Il campo magnetico di Mercurio in trenta minuti
Come la Terra, anche Mercurio ha un campo magnetico, anche se, a livello del suolo, è cento volte più debole del nostro. Questo campo magnetico crea una bolla nello spazio – la magnetosfera – che funge da cuscinetto al flusso continuo di particelle provenienti dal Sole. Poiché Mercurio orbita molto vicino al Sole, l’interazione del vento solare con la magnetosfera e con la superficie del pianeta è assai più intensa che sulla Terra. Esplorare la dinamica di questa bolla e le proprietà delle particelle contenute al suo interno è uno degli obiettivi principali della missione BepiColombo.
BepiColombo arriverà a Mercurio nel 2026, sfruttando dei sorvoli intorno alla Terra, a Venere e allo stesso Mercurio per regolare la sua velocità e traiettoria, in modo da consentirne l’inserimento in orbita intorno al pianeta, dove la sonda si separerà e schiererà i suoi due moduli orbitanti: il Mercury Planetary Orbiter (Mpo), guidato dall’Esa, e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo), guidato dalla Jaxa. I due moduli viaggeranno lungo orbite complementari per raccogliere le misure necessarie a tracciare un quadro completo dell’ambiente dinamico di Mercurio.
La magnetosfera di Mercurio, con le linee di campo magnetico compresse sul lato verso il Sole e che si estendono in una coda sul lato notturno. Crediti: Esa
I flyby – sei in tutto su Mercurio, quattro dei quali già avvenuti, l’ultimo il mese scorso – consentono inoltre di raccogliere informazioni uniche su regioni del pianeta che non sarebbero direttamente accessibili dall’orbita. Durante il passaggio del 19 giugno 2023, il terzo dei sei flyby, Lina Hadid, ex ricercatrice dell’Esa, ora al Laboratoire de Physique des Plasmas dell’Osservatorio di Parigi, ha utilizzato la serie di strumenti Mercury Plasma Particle Experiment (Mppe), attivi su Mmo, per creare in un brevissimo periodo di tempo un’immagine eccezionale del paesaggio magnetico del pianeta.
«Questi sorvoli sono veloci, abbiamo attraversato la magnetosfera di Mercurio in circa 30 minuti, passando dal tramonto all’alba, con il punto di massimo avvicinamento a soli 235 km sopra la superficie del pianeta», ricorda Hadid. «Abbiamo campionato il tipo di particelle, quanto sono calde e come si muovono».
Combinando le misure di BepiColombo con la modellazione digitale, Hadid e i suoi colleghi hanno potuto tracciare un quadro delle varie caratteristiche che si incontrano nella magnetosfera, determinando l’origine delle particelle rilevate in base al loro moto. «Abbiamo osservato strutture previste, come il bow shock tra il vento solare che scorre liberamente e la magnetosfera, e siamo anche passati attraverso i “corni” che fiancheggiano la distesa di plasma, una regione gassosa più calda, densa e caricata elettricamente che sgorga come una coda in direzione opposta al Sole. Ma abbiamo anche avuto alcune sorprese».
Hadid è co-principal investigator di Mppe e responsabile di uno dei suoi strumenti, l’analizzatore dello spettro di massa. E ha lavorato con il responsabile precedente, Dominique Delcourt, all’articolo che presenta i risultati, pubblicato giovedì scorso su Nature Astronomy.
«Abbiamo rilevato un cosiddetto strato limite a bassa latitudine definito da una regione di plasma turbolento al bordo della magnetosfera, qui abbiamo osservato particelle con una gamma molto più ampia di energie, mai vista prima su Mercurio. Tutto questo grazie alla sensibilità dell’Msa, il Mass Spectrum Analyser progettato appositamente per il complesso ambiente di Mercurio», dice Delcourt. «BepiColombo sarà in grado di determinare la composizione ionica della magnetosfera di Mercurio in modo più dettagliato che mai».
«Abbiamo anche osservato ioni energetici caldi vicino al piano equatoriale e a bassa latitudine, intrappolati nella magnetosfera», aggiunge Hadid,«e pensiamo che l’unico modo per spiegarlo sia l’azione di una corrente ad anello – un anello parziale o completo – ma è un’ipotesi molto dibattuta».
Una corrente ad anello (ring current, in inglese) è una corrente elettrica trasportata da particelle cariche intrappolate nella magnetosfera. La Terra ha una corrente ad anello di cui conosciamo bene le caratteristiche, situata a decine di migliaia di chilometri dalla sua superficie. Su Mercurio è meno chiaro come le particelle possano rimanere intrappolate entro poche centinaia di chilometri dal pianeta, specialmente quando la magnetosfera è schiacciata contro la superficie del pianeta. Questo dubbio sarà probabilmente risolto una volta che Mpo ed Mmo raccoglieranno dati a tempo pieno.
Simulazione dell’ambiente magnetico di Mercurio
Hadid e colleghi hanno anche osservato l’interazione diretta della sonda spaziale con il plasma circostante. Quando la sonda è riscaldata dal Sole, non può rilevare gli ioni pesanti più freddi perché essa stessa si carica elettricamente e li respinge. Ma mentre la sonda si muove attraverso l’ombra notturna del pianeta, la carica è diverso e improvvisamente un mare di ioni di plasma freddi diventa visibile. È stato così possibile rilevare, per esempio, ioni di ossigeno, sodio e potassio, che sono stati probabilmente espulsi dalla superficie del pianeta da impatti di micro-meteoriti o attraverso interazioni con il vento solare.
«È come se improvvisamente stessimo guardando la composizione superficiale “esplosa” in 3D attraverso l’atmosfera molto fine del pianeta, la sua esosfera», spiega Dominique. «È emozionante cominciare a vedere le correlazioni tra la superficie del pianeta e il plasma dell’ambiente circostante».
«Le osservazioni sottolineano quanto sia importante che i due orbiter e i loro strumenti costruiscano un quadro completo di come l’ambiente magnetico e plasmatico cambi nel tempo e nello spazio. Siamo impazienti di vedere come BepiColombo cambierà la nostra comprensione delle magnetosfere planetarie», conclude Geraint Jones, project scientist di BepiColombo all’Esa
Nel frattempo, gli scienziati stanno già analizzando i dati raccolti durante il quarto flyby di Mercurio, mentre ci si prepara agli ultimi due, previsti il primo dicembre 2024 e l’otto gennaio 2025.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Mercury’s plasma environment after BepiColombo’s third flyby”, di Lina Z. Hadid, Dominique Delcourt, Yuki Harada, Mathias Rojo, Sae Aizawa, Yoshifumi Saito, Nicolas André, Austin N. Glass, Jim M. Raines, Shoichiro Yokota, Markus Fränz, Bruno Katra, Christophe Verdeil, Björn Fiethe, Francois Leblanc, Ronan Modolo, Dominique Fontaine, Norbert Krupp, Harald Krüger, Frédéric Leblanc, Henning Fischer, Jean-Jacques Berthelier, Jean-André Sauvaud, Go Murakami e Shoya Matsuda
Starlink, emissioni dalla seconda generazione
Starlink V2 Mini di SpaceX in atresa di essere lanciati. Crediti: SpaceX
Osservazioni effettuate lo scorso anno con il radiotelescopio Lofar (Low Frequency Array) – il più grande radiotelescopio a bassa frequenza sulla Terra, sviluppato da Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy) e operato in collaborazione con altri nove paesi europei – hanno dimostrato che i satelliti Starlink di prima generazione emettono involontariamente onde radio che possono ostacolare le osservazioni astronomiche. Ora nuove osservazioni, sempre con Lofar, hanno dimostrato che anche i satelliti Starlink di seconda generazione “V2-mini” purtroppo non sono da meno.
Negli ultimi anni, il numero di satelliti lanciati in orbita terrestre bassa (Leo) è salito alle stelle, grazie soprattutto alla rapida commercializzazione dello spazio e ai progressi della tecnologia satellitare. Dal 2019, aziende come SpaceX e OneWeb hanno lanciato migliaia di satelliti, soprattutto per le telecomunicazioni. Si prevede che entro la fine del decennio il numero di satelliti in orbita potrebbe superare le 100mila unità. Contestualmente, l’aumento delle emissioni di onde radio dai satelliti in orbita terrestre bassa solleva serie preoccupazioni per il futuro della ricerca astronomica.
Quest’ultimo studio, pubblicato su Astronomy & Astrophysics, è stato condotto utilizzando due lunghe sessioni di osservazione con Lofar, il 19 luglio 2024, coprendo le frequenze radio sopra e sotto la banda di trasmissione FM utilizzata dalle stazioni tipiche delle radio di casa (tra 10 e 88 MHz e tra 110 e 188 MHz). Durante queste osservazioni, il team ha rilevato radiazioni elettromagnetiche indesiderate (Uemr) da quasi tutti i satelliti Starlink osservati, compresi quelli di prima e seconda generazione.
«Con Lofar abbiamo avviato un programma di monitoraggio delle emissioni indesiderate dei satelliti appartenenti a diverse costellazioni e le nostre osservazioni mostrano che i satelliti Starlink di seconda generazione presentano emissioni più forti ed emettono su una gamma più ampia di frequenze radio, rispetto ai satelliti di prima generazione», spiega Cees Bassa dell’Astron, autore principale dello studio.
L’analisi ha infatti rivelato che questi nuovi satelliti emettono onde radio fino a 32 volte più luminose rispetto alla prima generazione, con livelli potenzialmente superiori alle soglie di interferenza stabilite a livello internazionale per le emissioni e agli standard di compatibilità elettromagnetica terrestre ancora più rilassati.
«Rispetto alle più deboli sorgenti astrofisiche che osserviamo con Lofar, le Uemr dei satelliti Starlink sono 10 milioni di volte più luminose. Questa differenza è simile a quella tra le stelle più deboli visibili a occhio nudo rispetto alla luminosità della Luna piena. Poiché SpaceX sta lanciando circa 40 satelliti Starlink di seconda generazione ogni settimana, questo problema sta diventando sempre più grave», aggiunge Bassa.
Il video mostra il cielo radio sopra Lofar, alla lunghezza d’onda di 5 metri. A sinistra sono mostrati i dati reali, con le sorgenti radio più luminose. A destra si vedono i dati con la sottrazione del valore medio dei pixel, che evidenzia le variazioni di luminosità. A questa lunghezza d’onda radio vediamo scintillazione dove le sorgenti variano nel tempo, come stelle che brillano di notte. I satelliti Starlink sono visti come sorgenti che si muovono nel cielo, corrispondenti alle previsioni degli elementi orbitali disponibili al pubblico (segni rossi). Crediti: Astron
La ricerca evidenzia la necessità di norme più severe sulle Uemr satellitari per preservare la qualità delle osservazioni radioastronomiche. «L’umanità si sta chiaramente avvicinando a un punto di inflessione in cui dobbiamo agire per preservare il nostro cielo come finestra per esplorare l’universo dalla Terra. Le compagnie satellitari non sono interessate a produrre queste radiazioni indesiderate, quindi ridurle al minimo dovrebbe essere una priorità delle loro politiche spaziali sostenibili», afferma Federico Di Vruno dell’Osservatorio Ska. «Starlink non è l’unico grande attore in Leo, ma ha la possibilità di stabilire uno standard in questo campo».
I ricercatori sottolineano che se da un lato i satelliti di seconda generazione sono stati progettati per migliorare la connettività e fornire servizi di comunicazione, dall’altro le emissioni radio indesiderate rappresentano una minaccia crescente per l’integrità delle osservazioni astronomiche. Poiché le conseguenze di tali interferenze diventano sempre più evidenti, la collaborazione tra le aziende satellitari, le agenzie di regolamentazione e la comunità astronomica è essenziale per elaborare strategie di mitigazione efficaci.
Nei Paesi Bassi, uno dei Paesi più densamente popolati d’Europa, Astron gestisce Lofar. Questo è possibile solo grazie al supporto normativo delle agenzie locali, provinciali e nazionali. «Da quando Lofar è stato avviato, più di un decennio fa – quando ci fu detto che presto avremmo avuto difficoltà ad osservare a causa delle interferenze radio – con il sostegno normativo e una collaborazione produttiva con l’industria, sono state fatte complessivamente oltre 1000 mitigazioni individuali in collaborazione con decine di gruppi, aziende, infrastrutture, agenzie e individui in tutto il paese», afferma Jessica Dempsey, direttore generale e scientifico di Astron. «E questo rapporto non è unilaterale. Queste tecniche intelligenti per trovare segnali deboli nell’universo hanno restituito progressi tecnologici all’industria e alla società – dal Gps al WiFi. Non solo coesistiamo, ma prosperiamo insieme. Abbiamo le soluzioni per questa simbiosi anche nello spazio: c’è solo bisogno che le autorità di regolamentazione ci sostengano e che l’industria ci venga incontro. Senza mitigazioni, molto presto le uniche costellazioni che vedremo saranno quelle create dall’uomo».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Bright unintended electromagnetic radiation from second generation Starlink satellites” di Bassa, C., F. Di Vruno, B. Winkel, G.I.G. Jósza, M.A. Brentjens e X. Zhang
Iniziato il viaggio di Hera: destinazione asteroide
La missione europea di difesa planetaria è partita oggi, 7 ottobre 2024, alle 16:52 ora italiana, da Cape Canaveral, con un razzo Falcon 9 di SpaceX. Crediti: Esa
È decollata oggi la sonda Hera dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con obiettivo l’asteroide Dimorphos, che raggiungerà nel dicembre 2026. Hera fa seguito alla missione Dart della Nasa, che nel settembre del 2022 aveva impattato, deviandone l’orbita, contro Dimorphos, la piccola luna orbitante di un sistema di asteroidi binari noto come Didymos. Allora a catturare le immagini fu il cubesat LiciaCube dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), realizzato da Argotec, che scattò oltre 600 immagini dell’impatto. Hera cercherà quindi la prova definitiva del sistema di difesa planetario da attuare qualora la Terra dovesse essere in pericolo di collisione con un asteroide. A bordo di Hera molta scienza e tecnologia italiana grazie ai contributi gestiti dall’Asi.
«Sono passati due anni da quando abbiamo ricevuto a Terra le sensazionali immagini del nostro satellite LiciaCube che ha documentato», ricorda Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, «l’impatto della sonda della Nasa Dart su un asteroide. Immagini che ci hanno permesso di studiare e verificare una nuova strategia di protezione planetaria in caso di pericolo derivante da asteroidi e altri oggetti. Oggi il satellite dell’Esa, Hera inizia il suo viaggio sempre verso la stessa destinazione per analizzare ancor più da vicino ciò che è accaduto a Dimorphos, colpito allora e deviato nella sua orbita intorno a Didymos. La strategia della caccia agli asteroidi potenzialmente pericolosi si rafforza con questo importante contributo dell’Europa, con l’Italia e l’Asi in prima linea, verso il consolidamento della tecnica scelta per essere utilizzata nel caso in cui dovesse essere rilevato un corpo minore in rotta di collisione con il nostro pianeta. La partecipazione italiana alla missione è frutto, ancora una volta, di una collaborazione virtuosa tra scienza e tecnologia che fa confermare il nostro paese ai vertici in questo campo e che fornirà all’Europa una capacità elevata che le permetterà di essere al passo in ambito internazionale».
We have a mission!!#HeraMission‘s solar arrays have deployed and its batteries are charging. The satellite is in good health and the first commands have been confirmed on board. pic.twitter.com/ChckwCmNw9— ESA Operations (@esaoperations) October 7, 2024
Hera rilascerà anche due cubesats per eseguire osservazioni ravvicinate di supporto. Uno dei due, chiamato Milani, realizzato in Italia dalla Tayvak, effettuerà osservazioni multispettrali di superficie, mentre l’altro, Juventas, effettuerà per la prima volta rilevamenti radar dell’interno di un asteroide. Sulla sonda l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è inoltre responsabile dello strumento Vista (Volatile In Situ Thermogravimeter Analyser), un sensore per l’analisi dell’ambiente di polveri del sistema Didymos-Dimorphos a bordo di Milani. Lo studio della polvere attorno a Didymos è fondamentale per capire la coesione di questi corpi celesti nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose.
La consegna del cubesat Milani, lo scorso marzo, presso l’azienda Tyvak International Srl a Torino. Da sinistra: Andrea Longobardo (Inaf Iaps, team Vista), Diego Scaccabarozzi (Politecnico di Milano), Emiliano Zampetti (Cnr), Ian Carnelli (project manager della missione Hera), Ernesto Palomba (Inaf Iaps, responsabile scientifico dello strumento Vista), Fabrizio Dirri (Inaf Iaps, team Vista), Chiara Gisellu (Inaf Iaps, team Vista). Crediti: C. Gisellu
«Sono molto emozionato nel vedere coronato un sogno iniziato quasi venti anni fa con innocenti idee discusse durante i caffè e poi proseguite con i successivi studi di strumentazione miniaturizzata per l’Agenzia spaziale europea», dice da Cape Canaveral Ernesto Palomba, ricercatore Inaf e responsabile scientifico dello strumento Vista. «Ora sono qui con il mio team in euforica attesa di vedere arrivare i primi dati da Didymos tra qualche mese, che ci permetteranno di capire in dettaglio la situazione di questo sistema di asteroidi e delle loro polveri sollevate dopo l’impatto della missione Dart. Le informazioni che otterremo saranno fondamentali per capire la coesione di questi corpi celesti, nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose».
Oltre alle attività su Vista, l’Inaf collabora attivamente con altri due strumenti a bordo della missione: lo spettrometro Aspect e la termocamera a infrarossi Tiri. Per la parte industriale, inoltre, la Thales Alenia Space ha realizzato importanti equipaggiamenti, tra cui il transponder nello spazio profondo, costruito in Italia negli stabilimenti di Roma e L’Aquila, che consentirà una solida comunicazione con la stazione di terra. Anche Leonardo ha dato il suo apporto fornendo i pannelli fotovoltaici che alimenteranno la sonda. Realizzati nello stabilimento di Nerviano, in provincia di Milano, sono composti da due ali con tre pannelli ciascuna per un totale di circa 14 metri quadrati e oltre 1600 celle, ognuna grande quasi il doppio di una carta di credito. Inoltre Ohb-Italia è coinvolta nella realizzazione di importanti sistemi di bordo quali il sistema di potenza elettrica, mentre la propulsione è stata assegnata ad Avio. Tsd Space, una Pmi con sede a Napoli, ha infine realizzato la Spacecraft Monitoring Camera (Smc) di Hera.
Il lancio di Hera è avvenuto alle 16:52 ora italiana dalla rampa Slc-40 di Cape Canaveral utilizzando un vettore Falcon 9 della società americana SpaceX.
Fonte: comunicato stampa Asi
Per saperne di più sulla missione Hera, guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
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Rebels-25, la più antica galassia rotante
Immagine Alma del gas freddo in Rebels-25. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland et al.
Scoperta la più distante galassia simile alla Via Lattea mai osservata. Chiamata Rebels-25, questa galassia a disco sembra ordinata come le galassie odierne, ma noi la vediamo com’era quando l’universo aveva solo 700 milioni di anni. Ciò è sorprendente poiché, secondo la nostra attuale comprensione della formazione delle galassie, ci si aspetta che le galassie primordiali appaiano più caotiche. La rotazione e la struttura di Rebels-25 sono state rivelate utilizzando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso (European Southern Observatory) è un partner.
Le galassie che vediamo oggi hanno fatto molta strada rispetto alle controparti caotiche e grumose che gli astronomi osservano tipicamente nell’universo primordiale. «Secondo la nostra comprensione della formazione delle galassie, ci aspettiamo che la maggior parte delle galassie primordiali siano piccole e dall’aspetto disordinato», dice Jacqueline Hodge, astronoma all’Università di Leida, nei Paesi Bassi, e coautrice dello studio. Queste disordinate galassie primordiali si fondono tra loro e poi evolvono verso forme più uniformi a un ritmo incredibilmente lento. Le attuali teorie suggeriscono che, affinché una galassia sia ordinata come la Via Lattea, un disco in rotazione con strutture ben identificate come i bracci a spirale, devono essere trascorsi miliardi di anni di evoluzione. L’osservazione di Rebels-25, invece, mette in discussione questa scala temporale.
Nello studio, accettato per la pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, gli astronomi hanno scoperto che Rebels-25 è la più distante galassia con un disco in veloce rotazione mai scoperta. La luce che ci raggiunge da questa galassia è stata emessa quando l’Universo aveva solo 700 milioni di anni, appena il cinque per cento della sua età attuale (13,8 miliardi), rendendo inaspettata la rotazione ordinata di Rebels-25. “Vedere una galassia con tali somiglianze con la Via Lattea, fortemente dominata dalla rotazione, sfida la nostra comprensione di quanto velocemente le galassie nell’Universo primordiale si evolvano nelle galassie ordinate del cosmo odierno“, afferma Lucie Rowland, studentessa di dottorato presso l’Università di Leida e prima autrice dello studio.
Immagine Alma (a sinistra) e movimento del gas freddo in Rebels-25 (a destra). Cediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland et al.
Rebels-25 è stata inizialmente rivelata durante precedenti osservazioni dello stesso gruppo di lavoro, sempre condotte con Alma, che si trova nel deserto di Atacama in Cile. All’epoca, si è rivelata una scoperta entusiasmante, poichè la galassia mostrava accenni di rotazione, ma la risoluzione dei dati non era abbastanza fine per esserne certi. Per discernere correttamente la struttura e il movimento della galassia, il gruppo ha eseguito osservazioni successive con Alma a una risoluzione più elevata, che hanno unque confermato la sua natura eccezionale. “Alma è l’unico telescopio esistente con la sensibilità e la risoluzione per raggiungere questo obiettivo“, afferma Renske Smit, ricercatrice presso la Liverpool John Moores University nel Regno Unito e coautrice dello studio.
La galassia Rebels-25. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland Et Al./Eso/J. Dunlop et al. Ack.: Casu, Calet
Sorprendentemente, i dati hanno anche suggerito caratteristiche più sviluppate simili a quelle della Via Lattea, come una barra centrale allungata e persino bracci a spirale, anche se saranno necessarie altre osservazioni per confermarlo. “Trovare ulteriori prove di strutture più evolute sarebbe una scoperta entusiasmante, poiché sarebbe la più distante galassia fino ad oggi per cui tali strutture sono osservate“, conclude Rowland.
Le future osservazioni di Rebels-25, insieme ad altre scoperte di galassie primitive con rotazione, poitrebbero trasformare la nostra comprensione della formazione delle galassie primitive e dell’evoluzione dell’Universo nel suo complesso.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “REBELS-25: Discovery of a dynamically cold disc galaxy at z = 7.31”, di Lucie E. Rowland, Jacqueline Hodge, Rychard Bouwens, Pavel Mancera Piña, Alexander Hygate, Hiddo Algera, Manuel Aravena, Rebecca Bowler, Elisabete da Cunha, Pratika Dayal, Andrea Ferrara, Thomas Herard-Demanche, Hanae Inami, Ivana van Leeuwen, Ilse de Looze, Pascal Oesch, Andrea Pallottini, Siân Phillips, Matus Rybak, Sander Schouws, Renske Smit, Laura Sommovigo, Mauro Stefanon e Paul van der Werf
Aurora boreale? In questo periodo dell'anno? A quest'ora del giorno? In questa zona del paese? (cit)
La foto è del 10 Maggio 2024 ed stata scattata con un cellulare dal Parco delle Ginestre dal nostro socio @fabiofabbri84, ma questo weekend lo spettacolo potrebbe ripetersi!
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29P sbuffa sotto gli occhi di James Webb
I centauri sono piccoli corpi celesti che orbitano attorno al Sole in una regione di spazio compresa tra Giove e Nettuno. A causa dell’influenza gravitazionale dei giganti gassosi, hanno generalmente orbite instabili. Inoltre, hanno una caratteristica unica, che non si osserva in nessun’altra popolazione di corpi celesti del Sistema solare: come i centauri della mitologia greca – metà umani e metà animali – da cui prendono il nome, questi oggetti celesti sono per metà asteroidi – con orbite, composizione superficiale e comportamento inerte in alcune fasi della loro vita tipiche di questi oggetti – e per metà comete, in grado di espellere gas e polveri quando la loro orbita li porta vicino al Sole, formando una chioma e una coda.
Illustrazione artistica che mostra l’attività di degassamento del centauro 29P/Schwassmann-Wachmann 1. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)
Centaur 29P/Schwassmann-Wachmann 1 – il doppio nome si riferisce alla loro doppia natura – è uno dei rappresentanti di questa classe di oggetti. Scoperto il 15 novembre 1927 da Arnold Schwassmann e Arthur Wachmann dall’Osservatorio di Amburgo, in Germania, 29P è noto per le sue eiezioni di gas quasi periodiche. Osservazioni precedenti dell’oggetto celeste alle lunghezze d’onda del radio hanno mostrato l’emissione di un getto composto da anidride carbonica. Grazie alle osservazioni condotte con il James Webb Space Telescope, gli scienziati hanno ora scoperto altre tre emissioni di gas mai osservate prima d’ora, che forniscono nuovi indizi sulla natura del nucleo del centauro: due getti di CO2 emesse dai poli, e un getto di monossido di carbonio che punta verso nord.
«I centauri possono essere considerati resti della formazione del nostro sistema planetario» spiega Sara Faggi, scienziata del Goddard Space Flight Center della Nasa e prima autrice dello studio, pubblicato su Nature Astronomy, che riporta i risultati della ricerca. «Poiché si trovano in regioni in cui le temperature sono molto basse, conservano informazioni sui composti volatili presenti nelle prime fasi di vita del Sistema solare. Il telescopio Spaziale James Webb», aggiunge la ricercatrice, «ci ha permesso di osservare 29P con una risoluzione e una sensibilità che ci hanno impressionato: non avevamo mai visto niente del genere».
Le osservazioni di 29P sono state condotte nell’ambito del programma General Observer N. 2416 del ciclo 1 di James Webb, incentrato sullo studio dei centauri attivi, e sono state effettuate utilizzando lo spettrometro NirSpec in modalità Ifu (Integral Field Unit), una tecnica che consente di ottenere uno spettro per ogni parte del campo di vista dello strumento. Jwst ha puntato l’oggetto il 20 febbraio 2023, quando si trovava a una distanza dal Sole e dal telescopio rispettivamente di 910 e 820 milioni di chilometri.
A sinistra, le mappe della densità di colonna della CO2, in alto, e della CO, in basso. A destra, il modello 3D dei getti osservati da Jwst (cliccare per ingrandire). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (Stsci), Sara Faggi (Nasa-Gsfc, American University)
I dati spettrali e di imaging forniti dal telescopio, oltre a mostrare la presenza di un getto di monossido di carbonio diretto verso l’osservatore, già individuato in studi precedenti, hanno mostrato chiaramente la firma di un nuovo getto di monossido di carbonio emesso in direzione nord rispetto all’osservatore e due getti di CO2 emessi rispettivamente in direzione nord e sud. Nel caso della CO2 si tratta delle la prima rilevazione della sostanza sul centauro.
Per comprendere l’orientamento e l’origine di questi degassamenti, sulla base dei dati raccolti dal telescopio James Webb il team ha sviluppato un modello tridimensionale dei getti. Il modello in questione è stato sviluppato per simulare simultaneamente il degassamento isotropo e anisotropo (cioè in tutte o in specifiche direzioni) per un massimo di due getti, con l’opzione di aggiungerne altri.
Le simulazioni suggeriscono che i getti vengano emessi da regioni diverse del nucleo del centauro. Il modello mostra inoltre una forte dicotomia nei rapporti di abbondanza di CO/CO2, suggerendo la possibilità che il nucleo possa essere un aggregato di oggetti distinti con composizioni diverse, sebbene altri scenari non possano essere esclusi, spiegano gli scienziati. Alla luce di questi risultati, l’ipotesi dei ricercatori è che i getti emessi da 29P siano il risultato di una dicotomia nella sua composizione strutturale. Una possibile interpretazione, aggiungono i ricercatori, è che il corpo celeste abbia un nucleo bilobato, con un lobo formatosi in una regione in cui il monossido di carbonio è stato convertito in modo più efficiente in anidride carbonica rispetto all’altro lobo.
«Il fatto che 29P presenti differenze così drammatiche nell’abbondanza di monossido di carbonio e anidride carbonica sulla sua superficie suggerisce che possa essere costituito da diversi pezzi», dice a questo proposito Geronimo Villanueva, ricercatore al Goddard Space Flight Center della Nasa e co-autore dello studio. «È possibile che due corpi si siano uniti e abbiano creato questo centauro, che è un mix di corpi molto diversi che hanno subito percorsi di formazione separati. Ciò mette in discussione le nostre idee su come i corpi celesti primordiali siano stati creati e immagazzinati nella fascia di Kuiper»
Il prossimo obiettivo dei ricercatori è di studiare con lo stesso approccio altri centauri, migliorando la conoscenza collettiva di questi corpi e contemporaneamente la comprensione dei meccanismi di formazione ed evoluzione del Sistema solare. Poiché non ci sono attualmente missioni che hanno in programma di visitare un centauro, concludono i ricercatori, queste osservazioni dimostrano le capacità uniche di Jwst nel caratterizzare questi oggetti.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomyl’articolo “Heterogeneous outgassing regions identified on active centaur 29P/Schwassmann–Wachmann 1” di Sara Faggi, Geronimo L. Villanueva, Adam McKay, Olga Harrington Pinto, Michael S. P. Kelley, Dominique Bockelée-Morvan, Maria Womack, Charles A. Schambeau, Lori Feaga, Michael A. DiSanti, James M. Bauer, Nicolas Biver, Kacper Wierzchos e Yanga R. Fernandez
Guarda l’animazione dell’attività di degassamento di 29P sul calale YouTube di Jwst:
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Axis e Prima in gara per un miliardo di dollari
Rappresentazioni artistiche di Axis (sx) e Prima (dx)
Annunciati ieri dalla Nasa i nomi dei due telescopi spaziali che si giocheranno la finale del Probe Explorers, un nuovo programma di missioni scientifiche di “stazza media”, a metà strada fra le missioni flagship e quelle small. In palio c’è un miliardo di dollari (vettore e costi di lancio esclusi) per la realizzazione del satellite e la possibilità di andare nello spazio già dal 2032. A contendersi l’ambito premio saranno Axis e Prima. Axis, acronimo di Advanced X-ray Imaging Satellite, è un telescopio per raggi X a grande campo, con principal investigator Christopher Reynolds della University of Maryland. Quanto a Prima, acronimo di Probe far-Infrared Mission for Astrophysics, è invece un telescopio per il lontano infrarosso, e il principal investigator è Jason Glenn del Goddard Space Flight Center della Nasa
Da oggi entrambe le proposte entrano nella cosiddetta “fase A” – la finale, appunto: ciascuno dei due team riceverà 5 milioni di dollari per condurre uno studio lungo 12 mesi sul concetto di missione. Nel 2026, dopo una valutazione dettagliata di questi studi, la Nasa selezionerà il vincitore, dando il via alla costruzione. Lancio, dicevamo, a partire dal 2032.
Nico Cappelluti (University of Miami), membro del team scientifico di Axis
Ma di che telescopi si tratta? Media Inaf lo ha chiesto a due astrofisici italiani che fanno parte delle due squadre di scienziati: Nico Cappelluti, professore all’Università di Miami (Usa) e associato Inaf, membro del team scientifico di Axis, e Carlotta Gruppioni, astrofisica all’Inaf di Bologna, fra i co-investigator di Prima.
«Grazie alla sua capacità innovativa di ottenere immagini a raggi X ad alta risoluzione su un ampio campo visivo e alla sua sensibilità verso oggetti molto deboli», spiega Cappelluti, «Axis studierà i primi buchi neri supermassicci. Capire come si sono formati e come hanno contribuito all’evoluzione delle prime galassie è ancora un mistero. Questo potrà essere risolto solo combinando le indagini nell’infrarosso – come quelle condotte con Jwst, Roman ed Euclid – con le osservazioni nella banda dei raggi X, che riescono a fornire informazioni dove queste bande non riescono. Tuttavia, i telescopi attualmente disponibili non sono abbastanza sensibili per questo tipo di studi. Axis ci aiuterà anche a mantenere una comunità scientifica attiva nello studio dell’astronomia a raggi X, che grazie ai telescopi Chandra e Xmm-Newton ha già prodotto risultati straordinari nel corso degli anni».
Carlotta Gruppioni (Istituto nazionale di astrofisica), co-investigator di Prima
«Siamo entusiasti di vedere Prima andare avanti verso la fase successiva», dice Gruppioni, «è un traguardo molto importante per tutta la comunità astronomica, che da tempo richiede una missione nel medio/lontano infrarosso: l’ultima è stata la missione Herschel dell’Esa, lanciata ormai 15 anni fa. Prima coprirà un ampio intervallo spettrale, da 24 a 261 micron: una regione critica dello spettro tra l’infrarosso vicino, coperto da Jwst, e le onde radio/sub-millimetriche, coperte da Alma. La radiazione infrarossa, non subendo gli effetti di oscuramento da parte della polvere interstellare che invece affliggono quella ottica e ultravioletta, permette di studiare le fasi oscurate della formazione ed evoluzione di galassie e buchi neri supermassicci, dei sistemi planetari e delle loro atmosfere, della stessa polvere e dei metalli (elementi più pesanti dell’idrogeno) attraverso il tempo cosmico».
Quanto al contributo italiano alle due proposte, ricordiamo che nel team scientifico di Axis c’è anche Stefano Marchesi dell’Università di Bologna, mente fra i co-investigator di Prima, oltre a Gruppioni, c’è un’altra ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica: Anna Di Giorgio. E se sarà Prima a essere selezionata, spetterà all’Agenzia spaziale italiana fornire la cosiddetta warm payload command and data handling electronics, che gestisce tutto il payload scientifico interfacciandosi con nove unità di bordo, e un’antenna ad alto guadagno con transponder, per la trasmissione ad alto data rate necessaria per permettere la trasmissione della grande mole dei dati acquisiti a bordo.
Per saperne di più sulle due proposte:
- Vai al sito di Axis – Advanced X-ray Imaging Satellite
- Vai al sito di Prima – Probe far-Infrared Mission for Astrophysics
Sondando il mistero dei raggi gamma nei temporali
Rappresentazione artistica dell’aereo della Nasa che sorvola le nuvole illuminate dai raggi gamma nei Caraibi durante la campagna di volo del luglio 2023. Crediti: UiB/Mount Visual
L’emissione di raggi gamma dalle nubi temporalesche è molto più complessa, varia e dinamica di quanto si pensasse in precedenza. È quanto emerge da due studi pubblicati ieri su Nature guidati entrambi da due fisici dell’Università di Bergen (Norvegia), uno dei quali – l’italiano Martino Marisaldi – è anche associato all’Istituto nazionale di astrofisica. Fenomeni complessi, questi alla base dell’emissione di raggi gamma durante i temporali, e fondamentali per indagare processi in parte ancora non compresi all’origine dei fulmini.
Fino a oggi erano due i fenomeni d’emissione ad altissima energia rilevati durante i temporali: i lampi di raggi gamma terrestri (Tgf, dall’inglese terrestrial gamma-ray flash) e i bagliori di raggi gamma (gamma glows, in inglese). Lo studio guidato da Nikolai Østgaard riporta ora l’osservazione di un terzo tipo di emissione – una sorta di lampi di raggi gamma “tremolanti” (Fgf, dall’inglese flickering gamma-ray flashes), brevi impulsi prodotti in un intervallo dai 20 ai 250 millisecondi – che potrebbe rappresentare, dice Østgaard, «l’anello mancante tra i Tgf e i bagliori gamma, la cui assenza ha lasciato perplessa la comunità dell’elettricità atmosferica per due decenni».
La scoperta è stata resa possibile dai dati raccolti dalla campagna osservativa Aloft (Airborne Lightning Observatory for Fegs and Tgfs): dieci missioni condotte nell’estate del 2023 a bordo di un aereo Er-2 della Nasa, opportunamente equipaggiato con strumentazione scientifica per la rilevazione di raggi gamma e campi elettrici, volando ad alta quota al di sopra di altrettanti temporali tropicali sui Caraibi e in America Centrale. Missioni nel corso delle quali sono stati registrati 96 Tgf, 10 bagliori gamma e 24 di questi inediti lampi tremolanti – gli Fgf, appunto. Oltre alla durata dei singoli impulsi, che li colloca a metà strada fra i brevissimi Tgf e i più lunghi bagliori gamma, gli Fgf si caratterizzano per l’assenza di qualsivoglia associazione con segnali ottici o radio rilevabili.
Nikolai Østgaard (a sx) e Martino Marisaldi (a dx), primi autori dei due studi, entrambi professori all’Università di Bergen. Al centro, uno dei due aerei Airborne Science Er-2 gestiti dalla Nasa a scopo scientifico (crediti: Nasa/Carla Thomas)
Risultati inattesi emergono anche dal secondo studio, quello guidato da Marisaldi. A sorprendere gli scienziati, in questo caso, è stato osservare come, contrariamente a quanto ritenuto finora, le nubi temporalesche tropicali al di sopra dell’oceano e delle regioni costiere emettano comunemente raggi gamma per ore, e su aree che si estendono fino a qualche migliaio di chilometri quadrati.
«In precedenza si riteneva che questi fenomeni di alta energia fossero relativamente rari, quasi solo delle curiosità», ricorda Marisaldi a Media Inaf. «Ora sappiamo che sono molto frequenti, almeno negli intensi sistemi temporaleschi tropicali, e intrinsecamente connessi ai processi di carica e scarica delle nubi. Un’affascinante ipotesi che stiamo considerando è che siano uno degli elementi che facilitano o addirittura causano i fulmini, la cui origine è tuttora un mistero. Questo sarebbe un cambio di paradigma rispetto all’interpretazione corrente che vede i Tgf, almeno quelli più brillanti osservabili dallo spazio, associati a fulmini già sviluppati e in fase di propagazione».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Flickering gamma-ray flashes, the missing link between gamma glows and TGFs”, di N. Østgaard, A. Mezentsev, M. Marisaldi, J. E. Grove, M. Quick, H. Christian, S. Cummer, M. Pazos, Y. Pu, M. Stanley, D. Sarria, T. Lang, C. Schultz, R. Blakeslee, I. Adams, R. Kroodsma, G. Heymsfield, N. Lehtinen, K. Ullaland, S. Yang, B. Hasan Qureshi, J. Søndergaard, B. Husa, D. Walker, D. Shy, M. Bateman, P. Bitzer, M. Fullekrug, M. Cohen, J. Montanya, C. Younes, O. van der Velde, P. Krehbiel, J. A. Roncancio, J. A. Lopez, M. Urbani, A. Santos e D. Mach
- Leggi su Nature l’articolo “Highly dynamic gamma-ray emissions are common in tropical thunderclouds”, di M. Marisaldi, N. Østgaard, A. Mezentsev, T. Lang, J. E. Grove, D. Shy, G. M. Heymsfield, P. Krehbiel, R. J. Thomas, M. Stanley, D. Sarria, C. Schultz, R. Blakeslee, M. G. Quick, H. Christian, I. Adams, R. Kroodsma, N. Lehtinen, K. Ullaland, S. Yang, B. Hasan Qureshi, J. Søndergaard, B. Husa, D. Walker, M. Bateman, D. Mach, S. Cummer, M. Pazos, Y. Pu, P. Bitzer, M. Fullekrug, M. Cohen, J. Montanya, C. Younes, O. van der Velde, J. A. Roncancio, J. A. Lopez, M. Urbani e A. Santos
Più 3D per tutti: iDavie sbarca su GitHub
Fabio Vitello (Inaf Catania) mentre sta usando iDavie, il software di visualizzazione scientifica 3D che ha contribuito a svilupapre. Crediti: Leonardo Pelonero/Inaf Catania
È stato reso pubblico ieri su GitHub il software di visualizzazione 3D per dati scientifici iDavie, acronimo di Immersive Data Visualisation Interactive Explorer. L’annuncio arriva dal laboratorio Vislab del consorzio sudafricano Idia, che definisce questa prima release pubblica “una pietra miliare, un significativo progresso nella visualizzazione e nell’analisi dei dati astronomici”.
Progettato per facilitare la visualizzazione e l’interrogazione di complessi set di dati astronomici e multidisciplinari sfruttando le capacità uniche della realtà virtuale, iDavie è particolarmente orientato alla comunità astronomica, in quanto consente di analizzare con un dettaglio senza precedenti data cubes e cataloghi 3D come quelli prodotti dal radiotelescopio MeerKat e, in futuro, da Ska, lo Square Kilometre Array. Ed è un prodotto per metà made in Italy: non solo c’è una scienziata italiana, Lucia Marchetti, alla guida del Vislab, ma è in parte italiano anche il team che ha sviluppato il software, formato dallo stesso Vislab e da ricercatori e tecnologi dell’Inaf di Catania. Proprio a uno di loro, il catanese Fabio Roberto Vitello, informatico esperto in tecnologie avanzate per l’astrofisica, in sistemi Hpc e in visualizzazione scientifica, abbiamo chiesto quale possa essere l’utilità di iDavie.
Qual è per uno scienziato il principale valore aggiunto di una visualizzazione 3D? Voglio dire, voi astrofisici siete abituati a maneggiare modelli a quattro o più dimensioni, come quelli che descrivono lo spaziotempo o la teoria delle stringhe… ll 3D non è più roba da videogamer o architetti?
«Per uno scienziato, la visualizzazione 3D offre un valore aggiunto cruciale, anche in campi complessi come l’astrofisica, dove siamo abituati a lavorare con modelli multidimensionali. La visualizzazione tridimensionale non è solo un mezzo per rappresentare i dati, ma uno strumento che facilita l’interpretazione e l’intuizione di fenomeni complessi. Quando gestiamo modelli a quattro o più dimensioni, come lo spaziotempo o le stringhe, la capacità di ridurre una dimensione complessa a una visualizzazione 3D ci permette di cogliere pattern, relazioni e anomalie in modo molto più immediato. In pratica, il 3D diventa un’interfaccia interattiva e intuitiva per esplorare e comprendere meglio dati che altrimenti sarebbero astratti e difficili da manipolare. Non si tratta quindi di “roba da videogamer o architetti”, ma di uno strumento scientifico potente, soprattutto per lavorare con data cube tridimensionali (dove, ad esempio, ogni punto nello spazio può avere un’informazione spettrale associata). Per gli astrofisici, questo significa poter esaminare fenomeni come la distribuzione delle galassie o le strutture cosmiche in maniera più naturale, immergendosi nei dati per studiare il loro comportamento da più prospettive, rilevando dettagli che possono sfuggire con una rappresentazione bidimensionale. La visualizzazione 3D, inoltre, permette di rendere i risultati scientifici più accessibili e comunicabili anche a un pubblico non specializzato, trasformando concetti astratti in immagini che tutti possono comprendere. In questo senso, la tecnologia si colloca a metà strada tra analisi scientifica avanzata e comunicazione scientifica efficace».
iDavie è stato progettato per facilitare la visualizzazione e l’interrogazione di complessi set di dati astronomici e multidisciplinari, sfruttando le capacità uniche della realtà virtuale. Crediti: Idia Vislab
iDavie in particolare cos’ha di diverso rispetto ai tanti software immersivi 3D oggi in commercio?
«iDavie si caratterizza per la sua capacità di sfruttare la realtà virtuale per immergere gli scienziati direttamente nei dati, consentendo un’esplorazione interattiva e dettagliata. Questa immersione permette di identificare pattern e strutture complesse che potrebbero non essere visibili tramite le tradizionali visualizzazioni bidimensionali. Inoltre, iDavie è altamente scalabile e adattabile a vari tipi di dataset, non solo astronomici, ma anche provenienti da altre discipline scientifiche come l’ingegneria e la biologia. Un altro aspetto distintivo di iDavie è il suo approccio open source, che lo rende non solo accessibile alla comunità scientifica globale, ma aperto a contributi e sviluppi futuri da parte di ricercatori di tutto il mondo. Questa filosofia di collaborazione lo distingue da molte soluzioni commerciali chiuse e gli permette di evolversi in linea con le esigenze degli scienziati e delle nuove scoperte».
È stato sviluppato da una collaborazione fra ricercatori di tre università sudafricane e dell’Inaf di Catania: com’è nata questa liason fra i due emisferi?
«La collaborazione tra Idia – l’Inter-University Institute for Data Intensive Astronomy, un consorzio di tre università sudafricane – e l’Inaf di Catania nasce da una congiunzione naturale di esigenze scientifiche e competenze tecnologiche complementari facilitata nell’ambito di RadioSky 2020 e RadioMap, progetti di cooperazione bilaterale scientifica e tecnologica tra Italia e Sudafrica finanziato dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dalla National Research Foundation. Questa partnership è un esempio virtuoso di cooperazione scientifica internazionale, dove la condivisione di risorse, idee e competenze ha prodotto un risultato innovativo. Inoltre, l’apertura del codice sorgente del software evidenzia l’impegno di entrambe le istituzioni a favorire un approccio inclusivo e collaborativo, promuovendo lo sviluppo di tecnologie avanzate a livello globale».
Da oggi su GitHub, chiunque lo può scaricare gratuitamente – e anche contribuire al suo sviluppo: a proposito, in che linguaggio è scritto? E, soprattutto, una volta scaricato cosa occorre per usarlo?
«Il software iDavie è sviluppato in C# utilizzando il motore grafico Unity, tecnologie comunemente utilizzate nell’industria dei videogiochi ma che si rivelano particolarmente efficaci nella gestione avanzata della realtà virtuale e della visualizzazione interattiva. Per utilizzare iDavie è necessario disporre di un computer con prestazioni elevate, dotato di una scheda grafica con almeno la potenza di una Nvidia Gtx 1080 o una Amd Rx 5700 Xt, anche se per ottenere le massime prestazioni si consiglia l’uso di una Nvidia Rtx 3080 o una Amd Rx 6800 Xt o modelli più recenti. Il processore dovrebbe essere almeno un quad-core, mentre per la memoria Ram sono richiesti almeno 16 GB. Tuttavia, per lavorare con data cube di grandi dimensioni, è preferibile avere 32 GB o 64 GB di Ram. Per quanto riguarda la realtà virtuale, qualsiasi visore compatibile con SteamVr è supportato da iDavie. In termini di formati di dati, iDavie è in grado di gestire dataset multidimensionali come i data cube 3D e i cataloghi astronomici in formato Fits».
Per saperne di più:
- Vai al sito di iDavie
- Scarica iDavie da GitHub
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista video a Lucia Marchetti:
youtube.com/embed/rgfLHRbp6hw?…
A cavallo di una Cometa, verso M31
Visibilità della cometa C/2023 A3 Tsuchinshan-ATLAS
a partire dall’11 ottobre 2024.
Il cielo di ottobre ci riserva una bellissima sorpresa con la cometa non periodica C/2023 A3 Tsuchinshan-Atlas che, passata vicino il Sole a fine settembre, il giorno 12 ottobre passerà nel punto più vicino alla Terra. Si potrà tentare di osservarla nei primissimi giorni del mese all’alba prima del sorgere del Sole verso est. Sarà bassa sull’orizzonte e in avvicinamento angolare al Sole. In seguito, dal 10 del mese in poi, sarà meglio visibile al tramonto bassa sull’orizzonte ovest. All’inizio con gran difficoltà, poi con il passare dei giorni si allontanerà angolarmente dal Sole rendendo l’osservabilità meno difficile, sperando che la luminosità sia e rimanga alta da poter essere ben visibile a occhio nudo. Interessante il suo passaggio nei pressi dell’ammasso globulare M5 la sera del 15 ottobre.
Illustrazione dell’incontro tra la Via Lattea e la galassia di Andromeda M31. Crediti: Nasa; Esa; A. Feild and R. van der Marel, Stsci
Ma questo mese è anche ottimo per l’osservazione di M31, la grande galassia di Andromeda, e M33, la galassia del Triangolo. Distante 2,5 milioni di anni luce, in cieli bui M31 è facile osservarla, essendo ben visibile a occhio nudo. Nei primi giorni del mese culmina al meridiano all’una di mattina circa. Meglio, perciò, cercare di osservarla in questo periodo. La Luna non disturba le osservazioni e trovarla non è difficile. È la galassia più massiccia del nostro ammasso locale, al quale appartengono anche la nostra, la Via Lattea, e M33. Tra circa quattro miliardi di anni, M31 e la nostra galassia si incontreranno per fondersi insieme sotto l’inesorabile attrazione gravitazionale reciproca. Addirittura, da uno studio recente sembra che le due galassie, la nostra e quella di Andromeda, si stiano già corteggiando.
Per chi ama la notte possiamo veder passare in cielo sia le costellazioni estive, nella prima parte della serata, sia ovviamente quelle autunnali, verso la mezzanotte, e per finire anche le costellazioni invernali nelle prime ore del mattino. È proprio in queste ultime che si trovano i pianeti che ci accompagneranno i prossimi mesi. Marte sorge dopo la mezzanotte nella costellazione dei Gemelli e Giove intorno alle 10 di sera in quella del Toro. Saturno sarà ancora ben visibile per tutto il mese, ma pian piano anticiperà il proprio tramontare e si appresta a diminuire la sua visibilità. Tramonterà a fine mese verso l’una del mattino e perciò resterà comunque ben visibile per tutta la prima parte della notte, anche dopo la metà di ottobre.
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Dov’è nato Ryugu? Più vicino di quel che si pensava
L’asteroide near-Earth Ryugu fotografato da una distanza di 20 km. Crediti: Jaxa, University of Tokyo, Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University, Chiba Institute of Technology, Meiji University, University of Aizu e Aist
Il 6 dicembre del 2020 la sonda spaziale Hayabusa 2 della Jaxa ha riportato sulla Terra circa 5 grammi dell’asteroide Ryugu. Da allora i preziosi frammenti dell’oggetto celeste – considerato dagli addetti ai lavori una capsula del tempo contenente informazioni sui primi istanti di vita del Sistema solare – sono stati sottoposti a numerose indagini. Dopo il recupero del materiale dal sample catcher (compartimento porta campioni) presso l’Extraterrestrial Sample Curation Center della Jaxa, minuscoli granelli neri sono stati consegnati in diversi laboratori di ricerca sparsi in tutto il mondo, compreso un laboratorio Inaf a Roma, dove sono stati analizzati per determinarne la struttura, la composizione chimica, isotopica e mineralogica e rispondere così a una delle domande che da tempo gli scienziati si pongono: dov’è nato Ryugu?
I primi studi condotti sull’asteroide, i cui risultati sono stati pubblicati su prestigiose rivista scientifiche come Nature e Science, hanno svelato molti dettagli. Alcuni studi hanno rilevato al suo interno la presenza di acqua liquida intrappolata in cristalli esagonali di solfuro di ferro. Non acqua “liscia”, però, ma acqua “addizionata” di molecole di anidride carbonica (CO2). Altri studi hanno scoperto la presenza di abbondante materia organica sia sottoforma di grani di dimensioni sub-micrometriche che come materia dispersa nella matrice rocciosa, così come la presenza di gas nobili (presenti in quantità mai osservate in nessun altro asteroide finora studiato), di idrocarburi, di amminoacidi, di uracile e di niacina (un vitamero della vitamina B3), queste ultime molecole fondamentali per la vita come la conosciamo. Altri ancora hanno scoperto che Ryugu è fatto di una pasta simile a quella di cui sono fatte le condriti carbonacee di tipo Ivuna – meteroriti che si ritiene abbiano la composizione chimica più vicina alla nebulosa da cui si è formato il Sistema solare.
Buona parte di questi risultati sembrano suggerire una cosa sola, circa l’origine di Ryugu: che i 450 milioni di tonnellate di roccia di cui è fatto si siano assemblati nel Sistema solare esterno. Il motivo per cui si ritiene ciò e dovuto alla differente composizione isotopica rispetto a un altro gruppo di condriti, le condriti carbonacee (Cc). Poiché queste condriti si ipotizza si siano formate in un serbatoio situato tra le orbite di Marte e Giove, per spiegare le differenti firme isotopiche delle condriti Ryugu e di tipo Ivuna è stata suggerita una loro origine a una distanza dal Sole maggiore rispetto alle prime, molto probabilmente all’interno di una regione compresa tra Urano e Nettuno.
Un nuovo studio condotto da un team di scienziati del Max Planck Institute (Germania) dipinge ora un quadro diverso. I risultati della ricerca, pubblicati la settimana scorsa su Science Advances, suggeriscono infatti che, come le condriti Cc, Ryugu possa essere nato tra le orbite di Marte e Giove.
Una vista al microscopio di alcuni frammenti dell’asteroide Ryugu. I granelli neri sono grandi solo pochi millimetri. Crediti: Mps
Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno prima analizzato la composizione isotopica (un isotopo è una variante dello stesso elemento che differisce solo per il numero di neutroni nel nucleo) del nichel in quattro campioni di Ryugu (A0106 e A0107, provenienti dal primo sito di touchdown, e C0107 e C0108, provenienti dal secondo sito). Successivamente, hanno confrontato i rapporti di abbondanza di questi isotopi con quelli di sei condriti carbonacee note (le condriti di tipo Ivuna Orgueil e Alais, la condrite di di tipo Mighei Murchison , la condrite di tipo Vigarano Allende e le condriti Tarda e Tagish Lake), ottenendo risultati diversi a seconda del gruppo in esame. Più in dettaglio, le due condriti Tagish Lake e Tarda presentavano firme isotopiche del nichel simili a quelle della maggior parte delle altre condriti Cc. Al contrario, tutte le condriti ‘CI’ e tutti e quattro i campioni Ryugu avevano firme isotopiche diverse, mostrando, similmente a quanto precedentemente riportato per le firme isotopiche del ferro, quantità maggiori di varianti di nichel. Ma qual è il significato di questi risultati? Per capirlo dobbiamo aggiungere ancora un tassello.
Secondo gli scienziati le differenze tra le condriti di tipo Ivuna e altri gruppi di condriti carbonacee sono dovute a diversi rapporti di miscelazione di tre strutture rocciose con composizioni isotopiche distinte: le inclusioni refrattarie e gli aggregati di olivina ameboide, i condruli e la matrice.
Per valutare se questo modello può spiegare anche le variazioni osservate per il nichel, i ricercatori hanno calcolato le variazioni isotopiche dell’elemento prodotte dalla miscelazione di inclusioni refrattarie, condruli e matrice. La miscelazione di condruli e matrice ha riprodotto le variazioni isotopiche di cromo e titanio. Tuttavia, nessuna miscela delle tre strutture ha riprodotto le variazioni isotopiche del nichel osservate tra le condriti Cc. Le cose sono cambiate quando i ricercatori hanno incluso nel modello un quarto componente: minuscoli granuli di ferro-nichel. In questo caso, variazioni del 5 per cento in massa di grani di FeNi tra condriti carbonacee sono state sufficienti a produrre le variazioni osservate degli isotopi di nichel.
La domanda a questo punto è: quale processo può aver causato l’arricchimento dei grani di ferro e nichel e le peculiari composizioni isotopiche delle condriti di tipo Ivuna/Ryugu durante la formazione del Sistema solare? Secondo i ricercatori, il processo in questione potrebbe essere la foto-evaporazione del gas nel disco protoplanetario del Sole, uno scenario, e qui arriviamo al dunque, che implica che questi corpi non abbiano avuto origine nel Sistema solare esterno, ma tra le orbite di Marte e Giove.
Il modello proposto dai ricercatori per spiegare l’origine delle condriti carnonacee e delle condriti di tipo Ivuna. Crediti: Fridolin Spitzer, Mps
Alla luce di queste ipotesi, il modello proposto dagli scienziati è il seguente. Le prime condriti carboniose iniziarono a formarsi circa due milioni di anni dopo la formazione del Sistema solare nel disco proto-planetario del Sole, spiegano i ricercatori. Da lì, la polvere e i primi grumi si fecero strada verso il Sistema solare interno. A un certo punto, lungo il loro cammino questi semi hanno incontrato Giove. Lì, fuori dalla sua orbita, i grumi più pesanti e grandi si accumularono, trasformandosi in condriti carbonacee con le loro numerose inclusioni. L’accrescimento continuò per circa due milioni di anni, fino a quando un altro processo prese il sopravvento: sotto l’influenza del Sole, il gas di cui le condriti carbonacee erano costituite evaporò gradualmente fuori dall’orbita di Giove, ciò causò l’accumulo di polveri e granuli di ferro e nichel, portando alla nascita delle condriti di tipo Ivuna e Ryugu.
Se questa ipotesi è corretta, le condriti di tipo Ivuna non appaiono più come parenti lontani e in qualche modo esotici delle altre condriti carbonacee formatesi nel Sistema solare, concludono i ricercatori. Piuttosto appaiono fratelli che potrebbero essersi formati nella stessa regione, ma in fasi successive e attraverso un processo diverso.
«I risultati di questo studio ci hanno sorpreso molto», dice Christoph Burkhard, scienziato del Max Planck Institute e co-autore dello studio. «Abbiamo dovuto ripensare completamente non solo all’origine di Ryugu, ma anche a quella dell’intero gruppo di condriti di tipo Ivuna».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “The Ni isotopic composition of Ryugu reveals a common accretion region for carbonaceous chondrites” di Fridolin Spitzer, Thorsten Kleine, Christoph Burkhardt et al.
A sei anni luce da noi, un piccolo pianeta roccioso
Rappresentazione grafica delle distanze relative tra le stelle più vicine e il Sole. La stella di Barnard è il secondo sistema stellare più vicino al Sole e la stella singola più vicina a noi. Crediti: Ieec/Science-Wave – Guillem Ramisa
Utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), un team di astronomi ha scoperto un esopianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole. Su questo esopianeta appena scoperto, che ha una massa pari ad almeno la metà di quella di Venere, un anno dura poco più di tre giorni terrestri. Le osservazioni dell’equipe suggeriscono anche l’esistenza di altri tre candidati esopianeti, in orbite diverse intorno alla stella.
Situata a soli sei anni luce di distanza, la stella di Barnard è il secondo sistema stellare, dopo il gruppo di tre stelle di Alpha Centauri, e la stella singola più vicina a noi. Grazie alla sua vicinanza, è un obiettivo primario nella ricerca di esopianeti simili alla Terra. Nonostante una promettente rivelazione nel 2018, finora nessun pianeta era stato confermato in orbita intorno alla stella di Barnard.
La scoperta di questo nuovo esopianeta, annunciata in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, è il risultato di osservazioni effettuate negli ultimi cinque anni con il Vlt dell’Eso, situato presso l’Osservatorio del Paranal, in Cile. «Anche se ci è voluto molto tempo, siamo sempre stati fiduciosi di poter trovare qualcosa», dice Jonay González Hernández, ricercatore all’Instituto de Astrofísica de Canarias, in Spagna, e autore principale dell’articolo. L’equipe stava cercando segnali da possibili esopianeti all’interno della zona abitabile o temperata della stella di Barnard, l’intervallo in cui l’acqua può essere liquida sulla superficie del pianeta. Le nane rosse come la stella di Barnard sono spesso tenute in considerazione dagli astronomi, poiché lì i pianeti rocciosi di piccola massa sono più facili da rilevare che intorno a stelle più grandi, simili al Sole.
Rappresentazione artistica di un pianeta di massa inferiore alla Terra in orbita attorno alla stella di Barnard. Crediti: Eso/M. Kornmesser
Barnard b, come viene chiamato l’esopianeta appena scoperto, è venti volte più vicino alla stella di Barnard di quanto Mercurio lo sia al Sole. Orbita intorno alla stella in 3,15 giorni terrestri e ha una temperatura superficiale di circa 125 °C. «Barnard b è uno degli esopianeti di massa più piccola trovati finora e uno dei pochi noti con una massa inferiore a quella della Terra. Ma il pianeta è troppo vicino alla stella ospite, più vicino rispetto alla zona abitabile», spiega González Hernández. «Anche se la stella è circa 2500 gradi più fredda del Sole, in quella posizione fa troppo caldo perché si possa mantenere acqua liquida sulla superficie».
Per le osservazioni, il gruppo di lavoro ha utilizzato Espresso, uno strumento molto preciso progettato per misurare l’oscillazione di una stella causata dall’attrazione gravitazionale di uno o più pianeti in orbita intorno a essa. I risultati ottenuti da queste osservazioni sono stati confermati dai dati di altri strumenti specializzati nella caccia agli esopianeti: Harps presso l’Osservatorio di La Silla dell’Eso, Harps-N e Carmenes. I nuovi dati, tuttavia, non supportano l’esistenza dell’esopianeta segnalato nel 2018.
Oltre al pianeta confermato, l’equipe internazionale ha anche trovato indizi di altri tre candidati esopianeti in orbita intorno alla stessa stella. Serviranno ulteriori osservazioni con Espresso per la conferma. «Ora dobbiamo continuare a osservare questa stella per confermare gli altri segnali candidati», dice Alejandro Suárez Mascareño, anch’egli ricercatore all’Instituto de Astrofísica de Canarias e coautore dello studio. «Ma la scoperta di questo pianeta, insieme con altre scoperte precedenti come Proxima b e d, dimostra che il nostro angolino cosmico è pieno di pianeti di piccola massa».
L’Extremely Large Telescope (Elt) dell’Eso, attualmente in costruzione, è destinato a trasformare il campo della ricerca sugli esopianeti. Lo strumento Andes dell’Elt consentirà di rivelare un numero sempre maggiore di questi piccoli pianeti rocciosi nella zona temperata intorno a stelle vicine, oltre la portata degli attuali telescopi, e di studiarne la composizione dell’atmosfera.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A sub-Earth-mass planet orbiting Barnard’s star”, di J. I. González Hernández, A. Suárez Mascareño, A. M. Silva, A. K. Stefanov, J. P. Faria, H. M. Tabernero, A. Sozzetti, R. Rebolo, F. Pepe, N. C. Santos, S. Cristiani, C. Lovis, X. Dumusque, P. Figueira, J. Lillo-Box, N. Nari, S. Benatti, M. J. Hobson, A. Castro-González, R. Allart, V. M. Passegger, M.-R. Zapatero Osorio, V. Adibekyan, Y. Alibert, C. Allende Prieto, F. Bouchy, M. Damasso, V. D’Odorico, P. Di Marcantonio, D. Ehrenreich, G. Lo Curto, R. Génova Santos, C. J. A. P. Martins, A. Mehner, G. Micela, P. Molaro, N. Nunes, E. Palle, S. G. Sousa e S. Udry
All’astronomia multimessaggera, 15 milioni di euro
Partecipanti al kick-off meeting del progetto Acme. Crediti: Acme
Messaggeri, li chiamano gli scienziati. Un termine quanto mai appropriato per descrivere entità – onde, particelle, entrambe le cose insieme – che giungono fino a noi da regioni ed epoche remote dello spaziotempo, dopo aver percorso tragitti che si misurano in centinaia di milioni di anni luce, a raccontarci cos’è accaduto là nel loro luogo d’origine. Entità come i fotoni, i neutrini e le onde gravitazionali. Entità che parlano lingue che più diverse non si potrebbe. Dunque per intercettarle e ascoltarle occorrono strumenti molto diversi: antenne e specchi per i fotoni, rivelatori di particelle per i neutrini, interferometri per le onde gravitazionali, per esempio. Diversi sono anche gli interpreti a cui spetta il compito di comprendere ciò che queste entità dicono: servono gli astrofisici e servono i fisici astroparticellari. E se vogliamo che il racconto sia a tutto tondo, è cruciale che questi strumenti e questi interpreti lavorino insieme. È ciò che si propone di fare l’astronomia multimessagera. Ed è ciò che si propone di facilitare e incentivare Acme, un progetto finanziato dall’Unione europea nell’ambito del programma Horizon Europe con 14.5 milioni di euro.
Acronimo di Astrophysics Centre for Multimessenger studies in Europe, Acme ha avuto il suo kick-off meeting – così viene chiamato in gergo il primo incontro ufficiale fra i membri del progetto, nel caso di Acme ricercatori da 40 istituzioni di 15 paesi – il 16 e il 17 settembre scorsi a Parigi. A coordinarlo sarà Antoine Kouchner, del Cnrs francese, affiancato da Paolo D’Avanzo dell’Inaf nel ruolo di co-coordinatore, rappresentanti rispettivamente della comunita dei fisici delle astroparticelle e di quella degli astrofisici.
«Tramite il progetto Acme», spiega D’Avanzo a Media Inaf, «verrà creato un coordinamento europeo che permetterà di fornire alle comunità astronomica e astroparticellare un accesso più ampio, semplificato ed efficiente alle migliori infrastrutture di ricerca del campo. Il tutto principalmente focalizzato sull’astrofisica multi-messenger. Le comunità astronomica e astroparticellare sono entrambe ampiamente coinvolte su questo fronte, però spesso si ritrovano a lavorare e procedere su binari separati, seppur comunicando ed interfacciandosi tra loro. Il progetto Acme nasce proprio dalla necessità, trasversalmente sentita, di creare una maggiore sinergia tra queste due comunità a livello europeo. In quest’ottica, Acme fornirà tutti gli strumenti necessari coinvolgendo le migliori infrastrutture, strumentazioni e competenze del campo a livello europeo, in un sistema dove il totale sarà maggiore della somma delle singole parti».
Dall’alto, le cupole dei due telescopi Inaf di Campo Imperatore, un braccio dell’interferometro Virgo e un rivelatore di neutrini del progetto Km3NeT: tre strumenti per la rilevazione, rispettivamente, di fotoni, onde gravitazionali e neutrini. Crediti: Inaf; Ego/Virgo; Infn
«Quello dell’astronomia multi-messaggera», ricorda un altro fra i ricercatori dell’Inaf coinvolti nel progetto, Andrea Melandri, coordinatore all’interno di Acme del centro di competenza per la banda ottica e infrarossa, «è uno dei fronti più caldi della ricerca astrofisica. Le prospettive presenti e future sono enormi. In questo contesto Acme, attraverso i diversi centri di competenza, migliorerà la collaborazione tra la comunità astrofisica e quella particellare, andando a studiare più in dettaglio diversi fenomeni astrofisici attraverso tre messaggeri: fotoni, onde gravitazionali e neutrini. Il fine ultimo è quello di studiare l’emissione di questi tre messaggeri, ognuno dei quali ci fornirà un’informazione diversa e complementare sullo stesso evento astronomico, permettendoci di costruire un quadro molto più dettagliato del fenomeno che li ha prodotti».
Da sinistra: Paolo D’Avanzo, Silvia Piranomonte e Andrea Melandri, ricercatori Inaf coinvolti nel progetto Acme. Crediti: Carlo Ferrigno (Univ. Ginevra)
«Nel caso di eventi come le supernove, ad esempio, l’osservazione combinata dei neutrini, delle onde gravitazionali e della radiazione elettromagnetica permette non solo di prevedere l’esplosione, ma anche di studiare in profondità le dinamiche interne», spiega Melandri. «I neutrini, che precedono l’emissione visibile, forniscono un preavviso essenziale dell’evento esplosivo, mentre le onde gravitazionali offrono dati sulla struttura del collasso stellare. Successivamente, i fotoni rivelano l’emissione finale, osservabile con i nostri occhi attraverso le immagini di un telescopio, completando il quadro».
Numerose le strutture dell’Inaf coinvolte nel progetto: l’Osservatorio astronomico di Roma (istituto capofila), lo Space Science Data Center, gli osservatori astronomici di Brera, Padova, Bologna, Napoli, Trieste e d’Abruzzo, l’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali di Roma e i telescopi di Asiago e Campo Imperatore.
«Grazie al contributo fondamentale della comunità Inaf nell’astronomia multi-messaggera», dice Silvia Piranomonte, coordinatrice Inaf di Acme, «le nostre ricercatrici e i nostri ricercatori svolgeranno un ruolo di primo piano nel progetto Acme mettendo a disposizione tutte le loro competenze scientifiche, offrendo supporto a chiunque lo richieda all’interno del progetto, per l’analisi, la raccolta e l’interpretazione teorica dei dati osservativi legati agli eventi astrofisici più energetici che conosciamo, come i lampi di raggi gamma che, insieme alle kilonove, sono noti per essere associati alle sorgenti di onde gravitazionali che possono essere rivelati dagli interferometri Ligo-Virgo. Inoltre, Inaf darà l’opportunità alle giovani generazioni di scienziati provenienti da tutta Europa sia di accedere ai telescopi di Asiago e Campo Imperatore per imparare sul campo il loro utilizzo, sia di utilizzare algoritmi innovativi e tecnologie avanzate, come il machine learning, necessari per l’analisi di grandi moli di dati».
Verdure spaziali per coloni interplanetari
Stefania De Pascale,
“Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell’agricoltura”, Aboca 2024, 161 pagine. 19,50 euro
Chissà se quando Elon Musk dice che entro 20 anni ci dovranno essere insediamenti umani su Marte si è posto il problema di cosa mangeranno i coloni spaziali. La questione è complicata e ne abbiamo un quadro molto chiaro nel libro Piantare patate su Marte di Stefania De Pascale. Il titolo evoca il famoso film tratto dal romanzo The Martian dove il protagonista, abbandonato per errore su Marte, decide che la sua unica possibilità di sopravvivere fino a una futura missione di salvataggio consiste nel piantare (e fare crescere) le patate che avrebbero dovuto essere usate per festeggiare il giorno del ringraziamento. Mentre The Martian racconta una storia realistica, ma immaginaria, l’autrice sottolinea che “i futuri coloni di Marte saranno astronauti-agricoltori e, principalmente, vegetariani”.
Tuttavia, prima di porsi il problema di coltivare il cibo su Marte, occorre organizzarsi per sopravvivere al lungo viaggio. Visto che non siamo in grado di trasportare il bagaglio di cibo, acqua e aria per permettere a un equipaggio di arrivare a Marte, bisogna produrre cibo riciclando e rigenerando aria e acqua. Un compito che può essere assolto dalle piante che possono rigenerare l’aria, purificare l’acqua, produrre cibo fresco, aiutare a gestire gli scarti, ma anche alleviare lo stress. Le piante, infatti, sono parte del nostro ambiente naturale e la loro presenza mitiga lo stress psicologico delle lunghe missioni.
In effetti, l’importanza di fare crescere vegetali nello spazio è stata chiara fino dall’inizio del volo umano e i primi a porsi il problema furono i sovietici, che nel 1969 iniziarono a fare esperimenti per capire come potesse avvenire la germinazione in microgravità. Gli esperimenti continuarono negli anni ’70 con la stazione Salyut, ma la svolta avvenne con lo Skylab americano, dove gli astronauti riuscirono a fare crescere lattuga a rapanelli. Negli anni ’90 la stazione sovietica Mir aveva una piccola serra che sulla Iss si è trasformata nella salad machine. A partire dal 2005 il gruppo di ricerca dell’autrice realizza esperimenti in orbita grazie al supporto dell’Agenzia spaziale italiana. Nel 2017, durante la missione Vita di Paolo Nespoli, AstroPaolo ha partecipato all’esperimento Multitrop per capire come diversi agenti fisici o chimici orientino la crescita delle radici. Produrre vegetali in orbita non è un esercizio accademico ma piuttosto una necessità, perché è l’unico modo di avere verdura fresca in un luogo dove non ci sono supermercati e i voli di rifornimento sono in numero limitato. Viste le tempistiche, il cibo deve essere termostabilizzato con una durata di almeno due anni. In media i rifornimenti arrivano ogni tre mesi con un cargo da 2,5 tonnellate che trasporta cibo, acqua e vestiti e pezzi di ricambio. Il costo del trasporto è di decine di migliaia di euro per ogni kg, quindi è evidente la necessità di riciclare quanto più possibile, instaurando un esempio di economia circolare dove i rifiuti diventano una risorsa.
Se la gestione della dispensa appare non facile sulla stazione spaziale in orbita intorno alla Terra, assicurare nutrimento agli astronauti negli insediamenti lunari o marziani diventerà molto più difficile.
Diversamente da quanto succede per la Stazione spaziale internazionale, colonie sulla Luna o su Marte devono essere veramente autonome, capaci di produrre il cibo necessario alla sopravvivenza potendo contare su scorte che non scadano nel corso del lungo viaggio. Per andare più lontano, occorre aumentare la durata del cibo senza compromettere le proprietà nutritive e, quando possibile, mantenere il sapore.
Per produrre cibo fresco occorrerà costruire serre che forniscano alle piante un ambiente illuminato nel quale crescere con una temperatura controllata e acqua, perché certamente si sfrutteranno le tecniche idroponiche. Le serre devono essere protette dalle meteoriti, grandi e piccole, che non bruciano nel vuoto lunare e nemmeno nella tenue atmosfera di Marte, ma anche dalle radiazioni cosmiche, che non vengono deviate dal campo magnetico come succede sulla Terra. I vegetali prodotti saranno fondamentali nella dieta degli esploratori.
Morale: viaggi e colonie interplanetarie non sono adatti a carnivori. Un messaggio che trova applicazione anche sulla Terra, dove le piante avranno un ruolo determinante nella ricerca di possibili soluzioni per una crescita sostenibile. Senza contare che le lezioni di economia circolare che impariamo dallo spazio possono essere di grande utilità anche a casa.
Pic du Midi: un’oasi sospesa tra i Pirenei e il cielo
La cupola Baillaud in costruzione all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto storica (colorizzata) del 1907 (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
Inizi di settembre, centoquindici anni fa. Nella Parigi della Belle Époque, Picasso sta gettando le basi del cubismo, in Italia tuona il futurismo e oltreoceano, dove imperversa il ragtime, due esploratori si contendono il primato per il raggiungimento del polo nord. La temperatura media globale, circa un terzo di grado sotto la media del ventesimo secolo, farà del settembre 1909 uno dei più freddi dall’inizio delle misurazioni (al contrario dello scorso settembre, il più caldo mai registrato). Ma nel sud della Francia, in cima ai Pirenei, non è certo il freddo a bloccare il lavoro degli astronomi.
Benjamin Baillaud, che di lì a dieci anni diventerà il primo presidente dell’Unione astronomica internazionale (Iau), ha da poco lasciato Tolosa per assumere la direzione dell’Osservatorio di Parigi, dove tra le altre cose fonderà il Bureau International de l’Heure, organismo internazionale che si è a lungo occupato di coordinare il tempo misurato in giro per il mondo. Ma è presso la sua sede precedente che ha messo in moto la trasformazione forse più memorabile della sua illustre carriera. Convinto che la succursale dell’Osservatorio di Tolosa, un piccolo avamposto scientifico a 2.877 metri sul livello del mare, sia destinata a scrivere la storia dell’astrofisica, vi ha fatto costruire una cupola dal diametro di otto metri per ospitare un telescopio rifrattore da mezzo metro – una dimensione di tutto rispetto per l’epoca.
Oggi, all’Osservatorio del Pic du Midi si arriva comodamente in teleferica tutti i giorni dell’anno (salvo meteo avverso) dalla stazione sciistica di La Mongie, a 1.785 metri di altitudine. Dopo due segmenti – un solo cavo non bastava a coprire il dislivello di oltre mille metri – e quindici minuti mozzafiato tra nuvole e precipizi, si approda in uno scenario da film di Wes Anderson: un gigantesco edificio arroccato sul massiccio con cui in parte si mimetizza, pullulante di cupole immacolate e sormontato da un’antenna radiotelevisiva alta 102 metri. Con i picchi circostanti che a mala pena sfiorano i 2.500 metri, il panorama è da capogiro.
Panorama all’Osservatorio del Pic du Midi (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
Una cupola visionaria
Oltre al massiccio, quasi nulla di tutto ciò esisteva ai primordi del Novecento, quando la vetta si poteva raggiungere solo a piedi. Il piccolo osservatorio, inaugurato nell’agosto del 1882 e privo di strumentazione permanente, aveva già conosciuto una tragedia – l’unica nella storia astronomica del Pic du Midi – nel novembre dello stesso anno quando, in occasione del transito di Venere davanti al Sole, tre dei facchini incaricati di trasportare telescopi e strumenti persero la vita in una valanga. È anche per questo che Baillaud, conoscendo bene il sito, la trasparenza del cielo brulicante di stelle e il suo potenziale scientifico a causa delle regolari ispezioni che effettuava ogni estate, vi inizia a costruire nel 1904 un osservatorio stabile per ospitare un telescopio all’avanguardia e una residenza per dare alloggio agli astronomi di turno.
Facchini montano i pezzi della cupola Baillaud all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto storica (colorizzata) del 1906 (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
La cupola, che oggi porta il nome del suo ideatore, prende forma a Tolosa, nei giardini dell’Osservatorio di Jolimont, tra il 1904 e il 1905. Smontata e imballata, nel 1906 è pronta per il trasporto in quota, approfittando dell’estate. Si viaggia prima in treno, centocinquanta chilometri fino a Bagnères-de-Bigorre, poi a bordo di vettura fino alla località montana di Gripp, e poi ancora a dorso di mulo. Anche il telescopio, realizzato a Parigi e imballato in ventidue casse da centinaia di chili ciascuna, è arrivato ai piedi della montagna: fino al passo di Tourmalet, 2.115 metri di altitudine, ci pensano i buoi, poi tocca a una dozzina di soldati del reggimento locale. Questi riescono a spingersi fino al passo di Sencours, 2.378 metri sul livello del mare, dove incontrano le prime nevicate. Per l’ultimo tratto, se ne parla l’anno successivo.
L’estate del 1907 è sorprendentemente breve e tardiva: a fine agosto la neve al Pic du Midi è ancora copiosa, e così la costruzione della cupola si protrae fino a settembre. Ci vorrà un’altra estate – la sommità del monte è raggiungibile solo tra luglio e ottobre – per assemblare il telescopio, completare l’osservatorio e dare finalmente inizio alle operazioni, nel 1909.
Là dove “sono morti i marziani”
Il planetario nella storica cupola Baillaud. Crediti: Pic du Midi
Dopo una lunga e gloriosa carriera, che vanta scoperte importanti nello studio del Sole e del Sistema solare, le attività osservative nella cupola Baillaud terminano alla fine degli anni Novanta, lasciando spazio a un nuovo e più potente telescopio costruito al Pic du Midi negli anni Settanta. Oggi, nell’assetto attuale dell’osservatorio, dedicato sia alla ricerca scientifica che all’astroturismo, la storica cupola ospita un planetario, il più alto d’Europa. Ma non è il solo primato. Il planetario del Pic du Midi è l’unico in cui il planetarista può accogliere il pubblico dicendo che «sotto questa cupola, sono morti i marziani». E non sta mentendo.
Se “i marziani sono morti” sotto la cupola Baillaud, il motivo è da ricercarsi in quel freddo settembre del 1909. Dopo le osservazioni iniziali di Jules e René Baillaud, figli di Benjamin e anch’essi astronomi, che avevano completato la costruzione iniziata dal padre, i primi a condurre una vera e propria campagna osservativa nella nuova cupola sono Aymar de la Baume Pluvinel e il suo assistente, Fernand Baldet. Raggiungono la vetta a piedi, aggregandosi alla carovana che trasporta i rifornimenti all’osservatorio. Il loro obiettivo: sfruttare la posizione strategica del Pic du Midi per fotografare Marte.
L’osservatorio deve la sua fortuna alla geologia del monte su cui si erge: il materiale che lo compone, formato da un misto di rocce calcaree, silicati e scisto (una roccia metamorfica che tende a sfaldarsi in lastre sottili), ha attraversato una serie di trasformazioni che ne hanno rafforzato la struttura, rendendolo più resistente all’erosione rispetto a quello delle vette circostanti. Oltre a incorniciare il Pic du Midi in un panorama incantevole, queste caratteristiche geologiche ne fanno un luogo ideale per la ricerca astronomica, grazie alla stabilità e alla qualità eccezionale dell’atmosfera. L’osservatorio sovrasta le nuvole, ed è la prima montagna che il vento incontra quando soffia da nord o nord-est: certo, non manca il maltempo, ma quando il cielo ritorna sereno, resta sereno a lungo.
La cupola Baillaud all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto d’epoca. Crediti: Bibliothèque de l’Observatoire de Paris
In questo confidano de la Baume Pluvinel e Baldet mentre avanzano verso l’osservatorio, e questo il Pic du Midi concederà loro. Nel suo moto di rivoluzione, Marte impiega circa due anni terrestri a completare un giro intorno al Sole. Se impiegasse esattamente due dei nostri anni, il Pianeta rosso e la Terra si troverebbero allineati dallo stesso lato del Sole – una configurazione chiamata “opposizione” – a intervalli regolari. Ma un’orbita di Marte dura 687 giorni terrestri, circa 23 mesi, quindi l’opposizione, che poi è il momento migliore per osservarlo perché siamo massimamente a favore della luce che riflette, ricorre circa ogni due anni. Mese più, mese meno. E, per giunta, quando i due pianeti si trovano in punti diversi delle loro orbite.
Questo sfasamento dà origine a un ciclo di circa quindici anni, dopo il quale l’opposizione di Marte si verifica quando il pianeta è anche alla distanza minima dalla Terra. Si chiama grande opposizione ed è il non plus ultra per ammirare – e studiare – il pianeta. L’ultima grande opposizione di Marte risale al 2018, la prossima sarà nel 2033, e lo era pure quella del settembre 1909. Un’occasione quasi unica per verificare la natura dei famosi canali scoperti nel 1877 dall’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, che li aveva chiamati con nomi di fiumi terrestri, resi celebri dalla sua controparte statunitense, Percival Lowell, in una traduzione fallace – canals, di origine artificiale, anziché channels, naturali – che aveva suscitato, a fine Ottocento, il mito dei marziani.
Durante l’opposizione precedente, nel 1907, Lowell aveva osservato Marte da una stazione astronomica dell’Osservatorio di Harvard in Perù, ottenendo quattordicimila “scatti” del Pianeta rosso, in alcuni dei quali sosteneva di riconoscere strutture lineari simili a canali artificiali. Così convinto doveva essere che questi “canali” li aveva ricalcati sulle fotografie, compromettendo però l’integrità dei dati.
Tre immagini di Marte realizzate dall’Osservatorio del Pic du Midi il 27 settembre 1909. Fonte: A. Dollfus, “The first Pic du Midi photographs of Mars”, Journal of the British Astronomical Association (2010)
Dalla loro postazione in cima ai Pirenei, nella cupola voluta da Baillaud a un passo dal cielo, de la Baume Pluvinel e Baldet osservano il Pianeta rosso per diverse settimane, fino al 20 ottobre 1909, sfruttando al massimo le condizioni eccezionali del Pic du Midi. Il risultato sono 80 lastre fotografiche, per un totale di 1.350 immagini di Marte. Le foto, ottenute esponendo la lastra per un quarto d’ora a intervalli di circa un’ora l’una dall’altra, catturano tutte le fasi della rotazione del pianeta, immortalandone così l’intera superficie.
«I canali principali sono visibili nelle nostre fotografie; citiamo ad esempio l’Indo, il Gange, l’Arax, il Ciclope, l’Eufrate, ecc.» scrivono i due astronomi francesi nei resoconti settimanali dell’Académie des sciences, in un volume pubblicato a novembre dello stesso anno. «Per quanto riguarda la rete di sottili canali, dalle forme geometriche che alcuni osservatori hanno visto nell’emisfero settentrionale e la cui esistenza è ancora dibattuta, non riusciamo a trovarne traccia sulle nostre foto». Una frase laconica, rigorosa, ineccepibile. Una manciata di parole che seppelliscono per sempre l’utopia di un’avveniristica civiltà marziana all’avanguardia dell’ingegneria idraulica interplanetaria.
Eclissi a volontà
Decretata – insieme ad analoghe osservazioni provenienti dai grandi osservatori degli Stati Uniti – la fine dei marziani, il nuovo telescopio rimane praticamente inutilizzato per circa vent’anni. Malgrado la qualità eccellente dei dati, l’isolamento del Pic du Midi e le dure condizioni che il sito impone dissuadono gli astronomi fino agli anni Trenta. Sarà Bernard Lyot, astronomo parigino dall’indole sportiva, alpinista e sciatore provetto, a riportare in auge la ricerca sotto la cupola Baillaud.
Bernard Lyot sotto la cupola Baillaud, in una foto del 1937. Crediti: C. Mignone
Laurea in ingegneria all’École Superieure d’Électricité e dottorato alla Sorbona sulla luce polarizzata dei pianeti, che misura con un polarimetro di sua invenzione per stimarne la composizione chimica, Lyot lavora all’Osservatorio di Meudon, vicino Parigi. Qui, si occupa di un problema che affligge l’astronomia da mezzo secolo: studiare la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera del Sole, osservabile solo durante un’eclissi totale. Dopo una visita al Pic du Midi nell’estate del 1929, su consiglio del collega Baldet, resta sbalordito dal cielo incontaminato che si gode dall’osservatorio e vi fa ritorno, un anno dopo, carico di strumenti.
Tra il 1930 e il 1934, in quell’angolo remoto dei Pirenei, Lyot getta le basi della coronografia. Quello che ha costruito è un telescopio in cui la luce incidente viene parzialmente ostruita da un ostacolo, un piccolo cono: osservando il Sole, il cono blocca la luce proveniente dal disco, generando un’eclissi artificiale. Con il coronografo, Lyot riesce a osservare le protuberanze, la corona e altri fenomeni solari altrimenti invisibili senza dover aspettare che la meccanica celeste regali un’eclissi totale a una piccola striscia di terra, magari pure lontana e difficile da raggiungere.
Anche questa volta, la stabilità atmosferica del Pic du Midi contribuisce al successo dell’esperimento, insieme alla maestria dell’astronomo francese, che minimizza la diffusione dello strumento. Il suo coronografo resterà in funzione presso l’osservatorio per quarant’anni. Con il supporto del cineasta Joseph Leclerc, Lyot realizza un film che riprende per la prima volta la natura dinamica della nostra stella, lasciando a bocca aperta l’assemblea generale della Iau, riunita a Stoccolma nel 1938. E così l’osservatorio, la cui storia era iniziata proprio con un’eclissi di Sole, quella del 18 luglio 1860, catturata dal pioniere della fotografia inglese Farnham Maxwell-Lyte in una serie di istantanee storiche sul passo di Sencours, si lega ancora una volta alle eclissi. Creandone un’infinità.
Il coronografo di Bernard Lyot, esposto oggi nello spazio museale del Pic du Midi. Sullo sfondo, a sinistra, una foto dell’astronomo mentre trasporta lo strumento sulle spalle, sci ai piedi, salendo verso l’osservatorio. Crediti: C. Mignone
Premiato con la medaglia d’oro della Royal Astronomical Society, nel 1939 Lyot diventa il più giovane membro dell’Académie des Sciences, a soli quarantadue anni. Nello stesso anno, l’Europa cade nel baratro della seconda guerra mondiale. Con l’armistizio del 1940, la Francia è divisa in due: Parigi e il nord sotto l’occupazione della Germania nazista, il sud sotto il Governo di Vichy. La meccanica celeste, però, continua imperturbata il suo corso. È l’estate del 1941, a ottobre Marte sarà nuovamente in opposizione, così Lyot si procura un lasciapassare per recarsi al Pic du Midi, nella Zone libre, e osservare insieme a Marcel Gentili, amico di vecchia data, con cui si diletta a osservare il cielo sin dai tempi dell’École Superieure, e Henri Camichel.
Immagine di Marte realizzata dall’Osservatorio del Pic du Midi nel 1941. Crediti: Bibliothèque de l’Observatoire de Paris
In quei mesi, ai margini di un’Europa dilaniata dal conflitto, i tre astronomi danno inizio a quello che diventerà un trentennale programma di osservazione planetaria, superato solo con l’avvento dell’era spaziale. Jules Baillaud, che intanto era diventato direttore dell’osservatorio, sta cercando di potenziare il vecchio telescopio da mezzo metro voluto dal padre a inizio secolo. In mancanza di uno strumento migliore e con l’imminente opposizione di Marte, prende in prestito l’obiettivo da 38 centimetri dell’Osservatorio di Tolosa, con cui Camichel, Gentili e Lyot realizzano immagini del Pianeta rosso tra le migliori prodotte fino ad allora.
Lyot capisce che le condizioni meteorologiche del Pic du Midi permettono di sperimentare con le osservazioni, spingendo al massimo il livello di ingrandimento del telescopio, per fotografare i corpi del Sistema solare ad alta risoluzione, e decide di costruire un nuovo strumento. Per adattare il telescopio rifrattore a un obiettivo da 60 centimetri dell’Osservatorio di Parigi, si trova a dover piegare il fascio di luce con due specchi, utilizzando il sistema del “rifrattore piegato”, o rifratto-riflettore, ideato anni prima dall’astronomo svizzero Emil Schaer ma mai applicato su grande scala. Alcuni pezzi vengono ordinati da Vichy, e la consegna avviene tra enormi difficoltà – è l’autunno del 1942 e anche la zona meridionale della Francia è ormai occupata dai Nazisti. Gentili, che è di origine ebraica, rischia la deportazione e resterà nascosto in osservatorio fino al termine del conflitto.
Inaugurato nel 1943, il nuovo telescopio resta in funzione fino alla fine degli anni Sessanta, sfornando immagini dettagliatissime di Mercurio, Venere e Marte, di Giove e le sue lune, di Saturno e i suoi anelli. Neanche la superficie della Luna gli sfugge, attirando negli anni Sessanta addirittura l’attenzione della neonata Nasa, che qui finanzierà un programma di mappatura del nostro satellite naturale in vista delle missioni Apollo.
Lo storico telescopio da 60 cm, in mostra all’Osservatorio del Pic du Midi. Crediti: C. Mignone
Finita la guerra, il Pic du Midi cresce e si adegua ai tempi. In segno di gratitudine, nel 1946 Gentili dona all’osservatorio una cupola e il suo telescopio personale da 60 centimetri, che continuerà a essere usato professionalmente fino agli anni Ottanta (passato alla gestione dell’Association Télescope T60, che riserva il tempo alle osservazioni degli astrofili, a fine 2021 lo storico telescopio di Gentili è andato in pensione, sostituito da un modello più moderno; oggi fa bella mostra di sé nel percorso museale, sulla terrazza dell’osservatorio). Finalmente nel 1947 arriva in vetta una funivia dedicata esclusivamente al trasporto delle attrezzature e, nel 1952, l’attesissima teleferica, fortemente voluta da Jules Baillaud già prima del secondo conflitto mondiale. L’isolamento è terminato.
Con il telescopio da un metro cofinanziato dalla Nasa nel 1964, ospitato nella cupola Gentili, il Manchester Lunar Programme ottiene oltre sessantamila immagini ad altissima risoluzione. Insieme a quelle raccolte al di là dell’Atlantico dagli osservatori di Mount Wilson, Lick, McDonald e Yerkes, vanno a formare un atlante cartografico lunare a cura dell’astrofisico olandese Gerard Kuiper, propedeutico al primo allunaggio. Pochi mesi dopo lo storico “piccolo grande passo” di Neil Armstrong, dal Pic du Midi, un gruppo di astronomi e astronome francesi ricevono un segnale laser partito dal nostro pianeta e riflesso da uno degli specchi lasciati dagli astronauti sulla superficie lunare, partecipando al primo esperimento di misura della distanza Terra-Luna.
Panorama di questo e di altri mondi
Il Bernard Lyot Telescope. Crediti: C. Mignone
L’ultima aggiunta, inaugurata nel 1980, è un telescopio da due metri, il più grande sul territorio francese. Si erge all’estremità nord-ovest dell’osservatorio, all’interno di una torre alta ventotto metri. Più in alto, c’è solo l’antenna. Con la sua forma a calotta che ricorda vagamente quella di Stuart, il minion da un occhio solo della celebre serie animata, se ne sta lì, altero, a scrutare il cielo. Non me ne voglia il buon Bernard Lyot, a cui il telescopio è dedicato – del resto, si occupa di polarimetria stellare, il nome gli calza a pennello. Però è una forma insolita, questa con l’apertura circolare all’interno della cupola. Ce l’hanno pochi altri telescopi (uno, per esempio, è l’Hobby–Eberly in Texas) ma è stata proposta per il controverso Thirty Meter Telescope sulla cima di Mauna Kea, alle Hawai‘i. Qui, al Pic du Midi, l’hanno scelta per evitare scambi termici tra l’aria esterna e l’aria interna alla cupola.
A partire dagli anni Ottanta, però, l’astronomia francese inizia a rivolgere le sue politiche verso le grandi collaborazioni internazionali. Gestire lo storico osservatorio sulla terrazza dei Pirenei, il primo osservatorio astronomico d’alta quota, è diventato troppo costoso, e a fine millennio incombe lo spettro della chiusura. Così, nel 2000, si cambia strategia, aprendo le porte all’astroturismo e sfruttando la risorsa più grande di questo straordinario sito: il cielo.
Grazie a un massiccio investimento di trentanove milioni di euro, la nuova gestione del sito ha preservato il Pic du Midi, il più antico osservatorio di montagna ancora in funzione, e la sua storia, una storia fatta di scienziati, ingegneri, operai, facchini e visionari. Oggi, il Bernard Lyot Telescope è l’unico telescopio usato da astronomi professionisti: tutti gli altri – compreso il nuovo coronografo del 2009 – sono gestiti da volontari. La residenza è stata adattata per accogliere, oltre ad astronomi e astrofili, anche studenti universitari, scuole e il grande pubblico.
L’autrice, abbagliata da un raggio di sole davanti alla cupola che oggi ospita il coronografo, a una piacevolissima temperatura di 2,6°C a fine giugno. Crediti: C. Mignone
L’impegno a conservare l’altissima qualità del cielo si consolida nel 2013, con il bollino di Dark Sky Reserve rilasciato dalla International Dark Sky Association. È il primo sito in Francia e il secondo più grande al mondo a ottenere l’ambito riconoscimento, che comporta un impegno costante contro l’inquinamento luminoso nella regione. Dicono che la fonte di luce che più disturba sia Barcellona, circa trecento chilometri più giù, sul versante sud-est. Per chi volesse controllare di persona, è possibile prenotare una notte al cospetto del cosmo, sotto il leggendario manto di stelle. A partire dal 2026. Perché fino a fine 2025 è tutto esaurito.
Per saperne di più:
- Visita il sito dell’Observatoire du Pic du Midi (in francese)
- Esplora le attività di astroturismo sul sito del Pic du Midi (in inglese, francese e spagnolo)
- Leggi l’articolo “The first Pic du Midi photographs of Mars, 1909” di A. Dollfus
- Leggi l’articolo “A Hundred Years of Science at the Pic du Midi Observatory” di E. Davoust
- Visita la pagina dedicata al Pic du Midi de Bigorre Observatory sul Portal to the Heritage of Astronomy dell’Unesco (in inglese e francese)
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La Via Lattea è una galassia speciale?
Un mosaico di immagini di 378 satelliti su 101 sistemi simili alla Via Lattea, esaminate dal team Saga. Le immagini sono ordinate in base alla luminosità ,da sinistra a destra. Crediti: Yao-Yuan Mao/Utah), Desi Legacy Surveys Sky Viewer
Dopo aver censito 101 sistemi galattici simili alla Via Lattea, i ricercatori del programma Saga (Satellite Around Galactic Analogs), iniziato nel 2013, hanno analizzato le unicità della nostra galassia per capire quanto sia anomala rispetto alle sue simili.
I sistemi satellitari in questione sono formati da galassie più piccole – sia in massa che in dimensione – che orbitano intorno a una galassia più grande, chiamata galassia ospite. Proprio come i satelliti artificiali che orbitano intorno alla Terra, o le lune attorno a un pianeta, queste galassie satellite sono catturate dalla forza gravitazionale della galassia massiccia ospite e della materia oscura circostante. La Via Lattea è la galassia ospite di diverse galassie satellite: le due più grandi, per esempio, sono la Grande Nube di Magellano (Lmc) e la Piccola Nube di Magellano (Smc), entrambe visibili a occhio nudo dall’emisfero australe, a differenza di molte altre più deboli, che possono essere osservate solo con un grande telescopio.
Lo scopo della survey Saga è caratterizzare i sistemi satellitari intorno ad altre galassie ospiti che hanno masse stellari simili a quelle della Via Lattea. Yao-Yuan Mao, della University of Utah, sta conducendo la survey con Marla Geha della Yale University e Risa Wechsler della Stanford University.
Nel primo di tre studi – tutti accettati per la pubblicazione da The Astrophysical Journal –, condotto da Mao, i ricercatori hanno evidenziato 378 galassie satellite identificate in 101 sistemi di massa simili alla Via Lattea. Il numero di satelliti confermati per sistema varia da zero a 13, rispetto ai quattro satelliti della Via Lattea. Mentre il numero di galassie satellite nel nostro sistema è pari a quello degli altri sistemi di massa simile. «La Via Lattea sembra ospitare meno satelliti, se si considera l’esistenza della Lmc», dice Mao. Saga ha infatti rilevato che i sistemi con una galassia satellite massiccia come la Lmc tendono ad avere un numero totale di satelliti più elevato, e la Via Lattea sembra essere in questo senso un’eccezione.
Immagine di una galassia simile alla Via Lattea (al centro) e del suo sistema di galassie satellite. La survey Saga ha identificato sei piccole galassie satelliti in orbita intorno a questo analogo della Via Lattea. Crediti: Yasmeen Asali (Yale), with images from the Desi Legacy Surveys Sky Viewer
Una spiegazione di questa apparente differenza è il fatto che la Via Lattea ha acquisito solo in tempi relativamente recenti la Lmc e la Smc. Questo risultato dimostra l’importanza di comprendere l’interazione tra la galassia ospite e le galassie satellite, soprattutto quando si interpreta ciò che apprendiamo osservando la Via Lattea.
«Sebbene non possiamo ancora studiare le storie orbitali dei satelliti intorno alle galassie ospite, l’ultima versione dei dati Saga aumenta di un fattore i sistemi simili alla Via Lattea che ospitano un compagno simile a Lmc rispetto a quanto precedentemente noto», dice Ekta Patel della Nasa, che non fa parte del team Saga, dopo aver appreso i risultati dello studio. «Questo enorme progresso fornisce più di 30 ecosistemi galattici da confrontare con i nostri, e sarà particolarmente utile per capire l’impatto di un satellite massiccio analogo al Lmc sui sistemi in cui risiedono».
Il secondo studio della serie è condotto da Geha e si occupa di stabilire se queste galassie satelliti stanno ancora formando stelle. Comprendere i meccanismi che impedirebbero la formazione di stelle in queste piccole galassie è una questione importante nel campo dell’evoluzione galattica. I ricercatori hanno scoperto, per esempio, che le galassie satellite situate più vicino alla loro galassia ospite hanno maggiori probabilità di avere la formazione stellare “estinta” – o soppressa. Ciò suggerisce che i fattori ambientali contribuiscono a plasmare il ciclo di vita delle galassie satelliti.
Il terzo studio è condotto da Yunchong Wang e utilizza i risultati della survey Saga per migliorare i modelli teorici esistenti sulla formazione delle galassie. Sulla base del numero di satelliti estinti, questo modello prevede che le galassie estinte dovrebbero esistere anche in ambienti più isolati, una previsione che sarà possibile testare nei prossimi anni con altre indagini astronomiche, come la Dark Energy Spectroscopic Instrument survey.
Oltre a questi risultati, destinati a migliorare la comprensione dell’evoluzione delle galassie, il team di Saga ha pubblicato anche nuove misurazioni della distanza, o redshift, per circa 46mila galassie. «Trovare queste galassie satellite è come trovare aghi in un pagliaio. Abbiamo dovuto misurare il redshift di centinaia di galassie per identificare una sola galassia satellite», spiega Mao. «Questi nuovi redshift permetteranno alla comunità astronomica di studiare una vasta gamma di argomenti oltre le galassie satellite».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. A Census of 101 Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies” di Yao-Yuan Mao, Marla Geha, Risa H. Wechsler, Yasmeen Asali, Yunchong Wang, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Ethan O. Nadler, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, Mithi A. C. de los Reyes, and John F. Wu
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. The Star Formation Properties of 101 Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies” di Marla Geha, Yao-Yuan Mao, Risa H. Wechsler, Yasmeen Asali, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Ethan O. Nadler, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, Mithi A. C. de los Reyes, Yunchong Wang, and John F. Wu
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. V. Modeling Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies with Updated UniverseMachine” di Yunchong Wang, Ethan O. Nadler, Yao-Yuan Mao, Risa H. Wechsler, Tom Abel, Peter Behroozi, Marla Geha, Yasmeen Asali, Mithi A. C. de los Reyes, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, John F. Wu
Ecco come si propaga la turbolenza nel vento solare
Il vento solare è un flusso incessante di particelle cariche provenienti dal Sole, il cui andamento è tutt’altro che costante. Nel loro moto nello spazio, le particelle del vento solare interagiscono con il campo magnetico variabile del Sole, seguendo traiettorie caotiche e fluttuanti, un fenomeno che prende il nome di turbolenza.
Le riprese ottenute dalla missione Solar orbiter dell’Agenzia spaziale europea (Esa) grazie al coronografo Metis progettato da Inaf, Università di Firenze, Università di Padova, Cnr-Ifn, e realizzato dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) con la collaborazione dell’industria italiana, confermano qualcosa che si sospettava da tempo: il moto turbolento del vento solare inizia molto vicino al Sole, all’interno della porzione di atmosfera solare nota come corona. Piccoli disturbi che influenzano il vento solare nella corona vengono trasportati verso l’esterno e si espandono, generando un flusso turbolento più lontano nello spazio.
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Il Sole è mostrato al centro, circondato da un anello che visualizza parte della corona solare ripresa dal coronografo Metis di Solar Orbiter. I dati mostrano cambiamenti nella luminosità della corona solare, che è direttamente correlata alla densità delle particelle cariche presenti al suo interno. Questi cambiamenti sono resi visibili sottraendo immagini consecutive di luminosità coronale scattate a due minuti di distanza l’una dall’altra. Le regioni rosse non mostrano alcun cambiamento, mentre le regioni bianche e nere evidenziano cambiamenti positivi e negativi nella luminosità. Questo rivela come le particelle cariche del vento solare all’interno della corona si muovano in modo caotico e turbolento. Crediti: Esa & Nasa/Solar orbiter/Metis & Eui Teams e D. Telloni/Inaf
«Questo risultato ha aperto una nuova finestra sulla fisica del vento solare grazie a Metis, il coronografo di nuova concezione – tutta italiana – a bordo del Solar Orbiter, che ha permesso acquisizioni ad alta cadenza di immagini coronali con un contrasto senza precedenti tra segnale coronale e background», commenta Silvano Fineschi dell’Inaf e Responsabile scientifico del contributo italiano alla missione.
Bloccando la luce diretta proveniente dal Sole, il coronografo Metis è in grado di catturare la luce visibile e ultravioletta più debole proveniente dalla corona solare. Le sue immagini ad alta risoluzione e ad alta cadenza mostrano la struttura dettagliata e il movimento all’interno della corona, rivelando come il movimento del vento solare diventi già turbolento alle sue radici. Le riprese utilizzate dal team di ricerca per osservare in dettaglio la propagazione della turbolenza sono state ottenute il 12 ottobre 2022 e messe in sequenza per realizzare una animazione video. In particolare, l’anello color rosso nel video mostra le osservazioni di Metis. A quella data, la sonda si trovava a soli 43,4 milioni di chilometri dal Sole, meno di un terzo della distanza Sole-Terra. L’immagine del Sole al centro del video è stata scattata dall’Extreme ultraviolet imager (Eui) di Solar orbiter, lo stesso giorno delle osservazioni di Metis.
«L’elevata risoluzione spaziale e temporale di Metis sta gettando nuova luce sui meccanismi fisici che regolano il vento solare e la sua propagazione, consentendo una migliore comprensione dei processi attraverso i quali il Sole determina le condizioni fisiche dello spazio interplanetario con effetti anche a Terra», dice Marco Stangalini, ricercatore e Responsabile di programma Asi della missione Solar orbiter. «Questo significativo risultato è solo l’ultimo di una lunga serie di successi e offre grandi speranze per il futuro. Nei prossimi anni, infatti, Solar Orbiter inclinerà la sua orbita, permettendoci di osservare il Sole da una prospettiva completamente nuova per la prima volta».
La turbolenza influenza il modo in cui il vento solare viene riscaldato, il modo in cui si muove attraverso il Sistema solare e il modo in cui interagisce con i campi magnetici dei pianeti e delle lune che attraversa. Comprendere la turbolenza del vento solare è fondamentale per prevedere la meteorologia spaziale e i suoi effetti sulla Terra.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Metis observation of the onset of fully developed turbulence in the solar corona” di Daniele Telloni, Luca Sorriso-Valvo, Gary P. Zank, Marco Velli , Vincenzo Andretta, Denise Perrone, Raffaele Marino, Francesco Carbone, Antonio Vecchio, Laxman Adhikari, Lingling Zhao, Sabrina Guastavino, Fabiana Camattari, Chen Shi, Nikos Sioulas, Zesen Huang, Marco Romoli, Ester Antonucci, Vania Da Deppo, Silvano Fineschi, Catia Grimani, Petr Heinzel, John D. Moses, Giampiero Naletto, Gianalfredo Nicolini, Daniele Spadaro, Marco Stangalini, Luca Teriaca, Michela Uslenghi, Lucia Abbo, Frederic Auchere, Regina Aznar Cuadrado, Arkadiusz Berlicki, Roberto Bruno, Aleksandr Burtovoi, Gerardo Capobianco, Chiara Casini, Marta Casti, Paolo Chioetto, Alain J. Corso, Raffaella D’Amicis, Yara De Leo, Michele Fabi, Federica Frassati, Fabio Frassetto, Silvio Giordano, Salvo L. Guglielmino, Giovanna Jerse, Federico Landini, Alessandro Liberatore, Enrico Magli, Giuseppe Massone, Giuseppe Nisticò, Maurizio Pancrazzi, Maria G. Pelizzo, Hardi Peter, Christina Plainaki, Luca Poletto, Fabio Reale, Paolo Romano, Giuliana Russano, Clementina Sasso, Udo Schuhle, Sami K. Solanki, Leonard Strachan, Thomas Straus, Roberto Susino, Rita Ventura, Cosimo A. Volpicelli, Joachim Woch, Luca Zangrilli, Gaetano Zimbardo e Paola Zuppella
La più grande mappa infrarossa della Galassia
Questo collage mette in risalto una piccola selezione di regioni della Via Lattea. Da sinistra a destra e dall’alto in basso trovate Ngc 3576, Ngc 6357, Messier 17, Ngc 6188, Messier 22 e Ngc 3603. Sono tutte nubi di gas e polvere in cui si stanno formando stelle, tranne Messier 22, che è un gruppo molto denso di vecchie stelle. Le immagini sono state acquisite con il telescopio Vista dell’Eso e la sua camera a infrarossi Vircam. La mappa a cui appartengono queste immagini contiene 1,5 miliardi di oggetti. I dati sono stati raccolti nel corso di 13 anni nell’ambito della survey Vvv e del suo progetto complementare, la survey Vvvx. Crediti: Eso/Vvvx survey
Era il 1610 quando nel Sidereus Nuncius Galileo Galilei scriveva (non proprio con queste esatte parole) che “La Via Lattea non è altro che una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi; ché, in qualunque regione di essa si diriga il cannocchiale, subito una ingente folla di stelle si presenta alla vista, delle quali parecchie si vedono abbastanza grandi e molto distinte, ma la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile”.
Poco più di quattrocento anni dopo, assistiamo al completamento della più grande mappa a infrarossi della Via Lattea, dopo oltre 13 anni di osservazione delle sue regioni centrali. A compiere questa impresa è il progetto Vista Variables in the Vía Láctea e il suo complementare Vvv eXtended, le cui survey – rispettivamente Vvv e Vvvx – sono state guidate da Dante Minniti, dell’Unab e del Center for Astrophysics and Related Technologies (Cata), e da Philip Lucas dell’Università di Hertfordshire, nel Regno Unito.
I risultati di molti anni di analisi dati sono riportati in uno studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics. L’articolo è stato redatto da 146 coautori provenienti da 15 paesi diversi in quattro continenti. Molti sono gli autori Inaf coinvolti: Alonso Luna e Alessio Caratti o Garatti dell’Inaf di Napoli, Vittorio Francesco Braga e Maria Gabriela Navarro dell’Inaf di Roma, Luigi Bedin, Mattia Libralato e Massimo Griggio dell’Inaf di Padovae Nicola Masetti dell’Inaf di Bologna.
All’inizio è stata un’avventura imbarcarsi in questo grande esperimento che rappresentava un compito gigantesco, essendo allora il più grande progetto osservativo per volume di dati dell’European Southern Observatory (Eso), incaricato di effettuare osservazioni con il telescopio Vista situato presso l’Osservatorio Paranal, nel nord del Cile. Le osservazioni sono iniziate nel 2010 e si sono concluse nella prima metà del 2023, per un totale di 420 notti in cui sono state ottenute circa 200mila immagini, monitorando più di 1,5 miliardi di oggetti e generando circa 500 TB di dati scientifici.
Questa immagine mostra le regioni della Via Lattea mappate dalle survey Vvv e Vvvx. L’area totale coperta è equivalente a 8600 lune piene. I quadrati rossi indicano le aree centrali della nostra galassia originariamente coperte da Vvvv e successivamente riosservate da Vvvx. Gli altri quadrati indicano le regioni osservate solo nell’ambito della survey Vvvx: ancora più regioni del disco su entrambi i lati (giallo e verde), aree del disco sopra e sotto il piano della galassia (blu scuro) e sopra e sotto il bulge (blu chiaro). I numeri indicano la longitudine e la latitudine galattica. Sono indicati anche i nomi di varie costellazioni. Crediti: Eso/Vvvx Survey
Questo enorme set di dati copre un’area del cielo equivalente a 8600 lune piene e contiene un numero di oggetti circa 10 volte superiore a quello della precedente mappa pubblicata dallo stesso team nel 2012. Include stelle neonate, spesso all’interno di bozzoli di polvere, e ammassi globulari, densi gruppi di milioni di stelle più antiche della Via Lattea. Osservando la luce infrarossa, Vista può anche individuare oggetti molto freddi, che brillano a queste lunghezze d’onda, come nane brune o pianeti vagabondi, ossia pianeti che non orbitano attorno a una stella. Osservando più volte ciascuna porzione di cielo, il team è stato in grado non solo di determinare la posizione di questi oggetti, ma anche di seguire come si muovono e se la loro luminosità cambia.
María Gabriela Navarro dell’Inaf di Roma, coautrice dello studio pubblicato su A&A. Crediti: M.G. Navarro
«Il Vvvx ci offre la possibilità di coprire un lungo periodo di tempo (circa 10 anni) di osservazione continua nelle regioni più densamente popolate della nostra galassia grazie alle osservazioni nell’infrarosso, che penetrano il gas e la polvere concentrati in queste zone», commenta Navarro a Media Inaf. «Questa copertura temporale ci permette di misurare come varia la luce degli oggetti e le loro posizioni, ovvero la variabilità e la dinamica, che rappresentano informazioni preziose per comprendere meglio come si è formata la Galassia, come è evoluta e tutti i processi che stanno avvenendo al suo interno».
Le survey hanno prodotto innumerevoli applicazioni per la comunità astronomica interessata allo studio della struttura galattica, delle popolazioni stellari, delle stelle variabili, degli ammassi stellari e di molto altro. Tra le scoperte più importanti vi sono ammassi globulari, stelle iperveloci, stelle variabili RR Lyrae al centro della Galassia (la più antica popolazione conosciuta), stelle nane brune e pianeti binari fluttuanti, oggetti variabili sconosciuti che chiamiamo Wit (acronimo di “What Is This?”), migliaia di galassie lontane osservate attraverso il disco della Via Lattea, oggetti stellari neonati violentemente variabili, eventi di microlensing gravitazionale nel cuore della Galassia e stelle variabili Cefeidi agli antipodi della Galassia.
«Questo studio inoltre permette l’esplorazione e la caratterizzazione di sorgenti, presenti nel Piano Galattico o al di là di esso, che emettono raggi X e gamma e che sono impossibili da osservare in ottico a causa del forte assorbimento dovuto alle polveri interstellari. Con la survey Vvvx è quindi possibile studiare in dettaglio la natura e il comportamento di questi oggetti fortemente compatti, ovvero stelle di neutroni e buchi neri, integrando i dati alle alte energie con quelli nelle bande infrarosse», commenta Masetti a Media Inaf.
Questa immagine mostra una vista dettagliata all’infrarosso di Messier 17, nota anche come Nebulosa Omega o Nebulosa del Cigno, una nursery stellare situata a circa 5500 anni luce di distanza nella costellazione del Sagittario. Crediti: Eso/Vvvx Survey
Queste scoperte hanno già prodotto più di 300 pubblicazioni scientifiche. L’elaborazione delle immagini, l’analisi dei dati e l’esplorazione scientifica continueranno per molti anni a venire, regalandoci sicuramente molte altre scoperte. Questo lavoro lascia una grande eredità alla comunità astronomica, che continuerà a utilizzare i dati in una serie di progetti futuri, molti dei quali saranno integrati con le future osservazioni del telescopio spaziale Nancy Roman della Nasa, che sarà lanciato alla fine del 2026.
Nel frattempo, l’Osservatorio del Paranal dell’Eso si sta preparando per il futuro: Vista sarà aggiornato con il nuovo strumento 4Most e il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso riceverà lo strumento Moons. Insieme, questi strumenti forniranno gli spettri di milioni di oggetti qui analizzati. Attendiamo, curiosi e fiduciosi.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “The VISTA Variables in the Vía Láctea eXtended (VVVX) ESO public survey: Completion of the observations and legacy” di R. K. Saito, M. Hempel, J. Alonso-García, P. W. Lucas, D. Minniti, S. Alonso, L. Baravalle, J. Borissova, C. Caceres, A. N. Chené, N. J. G. Cross, F. Duplancic, E. R. Garro, M. Gómez, V. D. Ivanov, R. Kurtev, A. Luna, D. Majaess, M. G. Navarro, J. B. Pullen, M. Rejkuba, J. L. Sanders, L. C. Smith, P. H. C. Albino, M. V. Alonso, E. B. Amôres, R. Angeloni, J. I. Arias, M. Arnaboldi, B. Barbuy, A. Bayo, J. C. Beamin, L. R. Bedin, A. Bellini, R. A. Benjamin, E. Bica, C. J. Bonatto, E. Botan, V. F. Braga, D. A. Brown, J. B. Cabral 9,33, D. Camargo 34, A. Caratti o Garatti 17 , J. A. Carballo-Bello 35, M. Catelan 36,5,37, C. Chavero, M. A. Chijani, J. J. Clariá, G. V. Coldwell, C. Contreras Peña, R. Contreras Ramos, J. M. Corral-Santana, C. C. Cortés, M. Cortés-Contreras, P. Cruz, I. V. Daza-Perilla, V. P. Debattista, B. Dias, L. Donoso, R. D’Souza, J. P. Emerson, S. Federle, V. Fermiano, J. Fernandez, J. G. Fernández-Trincado, T. Ferreira, C. E. Ferreira Lopes, V. Firpo, C. Flores-Quintana, L. Fraga, D. Froebrich, D. Galdeano, I. Gavignaud, D. Geisler, O. E. Gerhard, W. Gieren, O. A. Gonzalez, L. V. Gramajo, F. Gran, P. M. Granitto, M. Griggio, Z. Guo, S. Gurovich, M. Hilker, H. R. A. Jones, R. Kammers, M. A. Kuhn, M. S .N. Kumar, R. Kundu, M. Lares, M. Libralato, E. Lima, T. J. Maccarone, P. Marchant Cortés, E. L. Martin, N. Masetti, N. Matsunaga, F. Mauro, I. McDonald, A. Mejías, V. Mesa, F. P. Milla-Castro, J. H. Minniti, C. Moni Bidin, K. Montenegro, C. Morris, V. Motta, F. Navarete, C. Navarro Molina, F. Nikzat, J. L. Nilo Castellón, C. Obasi, M. Ortigoza-Urdaneta, T. Palma, C. Parisi, K. Pena Ramírez, L. Pereyra, N. Perez, I. Petralia, A. Pichel, G. Pignata, S. Ramírez Alegría, A. F. Rojas, D. Rojas, A. Roman-Lopes, A. C. Rovero, S. Saroon, E. O. Schmidt, A. C. Schröder, M. Schultheis, M. A. Sgró, E. Solano, M. Soto, B. Stecklum, D. Steeghs, M. Tamura, P. Tissera, A. A. R. Valcarce, C. A. Valotto, S. Vasquez, C. Villalon, S. Villanova, F. Vivanco Cádiz, R. Zelada Bacigalupo, A. Zijlstra e M. Zoccali
Se volete la Luna, andate a Colonia
L’edificio che ospita il simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Inaugurata oggi a Colonia, in Germania, accanto allo European Astronaut Centre dell’Esa, una struttura in grado di simulare l’ambiente lunare: si chiama LUNA – tutta in maiuscolo, por distinguerla dal nostro satellite naturale – ed è gestita congiuntamente dall’Esa e dalla Dlr, l’agenzia aerospaziale tedesca.
Progettata per ricreare la superficie lunare, sarà utilizzata per preparare astronauti, scienziati, ingegneri ed esperti di missioni a vivere e lavorare sulla Luna. Faciliterà la ricerca, lo sviluppo e i test integrati della tecnologia spaziale in condizioni realistiche, fornendo preziose indicazioni per le prossime missioni lunari, come il programma Artemis della Nasa, che invierà astronauti sulla Luna per la prima volta dopo oltre mezzo secolo.
«Non vedo l’ora che LUNA apra i battenti, e di poter tornare allo European Astronaut Centre per ricevere l’addestramento unico che può offrire», dice l’astronauta dell’Esa Luca Parmitano. «Questa struttura è una piattaforma fondamentale per simulare l’ambiente lunare nel suo complesso. Le conoscenze acquisite qui saranno preziose per la collaborazione con le missioni internazionali e per il raggiungimento dei nostri obiettivi con la Nasa e oltre. LUNA non è solo una testimonianza delle nostre ambizioni comuni, ma anche uno strumento fondamentale per far progredire i nostri sforzi collettivi di esplorazione spaziale».
Infografica del simulatore lunare LUNA (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa
LUNA dispone di un’area di 700 metri quadrati che riproduce la superficie lunare grazie a 900 tonnellate di grani e rocce vulcaniche di origine basaltica, lavorate ad hoc per creare un materiale noto come “simulante di regolite”, offrendo così un ambiente di prova unico. Un’area profonda della pavimentazione consentirà la perforazione e il campionamento fino a tre metri sotto la superficie, permettendo ricerche sulla regolite, compreso il suolo lunare congelato.
Interno del simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Nel frattempo, un simulatore del Sole imita i cicli del giorno e della notte sulla Luna, comprese le difficili condizioni di illuminazione che si trovano nelle regioni polari lunari. Presto saranno implementate altre funzioni, come un sistema di scarico della gravità per simulare la gravità della Luna, pari a un sesto di quella terrestre, e una rampa regolabile per testare la mobilità sui pendii lunari.
LUNA è stato progettato come un hub aperto, a disposizione di agenzie spaziali, università, ricercatori, industria spaziale, start-up e piccole e medie imprese di tutto il mondo. «L’apertura di LUNA segna una pietra miliare significativa negli sforzi europei per l’esplorazione spaziale», dice il direttore generale dell’Esa, Josef Aschbacher. «Questa struttura unica, con la sua capacità di riprodurre le condizioni lunari, fa progredire la nostra comprensione della Luna e ci prepara per le missioni future. Siamo orgogliosi di guidare questo progetto, che posiziona l’Europa all’avanguardia nell’esplorazione lunare e oltre, promuovendo al contempo la collaborazione internazionale nella ricerca spaziale».
Non è tutta vita quella che puzza
Una delle sfide più grandi nella ricerca di vita oltre la Terra è l’identificazione di caratteristiche note per essere associate in modo univoco al mondo biologico. Gli addetti ai lavori chiamano queste caratteristiche, biofirme. Siano esse firme chimiche, isotopiche, mineralogiche, strutturali o tecnologiche, sono tutte impronte osservabili che la vita produce.
Poiché la Terra è l’unico pianeta noto per ospitare la vita, la nostra conoscenza delle biofirme rilevabili deriva da questo singolo, limitato esempio. Inoltre, l’onere della prova necessario per verificare che una data caratteristica sia una biofirma è determinato non solo dalla probabilità che sia stata prodotta da un processo biologico, ma anche dall’improbabilità che sia stata prodotta da processi non biologici.
Illustrazione artistica realizzata con Adobe AI che mostra un classico strumento in uso nei laboratori di chimica, in primo piano, e un esopianeta, sullo sfondo. Crediti: Media Inaf
Una delle principali biofirme utilizzate nella ricerca esoplanetaria è rappresentata dai gas atmosferici, specie chimiche volatili prodotte dai sistemi biologici e immesse nell’atmosfera di un pianeta come prodotto di scarto. Tra queste molecole, i gas a base di zolfo sono attualmente considerati tra i più robusti indicatori della presenza di vita su un pianeta. Ne sono alcuni esempi il dimetil solfuro, il solfuro di carbonile e il disolfuro di carbonio, tutte molecole che sulla Terra sono prodotti secondari del metabolismo degli organismi viventi. Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori guidati dalla Boulder Colorado University mette ora in discussione questa idea. Nella ricerca, i cui risultati sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters, gli scienziati sono infatti riusciti a produrre in laboratorio, senza il coinvolgimento di alcun sistema biologico, diversi gas organo-solforati, mettendo in dubbio il ruolo di tali sostanze come biomarcatori forti.
Per ottenere le sostanze in fase gassosa, i ricercatori hanno condotto esperimenti di fotochimica. L’obiettivo? Valutare cosa accade su un pianeta quando i gas reagiscono con la luce per formare la cosiddetta “foschia organica e gas associati”, una sorta di caligine composta da particelle di aerosol prodotte dalle reazioni chimiche che si verificano in atmosfera. Il protocollo sperimentale seguito è stato questo. In breve, all’interno di una camera di miscelazione, utilizzando metano, idrogeno solforato e azoto molecolare come precursori, i ricercatori hanno prodotto miscele di gas che simulavano diverse atmosfere planetarie. Successivamente, attraverso un regolatore di flusso, hanno fatto passare queste miscele in una camera di reazione dotata di una lampada al deuterio in grado di emettere luce nel lontano ultravioletto. Il picco di emissione della lampada era compreso tra 115 e 165 nm, una finestra di lunghezze d’onda della radiazione la cui energia imita la fotolisi del metano nelle atmosfere riducenti del nostro Sistema solare. Hanno quindi acceso la lampada, promuovendo l’irradiazione dei gas e l’avvio di reazioni chimiche simili a quelle che nell’atmosfera di un pianeta sono indotte dalla luce. La raccolta e l’analisi tramite gascromatografia con rivelazione di zolfo a chemiluminescenza – una metodica che permette di identificare e quantificare i composti solforati – è stata l’ultima fase dell’esperimento.
Tra i prodotti di reazione individuati dai ricercatori c’erano il metantiolo (CH3SH), l’etantiolo (C2H5SH), il solfuro di carbonio (CS2), il solfuro di carbonile (COS) e l’etil-metilsolfuro (CH3CH2SCH3). Ma soprattutto, c’era il dimetil solfuro (CH3SCH3 ), la più forte tra le più forti biofirme di vita. Prodotto dal metabolismo batterico e di alcune alghe marine, nonché responsabile dell’odore prodotto dalla cottura di alcune verdure, è il composto di origine biologica a base di zolfo più abbondante emesso nell’atmosfera terrestre. Qui su Media Inaf ne abbiamo parlato di recente, perché è anche la molecola che il telescopio spaziale James Webb ha rilevato nell’atmosfera dell’esopianeta K2-18b. Secondo i ricercatori, aver ottenuto queste molecole come prodotti di reazioni non biologiche limita il ruolo di questa molecola e di tutti i gas organosolforati come biofirme
Illustrazione che mostra il procedimento sperimentale seguito nello studio. Crediti: Nathan W. Reed et al., Apj Letters, 2024
«Le molecole solforate sono utilizzate come biofirme perché sono prodotte dalla vita sulla Terra», dice Ellie Browne, scienziata dell’Università del Colorado a Boulder e co-autrice dello studio. «Ma in questo caso le abbiamo ottenute in laboratorio in condizioni abiotiche, quindi potrebbero non essere un segno di vita, ma un segno di qualcosa di ospitale per la vita».
«Uno dei risultati dell’articolo è stato l’aver trovato il dimetil solfuro», aggiunge l’astrobiologo dell’Università del Colorado a Boulder e primo autore della pubblicazione, Nathan Reed. «Si tratta di una molecola che è stata rilevata nelle atmosfere esoplanetarie e che si pensava fosse un segno di vita sui pianeti».
I ricercatori sperano che il loro studio dia il la ad altre ricerche che esaminino le reazioni chimiche che coinvolgono lo zolfo. L’obiettivo è studiare tutte le reazioni in cui sono coinvolte per comprendere meglio il loro ruolo come biofirme.
I risultati ottenuti potrebbero avere implicazioni per la valutazione dei gas organosolforati come potenziali biofirme nelle atmosfere esoplanetarie, sottolineano a questo proposito i ricercatori. Ciò che è stato dimostrato è che diversi composti solforati e semplici tioli, specie precedentemente considerate biofirme robuste nelle atmosfere esoplanetarie, hanno possibili percorsi di produzione non biologica che coinvolgono la fotochimica planetaria. Pertanto, ogni gas organosolforato citato nell’articolo rischia di essere una biofirma falsa positiva se i percorsi abiotici proposti vengono trascurati.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Abiotic Production of Dimethyl Sulfide, Carbonyl Sulfide, and Other Organosulfur Gases via Photochemistry: Implications for Biosignatures and Metabolic Potential”, di Nathan W. Reed, Randall L. Shearer, Shawn Erin McGlynn, Boswell A. Wing, Margaret A. Tolbert ed Eleanor C. Browne
Nell’orbita di Marte, indizi di materia oscura
Secondo i cosmologi la materia “convenzionale”, quella cioè che possiamo vedere e toccare, costituisce solo il 20 per cento della materia totale dell’universo. Il resto è costituito da materia oscura, una forma ipotetica di materia invisibile che si pensa pervada l’universo ed eserciti una forza gravitazionale abbastanza grande da influenzare il moto di stelle e galassie. Sebbene l’esistenza di questa materia sia largamente accettata dalla comunità scientifica, a oggi sulla sua identità non ci sono certezze, ma solo ipotesi.
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Illustrazione artistica che mostra un buco nero primordiale (a sinistra) che passa “vicino” il pianeta Marte (a destra). Secondo il nuovo studio, tale passaggio ravvicinato potrebbe provocare una perturbazione nell’orbita del pianeta, che potrebbe essere rilevata dagli strumenti odierni. Crediti: Benjamin V. Lehmann
La maggior parte di queste ipotesi prevede che la materia oscura sia fatta di particelle elementari sconosciute: alcune sostengono sia composta da particelle massicce debolmente interagenti (Wimp); altre da assioni; altre ancora da particelle che interagiscono sulla scala di Planck (Pidm) o da neutrini sterili.
Un’ipotesi alternativa alle precedenti, formulata per la prima volta negli anni ’70, è quella che prevede che la materia oscura non sia fatta di particelle esotiche, ma abbia le sembianze di buchi neri. Non buchi neri astrofisici, però – quelli che si formano dal collasso di vecchie stelle, per intenderci – ma buchi neri microscopici, piccoli quanto un atomo e pesanti quanto un grande asteroide, formatisi dal collasso di dense sacche di gas nell’universo primordiale. Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review D, questa ipotesi potrebbe essere “facilmente” verificata monitorando l’orbita di Marte con gli strumenti ad alta precisione di cui già disponiamo.
La ricerca in questione, condotta da un team di scienziati guidati dal Massachusetts Institute of Technology, si basa sull’assunto che se la maggior parte della materia oscura nell’universo è composta davvero da buchi neri primordiali (primordial black holes, Pbh, in inglese), su scale temporali relativamente brevi questi corpi dovrebbero attraversare il nostro Sistema solare e produrre un qualche effetto sui corpi che vi risiedono.
Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno condotto delle simulazioni. Basandosi sulla quantità di materia oscura che si stima sia presente in una data regione dello spazio e ipotizzando una massa del buco nero primordiale pari a quella del più grande degli asteroidi del Sistema solare, inizialmente hanno calcolato con quale probabilità un simile oggetto potrebbe attraversare il nostro vicinato cosmico e con quale velocità.
«I buchi neri primordiali non vivono nel Sistema solare. Piuttosto, scorrazzano nell’universo», sottolinea Sarah Geller, ricercatrice al Massachusetts Institute of Technology e co-autrice dello studio. «La probabilità che attraversino il Sistema solare interno a una certa angolazione è di una volta ogni dieci anni circa».
A questo punto, utilizzando un codice che incorporava dati sulle orbite e le interazioni gravitazionali tra tutti i pianeti e alcune delle più grandi lune del Sistema solare, i ricercatori hanno simulato cosa accadeva al sistema al passaggio di vari buchi neri di massa asteroidale da varie angolazioni, concentrandosi in particolare su quei sorvoli che sembravano essere “incontri ravvicinati”.
«Le simulazioni più avanzate del Sistema solare includono più di un milione di oggetti, ognuno dei quali ha un piccolo effetto residuo», dice a questo proposito un altro dei co-autori dello studio, il fisico, anch’esso del Mit, Benjamin Lehmann. «Ma anche modellando due dozzine di oggetti in una accurata simulazione, abbiamo potuto vedere che c’era un effetto reale che potevamo approfondire».
I risultati delle simulazioni hanno mostrato che nessun effetto sulla Terra e sulla Luna era abbastanza certo da essere attribuito a un particolare buco nero. Le cose cambiavano per Marte, che ha offerto il quadro più chiaro: le simulazioni hanno mostrato un’evidente deviazione nell’orbita del pianeta.
Se un buco nero primordiale dovesse passare a poche centinaia di milioni di chilometri da Marte, la sua orbita dovrebbe spostarsi di circa un metro, spiegano i ricercatori. È una variazione incredibilmente piccola se si considera che il pianeta si trova a circa 228 milioni di chilometri dalla Terra, ma comunque rilevabile dai vari strumenti ad alta precisione che monitorano oggi Marte.
Se un’oscillazione del genere venisse rilevata nei prossimi due decenni, aggiungono gli scienziati, ci sarebbe ancora molto lavoro da fare per confermare che la spinta provenga da un buco nero primordiale di passaggio. Per facilitare questo compito, i ricercatori stanno già valutando la possibilità di una nuova collaborazione con un gruppo di ricerca che vanta una luna lunga esperienza nelle simulazioni del Sistema solare.
«Stiamo lavorando per simulare un numero enorme di oggetti, dai pianeti alle lune fino alle rocce, e come questi si muovono su scale temporali lunghe», dice Geller. «Vogliamo simulare scenari di incontro ravvicinato e osservare i loro effetti con maggiore precisione».
«Grazie a decenni di telemetria di precisione, gli scienziati conoscono la distanza tra la Terra e Marte con una precisione di circa dieci centimetri», ricorda David Kaiser, professore di fisica al Mit, anche lui tra i firmatari dello studio. «Stiamo sfruttando questa regione dello spazio popolata da numerosi strumenti scientifici per cercare di individuare un piccolo effetto. Se lo vedessimo», conclude lo scienziato, «ciò sarebbe una buona ragione per continuare a perseguire quest’idea che tutta la materia oscura sia composta da buchi neri prodotti meno di un secondo dopo il Big Bang, che hanno circolato nell’universo per 14 miliardi di anni».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review D l’articolo “Close encounters of the primordial kind: A new observable for primordial black holes as dark matter” di Tung X. Tran, Sarah R. Geller, Benjamin V. Lehmann e David I. Kaiser
Ordigni nucleari per difenderci dagli asteroidi
Come scriveva l’astronomo statunitense Fred Whipple nel suo libro The mystery of comets (1985), «la protezione della Terra dall’impatto di corpi cosmici non è un progetto fantascientifico di un improbabile futuro. Il costo di una simile impresa sarebbe comparabile, se non più basso, delle spese militari sostenute a livello mondiale. Potremmo scegliere di difenderci da comete e asteroidi piuttosto che difenderci da noi stessi». Sagge parole.
Rappresentazione artistica dell’emissione di materia a seguito dell’impatto della sonda Dart con l’asteroide Dimorphos. Crediti: Esa
Per la mitigazione del rischio di collisione degli asteroidi con la Terra ci sono diverse tecniche che sono state ideate, ma l’unica provata “sul campo” è stata quella dell’impattore cinetico della missione Dart della Nasa. L’impatto con un Nea (near-Earth asteroid) è l’unico evento naturale catastrofico su cui si può intervenire: altrettanto non può essere detto per eruzioni vulcaniche, terremoti o uragani, su cui non possiamo esercitare nessun controllo. Quindi, nel caso venisse scoperto un Nea con un diametro importante in rotta di collisione con il nostro pianeta, per cercare di limitare i danni si dovrà passare dalla teoria alla pratica. La Terra si muove con una velocità orbitale di circa 30 km/s e per percorrere una distanza pari al proprio diametro di 12.756 km impiega circa 12.756/30 ≈ 425 s ≈ 7 minuti: per evitare una collisione dobbiamo almeno modificare il tempo di arrivo dell’asteroide di sette minuti. Se si considera per il Nea un periodo orbitale dell’ordine dell’anno, questo equivale a una variazione dello 0,0013 per cento del suo periodo eliocentrico: un niente su scala planetaria, ma il tutto per continuare l’esistenza come specie.
Non è detto che la mitigazione del rischio comporti sempre una missione spaziale per intervenire direttamente sull’asteroide. Nel caso di un piccolo asteroide di 50-100 metri di diametro, con impatto previsto in una regione desertica o quasi disabitata, la mitigazione può semplicemente comportare l’evacuazione della popolazione residente. Le cose cambiano radicalmente se si considera l’impatto di un piccolo asteroide di 50 m di diametro su una zona densamente popolata o di importanza strategica, l’impatto di un oggetto di circa 140 m su una nazione ad alta densità di popolazione o la collisione di un asteroide di 300 m di diametro ovunque sulla Terra. In questi casi, in termini puramente economici, risulta più conveniente la mitigazione del rischio sia per mezzo della deflessione orbitale, sia – come ultima ratio – distruggendo il Nea (se sufficientemente piccolo).
L’orbita di un Nea può essere cambiata rapidamente applicando una forza in senso ortogonale al vettore velocità dell’asteroide, in moda da dargli una specie di “spallata” che gli faccia cambiare rapidamente direzione evitando di collidere con la Terra. Se il tempo di preavviso non è sufficiente o il Nea è di grosse dimensioni un impattore cinetico può non bastare, dati i limiti sulla massa che può essere inviata nello spazio. Per questo motivo i ricercatori continuano a studiare, come valida alternativa, anche la deflessione orbitale tramite esplosione nucleare, perché è il solo modo per condurre un’interazione ad alta energia, infatti questa tecnica offre la maggiore quantità di energia per unità di massa (circa 4·106 MJ/kg). In questo caso l’impulso che verrebbe trasferito al Nea sarebbe principalmente dovuto all’emissione di neutroni e raggi X, oltre che dai detriti superficiali dell’asteroide vaporizzati ed espulsi nello spazio. Infatti, non dobbiamo immaginare che la distruzione dell’asteroide sia la prima scelta: questa sarebbe solo l’ultimo, estremo e disperato tentativo per scongiurare la collisione. La tecnica da preferire è una deflessione orbitale controllata dell’asteroide, senza nessuna frammentazione.
Rappresentazione artistica dell’esplosione di un ordigno nucleare in prossimità della superficie di un asteroide di grandi dimensioni per attuarne la deflessione orbitale. Crediti: Nasa
I raggi X emessi in un’esplosione nucleare riscalderebbero molto rapidamente la superficie del Nea, vaporizzandola nello spazio e, per “effetto razzo“, questo cambierebbe la direzione di movimento dell’asteroide. Quanto è realistico questo scenario? Si potrebbe davvero deflettere un asteroide dalla sua rotta di collisione con un’esplosione nucleare controllata? Per rispondere a questa domanda, Nathan Moore e colleghi dei Sandia National Laboratories di Albuquerque (Usa), per mezzo di esperimenti di laboratorio, hanno recentemente riprodotto l’effetto di un ordigno nucleare che esploda in prossimità della superficie di un asteroide.
Non è la prima volta che vengono condotti esperimenti di questo tipo, ma è la prima volta che si è misurato l’impulso dovuto anche ai getti di materiale vaporizzato dalla superficie, dopo l’esposizione ai raggi X. Per la generazione del fascio di raggi X è stata usata la Z machine che si trova presso gli stessi Sandia National Laboratories, un’apparecchiatura progettata per testare i materiali in condizioni di temperatura e pressione estreme. Per generare i raggi X usati nell’esperimento è stato portato allo stato di plasma un gas di argon, ottenendo così raggi X da 3-4 keV emessi nella ricombinazione fra ioni ed elettroni. L’impulso di raggi X dopo pochi nanosecondi ha colpito due modelli di asteroidi costituiti da sottili dischi del diametro di 12 mm sospesi nel vuoto tramite un sottilissimo foglio metallico: un campione era costituito da quarzo, mentre l’altro era fatto di silice fusa. All’arrivo dei raggi X il primo a essere vaporizzato è il foglio metallico che sostiene il campione, che si trova improvvisamente sospeso nel vuoto e di cui si può misurare il rinculo per effetto della pressione di radiazione dei raggi X e della vaporizzazione del materiale superficiale. Anche se il target, dopo la rottura del foglio metallico che lo sostiene, inizia a cadere la durata dell’esperimento è di soli 20 μs e in questo brevissimo lasso di tempo si sposta di soli 2 nm, una quantità del tutto trascurabile.
In entrambi gli esperimenti, Moore e colleghi hanno osservato gli impulsi di raggi X riscaldare la superficie dei target, con conseguente emissione di getti di materiale vaporizzato che hanno generato una velocità di rinculo di circa 69,5 m/s e 70,3 m/s, rispettivamente. Questo esperimento rappresenta una versione in scala ridotta di uno scenario di deflessione orbitale di un asteroide utilizzando raggi X generati da un’esplosione nucleare a distanza ravvicinata, ma per vedere se è realmente utile bisogna riscalarlo alle dimensioni di un vero asteroide. Supponendo di voler cambiare la velocità di un asteroide di circa 0,04 km/h (che è il valore tipico richiesto per la difesa planetaria), facendo detonare un ordigno nucleare con un’energia di 1 Mt a una distanza dalla superficie dell’asteroide pari al raggio e applicando i valori della velocità di rinculo misurati in laboratorio, si trova che si riescono a deflettere asteroidi fino a circa 3-4 km di diametro, praticamente tutti quelli pericolosi se si considera che i Nea con più di un km di diametro sono solo mille e il loro numero è completo al 95 per cento. Con futuri esperimenti verranno studiati altri materiali, diverse strutture del bersaglio e impulsi di raggi X, poiché il getto di materiale vaporizzato dipende dalla composizione chimica dell’asteroide, ma il risultato è abbastanza chiaro: con un opportuno preavviso è possibile deflettere anche asteroidi di grandi dimensioni usando ordigni nucleari da far esplodere in prossimità dell’asteroide senza mandarlo in frantumi. Una speranza in più, non per il pianeta Terra, ma per la nostra specie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “Simulation of asteroid deflection with a megajoule-class X-ray pulse”, di Nathan W. Moore, Mikhail Mesh, Jason J. Sanchez, Marc-Andre Schaeuble, Chad A. McCoy, Carlos R. Aragon, Kyle R. Cochrane, Michael J. Powell e Seth Root
Febbre alle stelle: come misurarla con precisione
La temperatura di una stella è tutt’altro che uniforme: varia sia sulla sua superficie che nel tempo. Ora una tecnica innovativa sviluppata da Étienne Artigau dell’UdeM e dal suo team permette di seguire questi cambiamenti con una precisione senza precedenti. Crediti: Benoit Gougeon/UdeM
Gli astronomi studiano le stelle osservando i diversi colori della luce che emettono, colori che catturano e analizzano con la spettroscopia. Ora un team guidato da Étienne Artigau dell’Università di Montréal ha sviluppato una tecnica che utilizza lo spettro di una stella per tracciare le variazioni della sua temperatura al decimo di grado Celsius, su una serie di scale temporali.
«Seguendo la temperatura di una stella, possiamo imparare molto su di essa, come il suo periodo di rotazione, la sua attività stellare, il suo campo magnetico», spiega Artigau. «Una conoscenza così dettagliata è essenziale anche per trovare e studiare i suoi pianeti».
In un articolo che sarà presto pubblicato su The Astronomical Journal, Artigau e il suo team dimostrano l’efficacia e la versatilità della tecnica utilizzando le osservazioni di quattro stelle molto diverse effettuate con il Canada-France-Hawaii Telescope alle Hawaii e con il telescopio da 3,6 metri dell’European Southern Observatory (Eso) a La Silla, in Cile.
Gli scienziati hanno prima rivolto la loro attenzione agli spettri stellari per migliorare l’individuazione degli esopianeti utilizzando la velocità radiale. Questo metodo misura le lievi oscillazioni di una stella generate dall’attrazione gravitazionale di un pianeta in orbita. Più grandi sono le oscillazioni, più grande è il pianeta. Ma è difficile rilevare oscillazioni molto piccole e di conseguenza pianeti di bassa massa. Per superare questo problema, Artigau e il suo team hanno sviluppato una tecnica che sfrutta il metodo della velocità radiale e che analizza l’intero spettro di una stella e non solo alcune porzioni, come fatto in precedenza. In questo modo è possibile individuare pianeti piccoli come la Terra che orbitano attorno a stelle di piccole dimensioni. Artigau ha poi avuto l’idea di utilizzare una strategia simile per rilevare non solo le variazioni delle oscillazioni di una stella, ma anche la sua temperatura.
Le misurazioni della temperatura sono fondamentali nella ricerca di esopianeti, che vengono per lo più osservati indirettamente seguendo da vicino la loro stella. Negli ultimi anni, gli astronomi hanno dovuto affrontare un grosso ostacolo: come distinguere tra gli effetti osservabili di una stella e quelli dei suoi pianeti. Questo è un problema sia nella ricerca di esopianeti utilizzando la velocità radiale sia nello studio delle loro atmosfere utilizzando la spettroscopia di transito. «È molto difficile confermare l’esistenza di un esopianeta o studiarne l’atmosfera senza una conoscenza precisa delle proprietà della stella ospite e di come variano nel tempo», spiega Charles Cadieux, dottorando dell’Irex che ha contribuito allo studio. «Questa nuova tecnica ci fornisce uno strumento prezioso per garantire la solidità delle nostre conoscenze sugli esopianeti e per avanzare nella caratterizzazione delle loro proprietà».
La temperatura superficiale di una stella è una proprietà fondamentale su cui gli astronomi fanno affidamento perché può essere utilizzata per determinare la luminosità e la composizione chimica della stella. Nel migliore dei casi, la temperatura esatta di una stella può essere conosciuta con una precisione di circa 20 gradi Celsius. Tuttavia, la nuova tecnica non misura le temperature esatte, ma le variazioni di temperatura nel tempo, che può determinare con notevole precisione.
«Non possiamo dire se una stella ha 5.000 o 5.020 gradi Celsius, ma possiamo determinare se è aumentata o diminuita di un grado, anche di una frazione di grado: nessuno l’ha mai fatto prima», afferma Artigau. «È una sfida rilevare variazioni di temperatura così minime nel corpo umano, quindi immaginate cosa sia per una sfera gassosa con una temperatura di migliaia di gradi situata a decine di anni luce di distanza».
Per dimostrare che la tecnica funziona, i ricercatori hanno utilizzato le osservazioni effettuate con lo spettrografo SpiRou del Canada-France-Hawaii Telescope e con lo spettrografo Harps del telescopio da 3,6 metri dell’Eso. Nei dati acquisiti da questi due telescopi per quattro piccole stelle nelle vicinanze del Sole, il team ha potuto osservare chiaramente le variazioni di temperatura, attribuite alla rotazione della stella o a eventi sulla sua superficie o nell’ambiente circostante.
Il gruppo di ricercatori ha rilevato variazioni di temperatura molto ampie in Au Microscopii, una stella molto attiva che è circondata da un disco di polvere e ha almeno un pianeta orbitante. Crediti: Nasa, Esa, Joseph Olmsted (StScI)
La nuova tecnica ha permesso di misurare grandi variazioni di temperatura. Per la stella Au Microscopii, nota per la sua elevata attività stellare, il team ha registrato variazioni di quasi 40 gradi Celsius.
Grazie a questa tecnica, è stato possibile misurare non solo i cambiamenti di temperatura molto rapidi associati a brevi periodi di rotazione di pochi giorni, come quelli di Au Microscopii e Epsilon Eridani, ma anche quelli che si verificano in periodi di tempo molto più lunghi, un’impresa difficile per i telescopi a terra.
«Siamo riusciti a misurare cambiamenti di pochi gradi o meno che si verificano su periodi molto lunghi, come quelli associati alla rotazione della stella di Barnard, una stella molto tranquilla che impiega cinque mesi per completare una rotazione completa», spiega Artigau. «Prima avremmo dovuto usare il telescopio spaziale Hubble per misurare una variazione così sottile e lenta».
La nuova tecnica ha anche permesso di rilevare piccole variazioni di temperatura sulla superficie delle stelle. Ad esempio, il team ha rilevato sottili variazioni di temperatura nella stella Hd 189733 in coincidenza con l’orbita del suo esopianeta Hd 189733 b, un gioviano caldo.
I ricercatori dell’UdeM sottolineano che la tecnica funziona non solo con SpiRou e Harps, ma con qualsiasi spettrografo operante nella gamma del visibile o dell’infrarosso. La tecnica innovativa sarà direttamente applicabile alle osservazioni di Nirps, uno spettrografo installato l’anno scorso nel telescopio Eso in Cile. Secondo i ricercatori, sarebbe possibile utilizzare questa tecnica anche con strumenti spaziali, come il James Webb Space Telescope.
«La potenza e la versatilità di questa tecnica ci permette di sfruttare i dati esistenti di numerosi osservatori per rilevare variazioni che in precedenza erano troppo piccole per essere percepite, anche su tempi molto lunghi», conclude Artigau. «Questo apre nuovi orizzonti nello studio delle stelle, della loro attività e dei loro pianeti».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Measuring Sub-Kelvin Variations in Stellar Temperature with High-Resolution Spectroscopy” di Étienne Artigau, Charles Cadieux, Neil J. Cook, René Doyon, Laurie Dauplaise, Luc Arnold, Maya Cadieux, Jean-François Donati, Paul Cristofari, Xavier Delfosse, Pascal Fouqué, Claire Moutou, Pierre Larue, Romain Allart
Campi magnetici nelle bolle di eRosita
Un nuovo studio guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha rivelato importanti novità che potrebbero riscrivere la nostra conoscenza della Via Lattea: un alone galattico magnetizzato. Questa scoperta mette in discussione i modelli precedenti sulla struttura ed evoluzione della nostra galassia. I ricercatori hanno identificato diverse strutture magnetizzate che si estendono ben oltre il piano galattico, raggiungendo altezze superiori a 16mila anni luce. Tali strutture rivelano una delle origini delle cosiddette bolle di eRosita, alimentate su scala galattica da intensi flussi di gas ed energia, generati dalla fine esplosiva delle stelle di grande massa come supernove. Sorprendentemente, queste bolle — osservate dal satellite eRosita (un telescopio a raggi X a bordo della missione spaziale russo-tedesca Spectr-Roentgen-Gamma) — si estendono da un orizzonte all’altro, offrendo le prime misurazioni dettagliate dell’alone magnetico della Via Lattea. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Questa immagine confronta le bolle eRosita a raggi X (in verde) e il campo magnetico nell’alone (in bianco). L’intensità polarizzata per la radiazione di sincrotrone è in rosso. I cerchi celesti sono le bolle di Fermi a raggi gamma. Le creste magnetiche associate alle bolle di Fermi sembrano emanare dal centro galattico. Al contrario, le creste nella regione esterna hanno origine nel disco galattico, a più di diecimila anni luce dal centro galattico. Crediti: H.-S. Zhang (Inaf) et al. 2024, Nature Astronomy
Lo studio rivela che i campi magnetici all’interno di queste bolle formano strutture filamentose che si estendono per una distanza pari a circa 150 volte il diametro della Luna piena, dimostrando la loro immensa scala. I filamenti sono correlati a venti caldi, con una temperatura di 3,5 milioni di gradi, espulsi dal disco galattico e alimentati dalle regioni di formazione stellare.
«I nostri risultati indicano che l’intensa formazione stellare alla fine del centro galattico contribuisce in modo significativo a questi ampi deflussi multifase», sottolinea He-Shou Zhang, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf di Milano. »Questo lavoro fornisce le prime misurazioni dettagliate dei campi magnetici nell’alone della Via Lattea, che emette raggi X e svela nuove connessioni tra le attività di formazione stellare e i deflussi galattici. I nostri risultati mostrano che le creste magnetiche osservate non sono semplici strutture casuali, ma sono strettamente legate alle regioni di formazione stellare della nostra galassia».
Il team di ricerca ha sfruttato l’intero spettro elettromagnetico, coprendo frequenze dalle onde radio ai raggi gamma, per analizzare queste strutture usando più di dieci diverse indagini all-sky. Un approccio così dettagliato ha permesso di confermare la natura estesa di queste strutture magnetiche. In particolare, lo studio rappresenta la prima evidenza osservativa che collega l’anello di formazione stellare della Via Lattea, situato alla fine del centro Galattico, alla produzione di deflussi su larga scala.
«Questo studio rappresenta un significativo passo avanti nella nostra comprensione della Via Lattea», dice Gabriele Ponti, ricercatore Inaf a Milano. «È ormai ben noto che una piccola frazione di galassie “attive” può generare deflussi di materia alimentati dall’accrescimento su buchi neri supermassicci o da eventi di formazione stellare intensi, che influenzano profondamente la loro galassia ospite. Si ritiene che tali deflussi siano elementi fondamentali per regolare la crescita delle galassie e dei buchi neri al loro centro. Ciò che trovo affascinante in questo caso è notare che anche la Via Lattea, una galassia quiescente come molte altre, può espellere potenti deflussi, e in particolare che l’anello di formazione stellare alla fine del centro rotazionale contribuisce significativamente al flusso galattico. Forse la Via Lattea ci sta svelando un fenomeno comune nelle galassie simili alla nostra, aiutandoci così a far luce sulla crescita ed evoluzione di questi oggetti».
«I nostri primi tentativi di confrontare le emissioni dell’intera volta celeste non hanno avuto successo», ricorda spiegando il metodo di ricerca Ettore Carretti, ricercatore Inaf a Bologna, «poiché le emissioni provenienti dalle strutture locali spesso si sovrapponevano a queste strutture più grandi. Tuttavia, abbiamo dedicato molto tempo all’uso di osservazioni multi-lunghezza d’onda per misurare le distanze delle creste magnetiche e delle bolle di eRosita che emettono raggi X. L’analisi teorica per comprendere queste strutture, che emettono in modo termico e non-termico nell’alone galattico, è stata anch’essa molto complessa, richiedendo conoscenze sui deflussi galattici, sui campi magnetici e sul trasporto e l’accelerazione dei raggi cosmici. Fortunatamente, la nostra collaborazione include esperti di livello mondiale in tutti questi campi».
«Il nostro lavoro», conclude He-Shou Zhang, «è il primo studio multi-lunghezza d’onda completo sulle bolle di eRosita dalla loro scoperta nel 2020. Lo studio apre nuove frontiere nella nostra comprensione dell’alone galattico e contribuirà ad approfondire la nostra conoscenza del complesso e impetuoso ecosistema di formazione stellare della Via Lattea».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A magnetised Galactic halo from inner Galaxy outflows”, di He-Shou Zhang, Gabriele Ponti, Ettore Carretti, Ruo-Yu Liu, Mark R. Morris, Marijke Haverkorn, Nicola Locatelli, Xueying Zheng, Felix Aharonian, Haiming Zhang, Yi Zhang, Giovanni Stel, Andrew Strong, Micheal Yeung e Andrea Merloni
Eclissi, ecco come tracciare i margini dell’ombra
Una mappa che mostra l’umbra (l’ombra centrale della Luna) mentre passa sopra Cleveland alle 15:15 ora locale durante l’eclissi solare totale dell’8 aprile 2024. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright e Michaela Garrison
Una nuova ricerca della Nasa pubblicata su The Astronomical Journal descrive un processo per generare mappe di eclissi estremamente accurate, nelle quali è tracciato il percorso previsto dell’ombra della Luna mentre attraversa la faccia della Terra. Tradizionalmente, i calcoli delle eclissi presuppongono che tutti gli osservatori si trovino a livello del mare e che la Luna sia una sfera liscia perfettamente simmetrica intorno al suo centro di massa. In quanto tali, questi calcoli non tengono conto delle diverse altitudini sulla Terra o della superficie irregolare della Luna, piena di crateri.
Per ottenere mappe più precise, si possono utilizzare tavole altimetriche e tracciati del bordo lunare, ossia del bordo della superficie visibile della Luna vista dalla Terra. Tuttavia, ora i calcoli delle eclissi sono diventati ancora più precisi grazie all’integrazione dei dati topografici lunari provenienti dalle osservazioni di Lro (Lunar Reconnaissance Orbiter) della Nasa, in orbita lunare dal 2009 a una distanza dalla superficie di circa 200 chilometri.
Viste da dietro la Luna, le immagini del Sole proiettate dalle valli lunari sul bordo della Luna cadono sulla superficie terrestre in un disegno simile a un fiore con un buco al centro, creando la forma dell’umbra. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright
Utilizzando le mappe altimetriche di Lro, Ernie Wright del Goddard Space Flight Center ha creato un profilo del bordo lunare che varia continuamente al passaggio dell’ombra della Luna sulla Terra, durante le eclissi. Le montagne e le valli lungo il bordo del disco lunare influenzano i tempi e la durata della totalità di diversi secondi. Wright ha anche utilizzato diversi set di dati della Nasa per fornire una mappa altimetrica della Terra, in modo che le posizioni degli osservatori dell’eclissi fossero rappresentate alla loro vera altitudine.
Le visualizzazioni che ne derivano mostrano qualcosa di mai visto prima: la forma reale e variabile nel tempo dell’ombra della Luna, con gli effetti di un bordo lunare realistico e del terreno terrestre. «A partire dall’eclissi solare totale del 2017, abbiamo pubblicato mappe e filmati delle eclissi che mostrano la vera forma dell’ombra centrale della Luna – l’umbra», dice Wright. «E la gente continua a chiedersi: perché assomiglia a una patata invece che a un ovale liscio? La risposta breve è che la Luna non è una sfera perfettamente liscia».
Simulazione al computer delle perle di Baily durante un’eclissi solare totale. I dati del Lunar Reconnaissance Orbiter consentono di mappare le valli lunari che creano l’effetto perline. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright
Le montagne e le valli intorno al bordo della Luna modificano la forma dell’ombra. Le valli sono anche responsabili delle perle di Baily e dell’anello di diamante, gli ultimi frammenti di Sole visibili poco prima e i primi subito dopo la totalità. Le valli sul bordo della Luna agiscono come pinhole che proiettano le immagini del Sole sulla superficie terrestre. L’umbra è il piccolo buco al centro di queste immagini del Sole proiettate, il luogo dove nessuna delle immagini del Sole arriva. I bordi dell’umbra sono costituiti dai piccoli archi che sono parte dei bordi delle immagini del Sole proiettate.
Questo è solo uno dei numerosi risultati sorprendenti emersi dal nuovo metodo di mappatura delle eclissi descritto nell’articolo. A differenza del metodo tradizionale inventato 200 anni fa, il nuovo metodo sintetizza le mappe delle eclissi un pixel alla volta, nello stesso modo in cui i software di animazione 3D creano le immagini. Lo fa in un modo analogo a quello in cui altri fenomeni complessi, come il tempo atmosferico, vengono modellati al computer, suddividendo il problema in milioni di piccoli pezzi, cosa che i computer sanno fare molto bene e che era inconcepibile 200 anni fa.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “A Raster-oriented Method for Creating Eclipse Maps” di Ernie Wright e C. Alex Young
Guarda il video del Scientific Visualization Studio della Nasa:
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Giovani ammassi stellari come acceleratori
La regione dell’ ammasso stellare Ngc 3603, visto in luce gamma (blu), nell’infrarosso (rosso). È facile notare che le stelle sono circondate da un complesso di gas, segnata da contorni bianchi (a regione HII). Crediti: Peron et al., ApJL, 2024
Gli ammassi di stelle giovani di grande massa sono in grado di accelerare le particelle cosmiche e produrre radiazione ad alta energia. La conferma arriva da uno studio guidato da ricercatori dell’Inaf di Arcetri, pubblicato questo mese su The Astrophysical Journal Letters, che mette in luce una forte correlazione tra le sorgenti gamma osservate dallo strumento Lat a bordo del telescopio spaziale Fermi della Nasa e le regioni di idrogeno ionizzato da giovani stelle massicce.
La radiazione gamma è la banda dello spettro elettromagnetico più estrema a cui abbiamo accesso, superando in energia anche i raggi X. La luce gamma – diversamente dalla radiazione caratteristica di altre frequenze, dall’infrarosso all’ultravioletto – viene prodotta dall’interazione nucleare di particelle altamente energetiche con il mezzo interstellare. Queste particelle, dopo essere state accelerate, viaggiano all’interno della nostra galassia arrivando fino a noi sulla Terra, dove sono note come raggi cosmici, la cui provenienza è uno degli enigmi più grandi dell’astrofisica delle alte energie. Studiare le sorgenti dei raggi gamma serve anche a capire quale sia l’origine dei raggi cosmici.
Gli ammassi stellari, nelle prime fasi della loro vita, si trovano racchiusi nel “nido” di gas e polvere interstellare dal quale si formano, e considerato che il gas che li racchiude è molto denso, le sue stelle non sono osservabili nella banda visibile dello spettro elettromagnetico. Poiché però la luce delle stelle viene assorbita dal gas e dalla polvere, la possiamo osservare come una bolla di luce infrarossa, nota come regione H II, che di fatto fa da tracciatore di stelle giovani e massicce spesso altrimenti invisibili.
Nonostante la correlazione tra gli ammassi stellari e i raggi cosmici non sia una novità, una chiara rilevazione dell’emissione di raggi gamma da questa classe di sorgenti è stata finora possibile solo in casi molto limitati. Questo fatto potrebbe essere dovuto a due motivi diversi: o perché gli ammassi stellari rilevabili sono solo una piccola frazione degli ammassi stellari galattici, o perché la frazione di quelli che emettono raggi gamma non sono riconosciuti come tali e quindi sono classificati come sorgenti non identificate.
Il nuovo studio prende in considerazione proprio quest’ultimo scenario, mettendo a confronto i cataloghi disponibili di ammassi stellari e delle regioni H II ottenuti dalle osservazioni di due satelliti – l’europeo Gaia e Wise (Wide-field Infrared Survey Explorer) della Nasa – con i cataloghi di raggi gamma ricavati a partire dai dati raccolti da Fermi-Lat, sempre dallo spazio, e da terra dai telescopi Cherenkov Hess e dall’esperimento cinese Lhaaso (Large High Altitude Air Shower Observatory).
La correlazione tra questi cataloghi è stata poi confrontata con le simulazioni, da cui è emersa una forte correlazione tra le sorgenti non identificate di Fermi-Lat e le regioni H II. [color="#000000"]Proprio la giovane età degli ammassi [/color]porta ad escludere che [color="#000000"]la radiazione gamma sia dovuta alla presenza di resti supernove[/color], che si originano dall’esplosione di stelle vecchie almeno tre milioni di anni. Escluse le supernove, l’unica altra fonte di energia è costituita dai venti delle stelle massicce che, producendo shock, possono accelerare particelle e produrre emissioni di raggi gamma almeno fino alle energie nell’ordine dei gigaelettronvolt (GeV).
Giada Peron, prima autrice dello studio pubblicato su ApJL sugli ammassi stellari come acceleratori di raggi cosmici. Crediti: Inaf
«Tra i telescopi gamma c’è Fermi-Lat, un satellite che ha individuato finora migliaia di sorgenti in tutto il cielo. Tra queste troviamo resti di supernove e stelle di neutroni, note sorgenti di raggi cosmici che però da sole non bastano a spiegare tutte le proprietà che misuriamo dei raggi cosmici», spiega la prima autrice dello studio, Giada Peron dell’Inaf di Arcetri. «Allo stesso tempo, la maggior parte delle sorgenti individuate da Fermi-Lat non non sono associate a sorgenti note e per questo motivo abbiamo cercato di andare oltre le sorgenti “classiche” di raggi gamma, concentrandoci sugli ammassi stellari. Abbiamo cercato quindi se ci fosse una correlazione tra sorgenti gamma non identificate di Fermi-Lat e giovani ammassi stellari, producendo un risultato positivo», sottolinea la ricercatrice. «Il nostro studio rivela che 138 sorgenti Fermi (circa il sette per cento) sono potenzialmente connesse a giovani ammassi stellari in regioni H II».
«Dal punto di vista teorico ci aspettavamo che gli ammassi stellari fossero in grado di accelerare particelle, perché questi producono forti venti che creano le condizioni ideali per avere onde d’urto in grado di accelerare le particelle», aggiunge Giovanni Morlino dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «Dal punto di vista osservativo, però, si conoscono ancora pochi ammassi brillanti in banda gamma nonostante questi oggetti siano molto numerosi nella nostra galassia (se ne stimano migliaia). La maggior parte degli studi però si è concentrata sugli ammassi visibili nell’ottico, mentre gli ammassi giovanissimi sono nascosti dentro le nubi H II. La grande novità è stata proprio quella di cercare le controparti delle sorgenti gamma dalla popolazione di regioni H II piuttosto che dalle stelle».
«L’interesse per gli ammassi stellari che emettono raggi gamma», ricorda Morlino, «è aumentato enormemente nella nostra comunità negli ultimi anni dopo che sono stati proposti come importanti acceleratori dei raggi cosmici galattici, secondi solo ai resti di supernova». I resti di supernova sono infatti considerati finora i principali acceleratori di raggi cosmici galattici, sia per la frequenza di esplosione che per l’energia rilasciata. Tuttavia, non sembrano in grado di coprire tutte le proprietà osservate dei raggi cosmici, sia dal punto di vista della distribuzione energetica – la massima energia raggiunta dall’accelerazione in resti di supernova è più bassa di quella che si osserva nei raggi cosmici – sia dal punto di vista della composizione chimica, perché tra i raggi cosmici sono stati rilevati elementi che non sono prodotti solitamente nelle supernove, ma sono invece abbondanti nei venti stellari.
«Alcuni studi pilota indicano che la frazione di raggi cosmici prodotti da venti stellari si aggira tra l’uno e il sedici per cento, una frazione piccola ma sufficiente a compensare le anomalie di composizione chimica osservate. Tutto questo però ha bisogno di conferme dalle osservazioni», conclude Peron,«e le osservazioni gamma sono una prova diretta» .
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “On the Correlation between Young Massive Star Clusters and Gamma-Ray Unassociated Sources” di Giada Peron, Giovanni Morlino, Stefano Gabici, Elena Amato, Archana Purushothaman e Marcella Brusa
Lo spazio attraverso la lente Carosello
La lente Carosello, vista attraverso il telescopio spaziale Hubble. Crediti: William Sheu/Ucla
Con una scoperta rara e straordinaria, un gruppo di ricercatori ha identificato una configurazione unica di galassie che rappresenta la lente gravitazionale più allineata di sempre. L’hanno chiamata Carosello e permetterà di approfondire i misteri del cosmo, tra cui la materia e l’energia oscura.
La luce emessa da oggetti lontani, quando passa attraverso lo spaziotempo distorto da galassie o ammassi di galassie più vicini, può essere amplificata e curvata. In rari casi, gli oggetti si allineano (rispetto a noi, che li stiamo osservando) quasi perfettamente per formare una cosiddetta lente gravitazionale forte.
Grazie all’abbondanza di nuovi dati provenienti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi) Legacy Imaging Surveys, alle recenti osservazioni del telescopio spaziale Hubble e al supercomputer Perlmutter del National Energy Research Scientific Computing Center (Nersc), i ricercatori si sono basati su studi precedenti (del maggio 2020 e del febbraio 2021) per identificare probabili candidati di lenti gravitazionali forti.
«Il nostro team ha cercato lenti forti e ha modellato i sistemi più validi», spiega Xiaosheng Huang, coautore dello studio e membro del Supernova Cosmology Project del Berkeley Lab, nonché professore di fisica e astronomia all’Università di San Francisco. «La lente Carosello è un incredibile allineamento di sette galassie in cinque raggruppamenti che si allineano quasi perfettamente dietro la lente dell’ammasso in primo piano. Quando appaiono attraverso la lente, le immagini multiple di ciascuna galassia sullo sfondo formano schemi circolari approssimativamente concentrici intorno alla lente in primo piano, come in un carosello. È una scoperta senza precedenti e il modello computazionale generato mostra una prospettiva molto promettente per la misurazione delle proprietà del cosmo, comprese quelle della materia oscura e dell’energia oscura».
«Si tratta di un “allineamento galattico” incredibilmente fortunato: un allineamento casuale di più galassie su una linea di vista che copre la maggior parte dell’universo osservabile», dichiara David Schlegel, coautore dello studio del Berkeley Lab. «Trovare uno di questi allineamenti è come trovare un ago in un pagliaio. Trovarli tutti è come trovare otto aghi allineati con precisione all’interno di quel pagliaio».
La lente Carosello è composta da un ammasso di galassie in primo piano (la lente) e da sette galassie sullo sfondo che coprono distanze cosmiche immense e che sono viste attraverso lo spaziotempo distorto gravitazionalmente intorno alla lente. La vedete nell’immagine riportata sotto, dove trovate anche delle etichette a indicare le varie galassie.
Immagine del telescopio spaziale Hubble della lente Carosello, ripresa in due esposizioni di 10 minuti, una con filtro ottico e l’altra con filtro infrarosso. Gli indicatori “L” vicino al centro (La, Lb, Lc e Ld) indicano le galassie più massicce dell’ammasso, situate a 5 miliardi di anni luce di distanza. Sette galassie (numerate da 1 a 7) – situate tra 2,6 e 7 miliardi di anni luce di distanza dalla lente – appaiono in iterazioni multiple e distorte (indicate dall’indice delle lettere di ciascun numero, ad esempio da “a” a “d”), viste attraverso la lente. Crediti: William Sheu (Ucla), Hst
L’ammasso della lente, a 5 miliardi di anni luce dalla Terra, è rappresentato dalle quattro galassie più luminose e massicce (indicate con La, Lb, Lc e Ld), che costituiscono il primo piano dell’immagine. Attraverso la lente appaiono sette galassie (numerate da 1 a 7), che si trovano molto lontano, a distanze comprese tra 7,6 e 12 miliardi di anni luce dalla Terra.
Le apparizioni ripetute di ciascuna galassia (indicate dalla lettera accanto a ciascun numero, ad esempio da “a” a “d”) mostrano differenze nella loro forma, curvandosi e allungandosi come se venissero riflesse da quei divertenti specchi deformanti che si trovano al luna park, causata in questo caso dalla deformazione dello spaziotempo intorno alla lente.
Se guardate con attenzione e cercate le varie immagini di una stessa galassia, vedrete che ce né una in particolare – la numero 4, con le apparizioni multiple 4a, 4b, 4c e 4d – che forma una Croce di Einstein – la più grande finora conosciuta. Questa rara configurazione di immagini multiple intorno al centro della lente è un’indicazione della distribuzione simmetrica della massa della lente (dominata dalla materia oscura invisibile) e gioca un ruolo chiave nel processo di modellazione della lente.
La lente Carosello consentirà ai ricercatori di studiare l’energia oscura e la materia oscura in modi completamente nuovi, grazie alla forza dei dati osservativi e del modello computazionale. «È un allineamento estremamente insolito, che di per sé fornirà un banco di prova per gli studi cosmologici», osserva Nathalie Palanque-Delabrouille, direttore della Divisione di Fisica del Berkeley Lab. «Mostra anche come l’imaging realizzato per Desi possa essere sfruttato per altre applicazioni scientifiche», come ad esempio l’indagine dei misteri della materia oscura e dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, guidata dall’energia oscura.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Carousel Lens: A Well-modeled Strong Lens with Multiple Sources Spectroscopically Confirmed by VLT/MUSE” di William Sheu, Aleksandar Cikota, Xiaosheng Huang, Karl Glazebrook, Christopher Storfer, Shrihan Agarwal, David J. Schlegel, Nao Suzuki, Tania M. Barone, Fuyan Bian, Tesla Jeltema, Tucker Jones, Glenn G. Kacprzak, Jackson H. O’Donnell e Keerthi Vasan G. C.
Buchi neri intermittenti tredici miliardi di anni fa
Era la primavera del 1990, la nazionale italiana di calcio si accingeva a giocare il secondo mondiale casalingo e intanto lo Shuttle Discovery si staccava dall’atmosfera trasportando uno speciale fardello, depositato nell’orbita terrestre e destinato all’osservazione del cosmo. Da allora – o per essere precisi dal 1993, quando con una delicata operazione si pose rimedio a un difetto delle ottiche – il telescopio Hubble ci ha regalato vedute straordinarie dell’universo. Nell’ultimo paio d’anni bisognerà ammettere che la grazia delle sue immagini ha subito un duro colpo, infertole dagli eccezionali panorami cosmici immortalati dal telescopio James Webb. Nello scrutare le parvenze di certe galassie lontane con i due strumenti si potrebbero provare sensazioni affini a quelle che si sperimentano in un negozio di elettronica comparando un televisore HD con un 4K. Eppure, nonostante i fisiologici acciacchi accumulati nella trentennale rivoluzione attorno al nostro pianeta, Hubble continua ad essere uno strumento estremamente utile per gli astronomi e di recente è stato protagonista di un’importante scoperta.
Immagine dell’Hubble Ultra Deep Field realizzata nel 2023 (cliccare per ingrandire). Nel pannello è visibile uno zoom su due galassie. La regione luminosa indicata si è “accesa” a seguito dell’accrescimento di materiale su un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa, Esa, Matthew Hayes; Ringraziamenti: Steven V.W. Beckwith (Uc Berkeley), Garth Illingworth (Uc Santa Cruz), Richard Ellis (Ucl); Editing dell’immagine: Joseph DePasquale (Stsci)
Alcuni ricercatori guidati da Matthew Hayes dell’Università di Stoccolma si sono accorti che nell’universo lontano ci sarebbero più buchi neri di quel che si credeva in passato. La scoperta è stata compiuta confrontando alcune immagini dell’Hubble Ultra Deep Field, una piccola regione nella costellazione della Fornace che è stata osservata ripetutamente da Hubble nel corso degli anni e tra le meglio studiate dell’universo. Gli scienziati hanno utilizzato le immagini ottenute nel vicino infrarosso dalla Wide Field Camera 3, strumento a bordo di Hubble, in tre anni diversi: 2009, 2012 e 2023. Una settantina di sorgenti hanno destato l’attenzione degli astronomi, in quanto presentano una vistosa variazione della brillantezza nelle immagini realizzate in tempi diversi. I ricercatori si sono soffermati in particolare su tre oggetti, che rappresenterebbero possibili buchi neri in fase di accrescimento, osservati quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni. Il cambiamento di luminosità sarebbe dovuto niente meno che a delle variazioni nel tasso di accrescimento di materiale che precipita sul buco nero. La materia, cadendo su un buco nero, si scalda emettendo radiazione. Solo che un buco nero, nel corso della sua esistenza, può ricevere più o meno materiale, accendendosi e spegnendosi a intermittenza. A questa sorta di “dieta intermittente” sarebbero dunque imputabili le variazioni di brillantezza osservate nelle immagini. I risultati della ricerca sono stati pubblicati il mese scorso su The Astrophysical Journal Letters.
Il numero di buchi neri individuati con questa tecnica risulta maggiore rispetto a quello osservato nella stessa epoca da altri studi, che hanno però impiegato metodologie differenti per individuare i buchi neri in attività. Il nuovo studio consente in particolare di porre dei vincoli ai modelli sulla formazione dei primi buchi neri. Nell’universo si osservano infatti buchi neri supermassicci grossi quanto miliardi di soli meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Diversi scenari sono stati proposti per spiegare tali stazze poderose in epoche tanto remote. Secondo gli autori di questo studio, lo scenario che meglio si accorderebbe ai dati osservati è quello che vedrebbe i primi buchi neri come il prodotto del collasso di stelle antichissime, estremamente massicce e costituite solo da idrogeno e elio – le famigerate quanto elusive stelle di popolazione III. «Il meccanismo di formazione dei primi buchi neri è un pezzo importante del puzzle dell’evoluzione delle galassie» dice Hayes. E aggiunge: «Assieme ai modelli sulla crescita dei buchi neri, i calcoli sull’evoluzione della galassie possono essere ora ancorati a una base maggiormente motivata fisicamente, con uno schema accurato su come i buchi neri vengano alla luce dal collasso delle stelle massicce».
La tecnica adottata nello studio non è esente da incertezze. Le supernove sono in agguato come possibili contaminanti. L’esplosione di una stella può infatti produrre variazioni nelle immagini simili a quelle studiate da Hayes e collaboratori. Non a caso, diverse supernove sono state individuate fra i settanta oggetti inizialmente selezionati dagli astronomi. Gli autori dello studio sostengono che è altamente improbabile che i tre oggetti siano supernove. Un altro aspetto delicato riguarda la stima delle distanze. Solo per uno dei tre oggetti è infatti disponibile un redshift spettroscopico, che fornisce una stima estremamente accurata della distanza e dunque dell’epoca cosmica da cui proviene. Più incerte sono invece le informazioni sulle altre sorgenti.
Il lavoro è stato possibile in virtù della longevità di Hubble, che ha consentito di confrontare immagini realizzate dal telescopio spaziale a quindici anni di distanza. Con Webb uno studio del genere sarebbe attualmente difficile da realizzare, in quanto solo poco più di due anni sono trascorsi dalle prime immagini, un tempo scala troppo breve per apprezzare variazioni significative nella luce prodotta durante l’accrescimento sui buchi neri più remoti. L’esperienza paga insomma. Tra un po’ di anni gli astronomi si augurano di poter ripetere la ricerca utilizzando il telescopio Webb, per stanare i buchi neri attivi più deboli con la stessa tecnica. Nel frattempo, immagini di altre regioni del cosmo immortalate da Hubble sono pronte per essere scandagliate.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Glimmers in the Cosmic Dawn: A Census of the Youngest Supermassive Black Holes by Photometric Variability” di Matthew J. Hayes, Jonathan C. Tan, Richard S. Ellis, Alice R. Young, Vieri Cammelli, Jasbir Singh, Axel Runnholm, Aayush Saxena, Ragnhild Lunnan, Benjamin W. Keller, Pierluigi Monaco, Nicolas Laporte e Jens Melinder
Il sorriso di Arp 107
Un’interazione tra una galassia ellittica e una galassia a spirale – una strana coppia nota come Arp 107, il centosettesimo oggetto dell’Atlante delle galassie peculiari di Halton Arp – sembra aver dato alla spirale un aspetto più felice, grazie a due “occhi” luminosi e a un ampio “sorriso”.
Questa immagine composita di Arp 107, creata con i dati della NirCam (Near-Infrared Camera) e del Miri (Mid-Infrared Instrument) del James Webb Space Telescope, rivela una grande quantità di informazioni sulla formazione delle stelle e su come queste due galassie si sono scontrate centinaia di milioni di anni fa. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
Arp 107 si trova a 465 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione del Leone minore. La regione era già stata osservata nell’infrarosso dal telescopio spaziale Spitzer della Nasa nel 2005, ma il telescopio spaziale James Webb la mostra ora con una risoluzione molto più alta. L’immagine che vedete qui combina le osservazioni dello strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) e della NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb.
NirCam evidenzia le stelle all’interno di entrambe le galassie e rivela il collegamento tra esse: un ponte bianco e velato di stelle e gas estratti da entrambe le galassie durante il loro avvicinamento. I dati di Miri, rappresentati in rosso-arancio, mostrano le regioni di formazione stellare e la polvere composta da molecole organiche simili a fuliggine, gli idrocarburi policiclici aromatici. Miri fornisce anche un’istantanea del nucleo luminoso della grande spirale, che ospita un buco nero supermassiccio.
Questa immagine di Arp 107, mostrata dallo strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) di Webb, rivela il buco nero supermassiccio che si trova al centro della grande galassia a spirale sulla destra. Questo buco nero, che trascina gran parte della polvere lungo corsie, mostra anche i caratteristici picchi di diffrazione di Webb, causati dalla luce che emette interagendo con la struttura del telescopio stesso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
La galassia a spirale è classificata come galassia di Seyfert, uno dei due più grandi gruppi di galassie attive, insieme alle galassie che ospitano quasar. Le galassie di Seyfert non sono così luminose e distanti come i quasar, e questo le rende più “comode” da studiare in luce a bassa energia, come gli infrarossi.
Questa coppia di galassie è simile alla Galassia Cartwheel – la Galassia Ruota del Carro – una delle prime galassie interagenti osservate da Webb. Arp 107 potrebbe avere un aspetto molto simile a quello della Cartwheel, ma poiché la galassia ellittica più piccola ha probabilmente subito una collisione decentrata invece di un impatto diretto, la galassia a spirale se l’è cavata con un disturbo ai suoi bracci.
In realtà, la collisione tra galassie non è così grave come sembra. Anche se la formazione stellare era già in corso, le collisioni possono comprimere il gas, migliorando le condizioni necessarie per la formazione di altre stelle. D’altra parte, come rivela Webb, le collisioni disperdono anche molto gas, privando potenzialmente le nuove stelle del materiale di cui hanno bisogno per formarsi.
Webb ha catturato queste galassie nel processo di fusione, che richiederà centinaia di milioni di anni. Man mano che le due galassie si ricostruiscono dopo il caos della collisione, Arp 107 potrebbe perdere il suo sorriso, ma inevitabilmente si trasformerà in qualcosa di altrettanto interessante da studiare per gli astronomi del futuro.
Verso la Luna e oltre con uno scudo di nome Orion
Man mano che ci spingiamo oltre nello spazio, gli astronauti saranno coinvolti in missioni spaziali di durata sempre maggiore. Missioni che presentano numerose sfide, una delle quali è l’esposizione prolungata alle radiazioni presenti nello spazio. A differenza della Terra, che è protetta dal suo campo magnetico e dall’atmosfera, lo spazio interplanetario è infatti un ambiente altamente radioattivo. L’esposizione a tali radiazioni rappresenta un rischio considerevole per la salute dei futuri equipaggi impegnati in missioni a lungo termine, ad esempio sulla Luna e su Marte. Al fine di mitigare questi rischi e garantire la sicurezza degli astronauti, è fondamentale conoscere quali tipi di garanzia offrano tanto i futuri veicoli spaziali che li condurranno verso mete nuove, o già esplorate, quanto i dispositivi di protezione individuale che indosseranno. Per fare ciò, occorre quantificare il livello di radiazioni durante l’intero volo.
Foto scattata il sesto giorno della missione Artemis I che mostra la capsula Orion che incombe sul lato nascosto del nostro satellite. Crediti: Nasa
Tra gli obiettivi di Artemis I, la prima missione senza equipaggio del programma Artemis della Nasa che riporterà l’essere umano sulla Luna, c’era anche questo: misurare l’esposizione alle radiazioni all’interno della capsula Orion per testarne le prestazioni, rendendo possibile per la prima volta la raccolta di dati continui in un viaggio durante un viaggio Terra-Luna. Dlr, Esa, e Nasa di questi esperimenti hanno ora pubblicato i primi risultati su Nature.
Partita dal Kennedy Space Center a bordo del razzo Sls il 16 novembre 2022 e rientrata sulla Terra 25 giorni dopo, l’11 dicembre 2022, dopo aver percorso più di 2.25 milioni di chilometri e fatto due sorvoli della Luna, la missione Artemis I è stata il primo test di volo integrato della capsula Orion, il veicolo spaziale scelto dalla Nasa per trasportare gli astronauti nell’orbita lunare.
Al fine di raccogliere dati sulle radiazioni durante il suo viaggio, la navicella trasportava a bordo una serie di strumenti ed esperimenti utili allo scopo. L’Hybrid Electronic Radiation Assessor (Hera) della Nasa, un rilevatore di particelle cariche, e gli active dosimeters, sensori in grado di registrare un’ampia gamma di energie della radiazione ionizzante, sono tra questi strumenti. Ma non è finita. In apertura abbiamo detto che Artemis I non aveva equipaggio a bordo. In realtà questa affermazione non è del tutto corretta. La capsula Orion non aveva equipaggio umano, ma portava con se tre ospiti inanimati: il manichino Moonikin Campos, che all’interno di Orion occupava il posto del comandante, e due mezzi busti, chiamati Helga e Zohar, realizzati con materiali che imitano ossa, tessuti molli e organi di una donna adulta. Zohar indossava un giubbotto di protezione dalle radiazioni chiamato AstroRad, Helga no. Come parte dell’esperimento Mare, Matroshka AstroRad Radiation Experiment, entrambe avevano rilevatori di radiazioni sulla loro superficie esterna e all’interno degli organi “finti”: i Crew Active Dosimeters (Cad), prodotti dalla Nasa; e i rilevatori M-42, prodotti dal Dlr.
Illustrazione che mostra l’interno della capsula Orion. Crediti: Nasa
Tutti questi strumenti hanno raccolto grandi quantità di dati sui livelli di radiazioni a cui saranno sottoposti in futuro gli astronauti all’interno della capsula Orion. Di questi dati abbiamo ora i risultati delle analisi. Come riportato su Nature, le misurazioni mostrano che l’esposizione alle radiazioni all’interno della capsula Orion variavano in modo significativo a seconda della posizione del rilevatore, con le aree più schermate della navicella capaci di fornire una protezione dalle particelle energetiche delle fasce di Van Allen quattro volte maggiore rispetto a quelle meno schermate, convalidando il progetto di shielding, termine inglese che significa appunto schermatura, della navicella. Anche per quanto riguarda l’esposizione alle particelle energetiche prodotte durante eventi estremi come i brillamenti solari e le espulsioni coronali di massa ci sono buone notizie: nell’area più schermata della capsula le radiazioni sono rimaste sotto i 150 millisievert – l’unità di misura dell’equivalente di dose di radiazione assorbita da tessuti biologici –, un livello di sicurezza tale da prevenire malattie acute da radiazioni. Un altro dato riguarda l’esposizione rispetto all’orientamento della capsula: una virata di 90 gradi durante il flyby di Orion della fascia di Van Allen interna ha ridotto l’esposizione alle radiazioni del 50 per cento, fornendo informazioni preziose per la progettazione di missioni future.
Alla luce di questi risultati, la conclusione degli scienziati è che è improbabile che l’esposizione alle radiazioni nelle future missioni Artemis superi i limiti Nasa per gli astronauti, confermando l’idoneità della navicella Orion per missioni con equipaggio.
Immagine che mostra la posizione dei rilevatori di radiazioni all’interno della capsula Orion e sui due mezzi busti Helga e Zohar. Crediti: Stuart P. George et al., Nature, 2024
Il team congiunto di scienziati Esa, Nasa e Dlr continuerà ad analizzare la mole di dati prodotti dalle misurazioni delle radiazioni acquisite durante i 25 giorni di volo di Artemis I. Il prossimo passo sarà paragonare l’esposizione alle radiazioni tra i manichini Helga, che ha volato senza protezione, e Zohar, che ha indossato il giubbotto AstroRad. Confrontando i due set di dati sarà possibile determinare in che misura il giubbotto proteggerà un’astronauta dall’esposizione a radiazioni nocive.
«La missione Artemis I segna una tappa fondamentale per la comprensione dell’impatto delle radiazioni spaziali sulla sicurezza delle future missioni con equipaggio sulla Luna», sottolinea Sergi Vaquer Araujo, responsabile del team di medicina spaziale presso l’Agenzia spaziale europea. «Grazie ai rilevatori per le radiazioni posizionati in tutta la capsula Orion, stiamo acquisendo preziose conoscenze su come le radiazioni spaziali interagiscono con la schermatura della navicella, sui tipi di radiazioni che penetrano il corpo umano e su quali aree all’interno della navicella offrono la maggiore protezione. Queste conoscenze sono preziose, perché ci permetteranno di stimare con precisione l’esposizione alle radiazioni degli astronauti dell’Esa prima del loro viaggio nello spazio profondo, garantendo la loro sicurezza nelle missioni verso la Luna e oltre».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Space radiation measurements during the Artemis I lunar mission” di Stuart P. George, Ramona Gaza, Daniel Matthiä, Diego Laramore, Jussi Lehti, Thomas Campbell-Ricketts, Martin Kroupa, Nicholas Stoffle, Karel Marsalek, Bartos Przybyla, Mena Abdelmelek, Joachim Aeckerlein, Amir A. Bahadori, Janet Barzilla, Matthias Dieckmann, Michael Ecord, Ricky Egeland, Timo Eronen, Dan Fry, Bailey H. Jones, Christine E. Hellweg, Jordan Houri, Robert Hirsh, Mika Hirvonen, Scott Hovland, Hesham Hussein, A. Steve Johnson, Moritz Kasemann, Kerry Lee, Martin Leitgab, Catherine McLeod, Oren Milstein, Lawrence Pinsky,Phillip Quinn, Esa Riihonen, Markus Rohde, Sergiy Rozhdestvenskyy, Jouni Saari, Aaron Schram, Ulrich Straube, Daniel Turecek, Pasi Virtanen, Gideon Waterman, Scott Wheeler, Kathryn Whitman, Michael Wirtz, Madelyn Vandewalle, Cary Zeitlin, Edward Semones e Thomas Berger
Ileana Chinnici alla guida della Sic
Ileana Chinnici, ricercatrice all’Inaf di Palermo
Si tiene in questi giorni, nella capitale canadese, la 43esima assemblea generale della Scientific Instrument Commission (Sic), una commissione internazionale afferente alla Division of History of Science and Technology (Dhst), parte dell’International Union of History and Philosophy of Science and Technology (Iuphst), organizzazione che, a sua volta, è un’emanazione dell’Unesco. E oggi, venerdì 19 settembre, durante l’assemblea generale, verrà ufficializzata la nomina a presidente della Sic di Ileana Chinnici, ricercatrice dell’Inaf di Palermo. Ruolo che ricoprirà dal 2025 e fino al 2029.
Per promuovere l’interesse per la storia degli strumenti scientifici e far progredire la ricerca, la commissione organizza simposi annuali in diverse parti del mondo, come l’edizione del 2023, che si è tenuta proprio a Palermo, con il tema Through ages, cultures, concepts: instruments in collections, books, archives, e che ha affrontato argomenti quali il multiculturalismo, caratteristica identitaria del capoluogo siciliano.
Fin dal 1952, anno della sua fondazione, la Sic si occupa di preservare e valorizzare le collezioni di strumenti scientifici che hanno fatto la storia della ricerca astronomica custoditi negli storici osservatori astronomici, ma non solo. Rientrano nelle collezioni tutelate e valorizzate dalla commissione, infatti, anche sismografi, strumenti meteorologici, strumenti di fisica, di topografia, ma anche preziosi strumenti per la didattica dell’astronomia come rari globi celesti e terrestri, i planetari o le sfere armillari per lo studio delle meccaniche celesti. Tutti manufatti resi obsoleti nel tempo dal progresso scientifico, e che una volta in disuso venivano spesso abbandonati al degrado. Come spiega a Media Inaf Ileana Chinnici, intervistata in occasione della sua nomina.
Perché studiare gli strumenti scientifici storici?
«Oggi finalmente si è compreso che gli strumenti scientifici storici sono beni culturali a tutti gli effetti e vanno preservati come tali. La Sic incoraggia l’utilizzo di queste collezioni per ricerche nel campo della storia della scienza, in genere presentate durante il proprio simposio annuale».
Cosa rappresenta per lei questa nomina?
«Per me è una responsabilità di cui avverto l’onore e l’onere. Molti dei miei predecessori sono stati autorità indiscusse e persone di riferimento in questo campo, ed è facile sentirsi inadeguati al confronto, ma so che posso contare sul loro luminoso esempio come fonte di ispirazione per svolgere al meglio questo servizio. L’essere poi la prima italiana e ricoprire questo ruolo mi sembra anche un riconoscimento all’impegno profuso dal nostro Paese nel riordino di queste collezioni nelle università, nelle scuole, nei laboratori. Certamente, nel 1995, quando partecipai al mio primo Sic Symposium, a Praga, da semplice borsista, presentando un poster (era la prima volta che partecipavo a un convegno internazionale), mai avrei pensato che un giorno avrei presieduto la Sic. Ma le radici di questo frutto sono proprio nel lavoro pionieristico fatto a Palermo sulla catalogazione degli strumenti dell’Osservatorio sotto la guida di Giorgia Foderà, dell’Università di Palermo. Da lei ho appreso la passione per gli strumenti scientifici storici che mi ha sempre accompagnato».
Quante persone fanno parte della commissione e di quali Paesi?
«La Sic ha una struttura molto flessibile e inclusiva. È sufficiente partecipare al simposio annuale per diventarne membri. L’anno scorso abbiamo avuto circa 200 partecipanti da 13 paesi di tutti i continenti. È preciso obiettivo della Sic allargare il più possibile la propria community e offrire uno spazio di confronto e di collaborazione sulle tematiche inerenti agli strumenti storici, al di là di possibili barriere geografiche, ideologiche e culturali, per preservare il patrimonio comune».
Quanti erano i candidati per la posizione di presidente?
«In teoria, ogni membro è un candidato eleggibile. Tuttavia, il board uscente in genere dà dei suggerimenti. Quando l’anno scorso il presidente uscente mi chiese la disponibilità a candidarmi, ho esitato, pensando che molti altri colleghi potevano svolgere questo servizio meglio di me. Poi però si è fatta la scelta di presentare una sola candidatura, votando tutto il board insieme. Con un unico voto, quindi, sono stati votati anche il segretario e la tesoriera. Trattandosi di colleghi che stimo molto, questo mi ha incoraggiato».
Quanti strumenti sono stati censiti e vengono tutelati dalla Sic?
«La Sic non si occupa di censire direttamente le collezioni, ma agisce su segnalazione dei propri membri o di altri. Quando c’è una collezione in pericolo o non valorizzata, interviene sollecitando le autorità competenti. L’anno scorso, ad esempio, è intervenuta nel caso della collezione di chimica dell’Università di Palermo raccomandando che fosse resa accessibile. Il Sistema museale di ateneo (Simua) ha recepito la raccomandazione e quest’anno la collezione ha un responsabile ed è visitabile su richiesta».
Qual è il suo strumento preferito e perché?
«Sono molto affezionata al telescopio equatoriale Merz di Palermo: è uno strumento che ha fatto la storia della fisica solare in Italia. L’ho studiato, ho collaborato al suo restauro che poneva delle problematiche concettuali molto interessanti. Tuttavia, se dovessi individuare una categoria di strumenti, direi che i miei preferiti sono gli spettroscopi, protagonisti della nascita dell’astrofisica. In cantiere, però, c’è attualmente uno studio sul Cerchio di Ramsden, la cui unicità e ruolo nella storia dell’astronomia [ndr: è lo strumento con cui venne scoperto Cerere 1801, il primo asteroide classificato nel 2006 dall’Iau come pianeta nano] ne fanno un oggetto di assoluto interesse, un capolavoro meccanico con soluzioni innovative rispetto alla tecnologia del tempo».
C’era una volta un pianeta con gli anelli… la Terra
media.inaf.it/2024/09/19/terra…
Nel Sistema solare, solo quattro pianeti possiedono anelli. Sono i giganti gassosi Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Saturno è il pianeta con il sistema di anelli più esteso e visibile – da cui l’appellativo “il Signore degli anelli”. Giove, Urano e Nettuno hanno invece anelli più sottili, e per questo non facilmente visibili. Questo oggi, ma un tempo le cose potrebbero essere state molto diverse. Secondo un nuovo studio pubblicato su Earth and Planetary Science Letters, infatti, circa 466 milioni di anni fa la Terra potrebbe aver avuto un sistema di anelli simile a quello posseduto oggi da Saturno. Ma c’è di più: considerato che studi recenti limitano l’età degli anelli di Saturno a non più di 400 milioni di anni, a quell’epoca il “Signore degli anelli” del Sistema solare potrebbe essere stato il nostro pianeta.
Andrew Tomkins, Erin Martin e Peter Cawood, ricercatori presso la Monash University, in Australia, sono giunti a questa conclusione esaminando le registrazioni paleogeografiche dei crateri da impatto prodotti all’inizio di un periodo di intenso bombardamento meteorico della Terra, noto come evento meteorico dell’Ordoviciano o picco di impatti dell’Ordoviciano.
Illustrazione artistica realizzata con Adobe AI del sistema di anelli che la Terra potrebbe aver avuto 466 milioni di anni fa. Crediti: Media Inaf
Il punto di partenza di questo lavoro di ricerca è un assunto che riguarda la distribuzione dei crateri da impatto su un pianeta e il corpo all’origine di queste voragini. L’assunto è questo: se i crateri da impatto su di un pianeta derivano da impatti di asteroidi provenienti dalla fascia degli asteroidi, tra le orbite di Marte e Giove, questi saranno uniformemente distribuiti su tutta la superficie. Viceversa, se derivano da un unico corpo che si è frantumato durante un incontro ravvicinato con la Terra, saranno “concentrati” in una specifica area.
Nello studio in questione, i ricercatori hanno esaminato la distribuzione di 21 crateri da impatto noti per essere stati prodotti durante l’evento meteorico dell’Ordoviciano. Per farlo, hanno utilizzato le registrazioni paleogeografiche di questi crateri e tutti i modelli globali relativi alla tettonica a placche disponibili per l’Ordoviciano – un periodo geologico compreso tra 485 e 443 milioni di anni fa –, identificando le paleo-latitudini delle aree che conservano tali crateri, i cosiddetti cratoni: ampie zone continentali che per centinaia di milioni di anni non hanno subito grandi modificazioni geologiche. Le indagini hanno mostrato che tutti e 21 i crateri in esame erano situati entro 30 gradi dall’equatore, nonostante oltre il 70 per cento della crosta terrestre si trovasse al di fuori di questa regione.
Secondo i ricercatori, la spiegazione più plausibile di questo risultato, e qui arriviamo al dunque, è che questi crateri non siano stati prodotti da impatti casuali di corpi provenienti dalla Fascia degli asteroidi con la Terra, ma da un unico grande asteroide – probabilmente il corpo progenitore delle condriti di tipo L – che è entrato nella sfera di Hill della Terra, la sua regione di dominanza gravitazionale. Quando l’asteroide è passato oltre il limite di Roche (la distanza minima rispetto al centro del nostro pianeta alla quale un corpo può orbitare senza frammentarsi per effetto delle forze di marea), questo si sarebbe disintegrato, formando un anello di detriti attorno al pianeta simile a quello presente oggi attorno a Saturno e ad altri giganti gassosi. Nel corso di milioni di anni, spiegano i ricercatori, il materiale costituente questi anelli – polveri, ghiaccio e frammenti di roccia – è deorbitato, cadendo sulla Terra e producendo il picco di impatti dell’Ordoviciano e la distribuzione dei crateri osservata nei registri geologici.
I risultati di questa ricerca, oltre a spingere gli scienziati a riconsiderare la comprensione della storia antica del nostro pianeta, si prestano a speculazioni sul paleoclima della Terra. A questo proposito, l’ipotesi dei ricercatori è che la presenza di un anello di detriti attorno al nostro pianeta possa aver bloccato il flusso della luce solare in arrivo. Questa ombreggiatura potrebbe aver contribuito in modo significativo all’evento di raffreddamento globale, verificatosi verso la fine dell’Ordoviciano, noto come glaciazione dell’Hirnantiano: uno dei periodi più gelidi degli ultimi 500 milioni di anni di storia della Terra, alla base del primo dei “cinque grandi” eventi di estinzione di massa.
Per saperne di più:
- Leggi su Earth and Planetary Science Letters l’articolo “Evidence suggesting that earth had a ring in the Ordovician” di Andrew G. Tomkins, Erin L. Martin e Peter A. Cawood
Scoperti due getti lunghi 23 milioni di anni luce
Rappresentazione artistica del più esteso sistema di getti emessi da buchi neri mai osservato. Denominato Porfirione, dal nome di un gigante mitologico greco, questi getti si estendono per circa 7 megaparsec, ovvero 23 milioni di anni luce. La stessa distanza che coprirebbero 140 galassie come la Via Lattea allineate una dietro l’altra. Crediti: E. Wernquist / D. Nelson (IllustrisTNng Collaboration) / M. Oei
Scoperti da un team internazionale di ricerca due giganteschi getti di gas e particelle prodotti da un remoto buco nero supermassiccio, che si estendono per una distanza di 23 milioni di anni luce, ovvero quanto il diametro di 140 galassie come la Via lattea. La megastruttura, la più grande di questo tipo finora nota, è stata soprannominata Porfirione in onore di un gigante della mitologia greca. Questi getti risalgono a un’epoca in cui il nostro universo aveva 6,3 miliardi di anni, ovvero meno della metà della sua attuale età, pari a 13,8 miliardi di anni. Si stima che l’energia che alimenta i getti sia equivalente a quella di migliaia di miliardi di soli.
Prima di questa scoperta, il più grande sistema di getti mai osservato era Alcioneo, individuato nel 2022, con una estensione di circa 100 volte la grandezza della Via Lattea. Ma la scoperta di Porfirione suggerisce che questi giganteschi sistemi di getti potrebbero aver influenzato la formazione delle galassie nell’universo giovane più di quanto si pensasse in precedenza.
«La scoperta di Porfirione rappresenta un passo molto importante nella comprensione dell’evoluzione dei buchi neri e delle galassie, con implicazioni potenzialmente rilevanti anche per le proprietà dell’universo su grandissima scala», commenta Andrea Botteon, ricercatore Inaf coinvolto nello studio. «Questo risultato è stato possibile grazie all’utilizzo della vasta rete di antenne che compongono Lofar, la quale ci ha permesso per la prima volta di individuare Porfirione e quindi di condurre osservazioni di follow-up con altri telescopi per determinarne le proprietà fisiche».
Grazie al telescopio radio Europeo Lofar (Low Frequency Array), oltre a Porfirione, sono state scoperte oltre 10.000 megastrutture poco visibili. Sebbene centinaia di grandi sistemi di getti fossero già noti prima delle osservazioni del Lofar, si pensava fossero rari e in media di dimensioni più piccole rispetto ai migliaia di sistemi scoperti. «Questa coppia non è solo delle dimensioni di un sistema solare o di una Via Lattea; stiamo parlando di 140 diametri della Via Lattea in totale», afferma Martijn Oei, ricercatore post-dottorato al Caltech e autore principale di un nuovo articolo pubblicato su Nature. «La Via Lattea sarebbe un piccolo punto in queste due gigantesche eruzioni».
Questa immagine, ottenuta dal radiotelescopio europeo Lofar (LOw Frequency ARray), mostra la più estesa coppia di getti di buchi neri ad oggi conosciuta. Soprannominato Porfirione dal nome di un mitologico gigante greco, il sistema di getti si estende per 23 milioni di anni luce. La galassia che ospita il buco nero supermassiccio, distante 7,5 miliardi di anni luce, è il punto al centro dell’immagine. La struttura luminosa più grande, vicina al centro, è un altro getto più piccolo. Crediti: Lofar Collaboration / Martijn Oei (Caltech)
Per localizzare la galassia da cui proviene Porfirione, il team ha utilizzato il Giant Metrewave Radio Telescope (Gmrt) in India insieme ai dati provenienti da un progetto chiamato Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), che opera dal Kitt Peak National Observatory in Arizona. Le osservazioni hanno individuato l’origine dei getti: una galassia circa dieci volte più massiccia della nostra Via lattea.
Il team ha poi utilizzato l’Osservatorio W. M. Keck alle Hawaii per mostrare che Porfirione si trova a 7,5 miliardi di anni luce dalla Terra. Questo risultato suggerisce che se i getti distanti come questi possono raggiungere la scala della rete cosmica, allora ogni luogo nell’universo potrebbe essere stato influenzato dall’attività dei buchi neri a un certo punto nella storia cosmica.
Le osservazioni dal telescopio Keck hanno anche rivelato che Porfirione proviene da quello che è chiamato un buco nero attivo in modalità radiativa, piuttosto che in modalità getto. In questo particolare stato, il buco nero supermassiccio emette energia sotto forma di radiazioni e getti quando attira a sé e riscalda il materiale circostante: una sorpresa per i ricercatori, che non ritenevano possibile l’emissione di getti così potenti da un buco nero in questa modalità. La scoperta suggerisce quindi che nell’universo distante, dove abbondano i buchi neri in modalità radiativa, potrebbero esserci molti altri getti così potenti ancora da scoprire.
Come possano i getti estendersi così lontano oltre le loro galassie ospitanti senza destabilizzarsi è ancora poco chiaro. L’ipotesi più plausibile è che nella galassia ospite avvenga un evento di accrescimento insolitamente duraturo e stabile attorno al buco nero supermassiccio centrale per consentirgli di rimanere attivo così a lungo – circa un miliardo di anni – e garantire che i getti continuino a puntare nella stessa direzione durante tutto quel tempo.
«Le osservazioni a bassa frequenza continuano a mostrare il loro incredibile potenziale», afferma Francesco de Gasperin, co-autore dello studio e ricercatore Inaf. «Riuscire a osservare ed elaborare correttamente questi dati è estremamente complesso, ma negli ultimi anni sono stati fatti grossi passi avanti che hanno permesso un elevato numero di scoperte importanti tra cui molte sulla fisica dei buchi neri supermassicci e sul loro impatto nel modificare la vita delle galassie ospitanti».
Il prossimo passo per i ricercatori sarà quello di approfondire come queste megastrutture influenzano il loro ambiente e, in particolare, come i getti diffondono raggi cosmici, calore, atomi pesanti e campi magnetici nello spazio intergalattico. Altro obiettivo degli scienziati è anche comprendere i meccanismi che sono legati alla propagazione dei campi magnetici associati a questi enormi getti, il modo in cui essi influenzano la distribuzione dei campi magnetici nella grande rete cosmica e il ruolo che i campi magnetici possono avere sulla formazione e il mantenimento delle condizioni favorevoli alla vita, così come accade sul nostro pianeta.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo Black hole jets on the scale of the cosmic web di Martijn S. S. L. Oei, Martin J. Hardcastle, Roland Timmerman, Aivin R. D. J. G. I. B. Gast, Andrea Botteon, Antonio C. Rodriguez, Daniel Stern, Gabriela Calistro Rivera, Reinout J. van Weeren, Huub J. A. Röttgering, Huib T. Intema, Francesco de Gasperin, S. G. Djorgovski
Guarda l’intervista ad Andrea Botteon su MediaInaf Tv:
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La galassia di Pablo, affamata dal suo buco nero
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Gli astronomi hanno usato il telescopio spaziale James Webb della Nasa/Esa per confermare che i buchi neri supermassicci possono privare le loro galassie ospiti del combustibile necessario per formare nuove stelle. Il team internazionale ha usato Webb per osservare una galassia approssimativamente della dimensione della Via Lattea nell’universo primordiale, circa due miliardi di anni dopo il Big Bang. Come la maggior parte delle galassie più grandi, ha un buco nero supermassiccio al centro. Tuttavia, questa galassia è essenzialmente ‘morta’: ha per lo più smesso di formare nuove stelle. Crediti: Francesco D’Eugenio
Un team internazionale di ricercatori – tra cui Giovanni Cresci di Inaf Arcetri e numerosi altri italiani all’estero – ha utilizzato il telescopio spaziale James Webb per osservare una galassia delle dimensioni della Via Lattea nell’universo primordiale, circa due miliardi di anni dopo il Big Bang. Come la maggior parte delle grandi galassie, nel suo centro ospita un buco nero supermassiccio. Tuttavia, questa galassia è essenzialmente “morta”: ha per lo più smesso di formare nuove stelle.
«Sulla base di osservazioni precedenti, sapevamo che questa galassia si trovava in uno stato di quenching: non sta formando molte stelle, date le sue dimensioni, e ci aspettiamo che ci sia un legame tra il buco nero e la fine della formazione stellare», dice Francesco D’Eugenio del Kavli Institute for Cosmology di Cambridge, primo autore dello studio pubblicato su Nature Astronomy. «Tuttavia, fino a Webb non siamo stati in grado di studiarla in modo abbastanza dettagliato per confermare questo legame, e non sappiamo se questo stato di quenching sia temporaneo o permanente».
La galassia, ufficialmente denominata Gs-10578 ma soprannominata Galassia di Pablo, dal nome del collega che ha deciso di osservarla in dettaglio, è piuttosto massiccia per trovarsi in un periodo così precoce dell’universo: la sua massa totale è circa 200 miliardi di volte la massa del Sole e la maggior parte delle sue stelle si è formata tra 12,5 e 11,5 miliardi di anni fa.
«Nell’universo primordiale, la maggior parte delle galassie sta formando molte stelle, quindi è interessante vedere una galassia morta così massiccia in questo periodo», riferisce Roberto Maiolino, anche lui del Kavli Institute for Cosmology. «Se ha avuto abbastanza tempo per arrivare a queste dimensioni massicce, qualsiasi processo che ha interrotto la formazione stellare è probabilmente avvenuto in tempi relativamente brevi».
Utilizzando Webb, i ricercatori hanno rilevato che la galassia in questione sta espellendo grandi quantità di gas a una velocità di circa mille chilometri al secondo, abbastanza veloce da sfuggire all’attrazione gravitazionale della galassia stessa. Questi venti in rapido movimento vengono “spinti” fuori dalla galassia dal buco nero centrale. Il fenomeno è riscontrato anche il altre galassie con buchi neri in fase di accrescimento, ma in questo caso Webb ha rilevato la presenza di una nuova componente del vento, non visibile con i telescopi precedenti. Questo gas è più freddo, quindi più denso e, cosa fondamentale, non emette luce. Webb, con la sua sensibilità superiore, può vedere queste nubi di gas scuro perché bloccano parte della luce della galassia dietro di loro.
La massa di gas che viene espulsa dalla galassia è maggiore di quella necessaria alla galassia per continuare a formare nuove stelle. In sostanza, il buco nero sta facendo morire di fame la galassia. «Abbiamo trovato il colpevole», spiega D’Eugenio. «Il buco nero sta uccidendo questa galassia e la tiene inattiva, tagliando la fonte di “cibo” di cui la galassia ha bisogno per formare nuove stelle».
Sebbene i modelli teorici precedenti avessero previsto che i buchi neri avessero questo effetto sulle galassie, prima di Webb non era stato possibile rilevarlo direttamente. Tali modelli prevedevano che la fine della formazione stellare avesse un effetto violento e turbolento sulle galassie, distruggendone la forma. Ma le stelle di questa galassia a forma di disco si muovono ancora in modo ordinato, suggerendo che non è sempre così.
Le nuove osservazioni con l’Atacama Large Millimeter-Submillimiter Array (Alma), focalizzate sulle componenti gassose più fredde e scure della galassia, ci diranno se e dove si nasconde eventuale carburante per la formazione stellare in questa galassia e qual è l’effetto del buco nero supermassiccio nella regione che circonda la galassia stessa.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A fast-rotator post-starburst galaxy quenched by supermassive black-hole feedback at z=3” di Francesco D’Eugenio, Pablo G. Pérez-González, Roberto Maiolino, Jan Scholtz, Michele Perna, Chiara Circosta, Hannah Übler, Santiago Arribas, Torsten Böker, Andrew J. Bunker, Stefano Carniani, Stephane Charlot, Jacopo Chevallard, Giovanni Cresci, Emma Curtis-Lake, Gareth C. Jones, Nimisha Kumari, Isabella Lamperti, Tobias J. Looser, Eleonora Parlanti, Hans-Walter Rix, Brant Robertson, Bruno Rodríguez Del Pino, Sandro Tacchella, Giacomo Venturi e Chris J. Willott
In volo ravvicinato sopra Mercurio
Il disco completo del pianeta Mercurio con la sua caratteristica superficie craterizzata. L’immagine è illuminata da sinistra dal Sole. In primo piano sono visibili alcune parti del veicolo spaziale. Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm
Il 4 settembre scorso la sonda Esa/Jaxa BepiColombo ha effettuato il flyby più ravvicinato di sempre di Mercurio – e in assoluto di un pianeta – a soli 165 chilometri di distanza dalla sua superficie. Grazie a un timelapse senza precedenti – lo trovate qui in fondo alla news – possiamo ora sorvolare anche noi sulla superficie del pianeta insieme a BepiColombo e osservare in modo chiaro, per la prima volta, anche il suo polo sud, finora rimasto nascosto alla vista.
Il video – composto da 128 immagini catturate dalle tre telecamere di monitoraggio di BepiColombo, le M-Cam 1, 2 e 3 – mostra il pianeta muoversi dentro e fuori dal campo visivo delle tre telecamere, per poi allontanarsi lontano dall’occhio di BepiColombo. Le prime immagini sono state scattate nei giorni e nelle settimane precedenti il flyby. La prima apparizione di Mercurio è in uno scatto risalente alle 23:50 ora italiana del 4 settembre, a una distanza di 191 chilometri. Seguono immagini riprese nel corso di circa ventiquattro ore, fino all’ultima, del 5 settembre, quando BepiColombo già i trovava a circa 243mila chilometri da Mercurio.
Scopo principale delle tre telecamere di monitoraggio di BepiColombo era quello di fornire immagini (istantanee di 1024 x 1024 pixel) di monitoraggio dei vari bracci e delle antenne della sonda, motivo per cui sono visibili parti meccaniche in primo piano. Le foto che catturano di Mercurio durante i flyby sono state una sorta di bonus, offrendo a Terra una visione unica della superficie del pianeta da tre diverse angolazioni.
Crateri nel polo sud della superficie di Mercurio. Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm
BepiColombo si è avvicinato a Mercurio dal “lato notturno” del pianeta, con la superficie craterizzata di Mercurio sempre più illuminata dal Sole durante il passaggio della sonda. Durante il flyby è stato possibile identificare diverse caratteristiche geologiche che BepiColombo studierà più in dettaglio una volta in orbita attorno al pianeta.
«L’obiettivo principale del flyby era ridurre la velocità di BepiColombo, in modo che la sonda raggiungesse un periodo orbitale intorno al Sole di ottantotto giorni, molto vicino al periodo orbitale di Mercurio», spiega Frank Budnik, responsabile del volo di BepiColombo. «In questo senso è stato un grande successo, e siamo proprio dove volevamo essere in questo momento. Ma abbiamo anche avuto la possibilità di scattare foto ed effettuare misurazioni scientifiche da luoghi e prospettive che non raggiungeremo mai più una volta in orbita».
Il flyby di assist gravitazionale del 4 settembre è stato il quarto su Mercurio e il settimo di nove flyby planetari in totale. Durante la sua crociera di otto anni verso il pianeta più piccolo e più interno del Sistema solare, BepiColombo ha in programma un flyby intorno Terra, due intorno Venere e sei intorno Mercurio, per poter mantenere la rotta corretta per entrare in orbita intorno a Mercurio nel 2026.
Una curiosità: fa da colonna sonora alle spettacolari immagini l’opera musicale di Antonio Vivaldi Le quattro stagioni in onore del bacino Vivaldi, avvistato solo quattro minuti dopo l’avvicinamento di Mercurio.
Guarda il timelapse sul canale YouTube dell’Esa:
Gruppo Astrofili Faenza APS
in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS • • •Un potente brillamento solare, il più potente verificatosi finora nel ciclo corrente di massima attività solare, si è verificato il 3 ottobre, e la relativa espulsione di massa coronale impatterà la Terra tra oggi (sabato 5 ottobre) e domani (domenica 6 ottobre).
Consigliamo di tenere sotto controllo il cielo in queste 2 serate, sperando che le previsioni meteo mantengano le promesse di schiarite in tarda serata.
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Gruppo Astrofili Faenza APS
in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS • • •Per seguire l'attività aurorale, e ricevere un avviso di possibile osservabilità da dove ci si trova, consigliamo la app "My Aurora Forecast" per Android ( play.google.com/store/apps/det… ) e iPhone ( apps.apple.com/us/app/my-auror… )
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Gruppo Astrofili Faenza APS
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Roberto Rossi
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Gruppo Astrofili Faenza APS
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Roberto Rossi
in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS • • •quella del 10 maggio l’ho vista (zona ginevra) ma anche allora era abbondantemente dopo la mezzanotte.
vediamo come si mette stasera…
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