2024 Yr4 nel mirino del telescopio Gemini South
L’asteroide Near-Earth 2024 Yr4 è stato individuato per la prima volta il 27 dicembre 2024 dal progetto Atlas (Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System). In quel momento, stava effettuando un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando a una distanza di appena 2,5 milioni di chilometri. L’incertezza iniziale riguardo alla sua traiettoria ha reso necessarie ulteriori indagini, spingendo gli astronomi a ottenere tempo di osservazione anche al Gemini South – una delle due sedi dell’Osservatorio internazionale Gemini, finanziato in parte dalla National Science Foundation (Nsf) degli Stati Uniti e gestito dal NoirLab – per effettuare osservazioni di follow-up usando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos) il 7 febbraio 2025.
Questa animazione mostra l’asteroide 2024 Yr4 mentre passa vicino alla Terra e si dirige verso un potenziale impatto con la Luna. La forma tridimensionale dell’asteroide è stata determinata grazie ai dati ottenuti il 7 febbraio 2025 con il telescopio Gemini South in Cile. Utilizzando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide attraverso quattro diversi filtri. Le osservazioni hanno permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale. Crediti: NoirLab / Nsf / Aura / R. Proctor
Alla fine di gennaio 2025, un mese dopo la sua scoperta, la probabilità che 2024 Yr4 possa impattare con la Terra superava l’uno per cento, soglia prevista per le notifiche dalla Rete internazionale di allerta sugli asteroidi (Iawn), con una possibile collisione stimata per il 22 dicembre 2032. Questa potenziale minaccia ha attirato l’attenzione del pubblico e dei media a livello internazionale, e anche sulle pagine di Media Inaf ne abbiamo trattato estesamente, grazie soprattutto agli approfondimenti di Albino Carbognani. Alla fine di febbraio, grazie a ulteriori analisi, la probabilità di impatto con la Terra è scesa sotto l’uno per cento. Sebbene l’asteroide non colpirà la Terra durante questo avvicinamento, rimane una probabilità di alcuni punti percentuali che possa colpire la Luna.
Interessato a caratterizzare l’ormai celebre asteroide, il team di astronomi guidato da Bryce Bolin di Eureka Scientific ha utilizzato Gemini South per catturare immagini in più lunghezze d’onda. L’analisi dettagliata della curva di luce dell’asteroide (la curva che mostra come varia la luminosità nel tempo) ha permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale.
Le informazioni raccolte attraverso le curve di luce indicano che il 2024 Yr4 è probabilmente un asteroide di tipo S, il che significa che ha una composizione ricca di silicati. Il modello di riflessione osservato suggerisce un diametro compreso tra i 30 e i 65 metri – in linea con la stima del James Webb Space Telescope pari a 60 ± 7 metri – rendendolo uno dei più grandi oggetti scoperti di recente che potrebbe colpire la Luna. Sebbene l’impatto resti improbabile, nel caso dovesse verificarsi offrirebbe un’opportunità senza precedenti per studiare la relazione tra la dimensione di un asteroide e quella del cratere d’impatto risultante.
Questa immagine composita dell’asteroide 2024 Yr4 è stata catturata con il telescopio Gemini South in Cile. Il 7 febbraio 2025, utilizzando lo spettrografo multi-oggetto Gemini (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide (il punto sfocato al centro dell’immagine) attraverso quattro diversi filtri. Attorno all’asteroide si vedono scie colorate di stelle, che illustrano il passare del tempo e il movimento del cielo notturno in un’immagine statica. Crediti: Osservatorio Internazionale Gemini / NoirLab / Nsf / Aura / M. Zamani
L’analisi ha anche rivelato che l’asteroide ha un periodo di rotazione rapido, pari a circa una rotazione ogni venti minuti, oltre a una forma insolita, simile a un disco da hockey. Sulla base delle caratteristiche orbitali, il team ha determinato che 2024 Yr4 molto probabilmente ha avuto origine nella fascia principale degli asteroidi, con un’alta probabilità di essere stato deviato verso l’attuale orbita vicino alla Terra a causa di interazioni gravitazionali con Giove. La sua rotazione in direzione retrograda suggerisce che potrebbe essere migrato verso l’interno a partire dalla regione centrale della fascia principale, contribuendo alla nostra comprensione di come si evolvono i piccoli asteroidi e come arrivino a incrociare l’orbita terrestre.
I risultati di questo studio dimostrano l’importanza del rapido follow-up con strutture terrestri come il Gemini South nell’ambito della difesa planetaria, permettendo agli astronomi di valutare e classificare velocemente i nuovi oggetti scoperti vicino alla Terra.
«Comprendere le proprietà e le origini degli asteroidi near-Earth si sta rivelando cruciale per valutare il rischio di collisioni tra il nostro pianeta e corpi celesti in orbite incrociate», conclude Martin Still, direttore del programma della Nsf per l’Osservatorio internazionale Gemini. «I telescopi Gemini e altri osservatori astronomici sono strumenti fondamentali per la difesa planetaria».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv l’articolo “The discovery and characterization of Earth-crossing asteroid 2024 YR4” di Bryce T. Bolin, Josef Hanuš, Larry Denneau, Roberto Bonamico, Laura-May Abron, Marco Delbo, Josef Ďurech, Robert Jedicke, Leo Y. Alcorn, Aleksandar Cikota, Swayamtrupta Panda e Henrique Reggiani
L’impronta dei neutrini sui filamenti di Cas A
Le supernove sono tra gli eventi esplosivi più energetici dell’universo. Eppure, nonostante la loro immensa luminosità, convertono solo l’un per cento della loro energia in radiazione elettromagnetica. Il restante 99 per cento viene trasportato da un intenso flusso di neutrini, che può contenere fino a 1058 particelle. Sebbene i neutrini interagiscano molto debolmente con la materia, numerosi processi fondamentali che si verificano nei minuti successivi al collasso del nucleo, e prima che il fronte d’urto emerga dalla superficie stellare, sono proprio guidati da queste elusive particelle.
I pannelli a sinistra mostrano immagini Jwst di Cas A, con evidenziata la rete di filamenti all’interno del resto di supernova (Milisavljevic et al. 2024). Il pannello di destra mostra invece la distribuzione del materiale espulso ricco di ferro e ossigeno non ancora attraversato dall’onda d’urto, ottenuto dalle simulazioni. Nei pannelli di sinistra, il ferro (Fe) è rappresentato da una superficie tridimensionale rossa, che evidenzia le regioni in cui la densità al di sopra di una certa soglia. Gli ejecta ricchi di ossigeno (O) sono invece mostrati nei pannelli di destra attraverso una rappresentazione volumetrica in tonalità di blu, con un’intensità che varia in base alla densità del plasma (indicata dalla scala di colori in basso a destra). Le aree più dense appaiono più opache, facilitando l’individuazione delle strutture principali. Le immagini presentano due diverse prospettive: i pannelli superiori mostrano il resto di supernova come lo vedremmo dalla Terra, mentre quelli inferiori offrono una vista laterale, osservata da un punto di vista posto a ovest (lungo l’asse x positivo). Fonte S. Orlando et al. A&A, 2025
Dato che le supernove nell’universo locale sono eventi rari, il modo più efficace per indagare tali processi è studiare i resti di supernova e cercare di collegarne le proprietà osservate ai meccanismi fisici dell’esplosione. Il resto di supernova Cas A, situato a circa undicimila anni luce dalla Terra e prodotto da una supernova esplosa circa 350 anni fa, rappresenta un laboratorio naturale ideale per questo tipo di studi. Recentemente, Cas A è stato osservato dal James Webb Space Telescope (Jwst), che ha permesso di esplorare la struttura interna del resto di supernova con un dettaglio senza precedenti. I primi risultati di queste osservazioni sono già stati pubblicati su riviste scientifiche e diffusi tramite comunicati stampa.
Tra le strutture più sorprendenti rivelate da Jwst vi è una fitta rete di filamenti ricchi di ossigeno, risolti fino a una scala di 0.03 anni luce. Uno studio teorico, basato su simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali che seguono l’evoluzione dal collasso del nucleo stellare sino al resto di supernova con età di mille anni, guidato dall’astrofisico Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo, dimostra come questa struttura sia direttamente collegata ai processi avvenuti nella stella progenitrice subito dopo il collasso del nucleo. In particolare, l’energia trasferita dai neutrini prodotti durante il collasso del nucleo provoca la formazione di enormi bolle calde all’interno della stella. L’espansione di queste bolle deforma gli strati di materiale circostante, comprimendoli e assottigliandoli, soprattutto quelli ricchi di ossigeno, neon e magnesio.
Con il progredire dell’esplosione, la rete di filamenti prende forma come conseguenza di instabilità idrodinamiche che si sviluppano durante la propagazione dell’onda d’urto e dell’interazione tra questi strati compressi. Nelle fasi successive, quando l’onda d’urto inizia a propagarsi attraverso il mezzo circumstellare, l’energia rilasciata dal decadimento di elementi come nichel e cobalto in ferro contribuisce ad aumentare ulteriormente la pressione interna al resto di supernova, comprimendo il materiale sovrastante e rendendo i filamenti ancora più sottili e ben definiti.
Salvatore Orlando (Inaf Oa Palermo), primo autore dello studio in uscita su A&A. Crediti: Inaf Oa Palermo
«La nostra analisi rivela che la complessa rete di filamenti osservata in Cas A rappresenta un vero e proprio “reperto archeologico astronomico” (se così si può dire), capace di raccontarci i primissimi istanti dell’esplosione della stella progenitrice», spiega Orlando a Media Inaf. «Unendo le osservazioni ad altissima risoluzione angolare di Jwst a sofisticate simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali con altissima risoluzione spaziale, siamo riusciti a stabilire un legame diretto tra le strutture filamentose osservate e i processi fondamentali che regolano l’evoluzione delle supernove».
«In particolare, i nostri modelli», continua Orlando, «dimostrano che le esplosioni guidate dai neutrini danno origine, in modo naturale, a reti complesse di filamenti di materiale, generate da processi stocastici subito dopo il collasso del nucleo stellare. Sorprendentemente, le strutture prodotte nelle simulazioni mostrano una forte somiglianza con quelle osservate in Cas A. Questa corrispondenza ci suggerisce che i filamenti sono veri e propri “fossili” dell’esplosione: conservano la memoria dei fenomeni fisici che hanno dominato le fasi iniziali seguenti al collasso del nucleo della stella, offrendo così una finestra unica e preziosa sui meccanismi che governano le supernove da collasso del nucleo».
Il modello teorico prevede anche l’evoluzione futura di queste strutture: i filamenti verranno progressivamente distrutti dall’interazione con le onde d’urto inverse che si propagano verso l’interno del resto di supernova, in un arco di circa 350 anni.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “Filamentary Ejecta Network in Cassiopeia~A Reveals Fingerprints of the Supernova Explosion Mechanism”, di S. Orlando, H.-T. Janka, A. Wongwathanarat, D. Dickinson, D. Milisavljevic, M. Miceli, F. Bocchino, T. Temim, I. De Looze e D. Patnaude
Sarà una supernova di tipo Ia, tra 23 miliardi di anni
Gli astronomi dell’Università di Warwick hanno individuato un rarissimo sistema binario compatto e di grande massa, situato a soli 150 anni luce dalla Terra… nel nostro giardino cosmico, insomma. Le due stelle che lo compongono sono in rotta di collisione e, secondo le previsioni, daranno origine a una supernova di tipo Ia: un’esplosione stellare che potrebbe diventare fino a dieci volte più luminosa della Luna nel cielo notturno.
Rappresentazione artistica di una coppia di stelle destinate a scontrarsi. Crediti: University of Warwick/ Mark Garlick
Le supernove di tipo Ia rappresentano una particolare categoria di esplosioni cosmiche, fondamentali per l’astrofisica moderna. Sono infatti utilizzate come “candele standard” per calcolare con precisione le distanze cosmiche, tra la Terra e le galassie. Questo tipo di supernova si verifica quando una nana bianca accumula massa oltre il limite critico, cedendo infine alla propria gravità e innescando un’esplosione termonucleare.
Da tempo la teoria prevede che la maggior parte delle supernove di tipo Ia abbia origine da sistemi binari formati da due nane bianche. In questi scenari, la nana bianca più massiccia sottrae gradualmente materia alla compagna, accumulando massa fino a superare un limite critico. Questo processo può innescare un’esplosione termonucleare che coinvolge una o entrambe le stelle, generando la spettacolare supernova.
La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, non solo ha permesso di individuare per la prima volta un sistema di questo tipo, ma ha anche rivelato l’esistenza di una coppia compatta di nane bianche sorprendentemente vicina, proprio nei dintorni del Sistema solare, all’interno della Via Lattea.
«Da anni si ipotizzava l’esistenza di un sistema binario di nane bianche, locale e massiccio, quindi quando ho individuato per la prima volta questo sistema con una massa totale così elevata, praticamente sulla soglia della nostra galassia, sono stato subito entusiasta», afferma James Munday della Warwick, primo autore dello studio.
«Con un team internazionale di astronomi, quattro dei quali all’Università di Warwick, abbiamo immediatamente osservato questo sistema con alcuni dei più grandi telescopi ottici del mondo per determinare esattamente la sua compattezza», continua Munday. «Quando ho scoperto che le due stelle erano separate da appena 1/60 della distanza tra la Terra e il Sole, ho capito subito che avevamo trovato il primo sistema binario di nane bianche destinato, senza alcun dubbio, a generare una supernova di tipo Ia entro una scala temporale paragonabile all’età dell’universo. Finalmente, come comunità scientifica, possiamo rendere conto con certezza di una piccola ma significativa frazione — qualche centesimo — del tasso di supernove di tipo Ia nella Via Lattea».
Animazione di un sistema binario di nane bianche che genera una supernova Ia. Crediti: University of Warwick
Il nuovo sistema appena scoperto è il più massiccio del suo tipo mai confermato, con una massa combinata di 1,56 volte quella del Sole. Con una massa così elevata, comunque vada, le stelle sono destinate a esplodere. Tuttavia, l’esplosione non avverrà prima di 23 miliardi di anni e, nonostante la vicinanza al Sistema solare, questa supernova non metterà in pericolo il nostro pianeta.
Al momento, le due nane bianche orbitano tranquillamente l’una attorno all’altra, con un periodo orbitale superiore a 14 ore. Nel corso di miliardi di anni, l’emissione di onde gravitazionali le farà avvicinare progressivamente, fino a quando, poco prima dell’esplosione come supernova, si muoveranno così velocemente da completare un’intera orbita in appena 30-40 secondi.
«Si tratta di una scoperta molto significativa. Trovare un sistema di questo tipo alle porte della nostra galassia è un’indicazione del fatto che devono essere relativamente comuni, altrimenti avremmo dovuto guardare molto più lontano, cercando in un volume più ampio della nostra galassia, per incontrarli», commenta Ingrid Pelisoli, dell’Università di Warwick. «La scoperta di questo sistema non è però la fine della storia: la nostra indagine alla ricerca di progenitori di supernove di tipo Ia è ancora in corso e ci aspettiamo altre entusiasmanti scoperte in futuro. A poco a poco, ci stiamo avvicinando alla soluzione del mistero dell’origine delle esplosioni di tipo Ia».
Durante l’evento di supernova, la massa verrà trasferita da una nana bianca all’altra, dando origine a un’esplosione rara e complessa, nota come detonazione quadrupla. La superficie della nana bianca che sta guadagnando massa sarà la prima a esplodere nel punto in cui il materiale si accumula, innescando poi l’esplosione del suo nucleo. Il materiale espulso si propagherà in tutte le direzioni, andando a colpire la seconda nana bianca e provocando a sua volta una terza e una quarta detonazione.
Le esplosioni distruggeranno completamente l’intero sistema, sprigionando un’energia miliardi di miliardi di miliardi di volte quella della più potente bomba nucleare mai costruita.
Tra miliardi di anni, questa supernova apparirà nel cielo notturno come un punto di luce estremamente brillante. Offuscherà persino alcuni degli oggetti celesti più luminosi, risultando fino a dieci volte più luminosa della Luna e 200mila volte più brillante di Giove.
Ma, come canta Guccini, noi non ci saremo.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A super-Chandrasekhar mass type Ia supernova progenitor at 49 pc set to detonate in 23 Gyr” di James Munday, Ruediger Pakmor, Ingrid Pelisoli, David Jones, Snehalata Sahu, Pier-Emmanuel Tremblay, Abinaya Swaruba Rajamuthukumar, Gijs Nelemans, Mark Magee, Silvia Toonen, Antoine Bédard & Tim Cunningham
L’universo alla lettera, da oggi su MediaInaf Tv
L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) lancia oggi una nuova serie di video divulgativi intitolata L’universo alla lettera. Ventisei brevi episodi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ad altrettanti concetti astronomici tra i più gettonati nelle notizie di astronomia e scienza dello spazio diffuse giornalmente dalla stampa. Pubblicati con cadenza settimanale e della durata di circa due minuti ciascuno, questi contenuti andranno a formare un piccolo glossario cosmico, semplice da consultare e tutto da esplorare, di facile reperibilità su YouTube.
Simone Iovenitti in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf
Si parte dalla A di anno luce, passando per la F di fast radio burst, la M di materia oscura e la S di supernova, fino alla Z di zona abitabile. Ogni video di questo “alfabeto cosmico” è pensato per essere semplice, accurato e coinvolgente, presentando l’oggetto celeste o il concetto astronomico per poi approfondire gradualmente con informazioni sui più recenti studi in materia, che spesso coinvolgono anche ricercatrici e ricercatori Inaf.
«Le notizie di astronomia sono molto popolari sul web, ma non sempre il formato breve della news permette a chi non ha già familiarità con questi temi di approfondire l’argomento e cogliere la rilevanza della notizia», dice Claudia Mignone, astrofisica e divulgatrice scientifica Inaf, ideatrice e autrice del progetto. «Questo “alfabeto cosmico” è una piccola cassetta degli attrezzi per potersi destreggiare con più agio tra i buchi neri, le pulsar, i quasar e gli astri di ogni sorta che tanto spesso popolano le pagine di riviste e quotidiani, sfruttando uno degli strumenti oggi più diffusi per cercare informazioni e approfondimenti online: il video».
Federica Duras in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf
A presentare la serie, con la regia di Davide Coero Borga, sono due giovani astrofisici e divulgatori dell’Inaf, Federica Duras e Simone Iovenitti, in un set visivamente accattivante, sospeso tra lo spazio e il tempo, tra luci al neon e colori vivaci. L’appuntamento è ogni domenica mattina, da aprile a ottobre, sul canale YouTube di Media Inaf, il notiziario web dell’ente.
Guarda la playlist su MediaInaf Tv:
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Per saperne di più:
- Sfoglia il glossario astronomico (in formato testuale) dell’Unione Astronomica Internazionale (Iau) sul sito web dell’Office of Astronomy for Education (disponibile anche in italiano)
Marte: un pianeta, due facce
Da oltre vent’anni, la sonda Mars Express dell’Esa esplora e fotografa i paesaggi di Marte, fornendo una mappatura della superficie del pianeta con una risoluzione senza precedenti. I dati raccolti hanno cambiato radicalmente la comprensione del nostro vicino planetario, rivelando una complessità geologica molto più articolata di quanto si pensasse in passato.
La regione di Acheron Fossae su Marte, vista dall’orbiter Mars Express dell’Esa. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
Ne è una conferma l’ultima immagine trasmessa dall’orbiter: un suggestivo scorcio che svela due volti distinti del pianeta: uno antico, disseminato di crateri e caratterizzato da un terreno inciso da solchi e scarpate; l’altro più giovane e dall’aspetto liscio, rimodellato nel tempo dall’intensa attività vulcanica e dominato da pianure e vallate levigate.
Mappa di Marte che mostra la regione di Acheron Fossae in un contesto più esteso. Sono indicati i vulcani Olympus Mons e Alba Mons, qui indicato come Alba Patera in riferimento alla “caldera” che si trova sulla sommità del vulcano. Crediti: Nasa/Mgs/Mola Science Team
Ottenuta dalla High Resolution Stereo Camera (Hrsc) di Mars Express il 28 ottobre del 2024, durante la sua 26287esima orbita, l’istantanea ritrae Acheron Fossae, un’enorme formazione geologica assimilabile alle zone di rift presenti sulla Terra.
Situata a nord-ovest del pianeta, questa regione si trova relativamente vicina a due imponenti vulcani, entrambi fuori dall’inquadratura dell’immagine: Olympus Mons e Alba Mons. Il primo si trova a circa 1200 chilometri a sud, il secondo a una distanza simile, ma in direzione nord-est. Sarebbero stati proprio questi vulcani a scolpire l’area quando Marte era vulcanicamente molto più attivo di quanto non sia oggi, creando la caratteristica dicotomia della superficie del Pianeta.
La porzione più frastagliata del paesaggio, piena di solchi simili a trincee, è un classico esempio di struttura a horst e graben. Si tratta di formazioni vecchie di quasi quattro miliardi di anni, prodotte da faglie tettoniche parallele. Quando queste faglie si sono aperte, la crosta tra le faglie è sprofondata, causando il cedimento di lunghi blocchi di terra, i graben, e lasciando in rilievo i costoni laterali, gli horst o pilastri tettonici.
In alto a destra nell’immagine, si distinguono tre picchi conici alti diversi chilometri, probabilmente di origine vulcanica. L’intersezione tra questi rilievi e i graben suggerisce che la crosta della regione abbia continuato a fratturarsi anche dopo la formazione dei coni, aumentando l’interesse geologico dell’area.
Topografia di Acheron Fossae in falsi colori per evidenziare l’altezza del terreno. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
La parte liscia dell’immagine, visibile in basso al centro, segna l’inizio di pianure più giovani che si estendono ben oltre Acheron Fossae. Un tempo ricoperte da mari o laghi, gli scienziati ritengono che queste aree siano state formate in seguito alla deposizione di enormi quantità di lava e sedimenti provenienti da Alba Mons.
In seguito, l’erosione provocata dall’acqua ha rimodellato il paesaggio, scavando valli e lasciando dietro di sé detriti, cumuli irregolari e mesa – superficie rocciose sopraelevate – di varie forme e dimensioni. I sedimenti hanno anche parzialmente ricoperto un antico cratere da impatto, visibile oggi come un semiarco al centro dell’immagine.
Vista prospettica della regione di Acheron Fossae ottnuta dalla High Resolution Stereo Camera a bordo della sonda Mars Express. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
Qui sopra, una visuale prospettica della regione di Acheron Fossae, ottenuta anch’essa dalla High resolution stereo camera di Mars Express, mette ulteriormente in risalto i dettagli della morfologia locale, evidenziando con maggiore dettaglio i graben e la zona di transizione tra queste strutture e le pianure levigate.
Quando un buco nero si risveglia
Un buco nero supermassiccio al centro della galassia Sdss1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste. Crediti: Esa
Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di Sdss1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.
Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaiso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky. «Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali Xmm-Newton e quelli della Nasa Nicer, Chandra e Swift», spiega. «Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese quasiperiodic eruption) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato».
Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.
Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.
«Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio», commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’Inaf e co-autore del lavoro pubblicato. «Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano Atca, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati».
Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione Lisa dell’Esa. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu, Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau, David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor
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T Corona Borealis, esplosione imminente
Spettacolo pirotecnico stellare in arrivo: si prevede che la prossima esplosione (outburst in inglese) di T Coronae Borealis (T CrB) – una delle nove ricorrenti più luminose conosciute – avverrà entro la fine del 2025, circa 80 anni dopo l’ultima volta che ha acceso i nostri cieli. Un nuovo studio – frutto del lavoro di un gruppo internazionale di esperti coordinato dall’Arizona State University e a cui ha partecipato anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) – è stato presentato in un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal, che fornisce nuove e precise stime dei parametri stellari e orbitali.
Una stella gigante rossa e una nana bianca orbitano l’una attorno all’altra in questa rappresentazione artistica di una nova simile a T Coronae Borealis. Crediti: Nasa/Goddard Space Flight Center
Ricordiamo che una nova ricorrente è una nova (dal latino stella nova o un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo) che si ripete a intervalli più o meno regolari. T Coronae Borealis è in realtà un antico sistema binario interagente, situato a circa 3mila anni luce dalla Terra in direzione della costellazione della Corona Boreale. Le due stelle orbitano l’una attorno all’altra in un’orbita quasi circolare e con un periodo di circa 227,5 giorni. L’anziana coppia è costituita da una gigante rossa di tipo spettrale M4 III (una stella giunta quasi al termine del suo ciclo vitale) che trasferisce materia ricca di idrogeno su una massiccia nana bianca (ossia il residuo di una stella ormai estinta).
Ogni 80 anni – giorno più, giorno meno – il sistema T CrB si accende, come una luminosissima lampadina nel cielo. Cosa si osserva? Un’esplosione termonucleare degli strati superficiali della nana bianca, caratterizzata da un repentino aumento di luminosità del sistema (fino a 8 magnitudini) visibile per alcuni giorni anche a occhio nudo. «La prossima esplosione è imminente, attesa nel 2025», si legge nell’articolo scientifico che fa riferimento a uno studio pubblicato nel settembre 2023 da Bradley Schaefer, il quale aveva previsto inizialmente che la stella T CrB avrebbe potuto esplodere entro giugno 2025, con un margine di incertezza di 15 mesi.
«Non si può prevedere con precisione quando esploderà», afferma cauto Oscar Straniero, dirigente di ricerca presso l’Inaf d’Abruzzo e co-autore dello studio. «Secondo i dati storici, l’ultima esplosione è avvenuta nel 1946. Sulla base di queste informazioni si è stimato poi che l’evento di nova sarebbe accaduto nella finestra 2024-2026. Siamo quindi nel mezzo. Perché non possiamo essere più precisi? Il periodo orbitale e il periodo di ricorrenza della nova sono due cose diverse, e quest’ultimo dipende dal tasso di accrescimento e dalla massa della nana bianca. Entrambi questi parametri variano nel tempo e solo recentemente sono state misurate con sufficiente precisione».
La posizione della stella T CrB nella mappa dell’American Association of Variable Star Observers. Credit: Aavso
Il gruppo di ricerca guidato da Kenneth H. Hinkle ha analizzato una serie di spettri della gigante rossa raccolti tra il 2022 e il 2024 presso il Fairborn Observatory, nel sud-est dell’Arizona (Stati Uniti), utilizzando il telescopio automatico da 2 metri della Tennessee State University e uno spettrografo di tipo Echelle a fibre ottiche. Gli spettri sono stati poi combinati con dati già presenti in letteratura.
«Le peculiarità sono due», sottolinea Straniero. «Il periodo di ricorrenza durante il quale la massa della nana bianca aumenta, sta per scadere, per cui a breve ci aspettiamo una nuova esplosione. E in secondo luogo, la nana bianca ha una massa molto vicina al limite massimo (il cosiddetto limite di Chandrasekhar che equivale a circa 1,44 masse solari, ndr) superato il quale la stella collassa. Il risultato di questo collasso sarebbe ancora più violento, una supernova termonucleare che incenerirebbe l’intera nana bianca».
Queste drammatiche esplosioni sono conosciute come supernovae di tipo Ia. I progenitori di tali supernove non sono mai stati identificati, nonostante gli innumerevoli studi teorici e le campagne osservative dedicate a tale scopo. «Sarebbe la prima volta che si osserva un progenitore di queste supernove, che rivestono un ruolo fondamentale nella moderna cosmologia, visto che esse sono utilizzate come indicatori di distanza di galassie lontane», continua Straniero. «Queste supernovae di tipo Ia sono tra i maggiori produttori di ferro nell’universo. Circa due terzi del ferro nel Sistema solare, e quindi anche di quello che è finito per esempio nel nostro sangue, proviene da tali esplosioni. Sono inoltre candele standard molto brillanti, utilizzate in cosmologia per misurare le distanze di galassie lontane. Proprio studiando le supernove lontane si è visto che l’espansione dell’universo era più lenta nel passato (fino a 6 o 7 miliardi di anni fa). Questa accelerazione dell’espansione cosmica viene comunemente attribuita all’esistenza di un campo primordiale che si oppone alla forza attrattiva dovuta alla gravità. L’energia di questo campo è nota come energia oscura».
Utilizzando i dati di Gaia nel catalogo Early Data Release 3, il gruppo di ricerca ha infatti stimato con grande precisione la massa della gigante rossa (0,69 masse solari) ma soprattutto la massa della nana bianca, che risulta essere molto alta: 1,37 volte quella del Sole (quindi molto vicina al limite di Chandrasekhar). «Proprio grazie a queste misure così precise», continua Straniero, «è stato possibile ricostruire la storia passata di questo sistema binario e ipotizzarne la sua futura evoluzione e destino finale. In particolare, io mi sono occupato di calcolare una serie di modelli evolutivi di possibili sistemi binari progenitori cercando quello o quelli che meglio riproducono lo stato attuale».
Situata a 3mila anni luce di distanza, T Coronae Borealis contiene due stelle che orbitano l’una intorno all’altra: una gigante rossa prossima alla fine della sua vita e una nana bianca. L’intensa gravità della nana bianca attira parte del gas che fuoriesce dalla gigante rossa, formando una nube appiattita di gas attorno alla nana — un disco di accrescimento. Il gas nel disco si muove gradualmente verso l’interno, fino a fluire sulla nana bianca situata al centro. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab
T Coronae Borealis ha dato spettacolo in cielo già due volte negli ultimi due secoli. La prima esplosione documentata risale al 12 maggio 1866, quando la stella è passata rapidamente da una magnitudine di 9,5 a 2,3, diventando visibile a occhio nudo per nove giorni. In quell’occasione, raggiunse una luminosità circa 230mila volte superiore a quella del Sole. La seconda esplosione risale invece al 9 febbraio 1946: l’astronomo Armin Joseph Deutsch (Osservatorio Yerkes) segnalò un picco leggermente meno brillante rispetto a quello del 1866, con una magnitudine apparente corrispondente a circa 180mila volte la luminosità solare. Precedenti esplosioni risalgono al 1787 e addirittura al 1217, anche se la documentazione è meno precisa.
Di recente, diversi gruppi di astronomi hanno cercato di stimare il periodo più probabile in cui potrebbe verificarsi la prossima esplosione termonucleare di T CrB. Inizialmente, le ipotesi si concentravano su una finestra compresa tra aprile e settembre 2024; successivamente, l’astronomo Jean Schneider dell’Osservatorio di Parigi ha proposto due possibili date nel 2025: il 27 marzo (andata a vuoto) o il 10 novembre. «Temo però che la finestra febbraio/novembre si riferisca al periodo di osservabilità della corona boreale durante l’anno. Dall’emisfero Nord è visibile a Est a partire da febbraio e per tutta la primavera, bella alta nel cielo in estate, mentre cala a occidente in autunno», conclude Straniero.
A ogni modo, visto che al momento dell’ultimo outburst le tecniche di osservazione erano limitate all’ottico e piuttosto “rudimentali”, come si legge nell’articolo, la prossima esplosione offrirà la prima opportunità di misurarne le caratteristiche fisiche. Quindi, occhi all’insù e ben puntati sulla piccola costellazione della Corona Boreale. Riconoscerla è facile: la sua forma a semicerchio somiglia effettivamente a quella di un diadema.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Binary Parameters for the Recurrent Nova T Coronae Borealis“, di Kenneth H. Hinkle, Pranav Nagarajan, Francis C. Fekel, Joanna Mikołajewska, Oscar Straniero, and Matthew W. Muterspaugh.
Titano, una luna in fermento?
Immagine composita che mostra una vista a infrarossi di Titano acquisita dalla sonda spaziale Cassini della Nasa durante il sorvolo della luna il 13 novembre 2015. Crediti: Nasa
Titano – la più grande delle 274 lune di Saturno – ha da sempre affascinato gli scienziati. La scoperta al suo interno di un oceano d’acqua salata come il Mar Morto ha spinto gli scienziati a ipotizzare che il corpo possa sostenere la presenza di forme di vita. Un team internazionale di ricercatori guidati dall’Università dell’Arizona, negli Usa, ha ora tentato di verificare questa ipotesi.
Attraverso l’analisi dei fattori fisico-chimici che influenzano l’abitabilità del suo oceano, l’esame delle vie metaboliche potenzialmente in grado di sostenere la crescita e la riproduzione di sistemi biologici, e l’uso della modellazione bioenergetica, i ricercatori hanno elaborato uno scenario realistico che ipotizza come potrebbe essere la vita sulla luna e in quali quantità, in termini di biomassa, potrebbe essere presente.
I risultati della ricerca, pubblicati questa settimana su The Planetary Science Journal, indicano che l’oceano di Titano presenta condizioni favorevoli al mantenimento di popolazioni microbiche. In particolare, le simulazioni suggeriscono che la fermentazione — uno dei più semplici processi metabolici conosciuti — potrebbe fornire sia l’energia che il carbonio necessari alla crescita di microorganismi. I modelli, inoltre, indicano che a sostenere questa crescita potrebbe essere la fermentazione della glicina, il più semplice tra tutti gli amminoacidi conosciuti.
La glicina in questione è presente sulla superficie della luna, dove è giunta in seguito a eventi di impatto. Studi precedenti hanno dimostrato che gli oggetti celesti che colpiscono la superficie di Titano possono generare “pozze di fusione” di acqua liquida. Tramite interazioni acqua-ghiaccio, le molecola potrebbe essere trasportata nel sottosuolo fino a raggiungere l’oceano sotterraneo, dove potrebbe essere quindi utilizzata come fonte di energia.
«Sappiamo che la glicina era relativamente abbondante nei materiali primordiali del Sistema solare», spiega Antonin Affholder, ricercatore all’Università dell’Arizona e primo autore dello studio. «Quando osserviamo gli asteroidi, le comete e le nubi di polveri e gas da cui si formano stelle e pianeti, troviamo glicina o i suoi precursori praticamente ovunque».
L’immagine in basso illustra uno schema riassuntivo delle ipotesi avanzate dai ricercatori. Secondo il modello proposto, le condizioni iniziali di abitabilità per l’attecchimento della vita potrebbero essere state determinate dalla dissoluzione di materia organica proveniente dal nucleo. L’eventuale sopravvivenza e crescita della biomassa microbica potrebbe dipendere dall’apporto, in seguito a eventi di impatto, di materiale organico dalla superficie di Titano, reso possibile dalle interazioni tra acqua e ghiaccio.
Schema della struttura interna di Titano che riassume le ipotesi formulate in questo studio dai ricercatori (cliccare per ingrandire). Crediti: Antonin Affholder et al., Psj, 2025
Tuttavia, il rilascio di glicina nell’oceano da parte di queste pozze – stimato in un intervallo che va da 7.5 chilogrammi a 7.5 tonnellate all’anno – appare piuttosto limitato, influenzando la dimensione della potenziale biosfera.
Sulla base delle stime effettuate, la popolazione microbica che potrebbe essere sostenuta in queste condizioni varierebbe da centomila miliardi a cento milioni di miliardi di cellule, equivalenti a meno di una cellula per chilogrammo d’acqua in tutto l’oceano.
«Il nostro studio dimostra che questa riserva di glicina potrebbe essere sufficiente a sostenere soltanto una piccolissima popolazione microbica, con una biomassa complessiva pari a pochi chilogrammi», dice a questo proposito Affholder. «Nel vastissimo oceano di Titano, una biosfera tanto ridotta implicherebbe una densità media inferiore a una cellula per litro d’acqua».
La fermentazione della glicina rappresenta un approccio promettente per indagare la potenziale abitabilità dell’oceano di Titano, concludono i ricercatori. Per valutare con maggiore precisione tale potenziale, sarà essenziale approfondire la conoscenza delle condizioni geochimiche interne della luna e studiare più a fondo la biologia e il metabolismo dei microbi psicrofili e barofili, capaci di vivere in ambienti estremi come quelli presenti su Titano.
Per saperne di più:
- Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “The Viability of Glycine Fermentation in Titan’s Subsurface Ocean” di Antonin Affholder, Peter M. Higgins, Charles S. Cockell, Catherine Neish, Krista M. Soderlund, Michael J. Malaska, Kendra K. Farnsworth, Rosaly M. C. Lopes, Conor A. Nixon, Mohit Melwani Daswani, Kelly E. Miller e Christophe Sotin
Vent’anni di Urano con gli occhi di Hubble
Immagine di Urano presa dalla sonda Voyager 2 nel 1986. Crediti: Nasa
Venti anni di osservazioni messe in atto da un team di ricercatori tramite il telescopio spaziale Hubble hanno permesso di ricavare preziose informazioni sulla composizione atmosferica e le dinamiche di Urano, un pianeta unico nel suo genere. La “lunga vita” di Hubble e la sua nitida risoluzione si sono rivelate essenziali per gli studi effettuati.
Storicamente, la prima istantanea ravvicinata di Urano – la potete vedere qui a fianco – si deve alla sonda Voyager 2 e risale al 1986. Il corpo celeste appariva come una sfera da biliardo di colore blu-verde. Un lavoro più accurato e prolungato nel tempo è stato realizzato dal telescopio Hubble, che ha osservato i cambiamenti stagionali del pianeta quattro volte in un periodo di venti anni: nel 2002, 2012, 2015 e 2022. Il team di scienziati responsabile dello studio, guidato da Erich Karkoschka della University of Arizona e da Larry Sromovsky e Pat Fry della University of Wisconsin, si è servito soprattutto di uno strumento di Hubble: Stis, lo Space Telescope Imaging Spectrograph. Gli astronomi puntano a comprendere in dettaglio il funzionamento dell’atmosfera del pianeta e come risponde alle variazioni della luce solare.
L’atmosfera di Urano è composta in larga parte da idrogeno ed elio, con minori quantità di metano, acqua e ammoniaca. Il colore ciano caratteristico del corpo celeste è dovuto al metano (CH4), in grado di assorbire le lunghezze d’onda rosse della radiazione solare. Gli studiosi hanno scoperto che la distribuzione di CH4 non è uniforme, dato che è presente in scarse quantità nei pressi dei poli, ed è rimasta costante nell’arco dei due decenni. Diverso è il discorso della foschia, aumentata in maniera massiccia nella regione polare settentrionale. Considerando che Urano compie un’orbita completa attorno al Sole in poco più di 84 anni terrestri, i ricercatori hanno avuto a disposizione solo i dati relativi a una lunga primavera. Nonostante tale vincolo, sono stati elaborati modelli di circolazione atmosferica molto complessi, i quali mostrano, per la distribuzione di metano, un downwelling nelle zone polari e un upwelling nelle restanti regioni.
Cambiamenti nell’atmosfera di Urano, come osservati dal telescopio spaziale Hubble nel 2002, 2012, 2015 e 2022. Crediti: Nasa, Esa, Erich Karkoschka (Lpl)
Nelle immagini soprastanti si distinguono quattro colonne, che riportano le variazioni atmosferiche del pianeta col passare degli anni. Attualmente Urano si dirige verso il solstizio estivo settentrionale, che si verificherà nel 2030. Dalle illustrazioni è chiaro come la regione del polo sud (qui nella porzione più a sinistra dei cerchi) vada pian pano ad oscurarsi, mentre le aree nei pressi del polo nord (a destra) si illuminano sempre più con l’avvicinarsi del solstizio.
Per quanto riguarda le righe, la prima in alto mostra il colore di Urano come visto dall’occhio umano, cioè nel visibile. Nella seconda riga è presente un’immagine in falsi colori, ottenuta tramite osservazioni nella banda ottica e nel vicino infrarosso. I colori sono relativi alle quantità di metano e aerosol (particelle sospese nell’atmosfera). Le zone blu sono ricche di metano, il quale va a diminuire nelle aree verdi, per poi scomparire del tutto in quelle rosse. Queste ultime si trovano sul bordo, in corrispondenza della stratosfera del pianeta.
Le ultime due righe forniscono informazioni sulla latitudine di metano e aerosol, ricavata da un insieme di lunghezze d’onda che vanno dal visibile al vicino infrarosso. In particolare, le aree chiare nella terza riga sono correlate a condizioni nuvolose, mentre le regioni scure si riferiscono a un ambiente più limpido. Nella quarta riga, invece, viene evidenziata la localizzazione della maggior parte del metano, presente nelle aree scure. La struttura atmosferica di Urano non è andata incontro a rilevanti trasformazioni in corrispondenza delle medie e basse latitudini. L’ interesse degli studiosi si è concentrato principalmente sulle regioni polari, caratterizzate da evidenti mutamenti nel tempo. Gli aerosol hanno subito un ingente incremento negli ultimi due decenni nei pressi del polo nord, prova del fatto che la radiazione solare è in grado di alterare la foschia presente nell’atmosfera del pianeta.
Lo studio fondato su osservazioni a lungo termine potrebbe fornire importanti indicazioni non solo sul “gigante di ghiaccio”, ma anche su esopianeti aventi composizione e caratteristiche chimico-fisiche simili.
Così nascono gli ammassi nucleari stellari
Pubblicato oggi su Nature, un nuovo studio scientifico riporta la prima osservazione diretta di ammassi stellari in fase di fusione nella regione nucleare di cinque galassie nane. Questa scoperta conferma la plausibilità – a lungo dibattuta tra gli esperti – di tale modalità di formazione per i nuclei delle galassie di piccole dimensioni (ossia composte da un numero di stelle variabile da poche migliaia ad alcuni miliardi). Il gruppo di ricercatrici e ricercatori è stato guidato dall’Università di Oulu (Finlandia) e ha visto la partecipazione anche dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
Esempio di due galassie nane dai campioni della survey Matlas che mostrano le prove della fusione tra ammassi stellari. Crediti: Nasa, Esa, Mélina Poulain e Stsci
Rispetto alla nostra galassia sono piccoli puntini nel cielo notturno, ma le galassie nane sono il tipo di galassia più abbondante nell’universo. Con un numero di stelle circa cento volte inferiore rispetto alla Via Lattea (o anche meno), le galassie nane rappresentano i mattoni fondamentali delle galassie più massicce. Comprendere la loro formazione è quindi essenziale per studiare l’evoluzione delle galassie.
«Riportiamo la scoperta fortuita di cinque galassie nane», spiega Rebecca Habas, assegnista di ricerca Inaf e tra le autrici dell’articolo su Nature, «che sembrano essere nel processo di formazione di un ammasso stellare nucleare (nuclear star cluster in inglese). Cosa sono? Si tratta di gruppi di stelle gravitazionalmente legate, situati al centro (o molto vicino al centro) di molte galassie, inclusa la nostra Via Lattea. Questi ammassi contengono milioni, fino a centinaia di milioni di stelle, e rappresentano i sistemi stellari più densi conosciuti nell’universo».
Il mistero irrisolto è però la comprensione di come si formino, quando e perché a volte non si formino affatto. «In che modo la loro presenza (o assenza) influenza l’evoluzione delle galassie ospiti? Per questo motivo, gli ammassi stellari nucleari sono oggetti di grande interesse scientifico», aggiunge Habas, esperta di galassie diffuse, fluttuazioni della brillantezza superficiale e misure di distanza stellari.
Una scoperta casuale, quindi, perché il team – parte della collaborazione internazionale Matlas (Mass Assembly of early-Type GaLAxies with their fine Structures) – era impegnato in osservazioni di galassie nane con il telescopio spaziale Hubble quando ha notato alcune galassie con un ammasso stellare nucleare dall’aspetto insolito. In alcune di esse si osservavano un paio di ammassi stellari vicini tra loro, mentre in altre era presente una struttura simile a un debole flusso di luce collegato all’ammasso stellare nucleare.
«Siamo rimasti sorpresi dai flussi di luce visibili vicino al centro delle galassie, poiché non era mai stato osservato nulla di simile in passato», commenta Mélina Poulain, prima autrice dell’articolo e ricercatrice presso l’università finlandese.
Simulazione della fusione di ammassi stellari. Crediti: Rory Smith
«Abbiamo identificato diverse galassie con strutture insolite al loro centro. Per esempio», aggiunge Habas, «alcuni sistemi sembrano avere più ammassi stellari nucleari o ammassi globulari multipli vicino al centro (le loro proprietà sono parzialmente sovrapposte, rendendo difficile distinguerli con certezza), e altre invece mostrano deboli scie di luce che sembrano provenire da questi oggetti. Abbiamo combinato le nostre osservazioni con simulazioni di fusioni di ammassi globulari, che suggeriscono che queste strutture corrispondono esattamente a ciò che ci si aspetterebbe di vedere durante, o poco dopo, la fusione di due ammassi globulari. Pertanto, riteniamo di aver identificato le prime immagini della formazione di un ammasso stellare nucleare tramite la fusione di ammassi globulari».
Le simulazioni indicano che fusioni di ammassi globulari come questa avvengono su scale temporali relativamente brevi (qualche milione di anni, che è effettivamente poco per i processi astronomici), rendendo molto improbabile catturare immagini di questo evento in corso. Tuttavia, è possibile compensare questa rarità con un campione statistico più ampio. «Abbiamo osservato qualche decina di galassie con Hubble, un campione piccolo, ma queste galassie sono state selezionate da un catalogo iniziale di 2210 galassie nane, permettendoci di individuare gli oggetti più interessanti», dice la giovane ricercatrice. Il campione originale di galassie era stato identificato utilizzando immagini ottiche profonde del telescopio Canada-France-Hawaii (Cfht).
«Ci aspettiamo», conclude Habas, «che le future indagini del cielo, come quelle pianificate dal telescopio spaziale Euclid e dall’Osservatorio Vera C. Rubin, identificheranno ancora più esempi di ammassi stellari nucleari in via di formazione».
Guarda la simulazione sul canale YouTube della Universidad Técnica Federico Santa María:
youtube.com/embed/W4gHzw6-ezY?…
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Evidence of star cluster migration and merger in dwarf galaxies”, di Melina Poulain, Rory Smith, Pierre-Alain Duc, Francine R. Marleau, Rebecca Habas, Patrick R. Durrell, Jeremy Fensch, Sungsoon Lim, Oliver Muller, Sanjaya Paudel e Ruben Sanchez-Janssen
Aloni di materia oscura completamente oscuri
Le galassie, perlopiù, sono fatte in gran parte di materia oscura e in parte più ridotta di materia ordinaria. A volte capita d’imbattersi in rari casi di galassie senza materia oscura, almeno apparentemente: circostanza eccezionale, benché riprodotta anche attraverso simulazioni. Gli astrofisici ritengono infatti che ogni galassia si formi al centro di un alone di materia oscura – una regione di materia gravitazionalmente legata che si estende ben oltre i confini visibili della galassia stessa. In particolare, le stelle si formano quando la gravità all’interno degli aloni di materia oscura attrae il gas necessario.
Da sinistra a destra, galassie di massa solare crescente. All’estrema sinistra si trova una galassia nana ultra-debole con una massa dell’alone compresa tra 10 e 100 milioni di masse solari, dunque nel range “quasi oscura”. All’estrema destra si trova una galassia ellittica (M87), con una massa dell’alone di circa 10mila miliardi di masse solari. Crediti: Nasa/Esa; Eso; Eso/Vmc; Kpno/NoirLab/Nsf/Aura; Stsci/Aura;Nasa/Esa
Quanto al caso opposto all’eccezione di cui parlavamo prima, ovvero aloni di materia oscura senza galassie? Quali condizioni dovrebbero presentarsi affinché all’interno di un alone di materia oscura le stelle non riescano a formarsi? Al di sotto di quale massa? Lo ha ora calcolato un astrofisico computazionale dell’Università della California a San Diego, Ethan Nadler, primo e unico autore di uno studio – pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters – condotto avvalendosi di previsioni analitiche derivanti dalla teoria della formazione galattica e da simulazioni cosmologiche.
«Storicamente, la nostra comprensione della materia oscura è stata legata al suo comportamento nelle galassie. Scoprire l’esistenza di aloni completamente oscuri», dice Nadler, «aprirebbe una nuova finestra per lo studio dell’universo».
Assumendo un processo innescato dal raffreddamento del gas di idrogeno atomico, in precedenza era stato stimato che la soglia minima per dare il via alla formazione stellare fosse compresa tra cento milioni e un miliardo di masse solari. Assumendo invece che il raffreddamento coinvolga anche idrogeno molecolare, calcola Nadler, ecco che la soglia critica si abbassa a dieci milioni di masse solari. Considerando l’abbondanza di galassie satelliti della Via Lattea, questi risultati implicano che almeno alcune delle galassie nane ultra-deboli conosciute si siano formate, appunto, tramite raffreddamento molecolare, sottolinea l’astronomo.
Quanto agli aloni formati completamente di materia oscura, le osservazioni in corso, dallo spazio, con il James Webb Space Telescope e quelle in arrivo, da terra, con l’entrata in funzione dell’Osservatorio Rubin dovrebbero poter confermare, a breve, se effettivamente esistono.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The Impact of Molecular Hydrogen Cooling on the Galaxy Formation Threshold”, di Ethan O. Nadler
Hubble svela una “fabbrica di stelle”
Un angolo affascinante e remoto dell’universo, quello che siamo in grado di osservare grazie alla nuova immagine dell’ammasso stellare Ngc 346 prodotta dal telescopio spaziale Hubble. Una vera e propria nursery stellare composta da oltre 2500 stelle neonate, molte delle quali sono decine di volte più massicce del Sole. L’ammasso si trova nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea, situata a circa 210mila anni luce da noi, nella costellazione del Tucano. A differenza della nostra galassia, la Piccola Nube di Magellano è meno ricca di elementi più pesanti dell’elio, quelli gli astronomi definiscono “metalli”. Questa carenza di metalli rende le condizioni all’interno della Piccola Nube di Magellano simili a quelle che esistevano nell’universo primordiale, quando le prime galassie stavano appena iniziando a formarsi.
L’ammasso stellare si staglia in una nebulosa dai toni blu e rosa, con le stelle blu che brillano intensamente. Le nubi di polvere e gas si intrecciano attorno a loro, modellate dalla potente radiazione stellare. Sullo sfondo, stelle arancioni emergono tra le nubi, completando un quadro straordinario di creazione stellare. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, A. Nota, P. Massey, E. Sabbi, C. Murray, M. Zamani (Esa/Hubble)
Sebbene siano già state pubblicate in precedenza diverse immagini di Ngc 346, questa nuova osservazione combina, per la prima volta, i dati provenienti dalle lunghezze d’onda infrarosse, ottiche e ultraviolette, offrendo una visione incredibilmente dettagliata di questa vivace “fabbrica” di stelle.
Le stelle più massicce che vediamo nell’immagine,brillano di un intenso blu, mentre la nebulosa rosa che le avvolge, insieme alle nubi scure e serpentiformi, segna i resti del loro luogo di nascita. Come veri e propri “scultori cosmici”, le stelle calde e massicce di Ngc 346 emettono radiazioni intense e producono violenti venti stellari che interagiscono con il gas circostante, causando la dispersione della nebulosa e dando vita a una vasta bolla di gas in espansione.
La nebulosa, conosciuta come N66, è una delle regioni H II più brillanti della Piccola Nube di Magellano. Le regioni H II sono aree di gas ionizzato, illuminate dalla luce ultravioletta emessa da stelle giovani e calde, come quelle presenti in Ncg 346, che hanno solo pochi milioni di anni. La brillantezza della nebulosa è un chiaro segno della giovane età dell’ammasso stellare. Una regione H II, infatti, emette luce solo grazie alle stelle giovani e calde dell’ammasso, che la inondano di radiazione ultravioletta.
Astronauti su Marte? Impresa azzardata
Paolo Ferri, “Volare oltre il cielo. I segreti dell’esplorazione spaziale”, Raffaello Cortina Editore, 2025, 280 pagine, 23 euro
Dopo che, nel suo discorso inaugurale, il presidente Trump ha detto di voler piantare la bandiera americana su Marte, sono in molti a chiedersi quanto realistica sia questa affermazione. Mentre è certamente vero che Elon Musk abbia intenzione di inviare a Marte in tempi relativamente brevi uno dei suoi Starship per una missione esplorativa senza equipaggio al fine di mettere alla prova la capacità di atterraggio e di decollo della navetta. Per un viaggio con equipaggio, necessario per piantare la bandiera, le difficoltà da affrontare e da risolvere sono ancora molte.
Per avere un’idea della complessità dei problemi posti da un viaggio a Marte con astronauti, consiglio la lettura del libro di Paolo Ferri intitolato Volare oltre il cielo, dall’eloquente sottotitolo I segreti dell’esplorazione spaziale. Segreti che sono state le sfide che Paolo Ferri ha affrontato nella sua lunga carriera all’Agenzia spaziale europea. Il libro descrive e spiega passo passo i vari stadi di una missione spaziale, dalla costruzione del veicolo che dovrà operare nello spazio, al lancio, al controllo e alla gestione in orbita circumterrestre, per poi passare alle traiettorie interplanetarie e alle problematiche legate alla sopravvivenza degli essere umani nello spazio. Proprio a questo capitolo bisogna fare riferimento per capire quanto sia azzardata (e probabilmente irrealistica) la promessa del presidente Trump. Intendiamoci, sappiamo benissimo come si manda una sonda su Marte. La Nasa ha realizzato ammartaggi di grande successo facendo atterrare rover grandi come Suv che esplorano la superficie di Marte, analizzano l’atmosfera, perforano le rocce e raccolgono campioni, ma tutti i viaggi sono stati di sola andata, nessuna missione ha effettuato il decollo dalla superficie di Marte e il rientro a Terra. Proprio perché siamo già andati su Marte, sappiamo perfettamente quale deve essere la tempistica di una missione di questo tipo. Occorre partire in una finestra di lancio calcolata per sfruttare l’avvicinamento periodico di Terra e Marte per minimizzare la strada da fare. Anche nelle migliori condizioni astronomiche, però, con la propulsione che è oggi disponibile il trasferimento da un pianeta all’altro non dura mai meno di sette mesi. Ed è proprio la lunghezza del viaggio a porre i problemi più grandi perché, oltre a dover disporre di astronavi spaziose che permettano agli astronauti di vivere in modo confortevole, magari coltivando almeno una parte del loro cibo in serre, e facendo continua attività fisica per evitare che la lunga permanenza in assenza di gravità faccia diminuire troppa la loro massa muscolare, occorre sviluppare un modo per proteggere gli essere umani da una presenza subdola ma pericolosissima: le particelle della radiazione cosmica. Si tratta di particelle di alta energia che pervadono lo spazio provenendo da distanti acceleratori cosmici ma anche dal Sole nei momenti di maggiore attività della nostra stella. Noi ci siamo evoluti sul pianeta Terra al riparo da questa radiazione che viene deviata dal campo magnetico e assorbita dall’atmosfera, ma gli astronauti nei viaggi interplanetari non hanno altra protezione che la loro capsula, le cui parete non possono essere troppo spesse perché renderebbero proibitivi i costi dei lanci. Durante il viaggio a Marte gli astronauti accumulerebbero una dose troppo alta di radiazione, che è nota per essere estremamente cancerogena.
Inoltre, una volta arrivati a Marte e piantata la bandiera, gli astronauti non possono ripartire subito. Da un lato, la meccanica celeste non perdona e occorre aspettare una nuova finestra di allineamento, dall’altra bisogna darsi da fare per trovare il modo di riempire i serbati della navicella che li dovrà fare decollare da Marte, perché le stesse limitazioni di peso che impediscono di avere pareti troppo spesse fanno sì che sia impossibile caricare a terra il carburante per il ritorno che, in ogni caso, dovrà durare non meno di sette mesi.
Un’avventura lunga, dalla logistica difficile, ma soprattutto veramente pericolosa per la salute degli astronauti. Per limitare i rischi occorrerebbe accorciare i tempi di transito, sviluppando propulsori nucleari che sono sempre nell’agenda della Nasa, anche se non sono ancora stati realizzati. L’idea ha almeno mezzo secolo ed evoca il genio di Wernher von Braun che, una volta terminata con successo la missione Apollo 11, si presentò al Congresso per chiedere finanziamenti per il prossimo passo: l’esplorazione umana di Marte. Era l’agosto 1969, e von Braun, dopo avere ricevuto la (meritatissima) standing ovation del Congresso, descrisse il suo piano per portare gli astronauti americani su Marte. Era perfettamente conscio che c’erano ancora molti problemi da risolvere, specialmente per migliorare la propulsione, ma era sicuro che fosse possibile arrivare entro una decina di anni. Nelle sue previsioni l’ammartaggio sarebbe avvenuto nel 1981. Dopo tutto, in appena otto anni la Nasa era passata dal primo volo di un essere umano alla passeggiata sulla Luna. Von Braun aveva fatto una stima realistica dei costi e disse che, con l’equivalente di una guerra “minore”, una delle tante che vedevano coinvolti i militari americani, lui avrebbe portato a termine la missione a Marte. Forse non aveva ben chiari i problemi della radiazione cosmica o forse pensava che gli astronauti avevano liberamente deciso di intraprendere una carriera molto pericolosa. Il Congresso non approvò la missione a Marte. Chissà cosa succederà adesso.
Rossa e morta, questa galassia s’è subito spenta
Per lungo tempo, gli scienziati hanno ritenuto che nell’universo primordiale esistessero solo galassie con un’intensa formazione stellare. Tuttavia, il telescopio spaziale James Webb (Jwst) ha smentito questa convinzione. Un team internazionale di astronomi, guidato dall’Università di Ginevra (Unige), ha recentemente scoperto una galassia eccezionale che sfida i modelli teorici sull’evoluzione cosmica. Analizzando centinaia di spettri raccolti da Webb, i ricercatori hanno individuato una galassia che aveva già smesso di formare stelle in un’epoca in cui la maggior parte delle galassie era ancora in rapida crescita. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal.
Tre spettri ripresi da NirSpec sovrapposti a un’immagine ripresa dal NirCam, due strumenti a bordo del James Webb Space Telescope. La galassia record è mostrata al centro. Nell’immagine appare in rosso e il suo spettro diminuisce verso sinistra, a lunghezze d’onda corte. Per confronto, gli spettri in alto e in basso, in blu e viola, mostrano galassie tipiche in formazione stellare in un momento simile della storia cosmica. Crediti: Nasa/Csa/Esa, A. Weibel, P. A. Oesch (Università di Ginevra), team Rubies: A. de Graaff (Mpia Heidelberg), G. Brammer (Istituto Niels Bohr), Archivio Dawn Jwst
Nell’universo primordiale, una galassia tipica accresce gas dal mezzo intergalattico circostante e lo trasforma in stelle. Questo processo ne aumenta la massa, portando a un’accrezione di gas ancora più efficiente e accelerando la formazione stellare. Tuttavia, le galassie non crescono all’infinito: a un certo punto, subiscono un fenomeno noto come quenching, che ne arresta la crescita. Le cause del quenching possono essere molteplici: l’esaurimento del gas disponibile per la formazione stellare, il feedback di buchi neri supermassicci, venti stellari e supernove, interazioni con altre galassie e stripping del gas a causa dell’interazione con il mezzo intergalattico denso.
Nell’universo locale, circa la metà delle galassie osservate ha ormai smesso di formare stelle, spegnendosi e cessando di crescere. Gli astronomi le definiscono galassie quiescenti, spente o “rosse e morte”. Queste galassie appaiono rosse perché non ospitano più stelle blu giovani e luminose, ma solo stelle più vecchie, piccole e tendenti al rosso, appunto.
Una percentuale particolarmente elevata di galassie quiescenti si trova tra le più massicce, che spesso presentano una morfologia ellittica. La loro formazione richiede solitamente tempi lunghi, poiché devono accumulare un numero significativo di stelle prima che la formazione stellare si arresti del tutto. Tuttavia, il meccanismo esatto che provoca il quenching nelle galassie resta ancora un mistero irrisolto. «Trovare i primi esempi di galassie massicce quiescenti (Mqg, dall’inglese massive quiescent galaxies) nell’universo primordiale è fondamentale perché getta luce sui loro possibili meccanismi di formazione», dice Pascal Oesch, professore associato presso il Dipartimento di astronomia della Facoltà di scienze di Unige e coautore dell’articolo. La caccia a questi sistemi è da anni uno dei principali obiettivi degli astronomi.
Grazie ai progressi tecnologici, in particolare alla spettroscopia nel vicino infrarosso, è stata confermata la presenza di galassie massicce quiescenti in epoche cosmiche sempre più remote. La loro abbondanza è stata difficile da conciliare con i modelli teorici di formazione delle galassie, che prevedono che tali sistemi richiedano più tempo per formarsi. Con Jwst, questa tensione è stata spinta fino a un redshift di 5 (1,2 miliardi di anni dopo il Big Bang), dove negli ultimi anni sono stati confermati diversi Mqg. Il nuovo studio rivela che queste galassie si sono formate ancora prima e più rapidamente di quanto si pensasse.
Il programma Rubies – acronimo di Red Unknowns: Bright Infrared Extragalactic Survey, uno dei più grandi programmi di ricerca extragalattica a guida europea che utilizza lo strumento NirSpec di Jwst – ha ottenuto osservazioni spettroscopiche di diverse migliaia di galassie, tra cui centinaia di sorgenti appena scoperte dai primi dati di imaging di Jwst. Tra questi nuovi spettri, gli scienziati hanno identificato la più distante galassia massiccia quiescente trovata finora, con un redshift spettroscopico di 7,29 – appena circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang. Lo spettro rivela una popolazione stellare sorprendentemente vecchia in un universo così giovane. Una modellizzazione dettagliata dello spettro e dei dati di imaging mostra che la galassia ha formato una massa stellare di oltre dieci miliardi di masse solari nei primi 600 milioni di anni dopo il Big Bang, prima di cessare rapidamente la formazione stellare, confermando così la sua natura quiescente.
Andrea Weibel, student PhD al Dipartimento di Astronomia, Facoltà di Scienze, Unige. Crediti: Weibel, Andrea
«La scoperta di questa galassia, denominata Rubies-Uds-Qg-z7, implica che le galassie massicce quiescenti nei primi miliardi di anni dell’universo sono oltre cento volte più abbondanti di quanto previsto da qualsiasi modello fino a oggi», dice Andrea Weibel, dottorando presso il Dipartimento di astronomia della Facoltà di scienze di Unige e primo autore dell’articolo.
Questo, a sua volta, suggerisce che alcuni fattori chiave nei modelli teorici – come gli effetti dei venti stellari e la potenza dei flussi in uscita alimentati dalla formazione stellare e dai buchi neri massicci – potrebbero necessitare di una revisione: le galassie si sono spente molto prima di quanto questi modelli sono in grado di prevedere.
Infine, le dimensioni straordinariamente ridotte di questa galassia – appena 650 anni luce – indicano un’alta densità di massa stellare, paragonabile alle più elevate densità centrali osservate nelle galassie quiescenti a redshift leggermente inferiori (z ~2-5). È probabile che queste galassie si evolvano nei nuclei delle ellittiche più antiche e massicce dell’universo locale.
«La scoperta di Rubies-Uds-Qg-z7 fornisce la prima forte evidenza che i centri di alcune galassie ellittiche massicce vicine potrebbero essere già presenti fin dalle prime centinaia di milioni di anni dell’universo», conclude Anna de Graaff, principal investigator del programma Rubies, del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg e seconda autrice dello studio.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal l’articolo “RUBIES Reveals a Massive Quiescent Galaxy at z = 7.3” di Andrea Weibel, Anna de Graaff, David J. Setton, Tim B. Miller, Pascal A. Oesch, Gabriel Brammer, Claudia D. P. Lagos, Katherine E. Whitaker, Christina C. Williams, Josephine F.W. Baggen, Rachel Bezanson, Leindert A. Boogaard, Nikko J. Cleri, Jenny E. Greene, Michaela Hirschmann, Raphael E. Hviding, Adarsh Kuruvanthodi, Ivo Labbé, Joel Leja, Michael V. Maseda, Jorryt Matthee, Ian McConachie, Rohan P. Naidu, Guido Roberts-Borsani, Daniel Schaerer, Katherine A. Suess, Francesco Valentino, Pieter van Dokkum e Bingjie Wang
I connotati di Aguas Zarcas
,La sera del 23 aprile del 2019, il cielo a nord della Repubblica di Costa Rica è stato illuminato per qualche istante dal un lampo improvviso. Il fenomeno luminoso, immortalato da diverse telecamere, si è presto rivelato essere una meteora, la scia luminosa causata da un meteoroide entrato in contatto con l’atmosfera terrestre. Pochi istanti dopo, infatti, al bagliore è seguita la caduta al suolo di numerosi frammenti di roccia, il più grosso dei quali, rinvenuto all’interno di una casa, pesava oltre un chilogrammo.
Il frammento di 146 grammi del meteorite di Agus Zarcas utilizzato in questo studio. Crediti: Arizona State University / Seti Institute
I frammenti in questione, il cui peso complessivo si aggira intorno ai 30 chilogrammi, sono quelli della meteorite di Aguas Zarcas: dopo la meteorite di Murchison, la più massiccia condrite carbonacea ad aver raggiunto la Terra. Così chiamata dal nome della città costaricana in cui è caduta, Aguas Zarcas, appunto, la meteorite è stata ampiamente caratterizzata dal punto di vista chimico. Grazie alla grande quantità di frammenti disponibili, è stata utilizzata in diversi esperimenti di impatto e studi petrologici. Poco si sa, tuttavia, circa la traiettoria, la curva di luce e l’orbita del meteoroide che l’ha originata. Un team di ricercatori guidati dal Seti Institute di Mountain View, in California, ha ora colmato questa lacuna.
Per riuscire ad ottenere le informazioni necessarie, i ricercatori hanno passato al setaccio i numerosi filmati che hanno immortalato il bolide, da quelli ripresi dalle telecamere di sicurezza di diverse istituzioni locali a quelli girati dalle dashcam installate sulle automobili dei cittadini che hanno assistito al raro fenomeno. I video originali sono stati esaminati minuziosamente, fotogramma per fotogramma, contrassegnando in ciascuno la posizione del frammento principale. Una volta identificato, i ricercatori hanno determinato la posizione dell’orizzonte e delle direzioni cardinali (nord, sud, est, ovest) per avere un adeguato riferimento geografico. Successivamente, utilizzando il software Stellarium, hanno determinato l’azimut (l’angolo orizzontale rispetto al nord) e l’elevazione (l’altezza angolare sopra l’orizzonte) di queste posizioni nel campo visivo di ciascuna ripresa. Due stelle riconoscibili in un video – Sirio e Betelgeuse – hanno consentito una calibrazione assoluta della posizione e dell’orientamento dell’orizzonte. Infine, utilizzando metodi di triangolazione e di allineamento astrometrico, hanno derivato la posizione del meteorite in ogni istante e ricostruito la traiettoria. Inoltre, analizzando la variazione della posizione nel tempo nei vari fotogrammi, hanno ricavato la velocità iniziale, quindi hanno stimato la massa e la densità del frammento.
Lo studio della roccia non si è fermato qui. Misurando l’intensità della luce nei vari fotogrammi video e sottraendola con il segnale di fondo, i ricercatori ne hanno determinato anche la curva di luce, che è stata poi allineata con i dati di luminosità ottenuti dal Geostationary Lightning Mapper (Glm), un satellite che ha osservato il flare luminoso prodotto dal bolide.
Immagine che mostra la posizione delle telecamere che hanno catturato il bolide rispetto alla sua traiettoria. Crediti: Peter Jenniskens et al., Meteoritics & Planetary Science, 2025
L’ultima analisi condotta ha riguardato la stima della concentrazione di alcuni radionuclidi in un frammento conservato all’Arizona State University. L’indagine, eseguita per determinare le dimensioni originali e l’età del meteoroide, è stata effettuata mediante tecniche di spettrometria non distruttiva nella facility SubTerranean Low-Level Assay (Stella) dei Laboratori nazionali del Gran Sasso.
I risultati della ricerca, pubblicati di recente sulla rivista Meteoritics & Planetary Science, indicano che il meteoroide di Aguas Zarcas si è avvicinato alla Terra su una traiettoria quasi verticale, seguendo un’orbita con una bassa inclinazione. Aveva un diametro di 60 cm e una massa di circa 250 chilogrammi, metà della quale sarebbe sopravvissuta fino a 32 chilometri di altitudine. Il bolide, proveniente da ovest-nordovest, viaggiava ad una velocità di circa 14 chilometri al secondo, frammentarsi a qualche decina di chilometri di altitudine.
«Il meteoroide ha attraversato l’atmosfera terrestre fino a un’altitudine di 25 chilometri, dove la massa residua si è infine disgregata», dice a questo proposito Peter Jenniskens, ricercatore al Seti Institute di Mountain View e primo autore dello studio. «A quel punto, ha prodotto un bagliore luminoso rilevato dai satelliti in orbita».
Le analisi suggeriscono inoltre che il meteoroide provenga dalla fascia principale degli asteroidi, e che si sia staccato dal suo progenitore, probabilmente un asteroide della famiglia Themis, circa due milioni di anni fa. Il corpo celeste avrebbe quindi attraversato lo spazio interplanetario senza mai collidere con altri corpi, il che avrebbe permesso alla roccia di rimanere strutturalmente integra, priva delle fratture che solitamente indeboliscono molti meteoriti.
Alcuni fotogrammi dei video utilizzati nello studio per ricostruire l’identikit del meteoroide di Aguas Zarcas. Crediti: Peter Jenniskens et al., Meteoritics & Planetary Science, 2025
«Riteniamo che questo oggetto celeste provenga da un asteroide più grande situato nella fascia degli asteroidi, probabilmente nelle sue regioni esterne», aggiunge Jenniskens. «Una volta staccatosi dal progenitore, il corpo celeste ha viaggiato per due milioni di anni prima di raggiungere la Terra, evitando di frantumarsi lungo il tragitto».
Questa circostanza, insieme alla bassa inclinazione dell’orbita con cui avrebbe approcciato la Terra e alla sua elevata resistenza, ha fatto in modo che una frazione relativamente grande del corpo celeste sopravvivesse all’ingresso e al passaggio nell’atmosfera terrestre, e che diversi frammenti raggiungessero il suolo.
«Del meteorite di Aguas Zarcas sono stati recuperati ben 27 chili di frammenti» conclude Jenniskens. «Si tratta della più grande massa di rocce di questo tipo raccolta dopo quella del meteorite di Murchison, caduto in Australia nel 1969».
Per saperne di più:
- Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Orbit, meteoroid size, and cosmic ray exposure history of the Aguas Zarcas CM2 breccia”, di Peter Jenniskens, Gerardo J. Soto, Gabriel Goncalves Silva, Oscar Lücke, Pilar Madrigal, Tatiana Ballestero, Carolina Salas Matamoros, Paulo Ruiz Cubillo, Daniela Cardozo Mourao, Othon Cabo Winter, Rafael Sfair, Clemens E. Tillier, Jim Albers, Laurence A. J. Garvie, Karen Ziegler, Qing-zhu Yin, Matthew E. Sanborn, Henner Busemann, My E. I. Riebe, Kees C. Welten, Marc W. Caffee, Matthias Laubenstein, Darrel K. Robertson e David Nesvorny
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L’asteroide 2024 YR4 è di classe Tunguska
Ricorderete senz’altro l’asteroide near-Earth 2024 YR4, salito agli onori della cronaca perché il 18 febbraio 2025 aveva raggiunto una probabilità d’impatto con la Terra del 3 per cento per il 22 dicembre 2032. Questa probabilità, relativamente elevata per un near-Earth, era crollata a zero nei giorni successivi, grazie a nuove osservazioni astrometriche fatte con il Vlt dell’Eso che hanno permesso di ridurre l’incertezza sui parametri orbitali. Naturalmente, Nasa, Esa e tutta la comunità mondiale di ricercatori che si dedica alla difesa planetaria hanno continuato a osservare l’asteroide. Una delle domande cruciali che attendevano ancora risposta era quali fossero le sue esatte dimensioni, perché il valore del diametro è un parametro importante per stabilire l’effettivo danno nel caso di collisione. Si sapeva che il diametro di 2024 YR4 era compreso fra 40 e 90 metri, ma un valore più preciso richiedeva la conoscenza della riflettività superficiale dell’asteroide che era del tutto ignota. Ora finalmente sappiamo quanto è grande 2024 YR4 con un piccolo margine di incertezza.
Grafico che mostra tutte le possibili posizioni (punti gialli), dell’asteroide 2024 YR4 il 22 dicembre 2032. Come si vede la Luna si trova molto vicino alla nube di asteroidi virtuali. Le posizioni sono calcolate con i dati orbitali del 2 aprile 2025. Crediti: Nasa Jpl/Cneos
Nuove osservazioni nell’infrarosso medio e vicino fatte con il James Webb Space Telescope della Nasa l’8 e il 26 marzo 2025, hanno permesso di stabilire la quantità di radiazione solare che 2024 Yr4 assorbe e riemette nello spazio nell’infrarosso. Questo valore, confrontato con la quantità di luce solare che l’asteroide riflette direttamente nello spazio (senza assorbirla), permette di stimare la riflettività superficiale e quindi il diametro.
Dai dati del Jwst si stima che 2024 YR4 abbia una dimensione compresa fra 53 e 67 metri, circa le dimensioni dell’asteroide responsabile della catastrofe di Tunguska. Questo intervallo di dimensioni corrisponde a una riflettività che va dall’8 al 18 per cento, coerente con le osservazioni telescopiche dal suolo che avevano stabilito che 2024 YR4 era un asteroide di tipo S.
I ricercatori del Center for Near Earth Object Studies della Nasa hanno anche aggiornato la probabilità che 2024 YR4 colpisca la Luna il 22 dicembre 2032. Dall’1,7 per cento di fine febbraio siamo passati al 3,8 per cento attuale. Questo non significa che la nostra Luna sia “spacciata”, prima di tutto perché c’è una probabilità del 96,2 per cento che l’asteroide la manchi. Anche nel caso di collisione, che avverrebbe alla velocità di circa 14 km/s, si creerebbe solo un piccolo cratere da impatto del diametro di circa 1,5-2 km e niente di più: il nostro satellite ha sostenuto collisioni ben più importanti nel suo passato, come testimoniano gli enormi crateri da impatto che si trovano sulla sua superficie e l’orbita lunare non ne risentirebbe. Dopo metà aprile, l’asteroide 2024 YR4 sarà troppo lontano e debole per essere osservato dai telescopi al suolo, ma il Jwst osserverà di nuovo l’asteroide a maggio. Con le nuove osservazioni sarà possibile aggiornare la probabilità d’impatto con la Luna che potrebbe salire oppure scendere a zero, come è successo con la Terra. Tutto dipenderà dalla nuova posizione della nube di asteroidi virtuali.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “JWST Observations of Potentially Hazardous Asteroid 2024 YR4” di A. S. Rivkin e colleghi.
- Leggi la news “NASA Update on the Size Estimate and Lunar Impact Probability of Asteroid 2024 YR4” di Molly Wasser.
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Asteroide 2024 YR4, la storia si ripete” di Albino Carbognani
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Sulle montagne russe con 2024 YR4” di Albino Carbognani
Sulla Luna, il fotovoltaico è fatto di regolite
La polvere di Luna, o regolite, è davvero insidiosa. Lo sanno bene gli astronauti delle missioni Apollo: la regolite si attacca ovunque, sbuffa e si solleva dal suolo coprendo la visuale e rendendo complicate anche le manovre di allunaggio e decollo. È un pericolo per elettronica, per gli strumenti, e per qualunque oggetto sul quale riesca ad aderire – cosa che le riesce benissimo, a causa della sua connaturata carica elettrostatica. Insomma, un problema da non sottovalutare quando si progetta una permanenza a lungo termine dell’uomo sulla Luna. E se il nemico non puoi sconfiggerlo, meglio allora cercare di portarlo dalla tua parte: uno studio pubblicato nella rivista Device di Cell Press presenta l’ideazione di celle solari fatte di polvere lunare “simulata”. Queste celle convertono la luce solare in energia in modo efficiente, resistono ai danni delle radiazioni e riducono la necessità di trasportare materiali pesanti nello spazio, e non da ultimo costituiscono una soluzione a una delle maggiori sfide dell’esplorazione spaziale: trovare fonti di energia affidabili.
Rappresentazione di un parco fotovoltaico sulla Luna, in cui le celle sono fatte di regolite grezza. Sono mostrati robot che prelevano la regolite grezza e la portano in un impianto di produzione, che fabbrica celle solari lunari a base di perovskite. In seguito, rover o astronauti automatizzati installeranno le celle solari prodotte per alimentare future abitazioni sulla Luna o addirittura città. Crediti: Sercan Özen
«Le celle solari oggi utilizzate nello spazio sono straordinarie e raggiungono efficienze del 30 per cento o addirittura del 40 per cento, ma questa efficienza ha un prezzo», spiega Felix Lang dell’Università di Potsdam, in Germania, che ha guidato il progetto. «Sono molto costose e relativamente pesanti, perché utilizzano vetro o una spessa pellicola come copertura. È difficile giustificare il trasporto di tutte queste celle nello spazio».
Invece di trasportare le celle solari dalla Terra, dunque, in vista della costruzione di una base lunare permanente la soluzione più sensata sarebbe utilizzare i materiali disponibili sulla Luna stessa. E qui entra in gioco la regolite: l’obiettivo è sostituire il vetro terrestre con quello ricavato dalla regolite lunare, riducendo così la massa di lancio di un veicolo spaziale del 99,4 per cento, e abbattendo il 99 per cento dei costi di trasporto.
Come dicevamo, per mettere alla prova l’idea i ricercatori non hanno usato la vera regolite lunare, bensì un materiale progettato per simulare la polvere che copre il nostro satellite. Materiale che hanno poi fuso per creare il vetro con cui hanno costruito le celle solari. L’altro materiale impiegato, assieme al vetro lunare, per il coating delle celle è la perovskite, un cristallo abbastanza economico e facile da produrre, ma soprattutto in grado di assorbire uno spettro più ampio di frequenze rispetto al silicio e molto efficiente nel trasformare la luce solare in elettricità. Secondo i calcoli, in uno scenario simile alla base lunare immaginata dall’Esa, portando sulla Luna un kg di precursori di perovskite, insieme a circa 1,12 tonnellate di regolite raccolte sul posto, è quanto occorre per fabbricare circa 400 metri quadrati di celle solari.
«Se si riduce il peso del 99 per cento, non c’è bisogno di avere celle solari ultra-efficienti al 30 per cento, basta produrne di più sulla Luna», sottolinea Lang. «Inoltre, le nostre celle sono più stabili contro le radiazioni, mentre le altre si degradano nel tempo».
Il vetro standard, infatti, si scurisce lentamente nello spazio, bloccando la luce solare e riducendo l’efficienza. Ma il vetro lunare ha una tonalità marrone naturale dovuta alle impurità della polvere lunare che lo costituisce, non si scurisce ulteriormente e rende le celle più resistenti alle radiazioni. E stando a quanto riportato dagli autori è anche più facile da fabbricare, poiché non richiede un processo di purificazione complesso e per fondere la regolite basterebbero le temperature raggiunte concentrando la luce solare. L’efficienza ottenuta, per ora, è del 10 per cento, ma con un vetro lunare più chiaro che lascia passare più luce si pensa di poter raggiungere il 23 per cento.
Immagine del materiale usato per simulare la regolite lunare, vetro lunare e celle solari lunari. L’inserto mostra una micrografia in sezione trasversale e la struttura cristallina della perovskite. Crediti: Felix Lang
Finita la lista dei pro, è ora di leggere anche quella dei contro. Il primo, la gravità lunare: minore rispetto a quella terrestre, potrebbe cambiare il modo in cui si forma il vetro lunare. Inoltre, i solventi attualmente utilizzati per lavorare la perovskite non funzionano nel vuoto della Luna. Infine, gli sbalzi di temperatura causati dall’assenza dell’atmosfera potrebbero minacciare la stabilità dei materiali.
Insidiosa la regolite, dicevamo all’inizio. Eppure, trasformarla in vetro per pannelli fotovoltaici non è la prima applicazione utile che gli scienziati hanno pensato per questa polvere extraterrestre: già si è pensato a un metodo per estrarne acqua da usare come combustibile, e anche di costruirci dei mattoni per fabbricare strutture in loco. Per scoprire se le celle solari prodotte con la polvere lunare sono veramente valide, però, bisognerà lanciare un esperimento su piccola scala direttamente sulla Luna e vedere cosa succede davvero.
Per saperne di più:
- Leggi su Device di Cell Press l’articolo “Moon photovoltaics utilizing lunar regolith and halide perovskites“, di Julian Mauricio Cuervo Ortiz, Juan Carlos Gines Palomares, Sercan Ozen, Marlene Härtel, Sema Sarisozen, Alina Dittwald, Georgios Kourkafas, Andrés Felipe Castro-Méndez,1 Francisco Peña-Camargo, Biruk Alebachew Seid, Jürgen Bundesman, Andrea Denker, Heinz-Christoph Neitzert, Dieter Neher, Enrico Stoll, Stefan Linke e Felix Lang
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Sotto la crosta, il segreto che scotta
Immagine tridimensionale a colori del vulcano Sapas Mons, su Venere. Questo vulcano, ripreso dalla sonda Magellano della Nasa è alto 1,5 chilometri e potrebbe essere ancora attivo. Crediti: Nasa
Un mondo rovente e costellato da decine di migliaia di vulcani: questo è Venere, il secondo pianeta del Sistema solare, che nasconde sotto la sua crosta superficiale i segreti delle eruzioni di lava incandescente. Da tempo, infatti, gli scienziati si interrogano su come il calore proveniente dall’interno del pianeta possa arrivare in superficie. Nonostante i numerosi studi, la storia geologica venusiana potrebbe essere ancora più dinamica di quanto si pensasse.
«Nessuno finora aveva mai considerato la possibilità di una convezione nella crosta di Venere», dichiara Slava Solomatov, professore di scienze terrestri, ambientali e planetarie alla Washington University di St. Louis e primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Physics of Earth and Planetary Interiors. «I nostri calcoli suggeriscono che la convezione è possibile, anzi addirittura probabile. Se ciò fosse vero, ci darebbe nuove informazioni sull’evoluzione del pianeta».
Ma cosa si intende per convezione? Si tratta di un processo ben noto in geologia, che si verifica quando il materiale riscaldato sale verso la superficie di un pianeta e quello più freddo scende, creando una sorta di “nastro trasportatore” costantemente in funzione. Sulla Terra, la convezione avviene nelle profondità del mantello e fornisce l’energia che guida la tettonica a placche. La crosta terrestre, spessa circa quaranta chilometri nei continenti e sei chilometri nei bacini oceanici, è troppo sottile e fredda per sostenere la convezione, spiega Solomatov. Al contrario, la crosta di Venere potrebbe avere lo spessore – dai 30 ai 90 chilometri circa, a seconda della posizione – la temperatura e la composizione rocciosa ideali per far funzionare il nastro trasportatore.
Solomatov e il coautore Chhavi Jain, hanno verificato questa possibilità applicando alcune nuove teorie fluidodinamiche sviluppate in laboratorio. I calcoli suggerirebbero, in effetti, che la crosta venusiana possa supportare la convezione e che questa riesca ad avere un ruolo centrale nel trasporto di calore e nella formazione delle strutture superficiali del pianeta. «La convezione nella crosta potrebbe essere proprio il meccanismo chiave mancante», afferma Solomatov.
Nel 2024, i due ricercatori hanno utilizzato un approccio simile per indagare la convezione crostale su Mercurio. Ma su questo pianeta del Sistema solare, troppo piccolo e raffreddatosi in modo significativo ormai oltre 4,5 miliardi di anni fa, la convezione probabilmente non avviene nel mantello.
Mappa topografica della superficie di Venere. Il mosaico è stato creato utilizzando i dati radar ad alta risoluzione della missione Magellano della Nasa (circa 75 metri per pixel). Crediti: Nasa / Jpl / Caltech (McAuley)
Venere, invece, è un pianeta caldo sia all’interno che all’esterno. Le temperature superficiali superano i 460 gradi centigradi e i suoi vulcani e altre caratteristiche superficiali mostrano chiari segni di fusione. Tracce talmente evidenti che, nel 2023, Paul Byrne, collega di Solomatov e professore associato di scienze terrestri, ambientali e planetarie, ha pubblicato un atlante di 85 mila vulcani venusiani basandosi sulle immagini radar della missione Magellano della Nasa.
Ora, i nuovi risultati potrebbero costruire un nuovo quadro teorico per spiegare questa immensa attività vulcanica? «La possibilità che meccanismi convettivi su Venere possano aver luogo all’interno della crosta, e non nel mantello come avviene sulla Terra, oltre a rappresentare una novità, apre a sviluppi interessanti nella comprensione della geologia e del vulcanismo venusiano», afferma Piero D’Incecco, non coinvolto nello studio ma esperto di geologia planetaria dell’Osservatorio Astronomico d’Abruzzo dell’Inaf e coordinatore del progetto Avengers, che analizza il vulcanismo recente di Venere utilizzando analoghi terrestri. «Sarà, ad esempio, interessante capire se esiste una relazione tra il meccanismo di convezione crostale e la posizione delle numerose strutture vulcaniche presenti sulla superficie di Venere, in particolare quelle geologicamente più recenti».
Il picco vulcanico Idunn Mons. La sovrapposizione colorata mostra i modelli di calore derivati dai dati di luminosità della superficie raccolti dallo spettrometro di immagini termiche nel visibile e nell’infrarosso. Questo vulcano e tutta la regione circostante sono al centro degli studi di Piero D’Incecco (OA Abruzzo) che proposto l’area come landing site per il lander della missione russa Venera-D. Crediti: Esa/Nasa/Jpl
Le implicazioni dello studio sembrano essere notevoli, dunque. Se confermata, la convezione crostale potrebbe rivoluzionare la comprensione di Venere, aprire a un modo completamente nuovo di pensare alla geologia superficiale del pianeta e fornire nuovi dati per l’interpretazione delle sue anomalie gravitazionali e topografiche. Inoltre, potrebbe suggerire nuovi scenari per la formazione e l’evoluzione di altri corpi planetari.
La conferma delle ipotesi di Solomatov potrebbe arrivare dalle prossime missioni su Venere e, se la convezione nella crosta di Venere verrà confermata, il nostro modo di vedere il pianeta cambierà radicalmente, rivelando un mondo ancora più dinamico di quanto immaginato. «Le future missioni attualmente selezionate per il lancio – come ad esempio Veritas della Nasa, EnVision dell’Esa e Roscosmos Venera-D – forniranno dati ancor più accurati di temperatura e densità della crosta, e consentiranno di analizzare meglio l’eventualità di una convezione crostale su Venere», conclude D’Incecco.
Per saperne di più:
- Leggi su Physics of Earth and Planetary Interiors l’articolo “On the possibility of convection in the Venusian crust” di Viatcheslav S. Solomatov e Chhavi Jain
Foto dell’antimateria con sensori da smartphone
L’esperimento Aeḡis (Antimatter Experiment: Gravity Interferometry and Spectroscopy), in corso al Cern con la collaborazione dell’Infn, ha ottenuto un importante risultato pubblicato ieri, 2 aprile 2025, sulla rivista Science Advances.
I ricercatori e le ricercatrici di Aeḡis hanno sviluppato un’idea innovativa per studiare l’antimateria: hanno “hackerato” un sensore di immagine comunemente utilizzato nelle fotocamere dei telefoni cellulari, normalmente usato per trasformare la luce in ingresso in un’immagine digitale, modificandolo per rivelare le antiparticelle in arrivo. L’uso di questi sensori (chiamati Cmos, Complementary Metal Oxide Semiconductor), che hanno pixel di silicio di dimensioni inferiori a un micrometro, ha portato a risultati senza precedenti.
Optical Photon and Antimatter Imager con 60 sensori Sony Imx686 integrati. Crediti: Andreas Heddergott/Tum
L’esperimento, infatti, ha stabilito un nuovo record mondiale di risoluzione nella rivelazione delle annichilazioni di antimateria, riuscendo a determinare la posizione dell’impatto degli antiprotoni sulla superficie del sensore con una precisione di 600 nanometri. Oltre al punto di impatto, il sensore ha dimostrato di essere in grado di rivelare la traiettoria dei frammenti risultanti dall’annichilazione con la più alta risoluzione mai raggiunta finora in un rivelatore a pixel.
Aeḡis è uno degli esperimenti attivi nella Antimatter Factory del Cern e vede l’Infn tra i principali finanziatori: ha come obiettivo scientifico la misura dell’accelerazione gravitazionale dell’antidrogeno. Questa misura ha lo scopo di verificare la validità del principio di equivalenza debole di Einstein, uno dei capisaldi della teoria della Relatività generale, anche per l’antimateria.
«Questo sensore rappresenta un vero e proprio punto di svolta per l’osservazione della piccola deviazione causata dalla gravità in un fascio di antidrogeno che si muove orizzontalmente, e potrebbe avere un impatto significativo anche più in generale per la fisica delle particelle, specialmente in esperimenti dove l’alta risoluzione di posizione è cruciale», spiega Ruggero Caravita, ricercatore Infn del Centro nazionale Tifpa di Trento e responsabile della collaborazione Aeḡis. «Grazie a questa straordinaria risoluzione, siamo anche in grado di distinguere le diverse tipologie di frammenti delle annichilazioni, frammenti nucleari, particelle alpha, protoni e pioni, e potremo fare un salto in avanti nella comprensione delle interazioni tra antiprotoni a bassa energia e materiali».
«Tuttavia, un singolo sensore non è sufficiente per la maggior parte degli scopi, date le sue ridotte dimensioni», aggiunge Francesco Guatieri della Research Neutron Source Frm II della Technical University di Monaco, coordinatore della ricerca. «Per questo abbiamo integrato 60 di questi sensori in un singolo dispositivo, l’Optical Photon and Antimatter Imager (Ophanim), ottenendo il rivelatore fotografico con il maggior numero di pixel attualmente operativo: 3840 megapixel. Questo ci permette di avere sia altissima risoluzione, sia una buona superficie di raccolta delle particelle».
Il rivelatore realizzato è l’equivalente elettronico di una lastra fotografica. Confrontando la risoluzione di ciascun sensore con il record di tracciamento delle particelle in un rivelatore a emulsione, che si attesta intorno a 300 nanometri (ottenuto dall’esperimento Opera ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn nel 2008), si osserva che il nuovo dispositivo raggiunge una risoluzione praticamente equivalente, ma in modalità elettronica, rendendo quindi i dati immediatamente leggibili.
L’Infn è tra i protagonisti scientifici e tra i principali finanziatori dell’esperimento Aeḡis, da sempre a trazione italiana, e ora inserito nel contesto della collaborazione Lea (Low Energy Antimatter) dell’Infn, che raggruppa in un unico progetto le diverse attività scientifiche dell’Istituto in questo settore. Della collaborazione scientifica Aeḡis fanno parte gruppi di ricerca del Centro nazionale dell’Infn Tifpa e dell’Università di Trento, della Sezione dell’Infn dell’Università Statale di Milano, del Politecnico di Milano, e della Sezione Infn di Pavia e dell’Università di Brescia.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Real-time antiproton annihilation vertexing with submicrometer resolution”, di Michael Berghold, Davide Orsucci, et al.
Il canto delle stelle di M67
Immagine dell’ammasso stellare M67. Crediti: Sloan Digital Sky Survey/ Wikipedia
Le stelle non sono solo oggetti celesti lontani, ma veri e propri testimoni del passato e del futuro dell’universo. Le loro “melodie cosmiche” rivelano segreti nascosti, offrendo uno sguardo unico sull’evoluzione della nostra galassia e sul destino che ci attende. È quanto afferma il team di ricerca guidato da Claudia Reyes, ricercatrice alla University of New South Wales (Unsw) di Sydney (Australia) e prima autrice di uno studio pubblicato oggi su Nature. Il lavoro ha analizzato 27 stelle che si trovano nell’ammasso stellare M67, situato a 2700 anni luce dalla Terra. Stelle nate tutte dalla stessa nube di gas, circa quattro miliardi di anni fa. Pur avendo una composizione chimica simile, presentano masse diverse, e questo le rende perfette per studiare l’evoluzione stellare come se la osservassimo in “tempo reale”, perché la velocità con cui le stelle evolvono dipende essenzialmente dalla loro massa.
«Quando studiamo le stelle in un ammasso, possiamo osservare l’intero processo evolutivo di ciascuna di esse», spiega Reyes, sottolienando come M67 sia in quetso senso un ammasso speciale, perché include una vasta gamma di stelle “giganti”, che vanno dalle subgiganti più piccole e meno evolute, fino alle giganti rosse, stelle più mature.
«Studiare una sequenza evolutiva così lunga come quella che abbiamo osservato in questo ammasso è una novità assoluta», aggiunge Dennis Stello della Unsw, co-autore dello studio. «La principale difficoltà in astronomia è infatti determinare l’età di una stella, poiché non è la superficie a rivelarla, ma ciò che accade al suo interno».
Ciò che ha permesso, in questo studio, di determinare con precisione l’età e la massa delle stelle è stata la loro frequenza di oscillazione. Ogni stella “suona” a una frequenza unica, che dipende dalle proprietà fisiche del suo interno, come densità, temperatura e – per l’appunto – età. Gli scienziati hanno utilizzato i dati raccolti dalla missione Kepler K2 per “ascoltare” e misurare queste oscillazioni. «La frequenza con cui uno strumento vibra o “suona” risente delle proprietà fisiche del materiale attraverso cui il suono viaggia», prosegue Stello, «Per le stelle è lo stesso: è possibile “ascoltare” una stella in base al modo in cui vibra. Possiamo osservare la vibrazione, o l’effetto della vibrazione, del suono proprio come si può vedere la vibrazione di una corda di violino».
In particolare, le stelle più grandi emettono “suoni” più profondi, mentre quelle più piccole producono “suoni” acuti. Inoltre, nessuna di esse emette una sola nota: ogni stella genera una vera e propria sinfonia di suoni provenienti dal suo interno. Studiarle è dunque un po’ come ascoltare un’orchestra mentre suona una sinfonia e provare a identificare tutti gli strumenti che la compongono in base al suono.
Ma se nello spazio non esiste il suono, poiché privo di particelle che permettano la trasmissione delle vibrazioni acustiche, come hanno fatto gli scienziati ad “ascoltare” le stelle? Grazie alle fluttuazioni nella loro luminosità. «Ogni stella è come una palla di gas che respira, raffreddandosi e riscaldandosi, con lievi cambiamenti in luminosità», spiega Stello. «Sono queste fluttuazioni di luminosità ciò che abbiamo osservato e misurato per determinare le frequenze del suono».
Man mano che le stelle evolvono verso la fase di giganti rosse, le loro frequenze cambiano e assumono comportamenti differenti. Questi cambiamenti possono fornire informazioni sulla loro evoluzione e rivelare dettagli sulle loro proprietà interne. Studiando le 27 stelle dell’ammasso M67, i ricercatori sono riusciti per la prima volta a osservare la relazione tra le piccole e grandi differenze di frequenza nelle stelle giganti – relazione che ora può essere applicata anche a singole stelle.
Ad esempio, secondo gli autori, poiché le stelle di M67 hanno un’età e una composizione chimica simile a quelle del Sole, sono in grado di offrire informazioni cruciali sulla formazione e sull’evoluzione del nostro sistema solare, nonché sul destino della nostra stella. «Questo studio ci permette di penetrare nei meccanismi fisici più profondi che avvengono all’interno delle stelle», conclude Stello. «È importante per noi poter costruire modelli evolutivi di cui possiamo fidarci per predire cosa accadrà al Sole e ad altre stelle man mano che invecchiano».
Il prossimo passo per gli scienziati sarà analizzare queste “sinfonie” del cielo con un nuovo approccio, aprendo così nuove possibilità per comprendere meglio l’universo e le stelle che lo popolano. «Torneremo ad analizzare i dati raccolti negli anni passati per cercare queste frequenze particolari che nessuno aveva mai notato prima», conclude Reyes.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Acoustic modes in M67 cluster stars trace deepening convective envelopes” di Claudia Reyes, Dennis Stello, Joel Ong, Christopher Lindsay, Marc Hon e Timothy R. Bedding
Cento nuovi modi d’esplorare l’universo a Play 2025
Da venerdì 4 a domenica 6 aprile è tempo di Play – Festival del Gioco, la più importante manifestazione italiana dedicata ai giochi analogici, che quest’anno si sposta da Modena e approda a Bologna, nei padiglioni 15, 18, 19 e 20 del quartiere fieristico. La sedicesima edizione del festival, incentrata sul tema dell’Evoluzione, vedrà come tutti gli anni dal 2019 la partecipazione, nell’Area scientifica, dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), con una serie di attività che coniugano il gioco con l’astronomia.
Play è la più importante manifestazione italiana dedicata ai giochi analogici, segmento stimato in Italia a circa 1,7 miliardi di euro nel 2024, con una crescita annuale che si attesta tra il 10 e il 15 per cento e circa 800 nuovi titoli lanciati ogni anno. Con il suo arrivo a Bologna, il quartiere fieristico si trasformerà per la prima volta in una gigantesca ludoteca: 43mila metri quadrati coperti, quattro padiglioni, oltre duecento espositori, tremila tavoli da gioco disponibili gratuitamente e più di 700 eventi in calendario.
Attività Inaf a Play 2025 (cliccare per i dettagli)
Sfide a Pixel – Padiglione 15 E17
Tra gli ospiti del Festival più attesi spicca Phil Eklund, ingegnere aerospaziale oltre che game designer fra i più originali e celebrati al mondo. Sabato 5 aprile alle 15:00 l’Inaf spera di averlo nel proprio stand (padiglione 15 – E17) in occasione della presentazione di Pixel – Picture (of) the Universe. Pixel è un gioco strategico competitivo in cui i giocatori assumono il ruolo di direttori di centri di ricerca astrofisica, ciascuno impegnato a costruire prestigio scientifico. Il gioco, ideato insieme al direttore artistico di Play Andrea Ligabue dal gruppo di lavoro dell’Inaf dedicato al gioco, unisce una meccanica centrale e originale ispirata alla risoluzione delle immagini in astrofisica e inoltre rende le dinamiche sociali e istituzionali della ricerca scientifica reale attraverso la gestione delle risorse. Pur essendo principalmente competitivo, il gioco include anche alcuni elementi cooperativi, come l’utilizzo condiviso di un telescopio spaziale.
L’Area scientifica di Play occupa quasi metà del padiglione 15, e nei giorni del festival verrà animata dalle istituzioni partecipanti al Game Science Research Center (Gsrc) di Lucca e da altre che si stanno avvicinando al Centro. In questa area i visitatori potranno cimentarsi in giochi originali prodotti dalle varie istituzioni e provare giochi commerciali a tema scientifico.
Dialoghi tra gioco e scienza – Padiglione 15 E27
Se vi interessano anche aspetti di design e di ricerca sul gioco, vi consigliamo di sfogliare il programma dell’Area talk del Gsrc (padiglione 15 – E27). L’Inaf sarà presente venerdì 4 alle 12:00 in dialogo con Christian Lavarian, astronomy area manager del Muse di Trento, per un confronto di esperienze sul gioco come strumento di comunicazione, divulgazione ed educazione all’Inaf e al Muse.
Sabato alle 11 Stefania Varano dell’Inaf discuterà con Proximadi Larp (Giochi di ruolo dal vivo) in contesti scientifici ed educativi, presentando The Null Hypothesis, un progetto congiunto per un Larp alla Stazione radioastronomica di Medicina. Sempre con Stefania Varano, questa volta però nel padiglione 20 ammezzato, alle ore 18 di sabato, dialogo con i due designer Five Little Crows e Fumble Gdr sugli elementi base del gioco: Ritmo, Tensione e Flow.
Sempre sabato, alle ore 12:00, si parlerà dell’uso del gioco per comunicare la scienza, coinvolgere i cittadini nei dibattiti su temi scientifici e favorire la formazione di competenze scientifiche nelle scuole. Con Nico Pitrelli, direttore del Master in comunicazione della scienza “Franco Prattico” della Sissa di Trieste, Ennio Bilancini, professore di economia alla Scuola Imt Alti Studi Lucca e io che scrivo (Sara Ricciardi), con la moderazione di Michele Bellone.
Infine vi ricordiamo che nell’area Giochi di ruolo (Gdr) di Play, in tutti i tavoli con lo speciale dado “D20” con l’anguria puoi donare per Unarwa grazie all’iniziativa Tiri Salvezza per la Palestina.
Per informazioni:
- Acquista i biglietti online (biglietto intero: 23 euro)
- Orari, indicazioni, parcheggi e alloggi
Una luce nella nebbia all’alba del tempo
Un raggio di luce che inopinatamente squarcia un mattino impenetrabile di nebbia nella Bassa padana. Più o meno così si presenta l’emissione di Gs-z13-1, galassia a oltre 13 miliardi di anni luce dalla Terra, emissione che ha colto alla sprovvista i suoi scopritori. Che proprio non avevano preventivato di scorgere il segnale di questa galassia, prodotto dagli atomi di idrogeno, e che risulta molto più forte di quel che ci si aspettava. Lo studio che racconta la scoperta è guidato da Joris Witstok, dell’Università di Cambridge in Inghilterra, oltre che del Cosmic Dawn Center e dell’Università di Copenaghen, in Danimarca, ed è stato pubblicato la scorsa settimana su Nature. Fondamentale è stato l’utilizzo del telescopio spaziale James Webb. Solo questo strumento, in virtù della sua sensibilità alla radiazione infrarossa, è in grado di scorgere l’emissione dell’idrogeno – tracciata in questo caso dalla riga Lyman-alfa – in un oggetto tanto remoto, la cui luce ci raggiunge dagli albori dell’universo, ovvero quando quest’ultimo aveva solo trecentotrenta milioni di anni.
Lo spettro della galassia Gs-z13-1 realizzato con lo spettrografo NirSpec, a bordo di Webb. Si nota la forte emissione della Lyman-alfa, inusuale per una galassia osservata a soli 330 milioni di anni dal Big Bang. Crediti: Esa/Webb, Nasa, Csa, StScI, J. Olmsted (StScI), S. Carniani (Scuola Normale Superiore), P. Jakobsen
«L’universo primordiale era immerso in una fitta nebbia di idrogeno neutro. La maggior parte di questa foschia è stata sollevata in un processo chiamato reionizzazione, che è stato completato circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. Gs-z13-1 è visibile quando l’universo aveva solo 330 milioni di anni, eppure mostra una firma sorprendentemente chiara e rivelatrice di emissione Lyman-alfa che può essere vista solo una volta che la nebbia circostante si è completamente sollevata», commenta uno degli autori dell’articolo, Roberto Maiolino, dell’Università di Cambridge. «Questo risultato è stato totalmente inaspettato per le teorie sulla formazione delle galassie primordiali e ha colto di sorpresa gli astronomi».
Per un’epoca tanto antica ci si aspettava dunque che i fotoni responsabili della Lyman-alfa venissero assorbiti dalla “nebbia” di idrogeno neutro che avvolgeva Gs-z13-1, anziché attraversare indisturbati gli spazi intergalattici prima di terminare il loro viaggio sui rivelatori di Webb. Lo studio ha utilizzato i dati del programma Jades (Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey). La protagonista della ricerca aveva inizialmente destato la curiosità degli astronomi grazie alle immagini di NirCam, la potente camera di Webb che osserva nel vicino infrarosso, e che suggeriva che questo oggetto fosse estremamente remoto. Gli studiosi hanno dunque deciso di riosservarla con NirSpec, il più sensibile spettrografo nel vicino infrarosso esistente, per confermarne la distanza grazie alla misura del redshift. Redshift che ammonta a ben 13.0: per fare un confronto, la galassia più distante conosciuta, Gs-z14-0, ha redshift 14.3. Solo che nello spettro gli astronomi hanno trovato una sorpresa, l’emissione di Lyman-alfa per l’appunto, decisamente intensa per un’epoca cosmica tanto lontana.
La galassia Gs-z13-1 è l’oggetto rosso al centro di questa immagine realizzata con NirCam nell’ambito del programma Jades. Crediti: Esa/Webb, Nasa, StScI, Csa, Jades Collaboration, Brant Robertson (Uc Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA), J. Witstok, P. Jakobsen, A. Pagan (StScI), M. Zamani (Esa/Webb)
«Non avremmo dovuto trovare una galassia come questa, data la nostra comprensione del modo in cui l’universo si è evoluto», dice Kevin Hainline, altro membro del team. «Potremmo pensare all’universo primordiale come avvolto da una fitta nebbia che rendeva estremamente difficile trovare anche potenti fari che sbirciano attraverso, eppure qui vediamo il raggio di luce di questa galassia che perfora il velo. Questa affascinante riga di emissione ha enormi conseguenze su come e quando l’universo si è reionizzato».
Universo reionizzato: che significa? Secondo i modelli, col passare del tempo i fotoni emessi dalle galassie hanno lentamente squarciato la nebbia che le avvolgeva ionizzando gli atomi di idrogeno. Questo progressivo lavoro di erosione prende il nome di reionizzazione e secondo le teorie attuali dovrebbe iniziare cinquecento milioni di anni dopo il Big Bang e concludersi dopo ulteriori cinquecento milioni di anni. In questo senso Gs-z13-1 risulta non poco precoce e costringe gli astronomi a ripensare i modelli sulla reionizzazione. Che potrebbe dunque essere iniziata prima di quel che si pensava.
Ma chi li ha prodotti i fotoni Lyman-alfa che ci arrivano da questa galassia? La risposta a questa domanda è attualmente molto incerta, ma ci sono degli indiziati. «La grande bolla di idrogeno ionizzato che circonda questa galassia potrebbe essere stata creata da una peculiare popolazione di stelle, molto più massiccia, più calda e più luminosa delle stelle formatesi in epoche successive, e forse rappresentativa della prima generazione di stelle», afferma Witstok. Le elusive stelle di popolazione III potrebbero dunque aver ionizzato il gas di Gs-z13-1. C’è anche un secondo indiziato. Un potente nucleo galattico attivo, ovvero un buco nero supermassiccio alimentato da accrescimento di materiale, è infatti un’altra possibilità identificata dal team. I ricercatori prevedono di osservare nuovamente Gs-z13-1 per ottenere ulteriori informazioni sulla sua natura e sull’emissione di Lyman-alfa in un oggetto che potrebbe aprire nuove, sorprendenti prospettive nello studio delle prime galassie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Witnessing the onset of reionisation via Lyman-α emission at redshift 13” di Joris Witstok, Peter Jakobsen, Roberto Maiolino, Jakob M. Helton, Benjamin D. Johnson, Brant E. Robertson, Sandro Tacchella, Alex J. Cameron, Renske Smit, Andrew J. Bunker, Aayush Saxena, Fengwu Sun, Stacey Alberts, Santiago Arribas, William M. Baker, Rachana Bhatawdekar, Kristan Boyett, Phillip A. Cargile, Stefano Carniani, Stéphane Charlot, Jacopo Chevallard, Mirko Curti, Emma Curtis-Lake, Francesco D’Eugenio, Daniel J. Eisenstein, Kevin N. Hainline, Gareth C. Jones, Nimisha Kumari, Michael V. Maseda, Pablo G. Pérez-González, Pierluigi Rinaldi, Jan Scholtz, Hannah Übler, Christina C. Williams, Christopher N. A. Willmer, Chris Willott e Yongda Zhu
Kids conferma il modello cosmologico standard
La Kilo-Degree Survey (Kids) ha osservato vaste regioni del cielo australe per otto anni, raccogliendo dati preziosi sulla distribuzione della materia nell’universo. Il 18 marzo 2025, sotto la guida di ricercatori di Bochum, Leiden, Edimburgo, Newcastle e Londra, è stato pubblicato il set di dati finale Kids-Legacy. Le precedenti analisi di Kids avevano messo in dubbio il modello cosmologico standard, suggerendo una distribuzione della materia più uniforme rispetto a quanto previsto dalle misurazioni del satellite Planck. Tuttavia, dopo aver analizzato la serie completa di dati Kids con metodi migliorati e ulteriori dati di calibrazione, i risultati sono effettivamente coerenti con il modello standard.
«Abbiamo prestato molta attenzione all’ottimizzazione di tutte le parti della nostra analisi, un processo che ha richiesto molto tempo», spiega Angus Wright della Ruhr University Bochum, in Germania. «Il fatto che il risultato si discosti così tanto dalle nostre analisi precedenti è stata una sorpresa, ma siamo riusciti a identificare le ragioni di questi cambiamenti». La valutazione finale è descritta in cinque articoli che sono stati pubblicati, o sottomessi per la pubblicazione, sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
La Kilo-Degree Survey ha scattato immagini di 41 milioni di galassie nei suoi otto anni di osservazione. Questa immagine mostra una parte del set di dati. Crediti: Konrad Kuijken e il team Kids
Esistono vari metodi per determinare la densità e la struttura della materia. In questo caso, il team ha utilizzato il fenomeno delle lenti gravitazionali: gli oggetti massicci deviano la luce delle galassie lontane, così che queste appaiono in una forma distorta e in un luogo diverso da quello in cui si trovano effettivamente quando vengono osservate dalla Terra. I cosmologi possono utilizzare queste distorsioni per stimare la massa degli oggetti deflessi e, in ultima analisi, la massa totale dell’universo. «Il vantaggio principale rispetto ad altri metodi è che la lente gravitazionale può essere utilizzata anche per rilevare la materia oscura dominante e renderla, per così dire, visibile», spiega Robert Reischke dell’Università di Bonn.
A tal fine, i ricercatori devono conoscere la distanza tra la sorgente di luce, l’oggetto deflesso e l’osservatore. Per calcolarle, si avvalgono del redshift, che descrive un effetto per cui la luce si sposta verso lunghezze d’onda maggiori quando viaggia da galassie più lontane attraverso l’universo in espansione, prima di raggiungere la Terra.
Nell’analisi sono state considerate le immagini di 41 milioni di galassie riprese con Vst, il Vlt Survey Telescope, un telescopio dell’Inaf installato in Cile. I dati di Kids coprono un’area di 1.347 gradi quadrati, cioè quasi il dieci per cento del cielo. Per determinare il redshift di un numero così elevato di galassie, il team ha utilizzato il metodo fotometrico: sono state scattate nove immagini di ogni galassia a diverse lunghezze d’onda e si è determinata la luminosità delle galassie in ogni immagine; da questa i ricercatori hanno potuto dedurre il redshift.
Il redshift potrebbe essere misurato in modo più preciso con la spettroscopia, ma sarebbe troppo lungo applicare questo metodo a milioni di galassie deboli. Tuttavia, per alcune galassie sono disponibili sia dati spettroscopici che fotometrici, per cui il team di Kids può calibrare le misure fotometriche dei redshift con questi dati spettroscopici precisi. Mentre la precedente analisi Kids-1000 utilizzava per la calibrazione i dati spettroscopici di circa 25mila galassie, per Kids-Legacy erano disponibili i dati di ben 126mila galassie. Inoltre, i ricercatori hanno utilizzato metodi ottimizzati e nuove simulazioni al computer per ridurre le incertezze sistematiche nel set di dati finale.
In seguito alla valutazione ottimizzata, il team è stato in grado di includere nell’analisi finale galassie più distanti rispetto alla precedente. Mentre Kids-1000 era limitato a galassie con una distanza massima di 8,5 miliardi di anni luce, Kids-Legacy può ora osservare galassie distanti 10,4 miliardi di anni luce.
La Kilo-Degree Survey ha osservato tre aree del cielo meridionale per otto anni. I ricercatori hanno utilizzato i dati per determinare la distribuzione della materia. Le aree con una densità di materia particolarmente elevata sono mostrate in rosso, quelle con una densità particolarmente bassa in blu. Al centro, una sezione della mappa può essere vista rapportata, in termini di dimensioni, alla Luna piena. Crediti: R. Reischke, K.Kuijken, B.Giblin e il team Kids
Nel campo della cosmologia, è prassi comune valutare gli insiemi di dati “in cieco” per evitare qualsiasi pregiudizio dovuto ad analisi precedenti o a ipotesi personali. Prima di iniziare l’analisi, i ricercatori inviano il catalogo di tutte le galassie a una terza parte, che modifica un determinato parametro per ogni galassia, ottenendo tre varianti dell’insieme di dati: una con i valori reali misurati e due con valori leggermente diversi. I ricercatori che analizzano il set di dati non sanno quali siano i dati reali. Eseguono l’analisi con tutti i set di dati e solo allora apprendono quale sia il risultato corretto. Una volta completata questa fase, il metodo di analisi non viene più modificato.
Secondo i dati di Kids-Legacy, la materia nello spazio è distribuita in modo un po’ più disomogeneo rispetto a quanto rivelato da Kids-1000. «Molti test di coerenza interna dei dati mostrano che questa analisi finale è significativamente più robusta rispetto agli studi precedenti», sottolinea Benjamin Stölzner della Ruhr University Bochum. Il team ha anche confrontato i nuovi risultati con quelli di altre indagini. Le precedenti analisi avevano indicato una discrepanza rispetto ai risultati ottenuti con Planck, che ha stimato la densità di materia sulla base del fondo cosmico a microonde. «Le discrepanze nel nostro set di dati Kids hanno suscitato un certo scalpore nella comunità dei ricercatori negli ultimi anni», conclude Hendrik Hildebrandt dell’Università Ruhr di Bochum e coordinatore del team Kids. «Ironia della sorte, ora stiamo risolvendo noi stessi questa discrepanza. Con nostra sorpresa, i dati di Kids-Legacy non contengono alcuna prova che suggerisca errori nel modello standard della cosmologia».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The Fifth Data Release of the Kilo Degree Survey: Multi-Epoch Optical/NIR Imaging Covering Wide and Legacy-Calibration Fields” di Angus Wright et al.
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “KiDS-Legacy: Covariance Validation and the Unified OneCovariance Framework for Projected Large-Scale Structure Observables” di Robert Reischke et al
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “KiDS-Legacy: Consistency of Cosmic Shear Measurements and Joint Cosmological Constraints with External Probes” di Benjamin Stölzner et al.
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “KiDS-Legacy: Redshift Distributions and Their Calibration” di Angus Wright et al.
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “KiDS-Legacy: Cosmological Constraints from Cosmic Shear with the Complete Kilo-Degree Survey” di Angus Wright et al.
Il tramonto delle Pleiadi e le galassie lontane
Sequenza di immagini simulate con il software Stellarium dell’occultazione delle Pleiadi da parte della Luna. A partire dalle ore 22:50 fino al tramonto dei due astri
Questo mese inizia con una interessante occultazione delle Pleiadi da parte della Luna. Purtroppo in questa stagione le sette sorelle sono piuttosto basse e visibili nella prima parte della notte e l’occultazione avverrà con l’ammasso stellare al tramonto.
Sarà comunque interessante osservare il fenomeno con un binocolo, perché la Luna mostrerà una falce sottile e le Pleiadi verranno occultate con il lembo non illuminato del nostro satellite, che le farà sparire una a una. Le potete osservare a ovest dopo il tramonto del sole fino a poco dopo le 23:30, quando tramonteranno anche loro. Ma vista la vicinanza prospettica con l’orizzonte potrebbe essere un’ottima occasione per scattare qualche fotografia di panorama astronomico.
I pianeti più visibili sono Giove e Marte. Giove visibile per la prima parte della notte nella costellazione del Toro, Marte visibile anche fino a tarda notte in quella dei Gemelli.
Venere riappare al mattino prima del sorgere del sole e il giorno 24 raggiungerà la sua massima luminosità con una magnitudine di -4.5. Bella sarà la congiunzione con la Luna e Saturno il giorno 25, visibile all’alba bassa sull’orizzonte est.
Anche questo mese è ottimo per osservare le galassie. Con le costellazioni della Vergine, della Chioma di Berenice, del Leone dell’Orsa Maggiore e dei Cani da Caccia in posizione ottimale, c’è proprio da sbizzarrirsi. Per osservarle, tuttavia, servono un telescopio e un cielo buio, lontano da inquinamento luminoso.
La galassia Sombrero, o M104, ripresa dai cieli di Bologna e come potrebbe essere vista con un medio telescopio e cieli bui. Crediti: F. Villa
Il periodo migliore di osservazione è quando la Luna non schiarisce il cielo, ossia nei primi cinque giorni del mese e dopo il 17. Nella costellazione dell’Orsa Maggiore c’è la coppia di galassie M81 e M82, che è possibile intravedere anche con un buon binocolo. C’è poi la spettacolare M51, sotto il timone del Grande Carro, nella costellazione dei Cani da Caccia, e spostandoci verso la costellazione del Leone, poi della Chioma di Berenice e infine della Vergine, una miriade di altre galassie.
Segnaliamo, per la sua particolare forma, la galassia M104, o galassia Sombrero, situata in una zona di cielo tra la costellazione della Vergine e del Corvo. Vista con un piccolo telescopio la sua forma assomiglia effettivamente al copricapo messicano, e ci fa presagire l’arrivo della stagione più calda. Ma prima godiamoci la primavera!
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Sarà Airbus a costruire il lander per Rosalind
La missione Exobiology on Mars (ExoMars) dell’Agenzia spaziale europea avrà il suo lander. A costruire il modulo chiave del sistema di atterraggio sarà Airbus. Ad annunciarlo, il 29 marzo scorso, è la stessa azienda in un comunicato stampa.
Airbus è stata selezionata dall’Esa e da Thales Alenia Space, principale contraente industriale di ExoMars, aggiudicandosi un appalto dal valore di circa 179 milioni di euro. La scelta di un nuovo appaltatore per la realizzazione del lander si è resa necessaria a seguito della sospensione della collaborazione tra Esa e Roscosmos, l’agenzia spaziale russa che avrebbe dovuto svilupparlo, in risposta all’invasione russa dell’Ucraina.
Rappresentazione artistica del rover Rosalind di ExoMars. Crediti: Esa
ExoMars “Rosalind Franklin” è la seconda missione del programma ExoMars – la prima, lanciata il 14 marzo 2016 dal cosmodromo di Bajkonur, comprende il Trace Gas Orbiter (Tgo), una sonda attualmente operativa nell’orbita di Marte.
Il rover Rosalind Franklin, così chiamato in onore della scienziata britannica che contribuì alla scoperta della struttura molecolare del Dna, è il primo rover progettato per perforare il suolo di Marte fino a due metri di profondità. Il suo obiettivo sarà raccogliere e analizzare campioni per individuare eventuali tracce di vita, presente o passata, in strati del sottosuolo meno esposti alle condizioni estreme della superficie. La missione, inoltre, avrà un ruolo chiave nella dimostrazione di tecnologie fondamentali per le future esplorazioni planetarie, tra cui quelle necessarie per un atterraggio sicuro su un altro pianeta.
A garantire il trasporto del rover sulla superficie marziana, come anticipato, sarà il lander sviluppato da Airbus. Il modulo della missione avrà il compito di gestire le fasi finali della discesa, riducendo la velocità da 45 metri al secondo a meno di 3 metri al secondo grazie a un sistema di razzi frenanti. Dopo l’atterraggio, inoltre, il lander dispiegherà due rampe su lati opposti, permettendo al rover di iniziare la sua esplorazione attraverso il percorso più sicuro.
«Dopo l’uscita di Roscomos dalla missione Exomars, vi era la necessità di riprogrammare la missione con un nuovo sistema di atterraggio, inclusa la piattaforma. Questo ha richiesto un enorme sforzo da parte dell’Esa», dice a Media Inaf Maria Cristina De Sanctis, astrofisica all’Inaf Iaps di Roma e responsabile di Ma_Miss, uno degli strumenti del rover Rosalind di ExoMars. «La scelta del provider, continua la ricercatrice, «indica che ci stiamo avvicinando alla realizzazione finale della piattaforma, un passo fondamentale per poter lanciare nei tempi previsti».
Su contratto con la Thales Alenia Space, la società che guida l’intera missione ExoMars, il team di ingegneri della Airbus di Stevenage, nel Regno Unito, svilupperà tutti i sistemi della piattaforma – meccanici, termici e di propulsione – con l’obiettivo di garantire un touchdown sicuro del rover.
Rappresentazione artistica del nuovo lander di ExoMars. Crediti: Airbus
Nel frattempo, Esa, l’industria europea e la Nasa stanno continuando a lavorare alla manutenzione e all’aggiornamento del rover e dei suoi strumenti. Tra gli interventi previsti rientrano l’installazione di unità di riscaldamento per proteggere il rover dalle rigide temperature marziane e lo sviluppo di una nuova modalità software, che gli consentirà di passare rapidamente alla guida autonoma subito dopo l’atterraggio.
«Nella realizzazione del lander ci sono varie, delicatissime, questioni che Airbus dovrà tenere sotto controllo», sottolinea De Sanctis. «Penso che i tempi di realizzazione siano molto stretti e che questo possa essere un punto molto serio nella costruzione e test del sistema. Vista la complessità delle condizioni che si dovranno affrontare, come ad esempio la gravità, la mancanza di atmosfera, i venti e le tempeste di polvere, portare un rover su Marte è una enorme sfida. Basta un piccolo “errore” per vanificare gli sforzi pluridecennali di centinaia di persone. Per migliorare le performance o per essere certi di non arrivare su Marte con parti non “nuovissime” e soggette a deterioramento, in alcuni strumenti si stanno sostituendo dei sottosistemi. Ad esempio, lo strumento Ma_Miss – di cui noi siamo responsabili – sostituirà il calibration target con uno nuovo, con performance maggiori di quello attualmente previsto. Lo stesso vale anche per alcune parti del rover che vengono continuamente monitorate e sottoposte a test di verifica di funzionamento».
La commessa con Airbus segna un importante passo avanti per il programma ExoMars. Un risultato reso possibile grazie all’impegno dell’Esa e dei suoi stati membri, insieme a una rinnovata collaborazione con la Nasa. Dopo diversi rinvii dovuti a vari problemi, l’ultimo dei quali, come detto, legato a questioni geopolitiche, la nuova finestra di lancio della missione è ora prevista tra ottobre e dicembre del 2028, con arrivo sul pianeta nel 2030.
«La finestra di lancio programmata è tale da garantire che la missione “nominale” su Marte possa essere espletata prima dell’inizio della stagione delle tempeste di polvere», spiega a questo proposito De Sanctis. «Un ritardo del lancio potrebbe implicare uno slittamento piuttosto cospicuo della data. In questo caso, infatti, per garantire il successo della missione, bisognerebbe aspettare la fine di tale stagione».
«Portare il rover Rosalind Franklin sulla superficie di Marte è una grande sfida internazionale e il culmine di oltre vent’anni di lavoro», dice Kata Escott, amministratrice delegata di Airbus Defence and Space Uk. «Siamo orgogliosi di aver costruito il rover nella nostra modernissima camera bianca di Stevenage. Ora, siamo entusiasti di sviluppare il progetto per assicurarne la consegna sicura su Marte».
Spiraleggiando attorno a un anello di Einstein
La nuova immagine del mese del telescopio spaziale James Webb ha per protagonista un raro fenomeno cosmico: un anello di Einstein. Quella che a prima vista sembra una singola galassia dalla forma strana è in realtà una combinazione di due galassie, a grande distanza l’una dall’altra. La galassia più vicina, quella in primo piano, la vediamo proprio al centro dell’immagine qui sotto: è la “pupilla” bianco verdognola dell’enorme “occhio” immortalato da Jwst. La galassia sullo sfondo, fisicamente molto più lontana, è quella sorta di sottile “iride” azzurrognola screziata di bianco che sembra avvolgere la galassia più vicina, la “pupilla”, dando origine – appunto – a un anello.
Al centro dell’immagine (cliccare per una versione zoomabile) vediamo una galassia ellittica, che appare come un bagliore di forma ovale attorno a un piccolo nucleo luminoso. L’ampia fascia di luce tutt’attorno è una galassia a spirale allungata e distorta a formare un anello, con linee blu luminose in corrispondenza dei bracci della spirale, qui allungati e piegati fino ad apparirci come cerchi. Al di fuori dell’anello, su sfondo nero, sono visibili alcuni oggetti lontani. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Mahler
Gli anelli di Einstein si formano quando la traiettoria della luce proveniente da un oggetto molto distante viene deviata, piegata – lensed, in inglese – attorno a un oggetto massiccio intermedio che agisce da lente. Questo è possibile perché lo spaziotempo, il tessuto dell’universo, è deformato dalla massa della “lente”, di conseguenza anche la traiettoria della luce che viaggia nello spazio e nel tempo risente di questa deformazione, deviando lungo il suo percorso verso noi osservatori e dando origine a immagini deformate – ingrandite, amplificate, come se avesse attraversato una lente. Questo effetto è troppo lieve per essere colto a livello locale, ma può diventare chiaramente visibile quando si ha a che fare con curvature della luce su scale astronomiche, come è appunto il caso della luce emessa da una galassia lontana e piegata intorno a un’altra galassia – o a un ammasso di galassie – fra la sorgente e noi osservatori.
Quando l’oggetto che agisce da lente e l’oggetto in lontananza che sta “sotto la lente” si trovano a essere – rispetto a noi che li osserviamo – correttamente allineati, il risultato può essere la caratteristica forma ad anello di Einstein mostrata nell’immagine: un cerchio completo – come in questo caso – o un cerchio parziale di luce intorno all’oggetto “lente”, a seconda della precisione dell’allineamento. Configurazioni come questa sono il laboratorio ideale per la ricerca di galassie troppo deboli e distanti per essere viste in altro modo.
La galassia che agisce da lente al centro dell’anello di Einstein osservato da Jwst è una galassia ellittica, come si può vedere dal suo nucleo luminoso e dal suo “corpo” liscio e privo di caratteristiche, e fa parte dell’ammasso di galassie Smacs J0028.2-7537. La galassia che vediamo – ingrandita e distorta – avvolgere la galassia ellittica è invece una galassia a spirale. Anche se la sua immagine è stata deformata, i singoli ammassi stellari sono ancora chiaramente visibili, così come le strutture gassose.
I dati Webb utilizzati in questa immagine sono stati raccolti nell’ambito della survey Slice (Strong lensing and cluster Evolution, programma 5594), guidata da Guillaume Mahler dell’Università di Liegi, in Belgio, formata da un team di astronomi internazionale. È una survey che si propone – analizzando 182 ammassi di galassie con lo strumento NirCam di Webb – di tracciare otto miliardi di anni di evoluzione degli ammassi di galassie. Per produrre l’immagine sono stati utilizzati anche i dati di due strumenti del telescopio spaziale Hubble, la Wide Field Camera 3 e la Advanced Camera for Surveys.
Fonte: comunicato stampa Esa
Buchi neri, architetti cosmici
La galassia Circinus in un’immagine Rgb (o a falsi colori) in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia. In blu, il gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; in rosso, l’emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; in verde, l’emissione diffusa delle stelle nella galassia. Crediti: Marconcini et al./Nature Astronomy/Vlt/Eso
Per la prima volta è stato riscontrato dalle osservazioni quello che le simulazioni avevano previsto da tempo: la velocità dei venti di materia provenienti dai buchi neri supermassivi al centro delle galassie non è costante ma accelera notevolmente a grandi distanze dal buco nero, generando effetti rilevanti nel processo di evoluzione delle galassie ospiti. La spiegazione di questo fenomeno fisico era stato predetto da alcuni modelli teorici ma mai direttamente osservato finora.
I risultati dello studio, guidato dall’Università di Firenze e dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), sono stati pubblicati oggi su Nature Astronomy. Il gruppo di ricerca ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.
Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio. Questi nuclei galattici attivi (Agn) mentre assorbono materia generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante. Il gruppo di ricerca ha però riscontrato un comportamento anomalo: nei primi tremila anni luce (mille parsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di dieci galassie osservate con il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile, e con un nuovo strumento per la modellizzazione tridimensionale dei dati, chiamato Moka3d e sviluppato dallo stesso gruppo.
Mosaico di immagini Rgb delle galassie analizzate. Crediti: Marconcini et al./Nature Astronomy/Vlt/Eso
«Grazie a questa accelerazione abbiamo dimostrato che parte del materiale della galassia viene spazzato via e non sarà più disponibile per far crescere ulteriormente il buco nero centrale o formare nuove stelle, quindi influenzando drasticamente l’evoluzione della galassia», sottolinea Cosimo Marconcini, dottorando di ricerca all’Università di Firenze e primo autore dello studio.
«Abbiamo osservato dieci galassie relativamente vicine, “solo” alcune centinaia di milioni di anni luce, che quindi possono essere studiate in dettaglio con nostri i telescopi sulle Ande cilene. È sorprendente che tutte queste galassie mostrino lo stesso comportamento, significa che stiamo assistendo agli effetti di un meccanismo fisico fondamentale» aggiunge Filippo Mannucci dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «Questo risultato costituirà una solida base su cui tutti gli studi successivi si potranno appoggiare. Tipicamente le velocità dei venti passano da circa 500 km/sec a oltre 1000 km/sec, valori così elevati che permettono al gas coinvolto di lasciare la galassia. Questo gas è ricco degli elementi relativamente pesanti come carbonio, ferro e ossigeno creati dalle stelle, elementi che vengono così sottratti allle galassie e dispersi nello spazio esterno».
«Questo risultato è importante perché per la prima volta siamo riusciti a confermare le previsione teoriche del modello più accreditato riguardo la propagazione di venti da Agn, proposto ormai ventidue anni fa ma che fino a ora non era mai stato confermato dalle osservazioni» conclude Marconcini. «Verosimilmente questo risultato cambierà la nostra comprensione di come il buco nero al centro della galassia e la galassia stessa si parlano».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Unveiling the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” di Cosimo Marconcini, Alessandro Marconi, Giovanni Cresci, Filippo Mannucci, Lorenzo Ulivi, Giacomo Venturi, Martina Scialpi, Giulia Tozzi, Francesco Belfiore, Elena Bertola, Stefano Carniani, Elisa Cataldi, Avinanda Chakraborty, Quirino D’Amato, Enrico Di Teodoro, Anna Feltre, Michele Ginolfi, Bianca Moreschini, Nicole Orientale, Bartolomeo Trefoloni e Andrew King
Lunedì 31 marzo torna la Binocular Classroom al Parco delle Ginestre (via Salita di Oriolo, #Faenza)
E' una lezione di #astronomia osservando il cielo col #binocolo
I posti sono limitati, contattaci per prenotare!
Dettagli: mobilizon.it/events/990105ff-6…
#spazio #astrofili #scienza #osservazioneastronomica #cielostellato #cielonotturno #divulgazione #scienze #evento #eventi #corso #corsi #romagna #italia #space #astronomy #stargazing #starparty #binocoli #space #astronomy
Binocular Classroom di Marzo 2025 al Parco delle Ginestre, Faenza
Lunedì 31 marzo, dalle 20:30, presso il Parco delle Ginestre in via Salita di Oriolo a Faenza, torna la Binocular Classroom: lezioni di astronomia pratica svolte all'aperto, osservando il cielo col binocolo.mobilizon.it
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Proxima Centauri, la nostra scatenata dirimpettaia
Se domattina il Sole decidesse di rispondere per le rime alla sua vicina Proxima Centauri, che si esibisce in spettacolari ed energetici brillamenti, certo sulla Terra la cosa non passerebbe inosservata e avremmo di che preoccuparci. La radiazione emessa dalla stella, che dal Sole dista appena poco più di quattro anni luce, investe infatti anche la sua zona abitabile. Già nota per la sua attività alle lunghezze d’onda del visibile, infatti, pare che Proxima Centauri dia il meglio di sé a lunghezze d’onda radio e millimetriche: un nuovo studio che utilizza le osservazioni dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) ha osservato alcuni brillamenti ancora più estremi, avanzando ipotesi poco ottimiste sui potenziali impatti che avrebbero sulla vivibilità dei pianeti che si trovano nella zona abitabile. Possiamo stare tranquilli, comunque: qui da noi non succederà, e fra poco vedremo perché.
Illustrazione artistica di un brillamento solare che si staglia dalla superficie di Proxima Centauri. Crediti: Nsf/Aui/Nsf Nrao/S. Dagnello
Piccola e cattiva, la nostra vicina si distingue dal Sole non solo per le apparenze – mentre il Sole è una stella nana gialla di tipo G, Proxima Centauri è una nana rossa di tipo M, ben più fredda alla superficie – ma anche e soprattutto per quello che c’è dentro: le piccole dimensioni e il forte campo magnetico indicano infatti che la sua struttura interna è interamente convettiva, a differenza del Sole, che ha strati convettivi e non convettivi. Di conseguenza, la stella è molto più attiva. I suoi campi magnetici si contorcono, sviluppano tensioni e alla fine si spezzano, rilasciando flussi di energia e particelle verso l’esterno in quelli che gli astronomi osservano come brillamenti.
Come il Sole, però, anche Proxima Centauri sembrerebbe ospitare un pianeta potenzialmente abitabile, che dai suoi brillamenti – almeno quelli osservati da Alma – potrebbero essere stati investiti. Quando vengono prodotti, questi brillamenti rilasciano energia luminosa in tutto lo spettro elettromagnetico, nonché esplosioni di particelle tipiche delle stelle attive chiamate particelle energetiche stellari. A seconda dell’energia e della frequenza di queste emissioni, i pianeti all’interno della zona abitabile potrebbero essere resi inabitabili dato che l’interazione con la loro atmosfera potrebbe privarli di ingredienti necessari alla vita, come l’ozono e l’acqua.
«L’attività del nostro Sole non elimina l’atmosfera terrestre e provoca invece splendide aurore, perché abbiamo un’atmosfera spessa e un forte campo magnetico che protegge il nostro pianeta», dice Meredith MacGregor della Johns Hopkins University, coautrice dell’articolo pubblicato su The Astrophysical Journal. «Ma i brillamenti di Proxima Centauri sono molto più potenti e sappiamo che ha pianeti rocciosi nella zona abitabile. Cosa stanno facendo questi brillamenti alle loro atmosfere? C’è forse un flusso così grande di radiazioni e particelle che l’atmosfera viene modificata chimicamente, o completamente erosa?».
Si tratta, ad oggi, del primo studio che utilizza osservazioni millimetriche per indagare nuovi aspetti della fisica dei brillamenti. Combinando 50 ore di osservazioni Alma con quelle dell’Atacama Compact Array, sono stati rilevati in totale 463 brillamenti con energie comprese tra 1024 e 1027 erg, e una durata da 3 a 16 secondi.
«Quando vediamo i brillamenti con Alma, stiamo sempre osservando radiazione elettromagnetica, ovvero la luce in varie lunghezze d’onda. Ma a uno sguardo più approfondito, questo brillamento a lunghezza d’onda radio ci dà anche la possibilità di tracciare le proprietà di queste particelle e di capire cosa viene rilasciato dalla stella», continua MacGregor.
Per fare ciò, occorre costruire la cosiddetta distribuzione di frequenza dei brillamenti, che traccia il numero di brillamenti in funzione della loro energia. In genere, questa distribuzione mostra che i brillamenti più piccoli (meno energetici) si verificano più frequentemente, mentre quelli più grandi e più energetici si verificano meno frequentemente. Su Proxima Centauri si verificano così tanti brillamenti che gli autori ne hanno rilevati molti in ogni intervallo di energia. Non solo: per i brillamenti più energetici, sono anche riusciti a disegnarne la forma, rilevando un profilo asimmetrico. La fase di decadimento sarebbe infatti molto più lunga della fase iniziale esplosiva.
A lunghezze d’onda millimetriche, in sostanza, l’attività di Proxima Centauri sembrerebbe molto più frequente rispetto a quanto si riesce a rilevare con i telescopi ottici, con i quali le informazioni ottenute sarebbero parziali e incomplete. Alma, finora, è l’unico interferometro millimetrico abbastanza sensibile per queste misure. E se vi state ancora chiedendo che fine hanno fatto quei poveri pianeti, mi spiace deludervi, ma una risposta ancora non c’è. Il vantaggio che questa stella ci sia così vicina, però, non esclude che nuovi studi potranno soddisfare questa curiosità, soprattutto ora che non può più nascondersi dietro i filtri dei telescopi ottici.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Proxima Centauri Campaign—First Constraints on Millimeter Flare Rates from ALMA“, di Kiana Burton, Meredith A. MacGregor, Rachel A. Osten, Ward S. Howard, Alycia J. Weinberger, Evgenya Shkolnik, David J. Wilner, Jan Forbrich e Thomas Barclay
Reti neurali per “catturare” oggetti interstellari
Se c’è una classe di corpi celesti di cui si sa ancora poco, si tratta degli oggetti interstellari (Iso, dall’inglese interstellar object), ovvero corpi che non appartengono stabilmente al Sistema solare e che provengono dallo spazio tra le stelle. Oggetti come 1I/’Oumuamua, per intenderci, o 2I/Borisov. L’ideale sarebbe riuscire a intercettarne uno per studiarlo da vicino. Se mai l’impresa verrà tentata, potrà tornare utile Neural-Rendezvous, un sistema di guida e controllo basato sul deep learning ideato proprio con l’obiettivo di avvicinarsi in modo autonomo questi velocissimi viandanti dello spazio interstellare. È stato sviluppato da un team di ricercatori capitanato da Hiroyasu Tsukamoto, membro del dipartimento di ingegneria aerospaziale della University of Illinois Urbana-Champaign (Usa), e lo studio che lo descrive è stato pubblicato nel 2024 sul Journal of Guidance, Control, and Dynamics.
Il sistema è in grado di apprendere le informazioni necessarie per individuare un oggetto interstellare e valutare autonomamente le manovre da intraprendere per avvicinarlo. Partendo dai dati raccolti ed entro un certo limite probabilistico, il programma di deep learning può prevedere quale sia la miglior azione possibile di una navicella spaziale al fine di imbattersi in un Iso. «Un cervello umano ha molte capacità, come parlare e scrivere. Il deep learning», spiega Tsukamoto, «crea un cervello specializzato per una delle abilità con una conoscenza specifica del dominio. In questo caso, Neural-Rendezvous apprende tutte le informazioni di cui ha bisogno per incontrare un Iso, tenendo anche conto delle criticità intrinseche nell’esplorazione spaziale per quanto riguarda la sicurezza e i costi».
Alcune traiettorie elaborate da Neural-Rendezvous per l’esplorazione degli Iso: le curve gialle mostrano le traiettorie relative all’Iso e quelle blu mostrano le rotte del veicolo spazialo. Crediti: Nasa Jpl e University of Illinois Urbana-Champaign
Nato da una collaborazione con il Jet Propulsion Laboratory della Nasa, il progetto punta a superare le principali difficoltà che si riscontrano quando si parla di oggetti interstellari. Tali corpi sono estremamente sfuggenti, dato che attraversano il Sistema solare un’unica volta nel corso della loro esistenza e con velocità elevate, pari a decine di chilometri al secondo. Neural-Rendezvous, spiega Tsukamoto, affronta appunto queste due sfide poste dagli oggetti interstellari: l’essere bersagli ad alta energia e alta velocità e il seguire una traiettoria poco vincolata – tanto che non è possibile prevedere quando verranno a farci “visita”.
L’incertezza degli incontri con gli oggetti interstellari è anche la ragione per cui un veicolo spaziale dovrebbe essere capace di pensare autonomamente. «A differenza degli approcci tradizionali, in cui si progetta quasi tutto prima di lanciare un mezzo spaziale, per incontrare un Iso è necessario utilizzare qualcosa di simile a un cervello umano, progettato in maniera specifica per questo tipo di missioni e per rispondere ai dati in tempo reale, usando solo risorse a bordo del veicolo stesso», dice Tsukamoto.
Per verificare l’efficienza del sistema, i ricercatori non si sono limitati al software ma hanno fatto ricorso anche a particolari simulatori di veicoli spaziali, gli M-Star, nonché a piccoli droni programmabili, i Crazyflies. Ed è anche sfruttando i dati prodotti “sul campo” con queste simulazioni che è stato possibile compiere un ulteriore passo avanti: affiancato da Arna Bhardwaj e Shishir Bhatta, studenti di ingegneria aerospaziale della University of Illinois, Tsukamoto ha studiato come impiegare al meglio un intero sciame di sonde spaziali per raccogliere il maggior numero possibile d’informazioni durante l’incontro con l’oggetto interstellare.
«Ciò aggiunge un ulteriore livello di processo decisionale durante l’incontro con gli Iso», dice Tsukamoto. «Come posizionare in modo ottimale i veicoli spaziali per massimizzare le informazioni ricavabili? La soluzione di Bhardwaj e Bhatta è stata, appunto, quella di distribuire il veicolo spaziale, così da coprire visivamente la regione più probabile della posizione dell’oggetto interstellare». In tal modo, ciascuna navicella può selezionare in modo ottimale la propria destinazione e determinare il numero ideale di points of interest da indagare, migliorando potenzialmente la capacità di studiare i rari e fugaci visitatori interstellari, concludono i ricercatori, e riducendo al minimo l’utilizzo delle risorse.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo pubblicato sul Journal of Guidance, Control, and Dynamics “Neural-Rendezvous: Provably Robust Guidance and Control to Encounter Interstellar Objects”, di Hiroyasu Tsukamoto, Soon-Jo Chung, Yashwanth Kumar Nakka, Benjamin Donitz, Declan Mages e Michel Ingham
- Leggi il preprint dell’articolo presentato alla Ieee Aerospace Conference “Information-Optimal Multi-Spacecraft Positioning for Interstellar Object Exploration”, di Arna Bhardwaj, Shishir Bhatta e Hiroyasu Tsukamoto
Guarda il video sul canale YouTube dell’Acxis Lab at Uiuc:
L’Inaf con Lapin al Festival delle scienze di Roma
Questo è un invito a lasciarsi affascinare dai misteri dell’universo ed è rivolto a chi desidera scoprire come la scienza possa raccontare storie straordinarie, capaci di emozionare e coinvolgere. L’appuntamento è a Roma per la ventesima edizione del Festival delle scienze, dedicata al tema ‘Corpi’. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), insieme all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), è il principale sostenitore della kermesse di quest’anno, che prevede un ricco programma di appuntamenti pensati per coinvolgere e incuriosire il pubblico con le molteplici declinazioni del concetto di corpi: da quelli celesti a quelli umani, dagli organismi viventi alle intelligenze artificiali, alle forme di materia o di energia.
La locandina della 20esima edizione del Festival delle scienze di Roma, quest’anno dedicato al tema ‘Corpi’. Crediti: Festival delle Scienze Roma
Tra mostre, conferenze e spettacoli, l’Auditorium Parco della Musica ospiterà, da martedì 8 a domenica 13 aprile, scienziati di fama internazionale, giornalisti e intellettuali, che incontreranno il pubblico con l’approccio multidisciplinare e trasversale tipico del Festival, percorrendo cinque aree tematiche: Corpi complessi, Corpi originali, Corpi responsabili, Corpi plastici e Corpi inquieti.
All’interno del fitto calendario di eventi, l’Inaf proporrà molte occasioni per esplorare il legame tra ricerca e narrazione, tra curiosità e scoperte scientifiche, con un particolare focus sull’astronomia e le scoperte nell’universo. Una delle proposte più suggestive è la mostra “Dove la ricerca prende corpo”, visitabile per tutta la durata del Festival: un allestimento che racconta l’identità dell’Inaf attraverso una selezione di tavole illustrate tratte dall’albo Sketchtour: atlante illustrato dell’Istituto nazionale di astrofisica. Disegnate dall’artista francese Lapin, le illustrazioni, con stile poetico e narrativo, conducono il pubblico in un viaggio che intreccia luoghi e telescopi, laboratori e persone, mostrando come ogni sede dell’Istituto contribuisca a formare un organismo complesso e coeso, mosso dalla passione per la ricerca. Le tavole di Lapin restituiscono il valore collettivo del lavoro scientifico, rendendo tangibile l’idea che la conoscenza si costruisce come un corpo fatto di connessioni e relazioni.
Le persone e gli strumenti dell’Inaf nelle illustrazioni dell’artista francese Lapin.
Crediti: Inaf e www.lesillustrationsdelapin.com
Tra gli eventi più coinvolgenti figura la conferenza spettacolo “La voce nascosta dell’universo“, in programma mercoledì 9 aprile alle 21:00 nella Sala Petrassi. Un viaggio attraverso la scoperta delle onde gravitazionali, tra racconti scientifici, musica e prospettive future, a cura di Infn, in collaborazione con Inaf, Ego e Einstein Telescope Italy. Tra i protagonisti, Federica Govoni (Inaf), Antonio Zoccoli (presidente Infn) e Alessandro Cardini (Infn), pronti a raccontare come l’Einstein Telescope ci guiderà verso nuove straordinarie scoperte.
Il programma prosegue con la conferenza-spettacolo “Dare corpo a una storia“, in scena giovedì 10 aprile alle ore 19:700 presso il Teatro Studio Gianni Borgna. Pablo Trincia, giornalista e noto podcaster, dialogherà con Valentina Guglielmo (Inaf), ideatrice del podcast Houston: cosa potrebbe andare storto?, per raccontare come nasce e si sviluppa una storia scientifica in formato audio. Moderati da Davide Coero Borga (Inaf, Rai Cultura), i due relatori condurranno il pubblico attraverso le fasi creative che trasformano un’idea in un racconto capace di affascinare e informare.
Sabato 12 aprile sarà una giornata intensa di appuntamenti. Alle 12:00, l’incontro “Il mare che ascolta e racconta” condurrà il pubblico nelle profondità oceaniche per scoprire come gli osservatori marini, progettati per monitorare il clima e la biodiversità, siano in grado di captare anche segnali provenienti dallo spazio. A parlare del nuovo progetto scientifico K3mNeT e del suo “super neutrino” si alterneranno sul palco Luigi Antonio Fusco (Infn), Giuditta Marinaro (Ingv), Paolo Bolletta (Garr) e Fabrizio Bocchino (Inaf), guidati dalla giornalista scientifica Giorgia Burzachechi.
Al pomeriggio, nel corso di “Esplorare la mappa del cielo“, Roberto Ragazzoni (presidente Inaf) e l’astrofisica Sandra Savaglio (UniCal) parleranno di come gli umani guardino il cielo, spinti dal desiderio ancestrale di svelarne i segreti, e di come siano stati in grado di costruire potenti strumenti per osservare, misurare e analizzare diversi tipi di segnali provenienti dai corpi celesti.
Il presidente Inaf Roberto Ragazzoni (secondo da sinistra) alla conferenza stampa di lancio della nuova edizione 2025 del Festival. Crediti: Festival delle scienze 2025
Sempre il 12 aprile, alle 19:30, nella Sala Ospiti, la conferenza “Ascoltando la danza dei corpi celesti” celebrerà i dieci anni dalla prima rilevazione delle onde gravitazionali. Fulvio Ricci (Infn), Silvia Piranomonte (Inaf Oar) ed Eugenio Coccia (Gssi) racconteranno la straordinaria avventura scientifica che ha permesso di ascoltare l’eco della fusione di buchi neri e stelle di neutroni, segnando una nuova era nell’osservazione dell’universo.
La domenica è giorno di relax e l’Inaf vi suggerisce di partecipare a “L’universo è dentro di noi: astronomia e mindfulness” un incontro con Davide Perna (Inaf) su come l’astronomia offra una prospettiva più ampia sulla nostra esistenza e sul nostro ruolo nel cosmo. A seguire una pratica di mindfulness per tutti i partecipanti durante la quale il respiro e il corpo diverranno strumenti per esplorare il legame con l’universo.
Al Festival, l’inaf propone ogni anno giochi, laboratori per le scuole, giovani e famiglie. Crediti: Festival delle Scienze Roma
Di microorganismi, biodiversità terrestre ed ecologia spaziale si parlerà domenica 13 aprile, alle 15:30, presso la Sala Ospiti, dove si terrà il panel “Fra Terra e Spazio: One Health“, realizzato in collaborazione con Enea e Cnr. La conversazione, che vedrà interventi di esperti come Stefano Amalfitano (Cnr), Annamaria Bevivino (Enea) e Patrizia Caraveo (Inaf), esplorerà il concetto di salute globale come connessione tra esseri umani, animali e ambiente e offrirà una riflessione su come i microorganismi influenzino la vita sulla Terra e su come le scoperte spaziali possano ampliare la nostra comprensione della salute del pianeta. La moderazione sarà affidata all’astrofisico e divulgatore scientifico Luca Nardi, mentre le letture di Carla Costigliola (Enea) arricchiranno l’evento con suggestioni letterarie ispirate dal film “La guerra dei mondi”.
Dulcis in fundo, per chi desidera mettersi alla prova con esperienze pratiche, l’Inaf allestirà uno spazio dedicato ai laboratori e offrirà due attività pensate per stimolare la curiosità e la creatività. Le attività “La scatola delle fasi lunari” e “Stelle in prospettiva” proporranno la realizzazione di modelli di Luna o costellazioni, saranno rivolte principalmente alle scuole e guideranno bambini e ragazzi nella scoperta dei fenomeni astronomici attraverso esperimenti e giochi didattici.
Per saperne di più:
- Visita il sito del Festival delle scienze di Roma
- Leggi il Comunicato stampa del Festival delle scienze 2025
Appuntamenti Inaf al Festival delle scienze di Roma 2025:
Lapin – SketchTour: Dove la ricerca prende corpo
Dall’8 al 13 aprile 2025
Foyer Sinopoli – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma) (ingresso libero)
La voce nascosta dell’Universo
Mercoledì 9 aprile 2025, ore 21:00
Sala Petrassi – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Dare corpo a una storia
Giovedì 10 aprile 2025, ore 19:00
Teatro Studio Gianni Borgna – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Il mare che ascolta e racconta
Sabato 12 aprile 2025, ore 12:00
AuditoriumArte – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Esplorare la mappa del cielo
Sabato 12 aprile 2025, ore 17:30
Teatro Studio Borgna – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Ascoltando la danza dei corpi celesti
Sabato 12 aprile 2025, ore 19:30
Sala Ospiti – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
L’universo è dentro di noi: astronomia e mindfulness
Domenica 13 aprile 2025, ore 10:00
Studio 2 – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Fra terra e spazio: One Health
Domenica 13 aprile 2025, ore 15:30
Sala Ospiti – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (Roma)
Laboratori INAF per bambini e ragazzi
La scatola delle fasi lunari
Stelle in prospettiva
Getti dai buchi neri visti con Eht
Rappresentazione artistica di un nucleo galattico attivo. Crediti: Juan Carlos Algaba
Un team internazionale di ricercatori ha sfruttato osservazioni a diverse lunghezze d’onda di nuclei galattici attivi per indagare i meccanismi attraverso cui i buchi neri supermassicci generano e alimentano getti relativistici. Le sedici sorgenti analizzate dal team sono state osservate con il telescopio Event Horizon (Eht) durante la sua prima campagna del 2017. Grazie all’eccezionale risoluzione caratteristica di Eht, gli scienziati sono riusciti a studiare i getti con un livello di dettaglio senza precedenti, spingendosi più vicino che mai ai buchi neri supermassicci al centro di queste galassie.
I ricercatori hanno confrontato le osservazioni effettuate da Eht con studi precedenti condotti con il Very Long Baseline Array e il Global Millimeter Vlbi Array, che sondano scale spaziali più ampie. Da questo confronto è stato possibile dedurre come i getti si evolvono, dal luogo di origine in prossimità del buco nero fino a molti anni luce di distanza, nello spazio interstellare. Questo lavoro rappresenta un passo fondamentale per comprendere la fisica estrema che governa l’emissione dei getti e il ruolo dei campi magnetici nella loro formazione ed evoluzione.
Il lavoro è stato condotto da scienziati del Max Planck Institute for Radio Astronomy (Mpifr) di Bonn, in Germania, e dell’Instituto de Astrofisica de Andalucia (Iaa-Csic) di Granada, in Spagna. I risultati sono pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Il modello più comune che descrive il fenomeno dei getti ipotizza strutture coniche in cui il plasma si muove a velocità costante, mentre l’intensità del campo magnetico e la densità del plasma del getto decadono con l’aumentare della distanza dal motore centrale. Sulla base di queste ipotesi, è possibile fare previsioni sulle proprietà osservabili dei getti. «Questo modello di base non può essere una descrizione perfetta per tutti i getti; molto probabilmente lo è solo per una piccola parte. La dinamica e la sottostruttura dei getti sono intricate e i risultati delle osservazioni possono risentire molto delle degenerazioni astrofisiche», spiega il primo autore dello studio Jan Röder. «Ad esempio, sappiamo che molti getti sembrano accelerare. O è il plasma stesso ad accelerare, oppure potrebbe essere un effetto della geometria: se il getto si piega, può puntare verso di noi più direttamente, dando l’impressione di un movimento più veloce».
Rappresentazione schematica di un nucleo galattico attivo. Dal buco nero e dal suo disco di accrescimento, il getto relativistico viene lanciato in una geometria parabolica, per poi passare a un aspetto conico. Crediti: Jan Röder/Maciek Wielgus
«Utilizzando il campione di sedici nuclei galattici attivi, siamo stati in grado di ottenere un quadro più ampio del comportamento dei getti, rispetto all’osservazione delle singole sorgenti. In questo modo, i risultati sono meno soggetti all’influenza delle rispettive unicità», afferma il co-leader del progetto Maciek Wielgus. «Abbiamo notato che la luminosità dei getti aumenta tipicamente con l’aumentare della distanza dal buco nero, indicando chiaramente un’accelerazione».
I risultati ottenuti mettono in discussione le ipotesi di lunga data sul comportamento dei getti. Sebbene esistano spiegazioni alternative a queste nuove osservazioni, come una deviazione dalla geometria conica, è chiaro che il modello teorico di base non è in grado di riprodurre completamente le proprietà dei getti vicino alla loro origine. «Sono necessari ulteriori studi per comprendere appieno il meccanismo di accelerazione, il flusso di energia, il ruolo dei campi magnetici nei getti dei nuclei galattici attivi e le loro geometrie. La rete in espansione di Eht avrà un ruolo fondamentale nelle future scoperte su questi affascinanti oggetti», conclude Röder.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A multifrequency study of sub-parsec jets with the Event Horizon Telescope” di Röder et al.
Molecole organiche su Marte. È grasso che cola
Dal suo atterraggio su Marte nel 2012, il rover della Nasa Curiosity ha individuato tracce di diverse molecole organiche. Si tratta di molecole piccole, contenenti cloro e zolfo, costituite da non più di sei atomi di carbonio. È notizia di pochi giorni fa che il rover ha ora rilevato i più grandi composti organici mai osservati sul pianeta. La scoperta, pubblicata questa settimana sui Proceedings of the National Academy of Sciences, suggerisce che la chimica prebiotica di Marte potrebbe essere stata più complessa di quanto si pensasse in precedenza, sollevando affascinanti interrogativi sulla possibile origine della vita sul pianeta.
In primo piano, a sinistra, una grafica che mostra le molecole organiche a catena lunga individuate dal rover Curiosity. Si tratta delle molecole più grandi scoperte su Marte fino ad oggi. Sono state rilevate in un campione di roccia chiamato “Cumberland” e analizzate dal laboratorio miniaturizzato Sample Analysis at Mars (Sam) a bordo del rover. Curiosity, il cui selfie è visibile sul lato destro dell’immagine, esplora il cratere Gale dal 2012. Sullo sfondo, appena visibile, c’è il foro da dove è stato prelevato il campione Cumberland. Crediti: Nasa/Dan Gallagher
Le molecole in questione sono il decano, l’undecano e il dodecano. Come suggerisce la radice del nome, si tratta di composti con dieci, undici e dodici atomi di carbonio rispettivamente. Lo strumento Sam (Sample Analysis at Mars), il più grande a bordo del rover, le ha individuate in un campione di roccia, soprannominato ‘Cumberland’, risalente a 3.7 miliardi di anni fa e prelevato in un’area del cratere Gale chiamata Yellowknife Bay, il sito di un antico lago marziano.
Come spesso accade nella ricerca scientifica, la scoperta delle molecole è stata casuale. Anzi, doppiamente casuale, per essere precisi. La prima casualità riguarda l’area in cui le molecole sono state rilevate: gli scienziati hanno deciso di setacciare la formazione di Yellowknife Bay in quanto mostrava caratteristiche morfologiche create dalla presenza di acqua liquida, suggerendo la presenza di un antico lago che avrebbe potuto sostenere la vita microbica. Per questo motivo, durante la sua missione, Curiosity ha cambiato il piano di viaggio, dirigendosi verso questa struttura geologica prima di avviarsi verso la sua destinazione principale al centro del cratere Gale: il Monte Sharp. Il cambio di rotta si è rilevato fortunato: il campione Cumberland, prelevato all’interno dell’area il 279esimo giorno marziano, o sol, della missione, è risultato essere ricco di indizi chimici sul passato di Marte.
La seconda casualità riguarda le molecole oggetto della scoperta. Il team di scienziati guidati da Caroline Freissinet, ricercatrice al Cnrs, in Francia, e prima firmataria dello studio che riporta i risultati della ricerca, stava infatti usando il mini laboratorio di chimica integrato in Sam per analizzare il campione alla ricerca di firme di amminoacidi, i mattoni fondamentali per la costruzione delle proteine. Dopo che lo strumento ha riscaldato per due volte la roccia all’interno del suo forno e analizzato la massa delle molecole rilasciate, i ricercatori, tuttavia, non hanno trovato alcuna traccia di amminoacidi, ma hanno individuato decine di picomoli di idrocarburi: decano, undecano e dodecano, appunto.
L’ipotesi dei ricercatori è che questi composti possano essere il prodotto della degradazione di molecole molto più grandi, mediata dal riscaldamento all’interno dello strumento Sam. Frammenti di acidi grassi, ad esempio: macromolecole biologiche fondamentali per la vita. Per verificare questa possibilità, il team ha condotto esperimenti in laboratorio, mescolando acido undecanoico, un acido grasso, con un’argilla simile a quella presente su Marte. Le analisi, eseguite in maniera simile a quelle condotte dallo strumento Sam, hanno confermato la tesi: dopo aver riscaldato l’argilla, l’acido undecanoico ha rilasciato decano. I ricercatori hanno quindi fatto riferimento a studi già pubblicati per dimostrare che, in maniera del tutto simile, l’acido dodecanoico avrebbe potuto rilasciare l’undecano e l’acido tridecanoico il dodecano.
Immagine che mostra il foro di raccolta del campione ‘Cumberland’ (cliccare pe ringarndire). Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
Tutto questo significa che abbiamo trovato una biofirma, ovvero la prova definitiva che sul pianeta esista o sia esistita la vita? La risposta è negativa. La rilevazione di decano, undecano e dodecano e il fatto che queste molecole siano probabilmente presenti su Marte come acidi grassi a catena lunga non significa aver trovato la firma di attività biologica. Gli esseri viventi producono acidi grassi per formare membrane cellulari e svolgere funzioni biologiche essenziali. Tuttavia, processi non biologici, come l’interazione tra l’acqua e i minerali nelle sorgenti idrotermali, possono generare strutture simili. Sebbene al momento non sia possibile determinare con certezza l’origine di queste molecole, gli scienziati sottolineano che la loro scoperta è la prima prova che la chimica organica su Marte ha raggiunto il livello di complessità necessario per supportare la vita.
Il campione Cumberland, concludono i ricercatori, contiene minerali argillosi, la cui formazione è strettamente legata alla presenza di acqua. È ricco di zolfo, elemento che può contribuire alla conservazione delle molecole organiche, e di nitrati, composti essenziali sulla Terra per la vita di piante e animali. Inoltre, contiene tracce di metano. Ma soprattutto, contiene molecole di idrocarburi a catena lunga, probabilmente presenti sul pianeta come acidi grassi. Questo, aggiungono, suggerisce che le molecole organiche di grandi dimensioni possano essere conservate su Marte, riducendo le preoccupazioni legate alla loro distruzione nel tempo a causa dell’esposizione alle radiazioni e ai processi di ossidazione. Gli scienziati ora sono pronti a fare il prossimo grande passo: portare i campioni di Marte che sta raccogliendo Perseverance nei propri laboratori, per risolvere il dibattito sull’esistenza presente o passata della vita sul pianeta.
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Long-chain alkanes preserved in a Martian mudstone” di Caroline Freissinet, Daniel P. Glavin, P. Douglas Archer Jr., Samuel Teinturier, Arnaud Buch, Cyril Szopa, James M. T. Lewis, Amy J. Williams, Rafael Navarro-Gonzalez, Jason P. Dworkin, Heather. B. Franz, Maëva Millan, Jennifer L. Eigenbrode, R. E. Summons, Christopher H. House, Ross H. Williams, Andrew Steele, Ophélie McIntosh, Felipe Gómez, Benito Prats, Charles A. Malespin e Paul R. Mahaffy
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:
Equilibrio di stranezze in una rara galassia a spirale
Un team internazionale di astronomi, guidato dalla Christ University di Bangalore, in India, ha scoperto una galassia a spirale, distante quasi un miliardo di anni luce dalla Terra, che ospita un buco nero supermassiccio con una massa di miliardi di volte quella del Sole. Questo buco nero alimenta colossali getti radio che si estendono per sei milioni di anni luce. Si tratta di uno dei più grandi buchi neri mai osservati in una galassia a spirale e mette in discussione le attuali teorie sull’evoluzione galattica, poiché getti così potenti si trovano quasi esclusivamente nelle galassie ellittiche, non nelle spirali.
I giganteschi getti radio che si estendono per sei milioni di anni luce e un enorme buco nero supermassiccio nel cuore della galassia a spirale J23453268-0449256, ripresi dal Giant Metrewave Radio Telescope. Crediti: Bagchi e Ray et al/Giant Metrewave Radio Telescope
La scoperta lascia presagire che anche la nostra apparentemente tranquilla Via Lattea potrebbe, in futuro, generare getti simili. Un evento del genere avrebbe conseguenze significative, causando un aumento delle radiazioni e creando un potenziale scompiglio all’interno del Sistema solare. «Questa scoperta è più di una semplice stranezza: ci costringe a ripensare a come si evolvono le galassie e a come i buchi neri supermassicci crescono al loro interno e plasmano il loro ambiente», dichiara Joydeep Bagchi, primo autore dello studio. «Se una galassia a spirale può non solo sopravvivere, ma anche prosperare in condizioni così estreme, cosa significa questo per il futuro di galassie come la Via Lattea? La nostra galassia potrebbe un giorno sperimentare fenomeni simili ad alta energia, con gravi conseguenze per la sopravvivenza della preziosa vita al suo interno?».
Nel nuovo studio, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, i ricercatori hanno svelato la struttura e l’evoluzione di questa strana galassia a spirale, chiamata 2Masx J23453268-0449256, tre volte più grande della Via Lattea.
Utilizzando le osservazioni del telescopio spaziale Hubble, del Giant Metrewave Radio Telescope, dell’Atacama Large Millimeter Wave Array e le analisi a più lunghezze d’onda, hanno individuato l’enorme buco nero supermassiccio nel suo cuore e getti radio che sono tra i più grandi conosciuti per qualsiasi galassia a spirale, rendendola una galassia alquanto rara.
In teoria, l’intensa attività di questi colossali getti, alimentati da buchi neri supermassicci, dovrebbe distruggere la delicata struttura di una galassia a spirale. Eppure, contro ogni previsione, 2Masx J23453268-0449256 ha mantenuto la sua natura ordinata, con bracci a spirale ben definiti, una luminosa barra centrale e un anello stellare apparentemente indisturbato, pur ospitando uno dei buchi neri più estremi mai osservati in un ambiente simile.
A rendere il quadro ancora più enigmatico, la galassia è avvolta da un vasto alone di gas caldo che emette raggi X, rivelando indizi cruciali sulla sua storia. Mentre questo alone si raffredda lentamente nel tempo, i getti del buco nero agiscono come una fornace cosmica, impedendo la formazione di nuove stelle nonostante l’abbondanza di materiale stellare disponibile.
La Via Lattea ha nel suo centro un buco nero di quattro milioni di masse solari – Sagittarius A (Sgr A*) – che attualmente è in uno stato estremamente tranquillo, dormiente. Secondo i ricercatori, la situazione potrebbe cambiare se una nube di gas, una stella o persino una piccola galassia nana venissero “mangiati” da Sgr A*, innescando potenzialmente una significativa attività sotto forma di getti. Tali eventi sono noti come eventi di distruzione mareale (Tde, acronimo di tidal disruption events) e ne sono stati osservati diversi in altre galassie, ma non nella Via Lattea.
Se grandi getti come questi dovessero emergere da Sgr A*, il loro impatto dipenderebbe dalla loro forza, dalla direzione e dall’energia prodotta. Un getto puntato in prossimità del Sistema solare potrebbe eliminare le atmosfere planetarie, danneggiare il Dna e aumentare i tassi di mutazione a causa dell’esposizione alle radiazioni, mentre se la Terra fosse esposta a un getto diretto o vicino, potrebbe degradare il nostro strato di ozono e portare a un’estinzione di massa. Una terza possibilità è che un potente getto possa alterare il mezzo interstellare e influenzare la formazione stellare in alcune regioni, come è accaduto nella galassia oggetto del nuovo lavoro.
Immagine a colori di J23453268-0449256, che misura 300mila anni luce, catturata dal telescopio spaziale Hubble. È affiancata da una rappresentazione della Via Lattea, tre volte più piccola. Crediti: Bagchi e Ray et al/Telescopio spaziale Hubble
Gli astronomi ritengono che in passato la Via Lattea abbia probabilmente avuto getti radio su larga scala e che potenzialmente potrebbe generarli di nuovo in futuro, ma gli esperti non sono in grado di dire esattamente quando, perché dipende da molti fattori.
Come se non bastasse, il team di ricercatori ha anche scoperto che J23453268-0449256 contiene una quantità di materia oscura dieci volte superiore a quella della Via Lattea, fondamentale per la stabilità del suo disco in rapida rotazione. Rivelando un equilibrio senza precedenti tra materia oscura, attività dei buchi neri e struttura galattica, i ricercatori sostengono che il loro studio apre nuove frontiere nell’astrofisica e nella cosmologia.
«La comprensione di queste rare galassie potrebbe fornire indizi vitali sulle forze invisibili che governano l’universo, tra cui la natura della materia oscura, il destino a lungo termine delle galassie e l’origine della vita», conclude Shankar Ray, coautore della pubblicazione. «In definitiva, questo studio ci porta un passo più vicino a svelare i misteri del cosmo, ricordandoci che l’universo riserva ancora sorprese al di là della nostra immaginazione».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Unveiling the bulge–disc structure, AGN feedback, and baryon landscape in a massive spiral galaxy with Mpc-scale radio jets” di Joydeep Bagchi, Shankar Ray, Suraj Dhiwar, Mahadev B Pandge, Pratik Dabhade, Aaron J Barth, Luis C Ho, Mohammad S Mirakhor, Stephen A Walker, Nicole Nesvadba, Francoise Combes, Andrew Fabian e Joe Jacob
Dischi protoplanetari più piccoli del previsto
Quando pensiamo ai dischi protoplanetari, immaginiamo grandi anelli di gas e polvere che ruotano intorno a giovani stelle e che plasmano pianeti e sistemi planetari. Una nuova ricerca rivela però che molti di questi dischi potrebbero essere in realtà più piccoli di quanto finora ipotizzato, costringendo gli astronomi a rivedere la nostra comprensione della formazione e dell’evoluzione degli esopianeti.
Lo studio, accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophyiscs, è guidato da Osmar Manuel Guerra-Alvarado, ricercatore presso la Leiden University, nei Paesi Bassi. Per la loro ricerca, gli scienziati hanno utilizzato le osservazioni di Alma, raccolte nel 2023 e nel 2024, con la massima risoluzione possibile: 0,030 secondi d’arco. Inoltre, per la prima volta sono stati analizzati dati di archivio al fine di realizzare un’indagine completa ad alta risoluzione di un’intera regione di formazione stellare. Il censimento di 73 dischi protoplanetari, osservati nella costellazione del Lupo a circa 400 anni di luce di distanza dalla Terra, ha rivelato che molte giovani stelle ospitano dischi di gas e polvere modesti, alcuni talmente piccoli da misurare solo 0,6 unità astronomiche (Ua).
Immagini dei 73 dischi protoplanetari (due delle immagini contengono stelle binarie) nella regione della costellazione del Lupo. Solo una parte dei dischi si estende oltre l’orbita di Nettuno, rispetto al nostro Sistema solare. La maggior parte dei dischi osservati sono piccoli e non mostrano strutture come fessure e anelli che possano ospitare potenziali esopianeti. Crediti: Guerra-Alvarado et al., Leiden University
Nell’ultimo decennio, utilizzando potenti radiotelescopi terrestri come Alma, sono stati individuati centinaia di dischi protoplanetari intorno a giovani stelle. Questi dischi, rispetto al Sistema solare, si estendono ben oltre l’orbita di Nettuno, il nostro pianeta più lontano. Inoltre, la maggior parte presenta delle aree vuote, che si pensa siano i luoghi in cui si stanno formando pianeti giganti, caldi e gassosi come gli hot Jupiter.
Adesso, questo nuovo studio suggerisce che tali dischi potrebbero non essere affatto comuni. Il censimento dei 73 dischi protoplanetari osservati dal team rivela che ben due terzi di essi hanno un raggio medio di 6 Ua, mentre altri arrivano a 1,2 Ua. Il disco più piccolo trovato è di sole 0,6 Ua, più piccolo dell’orbita della Terra. «Questi risultati cambiano completamente il modo di immaginare come appare un tipico disco protoplanetario», spiega Guerra-Alvarado. «Solo i dischi più luminosi, che sono i più facili da osservare, mostrano lacune su larga scala [le aree in cui si potrebbero trovare i pianeti gassosi, ndr], mentre i dischi compatti senza tali sottostrutture sono in realtà molto più comuni». Le precedenti osservazioni ad alta risoluzione di Alma, infatti, si sono concentrate principalmente su dischi protoplanetari molto luminosi e spesso molto più grandi. Per i dischi più piccoli è stata misurata solo la luminosità e non la dimensione.
I dischi protoplanetari più piccoli sono stati osservati principalmente attorno a stelle di piccola massa, che costituiscono la maggior parte delle stelle nell’universo. Queste stelle, con una massa tra il 10 e il 50 per cento di quella del Sole, sembrano creare le condizioni ideali per la formazione delle super-Terre, come spiega la co-autrice Mariana Belén Sánchez (Leiden University): «Le osservazioni mostrano che questi dischi compatti potrebbero avere condizioni ottimali per la formazione delle cosiddette super-Terre, poiché la maggior parte della polvere si trova vicino alla stella, dove di solito le super-Terre vengono individuate». Ritenute tra i tipi di pianeti più comuni nell’universo, le super-Terre sono pianeti rocciosi simili alla Terra ma con masse fino a dieci volte maggiori di quella del nostro pianeta. Secondo gli autori dello studio, i loro risultati potrebbero spiegare perché le super-Terre siano spesso trovate intorno a stelle di piccola massa, suggerendo che il nostro Sistema solare si sia formato da un ampio disco protoplanetario, che ha dato origine ai giganti gassosi come Giove e Saturno e non a una super-Terra.
«La scoperta che la maggior parte dei piccoli dischi non mostra delle zone libere, implica che la maggior parte delle stelle non ospita dei pianeti giganti», spiega la co-autrice Nienke van der Marel (Leiden University). «La ricerca rivela che per molto tempo abbiamo frainteso l’aspetto di un tipico disco protoplanetario. È chiaro che abbiamo puntato sui dischi più grandi e luminosi. Ora abbiamo finalmente una panoramica completa dei dischi di tutte le dimensioni».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophyiscs “A high-resolution survey of protoplanetary disks in Lupus and the nature of compact disks“, di Osmar M. Guerra-Alvarado, Nienke van der Marel, Jonathan P. Williams, Paola Pinilla, Gijs D. Mulders, Michiel Lambrechts e Mariana Sanchez
Spirali di plasma nello spazio
Il 12 ottobre 2022, durante un passaggio ravvicinato al Sole, le riprese ottenute dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea (Esa) hanno catturato un fenomeno spettacolare e inedito per livello di dettaglio: l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore. Per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunte prima, è stato possibile osservare direttamente l’espulsione di strutture a spirale dalla corona solare, compatibili con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.
Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento Eui nella lunghezza d’onda di 174 ångstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio. Crediti: Metis ed Eui (Solar Orbiter/Esa). L’immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (Inaf di Napoli)
Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), Università di Firenze, Università di Padova, Cnr-Ifn, e realizzato dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.
Alla guida dello studio, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal, c’è Paolo Romano, primo ricercatore all’Inaf di Catania, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale. «È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo», dice Romano, «compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto».
Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.
Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (Cme). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.
Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.
Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del Goddard Space Flight Center della Nasa. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.
«Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare», commenta Marco Romoli dell’Università di Firenze, responsabile scientifico dello strumento Metis. «Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario».
«Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo», spiega Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Asi, «sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata».
Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.
In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Metis Observations of Alfvénic Outflows Driven by Interchange Reconnection in a Pseudostreamer”, di P. Romano, P. Wyper, V. Andretta, S. Antiochos, G. Russano, D. Spadaro, L. Abbo, L. Contarino, A. Elmhamdi, F. Ferrente, R. Lionello, B. J. Lynch, P. MacNeice, M. Romoli, R. Ventura, N. Viall, A. Bemporad, A. Burtovoi, V. Da Deppo, Y. De Leo, S. Fineschi, F. Frassati, S. Giordano, S. L. Guglielmino, C. Grimani, P. Heinzel, G. Jerse, F. Landini, G. Naletto, M. Pancrazzi, C. Sasso, M. Stangalini, R. Susino, D. Telloni, L. Teriaca e M. Uslenghi
Guarda il video pubblicato sul canale YouTube dell’Agenzia spaziale europea:
Supernove sotto accusa per due estinzioni di massa
Che siano state delle esplosioni di supernove a spazzare via per ben due volte la gran parte delle forme di vita dalla faccia della Terra? Non è la prima volta che le supernove si ritrovano sul banco degli imputati insieme a indagati altrettanto spaziali quali asteroidi e lampi di raggi gamma, la teoria aleggia da tempo nell’ambiente scientifico. Ma a corroborare questa ipotesi arrivano ora i risultati di un nuovo studio: tre ricercatori della Keele University (Regno Unito) hanno infatti notato una corrispondenza temporale tra due eventi di supernove e due grandi estinzioni di massa avvenute centinaia di milioni di anni fa sul nostro pianeta.
Gli eventi di cui stiamo parlando sono l’estinzione del tardo Devoniano e quella dell’Ordoviciano, avvenute rispettivamente 372 e 445 milioni di anni fa. L’estinzione dell’Ordoviciano uccise il 60 per cento degli invertebrati marini in un periodo in cui la vita era prevalentemente confinata nel mare, mentre quella del tardo Devoniano spazzò via attorno al 70 per cento di tutte le specie. All’origine di questi avvenimenti c’è probabilmente una riduzione dello strato d’ozono che avvolge la Terra, ma non si hanno ancora prove certe su cosa l’abbia provocata. Alcuni studiosi ritengono che la responsabile potrebbe essere stata, appunto, la potentissima esplosione di una supernova vicina alla Terra.
Esplosione della supernova Sn 1987a (al centro) nella Grande Nube di Magellano, una galassia vicina alla nostra Crediti: Nasa, Esa, R. Kirshner (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics and Gordon and Betty Moore Foundation), M. Mutchler and R. Avila (STScI)
Gli autori dello studio, pubblicato la scorsa settimana su pubblicato su Monthly notices of the Royal Astronomical Society, stavano portando a termine un censimento delle stelle massive entro un kiloparsec (circa 3260 anni luce) di distanza dal Sole, analizzando in particolare la distribuzione delle stelle di tipo OB, per comprendere meglio l’origine degli ammassi di stelle e delle galassie e per analizzare la frequenza con cui queste stelle si formano nella nostra galassia. Un censimento che ha permesso loro di calcolare anche la frequenza con cui avvengono le supernove e la produzione di resti di supernova e di resti di stelle massive attraverso l’universo, come ad esempio buchi neri e stelle di neutroni. Ed è proprio nel corso di questo “inventario stellare” che si sono imbattuti, appunto, in una possibile correlazione tra supernove ed estinzioni di massa.
Rifacendosi all’ipotesi delle supernove distruttrici di vita, i tre ricercatori hanno calcolato la frequenza di supernove nel raggio di 20 parsec (circa 65 anni luce) dal nostro pianeta, e l’hanno confrontata con la frequenza approssimativa di eventi di estinzione di massa attribuiti in precedenza a supernove vicine – escludendo, quindi estinzioni legate ad altri fattori, come l’impatto di asteroidi o le ere glaciali.
«Abbiamo calcolato la frequenza di supernove vicine alla Terra», spiega uno dei tre autori dello studio, Nick Wright, della Keele University, «e abbiamo visto che era consistente con la frequenza degli eventi di estinzione di massa sul nostro pianeta che erano stati collegati a forze esterne come le supernove». Una frequenza, per le supernove a collasso nucleare avvenute, come dicevamo, a non più di 20 parsec dalla Terra, pari a circa 2,5 eventi ogni miliardo di anni: compatibile, appunto, con le tempistiche delle due estinzioni di massa – quelle dell’Ordoviciano e del tardo Devoniano.
Le esplosioni di supernova sono estremamente potenti e rilasciano un’energia paragonabile a quella che produce il Sole nella sua intera esistenza, in grado di spazzare via tutto ciò che si trova nello spazio circostante. Se questo evento avvenisse vicino alla Terra sarebbe un disastro: la supernova potrebbe derubare l’atmosfera dell’ozono, innescare piogge acide ed esporre gli esseri viventi alle dannose radiazioni ultraviolette rilasciate dal Sole.
«Le esplosioni di supernova portano elementi chimici pesanti nel mezzo interstellare, dove vengono poi usati per formare nuove stelle e pianeti. Ma se un pianeta, inclusa la Terra, si trova troppo vicino a questo tipo di eventi, ciò può avere effetti devastanti», dice il primo autore dello studio, Alexis Quintana, attualmente all’Università di Alicante, sottolineando come le stelle massive – una supernova a collasso nucleare si ha quando una stella massiva raggiunge il termine della propria vita, finisce il carburante nucleare, si raffredda e infine collassa sotto la pressione della gravità – possano comportarsi sia da creatrici che da distruttrici di vita. Alle supernove è infatti anche attribuito un ruolo cruciale nello spargimento di elementi pesanti nell’universo, elementi essenziali per lo sviluppo della vita. Le supernove sono quindi da un certo punto di vista l’anello di congiunzione tra la morte di una stella e l’inizio della vita nell’universo, ma se l’ipotesi sostenuta dai ricercatori si rivelasse corretta questi spettacolari eventi astronomici sarebbero responsabili dell’annientamento della stessa vita che hanno contribuito a creare.
Gli astronomi stimano che una o due supernove, o forse anche meno, avvengano ogni secolo in galassie come la Via Lattea. La buona notizia è che ci sono solo due stelle a noi vicine che potrebbero diventare supernove nei prossimi milioni di anni: Antares e Betelgeuse. Ma per nostra fortuna entrambe le stelle sono a più di 500 anni luce da noi, e simulazioni informatiche hanno precedentemente suggerito che una supernova a tale distanza dalla Terra probabilmente non avrebbe effetti sul nostro pianeta.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A census of OB stars within 1 kpc and the star formation and core collapse supernova rates of the Milky Way” di Alexis L. Quintana, Nicholas J. Wright e Juan Martínez García