Apparizioni e sparizioni in cielo
Apparizione in cielo di una Perseide
È giunto il momento delle Perseidi, di eredità cometarie in forma di minuscoli frammenti di polveri che, entrando nell’atmosfera terrestre, creano un incredibile spettacolo di scie luminose che a volte sono colorate e solcano il cielo per parecchi gradi. Più conosciute come lacrime di San Lorenzo, le Perseidi sono grani di polveri lasciati lungo la sua orbita dalla cometa Swift-Tuttle. Per osservarle non sono necessari strumenti particolari. L’occhio nudo è lo strumento perfetto. Occorre trovare un posto al buio lontano dalle luci cittadine e una posizione comoda in modo da osservare il cielo il più possibile senza stancarsi. Il picco dello sciame è aspettato per il 12 del mese, dunque le sere migliori per osservarle sono intorno a questa data. E quindi la notte tra l’11 e il 12 di agosto e quella tra il 12 e il 13, ma potrebbero esser viste anche gli altri giorni. La Luna in questo periodo è prossima al primo quarto e tramonterà verso le dieci di sera, perciò non disturberà di molto le osservazioni, che potranno essere compiute per tutta la durata della notte.
Saturno prossimo all’occultazione da parte della Luna il 21 agosto 2024. Simulazione ottenuta con il software Stellarium
In questo mese la Luna si traveste da maga e farà sparire – prospetticamente, s’intende – il pianeta Saturno. Dall’Italia l’occultazione sarà visibile la mattina del 21, prima del sorgere del Sole tra le 5:29 e le 6:36 ora locale. Gli istanti precisi di inizio e fine dipenderanno dal luogo di osservazione, con la Luna quasi piena e Saturno che sparirà dal lato luminoso e riapparirà nella piccola parte di lembo non illuminato dal Sole. La riapparizione sarà resa complicata dalla Luna prossima al tramonto e con il cielo rischiarato dal sorgere del sole.
La Luna concederà il bis, sempre il 21 ma questa volta di sera, occultando Nettuno, questa volta visibile solo dal sud Italia. L’occultazione piuttosto radente del pianeta blu inizierà alle 23:09 e finirà alle 23:49 ora locale e sarà possibile seguirla attraverso un telescopio, anche se la luminosità del nostro satellite renderà complicata l’osservazione del pianeta.
Una bellissima congiunzione tra Giove e Marte sarà visibile la notte del 14 agosto. I due astri sorgeranno praticamente insieme verso l’una e un quarto del mattino ad est nord-est e la coppia di pianeti sarà visibile fino all’alba verso est sparendo poi nelle luci del Sole ormai sorto.
Simulazione con il software Stellarium della congiunzione del 14 agosto 2024 tra Giove e Marte in un bellissimo campo stellare con la costellazione del Toro e le Pleiadi
Le notti del 27 e del 28 vedranno verso est una bella situazione con la Luna prossima prima a Giove e poi a Marte. Visibile a notte fonda fino all’alba.
Ad agosto la Via Lattea sarà sempre ben visibile in cieli bui, senza luna, e lontano dalle luci artificiali. La costellazione del Cigno sarà ben alta prossima allo zenith, così pure quella della Lira. Invece lo Scorpione, oramai al tramonto verso sud-ovest, farà spazio ad Andromeda e al quadrato di Pegaso verso est. L’ammasso globulare M15, o grande ammasso di Pegaso, sarà ben posizionato in cielo nelle notti senza luna, nella prima metà del mese, così pure poco più sotto M2. Annunciando l”arrivo dei prossimi mesi inizierà a farsi notare anche a occhio nudo la grande galassia di Andromeda.
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Dove la materia s’impantana, quella oscura avanza
Quante cose si imparano, dagli scontri. È così nelle relazioni fra noi umani, relazioni che proprio da un conflitto ben gestito possono maturare ed evolvere. È così nel microcosmo della fisica delle particelle, dove per sondare la natura della materia si usano acceleratori con lo scopo di generare collisioni ad altissima energia. Ed è così anche nel macrocosmo dell’astrofisica: l’esempio più recente arriva dalla coppia di ammassi di galassie Macs J0018.5+1626, immense strutture formate da migliaia di galassie a miliardi di anni luce di distanza da noi. Assistendo allo scontro frontale tra i due ammassi della coppia, un team di astronomi guidato da Emily Silich del Caltech e dall’astronoma italiana Elena Bellomi – originaria di Castelletto Stura, in provincia di Cuneo, ma oggi ricercatrice all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, negli Stati Uniti – è riuscito in un’imopresa senza precedenti: “osservare” in modo diretto il disaccoppiamento delle velocità della materia oscura e di quella ordinaria. Scoprendo, come riportato in un articolo pubblicato a metà giugno su The Astrophysical Journal, che la materia oscura si lascia alle spalle la materia ordinaria.
Rappresentazione artistica della collisione tra due enormi ammassi di galassie. Man mano che la collisione procede, la materia oscura negli ammassi di galassie (blu) sopravanza le nubi di gas caldo associate, o materia ordinaria (arancione). Crediti: W.M. Keck Observatory/Adam Makarenko
Ciò che hanno visto, analizzando decenni di dati osservativi raccolti con i telescopi più disparati, è che durante la collisione fra i due ammassi le singole galassie, separate dalle immense distanze dello spazio intergalattico, s’incrociano senza entrare in collisione. Così non è per il grosso della materia normale, vale a dire il gas intergalattico: lo scontro qui avviene eccome, il gas diventa turbolento e si surriscalda. E se vi state chiedendo in tutto questo dove sia la materia oscura, è presto detto: non si è vista direttamente, altrimenti non sarebbe materia oscura, ma l’assunto degli autori dello studio è che durante la collisione si comporti in modo analogo alle galassie, che dunque possono essere considerate un cosiddetto proxy per la materia oscura. Riassumendo: il gas intergalattico è la materia ordinaria, le galassie – pur essendo anch’esse materia ordinaria – qui rappresentano la materia oscura, e quel che si è visto è che durante lo scontro quest’ultima sopravanza la prima.
E perché avviene? Entrambe le forme di materia interagiscono gravitazionalmente, ma solo la materia ordinaria interagisce anche elettromagneticamente, ed è proprio l’interazione elettromagnetica a rallentare il gas intergalattico durante la collisione. Così, mentre la materia ordinaria – il gas, appunto – rimane impantanata, la materia oscura presente abbondanza – ne costituisce l’85 per cento – in ciascuno dei due ammassi supera indenne la zona d’impatto. Provate a immaginare uno scontro frontale fra due camion che trasportano sabbia, suggerisce Silich, prima autrice dello studio. «La materia oscura è come la sabbia, e vola avanti». A differenza dei due camion accartocciati uno sull’altro, che rappresentano invece la materia ordinaria.
La scoperta, come dicevamo, è stata possibile grazie ai dati – alcuni risalenti a decine d’anni fa – di numerosi telescopi: il Caltech Submillimeter Observatory (recentemente rimosso dal suo sito di Maunakea, alle Hawaii, per essere trasferito in Cile), il Keck Observatory sempre di Maunakea, i telescopi spaziali Chandra (raggi X), Hubble (ottico e Uv), Herschel (infrarosso) e Planck (microonde) e, di nuovo da terra, Alma, in Cile.
«Lo studio che abbiamo condotto su Macs J0018.5 vogliamo ripeterlo in futuro su altri cinque o sei ammassi di galassie», dice Bellomi a Media Inaf, «ci stiamo già lavorando, e chissà cosa scopriremo, vista la sorpresa che ci ha regalato questo».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “ICM-SHOX. Paper I: Methodology overview and discovery of a gas–dark matter velocity decoupling in the MACS J0018.5+1626 merger”, di Emily M. Silich, Elena Bellomi, Jack Sayers, John ZuHone, Urmila Chadayammuri, Sunil Golwala, David Hughes, Alfredo Montaña, Tony Mroczkowski, Daisuke Nagai, David Sánchez, S. A. Stanford, Grant Wilson, Michael Zemcov e Adi Zitrin
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Orologi cosmici su Marte
Crateri sulla superficie marziana formatisi in seguito al primo impatto di un meteorite rilevato dal lander Mars Insight della Nasa, nel 2021. L’immagine presenta colori modificati per rendere i dettagli più visibili all’occhio umano, ed è stata scattata dal Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/University of Arizona.
Nonostante sulla superficie di Marte l’esploratore robotico Insight della Nasa sia inattivo dalla fine del 2022, i suoi dati continuano a produrre nuove scoperte sulla Terra. Insight è infatti dotato di uno strumento chiamato Seis (Seismic Experiment for Interior Structure), un sismografo estremamente sensibile in grado di misurare i minimi movimenti del suolo, utilizzato per registrare eventi sismici probabilmente causati da impatti di meteoriti, i cosiddetti marsquakes (o martemoti). Il lander InSight ha raccolto dati sismici dal momento dell’atterraggio nel 2018 fino a quando i suoi pannelli solari, come previsto, si sono ricoperti di polvere al punto da non poter più generare energia.
Ora, grazie ai dati di Insight, risulta da due studi indipendenti, pubblicati su Nature Astronomy e Science Advances, che la frequenza degli impatti da meteoriti su Marte sia molto superiore a quanto si pensava in precedenza. Il tasso dei marsquakes rilevati da Seis supera infatti le stime precedenti basate sulle immagini satellitari della superficie di Marte.
Secondo i ricercatori, questi dati sismici sono particolarmente significativi perché rappresentano un modo molto più accurato e diretto per misurare i tassi di impatto dei meteoriti e potrebbero permettere una datazione di maggiore precisione delle superfici planetarie del Sistema Solare. In passato, infatti, è stato utilizzato il numero di crateri presenti sulla superficie come “orologio cosmico” basandosi su un semplice assunto: le superfici più vecchie presentano un numero maggiore di crateri rispetto a quelle più giovani. Sembrerebbe invece che i segnali sismici possano fornire una stima molto più accurata del numero degli impatti, rendendo quindi più precisa la regolazione dell’orologio.
Per calcolare l’età planetaria con questo metodo, gli scienziati hanno tradizionalmente utilizzato modelli basati sui crateri della Luna, ma per Marte questi modelli devono essere adattati – oltre che alla dimensione e alla posizione del pianeta – alla presenza dell’atmosfera, che potrebbe impedire agli impattatori più piccoli di colpire la superficie.
Con questo nuovo studio, i ricercatori hanno identificato un nuovo modello di segnali sismici prodotto dall’impatto di meteoriti che si distinguono per una proporzione insolitamente maggiore di onde ad alta frequenza rispetto ai segnali sismici tipici, oltre che per altre caratteristiche, e sono noti come marsquakes ad altissima frequenza. Utilizzando questo nuovo metodo per rilevare gli impatti, i ricercatori hanno contato molti più eventi rispetto a quanto previsto dalle immagini satellitari, in particolare per impatti che producono crateri di soli pochi metri di diametro.
I segnali sismici ottenuti da Insight suggeriscono che Marte viene colpito ogni anno da circa trecento meteoriti delle dimensioni di un pallone da basket, i cui impatti producono crateri di oltre otto metri di diametro sulla superficie del Pianeta rosso. Per i crateri larghi meno di 60 metri, gli scienziati sono stati in grado di stimare la frequenza di formazione di nuovi crateri utilizzando le immagini satellitari, ma il numero di crateri osservati con questo metodo è molto inferiore a quello previsto dai dati sismici.
«Utilizzando i dati sismici per comprendere meglio la frequenza con cui i meteoriti colpiscono Marte e il modo in cui questi impatti modificano la sua superficie, possiamo iniziare a ricostruire una linea temporale della storia geologica e dell’evoluzione del Pianeta rosso», spiega Natalia Wojcicka dell’Imperial College di Londra, coautrice dello studio pubblicato su Nature Astronomy. «Si potrebbe pensare a una sorta di “orologio cosmico” che ci aiuti a datare le superfici marziane e forse, più avanti, altri pianeti del Sistema solare».
«Ascoltare gli impatti sembra essere più efficace che cercarli, se vogliamo capire quanto spesso si verificano» ha dichiarato Gareth Collins dell’Imperial College di Londra, tra gli autori dello stesso studio.
Il lander della Nasa Mars Insight. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
A rafforzare questi risultati complessivi c’è anche un secondo studio in cui è coinvolto lo stesso gruppo di ricerca, pubblicato su Science Advances. In questo caso, per stimare la frequenza degli impatti su Marte sono state utilizzate le immagini e i segnali atmosferici registrati da InSight, e nonostante l’utilizzo di metodi diversi, entrambi gli studi sono giunti a conclusioni simili. Per la precisione, secondo lo studio pubblicato su Science Advances i tassi di impatto da meteoriti sulla superficie marziana potrebbero essere da due a dieci volte superiori a quelli stimati in precedenza, a seconda delle dimensioni dei meteoroidi. La frequenza di queste collisioni cosmiche mette in discussione le nozioni esistenti sulla frequenza con cui i meteoroidi colpiscono la superficie marziana e suggerisce la necessità di rivedere gli attuali modelli di craterizzazione marziana per incorporare tassi di impatto più elevati, soprattutto da meteoroidi più piccoli.
«I nostri risultati si basano su un piccolo numero di esempi a nostra disposizione, ma la stima dell’attuale tasso di impatto suggerisce che il pianeta viene colpito molto più frequentemente di quanto possiamo vedere usando solo le immagini», dice la prima autrice dello studio Ingrid Daubar, della Brown University (Usa). «Questo ci obbligherà a ripensare alcuni dei modelli che la comunità scientifica utilizza per stimare l’età delle superfici planetarie dell’intero Sistema solare».
Prima dei dati di Seis a bordo di Insight, i nuovi impatti su Marte erano stati individuati con immagini scattate in diversi periodi da telecamere in orbita intorno al pianeta. Senza Seis, molti impatti sarebbero potuti passare altrimenti inosservati, e per individuarli il team di ricerca ha confrontato i dati sismici con le immagini riprese dal Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa. Questo duplice approccio, che prevede l’utilizzo di dati sismici e immagini orbitali, ha permesso di confermare che i segnali sismici sono stati causati da impatti e di effettuare un controllo incrociato delle loro scoperte per garantirne l’accuratezza.
Sei degli otto nuovi crateri individuati dai ricercatori in questo modo, si trovano vicini al luogo in cui staziona il lander InSight. I due impatti più distanti identificati dai dati sono ritenuti i due più grandi mai rilevati dagli scienziati, anche dopo decenni di osservazione dall’orbita. Questi ultimi due impatti hanno generato un cratere delle dimensioni di un campo da calcio e sono avvenuti a soli novantasette giorni di distanza l’uno dall’altro, sottolineando la maggiore frequenza di questo tipo di eventi geologici.
«Ci aspetteremmo un impatto di queste dimensioni forse una volta ogni due decenni, ma qui ne abbiamo due a distanza di poco più di novanta giorni l’uno dall’altro», osserva Daubar. «Potrebbe trattarsi di una coincidenza assurda, ma la probabilità che sia solo una coincidenza è davvero molto bassa. È più probabile che i due grandi impatti siano collegati, oppure che il tasso di impatto su Marte sia molto più alto di quanto pensassimo».
Tutte le nuove informazioni acquisite finora risulteranno importanti anche per valutare i potenziali pericoli a cui saranno esposte le future missioni di esplorazione planetaria, sia robotiche che umane.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A new estimate of the impact rate on Mars from Very High Frequency marsquake statistics” di Géraldine Zenhäusern, Natalia Wójcicka, Simon C. Stähler, Gareth S. Collins, Ingrid J. Daubar, Martin Knapmeyer, Savas Ceylan, John F. Clinton e Domenico Giardini
- Leggi su Science Advances l’articolo “Seismically detected cratering on Mars: Enhanced recent impact flux?” di Ingrid J. Daubar, Raphaël F. Garcia, Alexander E. Stott, Benjamin Fernando, Gareth S. Collins, Colin M. Dundas, Natalia Wójcicka, Géraldine Zenhäusern, Alfred S. McEwen, Simon Matthew Golombek, Constantinos Charalambous, Domenico Giardini, Philippe Lognonné e W. Bruce Banerdt
Classifica anche tu le galassie di Euclid
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Quaranta immagini di galassie dalla forma disparata, osservate con Euclid. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, CC BY-SA 3.0 IGO or ESA Standard Licence
“Più veloce, più in alto, più forte”. È il famoso motto delle Olimpiadi, e se state seguendo le gare in questi giorni avrete forse sentito che da qualche anno il Comitato Olimpico Internazionale vi ha aggiunto un nuovo, importante elemento: “insieme”. A sottolineare il valore unificante dello sport. Anche nella scienza, l’unione fa notoriamente la forza, e non solo all’interno dei team di ricerca ma – sempre più spesso – anche in collaborazione con il pubblico, grazie alla citizen science.
Ne è un esempio il nuovo progetto Galaxy Zoo lanciato oggi, grazie al quale anche voi potrete aiutare ricercatori e ricercatrici della missione Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa) a identificare le forme di centinaia di migliaia di galassie osservate dal nuovo telescopio spaziale che studia il “lato oscuro” dell’Universo. Queste classificazioni saranno fondamentali per comprendere come la forma delle galassie si sia evoluta nel tempo, cosa ha causato questi cambiamenti e perché.
Galaxy Zoo è uno dei progetti di citizen science più famosi al mondo. Lanciato nel 2007 da un team di astronomi che chiese aiuto al pubblico per classificare le forme di un milione di galassie nelle immagini della Sloan Digital Sky Survey, è cresciuto negli ultimi diciassette anni, coinvolgendo oltre quattrocentomila persone e ampliando il bacino di galassie da visionare, con immagini provenienti da altri osservatori, sia a terra che in orbita, come i telescopi spaziali Hubble e Jwst. Non poteva mancare anche Euclid.
«Dalla morfologia e dai colori delle galassie, possiamo derivare informazioni cruciali per capire come le galassie si siano formate e trasformate nel corso della loro esistenza, ad esempio attraverso l’interazione con l’ambiente in cui vivono e le fusioni, o merging, con altre galassie», spiega a Media Inaf Crescenzo Tortora, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica a Napoli e membro del working group che, all’interno della Euclid Collaboration, si occupa di caratterizzare la morfologia, le dimensioni, e la forma delle galassie osservate. È proprio questo gruppo che ha progettato il nuovo progetto di citizen science e che ne userà i prodotti. «Il modo più semplice per caratterizzare la morfologia delle galassie è l’ispezione visuale, assegnando etichette a ciascuna galassia: ad esempio, se ha bracci a spirale, e quanti, se ha un disco, un bulge, compagne attorno a lei, eccetera. Tuttavia, l’ispezione visuale di miliardi di galassie, come quelle che osserveremo grazie a Euclid, sarebbe proibitiva per gli astrofisici, richiedendo anni di lavoro continuo. Pensate: se immaginiamo che ogni galassia richieda almeno 5 secondi per poter essere etichettata, un singolo astrofisico dovrebbe dedicare almeno 2 mesi di lavoro ininterrotto, senza dormire o mangiare, per classificare 1 milione di galassie».
Fortunatamente, l’intelligenza artificiale viene in aiuto. «Codici di intelligenza artificiale come ZooBot, che utilizzeremo in Euclid, una volta addestrati su galassie etichettate da esseri umani, permettono di classificare enormi quantità di dati, mai visti prima da occhio umano, in tempi molto brevi», prosegue Tortora. «Tuttavia, ZooBot ha bisogno di imparare da una grande quantità di esempi già classificati ed etichettati da esseri umani. Attraverso il progetto di citizen science Euclid Zoo, chiediamo aiuto alla gente comune: non esperti ma interessati, curiosi e desiderosi di contribuire a qualcosa di grande. Centinaia, migliaia di volontari potranno divertirsi a fare gli astrofisici, etichettando centinaia di migliaia di galassie, aiutando a svolgere molto più velocemente un lavoro che i soli astrofisici non potrebbero fare da soli».
Dopo il lancio, il primo luglio 2023, Euclid ha iniziato la sua survey scientifica lo scorso febbraio e si prevede che, nel corso dei prossimi sei anni, invierà sulla Terra circa 100 Gigabyte di dati al giorno. Nella sua missione di mappare l’Universo, Euclid riprenderà centinaia di migliaia di galassie distanti, di cui si può avere un’anteprima sbirciando sullo sfondo nelle spettacolari prime immagini rilasciate alla fine dell’anno scorso e poi ancora lo scorso maggio.
La collaborazione Euclid condividerà i primi cataloghi di dati veri e propri con la comunità scientifica a partire dal 2025. Nel frattempo questo primo set di dati, con decine di migliaia di galassie selezionate da oltre ottocentomila immagini, è stato reso disponibile sulla piattaforma Zooniverse. Qui, l’algoritmo di intelligenza artificiale ZooBot, sviluppato dal team di Zooniverse, esamina per primo le immagini di Euclid, attribuendo un’etichetta a quelle “più facili” – galassie di cui esistono già molti esempi nelle survey precedenti. Quando ZooBot non è sicuro della classificazione di una galassia, magari a causa della presenza di strutture complesse oppure troppo deboli nell’immagine, la mostra agli utenti di Galaxy Zoo per raccogliere le loro classificazioni umane, che aiuteranno ZooBot a migliorare.
Per questo, ogni citizen scientist che aiuterà il team di Euclid classificando la forma delle galassie su Galaxy Zoo potrà ammirare una miriade di immagini inedite raccolte da Euclid e, chissà, potrebbe addirittura essere la prima umana o il primo umano a posare gli occhi sull’immagine di una certa galassia. Sulla piattaforma, accanto alle immagini, i volontari riceveranno una serie di domande, per esempio: “Questa galassia è rotonda?” oppure “Ci sono segni di bracci a spirale?”. Una volta addestrato su queste classificazioni umane, ZooBot verrà integrato nei cataloghi di Euclid per classificare in dettaglio centinaia di milioni di galassie, contribuendo a creare il più grande catalogo scientifico mai realizzato.
Per saperne di più:
- Visita il sito del progetto Galaxy Zoo sulla piattaforma Zooniverse
Trappole di polvere all’origine delle macromolecole
Impressione artistica di una trappola di polvere. Crediti: Nova Astronomie
Le macromolecole organiche sono considerate i mattoni della vita, in quanto sono di importanza cruciale per la composizione del carbonio e dell’azoto della Terra.
Gli scienziati planetari da tempo ipotizzano che le macromolecole organiche che hanno reso la Terra adatta alla vita provengano dalle cosiddette condriti, blocchi rocciosi da cui si è formata la Terra circa 4,6 miliardi di anni fa e che oggi conosciamo come meteoriti. Si sono formate nelle fasi iniziali, dall’accumulo di polvere e piccole particelle nel disco protoplanetario, intorno a una giovane stella.
Ma come si sono formate le macromolecole in questi agglomerati di sassolini?
In uno studio pubblicato su Nature Astronomy, un gruppo di ricercatori guidato da Niels Ligterink presenta ora una spiegazione. «La materia macromolecolare in quanto tale è responsabile della composizione di carbonio e azoto della Terra e fornisce le condizioni per la vita», spiega Ligterink, primo autore dello studio, che ha lavorato presso lo Space Research and Planetary Sciences dell’Università di Berna fino alla fine di giugno 2024 e ora è alla Technical University, nei Paesi Bassi. «Finora, tuttavia, non era chiaro dove si formasse questa materia macromolecolare nello spazio».
Per lo studio attuale, i ricercatori hanno combinato nel loro modello due fenomeni già noti. Il primo è il fenomeno per cui nel disco di polvere che orbita attorno a una giovane stella esistono regioni in cui si accumulano polvere e ghiaccio. In queste trappole di polvere o ghiaccio, la polvere ghiacciata non rimane ferma, ma si muove verso l’alto e verso il basso, e avvengono importanti meccanismi per la formazione dei cosiddetti planetesimi, precursori e mattoni dei pianeti.
Il secondo fenomeno riguarda la forte irradiazione, ad esempio da parte della luce stellare, di semplici miscele di ghiaccio. Le ricerche di laboratorio hanno indicato che l’irraggiamento può formare molecole molto complesse di centinaia di atomi. Queste molecole contengono principalmente atomi di carbonio e possono essere paragonate alla fuliggine nera e al grafene.
Secondo i ricercatori, se esistessero delle trappole di polvere esposte a un’intensa luce stellare, le macromolecole organiche potrebbero formarsi anche lì. Per verificare la loro ipotesi, hanno creato un modello che ha permesso di calcolare diverse condizioni.
Rappresentazione artistica del disco di formazione planetaria intorno alla stella Irs 48, nota come Oph-Irs 48. Crediti: Eso/L. Calçada
Il modello ha dimostrato che, nelle giuste condizioni, la formazione di macromolecole è effettivamente possibile in pochi decenni. «Ci aspettavamo questo risultato, naturalmente, ma è stata una bella sorpresa che fosse così ovvio», dice Ligterink. «Spero che la ricerca presti maggiore attenzione all’effetto delle radiazioni pesanti sui processi chimici complessi. La maggior parte dei ricercatori si concentra su molecole organiche relativamente piccole, delle dimensioni di qualche decina di atomi, mentre le condriti, i mattoni dei pianeti, contengono per lo più grandi macromolecole».
«È davvero fantastico poter utilizzare un modello basato su osservazioni per spiegare come si formano le molecole di grandi dimensioni», afferma la coautrice Nienke van der Marel dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. Undici anni fa, lei e i suoi colleghi sono stati i primi a dimostrare in modo convincente l’esistenza delle trappole di polvere. «La nostra ricerca è una combinazione unica di astrochimica, osservazioni con il radiotelescopio Alma, lavoro di laboratorio, evoluzione della polvere e studio di meteoriti del nostro sistema solare».
In futuro, i ricercatori intendono studiare come i diversi tipi di trappole per la polvere reagiscano in modo diverso alle radiazioni e ai flussi di polvere in movimento. «Questo li aiuterà a saperne di più sulla probabilità di vita intorno a diversi tipi di esopianeti e stelle», conclude Ligterink.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “The rapid formation of macromolecules in irradiated ice of protoplanetary disk dust traps” di Niels F.W. Ligterink, Paola Pinilla, Nienke van der Marel, Jeroen Terwisscha van Scheltinga, Alice S. Booth, Conel M. O’D. Alexander, My E.I. Riebe
Incendio a Roma, evacuata la sede centrale Inaf
L’incendio che si è sviluppato oggi nel primo pomeriggio a Roma, sulla collina di Monte Mario, ha costretto all’evacuazione anche il personale presente all’Osservatorio astronomico di Parco Mellini, sede centrale dell’Istituto nazionale di astrofisica. Nella sede, al momento dell’incendio, era in corso la riunione d’insediamento del Consiglio di amministrazione.
Incendio Roma: evacuati palazzi e Osservatorio astronomico. In azione un elicottero e quattro squadre di vigili del fuoco #ANSA t.co/e7oxwb0v8s— Ansa Roma&Lazio (@AnsaRomaLazio) July 31, 2024
Abbiamo raggiunto in serata al telefono il presidente dell’Istituto, Roberto Ragazzoni, in auto insieme al direttore generale Gaetano Telesio e a uno dei membri del CdA, Angelo Antonelli, di rientro verso Roma dalla sede Inaf di Monte Porzio, dove si erano trasferiti nel pomeriggio a seguito dell’evacuazione della sede di Monte Mario.
La sede centrale dell’Inaf, in alto a destra, avvolta dal fumo, vista dalla palazzina Rai di via Teulada. Crediti: Nicoletta Piu
«Eravamo nella Sala Copernicana, ci apprestavamo alla discussione preliminare dei temi all’ordine del giorno del cosiddetto “pre-CdA”, non ci eravamo accorti dell’incendio, sono stati i colleghi a dare l’allarme», dice Ragazzoni. «Abbiamo subito capito che la situazione – seppur non immediatamente pericolosa, visto che le fiamme erano ancora lontane – era seria, c’era molto fumo. Dopo una rapida consultazione telefonica con l’Rspp – il responsabile del servizio di prevenzione e protezione – e il direttore generale abbiamo deciso che era il caso di evacuare la sede, inizialmente proprio per il fumo, che stava già invadendo la zona dell’Osservatorio. È stata un’evacuazione svolta con relativa calma, nell’arco di poco più di mezz’ora. Successivamente l’incendio ha mutato direzione, ma nel frattempo le forze dell’ordine avevano chiuso la strada di accesso alla sede».
«La situazione si è complicata quando già avevamo lasciato l’Osservatorio», continua Ragazzoni. «Noi in particolare, per continuare i lavori del CdA, siamo andati nella sede Inaf di Monte Porzio. Ora siamo di ritorno verso Roma, non so esattamente quale sia al momento la situazione, ma l’evacuazione è terminata regolarmente e nessuno dei nostri colleghi è rimasto coinvolto. Siamo in attesa di aggiornamenti a breve, per capire domani mattina cosa fare».
Riprese dalla sede centrale Inaf durante l’incendio. Crediti: Marco Galliani/Inaf
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Aggiornamento di giovedì 1° agosto: alcune fotografie di Andrea Merlo e Roberto Ragazzoni
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Il Sole sta già iniziando il suo prossimo ciclo
Immagine ripresa da Hmi (Helioseismic and Magnetic Imager) della grande macchia solare che si è verificata il 5 maggio 2024, nel continuo (luce bianca). Hmi è progettato per studiare le oscillazioni e il campo magnetico sulla superficie solare, la fotosfera. È uno dei tre strumenti di Sdo che osservano il Sole quasi continuamente, raccogliendo circa un terabyte di dati al giorno. Osserva l’intero disco solare a 6173 Å con una risoluzione di 1 arcsecondo. Crediti: Nasa/Sdo, Hmi
L’attuale ciclo solare – il ciclo 25, perché è il venticinquesimo dal 1755, anno in cui è iniziata la registrazione dell’attività delle macchie solari – è iniziato nel 2019. Si prevede che non terminerà prima di sei anni, ma i primi segnali dell’inizio del prossimo ciclo solare sono stati individuati dai ricercatori dell’Università di Birmingham e presentati al Royal Astronomical Society’s National Astronomy Meeting di Hull.
Il ciclo in corso è ora al suo picco, o massimo solare, previsto durare fino alla metà del 2025. In questo periodo le macchie solari, i brillamenti e le espulsioni di massa coronale sono più frequenti e c’è un’impennata di energia elettromagnetica verso la Terra che rende visibili le aurore più spesso e a quote più basse, come abbiamo potuto constatare a fine maggio, eccezionalmente anche alle nostre latitudini.
Per studiare la struttura e la dinamica interna del Sole gli astronomi usano l’eliosismologia, concettualmente analoga alla geosismologia e all’astrosismologia, che si occupano rispettivamente delle oscillazioni della Terra e delle stelle.
L’immagine che vedete qui sotto – ottenuta dai dati relativi alle oscillazioni solari – mostra la rotazione del Sole alle varie latitudini rispetto alla media degli ultimi 29 anni: le bande rosse e gialle rappresentano le regioni in cui è stata più veloce, quelle blu e verdi dove è stata più lenta. Per ogni ciclo solare, c’è una fascia di rotazione più veloce che scende verso l’equatore. Queste bande (oscillazione torsionale solare), che ruotano più velocemente o più lentamente, durante il ciclo undecennale di attività si spostano verso l’equatore del Sole e i suoi poli. Le fasce a rotazione più rapida tendono a manifestarsi prima dell’inizio ufficiale del ciclo solare successivo.
Questa mappa mostra a quali latitudini la rotazione è stata più veloce (in rosso e giallo) o più lenta (in blu e verde) rispetto alla media degli ultimi 29 anni, come si evince dall’analisi delle onde sonore (eliosismologia). Per ogni ciclo solare, c’è una fascia di rotazione più veloce che scende verso l’equatore. Le linee gialle mostrano le aree in cui i campi magnetici sono più concentrati. In particolare, è possibile vedere l’intero ciclo solare 23 e 24 e la prima metà del ciclo 25. Per ogni ciclo, la banda di rotazione più veloce inizia molto prima dell’attività magnetica di quel ciclo. All’estrema destra della figura, un po’ di rosso indica quello che secondo il team è l’inizio della banda di rotazione veloce per il ciclo 26. Crediti: Rachel Howe
Ed è proprio qui, in questo grafico e nei dati delle fasce di rotazione, che un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto una debole indicazione che il prossimo ciclo solare sta già iniziando a manifestarsi. «Se si torna indietro di un ciclo solare – 11 anni – sul grafico si può vedere qualcosa di simile che sembra unirsi alla forma che abbiamo visto nel 2017. Questa forma è poi diventata una caratteristica dell’attuale ciclo solare, il ciclo 25», afferma Rachel Howe, dell’Università di Birmingham. «Probabilmente stiamo vedendo le prime tracce del ciclo 26, che non inizierà ufficialmente prima del 2030, circa».
Immagine ripresa da Hmi (Helioseismic and Magnetic Imager) della grande macchia solare che si è verificata il 5 maggio 2024 che visualizza il campo magnetico. Crediti: Nasa/Sdo, Hmi
I segnali di oscillazione torsionale solare sono stati studiati utilizzando i dati eliosismici del Global Oscillation Network Group (Gong), del Michelson Doppler Imager (Mdi) a bordo del Solar and Heliospheric Observatory e dall’Helioseismic and Magnetic Imager (Hmi) a bordo del Solar Dynamics Observatory (Sdo), dal 1995.
I dati coprono i primi quattro anni dei cicli solari 23, 24 e 25, e permettono di confrontare le fasi ascendenti di questi cicli. Howe ha seguito i cambiamenti nella rotazione del Sole per circa 25 anni, quando gli scienziati disponevano solo di una parte dei dati del ciclo solare 23 provenienti da Gong e Mdi. Così, ha potuto osservare lo schema della materia che si muove più velocemente alla deriva verso l’equatore, insieme alle macchie solari.
Da allora, i ricercatori hanno osservato lo schema ripetersi (non esattamente) con l’arrivo e la fine del ciclo 24 e di nuovo con la crescita del ciclo 25. «Con ulteriori dati, spero che potremo capire meglio il ruolo di questi flussi nell’intricata danza del plasma e dei campi magnetici che formano il ciclo solare».
Con 24mila meteore, ecco la mappa dalla Iss
Infografica su meteore e meteoriti (cliccare per ingrandire). Crediti: Sorvegliati spaziali/Inaf
L’atmosfera terrestre è continuamente bombardata da corpi celesti che, per effetto dell’attrito con l’atmosfera stessa, aumentano la propria temperatura e bruciano, emettendo radiazione. Questi oggetti, detti comunemente meteore, sono tipicamente osservati da telescopi terrestri per ricostruirne massa, direzione e flusso attraverso la rivelazione della luce emessa nello spettro visibile. L’opportunità di analizzare questi oggetti celesti dallo spazio presenta notevoli vantaggi, tra cui la possibilità di effettuare una campagna osservativa con ampio campo di vista e di lunga durata, indipendente dalle condizioni atmosferiche a terra. La collaborazione Jem-Euso ha recentemente confermato le potenzialità di questo approccio, con la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics della mappatura di 24mila meteore osservate sistematicamente per la prima volta dallo spazio nella banda ultravioletta con il rivelatore Mini-Euso (Multiwavelength Imaging New Instrument for the Extreme Universe Space Observatory).
Il telescopio Mini-Euso è stato installato nel 2019 sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) dove, da ormai cinque anni, sta registrando l’emissione ultravioletta di origine cosmica, atmosferica e terrestre da una finestra, collocata all’interno del modulo Zvezda, orientata verso la Terra, e che consente a Mini-Euso di misurare tale radiazione.
Il telescopio Mini-Euso. Crediti: Jem-Euso Collaboration
Mini-Euso è un telescopio dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), sviluppato grazie a una collaborazione internazionale guidata dall’Infn. L’Asi ha selezionato il telescopio per la missione Beyond di Luca Parmitano. La collaborazione italiana Mini-Euso coinvolge le sezioni Infn di Roma Tor Vergata e Torino, i Laboratori nazionali Infn di Frascati, Inaf – Osservatorio astrofisico di Torino, il Dipartimento di fisica dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Università di Torino, Kayser Italia e il contributo attivo di ricercatori e tecnologi dell’Asi.
«La tecnologia innovativa di rivelatori sensibili alla radiazione Uv accoppiati a un sistema di acquisizione dati ottimizzato per effettuare osservazioni su diverse scale temporali ha permesso di catturare la luce prodotta dalle emissioni di questi piccoli oggetti che hanno attraversato l’atmosfera terrestre a grandissima velocità, per ricostruirne le proprietà in termine di direzione, emissioni luminose e massa», dice Dario Barghini (Inaf, Infn e Università di Torino), responsabile dell’analisi. «Questo ci ha permesso», aggiunge Marco Casolino (Infn), principal investigator della missione, «non solo di fornire un catalogo sistematico di meteore, ma anche di confermare, con un approccio innovativo e indipendente dalle campagne di osservazione terrestre, i modelli relativi al flusso atteso di questi oggetti cosmici».
Obiettivi scientifici dell’esperimento Mini-Euso. Crediti: Jem-Euso Collaboration.
I risultati pubblicati sono basati sull’analisi delle prime 40 sessioni di presa dati (a oggi Mini-Euso conta più di cento sessioni effettuate). «I dati raccolti da Mini-Euso potrebbero contenere altre informazioni utili per testare ulteriormente questi modelli consolidati e identificarne i più attendibili. A tal fine, i ricercatori stanno continuando l’analisi dei dati non solo per migliorare i risultati già ottenuti, integrando il catalogo con le più recenti osservazioni, ma anche investigando se tra i dati si possa identificare la presenza di eventi atipici, come meteore di origine interstellare, o evidenza di nuovi stati estremamente densi di materia, predetti ma mai osservati finora, e comunemente indicati come nucleariti», commenta Valerio Vagelli, project scientist dell’Asi per Mini-Euso.
Grazie all’analisi dei dati raccolti si attendono probabili nuovi risultati a disposizione della comunità scientifica. «I risultati prodotti dall’analisi dei dati raccolti dal telescopio Mini-Euso sulla Iss confermano le competenze nazionali nello sviluppo e operazione di questo tipo di strumentazione per la misura di radiazione ultravioletta dallo spazio. La collocazione dello strumento su un laboratorio orbitante, insieme alla fitta e prestigiosa rete di collaborazioni internazionali, offrono altresì l’opportunità per investigazioni scientifiche in campi differenti e complementari quali l’osservazione della Terra, lo studio del Sistema solare, la fisica fondamentale, fino ad applicazioni di interesse per la sicurezza spaziale come il monitoraggio di detriti spaziali», conclude Marino Crisconio, responsabile di programma dell’Asi per Mini-Euso.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Observation of meteors from space with the Mini-EUSO detector on board the International Space Station”, di D. Barghini, M. Battisti, A. Belov, M. Bertaina, S. Bertone, F. Bisconti, C. Blaksley, S. Blin, K. Bolmgren, G. Cambiè, F. Capel, M. Casolino, A. Cellino, I. Churilo, A. G. Coretti, M. Crisconi, C. De La Taille, T. Ebisuzak, J. Eser, F. Fenu, G. Filippatos, M. A. Franceschi, C. Fuglesang, D. Gardiol, A. Golzio, P. Gorodetzky, F. Kajino, H. Kasuga, P. Klimov5, V. Kungel19, V. Kuznetsov12, M. Manfrin2,3, L. Marcelli7, G. Mascetti13, W. Marszał, M. Mignone, H. Miyamoto, A. Murashov, T. Napolitano, H. Ohmori, A. Olinto, E. Parizot, P. Picozza, L. W. Piotrowski, Z. Plebaniak, G. Prévôt, E. Reali, F. Reynaud, M. Ricci, G. Romoli, N. Sakaki, S. Sharakin, K. Shinozaki, J. Szabelski, Y. Takizawa, V. Vagelli, G. Valentini, M. Vrabel, L. Wiencke e M. Zotov
Il giorno più caldo? Lunedì 22 luglio
Grafico delle temperature medie globali dell’aria a due metri dal suolo pubblicati da Era5 del programma Copernico (cliccare per ingreandire). Nel grafico, in grigio sono riportate le medie globali nel periodo 1991-2020, in arancio i dati dello scorso anno, in rosso scuro i dati del 2024. I dati sono aggiornati alla data del 28 luglio 2024, e hanno registrato un record di temperatura il 22 luglio scorso (il picco più alto, in rosso scuro). Crediti: C3S/Ecmwf
Secondo i dati raccolti dai satelliti della Nasa e dell’Esa sulla temperatura media giornaliera globale dell’aria, il 22 luglio 2024 è stato il giorno più caldo mai registrato: 17.16 °C. Quasi un grado (+0.90 per la precisione) in più rispetto alla media globale dal 1991 al 2020 e 0.18 gradi in più dell’anno scorso – che già registrava un’aumento apprezzabile rispetto alla media dell’ultimo trentennio. Record ai quali ci dobbiamo abituare, e che forse nemmeno più stupiscono. Record dei quali, però, dovremmo seriamente preoccuparci, specialmente se nulla lascia sperare in un’inversione di tendenza.
Il grafico che vedete riportato sulla destra raccoglie i dati di una rianalisi climatica di Era5 da parte del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (o European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, Ecmwf) per il programma Copernicus Climate Change Service (C3S). Il grafico mostra la temperatura globale media dell’aria a due metri dal suolo relativa all’anno in corso (rosso scuro), al 2023 (arancio) e al periodo 1991-2020. È evidente anche a una prima occhiata come le rilevazioni degli ultimi due anni si collochino nettamente sopra la media degli ultimi trenta.
July 22, 2024 was the hottest day on record. Average global temperatures for July 21 & 23 also exceeded the previous record.The preliminary finding comes from @NASA atmospheric models that combine millions of land, sea, air & satellite observations. t.co/qZoqWphzAd pic.twitter.com/8LRyrxxcYG
— NASA Climate (@NASAClimate) July 29, 2024
Nel grafico in basso a sinistra, invece, si riporta l’anomalia delle temperature rispetto allo scorso anno, e alla media degli ultimi trent’anni (utilizzando gli stessi colori). Qui è ancora più evidente come gli ultimi 12 mesi costituiscano un unico, inquietante, filone di record. Solo guardando all’ultimo mese, anche il 21 e il 23 luglio hanno superato il precedente record giornaliero, stabilito appena un anno fa, a luglio 2023.
Grafico che mostra le anomalie di temperatura rispetto alla media del periodo 1991-2020 (in grigio) e rispetto al 2023 (in arancio). I dati del 2024 sono invece riportati in rosso scuro. Gli ultimi 12 mesi sono stati costantemente sopra la media delle temperature globali, e un’ultima registrazione da record a livello globale è stata registrata il 22 luglio 2024. Crediti: C3S/Ecmwf
«In un anno che è stato il più caldo mai registrato, queste ultime due settimane sono state particolarmente brutali», ha dichiarato l’amministratore della Nasa Bill Nelson, riferendosi ai dati pubblicati dall’agenzia spaziale degli Stati Uniti, basati sulle analisi del Modern-Era Retrospective analysis for Research and Applications, Version 2 (Merra-2) e del Goddard Earth Observing System Forward Processing (Geos-Fp), in accordo con quelli europei. «Attraverso le nostre oltre due dozzine di satelliti per l’osservazione della Terra e oltre sessant’anni di dati, la Nasa sta fornendo analisi critiche su come il nostro pianeta sta cambiando e su come le comunità locali possono prepararsi, adattarsi e rimanere al sicuro».
Queste temperature da record, ripeterlo è doveroso quanto ormai pleonastico, fanno parte di una tendenza al riscaldamento a lungo termine guidata dalle attività umane, in primo luogo l’emissione di gas serra. Il monitoraggio del riscaldamento globale è uno sforzo congiunto delle agenzie spaziali di tutto il mondo, che rendono pubblici i loro risultati avvertendo, periodicamente, sui giorni e i periodi record. Uno sforzo che dovrebbe essere utilizzato e canalizzato nella ricerca di provvedimenti non solo palliativi, ma anche risolutivi da parte dei cittadini e dei decisori politici a livello globale.
Correzioni del 30/07/2024: il nome in italiano dell’Ecmwf è Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine, non a medio raggio come inizialmente tradotto. Abbiamo anche aggiunto il valore della temperatura relativa al 22 luglio (17.16 °C.), non esplicitato nei grafici.
Su Didymos e Dimorphos anche i massi parlano
immagine ad alta risoluzione di Dimorphos. Il conteggio dei massi e la misura delle loro dimensioni su Dimorphos, e sull’asteroide principale Didymos, ha permesso di comprendere che essi hanno origine da un progenitore comune e che Dimorphos ha ereditato i propri massi dal compagno più grande. Crediti: Nasa/Johns Hopkins Apl
Dopo l’impatto della sonda della Nasa Dart il 26 settembre 2022 contro Dimorphos, la luna del sistema binario di asteroidi near-Earth (65803) Didymos, gli occhi degli esperti si sono concentrati sugli effetti dell’esperimento di difesa planetaria. L’obiettivo era testare la possibilità di deviare un corpo vagante come un asteroide nel caso in cui costituisca una minaccia per il nostro pianeta. Eventualità, questa, che dipende anche dalle caratteristiche geologiche del corpo, dalla sua dinamica, e più in generale dalla sua storia. Nature Communications ha pubblicato oggi un’edizione speciale a tema “Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth” contenente, fra gli altri, cinque articoli che analizzano le caratteristiche e la storia geologica dei due asteroidi near-Earth di tipo S osservati dalla missione Dart-LiciaCube, Didymos e Dimorphos. Coautori di tutti, e primi autori di due, Alice Lucchetti e Maurizio Pajola dell’Inaf di Padova. Agli articoli hanno partecipato anche ulteriori ricercatrici e ricercatori dell’Inaf, dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), di Ifac-Cnr, del Politecnico di Milano e delle università di Bologna e Parthenope. I due articoli a guida Inaf si focalizzano, rispettivamente, sull’analisi delle fratture presenti nei massi dell’asteroide Dimorphos – causate da shock termici fra il giorno e la notte – e sul processo di formazione dei due asteroidi, tramite l’identificazione e l’analisi dei massi sulla loro superficie.
Anamnesi e storia famigliare di Didymos e Dimorphos
Osservare da vicino la superficie di un asteroide e analizzarne la geologia può dire molto sulla sua storia di formazione. Utilizzando le immagini ad alta risoluzione di Didymos e Dimorphos riprese dalla missione della Nasa Dart pochi istanti prima dello schianto su Dimorphos, Pajola e il suo team hanno identificato tutti i massi visibili sulla superficie dell’asteroide primario Didymos (per un totale di 169) e dell’asteroide secondario Dimorphos (per un totale di 4734), ricavandone le dimensioni. Hanno poi studiato la distribuzione in taglia di questi massi (in gergo scientifico chiamata Sfd, dall’inglese size-frequency distribution) contando quanti massi più grandi di una data dimensione ci sono, in vari intervalli di “taglia”, e collegato questa stima con la distribuzione delle taglie in latitudine, longitudine, pendenza superficiale, accelerazione gravitazionale e insolazione.
«Lo studio della distribuzione in taglia dei massi più grandi di 5 metri su Dimorphos, e di quelli più grandi di 22,8 metri su Didymos, ci ha permesso di dire che questi si sono formati a seguito di un singolo evento di frammentazione – un impatto catastrofico – di un asteroide padre», spiega Maurizio Pajola, primo autore dello studio. I due corpi sarebbero, secondo i risultati, aggregati di frammenti rocciosi formatisi a seguito della distruzione catastrofica di un unico genitore comune. Scoperta, questa, confermata anche dalle simulazioni di impatti iperveloci svolte in laboratorio, nonché dall’identificazione dei massi più grandi presenti sui due corpi: 16 metri quello su Dimorphos, e 93 metri quello su Didymos, valori che equivalgono a circa un decimo della dimensione dell’asteroide su cui si trovano. Massi così grandi, infatti, non potrebbero essersi formati a seguito di impatti sulle superfici dei due corpi, che sarebbero rimasti disintegrati nello scontro.
Maurizio Pajola e Alice Lucchetti, entrambi ricercatori all’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Padova
L’eredità di Dimorphos
Due asteroidi, un genitore comune, dunque. Non solo: la distribuzione in taglia dei massi sui due corpi si è rivelata molto simile, cosa che fa pensare che Dimorphos, il più piccolo dei due, in orbita attorno a Didymos, abbia ereditato i propri massi dal compagno. Come? Attraverso il cosiddetto effetto Yorp. In pratica, mentre un asteroide ruota su sé stesso, la sua superficie viene illuminata dal Sole in maniera disomogenea, dal momento che la sua geologia è complessa e irregolare. Il risultato è che diverse regioni vengono riscaldate e si raffreddano a velocità differenti, creando una differenza di temperatura che a sua volta può far accelerare o rallentare la rotazione. Un effetto apprezzabile per asteroidi di dimensioni chilometriche o sub-chilometriche, come nel caso di Didymos. L’asteroide attualmente ha un periodo di rotazione di 2,26 ore, ma secondo le simulazioni numeriche basterebbe una lievissima accelerazione che riduca il periodo di rotazione a 2,2596 ore per causare l’eiezione di massi dalla regione equatoriale. È possibile, dunque, secondo i ricercatori, che in passato Didymos ruotasse più velocemente a causa dell’effetto Yorp, e che abbia eiettato alcuni massi formando Dimorphos. Scenario, questo, che sarebbe supportato da almeno due evidenze osservative: la prima su Dimorphos, che presenta una distribuzione in taglia simile all’asteroide primario; la seconda su Didymos, che conta una minore densità di massi all’equatore.
Fratture termiche
L’immagine acquisita dallo strumento Draco (Didymos Reconnaissance and Asteroid Camera for Optical navigation) a bordo di Dart poco prima dell’impatto, con la sua risoluzione di 5,5 cm sulla superficie di Dimorphos, ha infatti permesso di vedere fratture sulle rocce di Dimorphos con lunghezze variabili da 0,4 a 3 metri, secondo quanto riportato nello studio guidato da Alice Lucchetti.
«La domanda di partenza è stata: Come si formano le fratture che vediamo sui massi di Dimorphos?», dice Lucchetti. «Abbiamo mappato manualmente le fratture, misurato la loro lunghezza e orientazione, notando che esse sembrano puntare quasi tutte verso la stessa direzione (nordovest-sudest), un dato indicativo dell’azione dello stress termico su queste rocce. Infatti, se queste fossero causate da frane o impatti, punterebbero tutte in direzioni diverse».
Tramite l’applicazione di un modello termofisico che ha determinato la variazione di temperatura fra giorno e notte sull’asteroide, gli autori sono quindi stati in grado di affermare che il calore del Sole è effettivamente in grado di fratturare le rocce di Dimorphos e, in particolare, che gli stress termici generano la formazione di fratture superficiali che si propagano più rapidamente nella direzione orizzontale al masso stesso rispetto a quella verticale. Ciò avviene in un arco di tempo compreso tra 10mila e 100mila anni, e questa è la prima volta che viene effettuata una simile analisi per un asteroide di tipo S, silicatico.
Mosaico ad alta risoluzione di Dimorphos in cui il riquadro rosa mostra l’area analizzata nell’articolo di Lucchetti et al. (2024); b) Primo piano dell’immagine acquisita 1,818 s prima dell’impatto di Dart in cui sono visibili e identificabili le fratture dei massi; c) Fratture dei massi mappate da Lucchetti et al. (2024). Il masso più grande della scena (6,62 m di diametro), Atabaque Saxum, presenta 6 fratture sulla sua superficie. Crediti: Nasa/Johns Hopkins Apl; 10.1038/s41467-024-50145-y
«Capire come la fatica termica (questo il nome in gergo del fenomeno) agisca su piccoli corpi di diversa composizione è importante non solo per avanzare la conoscenza riguardo la formazione ed evoluzione del Sistema solare», continua Lucchetti, «ma anche nell’ambito della difesa planetaria. Per predire la risposta e l’efficacia di un impattore cinetico, come la sonda Dart su Dimorphos, bisogna conoscere bene il comportamento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide».
Un fenomeno, questo della fatica termica, che sarebbe avvenuto in situ su Dimorphos dopo la formazione del corpo, e quindi dopo il trasferimento dei massi dall’asteroide Didymos. A dimostrarlo, l’orientazione delle crepe coordinata nei diversi massi: se la frattura termica fosse avvenuta sui massi di Dydimos, poi eiettati su Dimorphos, la direzione delle fratture risulterebbe disordinata e casuale.
«La fatica termica sarebbe quindi in grado di provocare crepe nelle rocce che la subiscono, fino a frantumarle», conclude Lucchetti.
«Il problema, però», aggiunge Pajola, «è che non riusciamo a identificare la polvere causata dal processo di frammentazione. Ciò suggerisce che Dimorphos sia talmente giovane che quelle che stiamo vedendo siano le prima fratture formatisi sui massi dell’asteroide. Capire questo aspetto sarà fra gli obiettivi di studio principali della missione dell’Esa Hera, che entrerà in orbita attorno al sistema binario a fine 2026».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Evidence for multi-fragmentation and mass shedding of boulders on rubble-pile binary asteroid system (65803) Didymos”, di M. Pajola, F. Tusberti, A. Lucchetti, O. Barnouin, S. Cambioni, C. M. Ernst, E. Dotto, R. T. Daly, G. Poggiali, M. Hirabayashi, R. Nakano, E. Mazzotta Epifani, N. L. Chabot, V. Della Corte, A. Rivkin, H. Agrusa, Y. Zhang, L. Penasa, R.-L. Ballouz, S. Ivanovski, N. Murdoch, A. Rossi, C. Robin, S. Ieva, J. B. Vincent, F. Ferrari, S. D. Raducan, A. Campo-Bagatin, L. Parro, P. Benavidez, G. Tancredi, Ö. Karatekin, J. M. Trigo-Rodriguez, J. Sunshine, T. Farnham, E. Asphaug, J. D. P. Deshapriya, P. H. A. Hasselmann, J. Beccarelli, S. R. Schwartz, P. Abell, P. Michel, A. Cheng, J. R. Brucato, A. Zinzi, M. Amoroso, S. Pirrotta, G. Impresario, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, M. Dall’Ora, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Fast boulder fracturing by thermal fatigue detected on stony asteroids”, di A. Lucchetti, S. Cambioni, R. Nakano, O. S. Barnouin, M. Pajola, L. Penasa, F. Tusberti, K. T. Ramesh, E. Dotto, C. M. Ernst, R. T. Daly, E. Mazzotta Epifani, M. Hirabayashi, L. Parro, G. Poggiali, A. Campo Bagatin, R.-L. Ballouz, N. L. Chabot, P. Michel, N. Murdoch, J. B. Vincent, Ö. Karatekin, A. S. Rivkin, J. M. Sunshine, T. Kohout, J.D.P. Deshapriya, P.H.A. Hasselmann, S. Ieva, J. Beccarelli, S. L. Ivanovski, A. Rossi, F. Ferrari, C. Rossi, S. D. Raducan, J. Steckloff, S. Schwartz, J. R. Brucato, M. Dall’Ora, A. Zinzi, A. F. Cheng, M. Amoroso, I. Bertini, A. Capannolo, S. Caporali, M. Ceresoli, G. Cremonese, V. Della Corte, I. Gai, L. Gomez Casajus, E. Gramigna, G. Impresario, R. Lasagni Manghi, M. Lavagna, M. Lombardo, D. Modenini, P. Palumbo, D. Perna, S. Pirrotta, P. Tortora, M. Zannoni e G. Zanotti
Ritratto di una galassia a spirale esemplare
Questa immagine del telescopio spaziale Hubble della Nasa/Esa mostra la maestosa galassia a spirale Ngc 3430. Crediti: Esa/Hubble e Nasa, C. Kilpatrick
Questa immagine del telescopio spaziale Hubble della Nasa/Esa offre un’istantanea meravigliosamente dettagliata della galassia a spirale Ngc 3430, situata a 100 milioni di anni luce dalla Terra nella costellazione del Leone Minore, una piccola costellazione del cielo boreale, tra il Leone e l’Orsa Maggiore.
Appena fuori dall’inquadratura, si trovano diverse altre galassie; una è abbastanza vicina da far pensare che l’interazione gravitazionale stia determinando la formazione di alcune stelle in Ngc 3430, visibili come brillanti macchie blu vicino alla struttura principale a spirale della galassia, ma al di fuori di essa.
Questo bell’esempio di spirale galattica ha un nucleo luminoso dal quale sembra irradiarsi una girandola di bracci. Le corsie di polvere scura e le regioni luminose di formazione stellare contribuiscono a definire i bracci della spirale.
La forma di Ngc 3430 potrebbe essere uno dei motivi per cui l’astronomo Edwin Hubble la utilizzò per definire la sua classificazione delle galassie, presentata nel 1926 in un articolo in cui delineava la classificazione di circa quattrocento galassie in base al loro aspetto: spirale, spirale barrata, lenticolare, ellittica o irregolare. Questa semplice classificazione si rivelò estremamente efficace e gli schemi dettagliati che gli astronomi utilizzano tuttora si basano sul lavoro di Edwin Hubble. La stessa Ngc 3430 è una spirale priva di barra centrale con bracci aperti e ben definiti, classificata come galassia SAc.
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Tre piccoli oggetti misteriosi per Rubies
I ricercatori hanno studiato tre oggetti misteriosi nell’universo primordiale. Qui sono mostrate le loro immagini a colori, composte da tre bande di filtri NirCam a bordo di Jwst. Sono notevolmente compatti alle lunghezze d’onda rosse — guadagnandosi il termine “piccoli punti rossi”— con qualche evidenza di struttura spaziale alle lunghezze d’onda blu.
Crediti: Jwst/NirSpec, Bingjie Wang/Penn State
Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere. È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza, diceva Albert Einstein.
L’uomo, fin dall’inizio della sua storia, è sempre stato attratto dai fenomeni che non conosceva e ha cercato delle spiegazioni. Nel corso degli anni ha scoperto parecchie cose sul mondo in cui viviamo, ma ancora non ha una conoscenza completa di molti fenomeni, soprattutto quanto l’orizzonte viene esteso all’universo, in cui i misteri abbondano e che non smette mai di stupirci.
Ora, a porci davanti a una nuova grande incognita è una scoperta del James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa che ha confermato che tre oggetti luminosi e molto rossi, rilevati nell’universo primordiale, stravolgono il pensiero convenzionale sull’origine e l’evoluzione delle galassie e dei loro buchi neri supermassicci.
Un team internazionale di ricercatori guidato dalla Penn State University, utilizzando lo strumento NirSpec a bordo di Jwst nell’ambito della survey Rubies, ha identificato i tre oggetti misteriosi circa 600-800 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’universo era solo al 5 per cento della sua età attuale. La scoperta è stata pubblicata su The Astrophysical Journal Letters.
Il team ha studiato gli spettri di questi oggetti, scoprendo tracce di stelle “vecchie” di centinaia di milioni di anni, molto più vecchie di quanto previsto in un universo giovane. I ricercatori hanno raccontato di essere rimasti sorpresi nello scoprire negli stessi oggetti tracce di enormi buchi neri supermassicci, che hanno stimato essere da 100 a 1000 volte più massicci di quello al centro della Via Lattea. Nessuno dei due casi è previsto dagli attuali modelli di crescita delle galassie e di formazione dei buchi neri supermassicci, che prevedono che le galassie e i loro buchi neri crescano insieme nel corso di miliardi di anni di storia cosmica.
«Abbiamo confermato che sembrano essere pieni di stelle antiche – vecchie centinaia di milioni di anni – in un universo che ha solo 600-800 milioni di anni. Sorprendentemente, questi oggetti detengono il record di prime tracce di vecchia luce stellare», afferma Bingjie Wang, ricercatrice della Penn State e prima autrice dell’articolo «È stato del tutto inaspettato trovare vecchie stelle in un universo molto giovane. I modelli standard della cosmologia e della formazione delle galassie hanno avuto un incredibile successo. Tuttavia, questi oggetti luminosi non si adattano perfettamente a quelle teorie».
Gli oggetti massicci sono stati scoperti la prima volta due anni fa, nel luglio 2022, quanto il dataset iniziale è stato rilasciato da Jwst. Diversi mesi dopo il team pubblicò un articolo su Nature in cui annunciava la scoperta. All’epoca i ricercatori sospettavano già si trattasse di galassie, ma hanno proseguito la loro analisi acquisendo degli spettri per comprendere meglio le reali distanze degli oggetti e le sorgenti che ne alimentano l’immensa luce. I ricercatori hanno poi utilizzato nuovi dati per tracciare un quadro più chiaro di come apparivano le galassie e di cosa c’era al loro interno. Non solo il team ha confermato che gli oggetti erano effettivamente galassie vicine all’inizio dei tempi, ma ha anche trovato prove dell’esistenza di buchi neri supermassicci sorprendentemente grandi e di una popolazione di stelle incredibilmente antica.
«È molto disorientante», dice Joel Leja della Penn State e coautore di entrambi gli articoli. «È possibile far rientrare questo fenomeno nel nostro attuale modello di universo, ma solo se si evoca una formazione esotica e follemente rapida all’inizio del tempo. Questo è, senza dubbio, l’insieme di oggetti più particolare e interessante che abbia mai visto nella mia carriera».
Una sfida nell’analizzare la luce molto vecchia è che può essere difficile distinguere tra le varie sorgenti che avrebbero potuto emetterla. Nel caso di questi oggetti, le sorgenti hanno chiare caratteristiche sia dei buchi neri supermassicci sia di vecchie stelle. Tuttavia, non è ancora chiaro quanta della luce osservata provenga da ciascuna di esse – il che significa che potrebbero essere galassie primordiali che sono inaspettatamente vecchie e più massicce persino della Via Lattea, formatesi molto prima di quanto previsto dai modelli, oppure potrebbero essere più galassie di massa normale con buchi neri “sovramassicci”, approssimativamente da 100 a 1000 volte più massicci di quanto avrebbe una galassia del genere oggi.
A parte la loro massa ed età inspiegabili, se parte della luce effettivamente proviene da buchi neri supermassicci, non sono nemmeno normali oggetti di quel tipo. Infatti, producono molti più fotoni ultravioletti del previsto, e oggetti simili studiati con altri strumenti non hanno le firme caratteristiche dei buchi neri supermassicci, come la polvere calda e una brillante emissione di raggi X. «Normalmente i buchi neri supermassicci sono accoppiati con le galassie», ha spiegato Leja. «Crescono insieme e vivono insieme tutte le principali esperienze della vita. Ma qui abbiamo un buco nero adulto completamente formato che vive all’interno di quella che dovrebbe essere una baby galassia. Non ha proprio senso, perché dovrebbero crescere insieme, o almeno questo è quello che pensavamo».
I ricercatori si dicono anche perplessi dalle dimensioni incredibilmente piccole di questi sistemi, larghi solo poche centinaia di anni luce, circa mille volte più piccoli della Via Lattea. Le stelle sono numerose all’incirca quanto nella nostra galassia, ma contenute in un volume 1000 volte più piccolo della Via Lattea. Leja ha spiegato che se prendessimo la Via Lattea e la comprimessimo fino alle dimensioni delle galassie trovate, la stella più vicina si troverebbe quasi nel Sistema solare — mentre per confronto la stella più vicina al nostro pianeta, Proxima Centauri, si trova a poco più di 4 anni luce dal Sole. Il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, a circa 26mila anni luce di distanza, si troverebbe a soli 26 anni luce dalla Terra e sarebbe visibile nel cielo come un gigantesco pilastro di luce.
«Queste galassie primordiali sarebbero così dense di stelle – stelle che devono essersi formate in un modo che non abbiamo mai visto, in condizioni che non ci aspetteremmo mai e durante un periodo in cui non ci aspetteremmo mai di vederle», spiega Leja. «E per qualche motivo, l’universo ha smesso di produrre oggetti come questi dopo appena un paio di miliardi di anni. Sono unici per l’universo primordiale».
I ricercatori sperano di proseguire con ulteriori osservazioni che, secondo loro, potrebbero aiutare a spiegare alcuni dei misteri legati agli oggetti. Hanno in programma di acquisire spettri più profondi puntando il telescopio per periodi di tempo prolungati, il che aiuterà a distinguere l’emissione delle stelle da quella del potenziale buco nero supermassiccio, identificando le specifiche firme di assorbimento che dovrebbero essere presenti in ciascuno.
Per saperne di più:
- Leggi sul The Astrophysical Journal Letters l’articolo “RUBIES: Evolved Stellar Populations with Extended Formation Histories at z ∼ 7–8 in Candidate Massive Galaxies Identified with JWST/NIRSpec” di Bingjie Wang , Joel Leja, Anna de Graaff, Gabriel B. Brammer, Andrea Weibel, Pieter van Dokkum, Josephine F. W. Baggen, Katherine A. Suess, Jenny E. Greene, Rachel Bezanson, Nikko J. Cleri, Michaela Hirschmann, Ivo Labbé, Jorryt Matthee, Ian McConachie, Rohan P. Naidu, Erica Nelson, Pascal A. Oesch, David J. Setton e Christina C. Williams
Magnetismo stellare e abitabilità planetaria
Una rappresentazione artistica di Kepler-186 f, un esopianeta delle dimensioni della Terra che si troverebbe all’interno della zona abitabile della sua stella. Crediti: Nasa Ames/ Seti Institute/ Jpl-CalTech
Negli ultimi anni l’interesse per i pianeti simili alla Terra che orbitano all’interno della zona abitabile della loro stella è notevolmente aumentato, spinto dall’elevato numero di esopianeti confermati e dalla ricerca di vita oltre il Sistema solare. Ma l’abitabilità di questi pianeti non è influenzata solo dalla distanza dalla stella ospite, come peraltro abbiamo già avuto modo di constatare anche da studi condotti da ricercatori dell’Inaf.
Uno studio pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal estende la definizione di zona abitabile includendo il campo magnetico della stella ospite. Questo fattore, ben studiato nel Sistema solare, può avere implicazioni significative per la vita su altri pianeti.
La presenza e la forza del campo magnetico di un pianeta e la sua interazione con il campo magnetico della stella ospite sono fattori cruciali per la capacità del pianeta di sostenere la vita. Un esopianeta ha bisogno di un forte campo magnetico per proteggersi dall’attività stellare e deve orbitare abbastanza lontano dalla sua stella per evitare una connessione magnetica diretta e potenzialmente catastrofica.
Tradizionalmente, gli scienziati si sono concentrati sulla zona Goldilocks, la regione intorno a una stella in cui le condizioni supportano l’esistenza di acqua liquida. Aggiungendo il campo magnetico della stella ai criteri di abitabilità, si può avere un quadro più sfumato del luogo in cui la vita potrebbe prosperare.
L’indagine si è concentrata sulle interazioni magnetiche tra i pianeti e le loro stelle ospiti, un concetto noto come space weather. Sulla Terra, lo space weather è guidato dal Sole e influisce sul campo magnetico e sull’atmosfera del nostro pianeta. Per questo studio, i ricercatori hanno semplificato la complessa modellazione solitamente necessaria per comprendere queste interazioni, caratterizzando l’attività stellare con il numero di Rossby, che quantifica l’influenza della rotazione della stella sul moto convettivo turbolento. Questo li ha aiutati a stimare il raggio di Alfvén della stella, ossia la distanza alla quale il vento stellare si disaccoppia effettivamente dalla stella.
I pianeti all’interno di questo raggio non sarebbero candidati all’abitabilità perché connessi magneticamente alla stella, con conseguente rapida erosione della loro atmosfera. Applicando questo approccio, i ricercatori hanno esaminato 1.546 esopianeti per determinare se le loro orbite si trovassero all’interno o all’esterno del raggio di Alfvén della loro stella.
Questa immagine mostra la posizione di Kepler-186 f rispetto alla Terra. Crediti: Nasa Ames/ Seti Institute/ Jpl-CalTech
Lo studio ha rilevato che solo due pianeti dei 1.546 esaminati, K2-3 d e Kepler-186 f, soddisfano tutte le condizioni di abitabilità. Questi pianeti sono di dimensioni terrestri, orbitano a una distanza favorevole alla formazione di acqua liquida, si trovano al di fuori del raggio di Alfvén della loro stella e hanno campi magnetici abbastanza forti da proteggerli dall’attività stellare.
«Sebbene queste condizioni siano necessarie perché un pianeta possa ospitare la vita, non la garantiscono», puntualizza David Alexander, coautore dello studio. «Il nostro lavoro evidenzia l’importanza di considerare un’ampia gamma di fattori quando si cercano pianeti abitabili».
Lo studio sottolinea anche la necessità di continuare l’esplorazione e l’osservazione dei sistemi esoplanetari, traendo insegnamento dal sistema Sole-Terra. Ampliando i criteri di abitabilità, i ricercatori forniscono un quadro di riferimento per gli studi e le osservazioni future, al fine di determinare se siamo soli nell’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Exploring the Effects of Stellar Magnetism on the Potential Habitability of Exoplanets” di Anthony S. Atkinson, David Alexander, and Alison O. Farrish
Le meteoriti scottano?
Fra le notizie riportate dai giornali in questo scorcio di fine luglio 2024, una ha colpito la mia attenzione: si tratta di un fatto di cronaca, un incendio che si è sviluppato in un’azienda agricola di Pioppa di Cesena la sera del 23 luglio 2024, domato dai vigili del fuoco solo verso le 5 del mattino successivo. In base a quanto scritto dai giornali, alcuni testimoni avrebbero riferito ai vigili che un oggetto luminoso era caduto dal cielo e che successivamente si era sviluppato l’incendio. In effetti, il 23 luglio alle 21:31 locali un brillante fireball ha attraversato il cielo dell’Italia settentrionale ed è stato ripreso da tre stazioni della rete Prisma coordinata dall’Inaf. Dalle immagini delle stazioni di Trento, Rovereto e Novezzina è stato possibile triangolare il fireball e stabilire che è entrato in atmosfera a una velocità di circa 14 km/s a una quota iniziale di circa 70 km sulla verticale di Bassano del Grappa e – dopo appena 6 secondi – si è estinto a 35 km di quota, entrando nella fase di volo buio grossomodo sulla verticale di Pordenone. Il meteoroide che ha provocato il fireball aveva una dimensione di circa 10-20 cm di diametro e prima di colpire la Terra percorreva un’orbita eliocentrica di tipo “Apollo”: in sostanza si è trattato della caduta di un piccolo frammento di roccia di origine asteroidale.
Fra Pordenone e Cesena ci sono 200 km quindi è esclusa una relazione di causa-effetto fra i due eventi e la causa dell’incendio di Pioppa di Cesena va cercata altrove, ma la domanda che ci poniamo è questa: a che temperatura possono arrivare al suolo i frammenti di un meteoroide di 10-20 cm di diametro, dopo avere attraversato l’atmosfera terrestre a velocità tipiche di 15-20 km/s? Arrivano al suolo incandescenti – e quindi potrebbero innescare un incendio nel caso di caduta su elementi infiammabili – oppure sono del tutto innocui? La risposta alla domanda richiede di esaminare i processi che avvengono quando un corpo cade nell’atmosfera terrestre arrivando dallo spazio a velocità ipersoniche. Il meteoroide comprime l’aria dinnanzi a sé e si sviluppa un’onda d’urto in cui i gas atmosferici vengono compressi e si riscaldano al punto tale da ionizzarsi e diventare plasma, ossia un gas di elettroni e ioni positivi. La superficie del meteoroide assorbe energia per conduzione e irraggiamento del plasma, aumenta la temperatura e una volta superato il punto di fusione il materiale superficiale viene asportato dando luogo al processo di ablazione. Con l’ablazione il meteoroide perde progressivamente massa, ma lo strato fuso è confinato solo in una sottile pellicola di circa 1 mm di spessore, al suo interno il meteoroide mantiene la temperatura che aveva nello spazio. Questo è il motivo per cui le meteoriti mostrano solo una sottile crosta di fusione che le ricopre, mentre l’interno resta inalterato perché non ha mai sperimentato alte temperature.
Una tipica meteorite rocciosa con ben evidente la sottile crosta scura di fusione e l’interno che è rimasto inalterato, non subendo l’aumento di temperatura che ha sperimentato la superficie. Crediti A. Carbognani/Prisma
In effetti la superficie del meteoroide si comporta un po’ come lo scudo termico delle capsule delle missioni Apollo della Nasa che rientravano nell’atmosfera terrestre a una velocità di circa 11 km/s dopo essere state in orbita lunare: il materiale dello scudo fondeva e veniva asportato via dal flusso d’aria, mantenendo fresco l’abitacolo e i suoi occupanti. Durante la fase di fireball, la temperatura superficiale del meteoroide raggiunge valori dell’ordine di 2500-3000 K (2200-2700 °C), diminuisce progressivamente la propria massa generando la scia di plasma e viene rallentato dall’interazione con l’aria fino a quando la sua velocità arriva a circa 3 km/s. Al di sotto di questo valore cessa la generazione del plasma atmosferico – quindi termina la fase di fireball – e inizia la fase di volo buio: quello che rimane del meteoroide prosegue la caduta verso il suolo impiegando alcuni minuti per giungere a terra, diciamo 120 secondi tanto per avere un ordine di grandezza, ma può essere anche superiore. In effetti la fase di volo buio ha una durata molto maggiore rispetto alla fase di fireball, perché viene ulteriormente rallentato fino a cadere al suolo alla modesta velocità di circa 200-250 km/h. Quindi un tipico meteoroide non arriva direttamente al suolo con la sua velocità cosmica e la scia di plasma incandescente, al contrario, il frenamento e l’ablazione dell’atmosfera hanno un ruolo molto importante nel determinarne il fato. Non per niente si dice che la nostra atmosfera ci fa da “scudo” per quanto riguarda i piccoli meteoroidi. La cosa interessante è che nella fase di volo buio, che per un tipico meteoroide inizia fra i 20 e i 30 km di quota, quello che rimane del meteoroide, consumato dall’interazione con l’atmosfera, si raffredda rapidamente. Sono due i processi che determinano il raffreddamento del meteoroide: 1) la conduzione di energia termica dovuta al contatto con gli strati più densi e freddi della troposfera, 2) il processo di irraggiamento dalla superficie calda. Ad esempio, alla quota di circa 10 km, dove volano gli aerei, la temperatura esterna è di -60 °C e, come abbiamo detto, un meteoroide può impiegare alcuni minuti per raggiungere la superficie. Il risultato è che al suolo un meteoroide al massimo arriva tiepido. Per dimostrarlo, occorre ricorrere alla fisica e scrivere la conservazione dell’energia: energia termica persa = conduzione + irraggiamento (per maggiori dettagli vedi qui).
La temperatura, in gradi centigradi, di un meteoroide di 20 cm di diametro e con una densità di 3000 kg/m3, mentre cade durante la fase di volo buio. La linea rossa tiene conto della perdita di energia per conduzione e irraggiamento, quella nera solo per la conduzione e quella blu solo per irraggiamento per vedere i contributi dei singoli canali. Crediti: A. Carbognani/Inaf-Oas
Il processo di conduzione del calore si ha perché il meteoroide è immerso in un mezzo, l’aria, a cui cede energia. Questo processo è descritto dalla legge del raffreddamento di Newton ed è proporzionale alla differenza di temperatura fra meteoroide e ambiente: maggiore la differenza, più rapido il raffreddamento del corpo caldo fino al raggiungimento dell’equilibrio termico. L’irraggiamento è il processo di emissione di radiazione elettromagnetica dalla superficie del meteoroide, che può essere trattato come un corpo nero, per cui vale la legge di Stefan-Boltzmann. In questo caso l’emissione di energia va come la differenza della quarta potenza della temperatura fra meteoroide e ambiente. Per semplicità assumiamo che la temperatura media dell’ambiente sia 273 K (pari a 0 °C): non è vero perché la temperatura in quota da dove inizia il volo buio è molto minore, mentre in superficie è maggiore, ma a noi interessa un valore rappresentativo. Se si assume un meteoroide con un diametro di 20 cm e una densità media di 3000 kg/m3 (un valore tipico per le meteoriti rocciose) e si risolve numericamente l’equazione differenziale precedente, quello che si trova sono i grafici mostrati in figura. Come si vede, durante i 120 secondi della caduta la crosta del meteoroide si raffredda rapidamente, principalmente grazie alla conduzione, e al suolo arriva con una temperatura che è più alta di circa un paio di gradi rispetto alla temperatura ambiente. Una meteorite quindi non è in grado di appiccare incendi e può essere subito raccolta senza timore di ustioni alle mani (non fatelo, perché contaminereste la superficie con il grasso della pelle e rischiereste di staccare la sottile crosta di fusione). Le stesse considerazioni si applicano nel caso di detriti spaziali: anche questi arrivano al suolo freddi, perché durante il volo buio hanno tutto il tempo di perdere l’energia termica in eccesso. Il risultato non cambierebbe anche aumentando la dimensione del meteoroide, ad esempio passando da un diametro di 20 cm a 1 metro. In questo caso è vero che aumenterebbe la massa da raffreddare, ma aumenterebbe anche la superficie di raffreddamento e la cosa si compensa. Anche aumentare la temperatura iniziale non serve. Se invece di 2500 K si adotta 3500 K per la temperatura superficiale del meteoroide è vero che l’energia termica da dissipare è maggiore rispetto al caso precedente, ma la perdita di energia è proporzionale alla differenza di temperatura con l’ambiente e quindi le cose ancora si compensano. In sostanza si può stare tranquilli per quanto riguarda gli impossibili incendi provocati dalla caduta di piccoli meteoroidi e detriti spaziali che cadono sulla Terra. Solo con un evento come la catastrofe di Tunguska, generato dalla caduta di un asteroide di circa 50 m di diametro, si potrebbero sviluppare incendi al suolo, ma in quel caso l’incendio sarebbe il problema minore.
Tutti citizen scientist con le immagini di Jwst
La galassia a spirale Ngc 628, ripresa con lo strumento Miri di Jwst. Crediti: Nasa / Esa / Csa / Judy Smith
Dodici anni fa, a marzo 2012, l’Agenzia spaziale europea (Esa) lanciava un concorso diverso dal solito: non si trattava di dare il nome a una sonda o mandare un disegno del proprio astro preferito. Hubble’s Hidden Treasures invitava il pubblico a tuffarsi nell’archivio del telescopio spaziale Hubble, oltre un milione di immagini raccolte in due decenni di onorato servizio, in cerca di panorami mozzafiato, viste avvincenti e dettagli curiosi – “tesori nascosti” ammirati fino ad allora solo da una manciata di scienziati. E non solo: l’obiettivo del concorso era quello di “sporcarsi le mani”, scaricando i dati in forma grezza ed elaborandoli per creare sfolgoranti immagini a colori di nebulose, stelle e galassie.
A Modesto, una cittadina nel nord della California, centocinquanta chilometri a est di San Francisco, Judy Smith aveva sempre sognato di possedere un telescopio e fotografare i corpi celesti. «La raccolta dei dati mi è sempre sembrata difficile e noiosa», racconta a Media Inaf l’appassionata di astronomia, che sin dai tempi del college si occupa di fotografia. Venuta a conoscenza del concorso organizzato dall’Esa, scopre che esistono immagini di dominio pubblico provenienti da molti grandi osservatori, in particolare dal telescopio spaziale per antonomasia. E decide di raccogliere la sfida.
Dai dati grezzi alle immagini a colori
All’inizio non è facile, «soprattutto senza conoscere la nomenclatura e dovendo imparare a utilizzare l’interfaccia dell’archivio», ammette Smith. «In fatto di archivi, l’Hubble Legacy Archive è piuttosto semplice e diretto – e anche molto buono! – eppure all’inizio ero completamente perduta, anche se avevo già una discreta padronanza dell’elaborazione di immagini digitali». Fortunatamente, le basi erano state coperte: tra i materiali di supporto per il concorso c’erano anche dei tutorial video a cura di Zolt Levay, esperto di fotografia astronomica che ha lavorato per oltre trentacinque anni allo Space Science Telescope, artefice di gran parte delle spettacolari immagini di Hubble che dagli anni Novanta del secolo scorso popolano i nostri poster e screensaver.
Immagine della stella XZ Tauri, vincitrice del terzo premio nel concorso Hubble’s Hidden Treasures. Crediti: Esa/Nasa/Judy Smith
Il materiale, insieme a una serie di software e link a gruppi di discussione online, è fondamentale per estrarre le immagini dai dati e iniziare a “giocarci”, come ricorda la stessa Smith: «una volta ottenuti i dati in un formato con cui potevo lavorare, è stato tutto molto più semplice». Delle quasi quaranta immagini che elabora tra aprile e maggio 2012, diverse fanno colpo sulla giuria, tanto da aggiudicarsi, qualche mese dopo, il terzo premio del concorso con la sua versione dai toni bluastri e dall’atmosfera tendente al gothic di XZ Tauri, stella neonata che spruzza gas nei dintorni e illumina una vicina nube di polvere.
Da allora, l’hobby diventa un’occupazione a tempo pieno: oggi Smith – nota in rete con lo pseudonimo SpaceGeck – ha elaborato circa cinquantamila immagini astronomiche, che si possono ammirare sulla sua pagina FlickR. Pianeti, stelle, galassie, passando per ammassi, nebulose e resti di supernova: non c’è corpo celeste che sfugga.
Si è cimentata con grandi osservatori terrestri, telescopi spaziali dall’infrarosso ai raggi X fino alle fotocamere a bordo delle sonde che esplorano il Sistema solare. Il suo preferito? «Probabilmente ancora Hubble», riconosce la citizen scientist. «I dati e gli strumenti mi sono più familiari e sento che c’è meno lavoro extra da affrontare. I problemi estetici di Hubble sono un po’ più facili da gestire e mi è molto più semplice allineare i vari set di dati tra loro».
A luglio del 2022, con un decennio di esperienza alle spalle, Smith si butta a capofitto nell’archivio dei dati appena resi pubblici dal nuovo gioiello dell’astrofisica, il telescopio spaziale James Webb (Jwst). Uno dei primi target con cui si mette alla prova è Giove, pubblicando sulla piattaforma che ancora chiamavamo Twitter un’immagine del gigante gassoso adornato di lune e anelli. I dati fanno parte di un programma che ha ottenuto le prime immagini del pianeta con Jwst per testarne le capacità sui corpi del Sistema solare. Si tratta di un programma di Early Release Science, una serie di progetti condotti durante le prime settimane di operazioni scientifiche del potente osservatorio, i cui dati vengono condivisi in tempo reale con l’intera comunità anziché attendere il canonico periodo di esclusiva – solitamente un anno – che spetta a chi si aggiudica un’agognata proposta. Con quella indistinguibile struttura a bande orizzontali tinta di un rosa-violaceo dal sapore un po’ vintage, la vista di Giove del nuovo occhio spaziale diventa subito virale.
Ok, here's a for real JWST Jupiter. The read noise (vertical lines) is… significant. But, look, the GRS has its own diffraction spikes. This is the NIRCam data with f322w2-f323n overlaid in red and f212n in sky blue. Bg is grayscale combo of both. pic.twitter.com/VWNXFBLpwE— Judy Schmidt (@SpaceGeck) July 15, 2022
La prima foto di Giove elaborata da Smith, basata su osservazioni della fotocamera NirCam (di cui avevamo parlato nel primo episodio di questa serie) in soli due filtri del vicino infrarosso, suscita grande curiosità sia degli appassionati che degli esperti online. Qualche settimana dopo, la citizen scientist californiana entra in contatto con Ricardo Hueso, planetologo presso l’Università dei Paesi Baschi a Bilbao e membro del Jupiter Early Release Science team. Insieme, rielaborano lo schema cromatico e pubblicano due nuovi ritratti del pianeta gassoso che riassumono gli obiettivi scientifici del programma. È una delle numerose collaborazioni di Smith con team di ricerca, che l’hanno portata a firmare anche svariate pubblicazioni scientifiche.
Infinite immagini e così poco tempo
«Tutte le immagini che si vedono online consistono di dati reali provenienti da telescopi spaziali, custoditi nel Barbara A. Mikulski Archive for Space Telescopes (Mast)», spiega Alyssa Pagan, science visuals developer presso l’Office of Public Outreach dello Space Telescope Science Institute (Stsci), a Baltimora. «Questo vuol dire che tutte le immagini dello spazio che avete (o non avete) visto sono disponibili al pubblico, se non immediatamente, entro pochi mesi o un anno [dalle osservazioni]». L’archivio, che contiene immagini di Hubble e Jwst ma anche di altre missioni spaziali e osservatori a terra, può essere consultato da chiunque abbia voglia di contemplare i dati in forma “grezza” o addirittura, come Smith, di creare le proprie immagini. «Ci sono un sacco di dati che non ricevono il trattamento ufficiale e non diventano una notizia», aggiunge Pagan, «non perché siano meno preziosi, ma semplicemente perché ce ne sono così tanti!».
Risultati della ricerca di M16 – la nebulosa dove si trovano i “Pilastri della Creazione” – sul Barbara A. Mikulski Archive for Space Telescopes. I file scientifici mostrati in alto sono selezionati per il download. A destra, una visualizzazione della posizione in cui si trova il file nel cielo. Crediti: Stsci
Secondo Joe DePasquale, principal science visuals developer che insieme a Pagan realizza le immagini ufficiali presso l’Office of Public Outreach di Stsci (come abbiamo già raccontato nel primo e nel secondo episodio di questa serie), sia Hubble che Jwst sono principalmente strumenti di ricerca all’avanguardia. «Non sono stati progettati per produrre belle immagini», chiarisce. Gli splendidi panorami del cosmo sono poco più che un “effetto collaterale” di una scienza assetata di dati per comprendere sempre meglio l’universo in cui viviamo e il nostro ruolo al suo interno. Certo, aggiunge, «è un grande vantaggio per l’umanità che queste meraviglie tecnologiche siano in grado di catturare la sublime bellezza del cosmo».
Un’immagine grezza (non elaborata) dei Pilastri della Creazione, con un istogramma che mostra dove si trovano le informazioni all’interno dell’immagine (cliccare per ingrandire). Crediti: Stsci
Lavorare con immagini raccolte per soddisfare i requisiti scientifici dei programmi di ricerca non rende la vita facile a chi le trasforma per essere fruite dal pubblico. «A volte gli aspetti più impegnativi del nostro lavoro sono anche i più entusiasmanti», nota Pagan. In alcuni casi, si elaborano dati ottenuti con l’obiettivo specifico della divulgazione, come nel caso dei “Pilastri della Creazione” (che avevamo esaminato negli episodi precedenti) e delle altre Early Release Observations, progettate con in mente già l’elaborazione grafica. Ma la maggior parte dei dati sono pieni di insidie: «ci sono spazi vuoti tra i chip, aree con più e meno segnale, porzioni saturate, orientamenti e campi di vista che variano, eccetera. Questo ci spinge a trovare soluzioni creative, simili a quelle di un restauratore d’arte, per rendere le immagini di qualità adatta a un comunicato stampa».
Non ci si annoia mai: tra molteplici filtri, puntamenti svariati e rapporto segnale/rumore variabile, non esistono due immagini uguali. «I puntamenti singoli, realizzati con uno o due filtri, richiedono pochissimo tempo per essere assemblati», conferma Pagan, parlando delle immagini di comete o di esopianeti osservati con imaging diretto, che solitamente vengono confezionate in un paio d’ore. Immagini di grandi dimensioni come il Quintetto di Stephan, la Nebulosa della Tarantola o i Pilastri della Creazione, per giunta composte da vari filtri, possono richiedere diversi giorni di lavoro. «Poiché si tratta di mosaici costruiti unendo numerose osservazioni più piccole», aggiunge, «possono esserci variazioni nella luminosità di fondo all’interno dell’immagine più grande, oppure problemi di allineamento, artefatti, difficoltà nel gestire file di dimensioni così grandi e varie combinazioni di filtri che devono essere esplorate per costruire l’immagine migliore».
Immagine saturata di una stella osservata con Jwst. Crediti: Stsci
La calibrazione sembra essere la sfida più grande: «ci saranno sempre artefatti dell’immagine nei dati scientifici come raggi cosmici, riflessioni interne, pixel difettosi o morti, o anche impatti esterni come scie satellitari o asteroidi che ostacolano un’osservazione», commenta DePasquale. Le stelle molto brillanti, per esempio, producono un effetto di saturazione, non troppo dissimile dalle foto sovraesposte che otteniamo tante volte, di sera, quando un malcapitato lampione finisce nel nostro campo. Il risultato, nel caso di Jwst, sono dei “buchi neri” – ma non temete, non quelli astrofisici che divorano la materia circostante – nei pixel centrali di queste stelle. Per la fruizione da parte del pubblico, «dobbiamo fare un ulteriore passo avanti e garantire che eventuali resti di questi artefatti siano completamente rimossi dalle immagini preservando l’integrità dei dati sottostanti».
Una volta calibrati i dati e combinati insieme i diversi filtri, assegnando loro una tinta in ordine cromatico (anche di questo avevamo parlato negli episodi precedenti della serie) per ottenere un’immagine a colori, si passa ai tocchi finali. «Consideriamo i principi della fotografia come il bilanciamento del bianco, il bilanciamento del colore, il contrasto, la composizione e il colore generale per ottenere immagini più coinvolgenti e informative possibili», ricorda Pagan. Con tante immagini, moltiplicate per svariati filtri, anche la consistenza può essere una sfida. «Spesso lavoriamo con filtri diversi per varie osservazioni, ma cerchiamo di mantenere una narrazione visiva chiara», prosegue l’esperta di immagini astronomiche. «In altre parole, cerchiamo trattare in modo simile qualsiasi tipo di osservazione: campi profondi, nebulose, pianeti, eccetera, in modo che ci siano dei segnali visivi che chi guarda possa identificare, che aiutino a comprendere la scienza nell’immagine e consentano un confronto più semplice tra diverse immagini dello stesso tipo di oggetto».
Più facile a dirsi o a farsi?
La nebulosa planetaria Ngc 3132, nota anche come Southern Ring Nebula. Crediti: Nasa / Esa / Csa / Judy Smith
Con tante variabili di cui tenere conto, il rischio è che la curiosità di chi volesse provare a confrontarsi con i dati grezzi di Jwst per provare a estrarne un’immagine, più o meno gradevole all’occhio, venga sopraffatta dallo sconforto. Judy Smith, che ormai si destreggia tra raggi cosmici e pixel difettosi grazie a software come Fits Liberator (a cui fa seguito il buon vecchio Photoshop per i ritocchi), invita a non demordere. «Direi che tutto è iniziato davvero quando ho iniziato a provarci», rivela. Per cominciare, consiglia qualcosa di piccolo: «le nebulose planetarie sono ottime per questo. È facile scoraggiarsi se, prima ancora di sapere dove ci si sta andando a cacciare, si decide di realizzare un enorme mosaico di una galassia gigante, solo per poi impantanarsi in una serie di problemi tecnici non previsti». Una volta fatta un po’ di pratica su piccole sorgenti cosmiche, si può passare a porzioni più grandi del cielo, dilettandosi con qualche esercizio di stile. E cominciare a sbizzarrirsi sul serio.
«Di solito non ho nessuno che guidi il mio approccio oltre a me stessa, e lo considero in un certo senso un vantaggio: è facile non essere d’accordo con il modo in cui qualcun altro potrebbe volere che tu faccia qualcosa», precisa la citizen scientist. «Considero il mio stile di elaborazione a suo modo unico, ma seguo un approccio standard per assegnare i colori, quello che è stato definito da chi mi ha preceduta come “ordine cromatico”. Significa semplicemente che le lunghezze d’onda più corte diventano più blu, e lunghezze d’onda più lunghe diventano più rosse, indipendentemente dalla porzione della luce utilizzata, che si tratti di infrarosso, raggi X, visibile o ultravioletto».
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo How Are Webb’s Full-Color Images Made? sul sito webbtelescope.org
- Segui lo speciale di Media Inaf dedicato a Jwst in technicolor
L’eredità di Keplero sui cicli solari
I primi disegni di macchie solari databili si basano sulle osservazioni solari di Johannes Kepler con la camera oscura nel maggio 1607. Crediti: Kepler, J. 1609, Phaenomenon singulare seu Mercurius in Sole, Thomae Schureri, Lipisiae
Se ho visto oltre, è stato levandomi sulle spalle dei Giganti. Così scriveva Newton, nel 1676, in una corrispondenza privata indirizzata a Hooke.
Lo studio che stiamo per descrivervi parte da qualcosa che è successo qualche anno prima del 1676. In particolare, parte da tre disegni di Johannes Kepler (italianizzato in Giovanni Keplero) del 1607 riportati nella sua opera “Phaenomenon singulare seu Mercurius in Sole”, pubblicata nel 1609.
Come forse saprete, soprattutto se siete lettori di Media Inaf, l’attività solare manifesta una periodicità piuttosto regolare di circa 11 anni, chiamata ciclo solare. Tale attività viene valutata in base al numero di macchie solari che compaiono in maniera ciclica e più o meno intensa sulla superficie solare. Quando la superficie del Sole mostra un numero considerevole di macchie, significa che la nostra stella sta attraversando una fase di maggior attività e si dice che si trova nella fase di massimo.
Le osservazioni telescopiche delle macchie solari sono iniziate nel 1610 e hanno catturato i cicli solari successivi. Fu nel 1851 che l’astronomo tedesco Heinrich Schwabe osservò che l’attività solare variava secondo un ciclo di undici anni, con massimi e minimi. Mentre l’astronomo britannico Edward Walter Maunder si accorse che tra il 1645 e il 1715 il Sole interruppe il ciclo undecennale e ci fu un’epoca in cui quasi non ci furono macchie: questa fase prese il nome di minimo di Maunder, e rimane uno dei maggiori minimi (inevitabile il gioco di parole) dell’attività solare accaduti negli ultimi 11mila anni.
Il minimo di Maunder in un grafico che riporta la storia di 400 anni del numero di macchie solari.
Come potete vedere dal grafico sopra, le serie di dati acquisita dal 1610 in poi indica una transizione graduale tra i cicli solari regolari e il minimo di Maunder. Le osservazioni al telescopio delle macchie solari non hanno colto l’inizio del ciclo solare riportato nel grafico, il numero -13 (dove il segno meno si deve al fatto che il ciclo solare numero 1 è quello cominciato nel 1755, e che quindi ai precedenti è stato assegnato un valore negativo), lasciando spazio a una notevole incertezza sulla sua evoluzione temporale.
Quelle di Keplero sono tra le prime registrazioni strumentali databili dell’attività solare all’inizio del XVII secolo. Utilizzò un apparecchio noto come camera oscura, che consisteva in un piccolo foro in una parete per proiettare l’immagine del Sole su un foglio di carta, che gli permise di fare uno schizzo realistico delle caratteristiche visibili del Sole. Tuttavia, interpretò erroneamente ciò che vide come un transito di Mercurio sul Sole, come si può evincere dal titolo della pubblicazione dove vennero riportate le osservazioni.
Utilizzando tecniche moderne, questi disegni – ormai quasi dimenticati – sono stati riesaminati, ottenendo nuove informazioni sui cicli solari prima del minimo di Maunder.
I calcoli degli autori delle coordinate eliografiche del disco solare come visto nel cielo alla prima e alla seconda osservazione di Keplero, sovrapposti ai disegni delle macchie solari di Keplero in orientamento corretto. La prima e la seconda immagine mostrano quelle della casa di Keplero (N50°05′, E014°25′) alle 15:29 ± 0:30 UT (a sinistra) e del laboratorio di Justus Burgi nella cittadella (N50°05′, E014°24′) alle 17:37 ± 01:20 UT (a destra). Crediti: Hisashi Hayakawa
Ricreando le condizioni delle osservazioni di Keplero e applicando la legge di Spörer – una legge sperimentale che predice la variazione della latitudine delle macchie solari durante un ciclo solare, che migrano dalle latitudini più alte a quelle più basse durante un ciclo solare – alla luce della statistica moderna, un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’Università di Nagoya in Giappone ha misurato la posizione del gruppo di macchie solari di Keplero, collocandolo nella coda del ciclo solare -14, prima del ciclo di cui furono testimoni Thomas Harriot, Galileo Galilei e altre osservazioni fatte con telescopi (il -13, appunto).
I risultati dello studio, riportati su Astrophysical Journal Letters, offrono una chiave di lettura per risolvere la controversia sulla durata dei cicli solari all’inizio del XVII secolo, associata alla fase di transizione dai cicli solari regolari al minimo di Maunder.
Hisashi Hayakawa, autore principale dello studio, pensa che l’importanza di questa scoperta sia stata sottovalutata. «Poiché questa registrazione non era un’osservazione telescopica, è stata discussa solo nel contesto della storia della scienza e non è stata utilizzata per analisi quantitative dei cicli solari nel XVII secolo», dice. «Ma si tratta del più antico schizzo di macchie solari mai realizzato con un’osservazione strumentale e una proiezione».
«Ci siamo resi conto che questo disegno di una macchia solare dovrebbe essere in grado di dirci la posizione della macchia e di indicare la fase del ciclo solare nel 1607, a patto di riuscire a definire la zona e l’ora dell’osservazione e ricostruire l’inclinazione delle coordinate eliografiche – cioè le posizioni degli elementi sulla superficie del Sole – in quel momento», aggiunge Hayakawa.
È molto importante stabilire la fase del ciclo solare in quegli anni perché non è ancora del tutto chiaro come lo schema dell’attività solare sia passato dai cicli regolari al grande minimo, se non che la transizione è stata graduale. Una delle precedenti ricostruzioni basate sugli anelli degli alberi sostiene una sequenza composta da un ciclo solare estremamente breve (circa 5 anni) e da un ciclo solare lungo (circa 16 anni), associando queste durate anomale dei cicli solari a un precursore della transizione dai cicli solari regolari al grande minimo solare. «Se fosse vero, sarebbe davvero interessante. Tuttavia, un’altra ricostruzione basata sugli anelli degli alberi indica una sequenza di cicli solari di durata normale», afferma Hayakawa. «Di quale ricostruzione dovremmo fidarci? È estremamente importante verificare queste ricostruzioni con dati indipendenti, preferibilmente osservativi».
Le macchie solari impresse da Keplero nei suoi disegni sono un riferimento osservativo fondamentale e hanno permesso di fare varie scoperte interessanti.
Sulla base delle osservazioni di Keplero, i ricercatori hanno suggerito i limiti temporali dell’intervallo in cui si dovrebbe collocare la fine del ciclo solare -14 e l’inizio del -13, come indicato nelle linee rosse. Nel grafico si vedono anche le ricostruzioni del numero di macchie solari (gruppi) basate sulle registrazioni delle macchie solari nella curva blu (Svalgaard & Schatten, 2016) e sui dati del carbonio-14 degli anelli degli alberi nella curva nera (Usoskin et al., 2021) e verde (Miyahara et al., 2021). La ricostruzione degli autori contraddice l’affermazione di un ciclo solare estremamente breve e di un ciclo solare lungo (verde) ed è consistente con cicli solari regolari (nero). Crediti: Hisashi Hayakawa
In primo luogo, dopo aver “deproiettato” i disegni delle macchie solari di Keplero e compensato l’angolo di posizione solare, i ricercatori hanno collocato il gruppo di macchie solari di Keplero a una bassa latitudine eliografica. Questo suggerisce che il famoso disegno schematico dell’immagine solare che Keplero ha riportato nel suo libro non è coerente con il testo originale di Keplero e con le due immagini della camera oscura, che mostrano la macchia solare nella parte superiore sinistra del disco solare.
In secondo luogo, applicando la legge di Spörer e le conoscenze acquisite dalla moderna statistica delle macchie solari, hanno identificato il gruppo di macchie solari come probabilmente situato nella coda del ciclo solare -14 piuttosto che all’inizio del ciclo solare -13.
La scoperta permette agli autori di approssimare la transizione tra il ciclo solare precedente (-14) e quello successivo (-13) tra il 1607 e il 1610, restringendo le possibili date in cui si è verificata. Su questa base, le registrazioni di Keplero suggeriscono una durata regolare per il ciclo solare -13, sfidando le ricostruzioni alternative che propongono un ciclo estremamente lungo durante questo periodo.
«L’eredità di Keplero va al di là della sua abilità osservativa; informa i dibattiti in corso sulla transizione dai cicli solari regolari al minimo di Maunder, un periodo di attività solare estremamente ridotta e di asimmetria emisferica anomala tra il 1645 e il 1715», spiega Hayakawa. «Collocando i risultati di Keplero all’interno di ricostruzioni più ampie dell’attività solare, gli scienziati ottengono un contesto cruciale per interpretare i cambiamenti nel comportamento solare in questo periodo rilevante che segna la transizione dai cicli solari regolari al grande minimo solare».
Un gruppo di macchie solari a occhio nudo riprese l’11 maggio 2024 da E.T.H. Teague, uno degli autori dell’articolo citato. Crediti: E. T. H. Teague
«Keplero ha contribuito a molti punti di riferimento storici nell’astronomia e nella fisica del XVII secolo, lasciando la sua eredità anche nell’era spaziale», afferma Hayakawa. «A questo si aggiunge che le registrazioni delle macchie solari di Keplero precedono di diversi anni le registrazioni telescopiche delle macchie solari esistenti a partire dal 1610. I suoi schizzi delle macchie solari sono una testimonianza del suo acume scientifico e della sua perseveranza di fronte alle limitazioni tecnologiche».
«Come detto da uno dei miei colleghi, è affascinante vedere come documenti che abbiamo ereditato da personaggi storici trasmettano implicazioni scientifiche fondamentali agli scienziati moderni anche a distanza di secoli», aggiunge Sabrina Bechet, ricercatrice presso l’Osservatorio Reale del Belgio. «Dubito che potessero immaginare che i loro documenti sarebbero stati utili alla comunità scientifica molto più tardi, ben dopo la loro morte. Abbiamo ancora molto da imparare da queste figure storiche, oltre alla storia della scienza stessa. Nel caso di Keplero, siamo sulle spalle di un gigante della scienza».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Analyses of Johannes Kepler’s Sunspot Drawings in 1607: A Revised Scenario for the Solar Cycles in the Early 17th Century” di Hisashi Hayakawa, Koji Murata, E. Thomas H. Teague, Sabrina Bechet, and Mitsuru Sôma
Potenziale biofirma in una roccia marziana
Il rover Perseverance della Nasa ha individuato “macchie di leopardo” su una roccia rossastra soprannominata “Cheyava Falls” nel cratere Jezero di Marte nel luglio 2024. Gli scienziati ritengono che le macchie possano indicare che, miliardi di anni fa, le reazioni chimiche in questa roccia avrebbero potuto sostenere la vita microbica. Si stanno comunque valutando altre possibili spiegazioni. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
In questi giorni, una particolare roccia marziana – soprannominata Cheyava Falls, come una cascata del Grand Canyon – sta catturando tutta l’attenzione del team scientifico del rover della Nasa Perseverance. Le caratteristiche particolarmente interessanti di questa roccia a forma di punta di freccia – che misura un metro per sessanta centimetri – potrebbero essere indizio della presenza di vita microbica su Marte in un lontano passato. Le analisi effettuate dagli strumenti a bordo del rover indicano tracce chimiche e strutture che potrebbero essere il risultato di forme di vita primordiale, risalente al tempo in cui nell’area esplorata dal rover scorreva acqua corrente. Il team scientifico di Perseverance, va sottolineato, sta prendendo in considerazione anche altre possibili spiegazioni che possano fornire un’interpretazione plausibile delle osservazioni, e per eventuali conferme sono necessarie in ogni caso indagini più approfondite.
«Dieci giorni fa, ci trovavamo a Pasadena in California con il team di Mars 2020 per discutere i principali risultati raggiunti da Perseverance negli ultimi tre anni di esplorazione del cratere Jezero su Marte», racconta Teresa Fornaro dell’Inaf di Arcetri e participating scientist della missione Nasa Mars 2020. «Proprio mentre eravamo lì Perseverance ha inviato direttamente da Marte gli ultimi dati dello strumento Sherloc che rivelavano i segnali Raman probabilmente più convincenti osservati finora, indicativi di materia organica in una roccia depositatasi in un ambiente abitabile nel passato di Marte».
È stato infatti Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman & Luminescence for Organics & Chemicals), a bordo del rover, a effettuare scansioni multiple della roccia rilevando la presenza di composti organici. È proprio per questo che lo strumento è stato costruito: cercare la materia organica come componente essenziale della ricerca della vita passata. Comunque, sebbene sia noto che questo tipo di molecole a base di carbonio costituiscano gli elementi alla base della vita, queste possono anche derivare da processi non biologici.
La roccia Cheyava Falls è il ventiduesimo campione marziano prelevato dai carotaggi del rover ed è stato raccolto il 21 luglio scorso durante l’esplorazione della sponda settentrionale della Neretva Vallis, un’antica valle fluviale larga circa quattrocento metri, scavata dall’acqua che scorreva nel cratere Jezero molto tempo fa. Nella sua ricerca di segni di antica vita microbica, la missione Perseverance si è concentrata su rocce che potrebbero essere state create o modificate molto tempo fa dalla presenza di acqua. Ecco perché il team si è concentrato proprio su Cheyava Falls.
Vista panoramica a 360 gradi ripresa dallo strumento Mastcam-Z a bordo del rover Perseverance della regione di Marte chiamata “Bright Angel”, dove scorreva un antico fiume miliardi di anni fa. La roccia “Cheyava Falls” è stata scoperta nell’area leggermente a destra rispetto al centro di questa regione, a circa centodieci metri di distanza dal rover. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss
«Cheyava Falls è la roccia più enigmatica, complessa e potenzialmente importante mai studiata da Perseverance», dice Ken Farley del Caltech di Pasadena, project scientist di Perseverance. «Da un lato, abbiamo il primo rilevamento convincente di materiale organico: distinte macchie colorate indicative di reazioni chimiche che la vita microbica potrebbe utilizzare come fonte di energia, e prove evidenti che l’acqua – necessaria per la vita – un tempo abbia attraversato la roccia. D’altra parte, non siamo stati in grado di determinare esattamente come si sia formata la roccia e in che misura le rocce vicine possano aver contribuito a creare le caratteristiche osservate su Cheyava Falls».
Anche altri dettagli sulla roccia hanno attirato l’attenzione dei ricercatori. La roccia è infatti percorsa da grandi venature bianche di solfato di calcio tra cui sono presenti bande di materiale il cui colore rossastro suggerisce la presenza di ematite, uno dei minerali che conferiscono a Marte la sua caratteristica tonalità color ruggine. Quando Perseverance ha osservato più da vicino queste regioni rossastre, ha individuato decine di macchie bianche irregolari di dimensioni millimetriche, ciascuna circondata da materiale nero.
Lo strumento Pixl (Planetary Instrument for X-ray Lithochemistry) a bordo di Perseverance ha analizzato queste macchie e ha determinato che questi aloni neri contengono sia ferro che fosfato. Macchie di questo tipo sulle rocce sedimentarie terrestri possono verificarsi in presenza di reazioni chimiche che coinvolgono l’ematite, trasformando la roccia da rossa a bianca. Reazioni chimiche simili possono costituire una fonte di energia per i microbi, spiegando così l’associazione tra queste caratteristiche e i microbi (in ambiente terrestre).
A sinistra, Teresa Fornaro, participating scientist della missione Mars 2020 della Nasa. A destra, un’immagine con annotazioni della roccia di “Cheyava Falls”, con evidenziati i segni simili a macchie di leopardo e l’olivina. L’immagine è stata acquisita dallo strumento Watson del rover Perseverance della Nasa il 18 luglio (crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss)
«Anche i risultati dello strumento Pixl sulla stessa roccia sono estremamente interessanti, in quanto ha rinvenuto macchie – informalmente chiamate “macchie di leopardo” dal team – indicative di reazioni di ossido-riduzione che potrebbero aver fornito l’energia necessaria per attività microbica nel passato di Marte», spiega Fornaro. «Inoltre, sappiamo che i solfati aiutano a preservare il materiale organico dalle radiazioni ultraviolette e questo potrebbe essere la ragione per cui le osservazioni principali di possibili tracce organiche fatte da Sherloc sono state fatte in associazione con i solfati, come abbiamo dimostrato in uno studio pubblicato pochi giorni fa su Scientific Reports».
Nello scenario preso in considerazione dal team scientifico di Perseverance, la roccia Cheyava Falls si è inizialmente depositata come fango, con un miscuglio di composti organici che alla fine si sono cementati nella roccia. In una fase successiva, il fluido è penetrato nelle fessure della roccia consentendo il deposito di minerali che hanno creato le venature bianche di solfato di calcio che si vedono oggi e che danno origine alle macchie stesse.
«La co-presenza di evidenze di processi acquosi, in particolare un’argilla molto probabilmente depositata in un ambiente acquoso, contenente materia organica ampiamente diffusa a concentrazioni relativamente elevate, con evidenze di reazioni di ossido-riduzione su scala millimetrica, porta a pensare che potremo essere di fronte a potenziali biofirme, cioè sostanze che potrebbero avere un’origine biologica ma che richiedono ulteriori studi», sottolinea Fornaro,«prima di arrivare a conclusioni riguardo all’assenza o presenza di vita».
Sebbene la materia organica e le macchie siano di grande interesse, non sono gli unici aspetti della roccia Cheyava Falls a intrigare il team scientifico. Ha destato infatti non poca sorpresa scoprire che le venature sulle rocce sono piene di cristalli millimetrici di olivina, un minerale che si forma dal magma. La presenza di olivina potrebbe essere collegata alle rocce che si sono formate più a monte rispetto al fiume e che potrebbero essere state prodotte dalla cristallizzazione del magma.
«In quanto parte del team di Sherloc sono ovviamente molto felice che finalmente abbiamo trovato dei chiari segnali Raman di materia organica in una roccia con elevato potenziale di preservazione, ma allo stesso tempo voglio essere cauta nell’interpretazione, perché lo strumento è appena uscito da un periodo di anomalie e molti aspetti devono ancora essere approfonditi per essere certi che non ci siano falsi positivi. Purtroppo gli strumenti che possono essere messi a bordo dei rover hanno capacità limitate ed è estremamente difficile riuscire a capire se in questi campioni siano veramente presenti biofirme dalle analisi in situ. Riportare questo campione sulla Terra», conclude Fornaro, «sarà cruciale per effettuare analisi dettagliate nei laboratori terrestri più avanzati».
Guarda il video (in inglese) della Nasa:
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Inedito picco d’energia nel più intenso dei Grb
Maria Edvige Ravasio, prima autrice dello studio pubblicato su Science. Crediti. Univ. Milano Bicocca
Lo spettro del lampo di raggi gamma più intenso di sempre, rilevato nel 2022, conteneva una caratteristica mai osservata in cinquant’anni di ricerche: una riga di emissione, che si forma quando un processo fisico emette radiazione a una specifica energia (o lunghezza d’onda). A identificarla per la prima volta in un lampo di raggi gamma (Grb o gamma ray burst, in inglese), dopo ulteriori e accurate analisi dei dati, è stato un giovane team internazionale che ha coinvolto i tre istituti italiani Inaf, Gssi e Infn. La scoperta, che segna un importante passo avanti nella ricerca e nella comprensione dei Grb, è stata pubblicata oggi sulla rivista Science.
Lo studio ruota attorno al Grb 221009A, il lampo gamma più brillante mai osservato (anche conosciuto come Boat, o brightest of all time), captato il 9 ottobre 2022. «Pochi minuti dopo l’inizio del Grb, il satellite Fermi della Nasa ha registrato una caratteristica inusuale che ha catturato la nostra attenzione», spiega Maria Edvige Ravasio, ricercatrice all’Università Radboud nei Paesi Bassi e associata Inaf, prima firmataria dello studio. Si tratta di un peculiare picco di energia che ha raggiunto i 12 MeV (milioni di elettronvolt; per confronto, l’energia della luce visibile è solo 2-3 elettronvolt). «Non mi aspettavo di trovare una riga di emissione in questi spettri, e quando mi sono resa conto che quello che stavo vedendo era reale e non un prodotto di qualche errore nell’analisi, è stato emozionante: il nostro studio mostra che questo picco è la prima riga di emissione che osserviamo in cinquant’anni di studi dei Grb».
I lampi di raggi gamma sono infatti tra gli eventi più energetici dell’universo, capaci di rilasciare in pochi secondi più energia di quanta possa emetterne il Sole nella sua intera vita. I raggi gamma, che sono una forma di luce ad altissima frequenza, nascono all’interno di getti di plasma lanciati nello spazio a una velocità prossima a quella della luce, e vengono emessi da stelle di neutroni o da buchi neri appena formati. Eventi come il Grb 221009A sono possibili quando il nucleo di una stella massiccia esaurisce il suo carburante, collassa e forma un buco nero che lancia due getti in direzioni opposte. I raggi gamma sono rilevabili soltanto quando uno dei getti punta direttamente verso la Terra. Nonostante la scoperta dei Grb sia stata fatta cinquant’anni fa, il loro esatto meccanismo e la loro composizione sono ancora un mistero.
«Alcuni studi pubblicati una ventina di anni fa sostenevano di aver trovato delle righe di emissione nello spettro di alcuni lampi di raggi gamma, ma sono stati presto smentiti. Da allora, nessuno prima di noi ha mai più trovato indizi di righe di emissione nei Grb», spiega Om Sharan Salafia, anche lui ricercatore dell’Inaf di Milano e coautore dell’articolo scientifico. «Il nostro è dunque il primo studio a trovare una simile riga di emissione con alta significatività: le probabilità che questa caratteristica sia solo una fluttuazione del rumore sono meno di una su mezzo miliardo».
La scoperta rappresenta quindi un’opportunità per capire le dinamiche e la composizione dei getti di Grb, mai compresi fino in fondo. Sono tre le possibili spiegazioni proposte dal gruppo di ricerca, «ma la più probabile è l’annichilimento di materia e antimateria all’interno del getto del Grb», spiega Gor Oganesyan, ricercatore al Gran Sasso Science Institute e ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn, anche lui coautore dello studio. «Quando un elettrone e un positrone si scontrano, si annullano e producono una coppia di raggi gamma con un’energia di 0,511 MeV. Poiché il getto, dove la materia si muove quasi alla velocità della luce, punta verso di noi, questa emissione viene spinta verso energie più elevate».
«Questa straordinaria scoperta, guidata da giovani ricercatrici e ricercatori e che ha coinvolto molti dottorandi, dimostra come le osservazioni dei Grb a cinquant’anni dalla loro scoperta continuano a stupirci svelando la fisica che governa questi eventi, tra i più energetici e misteriosi dell’universo», commenta Marica Branchesi, professoressa al Gssi, associata all’Infn e anche lei firmataria dell’articolo. «Ha messo inoltre in evidenza la grande importanza dei satelliti per lo studio dei fenomeni celesti di alta energia, che saranno essenziali anche in futuro perché saranno strumenti unici, i soli in grado di rivelare le controparti elettromagnetiche di sorgenti di onde gravitazionali a grande distanza osservate dall’Einstein Telescope».
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “A mega–electron volt emission line in the spectrum of a gamma-ray burst”, di Maria Edvige Ravasio, Om Sharan Salafia, Gor Oganesyan, Alessio Mei, Giancarlo Ghirlanda, Stefano Ascenzi, Biswajit Banerjee, Samanta Macera, Marica Branchesi, Peter G. Jonker, Andrew J. Levan, Daniele B. Malesani, Katharine B. Mulrey, Andrea Giulian, Annalisa Celotti e Gabriele Ghisellini
Verso la soluzione del problema dell’ultimo parsec
Simulazione della luce emessa da un sistema binario di buchi neri supermassicci in cui il gas circostante è otticamente sottile (trasparente). Vista da 0 gradi di inclinazione, ovvero direttamente sopra il piano del disco. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/Scott Noble; d’Ascoli et al. 2018
Quando due galassie si fondono, è normale aspettarsi un’analoga sorte anche per i buchi neri supermassicci che risiedono nei loro centri. Tuttavia, tentando di modellare come ciò avviene, gli astronomi incontrano da anni un problema. Per avvicinarsi, i due buchi neri devono disperdere energia. All’inizio l’energia viene trasferita al materiale circostante, gas e polvere. Ma quando arrivano alla distanza di un parsec l’uno dall’altro – poco più di tre anni luce – sembra che non ci sia più abbastanza “materiale” su cui trasferire energia. E non si avvicinano più. In astrofisica, questa circostanza è nota come il problema dell’ultimo parsec.
Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review Letters, quell’ultimo parsec può essere percorso considerando il comportamento, finora trascurato, delle particelle di materia oscura.
Nel giugno 2023, gli astrofisici annunciarono di aver rilevato un fondo di onde gravitazionali che permea l’universo, ipotizzando che provenisse da milioni di coppie di buchi neri supermassicci in fusione, ciascuno miliardi di volte più massiccio del Sole. Ma riecco il problema dell’ultimo parsec: le simulazioni teoriche non riescono a far superare loro quell’ultimo parsec. Come fanno, quindi, a fondersi?
Oltre a essere in conflitto con la teoria secondo cui i buchi neri supermassicci che si stanno fondendo sono la sorgente del fondo di onde gravitazionali, il problema dell’ultimo parsec è anche in contrasto con la teoria secondo cui i buchi neri supermassicci si sviluppano dalla fusione di buchi neri meno massicci.
«Noi mostriamo che l’effetto della materia oscura, precedentemente trascurato, può aiutare i buchi neri supermassicci a superare l’ultimo parsec di separazione e a fondersi», spiega il primo autore Gonzalo Alonso-Álvarez, del Dipartimento di Fisica dell’Università di Toronto. «I nostri calcoli spiegano come ciò possa avvenire, a differenza di quanto si pensava in precedenza».
Mentre i modelli precedenti hanno sempre escluso l’impatto della materia oscura sulle orbite dei buchi neri supermassicci, il nuovo modello rivela che le particelle di materia oscura interagiscono tra loro in modo tale da non disperdersi. La densità dell’alone di materia oscura rimane abbastanza alta da far sì che le interazioni tra le particelle e i buchi neri supermassicci continuino a degradare le orbite dei buchi neri, permettendo loro di fondersi. «La possibilità che le particelle di materia oscura interagiscano tra loro è un’ipotesi che abbiamo fatto noi, un ingrediente in più che non tutti i modelli di materia oscura contengono», dice Alonso-Álvarez. «La nostra tesi è che solo i modelli con questo ingrediente possono risolvere il problema dell’ultimo parsec».
Il rumore di fondo generato da queste colossali collisioni cosmiche è costituito da onde gravitazionali di lunghezza d’onda molto maggiore rispetto a quelle rilevate per la prima volta nel 2015 dagli astrofisici del Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (Ligo). Quelle onde gravitazionali sono state generate dalla fusione di due buchi neri, entrambi di massa circa 30 volte superiore a quella del Sole.
Il fondo che interessa agli autori è stato rilevato negli ultimi anni dagli scienziati che operano con il Pulsar Timing Array, che rivela le onde gravitazionali misurando le minime variazioni nei segnali delle pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione che emettono forti impulsi radio. «Una previsione della nostra proposta è che lo spettro delle onde gravitazionali osservate dal pulsar timing array dovrebbe essere attenuato alle basse frequenze», sostiene James Cline della McGill University. «I dati attuali accennano già a questo comportamento e nuovi dati potrebbero confermarlo nei prossimi anni».
Oltre a fornire informazioni sulle fusioni di buchi neri supermassicci e sul segnale di fondo delle onde gravitazionali, il nuovo risultato offre una finestra sulla natura della materia oscura. «Il nostro lavoro rappresenta un nuovo modo per aiutarci a comprendere la natura particellare della materia oscura», afferma Alonso-Álvarez. «Abbiamo scoperto che l’evoluzione delle orbite dei buchi neri è molto sensibile alla microfisica della materia oscura e questo significa che possiamo usare le osservazioni delle fusioni dei buchi neri supermassicci per capire meglio queste particelle».
Ad esempio, i ricercatori hanno scoperto che le interazioni tra le particelle di materia oscura modellate spiegano anche le forme degli aloni galattici di materia oscura. «Abbiamo scoperto che il problema dell’ultimo parsec può essere risolto solo se le particelle di materia oscura interagiscono a una velocità tale da alterare la distribuzione della materia oscura su scala galattica», conclude Alonso-Álvarez. «Un risultato inaspettato, poiché le scale fisiche in cui avvengono i processi sono distanti tre o più ordini di grandezza».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Self-Interacting Dark Matter Solves the Final Parsec Problem of Supermassive Black Hole Mergers” di Gonzalo Alonso-Álvarez, James M. Cline e Caitlyn Dewar
Per Artemis, una casa sulla Luna “made in Italy”
Si configura sempre più chiaramente la struttura al programma Artemis e del possibile contributo italiano al ritorno umano sulla Luna. Si è appena conclusa in Agenzia spaziale italiana (Asi) la Mission Definition Review del progetto Mph (Multi Purpose Habitation module), il modulo abitativo di superficie lunare, a guida italiana, elemento della collaborazione bilaterale Assi/Nasa per Artemis.
Il modulo Mph ha l’obiettivo principale di diventare la “casa” degli astronauti sul suolo del nostro satellite ed è un progetto coordinato da Asi, sviluppato da Thales Alenia Space nei laboratori di Torino, che vede anche il contributo di Altec, a cui saranno affidate le operazioni di controllo da Terra quando il modulo sarà operativo sulla Luna.
La conclusione positiva della Mission Definition Review condotta dall’Asi sotto la supervisione di esperti Nasa, presenti in qualità di osservatori, è il passo fondamentale per sostenere l’esame finale previsto il prossimo settembre a Washington, che sarà svolto a cura dei responsabili della Nasa per il programma Artemis e della “Moon to Mars Strategy”. Sarà questo il passaggio che auspicabilmente avvierà il processo di inclusione del modulo abitativo italiano nell’architettura finale del futuro programma lunare. Un traguardo che, quando raggiunto, andrà a confermare le competenze italiane e la piena maturità del progetto.
«Il superamento di questa fase conferma, ancora una volta, la lungimiranza degli investimenti fatti negli anni che hanno permesso al sistema Paese di acquisire», sottolinea il presidente dell’Asi, Teodoro Valente, «competenze esclusive nella realizzazione di moduli abitativi. Un vero primato mondiale. Questo ulteriore riconoscimento della Nasa apre la possibilità di essere tra i protagonisti nell’insediamento umano della Luna. L’industria, la ricerca e l’accademia sono capaci di affrontare e dare risposte tecnologicamente all’avanguardia nel solco del made in Italy dello spazio. Il coordinamento e la sinergia messa in campo da tutti gli attori sono oggi stati premiati dal primo via libera della Nasa, di cui siamo partner essenziali per lo sviluppo di sistemi complessi per l’esplorazione umana dello spazio».
Con il programma Artemis la Nasa sta guidando l’esplorazione umana della Luna. L’Italia è stata tra i primi otto firmatari degli Artemis Accords nel 2020, proponendosi per la realizzazione del primo elemento destinato a costituire il nucleo di un insediamento permanente sulla superficie lunare. Mph sarà, quindi, il primo modulo del programma Artemis che arriverà sulla Luna e permetterà il soggiorno in sicurezza degli astronauti.
Webb immortala un freddo super-Giove
L’esopianeta Epsilon Indi Ab ripreso dalla fotocamera per il medio infrarosso Miri di Webb. Al centro, nel cerchio scuro contrassegnato da una linea bianca tratteggiata, la posizione della stella oscurata dal coronografo. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, E. Matthews (Max Planck Institute for Astronomy)
È grande, è fresco, è relativamente vicino. E il telescopio spaziale Webb gli ha scattato una foto. Parliamo di Epsilon Indi Ab, un gigante gassoso di massa pari a circa sei volte quella di Giove, temperatura di poco superiore agli 0 °C e un’orbita molto eccentrica, e molto ampia, che percorre in duecento anni attorno alla stella principale del sistema Epsilon Indi, una nana arancione ad appena 12 anni luce da noi.
Il pianeta era già noto, ma le sue vere caratteristiche sono emerse solo ora grazie, appunto, alle osservazioni compiute con Webb, e in particolare con le immagini acquisite dalla fotocamera per il medio infrarosso Miri. Caratteristiche che hanno destato stupore nel team di scienziati, guidato da Elisabeth Matthews del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg (Germania), che ne riporta la scoperta in un articolo pubblicato oggi su Nature.
«Con nostra sorpresa, il punto luminoso apparso nelle immagini Miri non corrispondeva alla posizione che ci aspettavamo per il pianeta», dice infatti Matthews. «Studi precedenti avevano identificato correttamente un pianeta in questo sistema, ma avevano sottostimato la massa e la separazione orbitale di questo gigante gassoso».
Massa e separazione orbitale che, insieme alla distanza relativamente contenuta, hanno giocato un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’immagine diretta. Di solito, infatti, gli esopianeti vengono scoperti e studiati solo attraverso effetti indiretti, come l’ombra che producono passando fra l’osservatore e la loro stella ospite (il cosiddetto metodo dei transiti) o i lievi spostamenti che inducono sulla stella orbitandole attorno (è il caso del metodo delle velocità radiali). Due tecniche, queste, che ben si applicano a pianeti in orbite molto strette, assai meno a quelli come Epsilon Indi Ab, che arriva a spingersi fino a 20-40 unità astronomiche dalla propria stella. L’orbita ampia rappresenta però un vantaggio per il rilevamento diretto, soprattutto se il pianeta è grande, dunque più facilmente visibile, e il sistema si trova vicino alla Terra, presentando così un’ampia separazione angolare fra stella e pianeta.
Due immagini dirette di Eps Ind Ab, visibile in alto a sinistra dei due riquadri riportati in basso (in colori bluastri il canale a 10.65 micrometri e in colori rossastri quello a 15.55 micrometri), entrambi con la posizione dell’astro oscurato, al centro, indicata da una stellina gialla. Crediti: T. Müller (Mpia/Hda), E. Matthews (Mpia)
Serve comunque un coronografo, vale a dire uno strumento in grado di schermare la luce della stella al centro così da non rimanere accecati rispetto a quella – ovviamente molto più debole – del pianeta. Ed è proprio usando la modalità “Miri con coronografo” – una delle 17 modalità osservative previste da Jwst – che è stato possibile ottenere le straordinarie immagini che vediamo qui sopra. Miri, in particolare, si è dimostrato lo strumento perfetto per immortalare un gigante freddo come Epsilon Indi Ab.
«I pianeti freddi sono molto deboli e la maggior parte della loro emissione avviene nel medio infrarosso», spiega infatti Matthews. «Webb è l’ideale per acquisire immagini nel medio infrarosso, cosa estremamente difficile da fare da terra. Avevamo anche bisogno di una buona risoluzione spaziale per separare il pianeta dalla stella nelle nostre immagini, e il grande specchio di Webb si è dimostrato estremamente utile per questo aspetto».
Epsilon Indi Ab è uno fra gli esopianeti più freddi mai rilevati direttamente, con una temperatura stimata di due gradi Celsius – più fredda di qualsiasi altro pianeta fotografato al di fuori del Sistema solare e più fredda di tutte le nane brune libere, tranne una. Il pianeta è al tempo stesso più caldo di oltre cento gradi rispetto ai nostri giganti gassosi come Giove e Saturno, e questo offre la rara opportunità di studiare la composizione atmosferica di veri analoghi del Sistema solare.
«È da decenni che gli astronomi immaginano pianeti in questo sistema: i pianeti immaginari che orbitano attorno a Epsilon Indi sono stati oggetto di episodi di Star Trek, romanzi e videogiochi come Halo», ricorda una coautrice dello studio, Caroline Morley dell’Università del Texas ad Austin (Usa). «È emozionante poter vedere che lì c’è effettivamente un pianeta e iniziare a misurarne le proprietà».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A temperate super-Jupiter imaged with JWST in the mid-infrared”, di E. C. Matthews, A. L. Carter, P. Pathak, C. V. Morley, M. W. Phillips, S. Krishanth P. M, F. Feng, M. J. Bonse, L. A. Boogaard, J. A. Burt, I. J. M. Crossfield, E. S. Douglas, Th. Henning, J. Hom, C.-L. Ko, M. Kasper, A.-M. Lagrange, D. Petit dit de la Roche & F. Philipot
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C’è acqua nei campioni lunari di Chang’e-5
Fotografia e composizione del minerale idrato lunare Ulm-1. Crediti: Istituto di fisica, Chinese Academy of Sciences
Sia l’acqua che l’ammoniaca presenti sulla Luna svolgono un ruolo fondamentale nella comprensione dell’origine e dell’evoluzione del sistema Terra-Luna, e al contempo costituiscono una risorsa potenzialmente fondamentale per i futuri habitat umani lunari.
Fin dalle missioni Apollo si pensava che la Luna fosse arida, poiché le molecole d’acqua possono facilmente disperdersi a causa dell’alto vuoto presente dove batte il Sole. Più recentemente, osservazioni a distanza hanno rilevato che acqua e ammoniaca potrebbero esistere sotto forma di ghiaccio congelato, sepolto nelle regioni permanentemente in ombra vicino al polo lunare. Utilizzando strumentazioni avanzate, gli esami dei campioni Apollo hanno rilevato tracce di OH–/H2O a livelli di parti per milione, sepolte all’interno di rari minerali e perle di vetro.
In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Astronomy, finanziato dalla Chinese Academy of Sciences, gli scienziati cinesi hanno evidenziato la presenza di acqua e ammonio nei campioni lunari Chang’e-5 (in totale 1,731 kg di campioni di suolo lunare provenienti dall’Oceanus Procellarum, un vasto mare lunare sul bordo occidentale del lato visibile della Luna) sotto forma di un minerale idrato estremamente ricco delle due molecole. Questo studio rappresenta la prima scoperta di molecole di acqua e ammonio nei campioni lunari restituiti, svelando la forma effettiva di queste importanti molecole presenti sul nostro vicino celeste.
Il minerale – chiamato Ulm-1, acronimo di unknown lunar mineral, con formula chimica [(NH4)0.87 Na0.009 K0.021 Cs0.012][Mg0.97 Ca0.023 Al0.007] Cl3 · 6H2O – contiene un sorprendente 41 per cento in peso di acqua. La sua struttura e la sua composizione ricordano quelle di un raro minerale terrestre che si trova nelle fumarole, formato dall’interazione del basalto caldo con acqua e gas vulcanici ricchi di ammoniaca.
Struttura del cristallo e densità di carica di Ulm-1. Crediti: Istituto di fisica, Chinese Academy of Sciences
L’analisi termodinamica delle condizioni di formazione di questo minerale sostiene i limiti più bassi di acqua e ammoniaca nei gas degli antichi vulcani lunari, i cui risultati sono paragonabili a quelli di alcuni dei vulcani più ostili della Terra. Questo valore inaspettatamente elevato suggerisce che i vulcani lunari che emettono gas potrebbero aver contribuito in modo significativo all’idrosfera sulla Luna.
Inoltre, la scoperta implica la possibile esistenza di molecole d’acqua nelle regioni della Luna illuminate dal Sole sotto forma di sali idrati, offrendo prospettive interessanti per l’utilizzo e l’esplorazione delle risorse lunari. A differenza del ghiaccio d’acqua, l’idrato è notevolmente stabile nel difficile ambiente lunare ad alta temperatura e sotto vuoto.
L’identificazione di questo minerale idrato segna un significativo progresso nella nostra comprensione dell’acqua lunare e dell’ammoniaca, evidenziando il potenziale della Luna come destinazione per future esplorazioni scientifiche e presenza umana.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Evidence of a hydrated mineral enriched in water and ammonium molecules in the Chang’e-5 lunar sample” di Shifeng Jin, Munan Hao, Zhongnan Guo, Bohao Yin, Yuxin Ma, Lijun Deng, Xu Chen, Yanpeng Song, Cheng Cao, Congcong Chai, Qi Wei, Yunqi Ma, Jiangang Guo & Xiaolong Chen
Elsa, l’intelligenza artificiale di Euclid
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Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Euclid. Crediti: Esa
Spingere al limite i confini di ciò che si può imparare dai dati raccolti da Euclid, il nuovo telescopio spaziale dell’Agenzia spaziale europea (Esa). È la sfida lanciata da Elsa, nuovo progetto di ricerca Horizon Europe che utilizzerà l’intelligenza artificiale per rivelare i dettagli nascosti delle galassie più deboli e rare.
Lanciato in orbita nel luglio del 2023 e attivo ufficialmente dai primi mesi di quest’anno, Euclid sta indagando l’universo alla ricerca della materia oscura: una missione il cui obiettivo primario è mappare più di un terzo del cielo. Nel corso dei prossimi sei anni osserverà miliardi di galassie attraverso dieci miliardi di anni di storia del cosmo.
Il suo gigantesco archivio di immagini e spettri sarà una miniera d’oro per studiare la formazione e l’evoluzione delle galassie nel corso della storia dell’universo. Ma i filoni auriferi più ricchi sono anche i più difficili da sfruttare e gli strumenti sviluppati per gli obiettivi scientifici primari della missione non sono sufficienti per mettere a profitto la ricca eredità che i dati di Euclid offrono alla comunità astronomica.
È qui che entra in gioco Elsa, acronimo di Euclid Legacy Science Advanced analysis tools. Il progetto è stato concepito da un team di astronomi provenienti da quattro paesi europei con l’idea di utilizzare l’intelligenza artificiale per estrarre le preziose informazioni nascoste tra la mole di dati prodotti da Euclid. Per farlo, gli scienziati si baseranno sul cluster di calcolo ad alte prestazioni presso l’Open Physics Hub dell’Università di Bologna, grazie al nuovo hardware informatico acquisito per l’occasione da Elsa.
«Nel campo dell’astronomia, siamo entrati nell’era dei big data», spiega Margherita Talia, ricercatrice al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata Inaf e principal investigator del progetto. «La valanga di dati raccolti da Euclid, calcolata sulla scala dei petabyte, ha già iniziato a travolgerci, ed Elsa fornirà strumenti innovativi per trovare le gemme nascoste al suo interno».
Uno dei punti di forza di Euclid è la sua capacità di osservare una vasta area del cielo in un colpo solo: elemento fondamentale per una missione il cui obiettivo primario è mappare più di un terzo del cielo in sei anni. La modalità di osservazione utilizzata è quella dello step-and-stare: Euclid osserverà una zona del cielo per circa 70 minuti, producendo immagini e spettri, per poi spostarsi nel giro di pochi minuti alla zona successiva. Durante l’intera missione, questa operazione sarà ripetuta più di 40mila volte.
«Tutti i dati di Euclid verranno resi disponibili nello European Open Science Cloud attraverso gli strumenti dell’Osservatorio Virtuale, come ad esempio Esa Sky: le early release observations di Euclid sono già disponibili», aggiunge Stephen Serjeant, co-responsabile del gruppo di lavoro Elsa su citizen science. «Il nostro piano è quello di essere inclusivi e invitare volontari a esaminare con noi i dati di Euclid e aiutarci nell’addestramento degli algoritmi di machine learning per individuare tesori rari».
Matematiche da medaglia
Da sinistra: Maryam Mirzakhani, Claire Voisin, Karen Uhlenbeck, Ingrid Daubechies e Marina Viazovska. Crediti per le foto, tratte da Wikipedia: Maryeraud9, Bert Seghers, George Bergman, Ingrid Daubechies e Petra Lein
Non esiste un Nobel per la matematica ma non mancano premi altrettanto prestigiosi, a cominciare dalla International Medal for Outstanding Discoveries in Mathematics, più semplicemente medaglia Fields, che è conferita dal 1936 ogni quattro anni in occasione del congresso di matematica per premiare due, tre o quattro matematici di età inferiore a 40 anni. Il premio Wolf viene conferito annualmente a partire dal 1978, mentre il premio Crafoord è iniziato nel 1982 ma viene dato a rotazione a diverse discipline con la matematica che compare ogni 5-6 anni. Nel nuovo millennio sono stati istituiti tre riconoscimenti annuali: il premio Abel, dal 2003, il premio Shaw, dal 2004, e, ultimo in ordine di tempo, il premio Breakthrough, istituito nel 2013 che, con i suoi tre milioni di dollari, è anche il più ricco.
Il premio Abel viene considerato l’equivalente del Nobel perché viene dato dall’accademia norvegese, non impone limiti di età e prevede un premio in denaro simile al Nobel, ma questo non rende meno ambita la medaglia Fields, anche se prevede un premio di appena 25mila dollari canadesi.
Tutto considerato, in novant’anni di storia sono stati conferiti 217 premi per la matematica, ma solo sette sono andati a donne. Una disparità colossale, che viene eguagliata solo da quella che si registra per il premio Nobel per la fisica, dove solo cinque dei 225 premiati sono donne. I sette premi sono stati conferiti negli ultimi dieci anni e hanno riconosciuto l’eccellenza di cinque matematiche, due delle quali sono state premiate due volte.
La prima a ricevere la medaglia Fields, nel 2014, è stata la matematica iraniana-americana Maryam Mirzakhani, che era cresciuta convinta di non essere particolarmente dotata. Invece aprì nuove vie sullo studio della simmetria delle superfici curve e certamente avrebbe potuto continuare se, nel 2017, appena quarantenne, non fosse morta per un cancro al seno. Le sue conquiste, però non sono state dimenticate e nel 2020 alla sua memoria è stato conferito il Breakthrough Prize, dato per la prima volta a una donna. Anche Claire Voisin ha avuto l’onore di essere due volte la prima donna a vincere uno dei premi per matematici per il suo lavoro nel campo della geometria algebrica. Ha iniziato nel 2017 con il premio Shaw e poi il 30 gennaio di quest’anno ha ricevuto il premio Crafoord. Nel 2019 Karen Uhlenbeck, grazie ai suoi lavori pionieristici in geometria analitica, è stata la prima donna a ricevere il premio Abel, e lo stesso è successo a Ingrid Daubechies, famosa per i metodi di compressione delle immagini, nel 2023 con il premio Wolf. L’unico premio che annovera due vincitrici è la medaglia Fields che, nel 2022, ha premiato Marina Viazovska per il suo lavoro sulla teoria dei numeri.
Elisabetta Strickland, “Emmy Noether. Vita e opere della donna che stupì Einstein”. Carocci Editore, 2024. 154 pagine, 18 euro
Constatare che i premi alle matematiche siano concentrati negli ultimi anni fa ben sperare, tuttavia la percentuale è ancora bassissima e strada da fare è molto lunga dal momento che, secondo l’Unione matematica internazionale, negli Stati Uniti il 25-30 per cento dei dottorandi in matematica sono donne. Anche se non tutte prendono la strada della ricerca, l’esame della letteratura mostra che, negli ultimi decenni, c’è stato un costante aumento della percentuale di donne autrici di articoli scientifici in matematica. Tuttavia, pur in crescita, la percentuale di donne autrici nelle “riviste più importanti” di matematica rimane inferiore al 10 per cento. In un mondo ideale, sarebbe almeno questa la percentuale “ragionevole” di riconoscimenti femminili, non i pochi percento attuali.
Certo la situazione odierna, anche se lontana dall’essere ottimale, è radicalmente diversa da quella che viene raccontata nel libro di Elisabetta Strickland dedicato a Emmy Noether, una straordinaria matematica che ebbe vita durissima nel mondo accademico tedesco di inizio ‘900. Figlia di un affermato matematico, che aveva fatto del suo meglio per dissuadere la figlia dall’intraprendere gli studi in matematica, si trovò a lottare per poter frequentare l’università, per essere ammessa al dottorato, per sostenere l’esame di abilitazione all’insegnamento. Ogni volta le gerarchie accademiche si mettevano di traverso e occorreva risalire la catena gerarchica fino al ministro per capire cosa si poteva o non si poteva fare. Infatti, nonostante tutti fossero d’accordo sul valore di Emmy, nessuno voleva creare un precedente aprendo l’insegnamento alle donne, giudicate poco adatte all’importante compito. Poco importava che personaggi del calibro di Einstein e di Hilbert la sostenessero a spada tratta. Costretta ad aspettare lunghi anni in situazione precaria, senza ricevere alcuno stipendio, non perse mai né l’interesse né l’entusiasmo che era bravissima a comunicare ai suoi studenti. Le sue lezioni non erano perfette, perché Emmy si faceva prendere la mano dagli argomenti che trattava, ma gli studenti avevano poi modo di chiedere spiegazioni nel corso di lunghissime passeggiate che lei amava fare proprio per discutere con loro.
Bravissima a riconoscere il talento, invitava a Gottinga giovani matematici da tutta Europa con i quali instaurava rapporti di amicizia che duravano negli anni. Le succedeva spesso di essere l’unica donna invitata a una conferenza, ma forse lo considerava normale.
Oggi abbiamo una sensibilità diversa e accogliamo con grande piacere la notizia che la European Mathematical Society ha premiato Cristiana de Filippis, 31enne docente dell’Università di Parma che risulta essere la prima italiana che lavora in Italia a ricevere il premio, considerato un gradino verso la medaglia Fields.
Guarda il video sul sito YouTube dell’Università di Parma:
Viper al capolinea: ha sforato il budget
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Rappresentazione artistica del rover Viper della Nasa. Crediti: Nasa
Mai usato, completamente equipaggiato, fari led, ancora da sottoporre a collaudo, valore di listino oltre 400 milioni di dollari, pronto per essere ceduto al miglior offerente. Se vi interessa un rover lunare, è il vostro momento: scrivete entro fine mese a hq-clps-payload@mail.nasa.gov, invita la Nasa, e Viper potrebbe essere vostro. Finisce così, con un’offerta stracciata all’industria statunitense e ai partner internazionali, il programma d’esplorazione del polo sud lunare Viper – acronimo di Volatiles Investigating Polar Exploration Rover – dell’agenzia spaziale Usa. È infatti della scorsa settimana la notizia che fra ritardi nella data di lancio, aumento dei costi e rischio che possano crescere ulteriormente la Nasa ha deciso di rinunciare alla missione.
Missione travagliata, come del resto spesso accade con le imprese spaziali. Il lancio del rover era originariamente previsto per la fine del 2023, ma nel 2022 la Nasa ha chiesto di rimandarlo alla fine del 2024 così da avere più tempo per i test pre-volo del lander Griffin di Astrobotic, la compagnia Usa che già aveva tentato senza successo d’approdare sulla Luna con il lander Peregrine lo scorso gennaio. Da allora, ulteriori ritardi nella tabella di marcia e nella catena di fornitura hanno fatto slittare la data di disponibilità di Viper a settembre 2025. Proseguire la missione, secondo quanto riporta il New York Times, avrebbe comportato un ulteriore esborso di 84 milioni di dollari. Cifra che avrebbe potuto mettere a rischio il completamento di altre missioni del programma Clps (Commercial Lunar Payload Service). La Nasa ha dunque notificato al Congresso l’intenzione di fermare tutto.
L’obiettivo primario del rover Viper era quello di esplorare le aree permanentemente in ombra nella regione del polo sud lunare in cerca di risorse potenzialmente utilizzabili, in particolare ghiaccio d’acqua, mappandone la distribuzione, la profondità e la concentrazione. Per questo è dotato di una serie di strumenti per l’analisi delle rocce lunari: un trapano lungo un metro, uno spettrometro di massa, uno spettrometro a neutroni e uno spettrometro infrarosso. Strumenti tutti già installati su Viper, e ora destinati – se non arriveranno manifestazioni d’interesse per l’intero rover – a essere smontati ed eventualmente riutilizzati in altre missioni.
Roccia marziana con sorpresa
Questi cristalli gialli sono stati trovati da Curiosity quando, il 30 maggio, ha rotto una roccia passandoci sopra. Grazie a uno strumento sul braccio robotico, gli scienziati hanno capito che si tratta di zolfo elementare. È la prima volta che questo tipo di zolfo è stato trovato sul Pianeta rosso. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
Il 30 maggio scorso gli scienziati della Nasa sono rimasti sbalorditi quando al passaggio del rover Curiosity una roccia sul terreno si è rotta, rivelando qualcosa di mai visto prima sul Pianeta rosso: cristalli gialli di zolfo.
Dall’ottobre 2023, il rover sta esplorando una regione di Marte ricca di solfati, un tipo di sale che contiene zolfo e si forma con l’evaporazione dell’acqua. Ma mentre i rilevamenti passati riguardavano minerali a base di zolfo – in altre parole, una miscela di zolfo e altri materiali – la roccia che Curiosity ha recentemente aperto è fatta di zolfo elementare, o puro.
Non è chiaro quale sia il rapporto, se esiste, tra lo zolfo elementare e gli altri minerali a base di zolfo presenti nell’area.
Mentre normalmente lo zolfo viene associato all’odore delle uova marce (odore caratteristico dell’acido solfidrico), lo zolfo elementare è inodore. Si forma solo in una ristretta gamma di condizioni che gli scienziati non hanno mai associato alla storia di questo luogo. Curiosity ne ha trovato molto: un intero campo di rocce simili a quella schiacciata dal rover.
«Trovare un campo di pietre fatte di zolfo puro è come trovare un’oasi nel deserto», dichiara il project scientist di Curiosity, Ashwin Vasavada del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. «Non dovrebbe essere lì, quindi ora dobbiamo spiegarlo. Scoprire cose strane e inaspettate è ciò che rende l’esplorazione planetaria così eccitante».
Il giorno 8 giugno Curiosity ha catturato questo primo piano di una roccia chiamata “Snow Lake”. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
Si tratta di una delle numerose scoperte che Curiosity ha fatto durante il percorso “fuoristrada” all’interno del canale Gediz Vallis, un solco che si snoda lungo un lato del Monte Sharp, alto 5 chilometri, dalla cui base il rover sta risalendo dal 2014. Ogni strato della montagna rappresenta un diverso periodo della storia marziana. La missione di Curiosity è quella di studiare dove e quando l’antico terreno del pianeta avrebbe potuto fornire i nutrienti necessari a un’eventuale vita microbica.
Avvistato dallo spazio anni prima del lancio di Curiosity, il canale Gediz Vallis è uno dei motivi principali per cui il team scientifico ha voluto visitare questa zona di Marte. Gli scienziati ritengono che il canale sia stato scavato da flussi di acqua liquida e detriti che hanno lasciato una cresta di massi e sedimenti che si estende per tre chilometri lungo il fianco della montagna, sotto il canale. L’obiettivo è capire come miliardi di anni fa questo paesaggio sia cambiato e, sebbene gli indizi recenti siano stati utili, c’è ancora molto da imparare.
Dall’arrivo di Curiosity nel canale all’inizio di quest’anno, gli scienziati hanno cercato di capire se i grandi cumuli di detriti che si ergono dal fondo del canale siano stati depositati dalle antiche acque alluvionali oppure se siano il risultato di frane. Sembrerebbe che entrambi questi fattori abbiano avuto un ruolo: alcuni cumuli sono stati probabilmente depositati da violenti flussi di acqua e detriti, mentre altri sembrano essere il risultato di frane. Queste conclusioni si basano sulla forma delle rocce trovate: mentre le pietre trasportate dai flussi d’acqua diventano arrotondate come ciottoli di fiume, alcuni dei cumuli di detriti sono pieni di rocce più spigolose che potrebbero essere state depositate da valanghe asciutte.
Mentre esplorava il canale Gediz Vallis, a maggio, Curiosity ha catturato questa immagine di rocce che mostrano un colore pallido vicino ai loro bordi. Questi anelli, chiamati anche aloni, assomigliano ai segni che si vedono sulla Terra quando l’acqua di falda si infiltra nelle rocce lungo le fratture, provocando reazioni chimiche che ne cambiano il colore. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
Infine, le reazioni chimiche provocate dall’acqua hanno fatto sbiancare alcune rocce che ora presentano aloni bianchi. L’erosione causata dal vento e dalla sabbia ha rivelato queste forme a raggiera nel corso del tempo.
Tutte queste tracce lasciate dall’acqua continuano a raccontare una storia più complessa rispetto a quelle che erano le aspettative iniziali del team, che non vedeva l’ora di prelevare un campione di roccia dal canale per saperne di più. Finalmente, il 18 giugno, gli scienziati hanno avuto la loro occasione. Mentre le rocce sulfuree erano troppo piccole e fragili per essere campionate con la trivella, nelle vicinanze è stata individuata una grande roccia soprannominata Mammoth Lakes.
Individuata una parte della roccia che permettesse una perforazione sicura, Curiosity ha praticato il suo 41esimo foro utilizzando la potente trivella all’estremità del suo braccio robotico e ha versato la roccia polverizzata all’interno di strumenti posizionati nel suo ventre per ulteriori analisi, in modo da riuscire a determinare di quali materiali è fatta la roccia. Poi si è allontanato da Mammoth Lakes.
Ora è in viaggio per vedere quali altre sorprese attendono di essere scoperte all’interno del canale.
Il rover Curiosity della Nasa ha catturato questa vista del canale Gediz Vallis il 31 marzo. Quest’area si è probabilmente formata in seguito a grandi inondazioni di acqua e detriti che hanno ammassato cumuli di rocce all’interno del canale. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
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Quando si uniscono raggi X e infrarossi
Un po’ come quando si assaggia un piatto di alta cucina, che si compone di ingredienti con preparazioni diverse, il gusto di osservare uno stesso oggetto con diversi telescopi si esalta e si amplifica se lo si fa “in un unico boccone”, assaggiando tutto insieme. Le immagini che vedete qui sotto, elaborate dalla Nasa, sono proprio questo: un piatto di alta cucina cosmica. Uniscono le visioni di uno stesso oggetto da parte del telescopio a raggi X Chandra della Nasa, del telescopio spaziale Hubble e del telescopio spaziale Webb. Il primo osserva nei raggi X, il secondo in ultravioletto, ottico e infrarosso, il terzo esclusivamente a lunghezze d’onda infrarosse.
Quattro immagini che uniscono la vista del Chandra X-ray Observatory della Nasa e del James Webb Space Telescope, in una griglia due per due: Rho Ophiuchi in basso a destra, il cuore della Nebulosa di Orione in alto a destra, la galassia Ngc 3627 in basso a sinistra e l’ammasso di galassie Macs J0416. Crediti: Raggi X, Nasa/Cxc/Sao; Ottico/Infrarosso: (Hubble) Nasa/Esa/Stsci; Ir: (Jwst) Nasa/Esa/Csa/Stsci
Un viaggio, quello proposto da Nasa attraverso queste immagini, che si allontana sempre più da noi, includendo scale cosmiche via via più grandi.
Cominciamo allora in basso a destra, con la regione di formazione stellare Rho Ophiuchi, a una distanza di circa 390 anni luce dalla Terra. Quello che vedete è un complesso di nubi fatto di gas e stelle di diverse dimensioni ed età. In questa immagine, i raggi X di Chandra sono di colore viola e rivelano le stelle neonate che esplodono violentemente e producono raggi X. I dati infrarossi di Webb sono di colore rosso, giallo, ciano, azzurro e blu più scuro e riescono a vedere le regioni di gas e polvere, che se provassimo a guardare con i nostri occhi – sensibili alla luce ottica – non potremmo cogliere.
In alto a destra, un po’ più lontana ma pur sempre nella nostra galassia, la Via Lattea, c’è la Nebulosa di Orione. Si trova a circa 1500 anni luce di distanza, ed è proprio al centro di quella costellazione che si riconosce, nel cielo, per avere tre stelle vicine a formare la cosiddetta “cintura” di Orione. Se si guarda con un telescopio (anche piccolo) appena sotto il centro di queste, si può vedere la nebulosa. Con Chandra e Webb, chiaramente, si può ammirare in gran dettaglio. Chandra mostra le giovani stelle che brillano nei raggi X, colorate in rosso, verde e blu, mentre Webb mostra il gas e la polvere (in rosso più scuro) che, collassando, formeranno la prossima generazione di stelle.
Scendendo in basso a sinistra, ora, si cambia galassia. Come la Via Lattea, Ngc 3627 è una galassia a spirale che – dalla nostra prospettiva – appare leggermente di taglio. Si tratta, in particolare, di una galassia a spirale “barrata”, per la forma rettangolare della sua regione centrale, con due bracci a spirale che, dal centro, formano un arco. E proprio al centro troviamo la regione maggiormente evidenziata (in viola e bianco) da Chandra. Si tratta del buco nero supermassiccio al centro di Ngc 3627, mentre in rosso, verde e blu i dati ottici del telescopio spaziale Hubble e Webb, che individuano la polvere, il gas e le stelle in tutta la galassia.
L’ultima immagine inquadra infine l’oggetto più lontano e più esteso: l’ammasso di galassie Macs J0416. Come tutti gli ammassi, è in grado di contenere centinaia o addirittura migliaia di singole galassie legate fra loro gravitazionalmente. Gli ammassi sono pervasi da un’enorme quantità di gas caldo – o plasma – che risulta visibile ai raggi X (mostrati in viola nell’immagine). Di nuovo, le viste di Hubble e Webb sono rappresentate in rosso, verde e blu, ma questa volta a ciascun puntino colorato corrisponde una galassia. Gli ammassi sono infatti i sistemi gravitazionalmente legati più grandi dell’universo.
Lo strano getto di Circinus X-1
Immagine radio del getto a forma di S emesso dalla stella di neutroni Circinus X-1. Sia la sorgente stessa (al centro dell’immagine) sia una sorgente di sfondo sono state sottratte dall’immagine per rendere più chiara la forma a S. La dimensione apparente dei getti è pari a quella di una monetina da un centesimo vista da 100 metri di distanza, ma la loro dimensione reale è superiore a cinque anni luce. Crediti: Fraser Cowie
Per la prima volta è stato “fotografato” uno strano getto – simile a quelli prodotti da certi irrigatori da giardino – proveniente da una stella di neutroni. La sua struttura, a forma di S, si crea quando il getto cambia direzione a causa dell’oscillazione del disco di gas caldo attorno alla stella. Tale processo (chiamato precessione) è già stato osservato con i buchi neri ma mai, almeno finora, con le stelle di neutroni. La stella di neutroni si trova nel sistema binario Circinus X-1 (Cir X-1), a più di 30mila anni luce dalla Terra, e si è formata dal nucleo di una stella supergigante collassata all’incirca nello stesso periodo in cui è stata costruita Stonehenge, circa 5mila anni fa.
L’enorme forza di gravità esercitata dalla stella di neutroni sottrae gas alla compagna, che va a formare un disco di gas caldo che spiraleggia verso la sua superficie. Questo processo, noto come accrezione, rilascia enormi quantità di energia al secondo, più potente di un milione di Soli. Una parte di questa energia alimenta i getti – stretti fasci di materiale espulsi dal sistema binario che viaggiano a una velocità prossima a quella della luce.
In particolare, il getto emesso dalla stella di neutroni in oggetto è stato individuato da un team di astronomi dell’Università di Oxford, che ha utilizzato MeerKat – un radiotelescopio in Sudafrica – per creare le immagini più dettagliate e ad alta risoluzione di Circinus X-1.
Le immagini sono state presentate la settimana scorsa al National Astronomy Meeting dell’Università di Hull e la scoperta di questo getto potrebbe aiutare a svelare la fisica alla base del fenomeno astronomico.
La scoperta di Circinus X-1 risale al 14 giugno 1969 quando un razzo Aerobee 150, lanciato dal Brasile, durante una scansione della regione Norma-Lupus-Circinus ottenne dati a raggi X grazie ai quali fu possibile rilevare una sorgente ben isolata all’interno della costellazione del Circinus, a una distanza all’epoca non ben definita. Nel luglio 2007 l’osservazione di Circinus X-1 rivelò la presenza di getti X normalmente presenti nei sistemi di buchi neri. Di fatto, è la prima binaria del genere a essere stata scoperta che mostra questa somiglianza con i buchi neri. Circinus X-1 potrebbe essere una delle più giovani binarie X osservate.
Fraser Cowie ha fatto notare che esiste un altro sistema noto per i suoi getti a forma di S, chiamato Ss433, ma risultati recenti suggeriscono che quell’oggetto è probabilmente un buco nero.
«È la prima volta che vediamo una forte evidenza di un getto in precessione da una stella di neutroni confermata», afferma Cowie. «L’evidenza deriva sia dalla forma a S simmetrica del plasma che emette radio nei getti, sia dall’onda d’urto veloce e vasta, che può essere prodotta solo da un getto che cambia direzione. Questo fornirà informazioni preziose sulla fisica estrema che sta dietro all’emissione del getto, un fenomeno che non è ancora ben compreso».
Immagine radio ripresa dal telescopio MeerKat che mostra Circinus X-1 al centro, all’interno del resto di supernova in cui è nata. Le onde d’urto causate dai getti sono visibili sopra e sotto Cir X-1, mentre la struttura a forma di S dei getti è oscurata da una sorgente luminosa sullo sfondo. Crediti: Fraser Cowie
L’osservazione è stata possibile grazie ai recenti aggiornamenti del telescopio MeerKat che gli hanno permesso di conseguire un’eccellente sensibilità e immagini a più alta risoluzione. Grazie a queste immagini, il team ha inoltre scoperto onde d’urto che si muovono a circa il 10% della velocità della luce, confermando che sono causate dal getto in rapido movimento e non da qualcosa di più lento, come un vento stellare. «Il fatto che queste onde d’urto si estendano su un ampio angolo è in accordo con il nostro modello», aggiunge Cowie. «Quindi abbiamo due forti evidenze che ci dicono che il getto della stella di neutroni sta precessando».
La misurazione della velocità delle onde d’urto aiuterà gli astronomi a capire di cosa è fatto il getto che le provoca. Le onde d’urto agiscono effettivamente come acceleratori di particelle nello spazio, producendo raggi cosmici ad alta energia, e l’energia massima delle particelle che possono essere accelerate dipende dalla loro velocità.
«Circinus X-1 è uno degli oggetti più luminosi del cielo a raggi X ed è stato studiato per oltre mezzo secolo», conclude Cowie. «Nonostante questo, rimane uno dei sistemi più enigmatici che conosciamo. Molti aspetti del suo comportamento non sono ben spiegati, quindi è molto gratificante contribuire a gettare nuova luce su questo sistema, basandosi su 50 anni di lavoro di altri. I prossimi passi saranno quelli di continuare a monitorare i getti e vedere se cambiano nel tempo nel modo che ci aspettiamo. Questo ci permetterà di misurare con maggiore precisione le loro proprietà e di continuare a saperne di più su questo oggetto così sconcertante».
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Dal vicino al medio infrarosso: tutti i colori di Jwst
Il resto di supernova Cassiopeia A, osservato con il Mid-Infrared Instrument (Miri) di Jwst. Crediti: Nasa, Esa, Csa, D. Milisavljevic (Purdue University), T. Temim (Princeton University), I. De Looze (UGent), J. DePasquale (Stsci)
Una sinuosa creatura marina, dalla sagoma arcuata e i toni rosacei, che vaga nell’oscurità degli abissi oceanici, tra il verde delle alghe e il rosso fuoco dei coralli. Un feroce drago scarlatto dall’occhio ceruleo che cavalca nubi scintillanti in cerca della sua prossima preda. O forse una festosa ghirlanda tra le cui spire risplendono piccoli lumicini azzurri. Sono solo alcune possibili interpretazioni di un’immagine che, invece, ritrae quel che resta alla fine di una stella. Una stella massiccia, molto più grande del nostro Sole. Di quelle che, una volta esaurito il carburante nucleare, fanno il botto – o, più tecnicamente, la supernova – rilasciando nelle loro immediate vicinanze una quantità di energia da far impallidire un’intera galassia. Quel che resta, si diceva, è un guscio di gas interstellare che, plasmato dal poderoso impatto e arricchito chimicamente dai nuovi elementi forgiati durante l’esplosione, si ricompatta sui lunghissimi tempi scala del cosmo dando luogo a forme curiose dai colori sgargianti.
Si chiama Cassiopeia A, Cas A per gli amici, ed è uno dei resti di supernova più affascinanti dell’intera volta celeste. Ci si sono cimentati tutti i grandi telescopi, da Hubble nelle lunghezze d’onda del visibile a Spitzer nell’infrarosso, fino a Xmm-Newton e Chandra nei raggi X. Eppure così, come l’ha svelato nell’aprile del 2023 il Mid-Infrared Instrument (Miri) a bordo del telescopio spaziale James Webb (Jwst), non l’avevamo ancora mai visto.
C’è infrarosso e infrarosso
«Uno dei motivi per cui questa è la mia preferita di Webb finora è perché si tratta di un’immagine solo di Miri, ovvero basata su lunghezze d’onda della luce infrarossa più lunghe di quelle che di solito vediamo nelle spettacolari immagini di NirCam, che invece riprendono la luce del vicino infrarosso», racconta a Media Inaf Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach allo Space Telescope Science Institute (Stsci) di Baltimora, tra gli artefici delle straordinarie immagini per il pubblico realizzate da Jwst. «Miri ha un campo visivo molto più piccolo rispetto a NirCam, quindi le immagini tendono ad avere una risoluzione molto più bassa, fornendoci di solito solo una piccola istantanea di una regione che potrebbe essere stata ripresa in modo più esteso con NirCam».
Joe DePasquale (a destra) con Alyssa Pagan e Quyen Hart durante una conferenza nello spazio immersivo di Artechouse, Washington Dc. Crediti: Stsci
Questa immagine di Cas A combina le osservazioni di ben sei filtri in dotazione a Miri, la fotocamera che scruta il cosmo nel medio infrarosso. Secondo DePasquale, le immagini più eclatanti di Jwst sono quasi sempre quelle realizzate da NirCam (di cui avevamo parlato nel primo episodio di questa serie) e spesso si può avere l’impressione che Miri viva nella sua ombra. «Per questo mi ha fatto piacere vederlo “brillare” in questa occasione», aggiunge. «Il team scientifico aveva progettato un programma di osservazione ambizioso per coprire l’intero resto di supernova con un mosaico di puntamenti di Miri, rendendo possibile questa immagine straordinaria ad alta risoluzione».
Al contrario di NirCam, sviluppato interamente da un team statunitense all’Università dell’Arizona, Miri è una collaborazione tra l’Europa e gli Stati Uniti. Dei quattro strumenti di Jwst, è l’unico che si spinge nei meandri dell’infrarosso, oltre i cinque micron. Ed è proprio qui che le cose iniziano a cambiare.
«La tecnologia della fotocamera è leggermente diversa e anche i processi fisici che osserviamo sono leggermente diversi rispetto al vicino infrarosso», spiega a Media Inaf Sarah Kendrew, astrofisica dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di stanza a Baltimora, dove guida il team di supporto scientifico dello strumento Miri a Stsci. «In generale, osservare a lunghezze d’onda maggiori significa che riceviamo più radiazione da oggetti più freddi, come le regioni in cui si formano le stelle, che quindi Miri può sondare in maniera più efficace. Inoltre, per le galassie molto distanti, a causa dell’espansione dell’universo parte della luce proveniente dalle stelle viene spinta nel medio infrarosso, quindi possiamo esplorare sempre più in profondità nella storia dell’universo».
Sarah Kendrew, Miri instrument & calibration scientist per Esa allo Space Telescope Science Institute di Baltimora. Crediti: Ben Rose Photography
Di nazionalità anglo-belga, cresciuta nelle Fiandre a un passo da Bruxelles, laurea e dottorato allo University College London, Kendrew lavora su Miri dal 2007, quando il lancio di Jwst era ancora previsto per lo scorso decennio. Allo Space Telescope Science Institute, insieme a un team di una ventina di persone, si occupa del buon funzionamento dello strumento e della calibrazione ottimale dei dati, ma anche di offrire supporto all’intera comunità astronomica per garantire che gli utenti possano ottenere i migliori dati possibili per la loro ricerca. «Circa una volta all’anno», ricorda, «pubblichiamo un grande documento con tutte le capacità disponibili per il prossimo anno, dando alla comunità tutti i requisiti per richiedere tempo su Jwst. Le persone devono scrivere una giustificazione scientifica molto forte per descrivere un esperimento, per esempio osservare un certo tipo di galassie o di stelle, o certi campi nel cielo per testare questa o quella teoria, e devono anche fornire una descrizione tecnica completa degli strumenti che vogliono utilizzare. Riceviamo migliaia di proposte ogni anno».
L’“altro” universo di Miri
Il lavoro di Kendrew e del suo team inizia già prima della scadenza: chiunque abbia domande su come implementare un certo programma osservativo con Miri, può contattare l’help desk e ricevere aiuto tecnico sulle capacità di Miri, per capire cosa è possibile fare con lo strumento. Le proposte vengono poi valutate dai revisori, che sono membri della comunità astronomica esperti in diversi campi, e alla fine del processo alle proposte migliori viene assegnato il tempo di osservazione sull’ambito telescopio.
«Abbiamo anche del tempo per fare ricerca, ovviamente mi piace particolarmente lavorare con i dati Miri, ma uso anche dati provenienti da altri strumenti», nota la ricercatrice. «Sono stata coinvolta da vicino in alcuni programmi che hanno esaminato esopianeti in transito davanti alla loro stella: stiamo imparando molto con Webb sulla fisica e la chimica nelle atmosfere degli esopianeti. Su questo, Miri si è dimostrato davvero capace».
Come scienziata, ama lavorare con le immagini grezze. «Dai uno sguardo speciale ai dati e capisci tutte le caratteristiche, la risposta dei diversi pixel, ogni minimo dettaglio: questo è un po’ il lavoro mio e del mio team. Ma per i miei programmi scientifici, a volte ho provato a realizzare qualche bella immagine per un articolo ed è davvero difficile», ammette. «Sono davvero felice che ci siano professionisti il cui compito è trasformare questi dati in bellissime immagini perché penso che sia estremamente importante il ruolo di queste immagini che rilasciamo regolarmente al pubblico, sia in termini di copertura mediatica ma anche per stimolare l’entusiasmo verso la scienza e la creatività, incoraggiando la gente a fare qualcosa con i dati».
La sua immagine preferita è quella dei “Pilastri della creazione”, una nebulosa nella costellazione del Serpente, la cui forma ricorda vagamente quella di tre dita di una mano, resa eterna negli anni Novanta dal decano dell’astrofisica spaziale, Hubble. Ovviamente Kendrew parla della versione di Miri. «Spesso trovo le immagini nel medio infrarosso più interessanti perché quelle nel vicino infrarosso si sovrappongono un po’ in copertura a quelle di Hubble, quindi spesso assomigliano molto a Hubble», chiarisce, «mentre il medio infrarosso, che non abbiamo mai avuto prima con una risoluzione spaziale simile, mostra proprio processi fisici diversi: si vedono molto di più il gas e la polvere».
I Pilastri della Creazione, osservati con gli strumenti Miri (in alto a sinistra) e NirCam (in alto a destra) di Jwst, e con la fotocamera Wfc3 di Hubble nel visibile (in basso a sinistra) e nel vicino infrarosso (in basso a destra). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci; fonte: @akaschs (X)
Alla classica immagine di Hubble in luce visibile, in cui la silhouette scura della nebulosa oscurava la luce delle giovani stelle che popolano quel “vivaio cosmico”, aveva fatto seguito vent’anni dopo un’altra foto, sempre di Hubble, nel vicino infrarosso, brulicante di astri nascenti come un bosco d’altri tempi illuminato dalle lucciole. E se la versione di NirCam ha perfezionato questa vista, grazie alla risoluzione e sensibilità senza precedenti di Jwst, è quella di Miri che rivela una nuova faccia della nebulosa.
«C’è molta polvere nel mezzo interstellare», sottolinea Kendrew, «e quella polvere assorbe la luce ottica e i raggi ultravioletti, mentre gli infrarossi tendono a propagarsi più facilmente attraverso la polvere. Con Miri poi puoi vedere molto di più attraverso la polvere, e non solo: se la polvere viene riscaldata dalle stelle, emette molto intensamente nel medio infrarosso, il che significa che puoi vedere il bagliore stesso della polvere». Le piace imbattersi in panorami dell’universo mai visti prima: certo, prima di Jwst c’era il telescopio spaziale Spitzer che copriva le stesse lunghezze d’onda di Miri, «ma aveva un diametro inferiore a un metro mentre Webb ha uno specchio da sei metri e mezzo: la risoluzione spaziale scala con il diametro dello specchio principale, quindi c’è un enorme salto di risoluzione tra i due».
Cassiopeia A osservata nei raggi X (blu) con Chandra e nel medio infrarosso (blu, verde, rosso) con Jwst/Miri e Spitzer. Le osservazioni sullo sfondo sono di Hubble. Crediti: Nasa/Cxc/Sao; Nasa/Esa/Stsci; Nasa/Esa/Csa/Stsci/Milisavljevic et al., Nasa/Jpl/CalTech; Elaborazione: J. Schmidt & K. Arcand
Anche DePasquale si diletta scoprendo nuovi dettagli di oggetti arcinoti nelle immagini di Miri. Per esempio, quella di Cas A, di cui aveva prodotto numerose immagini nel suo lavoro precedente, per il telescopio spaziale Chandra. «Cas A è uno degli obiettivi preferiti dell’astronomia a raggi X», precisa l’esperto di grafica astronomica, che come uno scultore ama il momento in cui apre per la prima volta un’immagine grezza, prima di scoprire – ed estrarre – il potenziale di bellezza di quei dati. «Guardare Cas A con Miri è stato come rivedere un vecchio amico in un modo completamente nuovo dopo anni di lontananza: anche gli astronomi con cui ho lavorato su questi dati sono rimasti sorpresi dalla grande “torre verdastra” crivellata di buchi e bolle che si vede nella regione centrale dell’immagine. È sicuramente uno dei miei risultati scientifici preferiti raggiunti da Jwst finora».
Tutti i colori di Jwst
Tra i ventinove filtri nel vicino infrarosso di NirCam e i nove nel medio infrarosso di Miri, Jwst può ammirare l’universo in trentotto colori – un’abilità essenziale per studiare le proprietà fisiche e chimiche di stelle, nebulose, galassie. Ma come trasformare questa ricca tavolozza in immagini che anche i nostri occhi possano apprezzare?
«Combinare i dati NirCam e Miri può essere molto impegnativo», afferma DePasquale. A cominciare dai campi visivi dei due strumenti, che sono alquanto diversi: molto ampio quello di NirCam, più ristretto quello di Miri. Un problema che si può aggirare combinando diverse osservazioni Miri in un mosaico, oppure mostrando la vista di Miri su un’area più piccola dell’immagine.
I Pilastri della Creazione in un’immagine composita che combina osservazioni delle due fotocamere di Jwst, NirCam e Miri. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, J. DePasquale (Stsci), A. Pagan (Stsci), A. M. Koekemoer (Stsci)
«Un altro approccio che ha prodotto risultati meravigliosi», prosegue, «è quello che chiamiamo Nir-Miri-Cam: trattare i dati di ciascuna fotocamera come singole immagini a colori e poi combinare i risultati». In questo caso, si usa sempre l’approccio cromatico, ma combinando le lunghezze d’onda più corte di NirCam con la più corta di Miri per creare il canale blu, e così via per i canali verde e rosso. «Questo ci consente di avere delle stelle con colori più “naturali”, poiché le stelle sono molto più brillanti nel vicino infrarosso mentre molte di loro scompaiono completamente nel medio infrarosso. Usando un metodo puramente cromatico, si ottiene un’immagine in cui molte stelle appaiono di un blu puro, il che sembra molto innaturale».
Spesso, per riferirsi a queste immagini, si parla di “falsi colori”, prendendo in prestito una terminologia che viene dalla fotografia. Storicamente, vengono definite “a colori naturali” le immagini a colori i cui filtri riproducono approssimativamente la sensitività dei coni umani – i recettori della luce nei nostri occhi, essenziali nella percezione dei colori – mentre si parla di “pseudocolori” quando non c’è una corrispondenza diretta tra i filtri scelti e i colori percepiti dall’occhio umano. Per Jwst, che osserva nell’infrarosso, la scelta è obbligata. Eppure c’è chi crede che questa scelta lessicale non sia la più adatta.
«La frase ‘immagine composita a falsi colori’ è utilizzata ampiamente in astronomia per descrivere immagini create assegnando colori a diverse lunghezze d’onda e fenomeni fisici che a volte sono invisibili all’occhio umano», commenta a Media Inaf Pedro Russo, professore di Astronomia e Società presso l’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. «L’uso del termine ‘falso’ deriva dal fatto che i colori di queste immagini non rappresentano i colori reali degli oggetti osservati, ma piuttosto sono scelti per evidenziare caratteristiche o proprietà diverse».
“I colori delle foto del telescopio spaziale James Webb sono finti. E va bene così” titola l’articolo di Sarah Braner su Slate a luglio 2022.
Questa ambiguità sulla natura dei colori ha destato grande curiosità da parte del pubblico sin dalla release delle prime immagini a colori di Jwst nel luglio 2022. Secondo Kendrew, che tiene spesso conferenze divulgative sui nuovi risultati scientifici dell’osservatorio, l’entusiasmo della gente per le notizie e le immagini è incredibile. «Riceviamo molte domande sui colori e su come si passa dai dati grezzi alle bellissime immagini, ma anche sulla loro interpretazione: cosa vediamo in queste immagini, cosa sappiamo su cosa sta accadendo, quanto sono lontane le cose che vediamo: il pubblico prova a contestualizzare, a immaginare, per capire davvero cosa sta guardando».
Benché non ci sia nulla di tecnicamente “falso” in queste immagini, il cui scopo è visualizzare qualcosa che l’occhio umano non può vedere – obiettivo, del resto, di qualsiasi telescopio – in un’epoca di fake news, bufale e complottismi, il vocabolario può effettivamente trarre in inganno. «In astronomia esiste una convenzione per assegnare questi colori, una grammatica per le immagini astronomiche», riflette Russo, «ma direi che abbiamo bisogno di un nome migliore per queste immagini: forse il termine ‘colore rappresentativo’, che è stato utilizzato in alcune comunità».
Non si tratta di un dibattito nuovo, in fondo. Dubbi e curiosità sui colori delle immagini astronomici pullulano il world wide web sin dall’introduzione della “Hubble palette”, la tecnica di elaborazione delle immagini del telescopio spaziale Hubble (di cui pure avevamo parlato nel primo episodio di questa serie). Alyssa Pagan, che insieme a DePasquale si occupa di elaborare le immagini di Jwst per il pubblico, si chiede cosa ci sia in fondo di speciale nella visione umana. «Esistono molti modi per esplorare e comprendere l’universo e i nostri occhi sono solo uno di essi, e piuttosto limitante», evidenzia Pagan. «Per esempio, sappiamo di avere uno scheletro, ma non possiamo vederlo senza l’aiuto dei raggi X; come ben sappiamo, ciò non rende le nostre ossa meno reali. Facciamo affidamento su svariate tecnologie per comprendere il nostro corpo, così come utilizziamo vari strumenti sensibili a diverse lunghezze d’onda per comprendere lo spazio. Pertanto, sostengo che queste immagini di Hubble e Webb siano in realtà una visione e una comprensione più completa del cosmo».
Quando una stella sembra proprio una stella
L’ubiquità delle immagini di Jwst nell’ecosistema mediatico digitale, la facilità di scaricare questi spettacolari ritratti dell’universo e di usarli come screensaver del nostro smartphone oppure di acquistare un poster o un capo d’abbigliamento sfolgorante di stelle all’infrarosso può a volte eclissare l’enorme sfida durata decenni, che ha coinvolto migliaia di persone in quattordici paesi per sviluppare, costruire e lanciare una macchina capace di catturare quei prodigiosi paesaggi celesti e portarli a Terra.
Confronto fra le immagini della stessa porzione della Grande Nube di Magellano osservata con la fotocamera infrarossa a 8 micron di Spizter (a sinistra) e con lo strumento per il medio infrarosso a 7.7 micron Miri di Webb (a destra). La nitidezza di quest’ultimo, seppur ancora in fase di test, è straordinaria Crediti: Nasa/Jpl-Caltech (Spitzer), Nasa/Esa/Csa/Stsci (Webb)
«Se osservi con un telescopio terrestre, puoi vederlo, è lì, puoi toccarlo», suggerisce Kendrew, «ma quando lanci qualcosa nello spazio diventa improvvisamente molto astratto perché non hai alcuna connessione fisica con esso. Poi quando ricevi i dati, quando guardi nei metadati che contengono tutte le informazioni, è sorprendente perché sì, quella foto è stata effettivamente scattata nello spazio, è stata inviata da lì».
La ricercatrice ricorda ancora il momento in cui il suo team ha ricevuto la prima immagine di Miri sul cielo, durante i sei mesi di commissioning tra il lancio e la prima release. «Lo vedevamo prima di chiunque altro, questa era davvero la prima volta che registravamo i fotoni delle stelle ma con lo strumento che avevamo costruito in tutti quegli anni», riconosce Kendrew. «Eravamo nervosi prima di queste prime immagini, qualcosa può sempre apparire in modo diverso rispetto al previsto, quindi è stato un grande traguardo ottenere i primi dati, le prime immagini e vedere che una stella appare davvero come una stella, pensando poi che l’osservatorio è nello spazio e che questi dati sono arrivati a noi da un milione e mezzo di chilometri di distanza».
Da quel punto lontano e freddo, che segue la Terra nella sua orbita intorno al sole, un raffinato congegno di metallo ed elettronica ci connette con l’universo più grande di cui facciamo parte. «La parte più emozionante di questo lavoro, oltre ad essere le prime persone al mondo a vedere come sarà l’immagine finita», confessa DePasquale, «è vedere l’impatto di queste immagini nel mondo, vedere il nostro lavoro visualizzato sugli schermi grandi quanto un edificio intero a Times Square, a Piccadilly Circus».
La mostra Jwst Universe all’Osservatorio antico di Leiden
Ma non si tratta solo di splendide fotografie. C’è molto di più. Pedro Russo, che ha curato la mostra immersiva Jwst Universe, attualmente visitabile presso l’Osservatorio antico di Leiden, sostiene che il pubblico sia ormai “visivamente” sopraffatto da immagini, video e ogni forma di contenuto digitale. «Quello che ha funzionato davvero bene alla mostra Jwst Universe è stato l’aspetto narrativo della scienza dietro le immagini», nota Russo. «Abbiamo coinvolto scienziati e ingegneri per raccontare la loro scienza e i risultati di Jwst. Nel comunicare l’astronomia al pubblico dobbiamo aggiungere uno strato di narrazione alle immagini, in modo da poter andare oltre la bellezza, oltre l’estetica. Le immagini attirano l’attenzione, ma solo le storie ottengono un coinvolgimento più profondo».
Sono le oltre milleseicento pubblicazioni scientifiche basate sui dati di Jwst, con tanto di molecole “che sanno di casa” scovate nelle atmosfere di esopianeti e buchi neri che non si sa come hanno fatto a recuperare tutta quella massa, che lo hanno già elevato, a due anni e mezzo dal lancio, al rango di leggenda. Certo, le centinaia di immagini regalate al pubblico di tutto il mondo hanno contribuito all’aura di sublime che ammanta la missione. «Rifletto molto sulla me del passato che si considerava una girovaga», conclude Pagan, «ma come in molte cose, nella vita e anche in astronomia, a volte devi solo fare un passo indietro e vedere il contesto più ampio, e tutto ritrova un senso».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “Image-Processing Techniques for the Creation of Presentation-Quality Astronomical Images” di Travis A. Rector, Zoltan G. Levay, Lisa M. Frattare, Jayanne English, and Kirk Pu’uohau-Pummill
- Segui lo speciale di Media Inaf dedicato a Jwst in technicolor
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Su Europa ed Encelado, chi cerca può trovare
Pennacchi, grandi e piccoli, spruzzano ghiaccio e vapore acqueo da molti punti vicino al polo sud della luna di Saturno, Encelado. Crediti: Nasa/Jpl/Istituto di Scienza dello Spazio
Chi di voi, magari affascinato da Avatar– il colossal di fantascienza di James Cameron – non ha mai pensato che il luogo migliore in cui cercare la vita potrebbe essere una luna, piuttosto che un pianeta, proprio come Pandora?
Ad esempio, è ormai risaputo che Europa, una delle lune di Giove, ed Encelado, una luna di Saturno, manifestano l’evidenza di oceani sotto le loro croste di ghiaccio. Ora, un esperimento della Nasa suggerisce che se questi oceani supportassero (o avessero supportato) la vita, le tracce di questa vita – sotto forma di molecole organiche (amminoacidi, acidi nucleici, ecc.) – potrebbero sopravvivere appena sotto la superficie ghiacciata, nonostante le forti radiazioni che arrivano su questi mondi. Quindi, se dei lander robotici venissero inviati su queste lune per cercare tali tracce, non dovrebbero scavare molto in profondità per trovare amminoacidi sopravvissuti all’alterazione o alla distruzione da parte delle radiazioni.
«Sulla base dei nostri esperimenti, la profondità di campionamento “sicura” per gli amminoacidi su Europa è di quasi 20 centimetri alle alte latitudini dell’emisfero opposto alla direzione del moto di Europa intorno a Giove, nell’area in cui la superficie non è stata molto disturbata dagli impatti dei meteoriti», dichiara Alexander Pavlov del Goddard Space Flight Center della Nasa, primo autore di un articolo pubblicato ieri su Astrobiology. «Su Encelado, invece, il campionamento del sottosuolo non è necessario per rilevare gli amminoacidi: queste molecole sopravvivono alla radiolisi (scomposizione per radiazioni) in qualsiasi punto della superficie di Encelado a meno di qualche millimetro dalla superficie».
Per affermarlo, il team di ricercatori ha utilizzato gli amminoacidi in esperimenti di radiolisi, quali possibili esempi di biomolecole presenti sulle lune ghiacciate.
Una vista di Europa catturata dalla JunoCam a bordo di Juno, durante il flyby ravvicinato della missione il 29 settembre 2022. Il nord è a sinistra. Le immagini hanno una risoluzione di poco superiore a 1-4 chilometri per pixel. Come per la Luna e la Terra, un lato di Europa è sempre rivolto verso Giove, ed è il lato di Europa visibile qui. La superficie di Europa è attraversata da fratture, creste e bande che hanno cancellato il terreno più vecchio di circa 90 milioni di anni. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRi/Msss/Kevin M. Gill
Gli amminoacidi possono essere creati dalla vita o da una chimica non biologica. Tuttavia, trovare certi tipi di amminoacidi sulle due lune costituirebbe una potenziale traccia biologica perché, sulla Terra, sono i mattoncini per costruire le proteine. Le proteine sono essenziali per la vita, in quanto vengono utilizzate per produrre enzimi che accelerano o regolano le reazioni chimiche, e per costruire strutture. Gli amminoacidi e altri composti provenienti dagli oceani sotterranei potrebbero essere portati in superficie dall’attività dei geyser o dal lento movimento della crosta ghiacciata.
Per valutare la sopravvivenza degli amminoacidi su questi mondi, il team ha mescolato campioni di amminoacidi con ghiaccio raffreddato a circa -196 gradi Celsius, in fiale sigillate e prive di aria, e li ha bombardati con raggi gamma a varie dosi. Poiché gli oceani potrebbero ospitare vita microscopica, i ricercatori hanno anche testato la sopravvivenza degli amminoacidi in batteri morti nel ghiaccio. Infine, hanno analizzato campioni di amminoacidi in ghiaccio mescolato con polvere di silicato per considerare l’effetto di un eventuale mescolamento di materiale proveniente da meteoriti (o dall’interno) con il ghiaccio di superficie.
Gli esperimenti hanno fornito dati fondamentali per determinare le velocità di distruzione degli amminoacidi, chiamate costanti di radiolisi. Con questi dati, sapendo l’età della superficie ghiacciata e l’ambiente radiativo di Europa ed Encelado, hanno calcolato la profondità di perforazione e le posizioni in cui il 10 per cento degli amminoacidi sarebbe sopravvissuto alla distruzione radiolitica.
Sebbene siano già stati condotti esperimenti per testare la sopravvivenza degli amminoacidi nel ghiaccio, questo è il primo a utilizzare dosi di radiazioni più basse che non distruggono completamente gli amminoacidi, poiché la loro semplice alterazione o degradazione sarebbe sufficiente a rendere impossibile determinare se si tratta di potenziali tracce di vita. Questo è anche il primo esperimento che considera le condizioni di Europa/Encelado per valutare la sopravvivenza di questi composti nei microrganismi e il primo a testare la sopravvivenza degli amminoacidi mescolati alla polvere.
Questa immagine mostra i campioni dell’esperimento caricati nel dewar appositamente progettato, che poco dopo verrà riempito di azoto liquido e posto sotto radiazioni gamma. Si noti che le provette sigillate sono avvolte in un tessuto di cotone per tenerle insieme, perché altrimenti galleggiare nell’azoto liquido e inizierebbero a fluttuare nel dewar, interferendo con la corretta esposizione alle radiazioni. Crediti: Candace Davison
Gli autori hanno scoperto che gli amminoacidi si degradano più velocemente se mescolati alla polvere, ma più lentamente se provenienti da microrganismi. «I lenti tassi di distruzione degli amminoacidi nei campioni biologici in condizioni superficiali simili a quelle di Europa e di Encelado rafforzano l’ipotesi di future misurazioni per l’individuazione di vita da parte di missioni con lander su Europa e Encelado», conclude Pavlov. «I nostri risultati indicano che i tassi di degradazione delle potenziali biomolecole organiche nelle regioni ricche di silice, sia su Europa che su Encelado, sono più elevati rispetto a quelli del ghiaccio puro e, pertanto, eventuali future missioni su Europa ed Encelado dovrebbero essere caute nel campionare i luoghi ricchi di silice, su entrambe le lune ghiacciate».
Una possibile spiegazione del motivo per cui gli amminoacidi sono sopravvissuti più a lungo nei batteri riguarda il modo in cui le radiazioni ionizzanti modificano le molecole: direttamente rompendo i loro legami chimici o indirettamente creando composti reattivi nelle vicinanze, che poi alterano o rompono la molecola di interesse. È possibile che il materiale cellulare batterico abbia protetto gli amminoacidi dai composti reattivi prodotti dalle radiazioni.
Quindi, assolutamente sì ai lander robotici sulle lune ghiacciate ma attenzione a dove si fanno arrivare.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrobiology l’articolo “Radiolytic Effects on Biological and Abiotic Amino Acids in Shallow Subsurface Ices on Europa and Enceladus” di Alexander A. Pavlov, Hannah McLain, Daniel P. Glavin, Jamie E. Elsila, Jason Dworkin, Christopher H. House e Zhidan Zhang
Ventuno stelle come il Sole, ma con una compagna
Questa animazione rappresenta un sistema stellare binario in cui una stella di neutroni massiccia e compatta orbita attorno a una stella più grande simile al Sole. L’intensa gravità di questa stella di neutroni produce significativi effetti di deformazione che distorcono la vista del cielo intorno a essa, come accade intorno ai buchi neri. Crediti: Caltech/R. Hurt (Ipac)
La maggior parte delle stelle nell’universo si presenta in coppia. Il Sole se ne sta per i fatti suoi, ma molte altre stelle come lui orbitano attorno a compagne simili. Esistono anche coppie più esotiche, come quelle composte da buchi neri. Ce n’è una, di coppie, che si è rivelata piuttosto rara: quella che vede una stella simile al Sole insieme a una stella di neutroni. Ora un gruppo internazionale di astronomi guidati da Kareem El-Badry del Caltech ha scoperto quelle che sembrano essere ventuno stelle di neutroni che orbitano in sistemi binari con stelle come il Sole. Ventuno di queste strane e rare coppie.
Le stelle di neutroni sono sfere perfette di densità inimmaginabili, con frequenze di rotazione altissime e temperature e campi magnetici estremamente elevati. Sono tra gli oggetti più affascinanti della fisica, nate dall’ultimo atto della luminosa e frenetica vita di una stella massiccia, nonché dal catastrofico processo che ne rivela la morte: l’esplosione di una supernova.
In questi curiosi sistemi binari, i due oggetti orbitano reciprocamente intorno a un comune centro di massa. Orbitando, le stelle di neutroni attirano verso di sé le compagne, facendole spostare avanti e indietro nel cielo. Queste piccole oscillazioni sono state misurate con grande precisione dalla missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea, rivelando una nuova popolazione di stelle di neutroni oscure.
«Gaia scansiona continuamente il cielo e misura le oscillazioni di oltre un miliardo di stelle, quindi le probabilità di trovare oggetti molto rari sono buone», spiega El-Badry.
Lo studio che raccoglie i risultati di questa scoperta è stato pubblicato su The Open Journal for Astrophysics. I dati provenienti da diversi telescopi a terra – tra cui l’Osservatorio W. M. Keck di Maunakea, nelle Hawaii, l’Osservatorio di La Silla, in Cile, e l’Osservatorio Whipple, in Arizona – sono stati utilizzati per fare un follow-up delle osservazioni di Gaia e conoscere meglio le masse e le orbite delle stelle di neutroni nascoste.
Sebbene in passato siano state rilevate stelle di neutroni in orbita attorno a stelle come il Sole, quei sistemi erano tutti più compatti. Quando la distanza tra questi due corpi è ridotta, la stella di neutroni può sottrarre massa alla sua compagna più leggera. Questo processo di trasferimento di massa fa sì che la stella di neutroni brilli alle lunghezze d’onda dei raggi X o nelle onde radio. Al contrario, le stelle di neutroni oggetto del nuovo studio sono molto più lontane dalle loro compagne, dell’ordine di una o tre volte la distanza tra la Terra e il Sole. Ciò significa che questi “cadaveri stellari” sono troppo lontani dalle loro compagne per rubare loro materia. Sono quiescenti e bui. «Sono le prime stelle di neutroni scoperte solo grazie ai loro effetti gravitazionali», aggiunge El-Badry.
Gli astronomi hanno scoperto 21 stelle come il Sole in orbita attorno a stelle di neutroni. Sebbene le stelle di neutroni siano più pesanti di quelle simili al Sole, i due oggetti orbitano intorno a un comune centro di massa. Le stelle di neutroni fanno oscillare le compagne e Gaia ha rilevato questa oscillazione osservando le orbite delle stelle simili al Sole (punti gialli) per un periodo di tre anni. In questa animazione le stelle simili al Sole sono verdi, mentre le stelle di neutroni (e le loro orbite) sono viola. Crediti: Caltech/Kareem El-Badry
La scoperta è stata un po’ una sorpresa, perché non è chiaro come una stella esplosa finisca accanto a una stella come il Sole, o viceversa. «Non abbiamo ancora un modello completo di come si formano queste binarie», dice El-Badry. «In linea di principio, la progenitrice della stella di neutroni dovrebbe essere diventata enorme e aver interagito con la stella di tipo solare durante la sua ultima fase evolutiva». L’astro, così grande, dovrebbe aver fatto oscillare la piccola stella, probabilmente inghiottendola. In seguito, il progenitore della stella di neutroni dovrebbe essere esploso in una supernova che, secondo i modelli, avrebbe dovuto slegare i sistemi binari, facendo precipitare le stelle di neutroni e le stelle di tipo solare in direzioni opposte. «La scoperta di questi nuovi sistemi dimostra che almeno alcune binarie sopravvivono a questi processi cataclismici, anche se i modelli non sono ancora in grado di spiegarne appieno le modalità».
Gaia è stata in grado di trovare le improbabili compagne grazie alle loro ampie orbite e ai loro lunghi periodi (le stelle simili al Sole orbitano intorno alle stelle di neutroni con periodi compresi tra sei mesi e tre anni). «Se i corpi sono troppo vicini, l’oscillazione sarà troppo piccola per essere rilevata», aggiunge El-Badry. «Con Gaia siamo più sensibili alle orbite più ampie». Gaia è anche più sensibile alle binarie relativamente vicine. La maggior parte dei sistemi appena scoperti si trova entro i tremila anni luce dalla Terra, una distanza relativamente piccola se paragonata, ad esempio, al diametro di centomila anni luce della nostra galassia.
Le nuove osservazioni suggeriscono anche quanto siano rare queste coppie. «Stimiamo che circa una stella di tipo solare su un milione orbiti attorno a una stella di neutroni in un’orbita ampia», dice il ricercatore.
I ricercatori sono anche interessati a trovare buchi neri quiescenti, invisibili, in orbita a stelle simili al Sole. Utilizzando i dati di Gaia, hanno trovato due di questi buchi neri “silenziosi” nascosti nella nostra galassia. Uno, chiamato Gaia Bh1 (scoperto dal primo autore dello studio nel 2022), è il buco nero più vicino alla Terra, a 1.600 anni luce di distanza. «Non sappiamo con certezza nemmeno come si siano formati questi buchi neri binari», conclude El-Badry. «Ci sono chiaramente delle lacune nei nostri modelli di evoluzione delle stelle binarie. Trovare altri compagni oscuri e confrontare le statistiche della loro popolazione con le previsioni di diversi modelli ci aiuterà a capire come si formano».
Per saperne di più:
- Leggi su The Open Journal for Astrophysics l’articolo “A population of neutron star candidates in wide orbits from Gaia astrometry” di Kareem El-Badry, Hans-Walter Rix, David W. Latham, Sahar Shahaf, Tsevi Mazeh, Allyson Bieryla, Lars A. Buchhave, René Andrae, Natsuko Yamaguchi, Howard Isaacson, Andrew W. Howard, Alessandro Savino Ilya V. Ilyin
Cuore e polmoni d’una galassia ne allungano la vita
Illustrazione artistica che mostra i getti di materia ed energia emessi dai poli di un buco nero supermassiccio al centro di una galassia attiva. Crediti: Esa/Hubble, L. Calçada (Eso)
Le galassie sono isole di stelle che galleggiano su un mare di gas, polveri e materia oscura. La loro crescita ed evoluzione dipende dalla loro capacità di formare nuove stelle, un processo che utilizza come materia prima il gas freddo e le polveri presenti nel mezzo interstellare, negli aloni di gas associati, il cosiddetto mezzo circumgalattico, e il gas che esse accrescono dal mezzo intergalattico. A fronte di abbondanti quantità di questo materiale, gli astronomi hanno tuttavia stimato che il tasso di formazione stellare di molte galassie attive, cioè quelle contenenti al centro un buco nero supermassiccio che sta ingurgitando materia, è inferiore al previsto. In pratica, è come se ci fosse qualcosa che soffoca il loro enorme potenziale di crescita, limitando la quantità di gas che collassa a formare nuove stelle.
Secondo un nuovo studio condotto da due ricercatori dell’Università di Kent, nel Regno unito, i cui risultati sono pubblicati la scorsa settimana su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, questo qualcosa è proprio il buco nero supermassiccio che alberga al centro delle galassie, e in particolare i potenti deflussi di materia ed energia – i cosiddetti getti – che questi mostri ingordi di materia emettono dai loro poli.
I ricercatori sono arrivati a questa conclusione valutando l’effetto che queste esplosioni di materia ed energia hanno sull’evoluzione dell’ambiente galattico. Il loro obbiettivo era quello di determinare se esistono configurazioni di getti in grado di alterare l’afflusso di gas in entrata in una galassia, inibendo in questo modo la formazione stellare. Per far ciò hanno condotto una serie di simulazioni utilizzando come input un ambiente a densità costante e un’ampia gamma di parametri dei getti, come ad esempio l’ampiezza e la frequenza del rilascio di energia e materia di queste emissioni. I risultati delle simulazioni suggeriscono che sì: esistono configurazioni particolari dei getti in grado di rallentare l’accrescimento di gas di una galassia.
La configurazione in questione è quella di un getto supersonico a potenza pulsante, cioè un getto il cui rilascio di energia e materia non è costante nel tempo. Più in dettaglio, ciò che le simulazioni rivelano è che i getti pulsanti emessi dai buchi neri supermassicci danno origine a fronti d’onda d’urto che oscillano avanti e indietro, propagandosi lungo gli assi del getto.
media.inaf.it/wp-content/uploa… | Simulazione che mostra le onde di pressione prodotte da un getto pulsante che si propagano nel mezzo extragalattico. Ogni getto entra da sinistra con una pressione che diminuisce rapidamente man mano che si propaga verso l’ambientale circostante. Crediti: C Richards/M.D. Smith/University of Kent |
I fronti d’onda, spiegano i ricercatori, creano onde di pressione, simili a increspature in uno stagno, che trasportano grandi quantità di moto ed energia fuori dal getto. Quest’energia è alla base del riscaldamento del gas circostante, ciò non solo limita la quantità di gas freddo disponibile all’interno della galassia per formare nuove stelle, ma inibisce anche il flusso in entrata nella galassia stessa.
La durata della vita di una galassia può essere estesa con l’aiuto del suo “cuore” e dei suoi “polmoni”, sottolineano a questo proposito i ricercatori. Il cuore è il buco nero supermassicio al centro della galassia, i polmoni sono i getti: il primo crea impulsi di materia ed energia; i secondi espirano questa materia e l’energia nel mezzo circostante, limitando la quantità di gas freddo disponibile per formare nuove stelle. Questo, concludono i ricercatori, ha contribuito a creare le galassie che vediamo oggi. Senza un simile meccanismo oggi vedremmo solo enormi galassie “zombie” che pullulano di stelle morte e morenti.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Simulations of pulsed overpressure jets: formation of bellows and ripples in galactic environments” di Carl Richards e Michael D. Smith
Gigante, gassoso, eccezionalmente eccentrico
Rappresentazione artistica dell’orbita straordinariamente eccentrica di Tic 241249530 b. Crediti: Abigail Minnich/Penn State
L’orbita di un pianeta, ci insegna Keplero, non descrive un cerchio ma piuttosto un’ellisse, della quale il Sole occupa uno dei due fuochi. Legge che vale anche per i pianeti extrasolari, almeno per quelli che si trovano in sistemi con una stella soltanto. Ma un’ellisse schiacciata quanto? Il parametro che misura lo “schiacciamento” si chiama eccentricità, e può andare da zero – quando in effetti l’ellisse coincide con una circonferenza – a uno – vale a dire un segmento. L’eccentricità delle orbite planetarie è molto variabile: quella della Terra, per esempio, è inferiore a 0.02, mentre quella di Plutone è quasi 0.25. Ebbene, è di ieri la notizia – pubblicata su Nature – della scoperta di un esopianeta con un’eccentricità orbitale da record: ben 0.94. La più grande mai registrata per pianeti transitanti, vale a dire osservabili mentre transitano davanti alla loro stella.
A seguire quest’orbita da cetriolo è Tic 241249530 b, un gigante gassoso circa cinque volte più massiccio di Giove scoperto nel gennaio del 2020, a oltre mille anni luce da noi, dal telescopio spaziale Tess della Nasa. La sua eccentricità è stata calcolata nel corso di osservazioni successive – analizzando le variazioni della velocità radiale della stella ospite, attorno alla quale compie una rivoluzione ogni 167 giorni – condotte con il telescopio terrestre Wiyn da 3,5 metri del Kitt Peak National Observatory.
Se questo pianeta facesse parte del Sistema solare, la sua orbita si estenderebbe da una distanza minima dal Sole dieci volte più piccola di quella di Mercurio fino a raggiungere, nel punto più lontano, una distanza pari a quella Sole-Terra. Una variazione così grande da rendere enorme anche l’escursione termica fra i due estremi: mentre qui sulla Terra la differenza di temperatura tra afelio e perielio è praticamente irrilevante – tanto che quest’anno la massima distanza dal Sole l’abbiamo raggiunta il cinque luglio scorso, quando nel nostro emisfero certo non si pativa il freddo – su Tic 241249530 b all’afelio c’è una temperatura relativamente mite, più o meno come nelle nostre giornate estive, ma al perielio diventa rovente al punto da fondere il titanio.
Rappresentazione artistica di Tic 241249530 b. Crediti: Noirlab/Nsf/Aura/J. Da Silva (Spaceengine)
Il team che ha firmato la scoperta, guidato da Arvind Gupta del NoirLab, che ha condotto la ricerca mentre era dottorando alla Penn State, si è anche accorto di un’altra particolarità del moto orbitale di Tic 241249530 b: è retrogrado, ovvero corre in direzione opposta alla rotazione della sua stella ospite. Si tratta di un fenomeno piuttosto raro: nessun pianeta del Sistema solare segue un’orbita retrograda, e anche fra gli esopianeti è una caratteristica insolita.
Grazie ai dati raccolti dai due telescopi e a una serie di simulazioni della dinamica orbitale del sistema, gli autori dello studio sono giunti a determinare che la stella primaria orbita a sua volta intorno a una stella secondaria, come parte di un sistema stellare binario, e che l’orbita altamente eccentrica e retrograda del pianeta suggerisce che sia probabilmente destinato a diventare un cosiddetto gioviano caldo – vale a dire un pianeta con massa paragonabile a quella del nostro Giove ma con un’orbita strettissima attorno alla propria stella. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, più che l’orbita retrograda o il record d’eccentricità in sé, ad aver suscitato l’interesse degli autori dello studio, perché potrebbe finalmente offrire una prova osservativa della teoria secondo la quale i gioviani caldi si formerebbero nel corso di un processo di migrazione dall’esterno verso l’interno del proprio sistema planetario, man mano che la loro orbita si restringe e diventa sempre più circolare.
«È da più di vent’anni che siamo in cerca di un esopianeta precursore di un gioviano caldo, o almeno di un oggetto intermedio del processo di migrazione, quindi sono molto sorpreso – ed emozionato – di averne trovato uno», dice a questo riguardo Gupta. «Anche se non è esattamente come premere il tasto rewind e assistere al processo di migrazione planetaria in tempo reale, questo esopianeta ci mostra una sorta di istantanea del processo di migrazione. È molto difficile trovare un pianeta come questo, ora speriamo che possa aiutarci a svelare la storia della formazione dei gioviani caldi».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A hot-Jupiter progenitor on a super-eccentric retrograde orbit”, di Arvind F. Gupta, Sarah C. Millholland, Haedam Im, Jiayin Dong, Jonathan M. Jackson, Ilaria Carleo, Jessica Libby-Roberts, Megan Delamer, Mark R. Giovinazzi, Andrea S. J. Lin, Shubham Kanodia, Xian-Yu Wang, Keivan Stassun, Thomas Masseron, Diana Dragomir, Suvrath Mahadevan, Jason Wright, Jaime A. Alvarado-Montes, Chad Bender, Cullen H. Blake, Douglas Caldwell, Caleb I. Cañas, William D. Cochran, Paul Dalba, Mark E. Everett, Pipa Fernandez, Eli Golub, Bruno Guillet, Samuel Halverson, Leslie Hebb, Jesus Higuera, Chelsea X. Huang, Jessica Klusmeyer, Rachel Knight, Liouba Leroux, Sarah E. Logsdon, Margaret Loose, Michael W. McElwain, Andrew Monson, Joe P. Ninan, Grzegorz Nowak, Enric Palle, Yatrik Patel, Joshua Pepper, Michael Primm, Jayadev Rajagopal, Paul Robertson, Arpita Roy, Donald P. Schneider, Christian Schwab, Heidi Schweiker, Lauren Sgro, Masao Shimizu, Georges Simard, Guðmundur Stefánsson, Daniel J. Stevens, Steven Villanueva, John Wisniewski, Stefan Will e Carl Ziegler
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Nel battito delle pulsar, tracce di materia oscura
Illustrazione artistica di una stella di neutroni in rapida rotazione che emette luce radio dai suoi poli magnetici. Quando la rotazione della stella proietta questa luce verso la Terra, la stella di neutroni può essere rivelata come una pulsar radio. Crediti: Nasa Goddard/Walt Feimer
Tutti la cercano, ma nessuno la trova. Non riflette, assorbe o irradia luce, almeno non abbastanza da poterla rilevare. La sua vera natura è ancora un mistero, eppure esiste, lo dimostrano i suoi effetti gravitazionali sulla materia visibile. L’avrete capito, stiamo parlando della materia oscura. Una nuova ricerca mostra ora come trovare ulteriori evidenze della sua presenza, scoprendo quelli che potrebbero essere potenziali oggetti fatti di questa pasta.
Per rivelare la sfuggente materia oscura, John LoSecco, scienziato dell’Università di Notre Dame (Usa), e il suo team hanno sfruttato le pulsar, stelle di neutroni estremamente dense e in rapida rotazione. E in particolare una loro peculiare caratteristica: la capacità di emettere a intervalli regolari onde radio durante il loro vorticare su sé stesse, il che ne fa dei veri e propri orologi cosmici. «La scienza ha sviluppato metodi molto precisi per misurare il tempo», dice a questo proposito LoSecco, che ha presentato i risultati della sua ricerca nei giorni scorsi al National Astronomy Meeting (Nam2024) della Royal Astronomical Society (Regno Unito). «Sulla Terra abbiamo gli orologi atomici, nello spazio ci sono le pulsar».
Misurando i tempi di arrivo degli impulsi delle pulsar, possiamo saperne di più sulle pulsar stesse, su come gli impulsi si sono propagati nello spazio e – grazie alla relatività generale, e in particolare al ritardo relativistico indotto dalla presenza di un campo gravitazionale lungo il tragitto percorso della radiazione elettromagnetica – perfino se c’è qualcosa tra questi oggetti celesti e l’osservatore.
Per la misurazione dei tempi di arrivo degli impulsi sui radiotelescopi terrestri, LoSecco si è servito dei dati relativi a un ampio campione di pulsar raccolti dal progetto Ppta, sfruttando il radiotelescopio australiano di Parkes, tramite una tecnica nota come pulsar timing array. Passando al setaccio i dati della seconda release di questa survey, e in particolare i dati relativi ai tempi di arrivo degli impulsi di un set di 65 pulsar al millisecondo, LoSecco ha osservato ritardi significativi nei tempi di emissione radio in 12 di queste trottole spaziali. Per lo scienziato, queste variazioni hanno precisa spiegazione: la presenza di masse di materia invisibile situata da qualche parte tra le pulsar e i radiotelescopi. Masse che potrebbero essere oggetti candidati a spiegare la materia oscura.
Le variazioni nei battiti delle pulsar che sono dovute alla materia oscura, osserva LoSecco, hanno una forma ben definita e una dimensione proporzionale alla massa dell’oggetto. Ad esempio, una massa paragonabile a quella del Sole potrebbe introdurre un ritardo nei tempi di arrivo degli impulsi di circa 10 microsecondi, cioè 10 milionesimi di secondo. Le osservazioni effettuate da LoSecco hanno una risoluzione temporale dell’ordine dei nanosecondi, dunque 10mila volte più breve. «Uno dei nostri risultati suggerisce che una delle variazioni osservate sia causata da una massa che è il 20 per cento di quella del Sole», sottolinea LoSecco. «Questa massa potrebbe potrebbe essere un candidato oggetto di materia oscura».
La ricerca di LoSecco potrebbe contribuire a comprendere meglio la materia oscura e la sua distribuzione nella nostra galassia. E ha anche una non trascurabile ricaduta per quello che è lo scopo principale del Pulsar Timing Array, ovvero la ricerca di onde gravitazionali: a questo fine, infatti, il contributo dovuto a eventuali oggetti di materia oscura al ritardo degli impulsi delle pulsar rappresenta null’altro che rumore. Riuscire dunque a individuarlo permette di migliorare la qualità dei dati stessi. «La vera natura della materia oscura è un mistero. Questa ricerca getta nuova luce sulla sua natura e sulla sua distribuzione nella Via Lattea, e potrebbe migliorare l’accuratezza dei dati di timing», conclude infatti LoSecco.
Jwst studia le eterne albe e tramonti di Wasp-39 b
Rappresentazione artistica dell’esopianeta Wasp-39 b in base alle osservazioni indirette del transito effettuate da Jwst e da altri telescopi spaziali e terrestri. I dati raccolti dal NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) mostrano le variazioni tra l’atmosfera del crepuscolo mattutino e di quello serale. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Wasp-39 b è un gigante gassoso con un diametro 1,3 volte superiore a quello di Giove e una massa simile a quella di Saturno, che orbita attorno a una stella distante circa 700 anni luce dalla Terra. Così come la Luna rispetto alla Terra, rivolge verso la sua stella sempre la stessa faccia. Quindi un lato del pianeta è sempre esposto al “suo sole”, mentre l’altro è sempre avvolto dall’oscurità. La linea di demarcazione tra luce e buio è chiamata terminatore o, più romanticamente, zona del crepuscolo. E il crepuscolo può essere serale o mattutino.
Date queste premesse, utilizzando NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) del telescopio spaziale James Webb, gli astronomi hanno confermato una differenza di temperatura tra il crepuscolo serale e quello mattutino, entrambi eterni su Wasp-39 b, con il crepuscolo serale che appare più caldo di circa 200 gradi Celsius. Hanno anche trovato prove di una diversa copertura nuvolosa, con la zona interessata dal crepuscolo mattutino probabilmente più nuvolosa di quella serale. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature.
Per ottenere questa conferma hanno analizzato lo spettro di trasmissione del pianeta da 2 a 5 micron, confrontando la luce stellare filtrata attraverso l’atmosfera del pianeta che si muove davanti alla stella, con la luce stellare non filtrata rilevata quando il pianeta si trova accanto alla stella. Facendo questo confronto, è possibile ottenere informazioni sulla temperatura, sulla composizione e su altre proprietà dell’atmosfera del pianeta.
«Wasp-39 b è diventato una sorta di pianeta di riferimento per lo studio dell’atmosfera degli esopianeti con Webb», dichiara Néstor Espinoza, dello Space Telescope Science Institute e primo autore dello studio. «Ha un’atmosfera gonfia – puffy – quindi il segnale proveniente dalla luce stellare filtrata attraverso l’atmosfera del pianeta è piuttosto forte».
Questo spettro di trasmissione, acquisito con la modalità NirSpec Prism di Webb, mostra l’intensità alle diverse lunghezze d’onda (colori) della luce stellare nel vicino infrarosso bloccate dall’atmosfera del gigante gassoso Wasp-39 b. Lo spettro mostra una chiara evidenza di acqua e anidride carbonica e una variazione di temperatura tra la mattina e la sera sull’esopianeta. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Gli spettri Webb dell’atmosfera di Wasp-39 b già pubblicati precedentemente – che hanno rivelato la presenza di anidride carbonica, anidride solforosa, vapore acqueo e sodio – sono relativi a tutta la zona di confine tra il giorno e la notte. Non c’è mai stato alcun tentativo di differenziare tra un lato e l’altro. Ora, la nuova analisi costruisce due diversi spettri dalla regione del terminatore, dividendo essenzialmente il confine giorno/notte in due semicerchi, quello della sera e quello del mattino. I dati rivelano che la sera è significativamente più calda, 800 gradi Celsius, mentre la mattina è relativamente più fresca, 600 gradi Celsius.
«È davvero sbalorditivo che siamo riusciti a distinguere questa piccola differenza, ed è stato possibile solo grazie alla sensibilità di Webb alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso e ai suoi sensori fotometrici estremamente stabili», afferma Espinoza. «Qualsiasi piccolo movimento nello strumento o nell’osservatorio durante la raccolta dei dati avrebbe limitato fortemente la nostra capacità di effettuare questa rilevazione. Deve essere straordinariamente preciso, e Webb lo è».
Un’estesa modellazione dei dati ottenuti permette ai ricercatori di studiare la struttura dell’atmosfera di Wasp-39 b, la copertura nuvolosa e il motivo per cui la sera è più calda. In futuro gli astronomi cercheranno di capire come la copertura nuvolosa possa influenzare la temperatura, e viceversa. Per ora lo studio ha confermato che la circolazione dei gas intorno al pianeta è la principale responsabile della differenza di temperatura su Wasp-39 b.
Su un esopianeta così fortemente irradiato come Wasp-39 b, che orbita relativamente vicino alla sua stella, ci si aspetta che il gas si muova mentre il pianeta ruota intorno alla sua stella: il gas più caldo dal lato giorno dovrebbe spostarsi verso il lato notte grazie a una potente corrente a getto equatoriale. Poiché la differenza di temperatura è così estrema, anche la differenza di pressione dell’aria si presume sia significativa, il che a sua volta causa un’elevata velocità del vento.
Una curva di luce di NirSpec mostra la variazione di luminosità del sistema stellare nel corso del tempo, mentre il pianeta transitava sulla stella. Questa osservazione è stata effettuata utilizzando la modalità “bright object time-series”, che utilizza un reticolo per diffondere la luce di un singolo oggetto luminoso (come la stella ospite di Wasp-39 b) e misurare la luminosità di ciascuna lunghezza d’onda della luce a intervalli di tempo prestabiliti. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Utilizzando i modelli di circolazione generale – modelli tridimensionali simili a quelli usati per prevedere i modelli meteorologici sulla Terra – i ricercatori hanno scoperto che su Wasp-39 b i venti prevalenti si muovono probabilmente dal lato notturno attraverso il terminatore mattutino, intorno al lato giorno, attraverso il terminatore serale e poi intorno al lato notte. Di conseguenza, il lato mattutino del terminatore è più freddo di quello serale. In altre parole, il lato del mattino viene investito da venti di aria che si è raffreddata nel lato notte, mentre la sera viene colpita da venti di aria riscaldata sul lato giorno. La ricerca suggerisce che la velocità del vento su Wasp-39 b può raggiungere migliaia di chilometri all’ora.
«Questa analisi è particolarmente interessante anche perché si ottengono informazioni tridimensionali sul pianeta che prima non si avevano», afferma Espinoza. «Poiché possiamo dire che il bordo serale è più caldo, significa che è un po’ più puffy. Quindi, in teoria, c’è una piccola mareggiata al terminatore che si avvicina al lato notturno del pianeta».
«Grazie al Jwst stiamo studiando le atmosfere degli esopianeti con una precisione e un dettaglio che prima non erano possibili», conclude Luigi Mancini, professore associato all’Università di Roma Tor Vergata e associato Inaf, che lavora nel campo degli esopianeti da più di 15 anni ed è scopritore e co-scopritore di più di 100 pianeti con varie tecniche osservative e vari strumenti. «Questo nuovo studio del pianeta di tipo Saturniano Wasp-39b aggiunge un nuovo tassello al quadro che stiamo lentamente costruendo per capire l’astrofisica delle atmosfere esoplanetarie e che ci permetterà un giorno di classificare i pianeti in classi spettrali così come facciamo da oltre un secolo per le stelle».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Inhomogeneous terminators on the exoplanet WASP-39 b” di Néstor Espinoza, Maria E. Steinrueck, James Kirk, Ryan J. MacDonald, Arjun B. Savel, Kenneth Arnold, Eliza M.-R. Kempton, Matthew M. Murphy, Ludmila Carone, Maria Zamyatina, David A. Lewis, Dominic Samra, Sven Kiefer, Emily Rauscher, Duncan Christie, Nathan Mayne, Christiane Helling, Zafar Rustamkulov, Vivien Parmentier, Erin M. May, Aarynn L. Carter, Xi Zhang, Mercedes López-Morales, Natalie Allen, Jasmina Blecic, Leen Decin, Luigi Mancini, Karan Molaverdikhani, Benjamin V. Rackham, Enric Palle, Shang-Min Tsai, Eva-Maria Ahrer, Jacob L. Bean, Ian J. M. Crossfield, David Haegele, Eric Hébrard, Laura Kreidberg, Diana Powell, Aaron D. Schneider, Luis Welbanks, Peter Wheatley, Rafael Brahm & Nicolas Crouzet
Così la Terra ha ottenuto la sua acqua
Circa il 70 per cento della superficie del nostro pianeta è ricoperta d’acqua. Una domanda che si pongono da tempo gli scienziati è da dove provenga tutta quest’acqua. Una certa quantità probabilmente era già presente sul nostro pianeta al momento della sua formazione. Ma da dove giunge tutto il resto?
La Terra vista dall’equipaggio dell’Apollo 17. L’iconico scatto è conosciuto col nome di “Blue Marble”, biglia blu. Crediti: Nasa
Una risposta al quesito arriva adesso dallo studio di diverse meteoriti, tra le quali la meteorite di Flensburg, caduta sulla Terra il 12 settembre 2019. Le analisi condotte su questi pezzi di roccia da un team di ricercatori guidati dall’Università di Heidelberg, in Germania, suggeriscono che a portare copiose quantità del prezioso liquido sul nostro pianeta sarebbero stati piccoli planetesimi formatisi in una fase successiva dell’evoluzione del Sistema solare primordiale nella sua parte più esterna. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports, una rivista del gruppo Nature.
La storia del Sistema solare è cominciata circa 4.6 miliardi di anni fa, quando il materiale della nebulosa solare ha plasmato la struttura di base del nostro sistema planetario, formando il Sole e i pianeti. Quest’ultimi, in particolare, sono emersi dai cosiddetti planetesimi, aggregati di grani di polveri e gas che, continuando ad accrescere materia, hanno formato corpi di dimensioni via via maggiori. In pratica, i planetesimi costituiscono uno stadio intermedio di aggregazione delle polveri e dei gas della nebulosa solare primordiale che nel corso di milioni di anni ha portato alla formazione dei pianeti, la Terra compresa.
Le circostanze esatte nelle quali questi planetesimi si sono formati non sono ancora state chiarite definitivamente. Informazioni importanti a questo proposito si possono però ottenere dalla datazione isotopica di alcune classi di meteoriti, pezzi di roccia che a un certo punto si sono separati da questi piccoli pianeti. Ed è sempre dallo studio di queste meteoriti che possiamo avere indicazioni su come sia arrivata l’acqua sulla Terra.
È quello che hanno fatto Vladimir Neumann, ricercatore dell’Università di Heidelberg, in Germania, e il suo team. Nella loro ricerca, gli scienziati si sono concentrati su diverse meteoriti, e in particolare su quella nota come meteorite di Flensburg, un pezzo di roccia caduto nella Germania settentrionale il 12 settembre 2019. Si tratta di una rara condrite carbonacea con un diametro compreso tra 3.5 e 3.7 centimetri e un peso di poco meno di 25 grammi.
L’obiettivo dei ricercatori era quello di calcolare il periodo di formazione dei corpi progenitori di queste meteoriti. Per farlo, hanno combinato sofisticati modelli di evoluzione termica con i dati termo-cronologici misurati sulle meteoriti stesse. I risultati ottenuti dai ricercatori suggeriscono che durante l’evoluzione del Sistema solare alcuni planetesimi si siano formati molto rapidamente, altri invece tardivamente. Più in dettaglio, le analisi mostrano che il corpo progenitore della meteorite di Flensburg si sia formato 2.7 milioni di anni dopo la nascita del Sistema solare. Questo, spiegano i ricercatori, significa che i planetesimi erano in grado di formarsi anche più tardi nel corso dell’evoluzione del Sistema solare, e a temperature più basse. Le analisi hanno inoltre mostrato che, al momento della formazione, la distanza dal Sole di questi corpi progenitori è stata cruciale nel determinare al loro interno la presenza di acqua. In questo senso, aggiungono i ricercatori, la meteorite di Flensburg conserva le più antiche tracce della presenza del liquido nel Sistema solare.
La meteorite di Flensburg, la rara ara condrite carbonacea di tipo C1 contenente minerali che si formano solo in presenza di acqua. Le sue analisi hanno ora dato un contributo significativo per comprendere come l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta. Il fatto che il corpo genitore di Flensburg si sia formato 2,7 milioni di anni dopo la nascita del Sistema solare mostra che i planetesimi erano anche in grado di formarsi più tardi e a temperature più basse, il che significa che l’acqua è rimasta nei corpi genitori ed è stata successivamente portata sulla Terra. Flensburg è quindi la traccia più antica di attività fluida nel Sistema Solare. Crediti: Carsten Jonas
In pratica, secondo questo studio, la formazione del nostro sistema planetario ha vissuto due fasi principali e successive nel tempo, dalla seconda delle quali è dipeso il fatto che il nostro pianeta diventasse quello che è oggi: un pianeta blu.
Nella prima fase, durata meno di due milioni di anni, si sarebbero formati i planetesimi più vicini al Sole. Essendo così prossimi alla nostra stella, questi corpi sarebbero stati sottoposti a temperature elevatissime, perdendo così tutti i loro elementi volatili, inclusa l’acqua. Nella seconda fase si sarebbero formati invece i planetesimi più lontani dalla nostra stella. Vista la loro distanza dal Sole, questi planetesimi tardivi non sarebbero diventati così caldi, e come tali non avrebbero perso l’acqua che contenevano. «Questi piccoli corpi non solo hanno fornito i materiali da costruzione per i pianeti, ma sono anche la fonte dell’acqua della Terra», dice Mario Trieloff, ricercatore dell’Università di Heidelberg e co-autore dello studio.
La domanda a questo punto diventa: come è possibile che questi planetesimi si siano formati così tardivamente durante l’evoluzione del Sistema solare? L’ipotesi dei ricercatori è che dev’esserci stato un meccanismo di ritardo, ad esempio collisioni tra agglomerati di polvere, che ha impedito la rapida crescita di piccoli pianeti. Questo ritardo avrebbe consentito l’accrescimento tardivo di planetesimi oltre la linea di neve – il confine termodinamico oltre il quale la temperatura del disco di gas e polveri che circonda una giovane stella scende abbastanza perché si formi ghiaccio – consentendogli di sfuggire alla perdita di sostanze volatili e di preservare l’acqua.
«La Terra ha inglobato questi piccoli pianeti ricchi di acqua o i loro frammenti sotto forma di asteroidi o meteoriti durante il suo processo di crescita», conclude Neumann. «Questa è l’unica ragione per cui il nostro pianeta non è diventato un mondo completamente arido e ostile alla vita».
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Recurrent planetesimal formation in an outer part of the early solar system” di Wladimir Neumann, Ning Ma, Audrey Bouvier e Mario Trieloff
La pericolosità all’origine delle aurore
Un’aurora vista dallo spazio. Crediti: www.frontiersin.org
Da quando lo scorso maggio i cieli italiani si sono straordinariamente tinti di rosso, spesso mi ritrovo a controllare il sito Space Weather Prediction Center del National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) sperando di trovare il bell’anellone rosso che indica un’alta probabilità di rivedere quello spettacolo anche alle nostre latitudini. Ma lo faccio egoisticamente, senza pensare alle conseguenze che un caso così estremo potrebbe avere sulla Terra.
Per millenni le aurore hanno ispirato miti e presagi ma solo ora, con la moderna tecnologia dipendente dall’elettricità, stiamo apprezzando il loro vero potere. Le stesse forze che causano le aurore provocano correnti che possono danneggiare le infrastrutture che conducono elettricità, qui sulla Terra.
Ora, tre scienziati statunitensi hanno pubblicato su Frontiers in Astronomy and Space Sciences uno studio che dimostra come l’angolo di impatto degli shock interplanetari all’origine delle aurore è fondamentale per definire la forza delle correnti, offrendo l’opportunità di prevedere quelli che possono essere di fatto gli shock pericolosi, e di conseguenza proteggere per tempo le infrastrutture critiche.
«Le aurore e le correnti geomagnetiche indotte sono causate da fattori meteorologici spaziali simili», spiega Denny Oliveira del Goddard Space Flight Center della Nasa, primo autore dell’articolo. «L’aurora è un fenomeno visivo che indica che le correnti elettriche nello spazio possono generare queste correnti geomagnetiche indotte al suolo. La regione aurorale può espandersi notevolmente durante le tempeste geomagnetiche. Di solito, il suo confine più meridionale è intorno ai 70 gradi di latitudine, ma durante gli eventi estremi può scendere fino a 40 gradi o anche oltre, cosa che si è certamente verificata durante la tempesta del maggio 2024, la più grave degli ultimi due decenni».
Le aurore sono causate da due processi: o le particelle espulse dal Sole raggiungono il campo magnetico terrestre e causano una tempesta geomagnetica, oppure gli shock interplanetari comprimono il campo magnetico terrestre. Questi shock generano anche correnti geomagnetiche indotte, che possono danneggiare le infrastrutture che conducono elettricità. Shock interplanetari più potenti significano correnti e aurore più forti, ma anche shock frequenti e meno potenti potrebbero causare danni.
«Probabilmente gli effetti deleteri più intensi sulle infrastrutture elettriche si sono verificati nel marzo 1989, in seguito a una forte tempesta geomagnetica: il sistema Hydro-Quebec in Canada è stato interrotto per quasi nove ore, lasciando milioni di persone senza elettricità», racconta Oliveira. «Ma eventi più deboli e frequenti, come gli shock interplanetari, possono rappresentare nel tempo una minaccia per i conduttori di terra. Il nostro lavoro mostra che le correnti geoelettriche considerevoli si verificano abbastanza frequentemente dopo gli shock, e meritano attenzione».
Si ritiene che gli shock che colpiscono la Terra frontalmente, piuttosto che quelli inclinati, inducano correnti geomagnetiche più forti, perché comprimono maggiormente il campo magnetico. Ebbene, nello loro studio gli scienziati hanno valutato come le correnti geomagnetiche indotte siano influenzate dall’angolazione degli shock, a diverse ore del giorno.
Per farlo, hanno considerato un database di shock interplanetari e lo hanno incrociato con le letture delle correnti geomagnetiche indotte da un gasdotto di Mäntsälä, in Finlandia, che generalmente si trova nella regione aurorale durante i periodi di attività. Per calcolare le proprietà di questi shock, come l’angolo e la velocità, hanno utilizzato i dati del campo magnetico interplanetario e del vento solare. Gli shock sono stati suddivisi in tre gruppi: fortemente inclinati, moderatamente inclinati e quasi frontali.
Hanno scoperto che quelli più frontali causano picchi più elevati nelle correnti geomagnetiche indotte sia subito dopo la scossa, sia durante la successiva substorm. Picchi particolarmente intensi si sono verificati intorno alla mezzanotte magnetica, quando il polo nord si sarebbe trovato tra il Sole e Mäntsälä. Le substorm localizzate a quest’ora causano anche un’impressionante schiarita aurorale.
«Correnti moderate si verificano poco dopo l’impatto della perturbazione, quando Mäntsälä si trova intorno al crepuscolo ora locale, mentre correnti più intense si verificano intorno alla mezzanotte ora locale», riporta Oliveira.
Poiché gli angoli di questi shock possono essere previsti fino a due ore prima dell’impatto, queste informazioni potrebbero consentirci di predisporre protezioni per le reti elettriche e altre infrastrutture vulnerabili prima che gli shock più forti e frontali colpiscano.
«Una cosa che gli operatori delle infrastrutture elettriche potrebbero fare per salvaguardare le loro apparecchiature è gestire alcuni circuiti elettrici specifici quando viene emesso un allarme di shock», suggerisce Oliveira. «In questo modo si eviterebbe che le correnti geomagnetiche indotte riducano la durata di vita delle apparecchiature».
Tuttavia, gli scienziati non hanno trovato forti correlazioni tra l’angolo di uno shock e il tempo necessario per colpire e quindi indurre una corrente. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che per indagare questo aspetto sono necessarie altre registrazioni di correnti a diverse latitudini.
«I dati attuali sono stati raccolti solo in un luogo particolare, ovvero il sistema di gasdotti per il gas naturale di Mäntsälä», ammonisce Oliveira. «Sebbene Mäntsälä si trovi in una posizione critica, non fornisce un quadro a livello mondiale. Inoltre, i dati di Mäntsälä mancano di diversi giorni nel periodo esaminato, il che ci ha costretto a scartare molti eventi nel nostro database delle scosse. Sarebbe bello che le aziende elettriche di tutto il mondo rendessero i loro dati accessibili agli scienziati per gli studi», conclude il ricercatore.
Per saperne di più:
- Leggi su Frontiers in Astronomy and Space Sciences l’articolo “Spectacular auroras are caused by head-on blows to Earth’s magnetic field that could damage critical infrastructure” di Denny M. Oliveira, Eftyhia Zesta e Sergio Vidal-Luengo