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In ricordo di Nino Panagia



Nino Panagia è nato e cresciuto a Roma e si è laureato in fisica presso l’Università di Roma, dove ha conseguito il dottorato nel 1966. Alla fine degli anni ’60 e ’70 ha ricoperto incarichi presso l’Istituto di astrofisica spaziale di Frascati, in Italia, e l’Istituto di radioastronomia di Bologna. Alla fine degli anni ’70 visitò gli Stati Uniti per un anno per lavorare con il dottor Yervant Terzian alla Cornell University e decise che voleva lavorare e vivere negli Stati Uniti. Negli anni ’80, come dipendente dell’Agenzia spaziale europea, fu invitato dal professor Riccardo Giacconi a unirsi al nuovo Space Telescope Science Institute, responsabile della missione scientifica del telescopio spaziale Hubble. Nel 1986 fu nominato professore ordinario al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Catania dove ha insegnato fino al 1995 e ha continuato a ritornare, negli anni successivi, come associato Inaf all’Osservatorio astrofisico di Catania.

Nino era ben noto per la sua intensa, attiva e lunga carriera scientifica, con più di trecento articoli in riviste peer reviewed in quasi sessant’anni e conferenze tenute in tutto il mondo su una varietà di argomenti di astrofisica, tra cui le supernove, le stelle massicce, il mezzo interstellare e la formazione stellare. È stato uno dei primi astronomi emeriti nominati presso lo Space Telescope Science Institute. Ha vinto il prestigioso Premio Gruber in Cosmologia nel 2007 per il suo ruolo nella determinazione del tasso di espansione dell’universo. Infine, è stato collaboratore del team di Saul Perlmutter, insignito del Premio Nobel per la fisica nel 2011 per la scoperta riguardante l’accelerazione dell’espansione dell’universo attraverso lo studio delle supernove.



Nino Panagia davanti al suo ufficio allo Space Telescope Science Institute

«Mi è difficile commentare la scomparsa di Nino in modo “bilanciato”, senza rischiare di cadere nei soliti luoghi comuni secondo cui chi ci lascia era sempre il “migliore”. Non saprei dire se questo fosse vero, ma sono sicuro che a lui sarebbe piaciuto che noi lo pensassimo. La sua profonda conoscenza dell’astrofisica, sia negli aspetti teorici che nelle applicazioni pratiche, lo rendeva un astronomo di straordinaria versatilità. Poteva “transitare” con disinvoltura da una trattazione quantitativa del “Bondi accretion” a una discussione dettagliata dei bias connessi con la riduzione delle osservazioni astronomiche, per terminare con la preparazione di una meravigliosa pasta con i broccoli. L’identificazione del progenitore di Sn 1987A e la misura della sua distanza (assieme a Roberto Gilmozzi, un altro “fedelissimo” del “Professore”, come molti chiamavano Nino a Stsci) sono alcuni dei fiori all’occhiello della sua variegata produzione scientifica. Riporto un dato significativo, che testimonia il valore del suo contributo all’astrofisica: il suo lavoro “Some Physical Parameters of Early-Type Stars”, pubblicato nel 1973, continua a essere citato ininterrottamente da 52 anni, incluso il 2025. Forse l’aspetto che più emoziona, chiunque sia stato suo studente o giovane collaboratore, era la sua capacità di insegnare astrofisica durante la stesura dei manoscritti, trasmettendo non solo le conoscenze scientifiche, ma anche l’arte di scrivere un lavoro scientifico, concentrandosi esclusivamente sugli elementi essenziali e tralasciando il “superfluo”. Il suo aforisma motivazionale era: “se lo fai bene, viene meglio”.

Quando era a capo della divisione “Academic Affairs” di Stsci aveva un ufficio d’angolo molto grande. Lo aveva arredato stile museo inglese di epoca vittoriana, che sembrava il negozio di un antiquario gestito da una nobildonna della stessa epoca. Ne era molto fiero, e spesso vi rimaneva fino a sera tarda a lavorare alla luce di una lampada fioca. La scena sembrava uscita da un film di Agatha Christie, però non lo hanno mai accoltellato.

Aveva un carattere un po’ “umorale”, che cambiava come il tempo. Nelle giornate “nuvolose” poteva diventare polemico e meticoloso (per usare un eufemismo) all’inverosimile. I litigi, accompagnati da celebri epiteti, riecheggiano ancora nei corridoi dello Stsci: il suo “sei st.… e in malafede” è leggenda. Una volta, un cupo Massimo Stiavelli venne in ufficio e di punto in bianco mi chiese se fosse meglio farsi cavare un molare senza anestesia o avere Nino come referee. La risposta la conosce il mio dentista».

Massimo Della Valle

Letto e sottoscritto da: Roberto Gilmozzi, Massimo Stiavelli, Claudia Scarlata, Guido de Marchi, Martino Romaniello, Sandra Savaglio, Piero Rosati, Mauro Giavalisco, Antonella Nota, Letizia Stanghellini, Piero Madau, Paolo Padovani, Daniela Calzetti, Monica Tosi, Carla Cacciari, Filippo Mannucci, Francesca Matteucci e Gianni Zamorani. Ci mancherai, Nino, ma sarai sempre con noi.



Nino Panagia con Guido De Marchi nel patio di casa sua

«Conosco Nino da 35 anni e negli ultimi 15 abbiamo lavorato a stretto contatto, scrivendo insieme più di 30 papers. Quante telefonate, quanti messaggi, ma soprattutto quante chiamate su Skype, almeno una al giorno! Le nostre famiglie lo sapevano, quando Diana o Henk si sentivano dire “I am on the phone with Guido” o “Nino is calling on Skype” sapevano che per la successiva mezz’ora tutte le altre faccende di casa sarebbero passate in secondo piano. Certo, discutevamo di scienza e di ricerca, di estinzione e di eccesso in H-alpha, di spettri e di fotometria, ma anche di tante altre cose, compresa la storia antica e le ricette di cucina. E quando la malattia di Nino ha reso più difficili le comunicazioni a distanza, rimaneva sempre la possibilità, ogni qualche mese, di sedersi insieme e di parlare, di scienza o di altro. Questa è l’ultima foto scattata a casa sua, in giardino, sperando che le nostre osservazioni con Jwst del mese successivo sarebbero state un successo (lo sono state!).

Nel bellissimo pezzo scritto da Massimo Della Valle emerge il Nino che in tanti abbiamo conosciuto e a cui abbiamo voluto un gran bene, il Nino pignolo e il Nino accomodante, il Nino preparatissimo e il Nino maestro, il Nino che all’università era conosciuto per poter dimostrare con uguale convinzione una cosa e il suo contrario, e il Nino del “se lo fai bene, viene meglio”, che era diventata la sua massima. Ma non era la sola. Ne voglio ricordare un’altra che Nino menzionava spesso durante la nostra ricerca: “non lo facciamo perché è difficile, come diceva JFK, ma perché è facile eppure nessuno ci ha ancora pensato!” Questo ha ispirato molta della nostra ricerca insieme: fare quello che è possibile ed assicurarsi che sia solido e robusto, perché “se lo fai bene, viene meglio!”

Conoscere Nino e lavorare con lui per tutti questi anni è stato per me un onore e un vero piacere. Ora è difficile dirgli addio, ma bisogna. Per fortuna rimangono i ricordi, tanti e belli, e per me anche lo squillo inconfondibile di Skype: Nino is calling!».

Guido De Marchi



Nino Panagia con Monica Tosi

«Nino Panagia è la persona che per prima mi ha insegnato a fare ricerca. Laureata da pochi mesi, lo conobbi a un congresso a Frascati e non dimenticherò mai il suo sguardo, vero specchio di una mente eccezionalmente acuta e, forse, di un’anima inquieta. Lavorando con lui imparai sia il suo metodo di ricerca scientifica sia il modo per descriverne adeguatamente i risultati. In sintesi, da lui ho imparato tutto.

Negli anni ci siamo ritrovati tante volte: prima nei suoi ultimi anni a Bologna, insoddisfatto del sistema italiano, troppo burocratico; poi nei suoi anni a Baltimora, i difficili anni pionieristici di creazione di Stsci e di preparazione all’utilizzo di Hst, seguiti dagli anni felici del consolidamento dei successi di Hst e suoi personali, finalmente con tanti giovani promettenti a seguirlo nei vari campi di interesse in cui Nino brillava con le sue intuizioni, la sua competenza e il suo estro. L’ultima volta che l’ho incontrato, una decina di anni fa, era già in pensione, uno dei primi emeriti a Stsci, ma era il solito Nino e per me resterà sempre quello: pungente, critico, pieno di idee per nuovi progetti scientifici».

Monica Tosi



Nino Panagia con Howard Bond, Larry Petro, Nolan Walborn, Carla Cacciari, Brad Whitmore e Loretta Willers

«Ho conosciuto Nino a Baltimora nel settembre 1984, quando si unì al gruppo Esa presso lo Space Telescope Science Institute, in preparazione di Hubble il cui lancio era allora previsto per il 1986. Fummo assegnati entrambi al Guest Observer Support Branch (Gosb), incaricato di definire e implementare le procedure per la gestione delle domande di tempo osservativo, e di curare la loro prima applicazione ai programmi di tempo garantito. Il Gosb era guidato da Neta Bahcall, e ricordo con nostalgia e divertimento le discussioni animate nel gruppo e soprattutto fra Neta e Nino, che proponeva soluzioni innovative e originali per quello che doveva essere uno strumento all’avanguardia nella ricerca astronomica dei decenni successivi. I nostri interessi scientifici non coincidevano, ma Nino era sempre disponibile a discutere di tutto con una visione critica e brillante, un punto di riferimento importante per tutti i colleghi e specialmente per i più giovani. Vorrei ricordarlo anche per i suoi interessi al di fuori del lavoro, il suo gusto per le cose belle, il desiderio di amicizia e convivialità, la sua abilità culinaria – mitico il suo cheesecake! – e le bellissime azalee del suo giardino. L’amore per la conoscenza, certo, ma anche la ricerca di quello che rende la vita piena e bella».

Carla Cacciari


«Ho conosciuto Nino ormai vent’anni fa per un articolo sui lampi di luce gamma collegati a stelle di grande massa. Mi hanno subito colpito la sua enorme cultura scientifica (e non solo) e la sua “italianità” anche in terra straniera. Con Nino si parlava di tutto, di scienza, di cucina, di musica e di cultura in generale, sempre con entusiasmo e competenza».

Sergio Campana



Nino Panagia con studenti e personale dell’osservatorio astrofisico di Catania

«Ho conosciuto Nino quando ero studente di fisica all’università di Catania e ne ho apprezzato subito le straordinarie doti didattiche. La teoria spiegata con grande chiarezza prendeva subito forma quando ne mostrava le applicazioni concrete a fenomeni astrofisici. Quando gli chiesi la tesi l’anno dopo me la concesse confessandomi che io ero il secondo studente a cui avesse mai dato una tesi. Questo segnò l’inizio di una collaborazione fruttuosa che si è protratta per ben quindici anni ma anche di un percorso che avrebbe avuto un impatto significativo sulla mia formazione e sulla mia vita professionale. Riflettendo su quel momento, a distanza di tempo, mi rendo conto di quanto quella sua decisione abbia rappresentato una svolta significativa nella mia vita, orientandola verso direzioni inaspettate e contribuendo a formare la persona che sono oggi.

Durante gli anni trascorsi allo Space Telescope Science Institute, prima come dottorando, poi come Esa fellow e infine come visitatore, ho avuto l’opportunità di apprezzare non solo le sue straordinarie competenze scientifiche, ma anche le sue qualità umane. Molti sono i ricordi legati a quel periodo. Le lunghe discussioni nel suo studio in cui riusciva sempre a convincermi della necessità di approfondire analisi o fare nuovi calcoli, talvolta ritardando la pubblicazione di un lavoro, per garantire risultati migliori, o quella volta in cui, nella cucina di casa sua, discutemmo vivacemente su quale fosse il modo migliore per cucinare le melanzane per la pasta alla norma. Quella volta, forse, riuscii ad avere la meglio.

Ciao Nino».

Salvo Scuderi


«Dal 1965 al 1968 Nino ed io eravamo ambedue al Laboratorio di astrofisica di Frascati, dirimpetto al Sincrotrone dell’Infn. Perdipiù, abitavamo con le famiglie nella stessa casa, lui al pianterreno, io al secondo. A quell’epoca eravamo tutti “tutorless” e dovevamo inventarci un campo di ricerca tutto da noi. Così, a un certo punto lui si mise sui processi radiativi in situazioni astrofisiche e io andai sull’evoluzione stellare. È di quegli anni il suo celebrato articolo sul continuo nebulare dovuto al decadimento a due fotoni. Una cosa proprio oggi di estrema attualità, con galassie ad altissimo redshift i cui spettri Jwst mostrano il “Balmer jump” (il contrario del “break”) dovuto infatti al continuo nebulare. Quanto gli sarebbe piaciuto assistere a queste scoperte!

Poi io mi trasferii a Bologna e di lì a poco anche lui. Eravamo in due diversi istituti, ma ci vedevamo ogni tanto per discutere di vari argomenti e io contavo sul suo consiglio circa le proprietà dei grani interstellari, l’estinzione e simili.

Gli interessi di Nino coprivano una varietà di campi, dalle supernove agli Agn (fu Nino a inventare i “Plerioni”) ai venti stellari ed altro. Con approcci originali ha prodotto risultati importanti in tutti questi campi, e provava particolare soddisfazione se poteva trattare con precisione finanche le sottigliezze.

Siamo tutti unici, ma Nino lo era eccome».

Alvio Renzini



Asteroide 2024 YR4, la storia si ripete



I lettori interessati agli asteroidi near-Earth ricorderanno i casi degli asteroidi 2023 DW e 2023 DZ2, due asteroidi di circa 50-60 metri di diametro che erano arrivati ad avere una probabilità massima d’impatto con la Terra dello 0,16 per cento rispettivamente per il 14 febbraio 2046 e il 27 marzo 2026. In seguito alle osservazioni di follow-up con i telescopi al suolo, l’arco orbitale conosciuto venne esteso al punto tale che queste probabilità crollarono a zero in breve tempo a zero.


Plot dell’orbita eliocentrica di 2024 YR4. L’afelio cade nella fascia principale degli asteroidi, mentre il perielio è fra le orbite della Terra e di Marte. Crediti: Jpl Small-Body Database Lookup

Ora la storia sembra ripetersi: c’è un asteroide near-Earth appena scoperto che si trova al primo posto delle risk list di Nasa, Esa e Neodys, si tratta di 2024 YR4. Scoperto il 27 dicembre 2024 dal telescopio del progetto Atlas collocato in Cile, dopo poche ore di osservazioni e conferme indipendenti della sua reale esistenza da parte di altri osservatori, è uscita la circolare Mpec 2024-Y140 del Minor Planet Center, che gli ha assegnato la sigla 2024 YR4. L’orbita eliocentrica seguita da questo Nea è a bassa inclinazione sull’eclittica, ha un semiasse maggiore di 2,54 au e un’eccentricità di 0,66: al perielio arriva poco all’esterno dell’orbita di Venere, mentre all’afelio si porta al limite esterno della fascia principale degli asteroidi e può arrivare fino a 1,2 au da Giove. Dal punto di vista fisico 2024 YR4 è un asteroide di tipo S o L con un periodo di rotazione di circa 19,5 minuti. La magnitudine assoluta dell’asteroide è +23,9 e considerato che l’albedo geometrico per un S vale circa 0,2 si può stimare una dimensione di 40-60 metri. In parole povere si tratta di un asteroide con dimensioni paragonabili a quello responsabile della catastrofe di Tunguska. La cosa interessante riguarda la probabilità d’impatto di 2024 YR4 con la Terra: con le 261 osservazioni astrometriche disponibili in questo momento distribuite su un arco orbitale di 36 giorni, l’asteroide per il 22 dicembre 2032 ha una probabilità dell’1,3 per cento di colpire il nostro pianeta (dati Neocc/Esa).


Porzione di immagine ingrandita che mostra l’asteroide 2024 YR4 ripreso dal telescopio “Cassini” della Stazione astronomica di Loiano (BO) la sera del 29 gennaio 2025. Le misure astrometriche sulle immagini, estremamente delicate considerata la scarsa luminosità dell’asteroide, sono state fatte da Marco Micheli del Neocc dell’Esa. Crediti: Inaf/Esa

Attualmente il grado di rischio è -0,52 nella scala Palermo e 3 nella scala Torino, quindi è una situazione che richiede attenzione e l’asteroide necessita di ulteriori osservazioni astrometriche per determinare meglio l’orbita. Purtroppo 2024 YR4 è in fase di rapido allontanamento dalla Terra, già ora è di magnitudine +22,6 e ben presto sarà talmente debole da non essere più osservabile. Alla Stazione astronomica di Loiano dell’Inaf di Bologna abbiamo voluto dare il nostro piccolo contributo alla sicurezza della Terra e la sera del 29 gennaio abbiamo ripreso l’asteroide con il telescopio “G. D. Cassini“, che con i suoi 1,52 metri di diametro è il secondo telescopio presente sul territorio italiano. Le misure astrometriche sono state inviate al Minor Planet Center che le includerà nel database pubblico e le agenzie spaziali aggiorneranno la probabilità d’impatto.

Per certi aspetti 2024 YR4 è più un caso analogo a (99942) Apophis, che nel dicembre 2004 arrivò ad avere una probabilità d’impatto del 2,7 per cento per il 13 aprile 2029. Successivamente, grazie a ulteriori osservazioni anche su immagini pre-scoperta, la probabilità si ridusse a zero e ora sappiamo con certezza che Apophis il 13 aprile 2029 farà solo un passaggio ravvicinato a circa 32.000 km dal nostro pianeta. Considerato il diametro di circa 350 metri, l’impatto con Apophis sarebbe stato pericoloso, mentre un classe Tunguska come 2024 YR4 si può ancora gestire, eventualmente evacuando la zona dell’impatto nel caso fosse abitata. Si stanno anche cercando, su immagini riprese nel settembre 2016 quando 2024 YR4 passò a 0,076 au dalla Terra il giorno 8, se sia presente l’asteroide “in incognito”, in modo da aumentare l’arco orbitale osservato. Non resta che attendere l’evolvere della situazione.

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La Luna è meno morta di quel che sembra



Dall’altra parte della Luna si troverebbero i segni di attività geologica recente. A dirlo è uno studio uscito la scorsa settimana su The Planetary Science Journal e realizzato da Cole Nypaver e Thomas Watters, dello Smithsonian Institution, negli Stati Uniti, e da Jaclyn Clark, dell’Università del Maryland. Le tracce di tale attività sono da ricercarsi in una serie di piccole creste, disperse fra i crateri nella faccia della Luna che mai si mostra al nostro pianeta, che si sarebbero formate duecento milioni di anni fa. Ieri l’altro, insomma, in termini geologici.

«Molti scienziati ritengono che la maggior parte dei movimenti geologici della Luna siano avvenuti due miliardi e mezzo, o forse tre miliardi di anni fa», afferma Clark. «Ma noi stiamo vedendo che queste formazioni tettoniche sono state recentemente attive nell’ultimo miliardo di anni e potrebbero esserlo ancora oggi. Queste piccole creste nei mari lunari sembrerebbero essersi formate negli ultimi 200 milioni di anni, all’incirca, il che è relativamente recente considerando la scala temporale della Luna».


Immagine della superficie lunare con evidenziati i mari (in rosso) e le piccole creste nella faccia nascosta della luna (in giallo). Nell’ingrandimento le creste sono indicate dalle frecce. Crediti: T. Watters, Smithsonian Institution

I ricercatori hanno mappato ben 266 piccole creste prima sconosciute, distribuite in regioni vulcaniche che contano dalle 10 alle 40 creste. Regioni vulcaniche che si sarebbero formate oltre tre miliardi di anni fa. La tecnica che ha consentito di datare le creste prende il nome di crater counting – letteralmente, “conto dei crateri”, che si trovano in prossimità delle creste. Grazie a essa i ricercatori si sono accorti che le creste sono molto più giovani delle altre formazioni nei dintorni. «Essenzialmente, più sono i crateri che si trovano su una superficie, e più questa è vecchia: la superficie ha più tempo di accumulare crateri», spiega Clark. «Dopo aver contato i crateri intorno a queste piccole creste e aver constatato che alcune delle creste tagliano i crateri da impatto esistenti, riteniamo che queste formazioni geologiche siano state tettonicamente attive negli ultimi 160 milioni di anni».

Formazioni simili sarebbero presenti anche nella faccia della Luna a noi rivolta, anche se più antiche. Questo suggerisce che le creste siano state prodotte da fenomeni simili, legati probabilmente al progressivo restringimento della Luna e a piccole alterazioni della sua orbita. Le missioni Apollo hanno rivelato diversi “lunamoti” superficiali. Le creste al centro dello studio potrebbero essere legate a un’attività sismica simile.

Conoscere la geologia della Luna è fondamentale per l’organizzazione delle prossime missioni spaziali. «Speriamo che le future missioni lunari prevedano strumenti come il georadar in modo che i ricercatori possano comprendere meglio le strutture al di sotto della superficie lunare. Sapere che la Luna è ancora geologicamente attiva ha delle implicazioni davvero importanti riguardo a dove vogliamo mettere i nostri astronauti, le nostre attrezzature e infrastrutture sulla Luna», conclude Clark.

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Ragnatela cosmica, ecco le immagini in HD



Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Grazie a Muse (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un universo molto giovane. La scoperta, pubblicata ieri su Nature Astronomy, apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.


Immagine di un’ampia regione dell’universo come predetta da simulazioni basate sul modello cosmologico attuale e condotte con super computer. Nell’immagine osserviamo, in bianco, il tenue bagliore del gas presente nei filamenti cosmici che disegna una fitta trama cosmica. All’intersezione di questi filamenti, in rosso, è visibile il gas all’interno delle galassie, che dà vita a nuove stelle. Crediti: Alejandro Benitez-Llambay/Università di Milano-Bicocca

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati dell’Università di Milano-Bicocca ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con Muse mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore.

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90 per coento per cento di tutta la materia presente nell’universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel cosmo. «Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», spiega Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».


In rosso, l’immagine del gas diffuso contenuto all’interno del filamento cosmico che connette due galassie, evidenziate da una stella gialla, estendendosi su una distanza di tre milioni di anni luce. Crediti: Davide Tornotti/Università di Milano-Bicocca

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Fossati. Muse, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di tre milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi dieci anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento Muse ho accettato con grande entusiasmo, perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», ricorda Valentina D’Odorico, ricercatrice Inaf e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3”, di Davide Tornotti, Michele Fumagalli, Matteo Fossati, Alejandro Benitez-Llambay, David Izquierdo-Villalba, Andrea Travascio, Fabrizio Arrigoni Battaia, Sebastiano Cantalupo, Alexander Beckett, Silvia Bonoli, Pratika Dayal, Valentina D’Odorico, Rajeshwari Dutta, Elisabeta Lusso, Celine Peroux, Marc Rafelski, Mitchell Revalski, Daniele Spinoso e Mark Swinbank


Nei campioni di Bennu gli ingredienti della vita




Quest’infografica (cliccare per ingrandire) mostra le molecole chiave e i minerali scoperti nei campioni dell’asteroide Bennu. Nel riquadro in alto a sinistra ci sono molecole precursori, come ammoniaca e formaldeide, mentre in alto a destra sono rappresentati i sali e le argille. Ingredienti che, unendosi all’acqua all’interno del corpo progenitore di Bennu, hanno portato alla sintesi di molecole organiche, mostrate in basso. Il riquadro in basso a destra raffigura le basi azotate di Dna ed Rna, mentre quello in basso a sinistra raffigura gli amminoacidi, elementi costitutivi delle proteine. I campioni di Bennu contengono tutte e cinque le basi azotate presenti nel Dna e nell’Rna e 14 dei 20 amminoacidi utilizzati dalla vita per costruire le proteine. Crediti: Nasa Goddard/Osiris-Rex/Dan Gallagher

Mattoni della vita come amminoacidi e basi di Dna e Rna sono stati scoperti nei campioni di rocce e polveri prelevati dall’asteroide Bennu nel 2020 e portati sulla Terra dalla missione Osiris-Rex della Nasa. Che ci fosse materia organica sugli asteroidi si sospettava da tempo e tracce erano state viste anche nei meteoriti trovati sulla Terra, ma questo risultato è la conferma definitiva che gli asteroidi contengono gli elementi alla base della vita e che potrebbero averli portati sulla Terra. La scoperta è pubblicata oggi in due articoli su Nature e Nature Astronomy.

Nei campioni di Bennu sono stati scoperti 14 dei 20 amminoacidi presenti sulla Terra e tutte e cinque le basi, ossia le lettere dell’alfabeto della vita che si trovano nelle molecole di Dna e Rna. Sono inoltre stati scoperti sali minerali che si sono formati nel corpo celeste dal quale ha avuto origine Bennu, in seguito a un impatto, e che permettono di avere informazioni sulla chimica del Sistema solare primitivo.

Tutte queste scoperte sono state possibili perché i campioni di Bennu sono rimasti incontaminati: dal momento in cui sono stati prelevati dalla sonda Osiris-Rex non hanno subito alcuna alterazione, né dal contatto con l’atmosfera né dal contatto con la Terra. Nell’articolo pubblicato su Nature Astronomy, i ricercatori coordinati da Daniel Glavi del Goddard Space Flight Center della Nasa hanno riportato la scoperta di migliaia di composti organici, compresi 14 amminoacidi alla base della vita sulla Terra, 19 amminoacidi non proteinogenici (che non sono cioè coinvolti nella struttura delle proteine e praticamente assenti nella biologia che conosciamo), più le cinque basi che costituiscono Dna e Rna, vale a dire adenina, guanina, citosina, timina e uracile.

Le analisi hanno inoltre dimostrato che Bennu è ricco di composti a base di azoto e ammoniaca che si sono formati miliardi di anni fa nelle regioni più esterne e fredde del Sistema solare. Secondo i ricercatori, la materia organica scoperta nei campioni di Bennu mostra di avere una complessità maggiore rispetto a quella presente nella biologia terrestre e suggerisce che il corpo celeste dal quale Bennu ha avuto origine si trovasse nella fascia più esterna del Sistema solare, dove l’ammoniaca è stabile.

L’articolo pubblicato su Nature e coordinato da Timothy McCoy, del Museo di storia naturale della Smithsonian Institution, ha scoperto nei campioni di Bennu una varietà di sali minerali. Ci sono fosfati che contengono sodio e carbonati, solfati, cloruri e uoruri ricchi di sodio. Probabilmente si sono formati in seguito a un processo di evaporazione dell’acqua avvenuto moltissimo tempo fa sul corpo celeste da cui è nato Bennu.


Quattordici dei venti aminoacidi utilizzati dalla vita sulla Terra per costruire le proteine ​​sono stati scoperti nei campioni di Bennu. Crediti: Nasa Goddard/Osiris-Rex

La scoperta di amminoacidi e basi di Dna e Rna sui campioni dell’asteroide Bennu «dimostra per la prima volta l’abbondanza della materia organica tipica della vita» su un corpo celeste di questo tipo e «conferma le attese» della comunità scientifica: lo ha detto all’Ansa John Brucato, astrobiologo dell’Osservatorio di Arcetri dell’Istituto nazionale di astrofisica non coinvolto nei due studi pubblicati oggi.

Finora amminoacidi sono stati scoperti nei meteoriti, ossia in frammenti di asteroidi caduti sulla Terra, «ma i meteoriti avrebbero potuto subire alterazioni a causa del contatto con l’atmosfera o nell’ambiente terrestre. C’è sempre stato il dubbio che gli amminoacidi trovati fossero terrestri. Per questo», osserva Brucato, «è nata l’idea di organizzare missioni spaziali per andare a raccogliere i campioni direttamente sugli asteroidi». Sono nate così la missione Osiris-Rex della Nasa, partita nel 2018 e che nel 2023 ha portato sulla Terra rocce e polveri dell’asteroide Bennu, e la missione Hayabusa-2 dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa, che nel 2020 ha portato a Terra i campioni dell’asteroide Ryugu.

«È importante il ruolo che gli asteroidi hanno nell’origine della vita». Questi corpi celesti «hanno portato sulla Terra materia organica e acqua», dice Brucato, «adesso si tratta di capire quali molecole siano arrivate. Non si sta dicendo», precisa il ricercatore, «che la vita sia stata portata sulla Terra dagli asteroidi, perché su questi corpi celesti non ci sono batteri, ma negli asteroidi sono avvenuti processi chimico-fisici che hanno permesso la formazione di molecole complesse».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “An evaporite sequence from ancient brine recorded in Bennu samples”, di T. J. McCoy, S. S. Russell, T. J. Zega, K. L. Thomas-Keprta, S. A. Singerling, F. E. Brenker, N. E. Timms, W. D. A. Rickard, J. J. Barnes, G. Libourel, S. Ray, C. M. Corrigan, P. Haenecour, Z. Gainsforth, G. Dominguez, A. J. King, L. P. Keller, M. S. Thompson, S. A. Sandford, R. H. Jones, H. Yurimoto, K. Righter, S. A. Eckley, P. A. Bland, M. A. Marcus, D. N. DellaGiustina, T. R. Ireland, N. V. Almeida, C. S. Harrison, H. C. Bates, P. F. Schofield, L. B. Seifert, N. Sakamoto, N. Kawasaki, F. Jourdan, S. M. Reddy, D. W. Saxey, I. J. Ong, B. S. Prince, K. Ishimaru, L. R. Smith, M. C. Benner, N. A. Kerrison, M. Portail, V. Guigoz, P.-M. Zanetta, L. R. Wardell, T. Gooding, T. R. Rose, T. Salge, L. Le, V. M. Tu, Z. Zeszut, C. Mayers, X. Sun, D. H. Hill, N. G. Lunning, V. E. Hamilton, D. P. Glavin, J. P. Dworkin, H. H. Kaplan, I. A. Franchi, K. T. Tait, S. Tachibana, H. C. Connolly Jr. e D. S. Lauretta
  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Abundant ammonia and nitrogen-rich soluble organic matter in samples from asteroid (101955) Bennu”, di Daniel P. Glavin, Jason P. Dworkin, Conel M. O’D. Alexander, José C. Aponte, Allison A. Baczynski, Jessica J. Barnes, Hans A. Bechtel, Eve L. Berger, Aaron S. Burton, Paola Caselli, Angela H. Chung, Simon J. Clemett, George D. Cody, Gerardo Dominguez, Jamie E. Elsila, Kendra K. Farnsworth, Dionysis I. Foustoukos, Katherine H. Freeman, Yoshihiro Furukawa, Zack Gainsforth, Heather V. Graham, Tommaso Grassi, Barbara Michela Giuliano, Victoria E. Hamilton, Pierre Haenecour, Philipp R. Heck, Amy E. Hofmann, Christopher H. House, Yongsong Huang, Hannah H. Kaplan, Lindsay P. Keller, Bumsoo Kim, Toshiki Koga, Michael Liss, Hannah L. McLain, Matthew A. Marcus, Mila Matney, Timothy J. McCoy, Ophélie M. McIntosh, Angel Mojarro, Hiroshi Naraoka, Ann N. Nguyen, Michel Nuevo, Joseph A. Nuth III, Yasuhiro Oba, Eric T. Parker, Tanya S. Peretyazhko, Scott A. Sandford, Ewerton Santos, Philippe Schmitt-Kopplin, Frederic Seguin, Danielle N. Simkus, Anique Shahid, Yoshinori Takano, Kathie L. Thomas-Keprta, Havishk Tripathi, Gabriella Weiss, Yuke Zheng, Nicole G. Lunning, Kevin Righter, Harold C. Connolly Jr. e Dante S. Lauretta


Così è la Via Lattea, relativisticamente parlando




Da sinistra: Mario Lattanzi, Mariateresa Crosta e William Breonio, i tre autori dell’articolo pubblicato su Jcap lo scorso dicembre, che mette a confronto le curve di rotazione previste da diversi modelli teorici con i dati ottenuti dalla Dr3 di Gaia. Crediti: Mariateresa Crosta/Inaf

L’avevamo intervistata nel 2020, in occasione di un articolo uscito su Mnras sulla curva di rotazione della Via Lattea che ha suscitato interesse e discussione nella comunità scientifica. Lei è Mariateresa Crosta, astrofisica all’Inaf di Torino e coautrice di due nuovi articoli di follow-up, pubblicati lo scorso marzo su Mnras e lo scorso dicembre nel Journal of Cosmology and Astroparticle Physics. I due lavori sono parte della tesi di dottorato di William Beordo, primo autore di entrambi gli articoli. Il tema è lo stesso: riprodurre la curva di rotazione della nostra galassia, ovvero tracciare la velocità rotazionale delle stelle in funzione della loro distanza dal centro. I dati, invece, sono quelli della Dr3 di Gaia, che hanno fornito circa 130 volte più stelle rispetto a quelle utilizzate nel primo articolo, basato invece sulla DR2. L’idea, allora come oggi, è quella di riprodurre la curva di rotazione delle stelle nella nostra galassia usando una geometria rigorosamente relativistica, che non necessita di una componente di materia oscura, né di altre modifiche di sorta, per riprodurre l’osservato. In questo nuovo studio, gli autori hanno messo a confronto questo approccio con altre due teorie, quella standard e la cosiddetta Mond. Avrà funzionato anche questa volta, con i dati della nuova Dr3? Media Inaf ha intervistato Mariateresa Crosta, coautrice del nuovo studio.

Già nel 2020 avevate proposto questo approccio alternativo alla teoria cosmologica oggi più comunemente accettata, il cosiddetto modello LambdaCdm. Cosa c’è che non convince in questo modello?

«La motivazione principale è stata voler provare fino a che punto la fisica di una galassia, intesa come oggetto esteso, sia governata dalla teoria di Einstein, soprattutto alla luce dei dati sempre più accurati di Gaia, il satellite dell’Esa che ha mappato la nostra Via Lattea fino al 15 gennaio scorso. Una precisazione doverosa: l’accuratezza raggiunta da Gaia – il microarcosecondo, equivalente a misurare, da Giove, la dimensione della stella sulla Mole Antonelliana – obbliga a tener conto di qualunque correzione relativistica che possa influenzare la luce di una stella nel suo percorso fino a noi osservatori. In altre parole, obbliga a seguire una sorta di filo d’Arianna attraverso le curvature mutevoli locali (la luce viene infatti curvata dalla presenza di corpi celesti come stelle, pianeti, o ammassi, che esercitano attrazione gravitazionale su di essa, ndr) fino alla stella. Dati questi dati, però, finora le curve di rotazione delle stelle sono sempre state costruite assumendo una fisica newtoniana, ovvero un’approssimazione della Relatività generale».

Come mai?

«Perché si ritiene che le velocità delle stelle siano molto più piccole della velocità della luce, e che quindi non sia necessario ricorrere alla complessità della Relatività generale per descriverli. Noi, però, ne facciamo più che altro una questione scientifico epistemologica: se i dati che forniamo alla comunità astronomica sono modellati secondo Einstein, allora per consistenza anche la nostra galassia deve essere modellata sulla base della stessa teoria. E tracciare la sua curva di rotazione è, per noi, il test più immediato da effettuare avendo a disposizione i dati cinematici e spettroscopici di Gaia».

Quindi, se capisco bene, visti i dati provenienti da Gaia sarebbe giusto costruire una curva di rotazione basandosi sulla teoria della Relatività generale.

«Esatto. Per quanto riguarda il modello della nostra galassia, la nostra sfida è stata testare il profilo di velocità che abbiamo ricavato basandoci su un approccio strettamente conforme alla Relatività generale, e metterlo a confronto con i modelli attualmente in uso, in particolare il modello classico di Newton, che include un alone di materia oscura, e l’approccio alternativo Mond che va per la maggiore. In realtà il nostro approccio non è in contraddizione con il modello LambdaCdm, che pure fa uso della Relatività generale. Per intenderci, non è che stiamo escludendo un effetto di “materia oscura”, semplicemente forniamo un’interpretazione, compatibile con la teoria standard della gravità, della piattezza delle curve di rotazione della Via Lattea senza invocare una componente di alone (di materia oscura) ad hoc, che circonderebbe la Galassia, o un’accelerazione correttiva nel caso di Mond».


La curva di rotazione della Via Lattea ottenuta con i dati della Dr3 di Gaia, sopra la quale sono state aggiunte le curve di rotazione previste da diversi modelli teorici. Crediti: Gaia – immagine della galassia; W. Beordo et al., JCAP (2024)

La questione dietro alle curve di rotazione, lo ricordiamo, è che alla periferia delle galassie, le velocità delle stelle rimangano piuttosto sostenute, anziché diminuire come previsto dalla gravità di Newton. Ne risulta un grafico con la curva più piatta di quanto ci si attenderebbe. Per “correggerlo”, alcune teorie prevedono l’aggiunta di una componente gravitazionale in più, ovvero la materia oscura, oppure una correzione da inserire nella legge di gravitazione, come nel caso della teoria Mond. Nel vostro caso, quindi, la materia oscura qui non servirebbe più?

«Pensare a possibili applicazioni dell’equazioni di campo di Einstein per tener conto di un universo senza componenti oscure è un argomento innovativo, ma non nuovo. La letteratura ci offre esempi sulle curve di rotazione già a partire dal 2007 ma pensati per le galassie esterne. Il messaggio è stato raccolto da pochi adepti».

Per dipanare la questione fra correzioni e teorie, dunque, perché i dati di Gaia possono essere d’aiuto?

«Ciò che non è stato fatto in passato è testare ipotesi come quella di una geometria relativistica (l’approccio che proponiamo noi) con il campione di dati più accurato, più numeroso, più completo e più omogeneo di sempre che offre lo strumento Gaia. Con il primo lavoro abbiamo utilizzato circa seimila stelle della Dr2 di Gaia (il rilascio dei dati corrispondente a 22 mesi di osservazioni), mentre negli ultimi due articoli (il primo pubblicato ad aprile 2024, e il secondo in dicembre) ben circa 800mila stelle della Dr3 (34 mesi di dati raccolti), tutte caratterizzate da posizioni, velocità e distanza misurate da Gaia. La selezione rappresenta le stelle che meglio tracciano sul piano equatoriale orbite stabili, oggetti che hanno raggiunto l’equilibrio e quindi rappresentano dei traccianti fedeli sul disco galattico. Gaia è straordinaria proprio per questo: la misura senza precedenti e diretta della cinematica “relativistica” di ogni stella unita a quella della sua distanza permette di porre limiti molto stringenti al potenziale gravitazionale di cui subisce l’influenza. Per le galassie esterne abbiamo meno osservazioni puntuali di questo tipo».

Quali sono le differenze principali fra le teorie che avete testato? E quali sono le conseguenze, ad esempio, sulle conoscenze che abbiamo raccolto finora sulla nostra galassia?

«Per quanto riguarda le curve di rotazione le differenze principali sono, a grandi linee, quelle menzionate prima. Nel modello LambdaCdm si assume che la Relatività generale si riduca al suo limite newtoniano su scale galattiche, ma per tener conto della piattezza delle curve di rotazione osservate, ovvero del fatto che le stelle mantengono lontano dal centro galattico un valore di velocità costante non previsto da Newton, occorre aggiungere ai modelli del disco e del nucleo galattico un alone di materia oscura di cui non si conosce ancora la natura. Questa materia, impossibile da osservare attraverso l’emissione di onde elettromagnetiche, per definizione, dovrebbe essere circa 5-10 volte superiore al contenuto di materia “osservabile” nella nostra galassia, affinché il limite newtoniano della Relatività generale ne riproduca correttamente la curva di rotazione misurata. La teoria Mond, invece, introduce una correzione ad hoc all’accelerazione gravitazionale, che si riduce alla teoria newtoniana in presenza di forti accelerazioni, mentre va ad aumentare la forza gravitazionale in regimi di bassa accelerazione, come nella periferia delle galassie, dove la curva di rotazione risulta essere piatta. Poi ci sono anche teorie che prevedono modifiche alla Relatività generale. Il vantaggio di esplorare la Relatività generale piuttosto che sue alternative è che essa costituisce la teoria standard della gravità in un intervallo di ben 60 ordini di grandezza, evitandoci di scomodare i fenomeni fisici su cui poggiano le nostre certezze che le alternative devono comunque prevedere. Inoltre, la nostra galassia è il prodotto cosmologico a noi più vicino e quindi il laboratorio ideale per verificare le previsioni cosmologiche alla nostra epoca (che dicono come si è evoluto l’universo vicino). Se costruiamo un modello fisico della nostra galassia questo costituirà il “modello” per altre galassie simili alla nostra, come lo è il Sole per le stelle».


Mariateresa Crosta, astrofisica dell’Inaf di Torino. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli

Fra i tre modelli che avete testato – modello newtoniano, Mond, e modello relativistico – quale funziona meglio, alla fine?

«C’è da dire che il modello di Relatività generale è il più semplice possibile, in cui si utilizzano alcune soluzioni particolari appartenenti una classe più generale di soluzioni dell’equazioni di campo di Einstein. Il problema è che la nostra galassia è un oggetto esteso e multistrutturato, e si conoscono poche soluzioni esatte delle equazioni di Einstein. Quella da noi adottata, e poi adattata alla tipologia di dati di Gaia, risulta valida solo sul piano equatoriale (o almeno fino a un kiloparsec da esso) e lontano dal centro galattico dove risiede una singolarità [il buco nero supermassiccio SgrA*, ndr]. Per descrivere le curve di rotazione questo è più che sufficiente. I fit con i dati di Gaia Dr3 hanno confermato ancora una volta che tutti i modelli sono statisticamente equivalenti, nel senso che riproducono la curva di rotazione osservata e il profilo di densità della galassia senza dirimenti differenze, e soprattutto che non smentiscono il test sull’effetto di trascinamento gravitazionale che è stata la nostra ipotesi principe di lavoro. E fa riflettere: un modello basato sulla Relatività generale, più semplice possibile, con meno parametri e coerente con la teoria standard è staticamente equivalente a un altro modello con più parametri e con componenti ad hoc di cui non si conosce ancora la natura. Se hypoteses non fingo e applico il rasoio di Occam la Relatività generale dovrebbe essere favorita. Ciò suggerisce con maggior vigore la necessità di ulteriori avanzamenti nelle soluzioni matematiche dell’equazioni di Einstein per descrivere un oggetto multistrutturato come la galassia nell’ambito della Relatività generale e nel contesto LambdaCdm che necessiterebbe di materia oscura fredda».

Quindi i vostri risultati rischiano di mettere in discussione, ancora una volta, la necessità di invocare materia oscura ed energia oscura per colmare il bilancio energetico dell’universo?

«Non proprio. I nostri risultati al momento riguardano solo la curva di rotazione della nostra galassia. La necessità di materia oscura o energia oscura è presente anche in altri contesti. Per cui si deve procedere per gradi, adattando le geometrie e i relativi osservabili caso per caso. Nello spirito di cui si diceva prima, c’è già un grosso vantaggio a costruire un modello per la nostra galassia».

Che mi dice invece della Relatività generale? Anche questa è in discussione?

«La Relatività generale è una teoria molto prolifica, ma non sempre viene applicata nel modo corretto semplicemente perché sono necessari dei cambi di paradigma, come è avvenuto nel caso di Gaia, dovuti alle nuove accuratezze in gioco. Sicuramente non è eterna, ma se uno la sonda fino in fondo delimita i regimi dove può essere messa in discussione e aiuta a comprendere come andrebbe modificata».

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All’origine delle sostanze organiche di Cerere



Scoperto il primo gennaio del 1801 dall’astronomo italiano Giuseppe Piazzi, all’epoca direttore della Specola di Palermo, il pianeta nano Cerere è stato nello scorso decennio meta della missione della Nasa Dawn, che vi ha orbitato attorno a distanza ravvicinata per tre anni e mezzo, raccogliendo un’enorme mole di dati – molti dei quali ancora oggetto di studio – e portando a numerose scoperte. Una fra le più sensazionali, pubblicata nel 2017 su Science da un gruppo guidato da Maria Cristina De Sanctis dell’Istituto nazionale di astrofisica, è stata senza dubbio l’individuazione inequivocabile di tracce di materiale organico sulla sua superficie.


Superficie del pianeta nano Cerere. I siti nei quali è stato individuato materiale organico sono evidenziati in rosso. La grande maggioranza si trova nei pressi del cratere Ernutet, nell’emisfero settentrionale. Crediti: Mps

Ma dove arriva quel materiale, in gran parte costituito da composti alifatici? Trattandosi di quelli che vengono comunemente definiti i “mattoncini della vita”, dunque di molecole di notevole interesse astrobiologico, gli scienziati si interrogano da tempo sulla loro origine: endogena, vale a dire dall’interno del pianeta nano, portate magari in superficie dai processi di criovulcanismo che caratterizzano Cerere? O esogena, come conseguenza d’impatti con asteroidi provenienti da regioni lontane?

Uno studio pubblicato ieri su Agu Advances, la rivista dell’American Geophysical Union, e condotto in parte anche con l’ausilio d’algoritmi d’intelligenza artificiale, che hanno aiutato gli autori a individuare nuovi depositi di composti alifatici sulla superficie del pianeta nano, favorisce la seconda ipotesi: le sostanze organiche arriverebbero da fuori, e a portarle su Cerere sarebbero stati gli impatti.


Dettaglio dei depositi di materiale organico (qui in rosso) nei pressi del cratere Ernutet. Crediti: Mps

«I siti nei quali sono state individuate le molecole organiche sono in realtà rari su Cerere e privi di qualsiasi firma criovulcanica», ricorda il primo autore dello studio, Ranjan Sarkar dell’Mps, il Max Planck Institute for Solar System Research (Gottinga, Germania). La grande maggioranza dei depositi si trova infatti lungo il bordo – o comunque in prossimità – del cratere Ernutet, nell’emisfero settentrionale del pianeta nano. Solo tre si trovano distanti da esso. L’attenta analisi delle strutture geologiche presenti nei siti in cui è stato individuato il materiale organico – due dei quali non erano noti prima del nuovo studio – hanno portato gli autori a propendere per l’origine esogena. «Nessuno dei depositi offre prove di attività vulcanica o tettonica attuale o passata: niente trincee, niente canyon, niente duomi lavici, niente bocche vulcaniche. Inoltre non ci sono, nelle vicinanze, tracce di crateri da impatto profondi», aggiunge un altro coautore dello studio, Martin Hoffmann, dell’Mps.

Quest’ultimo aspetto, l’assenza di crateri profondi, è ritenuto rilevante perché le simulazioni al computer indicano che i corpi che più frequentemente si sono scontrati con Cerere siano quelli provenienti dalla fascia esterna degli asteroidi. Gli asteroidi non troppo distanti, in particolare, non acquistano una velocità elevata, e questo fa sì che il calore sviluppato al momento dell’impatto sia contenuto, con temperature sufficientemente basse da consentire ai composti organici di sopravvivere.

«Ovviamente la prima ipotesi è che il caratteristico criovulcanismo di Cerere abbia trasportato il materiale organico dal suo interno alla superficie. Ma i nostri risultati mostrano il contrario», conclude un altro coautore dello studio, Andreas Nathues, sempre dell’Mps.

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Pseudocrateri marziani ricreati in cucina



Se siete stati in Islanda, a nord, dove si trova il lago Myvatn ad esempio, probabilmente ricorderete curiosi rilievi conici che, pur sembrando crateri, non si trovano sopra un vero condotto vulcanico. Si chiamano, appunto, pseudocrateri (in inglese anche rootless cones), e sappiamo che sulla Terra si formano quando la lava ricopre uno strato contenente acqua, innescando reazioni esplosive. Nella figura qui sotto, nel pannello di sinistra, vedete proprio un’immagine scattata al lago Myvatn di cui parlavamo prima, ma altre formazioni simili si trovano lungo la costa della Big Island, nelle Hawaii. E poi su Marte. Li potete vedere nell’immagine sulla destra. Per capire meglio come si formino queste particolari strutture, sulla Terra e su Marte, una professoressa e un suo studente all’università di Niigata, in Giappone, hanno creato un esperimento “domestico” con amido, bicarbonato e sciroppo per dolci. Il risultato è stato pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Volcanology and Geothermal Research.


Pseudocrateri terrestri, in un’immagine scattata al lago Myvatn in Islanda, e su Marte, in una composizione creata con Ctx Global Mosaic v.1.0 (Dickson et al., 2023). Crediti: Niigata University

Gli pseudocrateri, dicevamo, sono piccole formazioni vulcaniche di diametro variabile, fino a diverse centinaia di metri, originate da esplosioni innescate dall’interazione tra la lava superficiale e corpi idrici come laghi e fiumi. A differenza dei normali vulcani, quindi, non c’è alcuna risalita di magma dal sottosuolo. Aver trovato queste strutture anche su Marte – oltre che sulla Terra, dove sembra chiaro il processo di formazione – può dire molto sulla geologia passata del Pianeta rosso.

Ma veniamo all’esperimento di laboratorio realizzato da Rina Noguchi, professoressa all’Università di Niigata, e dal suo studente Wataru Nakagawa. Lo vedete nelle due immagini qui sotto. Quella a sinistra mostra uno schema degli ingredienti necessari all’esperimento, a destra invece c’è una foto del becher al termine della prova. Gli ingredienti sono: sciroppo di amido riscaldato, come analogo della lava, e una miscela di bicarbonato di sodio e sciroppo per dolci, per rappresentare uno strato contenente acqua. Utilizzare direttamente l’acqua non era possibile, in laboratorio, per una questione di temperatura: in natura, infatti, la temperatura della lava supera i 1000 °C, riscaldando l’acqua fino a farla vaporizzare ed espandere in modo esplosivo. Lo sciroppo di amido che simula la lava, però, quando raggiunge i 140 °C diventa caramello, e non riesce a vaporizzare l’acqua. La soluzione ideata da Noguchi e Nakagawa è stata quindi di sfruttare la decomposizione termica del bicarbonato di sodio – una reazione già nota nella preparazione del karumeyaki (una caramella a nido d’ape di origine cinese ma diffusa anche in Giappone) – per creare lo stesso effetto. Quando viene riscaldato dallo sciroppo di amido, il bicarbonato di sodio rilascia anidride carbonica, intensificando la formazione di schiuma e simulando esplosioni simili alla formazione di coni senza radici. Lo sciroppo per dolci, invece, è stato aggiunto al bicarbonato per regolare la viscosità. Per analizzare il processo di formazione degli pseudocrateri, i ricercatori hanno fatto alcune prove variando lo spessore dello sciroppo in un becher e osservando attentamente le dimensioni e il numero di sfiati formati.


Schema dell’esperimento (a sinistra) e stato del becher al termine dell’esperimento (a destra). Nella figura di destra, le linee tratteggiate verde chiaro indicano i condotti che hanno raggiunto la superficie dello sciroppo, mentre le linee magenta indicano i condotti falliti. Crediti: Niigata University

«Abbiamo osservato che i condotti spesso non riuscivano a mantenere la loro struttura perché venivano interrotti dai condotti che si formavano nelle vicinanze», spiega Noguchi. «Lo studio ha rivelato che la competizione tra condotti, oltre a quella con l’acqua, influenza in modo significativo la distribuzione spaziale degli pseudocrateri. Gli strati di sciroppo più spessi hanno mostrato una maggiore competizione tra i condotti, e un conseguente aumento di condotti falliti, in accordo con le osservazioni su Marte, dove la lava più spessa è correlata a un minor numero di formazioni. Al contrario, in ambienti con condotti abbondanti (e dunque molti pseudocrateri), le esplosioni sono ridotte a causa della limitata disponibilità di acqua, portando a formazioni a cono più piccole. Anche in questo caso, siamo in linea con le osservazioni su Marte, che mostrano come le aree con lava sottile non presentino caratteristiche simili a pseudocrateri».

A ulteriore sostegno di questa idea, gli autori spiegano che anche i condotti falliti osservati negli affioramenti lavici terrestri suggeriscono che la competizione tra condotti influisce sulla formazione di pseudocrateri. Questi esperimenti e le osservazioni geologiche evidenziano che la fusione e la separazione dei condotti, guidate dallo spessore della lava, sono fattori chiave nel determinare la distribuzione spaziale e le dimensioni degli pseudocrateri.

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Super-Terra abitabile per una parte dell’anno


media.inaf.it/2025/01/28/eccen…
La conta dei pianeti extrasolari conosciuti è arrivata ormai a quota settemila – un numero impressionante. Ma ancor più impressionante è la varietà di questi mondi. Ciascuno di loro sembra avere una propria peculiarità, un tratto distintivo che lo rende unico, nonostante le sigle piuttosto anonime che li contraddistinguono.

Prendiamo Hd 20794 d, il terzo pianeta (questo indica il suffisso ‘d’) in orbita attorno ad Hd 20794, una stella di tipo G, dunque simile al Sole, che splende ad appena 19.7 anni luce da noi. Vicinissima, almeno in termini cosmici. E già questa peculiarità rende i mondi che le danzano attorno piuttosto interessanti. «Hd 20794, attorno alla quale orbita Hd 20794 d, non è una stella ordinaria», osserva infatti Xavier Dumusque dell’Università di Ginevra, coautore di uno studio su questo sistema planetario guidato da Nicola Nari, dell’Instituto de Astrofísica de Canarias, e pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics. «La sua luminosità e la sua vicinanza la rendono un candidato ideale per i futuri telescopi la cui missione sarà osservare direttamente le atmosfere degli esopianeti».


La traiettoria dei tre pianeti del sistema Hd 20794 e, in verde, la zona abitabile attorno alla stella (crediti: Gabriel Pérez Díaz, Smm/Iac). Nel riquadro in basso a sinistra, rappresentazione artistica del pianeta Hd 20794 d (crediti: Nasa)

Ma è appunto il suo terzo pianeta, Hd 20794 d, ad aver catalizzato l’attenzione degli astronomi. È una super-Terra, vale a dire un pianeta roccioso più grande della Terra – la sua massa è pari a 5.82 volte quella del nostro pianeta. La sua peculiarità? L’orbita. Compie infatti una rivoluzione attorno ad Hd 20794 in 647 giorni – circa quaranta in meno rispetto a Marte attorno al Sole – seguendo un tracciato molto ellittico. L’eccentricità della sua orbita, ovvero la misura di quanto si discosta da un cerchio, è pari a 0.45: ciò significa che nel corso della sua rivoluzione viene a trovarsi per un tratto molto vicino e per un altro molto lontano dalla stella. Non solo. Gli autori dello studio – molti dei quali dell’Istituto nazionale di astrofisica – hanno scoperto che, proprio per questa eccentricità, Hd 20794d entra ed esce dalla cosiddetta zona abitabile, quell’intervallo di distanze dalla stella in cui è possibile la presenza di acqua in fase liquida sulla superficie del pianeta: una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della vita come la conosciamo.

L’estensione della fascia abitabile dipende da diversi fattori, principalmente dalle proprietà stellari. Per stelle come la nostra o come Hd 20794, può estendersi da 0.7 a 1.5 unità astronomiche, comprendendo dunque, nel caso del Sole, non solo l’orbita della Terra ma anche quella di Marte. Ma la Terra e Marte solcano orbite quasi circolari, la loro eccentricità è bassissima: 0.017 quella terrestre e 0.093 quella marziana. Dunque le condizioni di abitabilità sono relativamente stabili, tanto che qui sulla Terra l’alternanza di stagioni calde e fredde non è determinata dalla distanza dal Sole (infatti qui da noi, nell’emisfero nord, siamo più vicini alla nostra stella d’inverno che d’estate), bensì dall’inclinazione dell’asse di rotazione rispetto al piano orbitale. Su Hd 20794 d, al contrario, nel corso dell’anno la distanza dalla stella varia enormemente, portando a cambiamenti radicali delle condizioni di abitabilità. Detto altrimenti, su Hd 20794 d le stagioni dipendono fortemente dalla distanza dalla stella, al punto che se mai in quel remoto mondo ci fosse un oceano in superficie, entrando e uscendo dalla fascia d’abitabilità potrebbe passare, nel corso dell’anno, da uno stato ghiacciato a uno stato liquido. Una caratteristica che rende Hd 20794 d un interessante laboratorio naturale per mettere alla prova nuove ipotesi sulla ricerca della vita nell’universo.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Revisiting the multi-planetary system of the nearby star HD 20794. Confirmation of a low-mass planet in the habitable zone of a nearby G-dwarf”, di N. Nari, X. Dumusque, N. C. Hara, A. Suárez Mascareño, M. Cretignier, J. I. González Hernández, A. K. Stefanov, V. M. Passegger, R. Rebolo, F. Pepe, N. C. Santos, S. Cristiani, J. P. Faria, P. Figueira, A. Sozzetti, M. R. Zapatero Osorio, V. Adibekyan, Y. Alibert, C. Allende Prieto, F. Bouchy, S. Benatti, A. Castro-González, V. D’Odorico, M. Damasso, J. B. Delisle, P. Di Marcantonio, D. Ehrenreich, R. Génova-Santos, M. J. Hobson, B. Lavie, J. Lillo-Box, G. Lo Curto, C. Lovis, C. J. A. P. Martins, A. Mehner, G. Micela, P. Molaro, C. Mordasini, N. Nunes17, E. Palle, S.P. Quanz, D. Ségransan, A. M. Silva, S. G. Sousa, S. Udry, N. Unger e J. Venturini

Guarda l’intervista ad Alessandro Sozzetti su MediaInaf Tv:

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Proposte di lettura per giovani astronomi




Valentina Gottardi e Maciej Michno, “Lumen, chi ha nascosto le stelle?”, Cocai Books, 2024, 40 pagine, 24 euro

C’è qualcuno su Marte? Questa è solo una delle tante domande – di cosa sono fatte le stelle? e da dove vengono? di cosa è fatta la Terra? – cui prova a rispondere, in modo divertente e scientificamente accurato, il manuale C’è qualcuno su Marte? 30 domande e risposte per piccoli astronomi di Anna Curir (La Nuova Frontiera, 2024). Un libro molto utile a un giovane lettore che voglia essere introdotto nella scienza del cielo.

Si tratta di una delle new entries della nuova edizione di Libri di astronomia per bambini e ragazzi: l’annuale bibliografia delle pubblicazioni di astronomia per bambini e ragazzi pubblicata da Polvere di stelle, il portale dei beni culturali dell’astronomia italiana. Se dovessimo trovare una cifra che accomuna le recenti pubblicazioni di questo ristretto segmento editoriale, diremmo che i libri di astronomia per bambini e ragazzi del 2024 hanno usato la forma dell’album illustrato per raccontare non solo l’astronomia ma anche l’impatto, eccessivo, che le attività umane hanno sul mondo naturale e non solo. Un tema cui sono dedicati due album usciti, che vale la pena di menzionare.

Lumen, chi ha nascosto le stelle?di Valentina Gottardi e Maciej Michno, con la supervisione scientifica di Danio Miserocchi, edito da Cocai Books, giovane casa editrice trentina che ha avuto una menzione speciale al Non Fiction Bologna Award nel 2024 con Caduto. La seconda vita degli alberi, è un album illustrato che affronta il tema dell’inquinamento luminoso. Un tema di cui non si parla mai abbastanza che invece meriterebbe più attenzione nell’editoria e soprattutto nel dibattito ecologico. Gli autori concentrano la loro attenzione su aspetti poco narrati di questo fenomeno: l’impatto della luce artificiale sulla vita degli animali notturni, delle piante e anche implicitamente anche dell’uomo, e invitano il lettore a riflettere sul mondo in cui viviamo così poco propenso a rispettare le esigenze di tutte le forme viventi. Farfalle, insetti, animali acquatici rischiano molto per l’illuminazione eccessiva e mal orientata dei nostri centri abitati. E che dire poi della visione dei cieli stellati? Pare che un terzo della popolazione del pianeta viva in regioni dalle quali, per quanto sono illuminate, non si riesce a vedere la Via Lattea.


Hannah Arnesen, “Stardust. Polvere di stelle”, traduzione di Laura Cangemi, Orecchio Acerbo, 2024, 349 pagine, 33 euro

Di stelle e non solo si narra in Stardust: polvere di stelle di Hanna Arnesen (Orecchio Acerbo, 2024), un album rivolto ai ragazzi dagli 11 anni in su, in realtà, adatto a tutte le età. Il libro è un potente racconto illustrato – 349 pagine – che affronta il tema del cambiamento climatico partendo da… da dove tutto ha avuto inizio: la nascita dell’universo. L’opera ha la forma epistolare. L’autrice indirizza la prima lettera al Passato e alla Terra, ripercorrendo con splendide illustrazioni la storia e la formazione del nostro pianeta e del Sistema solare. La seconda missiva si rivolge al Presente e al Lettore, mostrando cosa significhi vivere a diretto contatto con gli sconvolgimenti climatici del nostro pianeta. La terza – la più toccante? – parla a un Bambino che, forse, nascerà, e guarda al nostro Futuro denso di incognite ma non privo di speranze. L’opera, frutto della creatività della giovane artista svedese Hanna Arnesen, esce per la prima volta in Italia per Orecchio Acerbo, che ne ha acquistato i diritti, ed è in corso di traduzione in molte lingue. Il libro ha il grande merito di affrontare in modo scientifico e poetico un problema che ci riguarda tutti, da molto vicino.

Del nostro pianeta, e soprattutto dell’attitudine umana a fare la Guerra, racconta Oliver Jeffers in Intanto sulla Terra (Zoolibri, 2024). L’album è la narrazione di un viaggio intrapreso da un papà che, partendo dalla Terra, accompagna in auto i suoi bambini attraverso lo spazio e il tempo nell’universo. L’autore gioca con i figli a trasformare in anni le distanze che separano un oggetto celeste dal punto di partenza del viaggio. Ecco che, andando lontano e a ritroso nel tempo, si scopre che l’uomo, da sempre, ha l’attitudine a combattere in modo feroce contro i suoi simili per cercare di possedere ciò che non ha.


Jérémie Decalf, La notte è piena di promesse, Terre di mezzo, 2021, 64 pagine, 18 euro

Ma lasciamo da parte le guerre per immergerci nello spazio profondo. La notte è piena di promesse (Terre di mezzo, 2021) è il titolo di un altro albo illustrato, dedicato ai bambini dagli 8 ai 10 anni, ma adatto a tutti, grazie alla grande capacità narrativa dell’autore, Jérémie Delcaf. Il libro affronta un viaggio spaziale da un punto di vista particolare: quello della sonda Voyager 2, che racconta in prima persona la sua avventura ai confini del Sistema solare, dove viene circondata da immensità e meraviglia. Fluttuando insieme alla sonda nello spazio, quasi fosse una compagna di strada, incontriamo Giove, Saturno, Urano, arrivando fino a Nettuno, e oltre. Qui la sonda ci lascia, continuando, però, il suo viaggio verso l’infinito, portando con sé, incise su un disco dorato, informazioni che parlano della Terra: foto, registrazioni e brani musicali, un segno d’amicizia rivolto a tutte le possibili forme di vita extraterrestre che la sonda potrebbe avere la fortuna di incontrare lungo il suo cammino. Un ponte quindi verso nuove connessioni? Ce lo auguriamo, ne abbiamo tanto bisogno.

Libri di astronomia per bambini e ragazzi propone quest’anno ben 80 pubblicazioni suddivise in quattro fasce di età: 3-5, 6-8, 8-10 e 11-14 anni, che corrispondono approssimativamente ai destinatari dei libri. Completa la selezione una sezione dedicata agli atlanti, alle mappe del cielo e alle enciclopedie. In rete è possibile consultare la bibliografia, curata dalle scriventi, bibliotecarie dell’Inaf di Firenze e di Trieste, in collaborazione con la fondazione Accademia dei perseveranti, editore di LiBeR e di Liberdatabase.


C’è qualcuno su Marte?

edu.inaf.it/rubriche/libri/ce-…

Un agile libricino che soddisfa le curiosità di grandi e piccini interessati allo spazio

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Vibrazioni mercuriane



Agli albori del cinema, c’era il film muto. Senza sonoro. Si guardavano le immagini in movimento sullo schermo, ed era già un gran bello spettacolo. I dialoghi, come anche i rumori di scena, bisognava immaginarseli. Un po’ come nello spazio, dove i suoni non si propagano in assenza d’aria e “nessuno può sentirti urlare”, per citare un classico del cinema (che però il sonoro ce l’aveva). In casi speciali, tuttavia, le vibrazioni nello spazio si possono misurare, aggiungendo una colonna sonora assolutamente originale allo show delle immagini celesti.

È il caso del recente sorvolo di Mercurio da parte di BepiColombo, missione delle agenzie spaziali europea (Esa) e giapponese (Jaxa) che lo scorso 8 gennaio ha “sfiorato” la superficie del pianeta più interno del Sistema solare per la sesta e ultima volta. Durante questa manovra di fionda gravitazionale, necessaria per l’inserimento – a fine 2026 – delle due sonde che compongono la missione in orbita attorno a Mercurio, alcuni strumenti di bordo hanno raccolto immagini e altri dati, come di consueto in questo tipo operazioni. Tra loro, anche l’Italian Spring Accelerometer (Isa), accelerometro made in Italy che ha registrato le vibrazioni della sonda in prossimità del pianeta, regalandoci il sottofondo sonoro di questo ultimo flyby immortalato nelle istantanee delle fotocamere di monitoraggio.


Tre immagini del sesto sorvolo di Mercurio da parte della missione BepiColombo, scattate dalle fotocamere di monitoraggio a bordo della sonda. Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm

«Il suono è stato creato a partire dai dati accelerometrici di Isa raccolti nell’ora in cui la sonda si è trovata più prossima a Mercurio», spiega a Media Inaf Carmelo Magnafico, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica e co-investigator dello strumento Isa. «È stato necessario traslare in frequenza le misurazioni perché rientrassero nello spettro udibile dell’orecchio umano: in pratica, il tempo delle misure è stato compresso tanto da ridurre l’ora di dati a un minuto di suono. Isa è sensibile a tutte le accelerazioni subite dalla sonda che non siano direttamente dovute alla gravità, comprese le vibrazioni del satellite stesso. Per questo motivo i dati ci sono molto utili per capire tutte le forze, sia generate internamente che esternamente, che “spingono” la sonda su un’orbita diversa da quella che si otterrebbe sotto l’effetto esclusivo della gravità del Sole e di Mercurio».

Il video, pubblicato oggi dall’Esa, mostra una simulazione di BepiColombo durante il sorvolo con l’aggiunta – nella seconda metà del filmato – delle immagini di Mercurio raccolte durante il flyby. Dall’inizio alla fine, si percepisce un ronzio di fondo (non particolarmente piacevole) causato dal continuo tremolio del satellite: si tratta di piccole perturbazioni, dal carburante che viene leggermente sbatacchiato ai pannelli solari che vibrano alla loro frequenza naturale, fino al vapore nelle tubature di bordo. Man mano che ci si avvicina a Mercurio, si riconoscono altri suoni: per esempio, si possono ascoltare dei piccoli tonfi in corrispondenza dell’ingresso e della sonda all’interno dell’ombra del pianeta e, più tardi, anche in uscita. I rumori più forti, come il rombo, simile a quello di una grancassa, che si sente intorno al minuto 00:17 e poi di nuovo intorno al minuto 00:51, sono invece causati dalla rotazione dei lunghissimi pannelli solari (catturata, nel secondo caso, anche da una delle fotocamere di monitoraggio).


Questo spettrogramma riassume i momenti salienti del flyby registrati nei dati dello strumento Isa e trasformati in suono. In alto, indicato dalle frecce rosse, il contributo delle ruote di reazione. Nella parte inferiore, corrispondente alle frequenze più basse, si nota il contributo dei pannelli solari del modulo Mtm, i veri protagonisti del suono. Crediti: Esa/BepiColombo/Isa

«Un altro effetto visibile sui dati è quello delle maree che Isa e la struttura del satellite subiscono per l’estrema vicinanza di Mercurio», nota Magnafico. «L’effetto del pianeta è infatti quello di attrarre in maniera diversa le parti del satellite più prossime al suo centro, rispetto a quelle più distanti. Anche se piccolissimo, questo effetto viene riscontrato direttamente sui dati e percepito dal satellite che vorrebbe allungarsi e allinearsi con Mercurio». La compensazione di quest’ultimo fenomeno da parte delle ruote di reazione della sonda, che hanno il compito di mantenerlo nell’assetto comandato, risulta udibile sotto forma di un ronzio che cambia in frequenza a partire dal minuto 00:30 e che dura circa sette secondi.

Il ricercatore ricorda che attualmente, in fase di crociera, BepiColombo è formato da tre satelliti – il Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa, il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mio) della Jaxa e il Mercury Transfer Module (Mtm) – ed è quindi molto più grande di come sarà il solo Mpo, a bordo del quale si trova Isa, durante la fase scientifica in orbita attorno a Mercurio. «L’analisi di questi dati è cruciale per il team di Isa», prosegue, «perché possiamo confrontare le misure con i segnali fisici attesi (il salto tra luce e ombra e i gradienti di gravità) e correlare tra loro tutti quelli registrati negli altri flyby in cui è stato possibile misurare effetti analoghi. Una sorta di calibrazione in volo». Questo sorvolo è stata l’ultima occasione per misurare molti di questi effetti con a bordo i pannelli solari del modulo Mtm, lunghi ciascuno 14 metri, che rendono la sonda più suscettibile alle vibrazioni. Il modulo di trasferimento, infatti, non entrerà in orbita attorno a Mercurio ma si separerà dai due orbiter una volta a destinazione.

«Isa opererà per prendere quanti più dati possibili in questa fase di crociera che offre delle caratteristiche particolari quando si è lontani da Mercurio e l’attività a bordo è limitata: questo ci sta consentendo di provare il nostro accelerometro in condizioni di quiete e imparare a individuare i molti effetti presenti a bordo», aggiunge Magnafico. «BepiColombo entrerà in orbita nel novembre 2026 e al quel punto abbandonerà l’Mtm e i suoi grandi pannelli solari e, nella primavera del 2027, comincerà la vera missione. Tuttavia i dati di calibrazione e le informazioni raccolte ora saranno preziosissime per distinguere tra loro gli effetti delle molte accelerazioni che agiranno sulla sonda».

Guarda il video sul canale YouTube dell’Esa (il suono è stereo, si consiglia l’uso delle cuffie):

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L’asteroide 2024 PT5 è un frammento di Luna



In orbita attorno al Sole ci sono alcuni corpi con orbite estremamente simili a quella della Terra e con una velocità geocentrica all’infinito inferiore alla velocità di fuga della Luna (circa 2,4 km/s) o alla sua velocità orbitale (1 km/s). Corpi con una velocità relativa così bassa possono essere sia di origine artificiale, sia naturale. Gli oggetti artificiali sono generalmente gli stadi superiori dei razzi di missioni del passato che vengono casualmente riscoperti dalle survey che cercano asteroidi near-Earth (Nea). Nella maggior parte dei casi questi oggetti hanno un rapporto area/massa elevato perché all’interno sono cavi e quindi le loro orbite – oltre a essere determinate dalla gravità del Sole e dei pianeti – sono perturbate dalla pressione di radiazione solare su scale temporali brevi, settimane o mesi.

La perturbazione dell’orbita da parte della radiazione ha permesso di scoprire che l’asteroide 2018 AV2 è probabilmente artificiale e legato alla missione Apollo 10, oppure che J002E3 potrebbe essere lo stadio superiore del Saturn V dell’Apollo 12. Molti di voi ricorderanno il caso dell’ex asteroide 2020 SO, che divenne un satellite temporaneo della Terra per un periodo di alcuni mesi, a cavallo fra il 2020 e il 2021. In realtà, come è stato appurato attraverso osservazioni fotometriche e spettroscopiche, non era un asteroide, ma uno space debris: il secondo stadio del razzo Atlas-Centaur che portò il Surveyor 2 verso la Luna nel 1966, una delle tante sonde senza equipaggio che avevano lo scopo di esplorare la superficie lunare in preparazione delle missioni Apollo.


L’asteroide Kamoʻoalewa ripreso il 7 marzo 2024 dalla Stazione Astronomica di Loiano dell’Inaf-Oas quando era di magnitudine +22. Crediti: A. Carbognani/Inaf.

Per quanto riguarda i corpi di origine naturale con una bassa velocità geocentrica, l’origine più probabile è che siano frammenti espulsi nello spazio a causa delle collisioni con asteroidi near-Earth del sistema Terra-Luna. I crateri da impatto sulla Terra e sulla Luna ci dicono che eventi di questo genere erano molto frequenti nel passato e anche ora la probabilità di un impatto non è zero, come ci ricordano le cadute di Tunguska (1908) e Chelyabinsk (2013).

L’espulsione di ejecta dalla Terra durante la formazione del cratere è teoricamente possibile, ma per via dell’elevata velocità di fuga del nostro pianeta (11,4 km/s), è necessario un impatto molto energetico affinché i frammenti vengano espulsi nello spazio. Considerato che i grandi impatti sono rari, è molto più facile che siano gli ejecta lunari a entrare in orbita eliocentrica, diventando asteroidi near-Earth a bassa velocità relativa con la Terra.

Di origine lunare è sicuramente l’asteroide (469219) Kamoʻoalewa, uno dei migliori quasi-satelliti della Terra con dimensioni comprese fra 40 e 100 metri. Nel 2021 una caratterizzazione spettroscopica di Kamoʻoalewa, fatta utilizzando il Large Binocular Telescope e il Lowell Discovery Telescope, ha mostrato che molto probabilmente si tratta di un frammento di superficie lunare e la China National Space Administration sta pianificando l’invio della missione robotica Tianwen-2 per portare sulla Terra campioni da Kamoʻoalewa e confermare così i risultati delle osservazioni telescopiche. Il lancio dovrebbe avvenire nel maggio 2025.


La traiettoria geocentrica di 2024 PT5, il secondo asteroide noto di origine lunare. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech.

Recentemente è stato scoperto che anche l’asteroide 2024 PT5 è un frammento di Luna. Si tratta di un corpo di 8-19 metri di diametro scoperto dal telescopio sudafricano del progetto Atlas il 7 agosto 2024. Il giorno dopo la scoperta, 2024 PT5 ha raggiunto la minima distanza dalla Terra di circa 568mila chilometri con una velocità relativa di 1,37 km/s e proseguendo lungo la propria orbita eliocentrica ha iniziato ad allontanarsi. Nel periodo 29 settembre – 25 novembre 2024, 2024 PT5 è diventato un quasi-satellite della Terra mantenendosi a una distanza compresa fra 3,5 e 4 milioni di chilometri dal nostro pianeta. Successivamente, il 9 gennaio di quest’anno 2024 PT5 ha fatto il passaggio al nodo discendente dell’orbita eliocentrica ed è arrivato alla minima distanza di 1,8 milioni di chilometri con una velocità relativa di 1 km/s e ora è in fase di allontanamento dalla Terra.

Subito dopo la scoperta, il 14 agosto, 2024 PT5 è stato caratterizzato fotometricamente con il Lowell Discovery Telescope. Dalla spettrofotometria è stata trovata una banda di assorbimento a 1 μm che suggeriva un’origine naturale per 2024 PT5 e ha motivato ulteriori osservazioni. Queste osservazioni sono state fatte il 16 agosto con l’utilizzo simultaneo di due strumenti, ancora il Lowell Discovery Telescope e in più l’Infrared Telescope Facility della Nasa, per ottenere la spettroscopia nel visibile del target.

Gli spettri ottenuti mostrano che, nel complesso, 2024 PT5 è un oggetto piuttosto rosso, infatti alla lunghezza d’onda di a 2,35 μm riflette circa il doppio della luce rispetto a 0,55 μm. Inoltre, è confermato che la superficie di 2024 PT5 ha una forte banda in assorbimento alla lunghezza d’onda di 1,0 μm e un’altra debole banda in assorbimento a 2,0 μm, coerente con una composizione di tipo roccioso, ricca di silicati. Con questo spettro di riflettanza non c’è alcun motivo per ipotizzare un’origine artificiale dell’oggetto.

Inoltre, se 2024 PT5 avesse un elevato rapporto area/massa come la maggior parte degli space debris, dovrebbe mostrare una significativa deriva orbitale dovuta alla pressione della radiazione, ma dall’analisi delle osservazioni astrometriche questo non risulta. L’asteroide 2024 PT4 è quindi di origine naturale, ma qual è la sua origine?

Se si prendono gli spettri delle classi tassonomiche in cui sono stati suddivisi gli asteroidi si vede che nessuna classe si adatta allo spettro di 2024 PT5. I tipi O e Q non sono abbastanza rossi, mentre i tipi A (la classe di asteroidi più rossa e ricca di silicati) sono troppo rossi. Altri tipi di asteroidi rocciosi, come gli S, hanno una pendenza spettrale completamente diversa. In termini di pendenza spettrale 2024 PT5 è un tipo intermedio rispetto a diverse classi di asteroidi rocciosi, quindi potrebbe provenire dalla fascia principale, ma avrebbe caratteristiche davvero inconsuete.

In realtà, lo spettro dell’asteroide è molto simile a quello dei campioni della superficie lunare raccolti dalle missioni Luna 24, Apollo 14 e Apollo 17. In sostanza, la superficie di 2024 PT5 riflette la luce in modo molto più simile ai materiali lunari rispetto a qualsiasi altro tipo di asteroide conosciuto, proprio come Kamo‘oalewa.

La scoperta di un secondo asteroide near-Earth di origine lunare suggerisce che esista tutta una popolazione di Nea di questo tipo. Facendo qualche stima risulta che potrebbero esserci circa 16 Nea di origine lunare fra quelli già noti. Il problema è ottenerne gli spettri per discriminarne l’origine, ma ora possiamo iniziare a gettare uno sguardo diretto alla violenta evoluzione collisionale del sistema Terra-Luna.

Per saperne di più:



Inkathazo, gigantesca radiogalassia da decifrare




La radiogalassia Inkathazo con i suoi poderosi getti di plasma che si estendono per 3.3 milioni di anni luce. Crediti: K. K. L Charlton (Uct), MeerKat, Hsc, Carta, Idia

Gigantesca ed enigmatica è l’emissione radio di una galassia scoperta da un team internazionale di ricercatori nel cielo australe utilizzando l’interferometro MeerKat, localizzato in Sud Africa. La ciclopica emissione, che raggiunge un’estensione grande quanto 32 volte la Via Lattea, è prodotta da getti di plasma generati da un buco nero supermassiccio in fase di accrescimento.

Si chiamano radiogalassie giganti e sono oggetti che sprigionano imponenti emissioni radio che si estendono ben oltre la componente stellare. In particolare, quella appena scoperta sembrerebbe essere più enigmatica delle altre, tanto da guadagnarsi il soprannome di Inkathazo, che nei linguaggi africani Xhosa e Zulu significa niente meno che “problema”.

«Non ha le stesse caratteristiche di molte altre radiogalassie giganti», afferma Kathleen Charlton, studentessa dell’Università di Città del Capo e prima autrice dell’articolo che presenta la scoperta, uscito questa settimana su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (Mnras). Tra i coautori anche gli italiani Ivan Delvecchio e Lucia Marchetti dell’Inaf di Bologna. «Per esempio, i getti di plasma hanno una forma inusuale: anziché estendersi per diritto da una parte all’altra, uno dei getti è piegato», aggiunge Charlton.

Non solo la forma dei getti è un problema, ma pure la loro stazza immane, protesa per oltre tre milioni di anni luce. Inkathazo non è infatti una galassia solitaria ma possiede numerose vicine di casa, tutte parte di un ammasso, ovvero un insieme molto vasto di galassie, traboccante di gas caldo e materia oscura. Non si capisce insomma come abbia fatto il gas a raggiungere le dimensioni osservate dovendo fronteggiare un ambiente ricco di oggetti. «Questa scoperta è entusiasmante e inaspettata», commenta Kshitij Thorat, coautore dello studio. «Trovare una radiogalassia gigante all’interno di un ammasso solleva domande riguardo al ruolo delle interazioni nella formazione ed evoluzione di queste galassie giganti».


Mappa dell’età degli elettroni nei getti di plasma. Gli elettroni più “giovani” – ovvero, riaccelerati di recente – sono rappresentati in verde. In viola invece troviamo il plasma più “vecchio”, che non ha subito una riaccelerazione ad opera di fenomeni energetici. Crediti: K. K. L Charlton (Uct), MeerKat, Hsc, Carta, Idia

Le galassie di un ammasso infatti, proprio come gli abitanti di uno stesso quartiere, frequentemente interagiscono fra loro, a causa della forza di gravità che le calamita l’una verso l’altra. Con esiti che, a quanto pare, talvolta potrebbero essere inattesi.

Grazie alle prodigiose capacità di MeerKat è stato possibile mappare l’età del gas – ovvero, da quanto tempo è stato accelerato dal buco nero centrale – con grande accuratezza, nelle diverse regioni dei getti. Esaminando queste mappe i ricercatori si sono accorti che l’età è piuttosto variabile, suggerendo che in certe zone gli elettroni nel plasma siano stati riaccelerati da fenomeni energetici. I responsabili potrebbero essere gli impatti tra i getti e il gas caldo diffuso tra una galassia e l’altra all’interno dell’ammasso. «Questi risultati mettono in crisi i modelli esistenti e suggeriscono che non comprendiamo ancora molto della complessa fisica del plasma che agisce in queste galassie estreme», afferma Thorat.

Inkathazo non è l’unica radiogalassia gigante scoperta da MeerKat. Il potente interferometro situato nell’emisfero australe ne ha scovate altre due prima di lei, in una regione del cielo denominata Cosmos, grande quanto cinque lune piene.

«Il fatto che abbiamo rivelato tre radiogalassie giganti puntando MeerKat verso una singola regione del cielo dimostra che c’è verosimilmente un enorme tesoro di radiogalassie giganti sconosciute nel cielo australe», dice Jacinta Delhaize, ricercatrice dell’Università di Città del Capo. La maggior parte delle radiogalassie giganti a ora note si trova infatti nell’emisfero celeste settentrionale.

Il radiotelescopio MeerKat in Sud Africa. Crediti: South African Radio Astronomy Observatory
Il radiotelescopio MeerKat in Sud Africa. Crediti: South African Radio Astronomy Observatory

MeerKat è il precursore dello Square Kilometer Array (Ska), straordinario radiotelescopio attualmente in costruzione e che effettuerà le prime operazioni entro la fine del decennio, alla cui realizzazione sta contribuendo anche il nostro Paese. «Stiamo entrando in un’era entusiasmante della radioastronomia», conclude Delhaize. «Mentre MeerKat ci ha portati più lontano di quanto fosse stato fatto in precedenza, Ska ci permetterà di spingere questi confini ancora più lontano e, sperabilmente, di risolvere alcuni dei misteri che circondano oggetti enigmatici come le radiogalassie giganti».

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A spatially resolved spectral analysis of giant radio galaxies with MeerKAT” di K. K. L. Charlton, J. Delhaize, K. Thorat, I. Heywood, M. J. Jarvis, M. J. Hardcastle, F. An, I. Delvecchio, C. L. Hale, I. H. Whittam, M. Brüggen, L. Marchetti, L. Morabito, Z. Randriamanakoto, S. V. White e A. R. Taylor


Un fast radio burst senza magnetar



Per la prima volta, gli astronomi hanno rilevato un lampo radio veloce (Frb, dall’inglese fast radio burst) alla periferia di un’antica galassia ellittica apparentemente morta: una posizione assolutamente imprevista per un fenomeno precedentemente associato a galassie molto più giovani. Illustrata in due studi complementari condotti dalla Northwestern University e dalla McGill University, la scoperta manda in frantumi l’ipotesi che i lampi radio veloci provengano esclusivamente da regioni di formazione stellare attiva. Le nuove prove osservative suggeriscono che le origini di questi misteriosi eventi cosmici potrebbero essere diverse da quanto si riteneva in precedenza. Entrambi gli studi sono stati pubblicati martedì sulla rivista Astrophysical Journal Letters.


Gli astronomi hanno rilevato Frb 20240209A nel febbraio 2024 con il Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime). Crediti: Chime, Andre Renard, Dunlap Institute for Astronomy & Astrophysics, University of Toronto

«La teoria prevalente è che gli Frb provengano da magnetar formate da supernove a collasso del nucleo», spiega Tarraneh Eftekhari della Northwestern, che ha guidato uno degli studi ed è coautrice dell’altro. «Non sembra essere questo il caso. Mentre le stelle giovani e massicce terminano la loro vita come supernove a collasso del nucleo, non vediamo alcuna prova di stelle giovani in questa galassia. Grazie a questa nuova scoperta, si sta delineando un quadro che mostra che non tutti gli Frb provengono da stelle giovani. Forse c’è una sottopopolazione di Frb associata a sistemi più vecchi».

Gli astronomi hanno rilevato per la prima volta questo Frb, denominato Frb 20240209A, nel febbraio 2024 con il Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime). Gli Frb, che si accendono e scompaiono nel giro di pochi millisecondi, sono brevi e potenti esplosioni radio che generano più energia in una sola rapida esplosione di quanta ne emetta il Sole in un anno intero. In particolare, questo evento si è ripetuto più di una volta. Tra l’esplosione iniziale di febbraio e il mese di luglio 2024, la stessa sorgente ha prodotto altri 21 impulsi, sei dei quali sono stati rilevati anche da un telescopio situato a 60 chilometri di distanza dalla stazione principale di Chime. Gli outrigger, versioni più piccole di Chime, consentono agli astronomi di circoscrivere con precisione le posizioni specifiche degli Frb nel cielo, facendo una triangolazione.

Dopo aver individuato la posizione del lampo radio, Eftekhari e i suoi collaboratori si sono affrettati a utilizzare i telescopi degli osservatori W.M. Keck e Gemini per esplorare l’ambiente circostante l’evento. Sorprendentemente, invece di trovare una galassia giovane, hanno visto che il lampo radio ha avuto origine ai margini di una galassia di 11,3 miliardi di anni, situata a soli 2 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente luminosa e incredibilmente massiccia: 100 miliardi di volte la massa del Sole. «Sembra essere la galassia ospite di un Frb finora più massiccia», riferisce Eftekhari. «È tra le galassie più massicce in circolazione».

Ma mentre la maggior parte degli Frb si origina all’interno delle galassie, il team ha rilevato Frb 20240209A in periferia, a 130mila anni luce dal centro della galassia, dove esistono poche altre stelle. «Tra la popolazione di Frb, questo è il più lontano dal centro della galassia ospite», dichiara Vishwangi Shah. «Questo è sorprendente ed emozionante, perché ci si aspetta che gli Frb abbiano origine all’interno delle galassie, spesso in regioni di formazione stellare. La localizzazione di questo Frb così lontano dalla sua galassia ospite solleva domande su come eventi così energetici possano verificarsi in regioni in cui non si stanno formando nuove stelle».

Prima di questa scoperta, gli astronomi avevano rintracciato solo un altro Frb ai margini esterni di una galassia. Nel 2022, infatti, un team internazionale di astronomi ha rilevato un Frb proveniente da un ammasso globulare ai margini di Messier 81 (M81), una galassia a spirale a circa 12 milioni di anni luce dalla Terra. Certo, il lampo radio in questo caso era associato a una galassia viva, non a una vecchia ellittica in cui la formazione stellare è cessata miliardi di anni fa.


La posizione del fast radio burst, indicata dai contorni ovali, è alla periferia di una galassia ellittica massiccia, l’ovale giallo a destra. Crediti: Gemini Observatory

Dei circa 100 Frb finora individuati, la maggior parte ha probabilmente avuto origine da magnetar, che si formano attraverso supernove a collasso del nucleo. Gli astrofisici ritengono che l’origine di Frb 20240209A, tuttavia, potrebbe essere simile a quella dell’Frb trovato in M81. In particolare, lo studio guidato da McGill discute la probabilità che il nuovo Frb abbia avuto origine all’interno di un denso ammasso globulare, come in M81. Tali ammassi sono siti promettenti per le magnetar che potrebbero essersi formate attraverso altri meccanismi e associate a stelle più vecchie, tra cui la fusione di due stelle di neutroni o il collasso di una nana bianca sotto la propria gravità.

«Un’origine da ammasso globulare per questo Frb ripetuto è lo scenario più probabile per spiegare perché questo Frb si trova al di fuori della sua galassia ospite», dice Shah. «Non sappiamo con certezza se nella posizione dell’Frb sia presente un ammasso globulare e abbiamo presentato una proposta per utilizzare il James Webb Space Telescope per osservazioni di follow-up della posizione dell’Frb. In caso affermativo, sarebbe il secondo Frb noto a risiedere in un ammasso globulare. In caso contrario, dovremmo considerare scenari esotici alternativi per l’origine dell’Frb».

«È chiaro che c’è ancora molto spazio per le scoperte quando si tratta di Frb», conclude Eftekhari, «e che i loro ambienti potrebbero contenere la chiave per svelare i loro segreti».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The massive and quiescent elliptical host galaxy of the repeating fast radio burst FRB 20240209A” di T. Eftekhari25, Y. Dong (董雨欣), W. Fong, V. Shah, S. Simha, B. C. Andersen, S. Andrew, M. Bhardwaj, T. Cassanelli, S. Chatterjee, D. A. Coulter, E. Fonseca, B. M. Gaensler, A. C. Gordon, J. W. T. Hessels, A. L. Ibik, R. C. Joseph, L. A. Kahinga, V. Kaspi, B. Kharel, C. D. Kilpatrick, A. E. Lanman, M. Lazda, C. Leung25, C. Liu, L. Mas-Ribas, K. W. Masui, R. Mckinven, J. Mena-Parra, A. A. Miller, K. Nimmo, A. Pandhi, S. S. Patil, A. B. Pearlman26, Z. Pleunis, J. X. Prochaska, M. Rafiei-Ravandi, M. Sammons, P. Scholz, K. Shin, K. Smith, and I. Stairs
  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “A Repeating Fast Radio Burst Source in the Outskirts of a Quiescent Galaxy” di Vishwangi Shah, Kaitlyn Shin, Calvin Leung27, Wen-fai Fong, Tarraneh Eftekhari27, Mandana Amiri, Bridget C. Andersen, Shion Andrew, Mohit Bhardwaj, Charanjot Brar, Tomas Cassanelli, Shami Chatterjee, Alice Curtin, Matt Dobbs, Yuxin Dong (董雨欣), Fengqiu Adam Dong, Emmanuel Fonseca, B. M. Gaensler, Mark Halpern, Jason W. T. Hessels, Adaeze L. Ibik, Naman Jain, Ronniy C. Joseph, Jane Kaczmarek, Lordrick A. Kahinga, Victoria M. Kaspi, Bikash Kharel, Tom Landecker, Adam E. Lanman, Mattias Lazda, Robert Main, Lluis Mas-Ribas, Kiyoshi W. Masui, Ryan Mckinven, Juan Mena-Parra, Bradley W. Meyers, Daniele Michilli, Kenzie Nimmo, Ayush Pandhi, Swarali Shivraj Patil, Aaron B. Pearlman28, Ziggy Pleunis, J. Xavier Prochaska, Masoud Rafiei-Ravandi, Mawson Sammons, Ketan R. Sand, Paul Scholz, Kendrick Smith, and Ingrid Stairs


Einstein Probe rileva una strana esplosione cosmica




La Einstein Probe ha rilevato il debole segnale a raggi X del transiente Ep240315a molto prima della sua controparte a raggi gamma. Questo dimostra l’elevata sensibilità delle sue ottiche. Le osservazioni successive hanno mostrato che il burst proveniva da circa 12,5 miliardi di anni luce di distanza, iniziando il suo viaggio cosmico verso di noi quando l’universo aveva appena il 10 pe rcento della sua età attuale. Crediti: Openverse/ Einstein Probe Science Center

Il 15 marzo 2024, lo strumento Wxt a bordo della missione Einstein Probe ha rilevato un’esplosione di raggi X a bassa energia. Gli astronomi definiscono questi raggi X “morbidi”, anche se sono molto più energetici della luce visibile o ultravioletta. L’esplosione è durata più di 17 minuti e, prima di scomparire, ha “sfarfallato” in luminosità. Un evento del genere è noto come transiente veloce di raggi X (Fxrt, dall’inglese fast X-ray transient) e a questo particolare transiente è stata data la designazione Ep240315a.

Circa un’ora dopo l’osservazione dell’emissione X, un telescopio in Sudafrica – nell’ambito del progetto Atlas, Asteroid Terrestrial-Impact Last Alert System – ha rilevato luce visibile provenire dalla stessa direzione. Le osservazioni successive del telescopio Gemini-North alle Hawaii e del Very Large Telescope in Cile hanno fornito misure di redshift che hanno confermato che il burst proveniva da circa 12,5 miliardi di anni luce di distanza, iniziando il suo viaggio cosmico verso di noi quando l’universo aveva appena il 10 percento della sua età attuale. Si è trattato della prima volta che sono stati rilevati raggi X morbidi per una durata così lunga da un’esplosione così antica.

La rapida individuazione di Ep240315a ha permesso al team di collaborare con Roberto Ricci dell’Università di Roma Tor Vergata, associato all’Inaf, di osservare il burst a lunghezze d’onda radio utilizzando l’Australian Telescope Compact Array (Atca). Monitorandolo per tre mesi, hanno stabilito che l’energia emessa era coerente con un tipico gamma-ray burst (Grb). Da analisi successive è emerso che i raggi X coincidono effettivamente con un gamma-ray burst noto come Grb 240315C. Questo burst era stato osservato dallo strumento Burst Alert Telescope (Bat) a bordo del satellite Swift della Nasa e dallo strumento Konus della Federazione Russa sulla sonda Wind della Nasa.


Roberto Ricci, ricercatore dell’Università di Roma Tor Vergata, associato all’Inaf. Crediti: R. Ricci

«Questi risultati dimostrano che un gran numero di Fxrt è associato a Grb e che i più avanzati telescopi a raggi X come Einstein Probe, e in futuro Theseus, possono individuarli in galassie remote, spingendosi fino agli albori dell’universo», commenta Ricci. «Combinando la potenza delle osservazioni a raggi X con quelle radio, abbiamo a disposizione un nuovo modo per esplorare queste potenti esplosioni cosmiche, anche senza rilevarne i raggi gamma».

Tuttavia, c’è un mistero da risolvere. Sebbene i Grb siano associati ai raggi X, Ep240315a è diverso. Di solito i raggi X precedono i raggi gamma di poche decine di secondi, ma Ep240315a è stato osservato più di sei minuti (372 secondi) prima di Grb 240315C: un ritardo così lungo non era mai stato osservato prima.

Se a questo si aggiunge la durata inaspettatamente lunga dell’emissione X, si deduce che non è ancora chiaro come esplodono i Grb. Il tempo e l’aumento dei dati disponibili sicuramente contribuiranno a migliorare la comprensione di questi fenomeni cosmici. Sebbene le missioni precedenti siano state in grado di rilevare i raggi X morbidi, la sensibilità e il campo visivo superiori di Einstein Probe hanno aperto di molto questa interessante finestra.

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Così ruota il gas attorno al buco nero di M87


media.inaf.it/2025/01/23/fluss…
A sei anni dalla pubblicazione della storica “fotografia” del buco nero supermassiccio M87*, la prima a immortalare un buco nero, la Collaborazione Event Horizon Telescope (Eht) presenta una nuova analisi su M87*. Questa analisi combina le osservazioni effettuate nel 2017 e nel 2018, e consente nuove intuizioni sulla struttura e la dinamica del plasma vicino al margine del buco nero. In particolare, i risultati, pubblicati ieri su Astronomy & Astrophysics confermano che l’asse di rotazione del buco nero M87* punta lontano dalla Terra, e dimostrano che le turbolenze all’interno del disco di accrescimento – il gas in rotazione attorno al buco nero – giocano un ruolo importante nello spostamento del picco di luminosità dell’anello.


Immagini osservate e teoriche di M87*. I pannelli di sinistra mostrano immagini di M87* provenienti dalle campagne osservative di Eht del 2017 e del 2018. I pannelli centrali mostrano immagini esemplificative di una simulazione magnetoidrodinamica relativistica generale (Grmhd) in due momenti diversi. I pannelli di destra presentano le stesse istantanee della simulazione, sfocate per adattarsi alla risoluzione osservativa di Eht. Crediti: Eht Collaboration

«L’ambiente di accrescimento di un buco nero è per sua natura turbolento e dinamico, e nel caso di M87*, le nostre osservazioni del 2017 e del 2018 mostrano quadri molto differenti tra loro», spiega Hung-Yi Pu, coordinatore dello studio e ricercatore presso la National Taiwan Normal University. «Osservando il buco nero in evoluzione e confrontandone le osservazioni progressive, abbiamo fatto un importante passo avanti nella comprensione delle complesse dinamiche che lo governano».

Le osservazioni del 2018 hanno confermato, infatti, non soltanto la presenza dell’anello luminoso di M87* catturato per la prima volta nel 2017, con un diametro di circa 43 microarcosecondi (coerentemente con le previsioni teoriche per l’ombra di un buco nero di 6,5 miliardi di masse solari), ma anche alcune previsioni teoriche rispetto alla rotazione del buco nero. Come ipotizzato dalla Collaborazione Eht, la regione più luminosa dell’anello si è spostata in senso antiorario di circa 30 gradi rispetto al 2017, e il suo nuovo posizionamento valida anche la teoria secondo cui l’asse di rotazione del buco nero punta lontano dalla Terra. Questo spostamento è una diretta conseguenza delle forti turbolenze e instabilità che caratterizzano il disco di accrescimento, e che influenzano il modo in cui il materiale cade verso il buco nero e alimenta il potente getto relativistico osservabile a scale più ampie.

«Il flusso di accrescimento di M87* si manifesta sotto forma di un disco di gas caldo e magnetizzato che spiraleggia verso il buco nero. Il gas può muoversi nella stessa direzione della rotazione del buco nero (accrescimento progrado) oppure in direzione opposta (accrescimento retrogrado)», spiega Mariafelicia De Laurentis, professoressa dell’Università di Napoli Federico II e ricercatrice dell’Infn. «Le nostre analisi suggeriscono che proprio quest’ultimo scenario, in cui il gas ruota contro la rotazione del buco nero, è quello che meglio giustifica le variazioni osservate nel corso degli anni. Questo perché il moto retrogrado genera un ambiente più turbolento e instabile, favorendo fluttuazioni più marcate nell’emissione luminosa dell’anello che circonda il buco nero».

L’analisi dei dati, correlati presso il Max-Planck-Institut für Radioastronomie (Mpif) e il Mit Haystack Observatory ed elaborati da un gruppo internazionale di diverse istituzioni, ha consentito non soltanto di interpretare in modo accurato le osservazioni del 2017 e del 2018, ma anche di compilare una libreria di circa 120mila immagini di simulazione. Questa, tre volte più grande rispetto a quella utilizzata finora, aprirà a nuove previsioni teoriche su alcuni dei fenomeni più misteriosi dell’universo.

«Attualmente stiamo analizzando i dati del 2021 e 2022, e questo lavoro sarà determinante per rafforzare i vincoli statistici sui modelli di accrescimento e sulla dinamica magnetica intorno a M87*. L’estensione delle osservazioni su scale temporali più ampie ci consentirà di descrivere con maggiore precisione la turbolenza del plasma vicino all’orizzonte degli eventi e di mettere alla prova in modo più rigoroso le previsioni della relatività generale in condizioni estreme di gravità», conclude De Laurentis.

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Jwst cattura quindicimila stelle di Leo P



L’immagine che vedete qui sotto è stata ripresa dal telescopio spaziale James Webb e mostra una porzione della galassia nana Leo P (stelle in basso a destra, rappresentate in blu). Leo P è una galassia in formazione stellare situata a circa 5 milioni di anni luce di distanza, nella costellazione del Leone. Ha un diametro di circa 3.900 anni luce (circa il 4 per cento della Via Lattea). Un team di scienziati ha raccolto dati da circa 15mila stelle in Leo P per dedurre la sua storia di formazione stellare, stabilendo che la galassia ha attraversato tre fasi: un’esplosione iniziale di formazione stellare, una “pausa” durata diversi miliardi di anni e poi un nuovo ciclo di formazione stellare che sta ancora continuando.


L’immagine della Near-Infrared Camera di Webb combina la luce infrarossa alle lunghezze d’onda di 0,9 micron (in blu), 1,5 micron (in verde) e 2,77 micron (in rosso). Le stelle di Leo P appaiono blu rispetto alle galassie sullo sfondo per diversi motivi. Le stelle giovani e massicce, comuni nelle galassie in formazione stellare, sono prevalentemente blu. Leo P è inoltre estremamente carente di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio e le stelle “povere di metalli” che ne risultano tendono a essere più blu delle stelle simili al Sole. La struttura a bolla in basso al centro è una regione di idrogeno ionizzato che circonda una stella di tipo O calda e massiccia. Crediti: Nasa, Esa, Csa, K. McQuinn (Stsci), J. DePasquale (Stsci)



L’Inaf celebra i suoi primi venticinque anni




Copertina di “Inaf25”, volume ideato e curato da Roberto della Ceca e Giampaolo Vettolani, realizzato grazie al coordinamento editoriale di Cecilia Toso e la direzione artistica di Davide Coero Borga

Il 23 e 24 gennaio l’Istituto nazionale di atrofisica (Inaf) celebra i 25 anni dalla sua fondazione con un workshop dal titolo “Inaf +25” presso l’Auditorium nazionale “Ernesto Capocci” dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Capodimonte, una delle sedi storiche di maggior prestigio dell’Ente. La due giorni vuole celebrare i 25 anni della fondazione dell’Istituto e discutere sul futuro scientifico e tecnologico dell’Ente.

Era il 26 agosto 1999 quando sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana veniva pubblicato il decreto n. 296, che sanciva la nascita dell’Inaf, ente di ricerca italiano, controllato dal Ministero dell’università e della ricerca (Mur), con interessi e attività in campo astronomico, astrofisico e planetologico.

«L’Inaf è l’ente di ricerca italiano per lo studio dell’universo, è coinvolto nell’esplorazione del cosmo a tutte le lunghezze d’onda e con tutti i messaggeri celesti, dal nostro Sistema solare, attraverso il tempo e lo spazio, fino alle origini dell’universo. Una comunità di donne e uomini che contribuiscono ogni giorno a rendere più grande la nostra comprensione dell’universo in cui viviamo», dice Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto dal 5 aprile 2024. «Ci troviamo a Napoli non solo per celebrare il passato, ma soprattutto per discutere degli scenari nei prossimi 25 anni: un incontro proiettato nel futuro».

​​Da 25 anni l’Inaf si impegna a studiare l’universo in tutti i suoi aspetti, sviluppa strumentazione all’avanguardia per osservazioni e ricerche sia da terra sia dallo spazio, diffonde la cultura in campo astronomico e preserva il patrimonio storico nazionale nel campo.

«Forniamo alla ricerca un contributo che la comunità internazionale riconosce essere di elevata qualità. Utilizziamo prestigiose infrastrutture osservative a terra e nello spazio e metodologie e infrastrutture di calcolo avanzato. Sviluppiamo tecnologie di punta funzionali alla nostra ricerca e che trovano spesso applicazione in altri settori della società civile. Formiamo le nuove generazioni di studiosi a essere pronti per competere sullo scenario internazionale guardando con grande attenzione alle novità di metodi e tecnologie che possono facilitare l’accesso a nuove finestre di conoscenza. Siamo attenti alla valorizzazione e diffusione della conoscenza impegnandoci in iniziative che prevalentemente sono indirizzate a veicolare passione e bellezza verso bambini e ragazzi», dice Isabella Pagano, direttrice scientifica dell’Inaf dal 1° novembre 2024.

Programma del workshop

Il pomeriggio del 23 gennaio sarà dedicato a interventi che descrivono l’origine del concetto di Inaf, la sua fondazione, la crescita nel corso degli anni e le molte imprese e realizzazioni. Sarà inoltre presentato il volume Inaf25, ideato e curato da Roberto della Ceca e Giampaolo Vettolani, realizzato grazie al coordinamento editoriale di Cecilia Toso e la direzione artistica di Davide Coero Borga. Un volume pensato e strutturato per raccontare cronologicamente gli eventi principali che hanno dato all’Inaf e all’Italia intera la possibilità di avanzare in modo decisivo nell’esplorazione e nella conoscenza del cosmo.

Nella giornata del 24 gennaio sono previsti interventi e una tavola rotonda sul futuro dell’Inaf nei prossimi 25 anni dedicata allo sviluppo delle prossime attività scientifiche e tecnologiche dell’Ente. La tavola rotonda vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Tom Herbst dell’Istituto Max Planck per l’astronomia (Germania), Antonella Nota dello Space Telescope Science Institute (Stati Uniti), Phil Diamond (direttore generale dell’Osservatorio Ska), Roberta Zanin (project scientist dell’Osservatorio Cta), Monica Colpi (professore ordinario in astrofisica all’Università Milano Bicocca) ed Ester Antonucci (già direttrice dell’Inaf – Osservatorio astrofisico di Torino).



Un bestiario delle fasce di planetesimi extrasolari



Dopo la fascia principale degli asteroidi, compresa fra le orbite di Marte e Giove, la fascia di Kuiper oltre l’orbita di Nettuno fra le 30 e le 50 unità astronomiche (au) dal Sole è l’altra grande regione del Sistema solare a ospitare asteroidi e comete. Nella fascia di Kuiper ci sono corpi di tutte le dimensioni, si va dai granelli di polvere ai ciottoli alle comete fino ai pianeti nani. In generale, il processo di formazione dei pianeti a partire da dischi proto planetari composti da gas e polveri che circondano la stella ospite è in grado di produrre in modo efficiente fasce di planetesimi, quindi non sorprende che anche altre stelle siano dotate di strutture simili a quelle che circondano il Sole. La loro esistenza si può dedurre dalla presenza di un eccesso infrarosso nello spettro della stella attorno a cui orbitano (come ad esempio nello storico caso della stella Vega) e generalmente sono rilevabili attorno a stelle entro 500 anni luce dal Sole. Le osservazioni indicano che dal 17 al 33 per cento delle stelle presentano un analogo della fascia di Kuiper, percentuale che sale al 75 per cento per le stelle più giovani e meno evolute. Osservare le fasce di planetesimi extrasolari è importante perché, nel caso delle più giovani, è da queste strutture che si formano i pianeti, mentre le più mature sono il risultato della genesi planetaria: la loro analisi è importante per capire sia come si evolvono i sistemi planetari, sia per comprendere meglio l’evoluzione dello stesso Sistema solare.


Le 74 fasce di planetesimi della survey Reasons. Il nord è in alto e l’est è a sinistra. Le barre indicano una scala di 50 au, mentre le ellissi rappresentano il fascio sintetizzato delle osservazioni e danno una indicazione della risoluzione raggiunta. Crediti: L. Matrà et al., A&A, 693, 2025

A prima vista, trovare le fasce di planetesimi dovrebbe essere facile, data la loro grande estensione angolare. In realtà sono difficili da osservare e riprendere per via della loro bassa temperatura. I corpi che si trovano all’interno di una fascia di planetesimi sono molto lontani dalla loro stella, quindi sono estremamente freddi. Ad esempio, nella fascia di Kuiper le temperature variano da -250 a -150 gradi Celsius. A queste temperature le fasce emettono solo radiazione elettromagnetica a grande lunghezza d’onda, fra l’infrarosso e le microonde, il che le rende difficili da osservare.

Uno dei telescopi che le può osservare è l’Atacama Millimeter/submillimeter Array (Alma), gestito dallo European Southern Observatory (Eso) e dai suoi partner. Si tratta di un radiointerferometro composto di 66 antenne posto nel Cile settentrionale, specificamente progettato per rilevare radiazioni alle lunghezze d’onda millimetriche e sub-millimetriche, emesse da sorgenti astronomiche fredde, come le fasce di planetesimi. La scelta di osservare a queste lunghezza d’onda assicura che la maggior parte dei granelli di polvere emittenti non siano influenzati dalla pressione della radiazione e quindi è un modo per tracciare i planetesimi genitori pur senza risolverli direttamente. Ulteriori vantaggi di questa scelta includono il fatto che l’emissione stellare a queste lunghezze d’onda è debole nella maggior parte dei sistemi, lasciando inalterata l’immagine della fascia (al contrario di quello che accade con le osservazioni a lunghezza d’onda più corta) con una risoluzione sufficiente a risolverne i dettagli. Nel caso di Alma, nella configurazione più estesa dell’array, le risoluzioni vanno da 0,02 arcosecondi a 230 GHz a 0,043 arcosecondi a 110 GHz. Una fascia di planetesimi con un diametro di 200 au attorno a una stella a 150 anni luce dal Sole sottende un angolo apparente di 4,3 arcosecondi, circa 220 volte maggiore del miglior potere risolutivo di Alma.


Questa immagine mostra diverse antenne di Alma durante le osservazioni. Sopra di esse è visibile la fascia della Via Lattea, la nostra Galassia vista di taglio. Crediti: Eso/Y. Beletsky

Utilizzando Alma, l’Hawaiian Submillimeter Array (Sma) e dati di archivio, un team guidato da Luca Matrà, professore associato presso l’Università di Dublino, ha intrapreso una ricerca per riprendere quante più fasce di planetesimi possibili, in tutte le loro fasi evolutive, da quelle appena formate a quelle già mature. La survey, denominata Reasons (Resolved Alma and Sma Observations of Nearby Stars) è la maggiore del suo genere mai effettuata. Nell’ambito di Reasons sono state osservate interferometricamente per la prima volta 25 fasce di planetesimi a lunghezze d’onda di 1,27 mm; 15 con Alma e 10 con Sma. Queste osservazioni, combinate con osservazioni d’archivio, completano un censimento di follow-up di un campione di sorgenti già rilevate a lunghezze d’onda sub-millimetrica.

Tutti i set di dati sono stati analizzati e modellati in modo uniforme per ricavare le proprietà spaziali di tutte le fasce di planetesimi che sono state combinate con la fotometria a diverse lunghezze d’onda per ottenere le proprietà di emissione della polvere e della stella ospite. Reasons ha rivelato che le fasce di planetesimi hanno forme, dimensioni ed età diverse, ma all’interno di questa varietà si stanno delineando alcuni schemi ricorrenti. Prima di tutto, come era già noto da ricerche precedenti, è stato trovato che la dimensione delle fasce aumenta all’aumentare della luminosità intrinseca della stella, anche se con una correlazione più incerta rispetto alle ricerche precedenti. Inoltre è stata confermata una generale assenza di fasce più piccole di alcune decine di unità astronomiche, che sarebbero state facilmente rilevate e risolte se fossero state massicce come le altre fasce della popolazione osservata: ciò significa che o la maggior parte delle fasce si forma più lontano dalla propria stella oppure che le fasce più piccole sono meno massicce e quindi più difficili da rilevare. Il team di ricercatori ha anche confermato la correlazione fra la massa della fascia e il loro raggio, con le fasce più giovani che appaiono in media più piccole e più massicce delle fasce più vecchie. Questo andamento può essere attribuito all’evoluzione collisionale, che esaurisce le fasce piccole più velocemente di quelle grandi. Se questo processo dovesse avvenire più velocemente nelle fasce vicine alle stelle ospiti, potrebbe anche spiegare perché le fasce di piccole dimensioni sono rare. Le fasce analizzate da Reasons non sono più grandi di quelle scoperte in precedenza, ma sono più ampie ossia fissato il limite esterno, la loro estensione radiale verso la stella è maggiore: gli anelli sottili, come quello trovato intorno a Fomalhaut, sono rari nella popolazione osservata. Per spiegare questa caratteristica, una possibilità è che le fasce si allarghino con il passare del tempo. I primi risultati di questa survey, tuttavia, hanno rilevato che le fasce più vecchie non sono necessariamente quelle più larghe, il che indica che probabilmente non è così. Un’altra possibilità è che le fasce più larghe abbiano degli spazi al loro interno che le dividerebbero in anelli più stretti, ma che non possiamo ancora vedere per i limiti della risoluzione che è possibile raggiungere.

I risultati della survey Reasons sono molto interessanti, ed è solo l’inizio delle ricerche sulle fasce di planetesimi extrasolari. I futuri telescopi saranno in grado di scoprire sottostrutture all’interno delle fasce, come lacune e anelli, inoltre potrebbero persino nascondere dei pianeti nani molto simili a Plutonee Eris, pronti per essere scoperti.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “REsolved ALMA and SMA Observations of Nearby Stars (REASONS)“, di L. Matrà, S. Marino, D. J. Wilner, G. M. Kennedy, M. Booth, A. V. Krivov, J. P. Williams, A. M. Hughes, C. del Burgo, J. Carpenter, C. L. Davies, S. Ertel, Q. Kral, J.-F. Lestrade, J. P. Marshall, J. Milli, K. I. Öberg, N. Pawellek, A. G. Sepulveda, M. C. Wyatt, B. C. Matthews e M. MacGregor


Segnali d’inquietudine prima della tempesta




Il Solar Dynamics Observatory della Nasa ha catturato questa immagine di anelli coronali sopra una regione attiva del Sole a metà gennaio 2012. L’immagine è stata scattata nella lunghezza d’onda di 171 angstrom, nell’ultravioletto estremo. Crediti: Nasa/Solar Dynamics Observatory

Per decenni gli scienziati hanno cercato invano di prevedere con precisione i brillamenti solari, intense eruzioni sulla superficie della nostra stella che possono inviare raffiche di particelle cariche nel Sistema solare. Ora, utilizzando il Solar Dynamics Observatory della Nasa, un team di ricercatori ha identificato uno sfarfallio negli anelli coronali che sembra preannunciare sistematicamente un grande brillamento. Se fosse davvero così, questi segnali di inquietudine prima della tempesta sarebbero un vero e proprio avvertimento e potrebbero aiutare gli scienziati a proteggere gli astronauti e la tecnologia, nello spazio e a terra, dai pericoli del cosiddetto space weather.

Guidato dall’eliofisica Emily Mason della Predictive Sciences Inc. di San Diego, in California, il team ha esaminato gli anelli coronali in prossimità di 50 forti brillamenti solari, analizzando come la loro luminosità in luce ultravioletta estrema variasse in modo irregolare per alcune ore prima di un brillamento, rispetto ai loop sopra le regioni senza brillamenti. Questi anelli nascono da regioni attive in cui sta avvenendo il fenomeno della riconnessione magnetica, dove hanno origine anche i brillamenti solari.

Pubblicato su Astrophysical Journal Letters nel dicembre 2024 e presentato il 15 gennaio 2025 in una conferenza stampa durante il 245° meeting dell’American Astronomical Society, lo studio indica anche che lo sfarfallio raggiunge un picco prima per i brillamenti più forti. «I risultati sono davvero importanti per la comprensione dei brillamenti e possono migliorare la nostra capacità di prevedere il pericoloso tempo spaziale», commenta Mason. Tuttavia, il team afferma che sono necessarie ulteriori osservazioni per confermare questo legame.


I quattro pannelli di questa animazione mostrano le variazioni di luminosità dei loop coronali in quattro diverse lunghezze d’onda della luce ultravioletta estrema (131, 171, 193 e 304 angstrom) prima di un brillamento solare nel dicembre 2011. Le immagini sono state scattate dall’Atmospheric Imaging Assembly del Solar Dynamics Observatory della Nasa e sono state elaborate per rivelare il tremolio dei loop coronali. Crediti: Nasa/Solar Dynamics Observatory/JHelioviewer/E. Mason

Altri ricercatori hanno cercato di prevedere i brillamenti solari esaminando i campi magnetici sul Sole o cercando tendenze coerenti in altre caratteristiche degli anelli coronali. Tuttavia, Mason e i suoi colleghi ritengono che la misurazione delle variazioni di luminosità dei loop coronali potrebbe fornire previsioni più precise rispetto a questi metodi, segnalando i brillamenti in arrivo con 2-6 ore di anticipo e con un’accuratezza del 60-80 per cento.

Gli scienziati sperano che le loro scoperte sui loop coronali possano essere utilizzate per aiutare a mantenere astronauti, veicoli spaziali, reti elettriche e altri beni al sicuro dalle radiazioni nocive che accompagnano i brillamenti solari. Ad esempio, un sistema automatizzato potrebbe cercare le variazioni di luminosità dei loop coronali nelle immagini in tempo reale del Solar Dynamics Observatory e lanciare un allarme in tempo utile.

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Arrivano le Safe Zone nelle sedi dell’Inaf




L’adesivo triangolare che si troverà affisso sulle porte dei dipendenti che avranno seguito il corso di formazione per le “Safe Zone Inaf”

Come trasformare il proprio ufficio, studio o laboratorio in un ambiente sicuro e inclusivo? Lo scopriranno a partire da domani, mercoledì 22 gennaio, i circa 170 dipendenti – 110 donne e 60 uomini – dell’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica, che hanno risposto all’offerta di un corso di formazione online sulle cosiddette safe zone. Il corso, della durata complessiva di sei ore, sarà tenuto da Roberto Baiocco, professore al Dipartimento di psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione della Sapienza. Al termine della formazione, i partecipanti riceveranno un adesivo identificativo “Safe Zone” da apporre sulla porta della propria stanza e un’attestazione, diventando punti di riferimento per promuovere l’inclusività nelle sedi dell’Inaf.

Per capire a chi si rivolgono e che funzione avranno le safe zone abbiamo raggiunto Silvia Piranomonte, astronoma e membro del Comitato unico di garanzia dell’Inaf che, insieme a Vito Giacalone (responsabile all’Inaf del benessere organizzativo) e al prorettore della Sapienza Fabio Lucidi, ha portato a termine l’accordo per inserire nel corso di formazione l’Inaf – primo ente di ricerca italiano a implementare le safe zone.

Piranomonte, che cos’è esattamente una safe zone?

«Le safe zone sono spazi di ascolto e condivisione pensati per promuovere inclusione, supporto e sicurezza all’interno delle comunità accademiche e di ricerca. Sebbene il concetto sia nato negli Stati Uniti nell’ambito dell’attivismo Lgbtq+ nei college e nelle università, oggi si è ampliato per abbracciare l’ideale moderno di libertà, affermando che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle differenze, sono uguali in dignità e diritti. Questi spazi offrono un ambiente in cui chiunque, in particolare le persone appartenenti a minoranze sessuali e di genere, può esprimersi pienamente dal punto di vista sociale, emotivo e intellettuale. Gli operatori delle safe zone ricevono una formazione mirata su tematiche legate al genere, agli orientamenti sessuali e alle identità di genere, per comprendere i fattori che riducono la discriminazione e aumentano il benessere».

Diceva che hanno avuto origine negli Stati Uniti. In Italia ci sono istituzioni che le hanno già adottate? Con quali risultati?

«Le safe zone, già implementate in università italiane come Sapienza a Roma e l’Università di Torino, e in numerose università e organizzazioni internazionali, hanno dimostrato di migliorare il senso di comfort e sicurezza percepito negli ambienti di lavoro, aumentare la visibilità delle persone appartenenti a minoranze, rafforzare il supporto esterno, aumentare il coinvolgimento delle comunità accademiche su temi legati alla diversità e alla consapevolezza sulle problematiche di genere e identità riducendo così i conflitti interni e migliorando il benessere generale all’interno degli ambienti di studio e lavoro».


Crediti: Silvia Piranomonte/Inaf

Ma concretamente come funzionano? A chi si rivolgono?

«In Inaf l’obiettivo è rendere le safe zone accessibili a studenti e a tutto il personale. Al termine della formazione, verranno distribuiti gli adesivi “Safe Zone Inaf” che identificheranno chiaramente i luoghi e le persone a cui rivolgersi. Questa iniziativa non solo rappresenta un forte messaggio di inclusione e supporto, ma contribuisce a creare una comunità in cui il rispetto e il benessere delle persone siano centrali».

Ci può fare un esempio?

«Per esempio, un/una dipendente Inaf, un/una contrattista, uno/a studente o studentessa che si senta discriminato/a, che viva difficoltà legate alla propria identità di genere, o si percepisca poco valorizzato/a, può trovare un ascolto empatico e confidenziale nella safe zone. La safe zone non è altro che lo spazio offerto da un/una collega formato/a, riconoscibile grazie all’adesivo “Safe Zone Inaf” affisso fuori dalla sua porta. In questo spazio, la persona troverà qualcuno in grado di ascoltarla e aiutarla a esplorare opzioni concrete per affrontare la situazione. Tuttavia, le safe zone non si limitano all’ascolto: grazie a una rete visibile e competente, possono anche indirizzare le persone verso risorse specifiche dell’ente, come supporto psicologico o legale interno, o altri servizi offerti dall’Inaf».



Venti a 33mila km/h su Wasp-127b


media.inaf.it/2025/01/21/venti…
Un team di astronomi ha scoperto venti molto potenti che spazzano l’equatore di Wasp-127b, un esopianeta gigante. Raggiungendo velocità fino a 33mila km/h, i venti formano la corrente a getto più veloce del suo genere mai misurata su un pianeta. La scoperta è stata fatta utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), in Cile, e fornisce informazioni uniche sulle formazioni meteorologiche di un mondo lontano.


Rappresentazione artistica dei venti supersonici su Wasp-127b. Crediti: Eso/L. Calçada

Tornado, cicloni e uragani devastano la Terra, ma gli scienziati hanno ora scoperto, molto al di fuori del Sistema solare, venti planetari su una scala completamente diversa. Fin dalla sua scoperta nel 2016, gli astronomi hanno studiato la meteorologia di Wasp-127b, un pianeta gassoso gigante situato a oltre 500 anni luce dalla Terra. Il pianeta è leggermente più grande di Giove, ma ha una massa molto più piccola, il che lo rende “gonfio”. Un gruppo internazionale di astronomi ha ora fatto una scoperta inaspettata: venti supersonici imperversano sul pianeta.

«Parte dell’atmosfera di questo pianeta si sta muovendo verso di noi ad alta velocità, mentre un’altra parte si sta allontanando da noi alla stessa velocità», dice Lisa Nortmann, scienziata dell’Università di Gottinga, in Germania, e autrice principale dello studio. «Questo segnale ci mostra che c’è una corrente a getto molto veloce, supersonica, intorno all’equatore del pianeta».

A 9 km al secondo (vale a dire ben 33mila km/h), questi venti canalizzati si muovono a una velocità quasi sei volte superiore a quella di rotazione del pianeta. «È qualcosa che non avevamo mai visto prima», dice Nortmann. È il vento più veloce mai misurato in una corrente a getto che si muove attorno a un pianeta. In confronto, il vento più veloce mai misurato nel Sistema solare, su Nettuno, viaggia a “soli” 0,5 km al secondo (1800 km/h).

Il gruppo di lavoro, la cui ricerca è stata pubblicata oggi su Astronomy & Astrophysics, ha mappato il meteo e la composizione di Wasp-127b utilizzando lo strumento Crires+ installato sul Vlt dell’Eso. Misurando come la luce della stella ospite viaggia attraverso la zona superiore dell’atmosfera del pianeta, sono riusciti a tracciarne la composizione. I risultati confermano la presenza di molecole di vapore acqueo e di monossido di carbonio nell’atmosfera del pianeta. Ma quando il gruppo ha tracciato la velocità di questo materiale nell’atmosfera, ha osservato, con grande sorpresa, un doppio picco: ciò indica che un lato dell’atmosfera si sta muovendo verso di noi e l’altro si sta allontando da noi, ad alta velocità. I ​​ricercatori concludono che potenti correnti a getto intorno all’equatore spiegherebbero questo risultato inaspettato.

Sviluppando ulteriormente la mappa meteorologica, il gruppo ha anche scoperto che i poli sono più freddi del resto del pianeta. C’è anche una leggera differenza di temperatura tra il lato mattutino e quello serale di Wasp-127b. «Questo dimostra che il pianeta ha strutture meteorologiche complesse, proprio come la Terra e altri pianeti del Sistema solare», spiega Fei Yan, coautore dello studio e professore all’Università di scienza e tecnologia della Cina.

Il campo della ricerca sugli esopianeti sta avanzando rapidamente. Fino a pochi anni fa, gli astronomi potevano misurare solo la massa e il raggio dei pianeti al di fuori del Sistema solare. Oggi, telescopi come il Vlt dell’Eso consentono già agli scienziati di mappare il meteo su questi mondi lontani e di analizzarne le atmosfere. «Comprendere le dinamiche degli esopianeti ci aiuta a esplorare meccanismi come la ridistribuzione del calore e i processi chimici, migliorando la nostra comprensione della formazione dei pianeti e gettando luce potenzialmente anche sulle origini del Sistema solare», dice David Cont della Ludwig Maximilian University di Monaco, Germania, e coautore dell’articolo.

È interessante notare che, al momento, studi come questo possono essere condotti solo da osservatori da terra, poiché gli strumenti attualmente presenti sui telescopi spaziali non hanno la necessaria precisione di misura delle velocità. L’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, in costruzione vicino al Vlt, in Cile, e il suo strumento Andes consentiranno ai ricercatori di approfondire ulteriormente le strutture meteorologiche su pianeti lontani. «Ciò significa che, probabilmente, potremo risolvere dettagli ancora più fini nelle strutture del vento ed espandere questa ricerca a pianeti più piccoli e rocciosi», conclude Nortmann.

Fonte: comunicato stampa Eso

Per saperne di più:

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube dell’Eso:

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Singolarità nude che sfidano la censura di Penrose



Due fisici indiani, Pankaj Joshi dell’Università di Ahmedabad e Sudip Bhattacharyya del Tata Institute of Fundamental Research, sostengono che il collasso gravitazionale della materia nell’universo primordiale abbia dato origine a singolarità nude che potrebbero costituire una frazione significativa della materia invisibile nell’universo.


Rappresentazione di una singolarità nuda. Crediti: Yukterez/Wikimedia Commons (Via Lattea sullo sfondo: Eso/S.Brunier)

In accordo con la teoria attualmente più accreditata, quando l’universo ha avuto origine dalla singolarità del Big Bang, gli stati della materia – in termini di temperatura, densità e altri aspetti – erano estremi. Nel 1971, il noto fisico Stephen Hawking suggerì, in seguito a una proposta simile avanzata nel 1966 da Yakov Zeldovich e Igor Novikov, che nell’universo primordiale si fossero verificate fluttuazioni quantistiche, ossia continui mutamenti temporanei nello stato di energia del vuoto che consentono la creazione di coppie virtuali particellaantiparticella. Se sufficientemente forti, queste fluttuazioni portano al collasso gravitazionale dei blob di materia ad altissima densità e, in alcuni casi, all’epoca potrebbero aver creato buchi neri primordiali (Phb, da primordial black holes) in misura abbondante.

Un buco nero è un oggetto cosmico esotico previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein, “immortalato” per la prima volta nel 2018 dalla collaborazione Event Horizon Telescope, che rilasciò la prima immagine nell’aprile dell’anno successivo. Non ha una superficie solida e la sua materia è quasi infinitamente densa. Questa materia, cioè la singolarità, è nascosta all’interno di un confine invisibile, chiamato orizzonte degli eventi, dal quale nulla, nemmeno la luce, può sfuggire. Nel caso dei buchi neri, quindi, non è possibile accedere a questa singolarità e alla regione estrema all’interno dell’orizzonte degli eventi.

È stato proposto che i buchi neri primordiali possano costituire una frazione significativa della materia oscura, che rappresenta circa un quarto del contenuto dell’universo attuale ed è circa cinque volte più abbondante di quella “normale”, o barionica. Tuttavia, non sappiamo con certezza di cosa sia fatta questa misteriosa materia, che rappresenta una delle questioni fondamentali della fisica e della cosmologia. Gli scienziati di tutto il mondo hanno continuato a condurre ricerche approfondite sui buchi neri primordiali e le loro eventuali implicazioni sulla materia oscura sono oggetto di un’indagine.

Nella nuova ricerca, Joshi e Bhattacharyya hanno dimostrato che il collasso gravitazionale nella fase iniziale dell’universo potrebbe portare a singolarità visibili – o nude – dove la singolarità non è coperta da un orizzonte degli eventi. Pertanto, tali singolarità nude primordiali (PNaS, dall’inglese primordial naked singularities), a differenza dei buchi neri, potrebbero essere accessibili all’osservazione. Se queste singolarità nude rappresentassero una grande frazione della materia oscura, allora una parte significativa dell’universo potrebbe essere costituita da oggetti puntiformi quasi infinitamente densi – singolarità, appunto – che possono essere accessibili all’osservazione. Le singolarità nude primordiali potrebbero, in linea di principio, rivelare effetti di gravità quantistica osservabili e quindi servire come laboratori naturali per testare teorie sulla gravità quantistica.

«L’origine e composizione della materia scura costituiscono alcune delle grosse incognite in cosmologia moderna e l’idea che essa sia composta da piccoli buchi neri prodotti nell’universo primordiale attraverso il collasso di perturbazioni ha una lunga storia e un fascino innegabile», commenta a Media Inaf Luciano Rezzolla, astrofisico della Goethe University di Francoforte e principal investigator di BlackHoleCam, non coinvolto nello studio. «Seguendo questa logica e considerando che il collasso di una perturbazione può anche portare alla formazione di una singolarità nuda, l’idea proposta da Joshi and Bhattacharyya è interessante almeno a livello di principio. Quello che rende questo scenario più difficile da realizzare rispetto a una materia oscura composta da buchi neri primordiali è che oggi sappiamo che creare delle singolarità nude non è affatto facile e anzi richiede delle condizioni iniziali che sono estremamente ben preparate (o fine-tuned, in inglese). Inoltre, se singolarità nude di grande massa esistessero, queste sarebbero già state rivelate da tempo. Insomma, la congettura del censore cosmico di Penrose – secondo la quale ogni singolarità è “coperta” da un orizzonte e che non esistono singolarità nude in natura – sembra confermata dalle nostre simulazioni numeriche e dalle osservazioni, rendendo questo scenario difficile da realizzare in pratica. Tuttavia, ulteriori predizioni teoriche ed osservazioni astronomiche potranno aiutare a comprendere meglio questo affascinante scenario».

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E se la Luna fosse un frammento della Terra?




Dalle missioni Apollo, i campioni lunari sono conservati presso il Johnson Space Centre della Nasa a Houston e sono disponibili per la ricerca. Tutti i campioni lunari analizzati nel laboratorio di Gottinga sono stati forniti dalla Nasa. Crediti: Andreas Pack

Un gruppo di ricercatori della University of Göttingen e del Max Planck Institute for Solar System Research (Mps) ha trovato un altro tassello nel puzzle della formazione della Luna e dell’origine dell’acqua sulla Terra.

Finora, la teoria prevalente era che la Luna fosse il risultato di una collisione tra la Terra in formazione e il protopianeta Theia. Le nuove misurazioni indicano che la Luna si è formata da materiale espulso dal mantello terrestre, con un contributo minimo da parte di Theia. Inoltre, i risultati supportano l’idea che l’acqua potrebbe aver raggiunto la Terra già nelle prime fasi del suo sviluppo e non in seguito a impatti successivi.

Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno analizzato isotopi dell’ossigeno di 14 campioni lunari e hanno effettuato 191 misurazioni su minerali provenienti dalla Terra. Gli isotopi sono varietà dello stesso elemento che differiscono solo per la massa del loro nucleo, ossia hanno lo stesso numero di protoni ma diverso numero di neutroni. L’équipe ha utilizzato una versione migliorata della fluorurazione laser, una tecnica spettroscopica basata sull’eccitazione di una molecola mediante radiazione laser e sulla misura della radiazione di fluorescenza che la molecola emette subito dopo, tornando al suo stato energetico fondamentale. In particolare, la molecola analizzata è stata quella dell’ossigeno: le nuove misurazioni mostrano un’altissima somiglianza tra i campioni prelevati dalla Terra e dalla Luna di un isotopo chiamato ossigeno-17 (17O). La somiglianza isotopica tra la Terra e la Luna è un problema di lunga data nella cosmochimica per il quale è stato coniato il termine “crisi isotopica”.

«Una spiegazione è che Theia abbia perso il suo mantello roccioso in precedenti collisioni e che abbia poi sbattuto contro la Terra primitiva come una palla di cannone metallica», spiega Andreas Pack, direttore del Centro di Geoscienze dell’Università di Göttingen e capo della Divisione di Geochimica e Geologia isotopica. «Se così fosse, oggi Theia farebbe parte del nucleo terrestre e la Luna si sarebbe formata da materiale espulso dal mantello terrestre. Questo spiegherebbe la somiglianza nella composizione della Terra e della Luna».

I dati ottenuti forniscono anche una visione alternativa dell’origine dell’acqua sulla Terra: secondo un’ipotesi diffusa, l’acqua sarebbe arrivata sulla Terra solo dopo la formazione della Luna, attraverso una serie di ulteriori impatti noti come Late Veneer Event (evento di rivestimento tardivo). Poiché la Terra è stata colpita da questi impatti molto più frequentemente della Luna, dovrebbe esserci anche una differenza misurabile tra gli isotopi dell’ossigeno – a seconda dell’origine del materiale che ha impattato. «Tuttavia, poiché i nuovi dati dimostrano che non è così, si possono escludere molti tipi di meteoriti come causa del rivestimento tardivo», spiega il primo autore Meike Fischer. «I nostri dati possono essere spiegati particolarmente bene da una classe di meteoriti chiamata condriti enstatite: sono isotopicamente simili alla Terra e contengono una quantità di acqua tale da essere l’unica responsabile dell’acqua terrestre».

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Allineamenti planetari all’orizzonte



Negli ultimi giorni, molte testate giornalistiche hanno dedicato ampio spazio a un imminente allineamento planetario, descritto come un evento raro e spettacolare. Il fenomeno richiama indubbiamente una certa attenzione mediatica, forse anche perché evocativo di congiunzioni astrali alle quali qualcuno, ancora oggi, tende a dare significati simbolici e spirituali. Media Inaf ha approfondito il tema intervistando Michele Maris dell’Inaf di Trieste, che si occupa di vari aspetti dello studio del Sistema solare.

Maris, cos’è un allineamento planetario e ogni quanto tempo si verifica?

«Si parla di allineamento planetario quando tre o più pianeti visti dalla Terra si collocano più o meno nella stessa regione del cielo. Di solito questo avviene quando più o meno i pianeti si trovano tutti dalla stessa parte del Sistema solare. Dato che tutte le orbite stanno vicino al piano dell’orbita della Terra, visti da quest’ultima, in questa condizione i pianeti che partecipano all’allineamento sembrano disporsi approssimativamente su un arco di alcune decine di gradi e possono essere osservati assieme nel giro della stessa nottata. Si può pensare di classificare gli allineamenti in base a quali e quanti pianeti possiamo osservare e a quanto è ampio l’arco sul quale si distribuiscono. Ad esempio nel grande allineamento del 10 marzo 1982, i pianeti visti dalla Terra apparivano racchiusi in un arco di circa 95 gradi: un allineamento di questo tipo avviene in media circa ogni 175 anni. Ma altri allineamenti, con meno pianeti o con i pianeti distribuiti su un arco più ampio, si sono verificati anche nei decenni successivi. Ad esempio, ricordo quelli del 2023 e 2024. È importante sottolineare come gli allineamenti siano un effetto apparente, che dipende dal nostro punto di vista. Per cui mentre da Terra in questi mesi vedremo i pianeti apparentemente allineati, dal punto di vista di un osservatore che si trovasse fuori dal sistema solare i pianeti non lo sarebbero affatto».


Disposizione dei pianeti il 25 gennaio 2025, alle ore 19. Come si vede, dal punto di vista di un osservatore che si trovasse fuori dal Sistema solare i pianeti non appaiono affatto allineati. L’immagine è stata fatta utilizzando il visualizzatore delle orbite del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa. Crediti: Jpl/Nasa

A breve ci saranno due occasioni del genere. Cosa ci possiamo aspettare?

«Quest’anno avremo la possibilità di osservare due allineamenti: attorno al 25 gennaio e al 28 febbraio. In realtà, tempo permettendo, gli allineamenti saranno visibili per diversi giorni prima e dopo le date indicate, solamente i pianeti saranno più o meno distanziati e dovremo considerare l’orario del tramonto del Sole. In gennaio, attorno alle 19 italiane, potremo vedere Marte a 30 gradi sopra l’orizzonte a est in salita, Giove pressappoco a sud-sud est a 60 gradi in culminazione, Venere e Saturno ben visibili a ovest tra i 28 e i 15 gradi sull’orizzonte, tramontanti. Con un binocolo potremmo cercare Nettuno che segue Venere e Saturno sulla linea del tramonto di pochi gradi più alto e Nettuno verso sud, in alto in cielo. In febbraio alla stessa ora vedremo Marte ancora più alto a est, Giove in culminazione a sud-sud ovest, Urano un poco più in basso a sud ovest, mentre seguendo il Sole al tramonto avremo bassi sull’orizzonte Venere, Nettuno, Mercurio e Saturno molto vicino alla Luna. Diciamo che, considerando l’orario del tramonto, l’allineamento di gennaio resta il più favorevole. Di fatto, anche verso fine marzo potremmo vedere Mercurio, Venere, Saturno e Nettuno molto ravvicinati, ma saranno sopra l’orizzonte quando è giorno e quindi non potranno essere visti».


Allineamento dei pianeti il 25 gennaio 2025 da Bologna, alle ore 19 (locali). Crediti: Stellarium

È possibile che si verifichi un allineamento perfetto di tutti gli 8 pianeti del Sistema solare?

«No, per varie ragioni… la principale delle quali è che le orbite dei pianeti non giacciono sullo stesso piano, quindi i pianeti non si allineano mai su una linea, come spesso si vede in molte illustrazioni. In sé gli allineamenti non sono rarissimi. Sono rari quelli particolarmente stretti, come quello del 1982».

Nemmeno avendo a disposizione un tempo infinito?

«No, neppure in un tempo infinito perché le linee dei nodi non stanno allineate e quindi i piani orbitali non si intersecano su una retta».

In che modo gli allineamenti planetari possono essere utilizzati per studi scientifici o per pianificare missioni spaziali?

«Gli allineamenti sono prima di tutto uno spettacolo della natura, ammirabile senza bisogno di strumenti particolari. Dal punto di vista dello studio scientifico, avere un periodo in cui alcuni pianeti si trovano dalla stessa parte del Sistema solare permette di ridurre i tempi di viaggio da un pianeta all’altro. Ad esempio, l’allineamento del 1982 ha permesso le missioni di esplorazione Voyager 1 e 2 degli anni ’70 e ’80. In questo caso, è stato possibile effettuare in sequenza il passaggio ravvicinato di Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Una disposizione, quella del 1982, che ha reso questo allineamento piuttosto raro».

Gli allineamenti planetari possono influenzare fenomeni astronomici come le maree o il comportamento delle comete?

«Nel caso dell’allineamento del 1982 si fece un gran parlare di questa cosa, ma la risposta è semplicemente no. Gli effetti gravitazionali dei pianeti sono molto piccoli rispetto a quelli del Sole, quindi il fatto di avere i pianeti da una stessa parte del Sistema solare non produce effetti particolari alla nostra stella. Tanto meno al nostro pianeta, le cui maree sono dominate dagli effetti del Sole e della Luna».

Un allineamento planetario può influenzare le orbite dei pianeti nel lungo termine, o la gravità del Sole domina sempre?

«No, la gravità del Sole domina sempre il moto dei pianeti e allineamenti di questo tipo non cambiano in modo importante le orbite dei pianeti. I pianeti si perturbano a vicenda costantemente con la propria gravità ma queste perturbazioni sono molto piccole. Per esempio, la perturbazione più forte che Giove produce sulla Terra è pari a qualche centomillesimo dell’effetto della gravità del Sole. Possiamo pensare che i pianeti si comportino in modo analogo a un’altalena. Se diamo delle spintarelle a un’altalena, piccole rispetto al suo peso, metteremo l’altalena in oscillazione. Finché le spintarelle sono date a casaccio l’oscillazione resta piccola, perché le spinte che potrebbero aumentarla finiranno con l’essere cancellate dalle spinte che tendono a bloccarla. Se però diamo piccole spinte sempre dalla stessa parte e in sincrono con le sue oscillazioni, col tempo vedremo l’altalena oscillare sempre più. In teoria quindi se le perturbazioni reciproche tra i pianeti si potessero sommare per milioni di anni, cioè se avvenissero in sincrono con il loro periodo orbitale, le orbite potrebbero subire dei cambiamenti significativi. Tuttavia, durante la sua formazione, il Sistema solare ha raggiunto un equilibrio simile a quello attuale, in cui le mutue perturbazioni non avvengono in sincrono e quindi tendono a compensarsi tra loro».


Michele Maris, primo ricercatore presso l’Inaf Osservatorio Astronomico di Trieste. Si occupa di modelli di esoclimi per l’abitabilità di esopianeti nell’ambito del progetto Asi Asteria, dello sviluppo tecnologico della missione Lspe Strip e del telescopio antartico Itm-Mnt. Ha inoltre seguito la missione Planck dell’Esa e partecipato alle missioni Euclid, LiteBird e Life. Si occupa inoltre di insegnamento all’Università di Padova e divulgazione, con conferenze e lezioni al pubblico e la mostra Caves in the Skies. Crediti: M. Maris

Quali strumenti permettono di calcolare con precisione gli allineamenti planetari e fino a che punto possiamo prevederli nel futuro?

«A differenza di altri fenomeni, come ad esempio le congiunzioni planetarie o le occultazioni, per prevedere gli allineamenti non occorre una precisione di calcolo molto elevata. Anche strumenti piuttosto semplici sono in grado di prevederli. Al giorno d’oggi uno smartphone connesso a internet può accedere a servizi per il calcolo delle posizioni dei pianeti in cielo (chiamate effemeridi), che coprono un intervallo temporale che va da 13.200 anni nel passato fino a 17.191 anni nel futuro, sufficienti per la gran parte delle applicazioni pratiche, come ad esempio la navigazione o l’astronomia osservativa. Con metodi di calcolo più sofisticati possiamo spingerci a milioni o miliardi di anni nel passato o nel futuro. Ma la precisione di calcolo di questi strumenti diventa esponenzialmente peggiore all’ampliarsi dell’intervallo temporale. Di fatto, se volessimo studiare il moto dei pianeti per capire come saranno messi tra un miliardo di anni, potremmo ottenere informazioni sulla forma, le dimensioni e l’orientamento delle orbite, ma non potremmo stabilire esattamente in quale punto preciso della loro orbita i pianeti verrebbero a trovarsi e quindi potremmo non essere in grado di prevedere allineamenti a quella data».



Incontri: voci e volti dalla galassia Inaf




Davide Coero Borga, autore e conduttore televisivo della redazione scientifica di Rai Cultura e primo tecnologo all’Inaf. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli.

C’è Salvatore, che dall’alluminio forgia pezzi unici che dalla sua officina di Milano voleranno nello spazio. C’è Elise, che dalla Bretagna è scesa fino a Cagliari per studiare oggetti compatti ancora misteriosi come le binarie X. C’è Elena, che dopo un dottorato sugli esopianeti è andata per un po’ a lavorare in un supermercato e ora è di nuovo all’opera nei laboratori di astrofisica – tra l’Arizona e Padova – a costruire ottiche d’avanguardia per i telescopi. C’è Gloria, che cerca mondi diversi dal nostro in grado d’ospitare forme di vita. C’è Daniele, che sogna un futuro nel quale per vedere la Via Lattea sia sufficiente alzare gli occhi nella notte, come un tempo, prima che le luci ci rubassero il cielo. E c’è Maura, che il cielo lo setaccia in cerca di segnali radio da intelligenze extraterrestri.

Sono i primi sei volti, le prime sei voci, i primi sei Incontri – questo il nome dato alla raccolta – di una serie di brevi profili video realizzata per MediaInaf Tv da Davide Coero Borga, autore e conduttore televisivo della redazione scientifica di Rai Cultura e primo tecnologo all’Inaf. E lavorano tutti all’Istituto nazionale di astrofisica anche i protagonisti della raccolta. Persone incontrate da Davide nel corso del 2024 viaggiando per le sedi Inaf di tutt’Italia durante una campagna di servizi fotografici.

«È sempre un regalo poter entrare nei luoghi dove si fa ricerca ad altissimo livello. Avere qualcuno che ti accompagna, ti dedica tempo e ti racconta quello che tutte le mattine lo tira giù dal letto e che, più che un lavoro, è una passione. Farlo davanti a una telecamera», dice Coero Borga, «non è un gioco da ragazzi, vuol dire mettersi in gioco. Io cerco di mettere ciascuno a proprio agio: nessun ricercatore è stato maltrattato durante la realizzazione di queste clip!».

«L’idea dei video ritratti è nata in Ufficio stampa, con Marco Galliani. Spesso giornalisti e autori Tv ci chiedono che faccia hanno i nostri ricercatori, come parlano, se brillano loro gli occhi quando parlano di scienza. Beh, vedete un po’ voi».

I primi incontri, quelli che già potete vedere su MediaInaf Tv, li abbiamo pubblicati durante le vacanze natalizie – un modo per ringraziare il pubblico che ci ha seguito nel corso dell’anno. Gli altri li troverete sempre su MediaInaf Tv nelle prossime settimane, uno ogni venerdì.

Guarda la playlist su MediaInaf Tv:

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Andromeda come non l’avete mai vista



Dieci anni di lavoro, mille orbite attorno alla Terra e oltre seicento singoli scatti, 200 milioni di stelle impresse in circa 2.5 miliardi di pixel. Questa è, a numeri, la descrizione dell’immagine che vedete qui sotto. Si tratta della galassia di Andromeda, la galassia più vicina alla nostra, a soli 2.5 milioni di anni luce. Una distanza che, per altro, si sta riducendo perché la Via Lattea – la nostra galassia – e Andromeda saranno destinate a fondersi fra circa 10 miliardi di anni, in un’unica gigante già battezzata Milkomeda.


Il più grande fotomosaico di sempre l’ha realizzato Hubble. Il soggetto è la galassia di Andromeda, vicina di casa della Via Lattea distante appena 2.5 milioni di anni luce. L’immagine si compone di circa 600 scatti per un totale di 2.5 miliardi di pixel. Crediti: Nasa, Esa, B. Williams (University of Washington)

Autore di questi scatti è il telescopio spaziale Hubble di proprietà congiunta fra Nasa ed Esa, e la vista globale della galassia è l’unione di due programmi osservativi complementari. Il primo, il Panchromatic Hubble Andromeda Treasury (Phat), è cominciato circa un decennio fa. Le immagini sono state ottenute alle lunghezze d’onda del quasi-ultravioletto, del visibile e del quasi-infrarosso utilizzando la Advanced Camera for Surveys e la Wide Field Camera a bordo di Hubble per fotografare la metà settentrionale di Andromeda. A questo programma è seguito il Panchromatic Hubble Andromeda Southern Treasury (Phast), che ha aggiunto immagini di circa 100 milioni di stelle nella metà meridionale di Andromeda. Questa regione è strutturalmente unica e più sensibile alla storia delle fusioni della galassia rispetto al disco settentrionale mappato dall’indagine Phat. Combinati insieme, i due programmi coprono complessivamente l’intero disco di Andromeda, che nell’immagine si vede quasi di traverso (è inclinato di 77 gradi rispetto al punto di vista che possiamo avere dalla Terra). La galassia è così grande che il mosaico è stato assemblato da circa 600 campi visivi separati.

«In realtà ci sono voluti pochi anni per la prima parte, quella di Phat, che ha beneficiato di uno speciale programma “multiciclo” lanciato da Hubble dieci anni fa», spiega a Media Inaf Leo Girardi, ricercatore all’Inaf di Padova coinvolto nei due progetti. «Phat era un progetto pesante, e non si poteva fare in un unico ciclo osservativo (che dura un anno) dei programmi Hubble. I nuovi tasselli venivano aggiunti appena il software di puntamento del telescopio trovava un momento conveniente, minimizzando i movimenti del telescopio, e con l’unico vincolo di ripetere un certo puntamento dopo sei mesi in modo da poter coprire gli stessi tasselli con tutti i filtri previsti dal programma osservativo. Poi ci siamo occupati per alcuni anni nell’analisi dei dati di Phat, e in questo periodo è stata concepita la sua estensione Phast. Phast è stato un programma più veloce, eseguito con meno filtri e in un unico ciclo di osservazioni».


Leo Girardi, ricercatore all’Inaf di Padova coinvolto nei progetti Phat e Phast che hanno consentito di realizzare il mosaico di Andromeda

Una precisazione. Per quanto imponente e impressionante sia questo mosaico, il numero di stelle che cattura è ancora lontano dall’effettiva popolazione della galassia, la cui popolazione totale si stima che ammonti a circa mille miliardi di stelle. La ragione per cui queste non si vedono è che le stelle mancanti sono troppo poco massicce, e quindi troppo poco luminose, per poter essere viste dal telescopio. In gergo si dice che si trovano sotto al suo limite di sensibilità.

Non solo tante belle immagini, comunque: i dati raccolti forniscono informazioni sull’età delle stelle, sull’abbondanza di elementi pesanti e sulle masse stellari all’interno della galassia. Misure dettagliate che serviranno a vincolare i modelli che ricostruiscono la storia della fusione e dell’evoluzione del disco di Andromeda.

Vedere così bene Andromeda è utile anche perché la nostra vicina – visibile anche a occhio nudo in una notte buia e serena – ha sempre fatto da specchio e da riferimento per capire di più su come sia fatta la nostra, di galassia, rispetto alla quale abbiamo un punto di vista limitato essendoci “dentro”. Nel corso del tempo però, si è capito che sebbene Andromeda e la Via Lattea abbiano un’età simile e una forma simile, la loro storia evolutiva potrebbe essere molto diversa. Secondo i ricercatori, Andromeda sembra essere più popolata di stelle giovani e di caratteristiche insolite, come flussi coerenti di stelle. Ciò implica che ha una storia di formazione stellare e di interazioni più recente rispetto alla Via Lattea.

«Dal punto di vista scientifico questi progetti sono davvero importanti perché Andromeda è praticamente l’unica galassia a spirale per cui si potevano fare osservazioni dettagliate, stella a stella, al punto di poter misurare parametri fondamentali quali la storia di formazione stellare, le distribuzioni spaziali di polvere e stelle, la distribuzione di massa delle stelle, eccetera», continua Girardi. «Oltre ad Andromeda abbiamo soltanto la Via Lattea, che osserviamo dall’interno, e che nessuno può assicurare sia simile ad Andromeda. Infatti, uno dei risultati di Phat è stata la conferma di importanti differenze tra le due galassie, le cui origini non sono state ancora del tutto chiarite. Poi, si sospettava ci fossero asimmetrie tra parti opposte del disco di Andromeda, adesso confermate con i dati Phast. La continuazione ovvia di questo lavoro sarà quella di complementare le survey a disposizione oggi con immagini ad alta risoluzione nell’infrarosso, con il Nancy Grace Roman Telescope che è in fase di preparazione dalla Nasa. Ovviamente, ci stiamo preparando anche noi al lancio di Roman».



Propulsori nucleari per mandare l’uomo su Marte



Quanto potrebbe durare un viaggio umano verso Marte? Le variabili in gioco sono molte: distanza fra la Terra e il pianeta (una quantità in continua variazione), sistema di propulsione, tipo di veicolo sviluppato per volare e per atterrare sulla superficie del pianeta, e infine composizione dell’equipaggio. Per dare un’idea, nel 2022 la Nasa ha pubblicato un report con diverse simulazioni che tenessero conto di tutte queste variabili, per capire come ciascuna di queste potesse influire nel design della missione. Ne sono uscite 27 diverse alternative, con viaggi che duravano da 850 a 1250 giorni terrestri (comprensivi di durata effettiva del transito, più il tempo per il rendez-vous, la sosta e l’opportunità di lancio dell’equipaggio). Al vaglio dell’agenzia spaziale americana, ora, ci sarebbe però una nuova tecnologia, che consentirebbe di eseguire una missione umana sul Pianeta rosso in un tempo totale di due anni (circa 730 giorni).


Rappresentazione artistica che mostra i diversi componenti di un sistema di propulsione elettrica nucleare completamente assemblato. Crediti: Nasa

Il contesto è quello della propulsione nucleare, che si avvale di un reattore a fissione nucleare e si può dividere in due grandi famiglie: i propulsori nucleari termici e quelli nucleari elettrici. La propulsione nucleare termica è la più semplice. Motori di questo tipo sono già stati costruiti e testati a terra. Sebbene sia più performante dei motori attualmente in uso, basati sulla combustione di propellente, delle due soluzioni funzionanti a fissione nucleare, questa è la meno efficiente. La propulsione nucleare elettrica è più complessa. È composta da tre pilastri fondamentali: una sorgente di calore ad alta densità e potenza (il reattore a fissione), un sistema di generazione di energia elettrica e un sistema propulsivo in grado di sfruttare quella elettricità per generare spinta in modo efficiente. Nello specifico, l’energia elettrica prodotta serve per ionizzare, o caricare positivamente, e accelerare elettricamente il propellente gassoso impiegato per fornire la spinta al veicolo spaziale. Un concetto che non è nuovo, a dire il vero, e che era stato esplorato anche in quel documento a cui accennavamo prima, ma con una sostanziale differenza. La novità proposta dalla Nasa è un nuovo tipo di radiatore modulare – il Modular Assembled Radiators for Nuclear Electric Propulsion Vehicles, o Marvl. In particolare, l’agenzia si propone di prendere un elemento critico della propulsione nucleare elettrica, il sistema di dissipazione del calore, e dividerlo in componenti più piccoli che possono essere assemblati roboticamente e autonomamente nello spazio.

«Il progetto Marvl rappresenta una importante pietra miliare per la realizzazione di sistemi propulsivi in grado di portare l’uomo su Marte con tempi di viaggio ragionevoli», commenta a Media Inaf Filippo Maggi, professore associato allo Space Propulsion Laboratory Dept. of Aerospace Science and Technology del Politecnico di Milano, non coinvolto nel progetto. «Per convertire il calore in energia elettrica il generatore richiede un sistema di dissipazione del calore, le cui dimensioni limitano la potenza gestibile. A loro volta, questi oggetti devono essere mandati in orbita e il lanciatore impone dei limiti dimensionali e di peso. Per risolvere questo problema la Nasa, con il progetto Marvl, sta sviluppando tecnologie che permettono l’assemblaggio robotico nello spazio di queste piattaforme spaziali. Tuttavia, per poter arrivare a una missione reale si dovranno sviluppare anche gli altri pilastri della tecnologia nucleare elettrica, ossia un reattore a fissione in grado di resistere alle condizioni estreme dello spazio interplanetario per lunghi periodi di tempo e un propulsore in grado di fornire alte spinte in modo efficiente grazie alla elevata potenza elettrica a disposizione».

A lavorare a questo concetto sono i ricercatori del Langley Research Center della Nasa di Hampton, in Virginia, a cui il progetto Marvl è stato assegnato attraverso la Early Career Initiative. Il team avrà due anni di tempo per far progredire il concetto di propulsione nucleare e sviluppare il sistema di gestione termica, e per farlo ha coinvolto nel lavoro anche un partner esterno, l’azienda Boyd Lancaster, Inc. Alla fine di questo periodo, dicono, l’idea è di riuscire a sviluppare una dimostrazione a terra su piccola scala.

La vera sfida, per quanto riguarda l’ottimizzazione del sistema di gestione termica della propulsione nucleare, riguarda le dimensioni. Completamente dispiegato, infatti, l’array di radiatori per la dissipazione del calore sarebbe grande all’incirca come un campo da calcio. Non è difficile immaginare cosa possa significare ripiegare ordinatamente un sistema così massiccio all’interno dell’ogiva di un razzo. La tecnologia Marvl invece si propone di superare il problema inviando il sistema nello spazio a pezzi, per poi assemblare il tutto fuori dal pianeta. Una volta nello spazio, i robot collegherebbero i pannelli del radiatore del sistema di propulsione elettrica nucleare, attraverso i quali scorrerebbe un refrigerante metallico liquido, come una lega di sodio e potassio. È la prima volta che si pensa di costruire roboticamente un sistema di propulsione nucleare direttamente nello spazio, ed è questa la sfida più grande. Senza contare i rischi connessi alla nuova tecnica di propulsione, mai testata prima nello spazio, nonché i suoi limiti.

«La propulsione elettrica nucleare è un concetto ormai storico, che risale agli anni ’60 del secolo scorso. Tra il dire e il fare, però, c’è il proverbiale mare: i dettagli tecnici sono molto critici» dice a Media Inaf Tommaso Ravaglioli, che nel corso della sua carriera ha lavorato a progetti aeronautici, spaziali e missilistici, sia in ambito civile che militare. «Questa architettura è infatti molto adatta a fornire una spinta ridotta per tempi lunghissimi, il che la rende appetibile per viaggi verso i pianeti esterni, dove per la distanza dalla nostra stella i pannelli solari risultano molto meno utili. La principale limitazione è la scarsa spinta, che impedisce di usare questa propulsione per lasciare il pianeta. Inoltre, nel tempo sono stati sperimentati nello spazio sia i reattori nucleari, sia i propulsori elettrici ma l’unione delle due tecnologie ancora è da sperimentare. Questo progetto non ha requisiti semplici: l’assemblaggio deve essere possibile in modo automatico e la lega metallica refrigerante deve essere mantenuta sempre allo stato liquido, pena la distruzione del reattore».



Sognando di ricevere un messaggio da ET




Graziano Chiaro, “Sotto i cieli lontani. Alla ricerca di civiltà extraterrestri”, Mondadori, 2024, 116 pagine, 10 euro

La ricerca di vita extraterrestre è un argomento affascinante che tocca corde profonde dell’animo umano. È vero oggi ma era vero anche un secolo fa quando, in occasione di un’opposizione particolarmente favorevole di Marte, nell’agosto del 1924, l’astronomo David Peck Todd convinse l’esercito e l’ufficio meteorologico degli Stati Uniti a collaborare al tentativo di ascoltare segnali radio provenienti da Marte. All’epoca erano in molti a credere nell’esistenza dei marziani. Percival Lowell, continuando le osservazioni di Giovanni Schiaparelli per studiare i canali di Marte, aveva dedotto che queste strutture venivano continuamente costruite da marziani intelligenti e operosi. La teoria era sostenuta da Camille Flammarion, famosissimo divulgatore francese, le cui opere subito tradotte raggiungevano un vastissimo pubblico. Fu proprio Flammarion a caldeggiare il tentativo di ascolto dell’agosto 1924 in un articolo, apparso sul New York Times nel marzo dello stesso anno, dove cercava di convincere chi dubitava della possibilità di vita su Marte con il suo famoso pesce pensante. Secondo Flammarion, chi pensa che su Marte non sia possibile la vita a causa delle condizioni così diverse da quelle della terra “non ragiona come un filosofo ma come un pesce”. Ogni pesce pensa che non sia possibile la vita al di fuori dell’acqua ed è convinto che le storie su pescatori e lenze siano tutte allucinazioni.

I tentativi di captare i segnali marziani ebbero luogo durante il picco dell’opposizione di Marte, il 22-24 agosto 1924. La Marina americana montò un’antenna su un dirigibile e utilizzò come ricevitore una radio che era stata sviluppata nel corso della prima guerra mondiale per permettere le comunicazioni tra i soldati. Consci del disturbo prodotto da emissioni terrestri, i militari avevano chiesto periodi di silenzio radio ogni giorno: qualsiasi segnale anomalo captato attraverso le apparecchiature avrebbe potuto, in teoria, provare l’esistenza di vita su Marte.

In effetti, oltre alla radio, per “ascoltare” i segnali c’era la “macchina per la trasmissione continua di radio messaggi fotografici” (in breve radiocamera) sviluppata dall’inventore Charles Francis Jenkins. Qualsiasi segnale rivelato sarebbe stato tradotto in lampi di luce, che si trasformavano in forme su un foglio di carta fotografica lungo dieci metri che scorreva tra due bobine. Durante l’esperimento, la radiocamera di Jenkins rivelò dei segnali. Il crittografo militare William Friedman non riuscì a capirne il senso. Nel frattempo il pubblico interpretò questi segnali visivamente, credendo di riconoscere la forma di un volto umano nelle scariche. L’interesse si spense solo quando fu evidente che si trattava di un’interferenza, probabilmente causata dal passaggio di un tram.

Una storia incredibile, ma assolutamente vera, basata su un’insolita collaborazioni tra militari e cercatori di segnali extraterrestri in un esperimento che Guglielmo Marconi, pur incuriosito da possibili conversazioni con i marziani, aveva bollato come una fantastica assurdità. Tuttavia questo sforzo di ascolto di un secolo fa merita di essere ricordato, perché certifica che l’interesse per la ricerca del segnale extraterrestre è nato prima che venisse sviluppata la tecnologia radioastronomica, inventata da Jansky nel 1931.

Oggi i marziani sono passati di moda, ma l’interesse per la ricerca dei segnali alieni è più vivo che mai. Certamente avrete sentito parlare del progetto Seti (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), che scruta il cielo alla ricerca di segnali interessanti grazie a finanziamenti privati, un caso unico in astrofisica. Si tratta di donazioni, grandi e piccole, raccolte da una vasta platea di entusiasti sostenitori che decidono di finanziare il sogno di ricevere un messaggio da ET. In effetti, i cercatori di segnali extraterrestri, pur animati da una straordinaria tenacia e determinazione, non sanno di preciso cosa cercare. In prima approssimazione il programma Seti si propone di selezionare segnali radio (oppure ottici) che non possano essere immediatamente spiegati con meccanismi naturali che caratterizzano l’emissione elettromagnetica degli oggetti celesti noti. L’interpretazione dei segnali rappresenterebbe il secondo passo al quale, però, non si è mai arrivati perché i potenziali candidati si sono rivelati vuoi dei segnali unici non abbastanza convincenti, vuoi dei falsi positivi.

Per il momento, tutti i segnali “strani” sono da attribuire a nuovi fenomeni astrofisici – niente ET ma piuttosto stelle di neutroni, come racconto nella prefazione del libro di Graziano Chiaro Sotto i cieli lontani, che dà un quadro completo e aggiornato dello stato dell’arte.

Dopo decenni di ricerche, ET non si è ancora fatto vivo, ma questo aumenta l’interesse. Yuri Milner ha finanziato le Breaktrhough Initiatives per dare nuovo vigore alla ricerca e la sua spinta ha avuto risonanza mondiale, facendo ripartire attività che si erano assopite nel corso degli anni.

Il contributo italiano alla ricerca Seti passa attraverso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che gestisce i radiotelescopi italiani. In questo ambito, Breaktrough Listen ha stabilito una collaborazione con il Sardinia Radio Telescope (Srt), la più grande antenna radio in Italia con 64 m di diametro, per ascoltare i pianeti che orbitano le stelle più vicine alla ricerca di un segnale tecnologico.

La campagna di osservazioni si svilupperà nell’arco di diversi anni, la ricerca degli alieni richiede molta pazienza.

Per saperne di più:



Lanciato il razzo New Glenn di Blue Origin



Ha avuto inizio questa mattina dalla Space Force Station di Cape Canaveral, alle 8:02 ora italiana, il primo test in volo del razzo New Glenn dell’azienda Blue Origin, fondata da Jeff Bezos. L’obiettivo è ottenere la certificazione da parte della National Security Space Launch.

Inizialmente previsto alle 7,00 italiane, il lancio è avvenuto con oltre un’ora di ritardo per due stop imprevisti al conto alla rovescia. Alto 98 metri e con un diametro di sette, il razzo è destinato a portare in orbita carichi commerciali e rientrare a Terra per essere riutilizzato.

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— Jeff Bezos (@JeffBezos) January 16, 2025

In questo suo primo test in volo la separazione dei due stadi del razzo è avvenuta correttamente. Il secondo stadio ha raggiunto regolarmente l’orbita e il primo stadio è rientrato, ma non è riuscito ad atterrare sulla piattaforma Jacklyn, chiamata come la madre di Bezos, nell’Oceano Atlantico.

Raggiungere l’orbita era l’obiettivo principale di questo primo test in volo, come aveva dichiarato la stessa azienda in un post su X poco prima del lancio: «il nostro obiettivo principale oggi è raggiungere l’orbita in sicurezza. Tutto ciò che va oltre è la ciliegina sulla torta. Sappiamo che far atterrare il booster al nostro primo tentativo al largo dell’Atlantico è ambizioso, ma ci stiamo provando. Non importa che cosa accadrà, impareremo, perfezioneremo e applicheremo quella conoscenza al nostro prossimo lancio».

Il secondo stadio ha portato in orbita la piattaforma Blue Ring, progettata per trasportare più satelliti fino a un carico di tre tonnellate, e per rilasciarli su orbite diverse.



Quarantaquattro stelle sotto l’Arco del Drago




L’ammasso di galassie Abell 370. Le immagini di diverse galassie che si trovano dietro l’ammasso risultano distorte e a forma di arco a causa del lensing gravitazionale. Crediti: Nasa

Una serie di fortunati eventi, e certamente tanto lavoro oltre che l’uso del miglior telescopio al mondo, ha consentito a un gruppo di astronomi guidati da Yoshinobu Fudamoto di osservare per la prima volta quarantaquattro stelle in una galassia a sei miliardi e mezzo di anni luce dalla Terra. Si tratta di un record: mai si erano viste in una galassia a tale distanza tutte queste stelle, distinguendo le une dalle altre. Lo scoperta è stata realizzata col James Webb Space Telescope ed è uscita la scorsa settimana su Nature Astronomy.

«Le galassie che sono molto lontane solitamente ci appaiono come un blob diffuso e confuso», dice Fudamoto, ricercatore dell’Università di Chiba, in Giappone, e ospite dello Steward Observatory di Tucson, in Arizona. «Ma in realtà questi blob sono fatti di tante, tantissime stelle. Solo che non possiamo risolverle – ovvero, distinguerle – con i nostri telescopi».

Parliamo di galassie situate a miliardi di anni luce dal nostro pianeta, infinitamente più remote di Andromeda, la nostra vicina di casa, in cui, con le tecnologie attuali, potremmo letteralmente noverar le stelle ad una ad una, come fantasticava un malinconico pastore. Cimentarsi in questo compito con le galassie lontane sarebbe un po’ come provare a distinguere i granelli di sabbia di un cratere lunare con un umile binocolo. Perfino Webb, portentoso strumento che osserva nell’infrarosso, non ce la fa a distinguere le singole stelle in galassie tanto remote. E allora, come hanno fatto gli astronomi a vederle? Qui entrano in gioco i fortunati eventi, che sono due nella fattispecie.

Il primo fortunato evento è il lensing gravitazionale. Per circostanze assolutamente accidentali la galassia studiata da Fudamoto e collaboratori si trova dietro un ammasso di galassie, ovvero un numeroso insieme di galassie che abbonda di gas bollente e materia oscura. L’ammasso in questione è Abell 370, situato a quattro miliardi di anni luce dalla Terra. Per un effetto previsto da Einstein – il lensing gravitazionale, per l’appunto – oggetti come Abell 370 possono, in virtù dell’immane contenuto di materia, deviare in maniera significativa la luce degli oggetti che si trovano alle loro spalle. Non solo. La luce viene pure amplificata, cosicché galassie che ci apparirebbero fioche, a causa della smisurata distanza o perché intrinsecamente deboli, si mostrano a noi con una sgargianza che si sognerebbero se non ci fosse il lensing. In questo modo, galassie che potevano essere condannate a eterna invisibilità, “coperte” da entità ingombranti come gli amassi, si manifestano ai nostri occhi in tutto il loro splendore.


L’alone massiccio e invisibile di materia oscura di un ammasso di galassie funziona come un “macrolente”, mentre le stelle solitarie e non legate che attraversano l’ammasso agiscono come ulteriori “microlenti”, moltiplicando il fattore di ingrandimento. Crediti: Yoshinobu Fudamoto

Bisognerà dire che qualche ammaccatura l’incontro ravvicinato con l’ammasso – che si comporta dunque da “lente” – la lascerà, cosicché la luce della galassia in questione apparirà distorta e con una caratteristica forma ad arco, traccia inequivocabile del lensing. Non a caso, la galassia oggetto della scoperta è stata ribattezzata Dragon Arc ed è visibile addirittura più volte nell’immagine sottostante in quanto il lensing, tanto per non farsi mancare niente, ha pure un effetto moltiplicativo sulle immagini delle galassie.

Sfruttando l’amplificazione della luce dovuta al lensing gravitazionale, Fudamoto e collaboratori sono riusciti a scorgere insospettabili dettagli nel Dragon Arc. Ben quarantaquattro singole stelle sono state individuate, confrontando alcune immagini della galassia realizzate da Webb a dicembre 2022 e 2023. Fondamentale è stato il lavoro di Fengwu Sun, secondo autore dello studio, che ha ispezionato le diverse immagini. «Questa scoperta senza precedenti dimostra, per la prima volta, che studiare un gran numero di singole stelle in una galassia lontana è possibile», commenta.


Zoom sulla galassia Dragon Arc che appare fortemente distorta a causa del lensing in un’immagine di Webb. Crediti: Nasa

Tuttavia, il lensing gravitazionale dovuto al solo ammasso non è sufficiente per spiegare le numerose stelle osservate dai ricercatori. E qui entra in gioco il secondo fortunato evento, che viene spiegato da Eiichi Egami, tra i collaboratori dello studio: «All’interno dell’ammasso di galassie, fluttuano numerose stelle che non appartengono a nessuna galassia. Quando una di queste passa davanti a una stella nella galassia lontana lungo la linea di vista, essa agisce come una “microlente”, che si aggiunge al macrolensing dell’ammasso nel suo insieme.» Due fenomeni insieme, dunque, il macrolensing su scala dell’ammasso e il microlensing su scala stellare, collaborano efficacemente aumentando la brillantezza delle singole stelle e rendendole visibili agli occhi di Webb. Gli ci è voluto l’aiutino, dunque, stavolta. Addirittura, le stelle del Dragon Arc appaiono e scompaiono in immagini catturate in tempi diversi, in quanto esse diventano visibili solo quando si trovano perfettamente allineate con gli astri che vagano nell’ammasso. Che però si muovono, determinando un’apparente sparizione delle stelle quando viene meno l’allineamento.

E come sono queste stelle? Apparirebbero grandi e rosse. Piuttosto vetuste dunque, come le familiari Betelgeuse e Antares, diversamente da quanto affermato da studi precedenti, che avevano identificato prevalentemente supergiganti blu all’interno della galassia. Per il futuro gli astronomi prevedono di osservare molte più stelle nel Dragon Arc sfruttando nuove osservazioni di Webb. Questo lavoro potrebbe fare da apripista a osservazioni di centinaia di astri nelle galassie lontane. Lo studio delle singole stelle potrebbe fornirci ulteriori dettagli sulla struttura degli ammassi che fanno da lente e sul contenuto di materia oscura.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Identification of more than 40 gravitationally magnified stars in a galaxy at redshift 0.725” di Y. Fudamoto, F. Sun, J. M. Diego, L. Dai, M. Oguri, A. Zitrin, E. Zackrisson, M. Jauzac, D. J. Lagattuta, E. Egami, E. Iani, R. A. Windhorst, K. T. Abe, F. E. Bauer, F. Bian, R. Bhatawdekar, T. J. Broadhurst, Z. Cai, C.-C. Chen, W. Chen, S. H. Cohen, C.J. Conselice, D. Espada, N. Foo, B. L. Frye, S. Fujimoto, L. J. Furtak, M. Golubchik, T.Yu-Yang Hsiao, J.-B. Jolly, H. Kawai, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, K. Kohno, V.Kokorev, M.Li, Z. Li, X. Lin, G. E. Magdis, Ashish K. Meena, A. Niemiec, A. Nabizadeh, J. Richard, C. L. Steinhardt, Y. Wu, Y. Zhu e S. Zou


Gaia, undici anni nello spazio


Gaia, undici anni nello spazio


Intervista a Marco Castellani (Osservatorio Astronomico di Roma) rilasciata in occasione del pensionamento del satellite Gaia di ESA. Grazie ad Elisa Nichelli (Osservatorio di Roma) per la realizzazione ed il montaggio.




Macchine del tempo: il podcast


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Si parte dalla Terra. Da quel “pallido puntino blu” che la sonda Voyager 1 immortalò, trentacinque anni fa, dai confini del Sistema solare, volgendo lo sguardo indietro. “Come colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia” – per dirla con le parole del poeta tedesco Rilke. Quel puntino blu che è la nostra casa nel cosmo, dimora di tutte le vicende umane, non ultima la grandiosa impresa di dare un senso all’universo. Ed è proprio un’esplorazione dell’universo che propone Macchine del tempo, il nuovo podcast lanciato oggi dall’Istituto nazionale di astrofisica. Un viaggio a ritroso nel tempo tra pianeti, stelle e galassie, la cui luce ha viaggiato per centinaia, migliaia, milioni o addirittura miliardi di anni, prima di essere catturata dalle “macchine del tempo” dell’astrofisica contemporanea: i telescopi.

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Cover del podcast Macchine del tempo. Crediti logo: Stephanie Forte/Inaf

Il podcast, strutturato in cinque episodi, è stato ideato e realizzato da Lucia Bucciarelli, ricercatrice in storia della scienza presso l’Università Cattolica di Milano. È ispirato alla grande mostra dell’Inaf Macchine del tempo. Il viaggio nell’universo inizia da te che racconta l’astrofisica italiana e che, dopo il successo della prima edizione a Palazzo Esposizioni Roma, apre nuovamente le porte al pubblico, questa volta presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino, a partire dal 15 marzo 2025.

Questo progetto nasce dalla volontà di mettere a disposizione del pubblico una panoramica più ampia dei contenuti trattati nella mostra, mediante approfondimenti e interviste con esperte ed esperti delle diverse tematiche, dalla planetologia all’astrofisica stellare ed extragalattica, fino alla cosmologia. Al contempo, con questo podcast il viaggio spazio-temporale proposto dalla mostra diventa fruibile anche per chi non avrà la possibilità di visitarla, estendendo la portata della comunicazione oltre i confini fisici e temporali del museo.

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Lucia Bucciarelli, di fronte a uno degli exhibit della mostra Macchine del Tempo presso il Palazzo Esposizioni Roma

«La prima volta che ho visitato la mostra Macchine del tempo è stato come tornare bambina: mi sono sentita guidata dallo stesso stupore con cui, da piccola, scoprivo per la prima volta l’universo nella sua vastità e complessità», dice Lucia Bucciarelli, che ha sviluppato il podcast durante un tirocinio presso la Struttura per la comunicazione Inaf nell’ambito del master La scienza nella pratica giornalistica di Sapienza Università di Roma. «Questo spirito ha accompagnato tutto il lavoro di produzione del podcast, dove ho voluto mantenere una narrazione capace di raccontare storie. Storie che intrecciano il racconto della mostra, il lavoro appassionato delle ricercatrici e dei ricercatori Inaf e le vite straordinarie di chi, nei secoli, ha rivoluzionato il nostro modo di guardare il cielo. Spero che questo entusiasmo arrivi a chi ascolta, accendendo in ognuno la curiosità per la scienza e la sua storia».

In linea con il tema della mostra, ogni episodio inizia in un punto preciso non solo dello spazio ma dello spaziotempo, corrispondente a un evento di particolare rilievo nella storia della conoscenza umana. Da qui, attraverso un mix di narrazione coinvolgente e suoni immersivi, si procede alla scoperta di corpi celesti sempre più distanti ed enigmatici, immergendosi in epoche sempre più remote della storia dell’universo, grazie agli strumenti sempre più ingegnosi che, per secoli, li hanno immortalati per decifrarne i misteri. Dal cannocchiale di Galileo ai grandi telescopi odierni, fino agli albori del cosmo.

Da oggi, potrete ascoltare il primo episodio di Macchine del tempo su Apple Podcast, su Spotify e su YouTube, oltre che sul sito di Media Inaf dedicato ai podcast. Gli episodi successivi saranno pubblicati, con cadenza mensile, da febbraio a maggio, per continuare il viaggio attraverso l’universo, a cavallo della luce, comodamente da casa.

Ascolta il podcast su YouTube:

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Il satellite Gaia va in pensione


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Dopo 3827 giorni e oltre mille miliardi di osservazioni, il satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha completato oggi le sue ultime osservazioni scientifiche. Lanciato il 19 dicembre 2013, Gaia ha misurato con precisione senza precedenti le posizioni, distanze e moti di quasi due miliardi di stelle per costruire la più grande mappa mai realizzata della nostra galassia, la Via Lattea.

Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il satellite orbita attorno al punto lagrangiano L2, uno dei punti di equilibrio del sistema Terra-Sole, situato in direzione opposta al Sole rispetto alla Terra. Si tratta di un luogo molto gettonato per l’astronomia spaziale a causa della sua stabilità termica (Sole e Terra si trovano sempre nella stessa direzione) e per questo ospita svariati telescopi. Da qui, Gaia ha scansionato l’intera volta celeste più di venti volte ruotando continuamente intorno al proprio asse con velocità di rotazione costante: un’operazione che costa una decina di grammi di gas (azoto) freddo al giorno. Ed è proprio questo propellente – 55 chili al lancio – che sta per finire.

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La missione Gaia in numeri. Crediti: Esa/Gaia/Dpac, illustrazione della Via Lattea di Stefan Payne-Wardenaar. Cc By-Sa 3.0 Igo

Così, dopo più di 15mila “piroette spaziali” e oltre un decennio di premiato servizio, Gaia si prepara alla pensione. Oggi, 15 gennaio 2025, sono state compiute le ultime osservazioni del cielo, lasciando il propellente rimasto a bordo per una serie di test tecnologici programmati nei prossimi due mesi. Queste procedure permetteranno di comprendere ancora più a fondo il funzionamento del satellite e della tecnologia di bordo, migliorando la calibrazione dei dati e dunque i risultati scientifici, ma anche la progettazione di missioni spaziali future. In questo periodo, a causa del mutato orientamento in relazione al Sole, Gaia apparirà più brillante nel cielo rispetto al solito: pur non diventando visibile a occhio nudo, sarà più semplice “catturarla” con un piccolo telescopio. Con le ultime manovre, l’Esa allontanerà il satellite dalla sua orbita attorno a L2, indirizzandolo verso un’orbita attorno al Sole, lontano dalla sfera d’influenza terrestre, prima di spegnerlo definitivamente il prossimo 27 marzo.

«Questi test di “fine vita” sono di particolare importanza per comprendere sia la resilienza, dopo oltre dieci anni in L2 (ovvero senza la protezione del campo magnetico terrestre agli ioni pesanti del vento solare), degli oltre cento sensori Ccd che ricoprono il piano focale di Gaia, sia le cause delle anomalie termiche che hanno afflitto le misure astrometriche del satellite in questi anni e che solo la presenza a bordo del sistema metrologico laser Bam (Basic Angle Monitoring) ha permesso di monitorare, caratterizzare e quindi eliminare in fase di riduzione a terra dei dati», spiega a Media Inaf Mario Lattanzi, responsabile nazionale per conto dell’Agenzia spaziale italiana e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) della partecipazione italiana alla missione Gaia. «I prossimi venti giorni saranno proprio dedicati all’utilizzo del sistema Bam che prenderà continuamente dati, ogni 24 secondi, con le due unità a bordo mentre il satellite modificherà il suo orientamento rispetto alla direzione del Sole. I dati verranno quindi analizzati da un gruppo di scienziati del Data Processing and Analysis Consortium (Dpac) e ingegneri – sia di Esa che delle industrie che hanno realizzato Gaia – attraverso modelli termo-meccanici del satellite».

L’Italia, fortemente coinvolta in Gaia sin dalla genesi della missione, ha una importante partecipazione nel gruppo che analizzarà i risultati dei test delle prossime settimane, attraverso il team dell’Inaf di Torino che ha caratterizzato il comportamento astrometrico dei due campi di vista del satellite durante tutti questi anni grazie al suo sistema Bam, realizzato presso il Data Processing Center Italiano (Dpct) in collaborazione con il team di Altec, sempre a Torino, che ha realizzato e opera l’infrastruttura Dpct. «I nostri team si sono preparati nei mesi scorsi a ricevere e analizzare questa nuova sequenza di dati metrologici e hanno superato brillantemente i test di qualifica sulle sequenze simulate inviate da centro di operazioni scientifiche di Madrid. Siamo quindi oggi pronti a contribuire in modo fondamentale al successo dei test di fine vita così cruciali per una comprensione di dettaglio della macchina Gaia», aggiunge Lattanzi. «Oltre all’impatto che la missione sta avendo ed avrà per molti decenni a venire sull’astrofisica e la cosmologia, Gaia ha rappresentato – e rappresenta – una crescita straordinaria per la comunità italiana non solo scientifica ma, allo stesso modo, tecnologica, avendo creato competenze internazionalmente riconosciute nel campo della caratterizzazione e calibrazione remota di payload digitali dedicati a misure di accuratezza senza precedenti sia astrometriche che fotometriche. Simili risultati e competenze si sono create nel campo dell’informatica avanzata (Big Data) e del calcolo ad alte prestazioni».

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Rappresentazione artistica della Via Lattea (vista laterale). Crediti: Crediti: Esa/Gaia/Dpac, Stefan Payne-Wardenaar.
Cc By-Sa 3.0 Igo

Se la fase di raccolta dati è terminata, la scienza della missione è ancora in pieno svolgimento. Il catalogo più recente, quello che in gergo viene chiamato la Data Release 3 (Dr3), è stato pubblicato nel 2022 ed è basato su circa tre anni di osservazioni di Gaia. Oltre alle posizioni, distanze e moti per quasi due miliardi di stelle, contiene cataloghi di sorgenti specifiche: stelle binarie, stelle variabili, asteroidi e molto ancora. Ma il meglio deve ancora arrivare.

Da diversi anni, la comunità scientifica della missione Gaia è al lavoro per realizzare la Data Release 4 (Dr4), prevista per il 2026. Sarà una miniera di informazioni ricchissima, contenente circa 500 terabyte di dati e basata su cinque anni e mezzo di osservazioni – l’arco di tempo inizialmente previsto per la missione, la cui vita operativa è stata prolungata con diverse estensioni che ne hanno raddoppiato la durata originale.

«È questa la release di Gaia che la comunità sta aspettando, ed è emozionante pensare che coprirà appena metà dei dati raccolti» nota Antonella Vallenari, ricercatrice Inaf e deputy chair del consorzio Dpac, la collaborazione che comprende centinaia di esperti in tutta Europa incaricati di trasformare le osservazioni di Gaia in cataloghi scientifici ad uso della comunità astronomica internazionale. «Anche se la missione ha smesso di raccogliere dati, il nostro lavoro andrà avanti ancora per molti anni per rendere questi incredibili set di dati pronti all’uso».

I dati resi pubblici finora, nelle prime tre release, hanno già contribuito a rivoluzionare la nostra comprensione della galassia in cui viviamo, permettendo di ricostruire la sua storia passata e, con essa, le nostre origini cosmiche. Dalla scoperta di una “galassia fantasma” che ha plasmato la Via Lattea primordiale ai “blocchi di stelle” che si sono fuse con essa in tempi remoti, dalla collisione che ha “piegato” la forma del disco galattico a quella, più recente, che ne ha “corrugato” l’aspetto, tutti questi studi stanno riscrivendo l’archeologia della nostra galassia. E non solo: negli ultimi anni Gaia ha collezionato risultati sorprendenti su ogni tipo di corpo celeste, dagli asteroidi (con tanto di lune) a buchi neri da record, fino ai lontanissimi quasar, per un totale di 13mila pubblicazioni scientifiche.

Fra i vari aspetti con cui la Dr4 supererà le precedenti data release c’è anche la capacità unica di rivelare i piccoli moti relativi delle coppie di corpi celesti che orbitano uno attorno all’altro: il catalogo di stelle binarie di Gaia, il più grande del suo genere ad oggi, è infatti destinato a crescere ancora di più. Nelle prossime release, che saranno basate su un lasso di tempo più lungo di osservazioni, aumenterà anche il numero di esopianeti, rivelati tracciando minuscole perturbazioni nei moti delle stelle causate da corpi più piccoli in orbita attorno ad esse.

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Rappresentazione artistica della Via Lattea. Le annotazioni indicano i nomi delle varie strutture (cliccare per ingrandire). Crediti: Crediti: Esa/Gaia/Dpac, Stefan Payne-Wardenaar.
Cc By-Sa 3.0 Igo

L’impatto di questa straordinaria missione ha toccato anche uno dei misteri più intriganti che avvolgono la Via Lattea: il suo aspetto. Non potendo uscire dalla nostra galassia, non è affatto banale determinare come questa possa apparire a un osservatore esterno. Niente selfie, dunque. Ma i dati di Gaia e i numerosi studi basati su di essi sono le prove migliori a nostra disposizione.

Molto è cambiato negli ultimi anni: secondo i modelli più recenti, la Via Lattea avrebbe un numero di bracci a spirale maggiore di due, ma questi sarebbero meno prominenti di quanto ritenuto in passato. Inoltre, la barra centrale sarebbe più inclinata dal punto di vista del Sole, e orientata in maniera diversa in relazione ai bracci a spirale rispetto a quanto noto prima di Gaia. Questi nuovi elementi sono confluiti in una nuova rappresentazione artistica della nostra galassia pubblicata oggi in occasione della fine delle operazioni scientifiche, realizzata da Stefan Payne-Wardenaar, esperto di visualizzazioni scientifiche presso il Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania. Rappresentazione artistica, anch’essa, destinata a migliorare ancora con le release di dati degli anni a venire.

Per saperne di più:

  • Leggi la guida sul sito dell’Esa per provare a osservare Gaia con un piccolo telescopio (in inglese)


Valeria Zanini alla guida della Sisfa


media.inaf.it/2025/01/14/valer…
Dal prossimo 19 febbraio e per tre anni, la Società italiana degli storici della fisica e dell’astronomia (Sisfa) avrà una nuova presidente: Valeria Zanini. Già responsabile del museo “La Specola” e dei beni culturali della sede padovana dell’Inaf, studiosa esperta di storia dell’astronomia e strumenti scientifici dei secoli XVII-XIX, Zanini sarà la prima donna e prima astronoma a ricoprire questa carica. Media Inaf l’ha intervistata.

Si aspettava questa nomina o è stata una sorpresa?

«Secondo lo statuto della società, è il comitato elettorale che propone i candidati per la presidenza e per il consiglio direttivo. Io stavo concludendo il mio primo mandato in consiglio direttivo e stavo considerando di mettermi a disposizione della società per un secondo mandato. Non mi aspettavo però che mi sarebbe stato chiesto di candidarmi alla presidenza, quindi sì, è stata una sorpresa, peraltro molto gradita. Significa che il lavoro fatto negli ultimi tre anni in consiglio direttivo, assieme a tutti i colleghi uscenti, è stato apprezzato e riconosciuto».

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Valeria Zanini, prossima presidente della Sisfa. Laureata in astronomia e tecnologo all’Inaf di Padova, Zanini, 54 anni, nasce e vive a Vicenza. È sposata e ha due figlie ormai ventenni. Responsabile del museo “La Specola” e dei beni culturali dell’Osservatorio astronomico di Padova, i suoi interessi di ricerca vertono sulla storia dell’astronomia nei secoli XVII-XIX e sugli strumenti scientifici della stessa epoca. È stata responsabile del Servizio musei dell’Inaf fino al 2015, e ora collabora attivamente con il Servizio biblioteche, musei e terza missione, occupandosi della tutela e valorizzazione del patrimonio storico sia mediante studi e ricerche, sia attraverso l’organizzazione di eventi e mostre. Dal 2015 svolge con contratto a titolo gratuito metà del corso di Storia dell’astronomia, per la laurea in astronomia, presso l’Università di Padova. Crediti: Inaf

Che cos’è esattamente la Sisfa? E di cosa si occupa?

«La Sisfa, Società italiana degli storici della fisica e dell’astronomia, è stata istituzionalizzata nella forma attuale nel 1999, ma affonda le sue radici negli anni ’70, quando un gruppo di ricercatori creò, all’interno del Cnr, un coordinamento scientifico per le attività di ricerca in storia della fisica, ispirandosi a quanto all’estero già si faceva da tempo. Ciò portò, nel 1981, alla costituzione del Gruppo nazionale di coordinamento per la storia della fisica (Gnsf) che successivamente, accorpando anche l’anima astronomica, si trasformò nella Sisfa. La Sisfa si pone come obiettivo la valorizzazione della storia della fisica e dell’astronomia in ogni ambito della società: nella ricerca, nella divulgazione, nell’insegnamento delle scienze, nella formazione dei docenti, nella cultura in generale. La Società opera, inoltre, per la tutela e la valorizzazione del ricco patrimonio storico-scientifico italiano che sopravvive nei dipartimenti di fisica, negli osservatori astronomici e in altri luoghi storicamente legati a queste discipline».

Che tipo di lavoro l’attenderà, in quanto presidente? Quali sono i suoi obiettivi?

«In questo contesto, nel prossimo triennio vorrei che la Sisfa si affermasse sempre più come spazio di dialogo e confronto per tutti gli studiosi interessati alla storia della fisica e dell’astronomia in Italia, uno spazio in grado di accogliere e valorizzare le diverse professionalità che contraddistinguono i suoi soci: ricercatori, docenti, collezionisti, conservatori, restauratori, cultori, semplici appassionati… Inoltre, consapevole delle limitate opportunità di carriera in questo settore di ricerca e della conseguente difficoltà nel ricambio generazionale, durante la mia presidenza vorrei sostenere le giovani generazioni di ricercatori in storia della fisica e dell’astronomia, offrendo loro opportunità di crescita e formazione. Sono peraltro convinta che la formazione dei giovani debba passare attraverso un “passaggio di conoscenza” intergenerazionale, e per questo mi piacerebbe avviare percorsi di mentorship che favoriscano il dialogo tra l’esperienza dei soci più “maturi” e l’energia innovativa dei soci più giovani».

Non solo prima donna, ma anche prima astronoma in quarant’anni. Come mai nessun astronomo prima di lei?

«Come dicevamo, la storia dell’astronomia è entrata in un secondo momento nel Gnsf e i ricercatori con formazione prettamente astronomica erano molto pochi, anche se erano molto attivi in seno alla Società. Per molti anni la presidenza è stata tenuta dal professor Pasquale Tucci il quale, pur essendo di formazione fisica, ha contribuito significativamente al recupero e alla valorizzazione del patrimonio astronomico dell’Osservatorio di Brera, incarnando così anche l’anima astronomica della Società. Negli ultimi anni, soprattutto dopo il congresso annuale organizzato a Padova nel 2023, i soci astronomi sono aumentati, per cui anche la Società ha sentito l’esigenza che questa fetta importante dei suoi soci trovasse maggior rappresentanza negli organi istituzionali».

Qual è il valore aggiunto che potrà portare la sua formazione, in questo ruolo?

«Come astronoma che lavora all’Inaf – un ente di ricerca che, pur tra diverse difficoltà, negli ultimi anni ha sempre più capito l’importanza di valorizzare la propria storia e il proprio patrimonio, in un dialogo costante con la parte di ricerca e con i colleghi che si occupano di divulgazione e didattica – credo che il valore aggiunto che potrò portare sarà proprio quello di favorire il dialogo e lo scambio di idee. D’altra parte, l’astronomia, oltre a essere la scienza più antica, è anche quella che più affascina l’uomo della strada, e proprio questo può facilitare il dialogo con l’intera società anche sul piano della storia di questa disciplina».

Un po’ della sua storia: come si è avvicinata al mondo della storia dell’astronomia e come ha deciso di dedicarsi completamente a questo?

«Io mi sono laureata in astronomia all’Università di Padova e nel mio percorso accademico ho seguito anche il corso di storia dell’astronomia, che all’epoca era tenuto dal professor Giuliano Romano. Il professor Romano era un grandissimo appassionato ma anche un grande comunicatore. In un’epoca in cui le lezioni si tenevano ancora con i lucidi e non esisteva PowerPoint, lui era in grado di farti vivere dei veri e propri viaggi nel tempo in prima persona. Al momento di scegliere la mia tesi di laurea ho dunque voluto approfondire un argomento storico. Il professor Romano era però andato in pensione, per cui ho svolto la mia tesi (sull’astronomo seicentesco Geminiano Montanari) sotto la guida della professoressa Luisa Pigatto, che proprio in quegli anni stava allestendo il museo “La Specola”, facendo restaurare l’antica strumentazione padovana e favorendo il recupero delle antiche sale osservative della Specola. È stata proprio lei a trasformare quello che pensavo sarebbe stato un interesse temporaneo, limitato al periodo della laurea (già mi immaginavo come insegnante di matematica e fisica in qualche liceo), nella vera passione e nel lavoro della mia vita».

Perché è importante conoscere e tramandare la storia dell’astronomia? E come si può rendere attuale e interessante lo studio della storia a chi comincia a studiare astrofisica, e vuole volgere tutta la sua attenzione al progresso, alle nuove scoperte, agli strumenti più grandi e d’avanguardia?

«L’articolo 9 della nostra Costituzione sancisce che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione […]”. Non è casuale che i nostri padri costituenti abbiano accostato la ricerca scientifica alla tutela del patrimonio storico, perché non vi è futuro se non si ha una comprensione profonda del passato da cui si arriva. Questo principio vale in ogni ambito della nostra vita – familiare, sociale, politico e anche scientifico. Attraverso la storia emerge chiaramente come lo sviluppo delle conoscenze scientifiche non sia stato un processo lineare e fluido, ma piuttosto un percorso accidentato, sempre strettamente interconnesso con l’evoluzione politica, sociale e culturale dell’epoca».

Lei insegna anche il corso di storia dell’astronomia all’Università di Padova. Come fare per rendere attuale e attraente questa disciplina agli occhi dei giovani studenti?

«Il processo di acquisizione della conoscenza scientifica di un giovane studente riflette, seppur in scala ridotta, il cammino dell’umanità verso la scienza moderna. Trasmettere dunque l’idea che le conoscenze scientifiche odierne non sono appannaggio dei pochi in grado di comprenderle, ma sono il frutto di un lungo e difficoltoso cammino di apprendimento collettivo, può essere la chiave attraverso cui far conoscere la storia, e con la quale stimolare quella fetta della società che più ha difficoltà con le materie scientifiche. Questo approccio crea una sorta di empatia con i nostri predecessori, permettendo a tutti di riconoscersi, anche in campo scientifico, come parte della Storia».



Come diventare milionari ripulendo la Luna


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Durante i preparativi per le missioni lunari a lungo termine, come quelle previste per il programma Artemis, e progettando le future attività umane sul nostro satellite, la gestione dei rifiuti nello spazio sta diventando sempre più un problema cruciale. È arrivato dunque il momento di capire come minimizzare, conservare, trattare e riciclare nello spazio per ridurre al minimo o eliminare del tutto la necessità di riportare i rifiuti sulla Terra.

Per promuovere una sorta di “sostenibilità spaziale”, la Nasa ha lanciato la sfida LunaRecycle Challenge, rivolta a persone che possano offrire soluzioni innovative per riciclare flussi di rifiuti inorganici quali imballaggi alimentari, vestiti scartati e materiali per esperimenti scientifici. Mentre gli sforzi precedenti si concentravano sulla riduzione della massa e del volume dei rifiuti, il focus di questa iniziativa è invece sulla loro trasformazione in prodotti utili per supportare la ricerca e le attività esplorative nello spazio e minimizzare la nostra impronta ecologica sulla Luna. In palio ci sono premi per tre milioni di dollari.

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Grafica e logo ufficiale della sfida LunaRecycle Challenge della Nasa. Crediti: Nasa

LunaRecycle Challenge rientra nella serie di sfide che l’agenzia americana spaziale ha avviato nel 2005 per cercare tra cittadini, startup, università e organizzazioni di tutto il mondo il “Mr. Wolf” che possa risolvere tutti i problemi. Il programma Centennial Challenge, infatti, offre premi a chi riesca a fornire e inventare soluzioni rivoluzionarie e non tradizionali a problemi di interesse, non solo per la Nasa ma per tutta la società. Le tecnologie ideate nella LunaRecycle Challenge, ad esempio, oltre a sostenere il futuro dell’esplorazione spaziale, potranno contribuire anche a migliorare la gestione dei rifiuti sulla Terra, ispirando nuovi approcci e soluzioni per il riciclo, aumentando l’efficienza, riducendo i rifiuti tossici e creando tecnologie su scala ridotta applicabili alle comunità di tutto il mondo.

«Operare in modo sostenibile è una considerazione importante per noi che facciamo scoperte e conduciamo ricerche sia lontano da casa che sulla Terra», spiega Amy Kaminski, responsabile del programma Prizes, Challenges and Crowdsourcing della Nasa. «Con questa sfida, stiamo cercando gli approcci innovativi proposti dalla società tutta per la gestione dei rifiuti sulla Luna e puntiamo a riportare sulla Terra le lezioni apprese a beneficio di tutti».

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Rappresentazione artistica di raccolta di materiale sulla Luna. Crediti: Nasa

La Luna Recycle Challenge della Nasa offre due percorsi di gara, ognuno con premi dedicati: Prototype Build e un Digital Twin. La linea Prototype Build si concentra sulla progettazione e lo sviluppo di componenti hardware e sistemi per il riciclaggio dei rifiuti solidi sulla superficie lunare. Per le attività Digital Twin ci si focalizzerà sulla creazione di una replica virtuale di un sistema completo per il riciclaggio di rifiuti lunari e la fabbricazione di prodotti finali. Chi vorrà mettersi alla prova, potrà competere in una o in entrambe le specialità scrivendo una proposta.

«Siamo entusiasti di vedere le soluzioni che i nostri concorrenti produrranno e impazienti per questa sfida che farà da catalizzatore positivo per avvicinare l’agenzia e l’umanità all’esplorazione di altri mondi oltre il nostro», dice Kim Krome, responsabile della LunaRecycle Challenge, che è stata realizzata grazie alla collaborazione della Nasa con l’Università dell’Alabama e l’azienda AI SpaceFactory, conosciuta per i suoi progressi nel campo delle tecnologie innovative destinate ad ambienti estremi, tipo quelli marziani o lunari.

Le squadre interessate a partecipare devono registrarsi tramite il modulo ufficiale disponibile sul sito dedicato alla competizione entro il 31 marzo 2025. Per prepararsi al meglio e “scaldare i cervelli”, la Nasa propone un webinar di 90 minuti che si terrà il prossimo 15 gennaio su Zoom. Nel corso del webinar, ex partecipanti delle sfide Centennial condivideranno strategie, pratiche e storie di successo per aiutare i nuovi concorrenti a costruire la perfetta squadra di inventori e “spazzini spaziali” efficaci per raggiungere i propri obiettivi e, chissà, diventare milionari raccogliendo rifiuti lunari.

Per saperne di più:

Guarda il video di presentazione:

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Dagli abissi al cielo, una Terra di rifiuti


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Plastiche, reti, microplastiche e persino vere e proprie isole di rifiuti popolano i nostri mari. Cemento, palazzoni, fumi ed emissioni. E ancora deforestazione, eventi climatici estremi, scioglimento della calotta polare. Questo è, solo in parte, il ritratto di come l’uomo ha plasmato (qualcuno azzarderebbe un “rovinato”) il pianeta Terra. Tutte cose che possiamo osservare quotidianamente da satellite. Sì, perché grazie alle costellazioni di satelliti in orbita mari e terre sono costantemente monitorati. E il cielo? Nemmeno quello è un bello spettacolo. Lo potete vedere, da fuori, nell’immagine riportata qui, sulla destra: una rappresentazione abbastanza attendibile di un problema che gli esperti chiamano space debris. Spazzatura spaziale. Un problema preoccupante, al punto che un gruppo di esperti ha scritto un articolo, pubblicato la settimana scorsa su One Earth, per proporre la designazione di un nuovo Obiettivo di sviluppo sostenibile dedicato alla protezione dell’orbita terrestre.

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Illustrazione della Terra circondata dai detriti spaziali. Crediti: NASA

Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), attualmente 17, sono stati scritti e adottati dai membri delle Nazioni Unite nel 2015 come appello universale all’azione per porre fine alla povertà, proteggere il pianeta per le generazioni future e garantire a tutte le persone pace e prosperità. Fra gli ambienti naturali non più incontaminati a rischio, secondo scienziati ed esperti sul tema, ci sarebbe ora anche l’orbita del nostro pianeta. Sono circa cento le nazioni oggi coinvolte in attività spaziali a vari livelli. Dagli anni Cinquanta sono stati lanciati nell’orbita terrestre quasi 20mila satelliti, ma secondo l’ultimo report annuale sull’ambiente spaziale pubblicato dall’Esa alla fine dello scorso anno, il 2024 è stato l’anno con più lanci di sempre e il numero delle costellazioni di satelliti commerciali in alcune orbite terrestri basse continua ad aumentare.

I satelliti apportano immensi benefici alla società, monitorando ecosistemi, supportando le comunicazioni globali e consentendo il mantenimento di reti e servizi utilizzati da miliardi di persone in tutto il pianeta, come la televisione satellitare e i pagamenti contactless – nessuno dubita di questo. Tuttavia, una volta raggiunta la fine della loro vita, molti di questi rimangono abbandonati, e assieme ai diversi stadi di lancio e a frammenti derivanti da esplosioni o collisioni finiscono per accumularsi come detriti orbitali. Un fenomeno che, in una sorta di effetto domino, aumenta ulteriormente la possibilità di collisioni con satelliti attivi e la generazione di ulteriori detriti.

«Lo spazio è essenziale per la nostra vita quotidiana, dalle comunicazioni globali alla comprensione dei cambiamenti climatici, eppure il rapido aumento del dispiegamento di satelliti – 2.877 solo nel 2023 (un aumento del 15 per cento circa rispetto al 2022), e ancora di più nel 2024 – ha portato a un aumento del rischio di collisioni e detriti», dice Melissa Quinn, direttrice generale della Business Unit Internazionale di Slingshot Aerospace e coautrice della proposta di Sdg. «Nel 2024, abbiamo registrato un’impennata del 17 per cento rispetto all’anno precedente nel numero medio di avvicinamenti in orbita terrestre bassa per satellite su Slingshot Beacon, l’applicazione di coordinamento del traffico spaziale di Slingshot. Con oltre 12.500 veicoli spaziali in orbita attorno al nostro pianeta, tra cui più di 3.300 satelliti inattivi, abbiamo bisogno di un’azione globale urgente e coordinata per garantire che lo spazio sia sicuro, sostenibile e protetto».

Un’azione che, secondo Quinn e gli altri autori dell’articolo, acquisterebbe molta più rilevanza se associata alla creazione di un nuovo Sdg. Il che non significa che non vi sia alcuna strategia di mitigazione già in atto da parte delle agenzie spaziali del mondo. Nel 2002, infatti, il Comitato di coordinamento interagenzie per i detriti spaziali (Iadc), di cui l’Esa è membro, ha pubblicato le Linee guida per la mitigazione dei detriti spaziali. Le misure descritte nelle linee guida stabiliscono come progettare, far volare e smaltire le missioni spaziali in modo da evitare la creazione di ulteriori detriti. E dal 2016 lo Space Debris Office dell’Esa pubblica un rapporto annuale sull’ambiente spaziale per fornire una panoramica trasparente delle attività spaziali globali, e determinare in che misura queste e altre misure internazionali di riduzione dei detriti stiano migliorando la sostenibilità a lungo termine del volo spaziale. Nell’ultimo, a cui abbiamo già accennato prima, l’Esa sottolinea che, a oggi, non abbastanza satelliti lasciano queste orbite fortemente congestionate alla fine della loro vita. In altre parole, la stessa Agenzia spaziale europea ammette che, nonostante l’adozione di misure di mitigazione dei detriti spaziali stia lentamente migliorando, siamo ancora molto lontani dall’arresto della produzione di nuovi detriti. E conclude che, senza ulteriori cambiamenti, il comportamento collettivo delle entità che operano nello spazio (aziende private e agenzie nazionali) non è sostenibile a lungo termine.

Per questo, i proponenti del nuovo Sdg sottolineano l’importanza di creare un consenso globale e velocizzare l’attuazione pratica di misure volte ad affrontare la questione. Nella pratica, scrivono gli autori, il nuovo Sdg18 potrebbe trarre diretta ispirazione da uno degli obiettivi esistenti, l’Sdg14: Life Below Water, che riguarda la gestione dei detriti marini. Una cosa che certamente accomuna le due tipologie di rifiuti, e che renderebbe l’intervento delle Nazioni Unite prezioso, scrivono gli autori, è che entrambi si estendono oltre qualunque confine nazionale e internazionale.

«Proprio come l’inquinamento da plastica e il cambiamento climatico, la spazzatura spaziale è un problema che trascende i confini», dice infatti Heather Koldewey, responsabile della conservazione degli oceani e del gruppo Fairer della Zoological Society of London (Zsl) e coautrice dell’articolo. «I nostri continui sforzi per proteggere gli oceani evidenziano quanto siano importanti gli accordi sostenuti dalle Nazioni Unite per gestire questa crisi. È fondamentale imparare dalle sfide e dalle soluzioni che abbiamo trovato nell’affrontare i detriti marini e agire subito per proteggere l’orbita del nostro pianeta».

Qualche passo concreto, negli ultimi anni, è comunque stato fatto. Nell’ultimo rapporto del 2024 l’Esa ha aggiornato i requisiti e gli standard di mitigazione dei detriti che regolano le modalità di progettazione, costruzione, volo e smaltimento delle missioni dell’Agenzia, stabilendo anche le regole per qualsiasi azienda o istituzione che collabora con l’Esa nelle sue missioni. Linee guida più rigorose per la mitigazione dei detriti, che sono state accolte con favore da molti nel settore spaziale. Nel 2023, infine, l’Esa ha facilitato la creazione della Zero Debris Charter, oggi firmata da 12 Paesi e oltre cento entità commerciali e non commerciali, con l’obiettivo di limitare in modo significativo la produzione di detriti nelle orbite terrestri e lunari di tutte le missioni, i programmi e le attività future entro il 2030.

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Getti in tempo reale dal buco nero del Dragone


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A 270 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione del Dragone, c’è un buco nero da 1,4 milioni di masse solari che negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione di molti astronomi. Di conseguenza è stato immortalato più volte da numerosi telescopi, dallo spazio e da terra. È il buco nero supermassiccio al centro della galassia 1ES 1927+654, del quale abbiamo appena dato notizia: in base ai dati raccolti dal telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Esa, mostra anomale emissioni in banda X variabili nel tempo e in frequenza, dette oscillazioni quasi periodiche (Qpo) e ascrivibili – questa l’ipotesi più recente – ai “morsi” di materia con i quali sta consumando una nana bianca che gli orbita attorno.

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La galassia attiva 1ES 1927+654, evidenziata da un cerchio, ha mostrato cambiamenti straordinari dal 2018, quando si è verificato un importante outburst nella luce visibile, ultravioletta e a raggi X. La galassia ospita un buco nero centrale di circa 1,4 milioni di masse solari e si trova a 270 milioni di anni luce da noi. Crediti: Nasa/Gsfc

Non ci sono però solo queste oscillazioni a stuzzicare la curiosità degli astronomi: osservazioni in banda radio compiute nei mesi di febbraio, aprile e maggio 2024 – riportate in un articolo pubblicato oggi su ApJ Letters e guidato da Eileen Meyer della University of Maryland Baltimore County – hanno messo in evidenza strutture che si estendono da entrambi i lati del buco nero, lunghe in totale circa mezzo anno luce, che sembrano essere getti di gas ionizzato, o plasma, emesso a circa un terzo della velocità della luce. Gli astronomi si chiedono da tempo perché solo una frazione dei buchi neri produca potenti getti di plasma e queste osservazioni potrebbero fornire indizi fondamentali per arrivare a una risposta.

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Le immagini radio di 1ES 1927+654 rivelano strutture emergenti che sembrano essere getti di plasma in uscita da entrambi i lati del buco nero centrale della galassia in seguito a un forte brillamento radio. La prima immagine, scattata nel giugno 2023, non mostra alcun segno del getto, probabilmente perché il gas caldo lo ha schermato dalla vista. Poi, a partire dal febbraio 2024, le caratteristiche emergono e si espandono dal centro della galassia, coprendo una distanza totale di circa mezzo anno luce misurata dal centro di ciascuna struttura. Crediti: Nsf/Aui/Nsf Nrao/Meyer et al. 2025

«Nel 2018 il buco nero ha iniziato a cambiare le sue proprietà proprio sotto i nostri occhi, con un importante outburst ottico, ultravioletto e a raggi X, e da allora molti team lo tengono d’occhio», ha ricordato oggi Meyer al meeting dell’American Astronomical Society, in corso in questi giorni a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). «La formazione del getto di un buco nero non è mai stata osservato prima in tempo reale. Pensiamo che l’emissione abbia avuto inizio prima del brillamento in banda radio, quando i raggi X sono aumentati, ma che il getto sia stato inizialmente schermato alla nostra vista dal gas caldo, finché all’inizio dell’anno scorso non è emerso».

E se all’origine dei “singhiozzi” in banda X pare esserci la consumazione d’una nana bianca, anche per quanto riguarda i getti radio le ipotesi non mancano. «La spiegazione che per ora ci siamo dati per descrivere ciò che sta accadendo», dice a Media Inaf una delle coautrici dello studio su ApJ Letters, Francesca Panessa dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è che probabilmente la responsabile del lancio del getto osservato in banda radio sia una riconfigurazione del campo magnetico – ad esempio, da toroidale a poloidale – nei pressi del buco nero».

«Questa scoperta», ribadisce un altro dei coautori, Gabriele Bruni, dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è il risultato di una massiccia campagna osservativa che coinvolge un grande numero di osservatori a terra e nello spazio, incluso lo European Vlbi Network». E proprio la varietà e la quantità di telescopi coinvolti nelle osservazioni di 1ES 1927+654, dalla banda radio fin su all’X, passando per ottico e ultravioletto, è argomento di un terzo studio su questo buco nero, sottoposto la settimana scorsa a The Astrophysical Journal.

Per saperne di più:

  • Leggi su Media Inaf il comunicato stampa “Il buco nero con la corona oscillante
  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo“Late-time radio brightening and emergence of a radio jet in the changing-look AGN 1ES 1927+654”, di Eileen T. Meyer, Sibasish Laha, Onic I. Shuvo, Agniva Roychowdhury, David A. Green, Lauren Rhodes, Amelia M. Hankla, Alexander Philippov, Rostom Mbarek, Ari laor, Mitchell C. Begelman, Dev R. Sadaula, Ritesh Ghosh, Gabriele Bruni, Francesca Panessa, Matteo Guainazzi, Ehud Behar, Megan Masterson, Haocheng Zhang, Xiaolong Yang, Mark A. Gurwell, Garrett K. Keating, David Williams-Baldwin, Justin D. Bray, Emmanuel K. Bempong-Manful, Nicholas Wrigley, Stefano Bianchi, Federica Ricci, Fabio La Franca, Erin Kara, Markos Georganopoulos, Samantha Oates, Matt Nicholl, Main Pal e S. Bradley Cenko
  • Leggi il preprint dell’articolo sottoposto a The Astrophysical Journal Multi-wavelength observations of a jet launch in real time from the post-changing-look Active Galaxy 1ES 1927+654”, di Sibasish Laha, Eileen T. Meyer, Dev R. Sadaula, Ritesh Ghosh, Dhrubojyoti Sengupta, Megan Masterson, Onic I. Shuvo, Matteo Guainazzi, Claudio Ricci, Mitchell C. Begelman, Alexander Philippov, Rostom Mbarek, Amelia M. Hankla, Erin Kara, Francesca Panessa, Ehud Behar, Haocheng Zhang, Fabio Pacucci, Main Pal, Federica Ricci, Ilaria Villani, Susanna Bisogni, Fabio La Franca, Stefano Bianchi, Gabriele Bruni, Samantha Oates, Cameron Hahn, Matt Nicholl, S. Bradley Cenko, Sabyasachi Chattopadhyay, Josefa Becerra Gonzalez, J.A. Acosta-Pulido, Suvendu Rakshit, Jiri Svoboda, Luigi Gallo, Adam Ingram e Darshan Kakkad