evoluzione. Questo studio è stato reso possibile grazie al progetto internazionale Lewis (Looking into the faintest with Muse), guidato Enrichetta Iodice, ricercatrice all’Inaf, che ha utilizzato il potente spettrografo a campo integrale Muse, installato al Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile.


Immagine delle galassie Ngc 3314 e Udg 32 acquisite con la OmegaCam installata al telescopio Vst. Crediti: Eso, Inaf/E. Iodice

Le galassie ultra diffuse, scoperte di recente grazie ai progressi tecnologici in astronomia, sono galassie poco luminose ma molto estese e di bassa luminosità. Identificate per la prima volta in grandi quantità nel 2015, la loro natura e il loro processo di formazione sono ancora oggetto di intensa ricerca. Le nuove analisi spettroscopiche con il progetto Lewis hanno rivelato che queste galassie si trovano in ambienti estremamente variabili, mostrando una sorprendente varietà nelle loro proprietà fisiche, come la cinematica delle stelle che le compongono e la quantità di materia oscura presente.

Uno dei risultati più significativi e inaspettati del progetto Lewis è l’identificazione di diverse classi cinematiche di Udg nell’ammasso dell’Idra. Quasi la metà delle galassie esaminate mostra segni evidenti di rotazione nelle stelle che le compongono. Una scoperta che contrasta con una convinzione precedente, secondo cui queste galassie non dovrebbero mostrare questo tipo di moti. Questo risultato potrebbe essere fondamentale per comprendere meglio la struttura di queste galassie e il loro legame con la materia oscura.

«I risultati che abbiamo ottenuto hanno avuto una duplice soddisfazione», dice Chiara Buttitta, ricercatrice postdoc all’Inaf e prima autrice di uno dei due articoli pubblicati su Astronomy & Astrophysics. «Non solo siamo stati in grado di ricavare i moti stellari in queste galassie estremamente deboli, ma abbiamo trovato qualcosa che non ci aspettavamo di osservare».


Rappresentazione di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/Inaf

Le osservazioni hanno permesso in particolare di realizzare un’analisi dettagliata di Udg 32, una galassia ultra diffusa che è stata scoperta all’estremità dei filamenti della galassia a spirale Ngc 3314A. La galassia Udg 32 è appena visibile, ed appare come una debole macchia giallastra nelle immagini. Una delle possibili origini proposte per le Udg è la formazione da nubi di gas nei filamenti di galassie come Ngc 3314A. Questa è rimasta solo un’ipotesi fino a quando è stata scoperta Udg 32. In particolare, una nube di gas presente nei filamenti, se raggiunge la densità critica, sotto l’azione della forza gravitazionale può collassare e formare stelle, diventando un nuovo sistema originatosi dal materiale rilasciato dalla galassia madre. L’analisi dei dati Lewis ha confermato che Udg 32 è associata alla coda di filamenti della galassia Ngc 3314A: quindi non è solo un effetto di proiezione che localizza casualmente Udg 32 nella coda di Ngc 3314A. Inoltre, i nuovi dati hanno mostrato che Udg G32 è caratterizzata da una popolazione stellare ricca di metalli e di età intermedia, più giovane delle altre Udg osservate nell’ammasso dell’Idra, consistente con l’ipotesi che questa galassia potrebbe essersi formata da materiale pre-arricchito nel gruppo sud-est dell’ammasso dell’Idra e quindi liberato da una galassia più massiccia.

Lewis è il primo grande progetto dell’Eso, guidato da Inaf, interamente dedicato allo studio delle Udg. Questo programma ha raddoppiato il numero di galassie ultra diffuse analizzate spettroscopicamente, fornendo per la prima volta una visione globale delle loro proprietà all’interno di un ammasso di galassie ancora in fase di formazione.

«Il progetto Lewis è stata una sfida. Quando questo programma è stato accettato dall’Eso abbiamo realizzato che fosse una miniera di dati da esplorare. E tale si è rivelato», dice Iodice. «La forza di Lewis, grazie alla spettroscopia integrale dello strumento usato, risiede nel poter studiare contemporaneamente, per ogni singola galassia, non solo i moti delle stelle, ma anche la popolazione stellare media e, quindi, avere indicazioni sull’età di formazione e le proprietà degli ammassi globulari, traccianti fondamentali anche per il contenuto di materia oscura. Mettendo insieme i singoli risultati, come in un puzzle, si ricostruisce la storia di formazione di questi sistemi».

Per saperne di più:



Rosso Gilera, Rosso Guzzi, Rosso Marte



Si fa presto a dire “Pianeta rosso”. Ma quale rosso? Così come nel celebre dittico di Alighiero Boetti dall’accostamento fra Rosso Gilera e Rosso Guzzi sembra trapelare tutta la differenza di sfumature fra le due case motociclistiche, l’approfondita analisi cromatica della nuance rugginosa di Marte pubblicata oggi su Nature Communications apre scorci preziosi sull’umido passato del pianeta.

This is your last weekend to catch @ngadc‘s “The Double: Identity and Difference in Art since 1900″—featuring 90 artists, including four visionaries. Plan your visit: t.co/vDbKXQgu7N

Alighiero Boetti, Rosso Gilera 60 1232 / Rosso Guzzi 60 1305 pic.twitter.com/nY5mEgziYu

— Italy in US (@ItalyinUS) October 28, 2022

Marte ha un aspetto che tende al rossastro, lo sappiamo, basta osservarlo anche solo a occhio nudo nel cielo notturno per rendersene conto. E grazie ai tanti satelliti e rover che da decenni ci hanno consentito di studiarlo da vicino sappiamo anche a cos’è dovuta, questa sua colorazione: ai minerali di ferro arrugginiti presenti nella polvere che ne copre la superficie. Arrugginiti a seguito della reazione tra il ferro e l’acqua allo stato liquido, o l’acqua e l’ossigeno in atmosfera, in modo simile a quello che porta alla formazione di ruggine qui sulla Terra. Nel corso di miliardi di anni questo materiale arrugginito è poi stato ridotto in polvere e diffuso su tutto il pianeta dai venti – un processo che continua ancora oggi.


Quest’infografica illustra come Marte si sia trasformato da pianeta grigio e umido a pianeta rosso e polveroso. Da sinistra a destra vediamo la rappresentazione di quattro fasi. Anzitutto il ferro presente nelle rocce reagisce con l’ossigeno e l’acqua e produce la ruggine. Ruggine trasportata nei fiumi, nei laghi, nei mari e incorporata nelle rocce sottostanti. Il vulcano rappresenta una fonte di calore che potrebbe aver sciolto il ghiaccio, sciacquando così ulteriormente la ruggine all’interno di pozze. Nel corso di miliardi di anni, la roccia arrugginita si frantuma poi in polvere. Infine, i venti disperdono questa polvere finissima su tutto il pianeta. Sono anche raffigurati un rover e un orbiter, a rappresentare rispettivamente le analisi dirette e da remoto di questa polvere arrugginita. Crediti: Esa

Il materiale rossastro di questa polvere è chiamato genericamente ossido di ferro: un’etichetta piuttosto vaga, che non identifica una precisa molecola. L’opinione prevalente è che l’ossido di ferro che caratterizza Marte sia ematite, un cosiddetto ossido ferrico. Il nuovo studio giunge invece a concludere che la vera protagonista del “Rosso Marte” sia la ferridrite, un ossi-idrossido di ferro che esiste perlopiù sotto forma di nanoparticolato e ha origine in ambienti ricchi di acqua. Sulla Terra è comunemente associata a processi come l’erosione di rocce e ceneri vulcaniche. Finora il suo ruolo nella composizione della superficie di Marte non era ben compreso, ma i risultati ora pubblicati su Nature Communications suggeriscono che potrebbe costituire una parte importante della polvere che ricopre la superficie del pianeta.


La polvere color terracotta mostrata in questa foto, come la polvere marziana, è morbida e fine, dalla consistenza più simile a quella della farina che a quella della sabbia. Crediti: A. Valantinas

«Perché Marte sia rosso è una domanda fondamentale che ci poniamo da centinaia, se non da migliaia di anni», ricorda il primo autore dello studio, Adomas (Adam) Valantinas, ricercatore postdoc alla Brown University (Usa). «La nostra analisi ci porta a concludere che la ferridrite sia presente ovunque nella polvere e probabilmente anche nelle formazioni rocciose. Non siamo i primi a ritenere che sia la ferridrite la ragione per cui Marte è rosso, ma questo non era mai stato dimostrato nel modo in cui l’abbiamo dimostrato noi ora: utilizzando dati osservativi e nuovi metodi sperimentali per creare, essenzialmente, una polvere marziana in laboratorio».

Quali dati? Principalmente quelli raccolti dallo spazio dal Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa e dai due satelliti Mars Express e Trace Gas Orbiter dell’Esa, e direttamente sul suolo grazie alle misure compiute dai rover della Nasa Curiosity, Mars Pathfinder e Opportunity. Per il confronto, il team guidato da Valantinas ha creato in laboratorio una replica della polvere marziana, usando una macchina smerigliatrice in grado di produrre particelle finissime, appena un centesimo dello spessore di un capello umano. Analizzando poi questi campioni con le stesse tecniche impiegate dai veicoli spaziali in orbita attorno a Marte, così da poter fare un confronto diretto, gli autori dello studio sono giunti infine a scoprire che corrispondenza migliore è, appunto, quella con la ferridrite.

Il risultato suggerisce che in un lontano passato Marte sia stato più umido e dunque potenzialmente più abitabile di quanto si pensasse, perché a differenza dell’ematite, che si forma tipicamente in condizioni più calde e asciutte, la ferridrite richiede la presenza di acqua fresca. Dunque si conferma che Marte potrebbe aver avuto un ambiente in grado di sostenere l’esistenza di acqua allo stato liquido, per poi lasciare posto – miliardi di anni fa – a un ambiente via via più secco, come quello che oggi lo caratterizza.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications l’articolo “Detection of ferrihydrite in Martian red dust records ancient cold and wet conditions on Mars”, di Adomas Valantinas, John F. Mustard, Vincent Chevrier, Nicolas Mangold, Janice L. Bishop, Antoine Pommerol, Pierre Beck, Olivier Poch, Daniel M. Applin, Edward A. Cloutis, Takahiro Hiroi, Kevin Robertson, Sebastian Pérez-López, Rafael Ottersberg, Geronimo L. Villanueva, Aurélien Stcherbinine, Manish R. Patel e Nicolas Thomas


L’asteroide 2024 YR4 non fa più paura



Le nuove osservazioni di 2024 YR4 condotte con il Very Large Telescope (Vlt) dello European Southern Observatory (Eso) e con strutture di tutto il mondo hanno praticamente escluso un impatto dell’asteroide con il nostro pianeta. L’asteroide è stato monitorato attentamente negli ultimi due mesi, poiché le sue probabilità di impatto con la Terra nel 2032 erano salite a circa il 3 per cento – la più alta probabilità di impatto mai raggiunta per un asteroide di grandi dimensioni. Dopo le ultime osservazioni, le probabilità di impatto sono scese quasi a zero.


Orbita dell’asteroide 2024 YR24, qui evidenziata in rosso, mentre si avvicina a quella della Terra il 22 dicembre 2032. Grazie ai dati più recenti, tra cui quelli del Very Large Telescope dell’Eso, le ultime stime sulla possibilità di impatto sono minime. Le dimensioni dei pianeti non sono in scala: sono state aumentate per motivi di visibilità. Crediti: Esa

L’asteroide 2024 YR4, il cui diametro è stimato tra i 40 e i 90 metri, è stato scoperto alla fine dello scorso dicembre su un’orbita che potrebbe portarlo a collidere con la Terra il 22 dicembre 2032. A causa delle sue dimensioni e della probabilità di impatto, l’asteroide era salito rapidamente in cima alla risk list dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un catalogo di tutti gli asteroidi con possibilità di impatto sulla Terra.

Il Vlt dell’Eso è stato utilizzato per osservare 2024 YR4 a metà gennaio, fornendo agli astronomi i dati cruciali necessari per calcolare con maggiore precisione la sua orbita. Combinate con i dati di altri osservatori, le misure molto precise del Vlt hanno consentito di conoscere meglio l’orbita dell’asteroide, arrivando inizialmente a stimare una probabilità d’impatto superiore all’un per cento: una soglia chiave per attivare le procedure di “mitigazione del disastro”. Si sono fatte altre osservazioni e, infine, l’International Asteroid Warning Network ha emesso un avviso di potenziale impatto di asteroide, allertando circa il possibile impatto i gruppi di difesa planetaria, tra cui lo Space Mission Planning Advisory Group.

A seguito dell’osservazione dell’asteroide con numerosi telescopi in tutto il mondo e alla modellazione della sua orbita da parte degli astronomi, il 18 febbraio la probabilità di impatto era salita a circa il 3 per cento, la più alta mai registrata per un asteroide di dimensioni superiori ai 30 metri. Ma già il giorno successivo nuove osservazioni effettuate con il Vlt dell’Eso avevano dimezzato il rischio di impatto.

L’aumento e la diminuzione della probabilità di impatto dell’asteroide seguono uno schema previsto e ben compreso. Per sapere dove si troverà l’asteroide nel 2032, gli astronomi compiono un’estrapolazione dalla piccola porzione di orbita misurata finora. «A causa delle incertezze, l’orbita dell’asteroide è come il fascio di una torcia elettrica: diventa sempre più ampio e sfocato in lontananza. Man mano che aumentano le osservazioni, il fascio diventa più nitido e più stretto», è l’analogia proposta dall’astronomo dell’Eso Olivier Hainaut. «Man mano che questo fascio di luce illuminava maggiormente la Terra, la probabilità di impatto aumentava».

Le nuove osservazioni del Vlt (riportate nel video qui di seguito), insieme ai dati di altri osservatori, hanno permesso agli astronomi di ridurre gli errori sulla stima dell’orbita al punto da poter escludere quasi del tutto un impatto con la Terra nel 2032. «Il fascio più stretto si sta ora allontanando dalla Terra», dice Hainaut. «Al momento in cui scriviamo, la probabilità d’impatto riportata dal Near-Earth Objects Coordination Centre dell’Esa è di circa lo 0,001 per cento e l’asteroide non è più in cima alla risk list dell’Esa.

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Poiché 2024 YR4 si sta ora allontanando dalla Terra, sta diventando sempre più debole e difficile da osservare, tranne che per i telescopi più grandi. Il Vlt dell’Eso è stato fondamentale per le osservazioni dell’asteroide, grazie alle dimensioni del suo specchio e alla sua eccezionale sensibilità, oltre che all’eccellente cielo buio dell’Osservatorio Paranal dell’Eso, in Cile, dove si trova il telescopio. Ciò lo rende ideale per individuare oggetti deboli come 2024 YR4 e altri asteroidi potenzialmente pericolosi.

Purtroppo, gli stessi cieli bui e incontaminati del Paranal che hanno reso possibili queste misurazioni cruciali sono oggi minacciati dal megaprogetto industriale Inna di Aes Andes, una filiale della società elettrica statunitense Aes Corporation. Il progetto prevede di coprire un’area di dimensioni simili a quelle di una piccola città e si trova, nel punto più vicino, a circa 11 km dal Vlt. A causa delle sue dimensioni e della sua vicinanza, l’Inna avrebbe effetti devastanti sulla qualità del cielo del Paranal, soprattutto a causa dell’inquinamento luminoso prodotto dagli impianti industriali. Con un cielo meno buio, telescopi come il Vlt perderanno la capacità di rilevare alcuni degli obiettivi cosmici più deboli.

«Con un cielo più luminoso, avverte Hainaut, «il Vlt perderebbe di vista il debole 2024 YR4 circa un mese prima, e questo comporterebbe un’enorme differenza nella nostra capacità di prevedere un impatto e preparare misure di mitigazione per proteggere la Terra».

Fonte: press release Eso

Per saperne di più:

Guarda sul canale YouTube dell’Eso l’evoluzione della stima del rischio d’impatto per 2024 YR4:

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Culle stellari come zucchero filato




La Piccola Nube di Magellano. Crediti: Eso/Vista Vmc

Dalle nubi di gas molecolare si formano le stelle. Nella nostra galassia queste nubi si presentano con le fattezze di lunghissimi filamenti, larghi un terzo di anno luce – più o meno tremila miliardi di chilometri. Un addensamento di gas, pressato dalla forza di gravità in uno di questi filamenti, si pensa che in un tempo remoto – oltre quattro miliardi e mezzo di anni fa – abbia generato il Sole e il suo sistema di pianeti. E ancora prima, dove si formavano le stelle nell’infanzia dell’universo?

Prova a rispondere a questa domanda un articolo uscito la scorsa settimana su The Astrophysical Journal. Gli autori dello studio hanno osservato 17 nubi di gas molecolare nella Piccola Nube di Magellano, galassia satellite della Via Lattea. Scoprendo che non sempre la formazione stellare avrebbe luogo all’interno di lunghi filamenti. Le culle di certi astri somiglierebbero più a delle soffici nuvolette, piuttosto. Scoperte dietro casa, e che pure potrebbero raccontarci qualcosa dei luoghi in cui nascevano le stelle nei primi miliardi di vita dell’universo.

«In totale, abbiamo raccolto e analizzato dati da 17 nubi molecolari. Ognuna di queste nubi molecolari aveva stelle neonate in crescita con una massa pari a 20 volte quella del nostro Sole», spiega Kazuki Tokuda, ricercatore postdoc presso la facoltà di scienze dell’Università di Kyushu, in Giappone, e primo autore dello studio. «Abbiamo scoperto che circa il 60 per cento delle nubi molecolari che abbiamo osservato aveva una struttura filamentosa con una larghezza di circa 0,3 anni luce, ma il restante 40 per cento aveva una forma “soffice”. Inoltre, la temperatura all’interno delle nubi molecolari filamentose era più alta di quella delle nubi molecolari soffici».

Non dunque imponenti cordoni di materia, piuttosto pesantissimo zucchero filato ricorderebbero le nubi indagate dagli scienziati. Che le hanno immortalate sfruttando la risoluzione sopraffina dell’interferometro Alma, localizzato in Cile, catturando l’emissione del monossido di carbonio. Ma tra tutte le galassie che avevano a disposizione, perché i ricercatori hanno scelto di studiare proprio la Piccola Nube di Magellano? Intanto perché si trova, come si diceva, “dietro casa”, nel senso che la sua prossimità alla Via Lattea ci consente di osservare nel dettaglio quel che accade al suo interno. Ma soprattutto perché è una galassia povera di metalli, ovvero di quegli elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. Per fare un confronto, la Via Lattea è cinquanta volte più ricca di metalli rispetto alla sua piccola dirimpettaia. Questa caratteristica rende la Piccola Nube di Magellano analoga all’ambiente tipico che si registrava nella prima parte della storia cosmica, circa dieci miliardi di anni fa. Quando ancora non si erano avvicendate diverse generazioni di stelle, responsabili dell’arricchimento chimico del mezzo interstellare. Gli studiosi si sono dunque rivolti al vicino e al recente per cercare i dettagli dell’antico e dell’imponderabile.


La Piccola Nube di Magellano in un’immagine infrarossa del telescopio Herschel. I cerchi indicano le posizioni delle nubi molecolari osservate con Alma e ingrandite nei riquadri. Le strutture filamentose sono riquadrate in giallo mentre quelle soffici in blu. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), Tokuda et al., Esa/Herschel

«Nell’universo di oggi la nostra comprensione della formazione stellare è in fase di sviluppo, comprendere come le stelle si sono formate nell’universo più antico è ancora più difficile», continua Tokuda. «L’universo primordiale era molto diverso da oggi, e popolato principalmente da idrogeno ed elio. Gli elementi più pesanti si sono formati più tardi in stelle di grande massa. Non possiamo tornare indietro nel tempo per studiare la formazione stellare nell’universo primordiale, ma possiamo osservare zone dell’universo con ambienti simili all’universo primordiale».

Che implicazioni avrebbe la forma delle nubi sul processo di formazione stellare? Le nubi filamentose sembrerebbero maggiormente predisposte alla generazione di nuovi astri simili al Sole, spaccandosi in certi punti e generando decine e decine di stelle di piccola massa. Al contrario, queste stelle emergerebbero con maggiore difficoltà dalle strutture soffici. Sembrerebbe che queste strutture vaporose si formino a partire dalle prime a causa delle turbolenza iniettata dal gas che precipita sui filamenti in fase di raffreddamento, smussandone la forma. Negli ambienti ricchi di metalli, dunque, i filamenti di gas molecolare sembrerebbero favoriti, e dunque favorita sarebbe anche la nascita di sistemi planetari simili al Sistema solare.


Zoom su una nube molecolare filamentosa (sinistra) e su una soffice (destra). In entrambe le nubi si stanno formando stelle. La scala nell’immagine a sinistra indica le dimensioni di un anno luce. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), Tokuda et al.

«Questo studio indica che l’ambiente, ovvero un’adeguata disponibilità di elementi pesanti – i metalli –, è cruciale per il mantenimento di una struttura filamentosa e può svolgere un ruolo importante nella formazione di sistemi planetari», conclude Tokuda. «In futuro, sarà importante confrontare i nostri risultati con le osservazioni di nubi molecolari in ambienti ricchi di elementi pesanti, tra cui la Via Lattea. Questo tipo di studi dovrebbe fornire nuove informazioni sulla formazione e l’evoluzione temporale delle nubi molecolari e dell’universo.»

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Un pilastro di luce sull’Etna innevato



Una colata lavica può estendersi nel cielo? No, ma la luce della colata lavica può farlo e la Astronomy Picture of the Day (Apod) della Nasa lo dimostra. La splendida fotografia che vedete in questa pagina è opera di Davide Caliò, geologo con una grande passione per la fotografia naturalistica e paesaggistica. Nei suoi scatti, unisce l’aspetto scientifico a quello artistico, trasformando fenomeni naturali ed eventi geologici in immagini di grande impatto visivo ed emotivo. E questa volta ci è riuscito perfettamente, catturando un fenomeno davvero insolito: una colonna di luce vulcanica.


Colonna di luce sull’Etna in eruzione. Crediti & copyright: Davide Caliò

Di solito, i pilastri di luce sono fenomeni ottici atmosferici causati dalla luce solare e appaiono come colonne luminose che si estendono verso l’alto sopra il Sole all’alba o al tramonto. Questo effetto si genera quando la luce viene riflessa da minuscoli cristalli di ghiaccio sospesi nell’atmosfera o nelle nuvole ad alta quota. Esistono anche altri tipi di pilastri di luce, alcuni dai colori vivaci, osservati sopra le luci di strade e abitazioni. In questo caso, però, il pilastro luminoso è illuminato dalla luce rossa sprigionata dal magma incandescente dell’Etna. L’immagine è stata catturata in un singolo scatto durante una mattinata di metà febbraio.


Davide Caliò, autore della Nasa Apod del 25 febbraio 2025. Crediti: D. Caliò

«È successo tutto in pochissimi minuti», racconta Caliò, autore dello scatto. «Stavamo risalendo la strada Altomontana per raggiungere il fronte della colata in atto, immersi nel buio e nel silenzio della notte. Poi, all’improvviso, un fascio luminoso ben visibile a occhio nudo si è esteso per centinaia di metri, forse chilometri, sopra il vulcano. L’adrenalina è salita, abbiamo gettato gli zaini a terra per montare il treppiede, impostato la fotocamera e scattato. Il primo scatto ha catturato in modo chiaro ed evidente il Light Pillar, mentre nei due successivi, a distanza di 13 secondi l’uno dall’altro, il fenomeno era quasi del tutto svanito. È stato un istante irripetibile, un frammento di luce sospeso nel tempo, che ho avuto la fortuna di immortalare».

Le temperature sotto lo zero sopra il flusso di lava dell’Etna hanno favorito la formazione di cristalli di ghiaccio, sia nell’aria sovrastante il vulcano che nel vapore acqueo condensato emesso dall’eruzione. Questi cristalli, che tendono a disporsi orizzontalmente mentre discendono, riflettono la luce sottostante. La loro presenza a diverse altitudini crea un effetto di allungamento verticale del riflesso, dando origine a una colonna luminosa. Quanto più numerosi e grandi sono i cristalli, tanto più marcato risulta questo fenomeno.



Connettere chiunque dovunque? Occorrono regole



Siamo animali sociali e abbiamo bisogno di comunicare. Un tempo si scrivevano lettere, poi la tecnologia ci ha dato il telegrafo, il telefono, il fax, il cellulare, evoluto nello smartphone che ha reso obsoleto tutto il resto. Per quanto smart, il nostro telefonino non è autonomo, ha sempre bisogno di connettersi con un ripetitore che veicola il suo segnale alla rete di terra. Tutti sappiamo che non sempre la connessione è ideale e, quando ci troviamo in aree isolate, in montagna, nel mezzo del mare l’assenza di segnale può fare nascere la sensazione di essere isolati. Sensazione normale fino a pochi anni fa, quando capitava spesso che in viaggio o nella casa in campagna il cellulare non prendesse, oppure avesse costi proibitivi, ma oggi decisamente più rara, tanto da essere accompagnata da un senso di inquietudine. Come potrei chiedere aiuto se mi succedesse qualcosa?

SpaceX’s first launch of 2024 deployed our first set of Starlink sats with the Direct to Cell capability to help end cell-phone dead zones. Today, the Direct to Cell constellation is nearly 10x the size of all other operators pursuing a similar capability combined pic.twitter.com/dfwsxvMBDx

— Starlink (@Starlink) December 31, 2024

La tecnologia, sempre attenta ai nostri bisogni, oggi ci offre diverse soluzioni anti-isolamento. Se vogliamo restare connessi anche quando ci prendiamo una pausa e andiamo in campeggio in qualche luogo remoto, Starlink offre un terminale da passeggio che sta in uno zaino e permette di avere accesso al segnale internet satellitare fornito dagli oltre seimila satelliti che operano nell’orbita bassa. Se invece si preferisce viaggiare leggeri, a partire da quest’anno verrà offerta la possibilità di utilizzare il servizio Direct To Cell, che permette di connettersi al satellite Starlink direttamente da cellulare per inviare brevi messaggi. È un servizio pensato più che altro per situazione d’emergenza. Ma presto crollerà anche l’ultimo baluardo dell’isolamento dal momento che sarà disponibile la connessione a banda larga via satellite. L’hanno provata pochi giorni fa ed è frutto della collaborazione tra la compagnia satellitare Ast SpaceMobile e Vodafone. Il servizio funziona con un normale cellulare 4G o 5G che, per chiamare da un’area non coperta, si connette a un satellite Bluebird di Ast SpaceMobile che poi rimbalza la chiamata a un’antenna che agisce da gateway per entrare nelle rete terrestre Vodafone. In questo modo è stata realizzata la prima videochiamata da una zona del Galles priva di segnale.

Connettere chiunque dovunque avrà senza dubbio successo ed è questo che mi preoccupa. I satelliti Bluebird sono coperti da antenne ad allineamento di fase distribuite su una superficie di circa 60 metri quadri. Sono l’equivalente di un monolocale in orbita che riflette la luce del Sole e di notte è più luminoso delle stelle visibili a occhio nudo. Adesso i satelliti Bluebird sono cinque ma non sono sufficienti per fornire un servizio continuo. Ce ne vorranno almeno 50-60 e la società sta costruendo satelliti ancora più grandi e potenti, capaci di disturbare seriamente sia le osservazioni ottiche sia quelle radio. Mentre il problema in ottico è legato alla riflessione del Sole, in radio la situazione è anche peggio, perché i satelliti usano le onde radio per comunicare con la Terra e il loro segnale è molto più potente di quelli cosmici.

t.co/NElIX5INyw

— AST SpaceMobile (@AST_SpaceMobile) January 31, 2025

Queste prospettive non possono fare altro che aumentare la preoccupazione di tutti coloro che vorrebbero preservare un cielo buio e silenzioso, o perlomeno trovare un ragionevole compromesso per permettere le osservazioni con i telescopi ottici e radio. La proliferazione del numero dei satelliti che orbitano intorno alla terra a circa 500 km di altezza è legata alla crescita tumultuosa della space economy, che fornisce servizi utilissimi a migliorare la vita di tutti noi, ma offre un chiaro esempio della tensione tra l’innovazione e le sue conseguenze. Ci vorrebbe una politica spaziale e un sistema di governance adattabile all’evoluzione delle attività spaziali e ai loro impatti imprevisti. Ne ho parlato nel mio ultimo libro Ecologia spaziale (Hoepli), dove esamino gli impatti globali della nostra fiorente attività spaziale. Non si tratta di essere pro o contro la crescita della space economy: mancano leggi internazionali per regolare un settore strategico che vede la presenza preponderante di pochissimi privati che monopolizzano lo spazio orbitale. Il problema si riproporrà sulla Luna dove si moltiplicano le missioni per preparare lo sfruttamento commerciale di risorse che sono un patrimonio di tutti, ma non appartengono a nessuno.



Tutti i buchi neri di Desi



Grazie ai primi dati raccolti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), un team di scienziati ha ottenuto il più grande campione di galassie nane che ospitano un buco nero attivo, oltre alla più ampia collezione di candidati buchi neri di massa intermedia. Questo duplice risultato non solo amplia la nostra comprensione della popolazione di buchi neri nell’universo, ma getta anche le basi per ulteriori esplorazioni sulla formazione dei buchi neri primordiali e sul loro ruolo nell’evoluzione delle galassie.


Rappresentazione artistica di una galassia nana che ospita un nucleo galattico attivo. Sullo sfondo sono rappresentate molte altre galassie nane che ospitano buchi neri attivi, oltre a una varietà di altri tipi di galassie che ospitano buchi neri di massa intermedia. Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/J. da Silva/M. Zamani

Desi è uno strumento all’avanguardia in grado di catturare la luce di 5mila galassie contemporaneamente. È stato costruito e viene gestito con i finanziamenti dell’Office of Science del Dipartimento dell’energia (Doe) degli Stati Uniti, ed è montato sul telescopio di 4 metri Nicholas U. Mayall della National Science Foundation (Nsf) presso il Kitt Peak National Observatory. Il programma del NoirLab è ora al suo quarto di cinque anni di osservazione del cielo e prevede di osservare circa 40 milioni di galassie e quasar entro la fine del progetto.

Con i primi dati, che comprendono la validazione della survey e il 20 per cento del primo anno di attività, il team, guidato da Ragadeepika Pucha dell’Università dello Utah, è stato in grado di ottenere un set di dati senza precedenti che comprende gli spettri di 410mila galassie, tra cui circa 115mila galassie nane.


Questo mosaico mostra una serie di immagini di candidate galassie nane che ospitano un nucleo galattico attivo, catturate con la Hyper Suprime-Cam del Subaru Telescope. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Naoj/Hsc Collaboration/D. de Martin (Nsf NoirLab) & M. Zamani (Nsf NoirLab)

Mentre gli astrofisici sono abbastanza sicuri che tutte le galassie massicce, come la Via Lattea, ospitino buchi neri al loro centro, il quadro diventa poco chiaro man mano che ci si sposta verso galassie con massa minore. Trovare i buchi neri è già di per sé una sfida, ma identificarli nelle galassie nane è ancora più difficile, a causa delle loro piccole dimensioni e della limitata capacità dei nostri attuali strumenti di risolvere le regioni vicine a questi oggetti. Un buco nero che si alimenta attivamente, invece, è più facile da individuare.

«Quando un buco nero al centro di una galassia inizia ad alimentarsi, sprigiona un’enorme quantità di energia nell’ambiente circostante, trasformandosi in quello che chiamiamo nucleo galattico attivo», spiega Pucha. «Questa drammatica attività funge da faro e ci permette di identificare i buchi neri nascosti in queste piccole galassie».

Lo studio ha permesso al team di identificare ben 2.500 galassie nane candidate a ospitare un nucleo galattico attivo (o Agn, dall’inglese active galactic nuclei), il più grande campione mai scoperto. La percentuale significativamente più alta di galassie nane con un Agn (2 per cento) rispetto agli studi precedenti (circa 0,5 per cento) è un risultato entusiasmante, che suggerisce come un numero sostanziale di buchi neri di bassa massa sia ancora da scoprire. In una ricerca separata attraverso i dati Desi, il team ha identificato 300 candidati buchi neri di massa intermedia, la raccolta più ampia fino ad oggi.

La maggior parte dei buchi neri conosciuti sono stellari (meno di cento volte la massa del Sole) o supermassicci (oltre un milione di volte la massa del Sole). Quelli che si collocano tra questi due estremi rimangono poco conosciuti, ma si ipotizza che siano i resti dei primissimi buchi neri formatisi nell’universo primordiale e i semi dei buchi neri supermassicci che oggi si trovano al centro delle grandi galassie. Tuttavia, questi oggetti restano estremamente sfuggenti, con solo circa 100-150 candidati noti fino a oggi. Grazie all’ampia popolazione scoperta da Desi, gli scienziati dispongono ora di un ricco set di dati per studiare questi enigmi cosmici.


Questo mosaico mostra una serie di immagini di candidati buchi neri di massa intermedia, disposti in ordine crescente di massa stellare, catturati con la Hyper Suprime-Cam del Subaru Telescope. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Naoj/Hsc Collaboration/D. de Martin (Nsf NoirLab) & M. Zamani (Nsf NoirLab)

«Il design tecnologico di Desi è stato importante per questo progetto, in particolare le dimensioni ridotte delle sue fibre, che ci hanno permesso di ingrandire meglio il centro delle galassie e di identificare le sottili firme dei buchi neri attivi», spiega Stephanie Juneau, astronoma associata al Nsf NoirLab e coautrice dell’articolo. «Con altri spettrografi a fibre ottiche con fibre più grandi, entra più luce stellare dalla periferia della galassia e diluisce i segnali che stiamo cercando. Questo spiega perché in questo lavoro siamo riusciti a trovare una frazione maggiore di buchi neri attivi rispetto agli sforzi precedenti».

In teoria, i buchi neri presenti nelle galassie nane dovrebbero appartenere alla categoria di massa intermedia. Tuttavia, solo 70 dei candidati buchi neri di massa intermedia appena scoperti coincidono con i candidati Agn nelle galassie nane. Questo risultato aggiunge un ulteriore livello di interesse alla scoperta e solleva nuove domande sulla formazione e l’evoluzione dei buchi neri all’interno delle galassie. «Ad esempio, esiste una relazione tra i meccanismi di formazione dei buchi neri e i tipi di galassie in cui si trovano?», si domanda Pucha. «La vasta quantità di nuovi candidati ci permetterà di approfondire questi misteri, arricchendo la nostra comprensione dei buchi neri e del loro ruolo centrale nell’evoluzione delle galassie».

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