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Fosfati idrosolubili nelle rocce di Bennu


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Dettagli osservati al microscopio del campione di materiale proveniente dall’asteroide Bennu, recuperato dalla missione Osiris-Rex. Il pannello in alto a sinistra mostra una particella scura di circa un millimetro appartenente al materiale superficiale di Bennu, che presenta una crosta esterna di fosfato luminoso. Gli altri tre pannelli mostrano viste progressivamente ingrandite di un frammento della particella che si è staccato lungo una frattura luminosa contenente fosfato, ripresa al microscopio elettronico a scansione. Crediti: Nasa

Arrivano i primi risultati delle analisi del campione di rocce dell’asteroide (101955) Bennu, prelevato e riportato a terra lo scorso autunno dalla missione Osiris-Rex (Origins, Spectral Interpretation, Resource Identification, and Security-Regolith Explorer) della Nasa. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca internazionale che comprende ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). I grani analizzati, sia dal punto di vista morfologico che chimico, contengono i costituenti primordiali da cui si è formato il Sistema solare. La polvere dell’asteroide risulta ricca di carbonio e azoto, oltre che di composti organici, tutti componenti essenziali per la vita come la conosciamo. Il campione studiato contiene anche fosfato di magnesio-sodio, una sorpresa per il team di ricerca, poiché questo composto non era stato individuato dagli strumenti di telerilevamento raccolti dalla sonda in prossimità di Bennu. La presenza di magnesio-sodio suggerisce che l’asteroide potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di acqua.

«Grazie all’analisi delle immagini ad alta risoluzione dei campioni abbiamo contato 7154 grani», commentano Maurizio Pajola e Filippo Tusberti, entrambi ricercatori all’Inaf di Padova che hanno partecipato alle analisi, pubblicate ieri su Meteoritics & Planetary Science. «Di questi, il 95 per cento sono più grandi di 0,5 mm, 34 grani sono più grandi di 1 cm, e il più grande è risultato essere di 3,5 cm. Il conteggio completo di tutte le particelle è attualmente ancora in corso dato l’enorme numero riportato a terra. In particolare, l’ottenimento della distribuzione in taglia di tutti i grani è di fondamentale importanza per comprendere se rifletta quella ottenuta da remoto, quando orbitavamo Bennu, o vi sono state alterazioni (disintegrazioni) durante il processo di campionamento e/o rientro in atmosfera terrestre. Inoltre, identificare le taglie più grandi ha aiutato da subito il team a decidere su quali grani lavorare dal principio».

Le indagini chimiche del campione di Bennu hanno svelato informazioni interessanti sulla composizione dell’asteroide. Dominato da minerali argillosi, in particolare serpentino, il campione rispecchia il tipo di roccia che si trova sulle dorsali medio-oceaniche della Terra, dove il materiale del mantello – lo strato immediatamente al di sotto della crosta terrestre – incontra l’acqua. Questa interazione non solo provoca la formazione di argilla, ma dà anche origine a una varietà di minerali come carbonati, ossidi di ferro e solfuri di ferro. Ma la scoperta più inaspettata da queste prime indagini è la presenza di fosfati idrosolubili, che sono i “mattoni” della vita conosciuta oggi sulla Terra.

Fosfati sono stati rinvenuti anche nei grani dell’asteroide Ryugu riportati a Terra dalla missione Hayabusa2 della Jaxa (Japan Aerospace Exploration Agency) nel 2020. Il fosfato di magnesio-sodio rilevato nel campione di Bennu si distingue per la mancanza di inclusioni nel minerale e per le dimensioni dei suoi grani, senza precedenti in qualsiasi campione di meteorite.

Il ritrovamento di fosfati di magnesio-sodio nel campione di Bennu solleva interrogativi sui processi geochimici che hanno concentrato questi elementi e fornisce preziosi indizi sulle condizioni formative di Bennu.

«La presenza e lo stato dei fosfati, insieme ad altri elementi e composti su Bennu, suggeriscono la presenza di acqua nella storia dell’asteroide», spiega Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona a Tucson, primo cautore dell’articolo e responsabile scientifico della missione Osiris-Rex. «Bennu potenzialmente avrebbe potuto far parte di un mondo più umido. Tuttavia, questa ipotesi richiede ulteriori indagini».

Nonostante la sua possibile storia di interazione con l’acqua, Bennu rimane un asteroide chimicamente primitivo, con abbondanze di elementi chimici molto simili a quelle rilevate nel Sole.

«Il campione che abbiamo restituito è il più grande quantitativo di materiale asteroidale inalterato sulla Terra in questo momento», aggiunge Lauretta.

Questa composizione offre uno sguardo sugli albori del Sistema solare, oltre 4,5 miliardi di anni fa. Queste rocce hanno mantenuto il loro stato originale, non essendosi né fuse né risolidificate sin dalla loro formazione e preservando fino a oggi preziose informazioni sulle loro origini. Il team ha inoltre confermato che l’asteroide è ricco di carbonio e azoto. Questi elementi sono cruciali per comprendere gli ambienti in cui hanno avuto origine i costituenti di Bennu e i processi chimici che hanno trasformato elementi semplici in molecole complesse, gettando potenzialmente le basi per la vita sulla Terra.

«Contrariamente a quanto avviene con le meteoriti, le missioni di sample return come Osiris-Rex, ci permettono di studiare materiale prelevato direttamente sulla superficie di oggetti planetari e quindi di contestualizzare con grande precisione i risultati delle analisi che si fanno su questi grani nei laboratori sparsi in tutto il mondo», dice Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Asi. «È proprio questa caratteristica che ha permesso di fare immediatamente il collegamento tra la presenza di fosfati nei grani di Bennu con le proprietà che aveva il nostro sistema planetario all’epoca della sua formazione. Ulteriori analisi e il confronto con quanto trovato nei grani prelevati su Ryugu, asteroide molto simile a Bennu, forniranno preziose indicazioni per capire meglio i processi di evoluzione planetaria».

Nei prossimi mesi, molti laboratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo riceveranno materiale dell’asteroide Bennu. attualmente custodito al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Questo permetterà di moltiplicare le indagini e quindi gli articoli scientifici che ne conseguiranno, permettendo di studiare con un dettaglio sempre maggiore le loro proprietà e ricostruire la storia dell’asteroide e del Sistema solare.

Per saperne di più:

  • Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Asteroid (101955) Bennu in the laboratory: Properties of the sample collected by OSIRIS-REx”, di Dante S. Lauretta, Harold C. Connolly Jr, Joseph E. Aebersold, Conel M. O’D. Alexander, Ronald-L. Ballouz, Jessica J. Barnes, Helena C. Bates, Carina A. Bennett, Laurinne Blanche, Erika H. Blumenfeld, Simon J. Clemett, George D. Cody, Daniella N. DellaGiustina, Jason P. Dworkin, Scott A. Eckley, Dionysis I. Foustoukos, Ian A. Franchi, Daniel P. Glavin, Richard C. Greenwood, Pierre Haenecour, Victoria E. Hamilton, Dolores H. Hill, Takahiro Hiroi, Kana Ishimaru, Fred Jourdan, Hannah H. Kaplan, Lindsay P. Keller, Ashley J. King, Piers Koefoed, Melissa K. Kontogiannis, Loan Le, Robert J. Macke, Timothy J. McCoy, Ralph E. Milliken, Jens Najorka, Ann N. Nguyen, Maurizio Pajola, Anjani T. Polit, Kevin Righter, Heather L. Roper, Sara S. Russell, Andrew J. Ryan, Scott A. Sandford, Paul F. Schofield, Cody D. Schultz, Laura B. Seifert, Shogo Tachibana, Kathie L. Thomas-Keprta, Michelle S. Thompson, Valerie Tu, Filippo Tusberti, Kun Wang, Thomas J. Zega, C. W. V. Wolner, the OSIRIS-REx Sample Analysis Team


C’è vita aliena? Ce lo dicono i gas serra


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Un’illustrazione di varie tecnofirme planetarie, tra cui i gas atmosferici artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside

Se gli alieni modificassero un pianeta del loro sistema solare per renderlo più caldo, saremmo in grado di capirlo. Questa è la conclusione di un nuovo studio della Uc Riverside pubblicato su Astrophysical Journal, che identifica i gas serra artificiali che rivelerebbero la presenza di un pianeta “terraformato” e suggerisce i tempi necessari al telescopio spaziale James Webb (Jwst) per rilevare diverse concentrazioni di tali gas.

La terraformazione è un ipotetico processo artificiale che serve per rendere abitabile un pianeta intervenendo sulla sua atmosfera – creandola o modificandone la composizione chimica – in modo da renderla simile a quella della Terra e in grado di sostenere un ecosistema. Attualmente gli studi sulla terraformazione sono del tutto speculativi. Tuttavia, i gas descritti nello studio sarebbero rilevabili anche a concentrazioni relativamente basse nelle atmosfere di pianeti al di fuori del Sistema solare utilizzando la tecnologia esistente. Tra queste potrebbe esserci il Jwst o esperimenti futuri come Life, il Large Interferometer For Exoplanets del Politecnico federale di Zurigo (Eth).

Sebbene sulla Terra questi gas inquinanti debbano essere controllati per evitare effetti climatici dannosi, ci sono ragioni per cui potrebbero essere usati intenzionalmente su un esopianeta. «Per noi, questi gas sono negativi perché non vogliamo aumentare il riscaldamento globale. Ma sarebbero ottimi per una civiltà che volesse prevenire un’imminente era glaciale o terraformare un pianeta altrimenti inabitabile nel proprio sistema, come gli esseri umani hanno proposto per Marte», riferisce Edward Schwieterman, astrobiologo della Uc Riverside e primo autore dello studio.

Poiché in natura questi gas non sono presenti in quantità significative, devono essere fabbricati. Trovarli, quindi, sarebbe un segno della presenza di forme di vita intelligenti e tecnologiche, le cosiddette tecnofirme. I cinque gas proposti dai ricercatori – CF4 (tetrafluorometano), C2F6 (esafluoroetano), C3F8 (ottafluoropropano), SF6 (esafluoruro di zolfo) e NF3 (trifluoruro di azoto) – sono utilizzati sulla Terra in applicazioni industriali come la produzione di chip per computer. Comprendono versioni fluorurate di metano, etano e propano, oltre a gas composti da azoto e fluoro o zolfo e fluoro. In particolare, gli autori hanno analizzato le potenzialità di questi gas di generare firme atmosferiche rilevabili.

A differenza dei sottoprodotti passivi accidentali dei processi industriali, i gas serra artificiali rappresenterebbero uno sforzo intenzionale per modificare il clima di un pianeta con gas a lunga vita e bassa tossicità, e avrebbero un basso potenziale di falsi positivi. Come sottolineato da Schwieterman, una civiltà extraterrestre potrebbe essere motivata a intraprendere un tale sforzo per arrestare il raffreddamento del proprio mondo o per terraformare un pianeta terrestre altrimenti inabitabile all’interno del proprio sistema.

Un vantaggio è che sono gas serra incredibilmente efficaci. L’esafluoruro di zolfo, ad esempio, ha un potere riscaldante 23.500 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Una quantità relativamente piccola potrebbe riscaldare un pianeta gelido fino al punto in cui l’acqua liquida potrebbe persistere sulla sua superficie.

Un altro vantaggio dei gas proposti – almeno dal punto di vista alieno – è che sono eccezionalmente longevi e persisterebbero in un’atmosfera simile a quella terrestre fino a 50mila anni. «Non avrebbero bisogno di essere riforniti troppo spesso per mantenere un clima ospitale», spiega Schwieterman.

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Spettri qualitativi di trasmissione ed emissione nel medio infrarosso di un ipotetico pianeta simile alla Terra il cui clima è stato modificato con gas serra artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside

Qualcuno ha proposto sostanze chimiche refrigeranti come i Clorofluorocarburi (Cfc) come traccianti di tecnofirme perché sono quasi esclusivamente artificiali e visibili nell’atmosfera terrestre. Tuttavia, i Cfc potrebbero non essere vantaggiosi perché distruggono lo strato di ozono, a differenza dei gas completamente fluorurati discussi nello studio, che sono chimicamente inerti. «Se un’altra civiltà avesse un’atmosfera ricca di ossigeno, avrebbe anche uno strato di ozono che vorrebbe proteggere», dice Schwieterman. «I Cfc verrebbero smembrati nello strato di ozono anche se ne catalizzano la distruzione». Essendo più facilmente scomponibili, i Cfc hanno anche una vita breve, che li rende più difficili da rilevare.

Infine i gas fluorurati devono assorbire la radiazione infrarossa per avere un impatto sul clima. L’assorbimento produce una corrispondente firma infrarossa che potrebbe essere rilevata con telescopi spaziali. Con la tecnologia attuale o futura, gli scienziati potrebbero rilevare queste sostanze chimiche in alcuni sistemi esoplanetari vicini. «Con un’atmosfera come quella terrestre, solo una molecola su un milione potrebbe essere uno di questi gas e sarebbe potenzialmente rilevabile», aggiunge Schwieterman. «Quella concentrazione di gas sarebbe inoltre sufficiente a modificare il clima».

Per arrivare alle loro conclusioni, i ricercatori hanno simulato un pianeta nel sistema Trappist-1, a circa 40 anni luce dalla Terra. Hanno scelto questo sistema, che contiene sette pianeti rocciosi conosciuti, perché è uno dei sistemi planetari più studiati, oltre al nostro. È anche un obiettivo realistico da esaminare per i telescopi spaziali esistenti.

Come già detto, poiché i gas serra artificiali assorbono fortemente nella finestra termica del medio infrarosso delle atmosfere temperate, un pianeta terraformato possiederà forti caratteristiche di assorbimento di questi gas alle lunghezze d’onda del medio infrarosso (∼8-12 μm), eventualmente accompagnate da caratteristiche nel vicino infrarosso. Gli autori hanno calcolato il tempo di osservazione necessario per rilevare 1[10](100) ppm di C2F6/C3F8/SF6 su Trappist-1 f con lo spettrometro a bassa risoluzione (Lrs) di Miri e con NirSpec, a bordo di Jwst. Hanno scoperto che una combinazione di 1[10](100) ppm di C2F6, C3F8 e SF6 può essere rilevata con un rapporto segnale/rumore maggiore di 5 in soli 25[10](5) transiti con Miri/Lrs.

Il gruppo ha anche considerato la capacità della missione europea Life di rilevare i gas fluorurati. La missione Life sarebbe in grado di fotografare direttamente i pianeti utilizzando la luce infrarossa, consentendo di individuare un numero maggiore di esopianeti rispetto al telescopio Webb, che osserva i pianeti mentre passano davanti alle loro stelle.

Pur non potendo quantificare la probabilità di trovare questi gas nel prossimo futuro, i ricercatori sono fiduciosi che – se presenti – è del tutto possibile rilevarli durante le missioni attualmente pianificate per caratterizzare le atmosfere planetarie. «Non ci sarebbe bisogno di uno sforzo supplementare per cercare queste tecnofirme, se il telescopio sta già caratterizzando il pianeta per altri motivi», conclude Schwieterman. «E sarebbe sorprendente trovarle».

Per saperne di più:


Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione


From left, Ganymede, Europa, and Io – the three Jovian moons that NASA’s Juno mission has flown past – as well as Jupiter are shown in a photo illustration created from data collected by the spacecraft’s JunoCam imager. Credit: Image data: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS. Image processing: Kevin M. Gill (CC BY); Thomas Thomopoulos (CC BY)
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L’immagine in alto (crediti: A. Mura/Jiram Team) mostra l’emissione nell’infrarosso di Chors Patera, sulla luna Io di Giove. È stata creata combinando i dati raccolti dallo strumento Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper) durante un sorvolo della luna il 15 ottobre 2023. Gli scienziati della missione Juno ritengono che la maggior parte del lago di lava, largo circa 70 chilometri, sia coperta da una spessa crosta di materiale fuso (la parte centrale che appare rosso/verde nel grafico) con una temperatura superficiale di circa -40 °C. L’anello bianco che lo circonda è dove la lava proveniente dall’interno di Io è direttamente esposta allo spazio, ossia la parte più calda di questa caratteristica vulcanica, intorno ai 500 °C. L’area in verde è esterna al lago di lava ed è molto fredda (circa -150 °C). L’anello di lava sui bordi del lago è una caratteristica simile a quella visibile in alcuni laghi Hawaiani, come quello mostrato in basso, il lago di lava Puʻu ʻŌʻō, qui ripreso nei primi anni ’90 (crediti: Nps/Usgs)

Nuovi risultati in arrivo dal satellite gioviano Io forniscono un quadro più completo su quanto i laghi di lava siano diffusi su tutta la e rivelano per la prima volta i meccanismi dei processi vulcanici in atto. Questi risultati sono stati ottenuti grazie allo strumento italiano Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper, finanziato dall’Asi, l’Agenzia spaziale italiana) a bordo della sonda Nasa Juno, che osserva nella luce infrarossa, non visibile all’occhio umano. I ricercatori hanno pubblicato un articolo su queste recenti scoperte la settimana scorsa su Nature Communications Earth and Environment.

Io ha affascinato la comunità astronomica sin dal 1610, quando Galileo Galilei scoprì la luna gioviana. 369 anni dopo, la sonda Voyager della Nasa catturò un’eruzione vulcanica sulla luna. Le successive missioni Galileo e Juno hanno compiuto diverse osservazioni di Io e grazie a queste molti più dettagli sul suo vulcanismo sono stati scoperti. Gli scienziati pensano che Io, che è stirata e compressa come una fisarmonica dalla gravità delle lune vicine e dal massiccio Giove, sia il mondo più vulcanicamente attivo del Sistema solare. Ma mentre ci sono molte teorie sul tipo di eruzioni vulcaniche che popolano la sua superficie, esistevano pochi dati a supporto.

A maggio e ottobre 2023, Juno ha effettuato sorvoli di Io con una distanza di avvicinamento di circa, rispettivamente, 35mila chilometri e 13mila chilometri,. All’epoca, i due sorvoli erano i più vicini che una sonda avesse raggiunto la luna gioviana in oltre due decenni. Tra gli strumenti di Juno che stavano osservando da vicino la luna, affascinante e leggermente più grande di quella della Terra, c’era lo strumento italiano Jiram.

Jiram è stato progettato per catturare la luce infrarossa proveniente dall’interno profondo di Giove, sondando lo strato meteorologico fino a 50-70 chilometri sotto la sommità delle nuvole di Giove. Ma durante la missione estesa di Juno, lo strumento è stato anche impiegato per studiare le lune Io, Europa, Ganimede e Callisto. Le immagini di Io prese da Jiram hanno mostrato la presenza di anelli luminosi nell’infrarosso in corrispondenza numerosi hot spot (letteralmente, punti caldi, ossia caldere, vulcani o colate laviche).

«L’elevata risoluzione spaziale delle immagini a infrarossi di Jiram, combinata con la posizione favorevole di Juno durante i sorvoli, ha rivelato che l’intera superficie di Io è coperta da laghi di lava contenuti in strutture simili a caldere –grandi depressioni formate quando un vulcano erutta e collassa», spiega Alessandro Mura, co-investigator di Juno dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma. «Stimiamo che nella regione della superficie di Io in cui abbiamo i dati più completi circa il 3 per cento sia coperto da uno di questi laghi di lava».

Dentro la bocca dei laghi di fuoco

I dati del sorvolo di Io di Jiram non solo evidenziano le abbondanti riserve di lava di Io, ma forniscono anche un’idea di ciò che potrebbe accadere sotto la superficie. Le immagini a infrarossi di diversi laghi di lava su Io hanno mostrato un cerchio di lava estremamente sottile al confine, tra la crosta centrale (che copre la maggior parte del lago di lava) e le pareti del lago. La mancanza di flussi di lava oltre il bordo del lago, fanno supporre un sostanziale riciclo del magma, indicando che c’è un equilibrio tra quello che è eruttata nei laghi di lava e quello che è reiniettato nel sistema sotterraneo.

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In questo grafico, il meccanismo proposto per la formazione dell’anello di lava: la risalita e ridiscesa del magma provoca la rottura della crosta sui bordi del lago. Crediti: A. Mura

«Adesso abbiamo l’idea di quale sia il tipo di vulcanismo più frequente su Io: enormi laghi di lava dove il magma sale e scende», dice Mura. «La crosta di lava è costretta a rompersi contro le pareti del lago, formando l’anello di lava tipico visto nei laghi di lava hawaiiani. Le pareti sono probabilmente alte centinaia di metri, il che spiega perché generalmente il magma non viene osservato fuoriuscire dalle paterae (termine usato per indicare le caldere su Io, ossia strutture a forma di scodella create dal vulcanismo) e muoversi sulla superficie della luna».

I dati di Jiram suggeriscono che la maggior parte della superficie di questi laghi di lava su Io sia composta da una crosta rocciosa che si muove su e giù ciclicamente, come una superficie unica, a causa della risalita e ridiscesa centrale del magma. La crosta che tocca le pareti del lago non può scivolare a causa dell’attrito con le pareti del lago, quindi si deforma e alla fine si rompe – permettendo alla lava appena sotto la superficie incrostata di risultare visibile da Jiram.

Un’ipotesi alternativa rimane valida: la risalita del magma al centro del lago. In questo scenario, la crosta isolante (anche se sottile) si diffonde radialmente attraverso processi di convezione nel lago e poi sprofonda ai bordi, esponendo la lava.

«Stiamo appena iniziando a esaminare i risultati di Jiram dai sorvoli ravvicinati di Io a dicembre 2023 e febbraio 2024», dice Scott Bolton, principal investigator di Juno, del Southwest Research Institute di San Antonio. «Le osservazioni mostrano nuove affascinanti informazioni sui processi vulcanici di Io. Combinando questi nuovi risultati con la campagna a lungo termine di Juno per monitorare e mappare i vulcani nei poli nord e sud di Io, mai osservati prima, Jiram si sta rivelando uno degli strumenti più preziosi per comprendere come funziona questo mondo tormentato».

Juno ha eseguito il suo 62° sorvolo di Giove – che includeva un sorvolo di Io a un’altitudine di circa 29.250 km il 13 giugno. Il suo 63° sorvolo del gigante gassoso è previsto per il 16 luglio.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications Earth and Environment l’articolo “Hot rings on Io observed by Juno/JIRAM”, Alessandro Mura, Federico Tosi, Francesca Zambon, Rosaly M. C. Lopes, Peter J. Mouginis-Mark, Heidi Becker, Gianrico Filacchione, Alessandra Migliorini, Candice. J. Hansen, Alberto Adriani, Francesca Altieri, Scott Bolton, Andrea Cicchetti, Elisa Di Mico, Davide Grassi, Raffaella Noschese, Alessandro Moirano, Madeline Pettine, Giuseppe Piccioni, Christina Plainaki, Julie Rathbun, Roberto Sordini e Giuseppe Sindoni


La materia oscura è fatta di buchi neri?


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Impressione artistica di un evento di microlensing causato da un buco nero che si trova tra la Terra e la stella della Grande Nube di Magellano. La luce della stella viene piegata dal buco nero (lente) nell’alone galattico e ingrandita quando viene osservata dalla Terra. Il microlensing causa una variazione molto caratteristica della luminosità della stella, permettendo di determinare la massa e la distanza della lente. Crediti: J. Skowron / Ogle

Diverse osservazioni astronomiche indicano che la materia ordinaria, che possiamo vedere o toccare, comprende solo il 5 per cento del bilancio totale di massa ed energia dell’universo. Ma nella Via Lattea, per ogni chilogrammo di materia ordinaria presente nelle stelle, ci sono ben 15 chilogrammi di materia oscura, che non emette luce e interagisce solo attraverso la sua attrazione gravitazionale.

«La natura della materia oscura rimane un mistero. La maggior parte degli scienziati pensa che sia composta da particelle elementari sconosciute», dice Przemek Mróz dell’Osservatorio astronomico dell’Università di Varsavia, primo autore di due articoli pubblicati su Nature e Astrophysical Journal Supplement Series che offrono una risposta alla domanda riportata nel titolo di questa news. «Purtroppo, nonostante decenni di sforzi, nessun esperimento – compresi quelli condotti con il Large Hadron Collider – ha trovato nuove particelle che potrebbero essere responsabili della materia oscura».

Dalla prima rilevazione di onde gravitazionali generate dalla fusione di una coppia di buchi neri, avvenuta nel 2015, gli esperimenti Ligo e Virgo hanno rilevato più di 90 eventi di questo tipo. Gli astronomi hanno notato che i buchi neri rilevati in questo modo sono tipicamente molto più massicci (20-100 masse solari) di quelli conosciuti in precedenza nella Via Lattea (5-20 masse solari). «Spiegare perché queste due popolazioni di buchi neri siano così diverse è uno dei più grandi misteri dell’astronomia moderna», afferma Mróz.

Una possibile spiegazione ipotizza che i rivelatori Ligo e Virgo abbiano scoperto una popolazione di buchi neri primordiali che potrebbero essersi formati nelle prime fasi di vita dell’universo. La loro esistenza è stata proposta per la prima volta oltre 50 anni fa dal famoso fisico teorico britannico Stephen Hawking e, in modo indipendente, dal fisico sovietico Yakov Zeldovich. «Sappiamo che l’universo primordiale non era idealmente omogeneo: piccole fluttuazioni di densità hanno dato origine alle galassie e agli ammassi di galassie attuali», spiega Mróz. «Fluttuazioni di densità simili, se superano un contrasto di densità critica, possono collassare e formare buchi neri».

Dalla prima rilevazione delle onde gravitazionali, un numero sempre maggiore di scienziati ha ipotizzato che questi buchi neri primordiali possano costituire una frazione significativa, se non la totalità, della materia oscura. Ipotesi, questa, che può essere verificata con osservazioni astronomiche. Nella Via Lattea esistono abbondanti quantità di materia oscura. Se fosse composta da buchi neri, dovremmo essere in grado di rilevarli nel nostro vicinato cosmico. È possibile farlo, visto che i buchi neri non emettono alcuna luce rilevabile? Assolutamente sì.

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Eventi di microlensing previsti e osservati da parte di oggetti massicci in direzione della Grande Nube di Magellano, visti attraverso l’alone della Via Lattea. Se la materia oscura fosse costituita da buchi neri primordiali, la survey Ogle avrebbe dovuto rilevare oltre 500 eventi di microlensing negli anni 2001-2020. In realtà, ha registrato solo 13 rilevamenti di eventi di microlensing, molto probabilmente causati da stelle normali. Crediti: J. Skowron / Ogle

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, la luce può essere piegata e deviata dal campo gravitazionale di oggetti massicci, un fenomeno chiamato microlensing gravitazionale. «Il microlensing si verifica quando tre oggetti – un osservatore sulla Terra, una sorgente di luce e una “lente” – si allineano prospetticamente in modo ideale nello spazio», spiega Andrzej Udalski, pricipal investigator di Ogle (Optical Gravitational Lensing Experiment). «Durante un evento di microlensing, la luce della sorgente può essere deviata e amplificata e noi osserviamo un temporaneo aumento della luminosità della sorgente».

La durata di questo aumento nella luminosità dipende dalla massa dell’oggetto che fa da lente: maggiore è la massa, più lungo è l’evento. Gli eventi di microlensing da parte di oggetti di massa solare durano in genere alcune settimane, mentre quelli da parte di buchi neri cento volte più massicci del Sole durano alcuni anni.

L’idea di utilizzare il microlensing gravitazionale per studiare la materia oscura non è nuova. È stata proposta per la prima volta negli anni ’80 dall’astrofisico polacco Bohdan Paczyński. La sua idea ha ispirato l’avvio di tre importanti esperimenti: il polacco Ogle, l’americano Macho e il francese Eros. I primi risultati di questi esperimenti dimostrarono che i buchi neri meno massicci di una massa solare possono costituire meno del 10 per cento della materia oscura. Queste osservazioni, tuttavia, non erano sensibili agli eventi di microlensing su scala temporale estremamente lunga e, quindi, non erano sensibili ai buchi neri massicci, simili a quelli recentemente rilevati dai rivelatori di onde gravitazionali.

Nel nuovo articolo, pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Supplement Series, gli astronomi di Ogle presentano i risultati di un monitoraggio fotometrico durato quasi 20 anni di circa 80 milioni di stelle appartenenti a una galassia vicina, la Grande Nube di Magellano, e la ricerca di eventi di microlensing gravitazionale. I dati analizzati sono stati raccolti durante la terza e la quarta fase del progetto Ogle, dal 2001 al 2020. «Questo set di dati fornisce le osservazioni fotometriche più lunghe, più ampie e più accurate delle stelle della Grande Nube di Magellano nella storia dell’astronomia moderna», dice Udalski.

Il secondo articolo, pubblicato su Nature, illustra le conseguenze astrofisiche delle scoperte. «Se l’intera materia oscura della Via Lattea fosse composta da buchi neri di 10 masse solari, avremmo dovuto rilevare 258 eventi di microlensing», spiega Mróz. «Per i buchi neri di 100 masse solari, ci aspettavamo 99 eventi di microlensing. Per i buchi neri di 1000 masse solari, 27 eventi di microlensing».

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Notte sull’Osservatorio di Las Campanas in Cile (gestito dalla Carnegie Institution for Science). La stazione osservativa del progetto Ogle e le Grandi e Piccole Nubi di Magellano. Crediti: Krzysztof Ulaczyk

Al contrario, gli astronomi di Ogle hanno trovato solo 13 eventi di microlensing. La loro analisi dettagliata dimostra che tutti questi eventi possono essere spiegati dalle popolazioni stellari conosciute nella Via Lattea o nella Grande Nube di Magellano, non dai buchi neri. «Questo indica che i buchi neri massicci possono costituire al massimo qualche percentuale della materia oscura», afferma Mróz.

Calcoli dettagliati dimostrano che i buchi neri di 10 masse solari possono comprendere al massimo l’1,2 per cento della materia oscura, i buchi neri di 100 masse solari il 3 per cento della materia oscura e i buchi neri di 1000 masse solari l’11 per cento della materia oscura.

«Le nostre osservazioni indicano che i buchi neri primordiali non possono costituire una frazione significativa della materia oscura e, allo stesso tempo, spiegare i tassi di fusione dei buchi neri misurati da Ligo e Virgo», conclude Udalski.

Pertanto, sono necessarie altre spiegazioni per i buchi neri massicci rilevati da Ligo e Virgo. Secondo un’ipotesi, si sono formati come prodotto dell’evoluzione di stelle massicce a bassa metallicità. Un’altra possibilità richiama la fusione di oggetti meno massicci in ambienti stellari densi, come gli ammassi globulari.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal Supplement Series l’articolo “Microlensing optical depth and event rate toward the Large Magellanic Cloud based on 20 years of OGLE observations” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Mateusz Kapusta, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak
  • Leggi su Nature l’articolo “No massive black holes in the Milky Way halo” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak


Tutti insieme allineatamente


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Capita talvolta che una persona che conosciamo da molto tempo ci lasci di stucco per qualche uscita che proprio non ci aspettavamo. Lo stesso può accadere per certe regioni del cielo, immortalate innumerevoli volte nel corso degli anni, regioni dello spazio che diremmo ormai familiari se non noiose, e che eppure possono rivelare mirabili sorprese. Questo è avvenuto quando Joel Green, astronomo dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, e alcuni suoi collaboratori si sono trovati al cospetto delle nuove immagini della Nebulosa Serpente realizzate con lo strumento NirCam del telescopio spaziale James Webb.

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La Nebulosa Serpente vista da Jwst/NirCam. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)

Situata nell’omonima costellazione, la Nebulosa Serpente è una regione della Via Lattea collocata a 1300 anni luce dalla Terra che ospita numerose stelle in formazione (o protostelle) con un’età di appena centomila anni. E proprio nei pressi di queste stelle si celava la sorpresa. Le immagini Webb hanno infatti rivelato numerosi getti di gas dalla geometria bipolare che fuoriescono dalle protostelle. Il fatto straordinario è che i getti non sono orientati a caso ma risultano diligentemente allineati, un po’ come le gocce di un acquazzone quando c’è vento. È la prima volta che un fenomeno di questo tipo viene osservato. Lo studio che riporta la scoperta è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal la scorsa settimana e fornisce importanti indicazioni ai modelli di formazione stellare. «Gli astronomi hanno a lungo assunto che, a mano a mano le nubi collassano per formare le stelle, queste ultime tendono a ruotare nella stessa direzione», dice Klaus Pontoppidan, responsabile del programma scientifico che ha portato alla scoperta, in una press releasesul sito della Nasa. «Tuttavia, questo non era mai stato visto in maniera così diretta prima d’ora. Queste strutture allineate e dalla forma allungata sono una traccia del modo in cui nascono le stelle.»

L’allineamento dei getti si parlerebbe dunque con la rotazione delle stelle. Man mano che il gas collassa per formare una stella, esso comincia a ruotare sempre più rapidamente formando un disco di accrescimento. Affinché nuovo gas possa collassare, parte di questa rotazione viene trasferita ai getti di materiale, che vengono lanciati in direzioni opposte, perpendicolarmente al disco di accrescimento. Le protostelle con i getti annessi sono localizzate nella regione in alto a sinistra delle immagini Webb, con i getti di colore rossastro, indicativo della presenza di idrogeno molecolare e monossido carbonio. In passato anche il telescopio spaziale Hubble aveva scrutato questa regione. Cruciale è stata la sopraffina risoluzione angolare di Webb, che ha consentito di distinguere delle strutture dalla forma allungata là dove Hubble aveva visto solo dei blob indistinti.

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Zoom sulla regione della Nebulosa Serpente in cui si notano numerosi getti protostellari allineati fra di loro. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)

Non è la prima volta che questa regione della nostra galassia fa parlare di sé. Nel 2020 alcune immagini di Hubble hanno immortalato la cosiddetta Bat shadow (ombra del pipistrello), che non è una traccia del passaggio di Batman, ma l’ombra generata da un disco protoplanetario. Anche quella, scoperta avvenuta per caso.

Gli scienziati adesso vogliono studiare la composizione chimica dei getti utilizzando lo strumento NirSpec, sempre del James Webb. Oggetto privilegiato dell’indagine saranno le sostanze volatili, ovvero quei composti che passano dallo stato liquido allo stato gassoso a temperature relativamente basse. Esempi di queste sostanze sono l’acqua e il monossido di carbonio. «A livello elementare, noi tutti siamo fatti di materia che proviene da queste sostanze volatili. La maggior parte dell’acqua qui sulla Terra ha avuto origine quando il Sole era una protostella miliardi di anni fa», dice Pontoppidan. «Studiare le abbondanze di questi composti nelle protostelle appena prima che si formino i dischi protoplanetari potrebbe aiutarci nel capire quanto uniche siano state le circostanze in cui il nostro sistema solare si è formato».

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Onde di metano sulle rive di Titano


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Illustrazione artistica di un lago al polo nord della luna di Saturno Titano, ispirata alle immagini riprese dalla sonda Cassini intorno al Winnipeg Lacus della luna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Le rive dei laghi e dei mari di idrocarburi di Titano, la luna più grande di Saturno, potrebbero essere state erose dall’attività ondosa delle distese liquide che si trovano sul satellite. È quanto riporta un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology (Mit) in uno studio pubblicato la settimana scorsa su Science Advances.

Titano è l’unico corpo planetario del Sistema solare oltre alla Terra che ospita fiumi, laghi e mari attivi. I sistemi fluviali di Titano sembrano essere ricchi di metano ed etano liquidi che confluiscono in laghi e mari – alcuni delle dimensioni dei Grandi Laghi dell’America settentrionale – la cui esistenza è stata confermata nel 2007 grazie alle immagini scattate dalla sonda Cassini della Nasa.

Gli esperti di geologia del Mit hanno studiato la conformazione delle coste di Titano e hanno dimostrato, attraverso simulazioni, che i grandi mari della luna sono stati probabilmente modellati dalle onde. Il gruppo di ricerca ha sviluppato i modelli di erosione sulla base dei processi attraverso i quali un lago può erodere le coste terrestri, e li ha poi applicati ai mari di Titano per capire che tipo di meccanismo erosivo abbia potuto produrre le sue caratteristiche coste. La spiegazione più probabile è che siano state proprio le onde a dare origine alle coste frastagliate di Titano.
Per arrivare a questa conclusione, gli autori dello studio hanno individuato gli scenari possibili di ciò che sarebbe potuto accadere dopo che l’innalzamento dei livelli di liquido ha inondato il paesaggio attraversato da valli fluviali. Gli scenari possibili sono tre: nessuna erosione costiera, erosione guidata dalle onde ed erosione “uniforme”, guidata dall’azione del liquido che dissolve passivamente il materiale di una costa oppure da un meccanismo per cui la costa si stacca gradualmente sotto il suo stesso peso.

I ricercatori hanno quindi simulato l’evoluzione delle varie forme di litorale in ciascuno dei tre scenari. Per simulare l’erosione provocata dalle onde hanno preso in considerazione un parametro – noto, anche ai surfisti, come fetch – che descrive la distanza fisica tra un punto della costa e il lato opposto, di un lago o di un mare – entro cui avviene la generazione del moto ondoso.

«L’erosione delle onde è determinata dall’altezza e dall’angolo dell’onda», spiega Rose Palermo del Mit, alla guida dello studio. «Abbiamo usato il fetch per approssimare l’altezza delle onde, perché più grande è il fetch, più lunga è la distanza su cui il vento può soffiare e le onde possono crescere».

Per verificare le differenze tra i tre scenari, i ricercatori hanno iniziato a simulare un mare con valli fluviali allagate ai bordi. Per l’erosione guidata dalle onde, hanno calcolato la distanza del fetch da ogni singolo punto lungo la linea di costa a ogni altro punto e hanno convertito queste distanze in altezza delle onde. Poi hanno eseguito una simulazione per vedere come le onde avrebbero eroso la linea di costa iniziale nel tempo e hanno confrontato il risultato con l’evoluzione della stessa linea di riva in caso di erosione uniforme.

I ricercatori hanno ripetuto questa modellazione comparativa per centinaia di forme diverse della linea di riva di partenza, e hanno scoperto che la forma finale della costa era molto diversa a seconda del meccanismo sottostante. In particolare, l’erosione uniforme ha prodotto coste rialzate che si sono allargate in modo uniforme su tutto il perimetro, analogamente alle valli fluviali allagate, mentre l’erosione ondosa ha levigato soprattutto le parti delle coste esposte a lunghe distanze di fetch, lasciando le valli allagate strette e ruvide.

Una volta confrontate le simulazioni con i laghi presenti sulla Terra, i ricercatori hanno riscontrato la stessa differenza di forma tra i laghi terrestri noti per essere stati erosi dalle onde e i laghi colpiti da un’erosione uniforme dovuta alla dissoluzione del calcare.

I modelli hanno rivelato che le forme assunte delle coste sono caratteristiche del meccanismo con cui si sono evolute. Il team di ricercatori si è quindi chiesto: «Dove si collocherebbero le coste di Titano, tra queste forme caratteristiche?»

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Titano in un mosaico a colori nel vicino infrarosso, ripreso dalla sonda Cassini. Crediti: Nasa/JPpl-Caltech/Università dell’Arizona/Università dell’Idaho

In particolare, si sono concentrati su quattro dei mari più grandi e meglio mappati di Titano: il Kraken Mare, di dimensioni paragonabili al Mar Caspio, il Ligeia Mare, più grande del Lago Superiore, il Punga Mare, più lungo del Lago Vittoria, e l’Ontario Lacus, grande circa il venti per cento del suo omonimo terrestre.

Il confronto tra le coste di ciascun mare, sulla base delle immagini radar di Cassini, e i modelli teorici corrispondenti ai diversi meccanismi di erosione ha mostrato che tutti e quattro i mari si adattano perfettamente al modello di erosione guidata dalle onde.

«Se potessimo stare sulla riva di uno dei mari di Titano, potremmo vedere onde di metano ed etano che si infrangono sulle coste durante le tempeste. E sarebbero in grado di erodere il materiale di cui sono fatte le coste», dice Taylor Perron del Mit, coautore dell’articolo.

I ricercatori stanno lavorando per determinare quanto forti debbano essere i venti di Titano per creare onde di idrocarburi liquidi esotici che potrebbero ripetutamente intaccare le coste. L’obiettivo della ricerca è anche decifrare, dalla forma delle coste, da quali direzioni soffia prevalentemente il vento. Sapere se i mari di Titano ospitano attività ondose potrebbe fornire agli scienziati informazioni sul clima della luna, come per esempio la forza dei venti che potrebbero sollevare tali onde.

«Titano rappresenta un caso di sistema completamente incontaminato», conclude Palermo. «Potrebbe aiutarci a imparare cose più fondamentali su come le coste si erodono senza l’influenza dell’uomo, e forse questo potrebbe aiutarci a gestire meglio, in futuro, le nostre coste sulla Terra».

Fonte: sito web del Mit

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L’entanglement misura la rotazione terrestre


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Interferometro di Sagnac costruito con 2 chilometri di fibre ottiche avvolte intorno a un telaio quadrato di alluminio di 1,4 metri di lato. Crediti: R. Silvestri

Un gruppo di ricercatori della Università di Vienna ha condotto un esperimento pionieristico in cui ha misurato l’effetto della rotazione della Terra su fotoni entangled. Il lavoro, appena pubblicato su Science Advances, rappresenta un risultato significativo che spinge i confini della sensibilità alla rotazione nei sensori basati sull’entanglement quantistico, ponendo potenzialmente le basi per ulteriori esplorazioni al confine tra meccanica quantistica e relatività generale.

L’esperimento ha impiegato un interferometro ottico di Sagnac, tra i dispositivi più sensibili alle rotazioni. Tali interferometri sono stati cruciali per la comprensione della fisica fondamentale fin dai primi anni del secolo scorso, contribuendo ad affermare la teoria della relatività speciale di Einstein. Oggi, la loro impareggiabile precisione li rende lo strumento definitivo per misurare le velocità di rotazione, limitato solo dai confini della fisica classica.

Per comprendere il funzionamento di questi dispositivi e la misura effettuata, abbiamo intervistato Raffaele Silvestri, primo autore dello studio, dottorando all’Università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther, gruppo che si occupa principalmente di scienza dell’informazione e computazione quantistica, fondamenti della teoria quantistica e investigazione dell’interfaccia fra la meccanica quantistica e la gravità generando e utilizzando stati quantistici della luce, come l’entanglement a più fotoni.

Gli interferometri che utilizzano l’entanglement quantistico hanno il potenziale per infrangere i limiti della fisica classica. In che modo?

«Gli interferometri “classici” (ovvero che non utilizzano stati quantistici della luce, come ad esempio la luce laser) sono limitati nella precisione di misura dello sfasamento indotto (da qualsivoglia effetto che si voglia misurare) sui fasci di luce che si propagano nei due percorsi (o bracci) dell’interferometro da un limite chiamato di shot-noise (shot-noise limit). Questo limite è proporzionale all’inverso della radice quadrata del numero di fotoni rilevati dal detector in un certo intervallo di tempo, un risultato che proviene banalmente dalla statistica dei conteggi di un processo random a variabili indipendenti, statistica che segue una distribuzione di Poisson (numero di conteggi/fotoni rilevati: N, incertezza o shot-noise: sqrt(N), incertezza relativa o shot-noise limit: 1/sqrt(N)). Ora, si possono sfruttare stati della luce in cui i fotoni invece che essere indipendenti condividono delle correlazioni quantistiche, andando quindi a modificare la statistica dello stato della luce. L’esempio più celebre è quello dello squeezing quantistico (statistica sub-Poissoniana), in cui le correlazioni dello stato di luce inviato nell’interferometro possono essere controllate in modo tale da ridurre l’incertezza sulla misura della fase (a discapito di un’incertezza maggiore sull’ampiezza del campo di luce, quindi dell’intensità o numero di fotoni per unità di tempo). Questa tecnica è stata utilizzata dagli interferometri rilevatori di onde gravitazionali delle collaborazioni Virgo e Ligo, riuscendo nella pratica a migliorare la precisione della misura della fase relativa indotta dalla fluttuazione spazio-temporale fra i due bracci di un interferometro di tipo Michelson. Come lo squeezing, anche l’entanglement fra le particelle (fotoni) che compongono uno stato quantistico può essere utilizzato per migliorare la precisione nella misura della fase interferometrica».

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Illustrazione dell’esperimento: lo schema interferometrico di Sagnac a fibra (visualizzato all’interno di un inserto), è collocato a Vienna, in Austria, sulla Terra in rotazione. Due fotoni indistinguibili incidono su un cubo che divide il fascio, si crea un entanglement tra di essi e poi vengono accoppiati nell’interferometro a fibra. Crediti: M. Di Vita

In che modo?

«Per intuire la ragione fondamentale di tale fenomeno, consideriamo di avere uno stato di N particelle (fotoni) che sono entangled tramite il grado di libertà della loro posizione (path-entangled) all’interno dell’interferometro. Il caso fondamentale è rappresentato dallo stato NOON, ovvero una sovrapposizione quantistica in cui N fotoni si propagano in un braccio dell’interferometro (a) e 0 nell’altro (b) e viceversa (|N>a|0>b+|0>a|N>b). Lo stato quantistico con N fotoni in un modo spaziale (braccio) |N>a acquisterà al termine della propagazione N volte la fase rispetto a quella che avrebbe acquistato se solo 1 fotone si fosse propagato attraverso lo stesso percorso, (|N>a –> exp(i*N*phi)|N>a, mentre se N=0, |0>a –> exp(i*0*phi)|0>a = |0>a )). Lo stato entangled complessivo quindi acquisterà N volte la fase relativa rispetto al caso in cui solo un singolo fotone fosse stato inviato nell’interferometro (questo è dovuto all’evoluzione unitaria di uno stato di N bosoni in un singolo modo in questo caso spaziale). La precisione sulla misura di fase sarà invece un fattore sqrt(N) più precisa. Difatti, le frange d’interferenza incrementeranno la frequenza di N volte (il periodo della figura di interferenza è ridotto di N volte, 2Pi/N) e nel punto di massima sensibilità dell’interferometro (altrimenti detto punto di quadratura) la pendenza della funzione sarà N-volte maggiore, quindi aumentando considerevolmente la reazione dell’intensità o numero di fotoni rilevati rispetto a piccoli cambiamenti di fase. In linea di principio utilizzando stati NOON, che sono massimamente entangled, si può raggiungere il limite di precisione di Heisenberg, ovvero la soglia ultima di precisione raggiungibile in un interferometro dettata dalle leggi della meccanica quantistica (lo scaling è 1/N invece di 1/sqrt(N), un miglioramento di un fattore sqrt(N)). Questo effetto è anche chiamato super-risoluzione, ed è puramente dovuto alla presenza di questo particolare tipo di correlazione quantistica o entanglement fra N particelle (fotoni) e i due modi spaziali di propagazione. Purtroppo, nella realtà questo limite è molto difficile da raggiungere per via della decoerenza che questi stati quantistici subiscono nell’interazione con l’ambiente».

Come fate a dire che le particelle/fotoni sono entangled?

«La firma incontrovertibile della presenza dell’entanglement fra i due fotoni generati e i due modi spaziali all’interno dell’interferometro (senso di propagazione orario e antiorario in un interferometero Sagnac) è data dalla forma delle frange d’interferenza. In particolare dal raddoppiamento della frequenza o dimezzamento del periodo di oscillazione della curva d’interferenza rispetto al caso in cui singoli fotoni fra loro indipendenti e non correlati quantisticamente sono stati inviati nell’interferometro (effetto di super-risoluzione). Il fatto che la qualità dell’entanglement generato è invece quantificabile dalla visibilità o contrasto delle frange di interferenza, visibilità che è rimasta praticamente invariata prima e dopo la propagazione nell’interferometro ad un valore di circa 97%. A essere precisi, si può ottenere l’effetto di super-risoluzione andando a utilizzare fotoni di lunghezza d’onda minore (metà di quella di riferimento in questo caso, ovvero 1550 nm / 2 = 775 nm ). Tuttavia, sono stati utilizzati fotoni generati dallo stesso processo (Spdc o spontaneous parametric down-conversion) sia per la misura a singolo fotone che per quella a due fotoni, ma solo dopo essere stati tutti filtrati alla lunghezza d’onda selezionata (1550 nm o lunghezza d’onda telecom), assicurando senza ombra di dubbio che la lunghezza d’onda dei fotoni fosse sempre la stessa in entrambe le misure. Non può esservi quindi altra spiegazione se non la presenza di entanglement nella misura a due fotoni».

Il salto di qualità nella sensibilità finora è sempre stato ostacolato dalla natura delicata dell’entanglement ma il vostro esperimento ha fatto la differenza. Ci può spiegare come?

«Uno stato NOON a due fotoni (N=2) è molto fragile e soggetto a decoerenza (e la sua fragilità aumenta esponenzialmente con il numero N di fotoni entangled) dove il contributo principale è dato dalla perdita di fotoni durante l’interazione con l’ambiente circostante, nel nostro caso la propagazione in una fibra ottica lunga 2 chilometri. Ad esempio, se l’interferometro trasmette il 10% della potenza iniziale (o del numero totale di singoli fotoni indipendenti inviati), il numero di stati NOON a due fotoni che sopravvivrà alla propagazione sarà solo l’1% ( (0,1)^N = (0,1)^2 = 0,01 ) degli stati generati. Tuttavia, la sensibilità di una misura di rotazione con un interferometro Sagnac è direttamente proporzionale al tempo di propagazione dei fotoni (lunghezza della fibra ottica) e all’area chiusa dell’interferometro (area circoscritta dal percorso chiuso). Più è grande e più sarà capace di risolvere una rotazione molto lenta, dove il fattore di proporzionalità fra la velocità di rotazione e la fase indotta (osservabile misurata) prende il nome di fattore di scala. È quindi estremamente impegnativo effettuare misure di precisione in interferometri di grandi dimensioni (grandi fattori di scala) utilizzando questi stati, poiché richiede la misurazione di una quantità significativa di questi (coppie di fotoni entangled che sopravvivono alla propagazione in una lunga fibra ottica) e della massima qualità possibile (la forza dell’entanglement è inizialmente elevata e si conserva dopo la propagazione)».

Come avete superato questi ostacoli?

«Abbiamo superato questi ostacoli aumentando, con una tecnica innovativa per questo scenario di applicazione, la stabilità nel tempo del nostro interferometro (area effettiva di oltre 700 metri quadrati, realizzata con 2 chilometri di fibra ottica attorcigliata in una bobina quadrata di 1,4 metri di lato) a diverse ore, consentendo tempi di misura stabili di quasi un giorno intero, così rilevando un numero di fotoni in quantità e qualità sufficiente a ottenere questa notevole precisione (per uno stato così fragile). Da notare che la suddetta stabilità raggiunta è unica per un interferometro Sagnac in fibra ottica di tale dimensioni, per di più considerando il fatto che la fibra è stata attorcigliata a mano senza l’ausilio di macchine automatiche! Ci tengo a precisare che nel nostro esperimento il limite di Heisenberg non è stato raggiunto, né un vantaggio quantistico incondizionato nell’utilizzo di stati NOON a due fotoni rispetto a stati a singolo fotone (considerando lo stesso numero di fotoni rilevati durante l’intero corso della misura) è stato dimostrato. Il passo in avanti è esclusivamente dovuto all’aver raggiunto una tale precisione utilizzando stati entangled in un interferometro così grande e quindi con un’interazione così prolungata fra i fotoni e un ambiente esterno ostile, che provoca un enorme numero di perdite. Il segreto è stato nell’aver raggiunto una stabilità tale nel lungo periodo, grazie all’introduzione di uno switch ottico, per poter aumentare significativamente il tempo di misura e la quantità di fotoni rilevati compensando l’effetto delle perdite».

Come avete fatto a isolare il segnale di rotazione della Terra?

«Come anticipato, la svolta sotto vari punti di vista per noi è stata l’introduzione di uno switch ottico che divide e connette due bobine di fibra da 1 chilometro ciascuna (lunghezza totale 2 chilometri). Siamo quindi riusciti a scambiare la direzione di propagazione dei due fotoni (che si propagano in direzioni opposte) per metà della lunghezza di propagazione nella fibra ottica. Ciò significa che quando i fotoni tornano al punto di partenza il ritardo che hanno accumulato (fase di Sagnac), che quantifica la velocità di rotazione della Terra, è nullo. Quindi, anche se l’interferometro ruota con la Terra, l’effetto indotto dalla rotazione terrestre viene annullato, creando così uno stato di riferimento per estrarre il segnale rotazionale costante di interesse che altrimenti sarebbe stato sempre presente come segnale di fondo. In altre parole è come avere due interferometri Sagnac identici e sovrapposti e sommare i loro segnali, scambiando a comando la direzione di propagazione dei fotoni solo in uno di essi il segnale complessivo è doppio o nullo per via del cambio di segno del segnale di fase in uno di essi. Mi piace dire scherzosamente di avere ingannato la luce facendole credere di trovarsi in un universo non rotante. Questa aggiunta è importante non solo perché consente di confrontare il comportamento dello stato entangled da un sistema di riferimento rotante a uno effettivamente non rotante, ma comporta anche diversi vantaggi tecnici come la soppressione del rumore a bassa frequenza (si può modulare la velocità dello switch a frequenze anche molto elevate) e una maggiore stabilità a lungo termine. Quantificando, la stabilità a lungo termine ottenuta senza e con lo switch ottico a una velocità di modulazione del segnale nell’ordine degli Hz è passata da un minuto a quasi un giorno».

In conclusione, cosa siete stati in grado di osservare?

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Raffaele Silvestri, primo autore dell’articolo pubblicato su Science Advances. È dottorando all’università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther. Si è laureato all’università di Roma “La Sapienza” discutendo una tesi di metrologia quantistica su chip fotonici integrati. Crediti: R. Silvestri

«Abbiamo osservato l’effetto della rotazione terrestre su uno stato di due fotoni entangled, ovvero l’introduzione di uno sfasamento relativo nello stato quantistico causato dall’effetto Sagnac (un effetto predetto dalla relatività speciale) che è raddoppiato in grandezza rispetto al caso “classico” in cui un fascio laser o singoli fotoni indipendenti e scorrelati (in assenza di correlazioni di natura quantistica) fossero stati utilizzati nella misura interferometrica (effetto di super-risoluzione). L’effetto osservato risiede quindi all’interfaccia fra la relatività speciale e la meccanica quantistica (compatibile con la teoria quantistica dei campi). Se confrontiamo la precisione con quella che possono raggiungere i moderni giroscopi ottici (sensori di rotazione “classici” che operano con fasci laser), siamo ancora lontani. In particolare, i giroscopi laser (ring laser gyroscopes) sono in grado di percepire anche le minime variazioni della velocità di rotazione della Terra e dell’orientamento del suo asse (dovuta ad esempio al moto delle maree) e questa sensibilità è di ordini di grandezza superiore alla nostra (vedi progetto Ginger/Ino dell’Infn). Ciò che è notevole è la precisione che abbiamo raggiunto nel misurare una velocità di rotazione con l’entanglement quantistico, in particolare con uno stato quantistico di due fotoni massimamente entangled. Una domanda che viene naturale porsi è perché non sfruttare l’enorme sensibilità, precisione, accuratezza e stabilità di tali strumenti già operativi e sondarli con fotoni entangled. La risposta è che queste sono cavità ottiche che selezionano una lunghezza d’onda ben precisa e di conseguenza quasi tutti i fotoni, avendo una larghezza di banda spettrale molto maggiore, sarebbero filtrati dalla cavità e perduti. Per questo riteniamo che l’approccio in fibra ottica sia il più promettente se si vogliono spingere i limiti di precisione raggiungibile con stati entangled di singoli fotoni».

Cosa comporta il risultato ottenuto rispetto a esperimenti futuri?

«Un seguito naturale a questo esperimento potrebbe essere l’utilizzo di un altro effetto quantistico senza analogo classico, come ad esempio l’effetto Hong-Ou-Mandel, che può essere osservato inviando due fotoni indistinguibili (non è necessario che siano entangled) nell’interferometro. Questo manterrebbe la natura quantistica dell’esperimento, ma allo stesso tempo potrebbe aumentare ulteriormente la sua sensibilità andando a misurare il ritardo temporale, invece dello sfasamento, fra i due fotoni che si propagano in sensi opposti. Inoltre, la piattaforma interferometrica e lo schema sperimentale è abbastanza flessibile da consentire ulteriori test con molti altri stati quantistici a più fotoni. Alcuni di essi sono più resistenti alle perdite di fotoni rispetto agli stati NOON e potrebbero in linea di principio dimostrare un vantaggio quantistico incondizionato, aumentando al contempo la precisione della misura grazie al flusso di fotoni più elevato. In ogni caso, il passo successivo sarebbe quello di aumentare la precisione di una quantità significativa tale da poter rilevare effetti gravitazionali come l’effetto geodetico (o precessione di de Sitter) e di frame-dragging (o precessione di Lense-Thirring) su una coppia di fotoni entangled. Si tratta di effetti gravitazionali previsti dalla teoria generale della relatività di Einstein in presenza di un corpo massiccio statico (geodetico) e rotante (frame-dragging, cioè la Terra in rotazione “trascina” la sua curvatura dello spaziotempo) e si manifesta semplicemente come una piccola correzione della velocità di rotazione della Terra. Questa misura rappresenterebbe il primo test sperimentale del comportamento di un fenomeno quantistico fondamentale come l’entanglement in uno spaziotempo curvo come descritto dalla teoria della gravitazione di Einstein, facendo luce su questo regime inesplorato dove le due teorie fondamentali si incontrerebbero, e forse in un futuro non così lontano».


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Chang’e 6 è rientrata sulla Terra con rocce lunari


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La capsula della sonda lunare cinese Chang’e 6, con a bordo i primi campioni al mondo provenienti dal lato nascosto della Luna, è atterrata oggi sulla Terra a Siziwang Banner, nella Mongolia interna. Lo riferiscono i media di Pechino, ricordando che la navicella era approdata sul nostro satellite il 2 giugno scorso. La missione sottolinea la crescente influenza tecnologica cinese nelle missioni aerospaziali.

Chang’e-6 back to earth. Source:t.co/7Psoz3ejKX pic.twitter.com/AghmeEjkLs

— CNSA Watcher (@CNSAWatcher) June 25, 2024

La capsula di rientro dovrebbe contenere circa due chili di materiale, raccolto utilizzando una sorta di paletta e un trapano (vedi il video della Cnsa, qui di seguito), ed è uno dei quattro moduli della missione, lanciata il 3 maggio e arrivata nell’orbita lunare il primo giugno. La Chang’e 6 comprende infatti il lander che si posato al suolo nel cratere Apollo, all’interno del bacino South Pole-Aitken. A bordo c’erano la capsula di rientro, appena tornata sulla Terra, e un ascender, ossia il piccolo razzo che ha portato la capsula fino alla sonda rimasta nell’orbita lunare e che poi l’ha portata a Terra.

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La Cina è finora il primo e unico paese ad avere toccato il suolo del lato nascosto della Luna e Chang’e 6 è la seconda missione diretta a questa parte ancora sostanzialmente sconosciuta del satellite naturale della Terra. La prima, nel gennaio 2019, era stata la missione Chang’e 4, che ha portato sulla Luna il rover Yutu 2, ancora attivo. Con le missioni Chang’e 7 e Chang’e 8, previste rispettivamente nel 2026 e nel 2028, la Cina si prepara a raccogliere i dati necessari per costruire un avamposto lunare. La missione e Chang’e 8, in particolare, dovrà sperimentare le tecnologie necessarie per realizzare la base lunare, che la Cina intende costruire vicino al polo sud, ricco di acqua, intorno al 2030.

Fonte: Ansa


Cinque nane brune per la coppia Gaia e Gravity


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Impressione artistica di una nana bruna in orbita vicino a una stella brillante. Crediti: Esa

Avete mai provato a fotografare una lucciola accanto a un lampione acceso? È probabile che l’unica cosa che vedrete nella vostra istantanea sia il bagliore del lampione. È lo stesso problema che devono affrontare gli astronomi quando cercano piccole e deboli stelle oppure pianeti accanto a una stella luminosa.

Per affrontare questa sfida, un team internazionale di astronomi guidato da Thomas Winterhalder, scienziato dell’European Southern Observatory (Eso), ha iniziato a cercare nel catalogo prodotto da Gaia, che elenca centinaia di migliaia di stelle che si sospetta abbiano una compagna. Sebbene gli oggetti compagni non siano abbastanza luminosi da essere visti direttamente da Gaia, la loro presenza provoca piccole oscillazioni nel percorso delle stelle ospiti più luminose, che solo Gaia può misurare.

Nel catalogo delle orbite stellari di Gaia, il team ha identificato otto stelle da sottoporre all’attenzione di Gravity, l’interferometro nel vicino infrarosso del Very Large Telescope dell’Eso, a Cerro Paranal in Cile. Gravity combina la luce infrarossa di diversi telescopi per cogliere dettagli minuscoli in oggetti deboli, con una tecnica chiamata interferometria.

Grazie al sensibile e risoluto occhio di Gravity, il team ha catturato il segnale luminoso di tutte le otto compagne previste, sette delle quali precedentemente sconosciute. Tre delle compagne sono stelle molto piccole e deboli, mentre le altre cinque sono nane brune. Si tratta di oggetti celesti a metà tra i pianeti e le stelle: più massicci dei pianeti più pesanti, ma più leggeri e più deboli delle stelle più leggere. Una delle nane brune individuate in questo studio orbita intorno alla sua stella ospite alla stessa distanza della Terra dal Sole. È la prima volta che una nana bruna così vicina alla sua stella ospite è stata catturata direttamente.

«Abbiamo dimostrato che è possibile catturare un’immagine di una debole compagna, anche quando orbita molto vicino alla sua luminosa ospite», spiega Winterhalder. «Questo risultato evidenzia la notevole sinergia tra Gaia e Gravity. Solo Gaia è in grado di identificare sistemi così stretti che ospitano una stella e una compagna “nascosta”, e poi Gravity può subentrare per fotografare l’oggetto più piccolo e più debole con una precisione senza precedenti».

Le piccole compagne dedotte dalle osservazioni di Gaia si trovano tipicamente a poche decine di millisecondi d’arco dalle stelle attorno alle quali orbitano, che corrisponde circa alla dimensione angolare di una moneta da un euro vista da 100 chilometri di distanza. «Nelle nostre osservazioni, i dati di Gaia agiscono come una sorta di cartello segnaletico», continua Winterhalder. «La parte di cielo che possiamo vedere con Gravity è molto piccola, quindi dobbiamo sapere dove guardare. Le misure di precisione senza precedenti di Gaia dei movimenti e delle posizioni delle stelle sono essenziali per indirizzare il nostro strumento nella giusta direzione del cielo».

La complementarietà di Gaia e Gravity va oltre l’utilizzo dei dati di Gaia per pianificare le osservazioni successive e consentire le rilevazioni. Combinando le due serie di dati, gli scienziati hanno potuto “pesare” separatamente i singoli oggetti celesti e distinguere la massa della stella ospite e della rispettiva compagna.

Gravity ha anche misurato il contrasto tra la compagna e la stella ospite in una gamma di lunghezze d’onda nell’infrarosso. Insieme alle stime della massa, queste conoscenze hanno permesso al team di valutare l’età delle compagne. Sorprendentemente, due delle nane brune si sono rivelate meno luminose di quanto ci si aspetterebbe date le loro dimensioni e la loro età. Una possibile spiegazione potrebbe essere che le nane stesse abbiano una compagna ancora più piccola.

Dopo aver dimostrato la potenza del duo Gaia-Gravity, gli scienziati sono ora ansiosi di individuare i potenziali pianeti compagni delle stelle elencate nel catalogo Gaia. «La capacità di individuare i piccoli moti di coppie vicine nel cielo è un’esclusiva della missione Gaia. Il prossimo catalogo, che sarà reso disponibile nell’ambito della quarta release di dati (Dr4), conterrà una raccolta ancora più ricca di stelle con compagni potenzialmente più piccoli», osserva Johannes Sahlmann dell’Esa. «Questo risultato apre nuove strade nella caccia ai pianeti della nostra galassia e ci fa intravedere nuovi mondi lontani».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Combining Gaia and GRAVITY: Characterising Five New Directly Detected Substellar Companions” di T.O. Winterhalder, S. Lacour, A. Merand, J. Kammerer, A.-L. Maire, T. Stolker, N. Pourre, C. Babusiaux, A. Glindemann, R. Abuter, A. Amorim, R. Asensio-Torres, W.O. Balmer, M. Benisty, J.-P. Berger, H. Beust, S. Blunt, A. Boccaletti, M. Bonnefoy, H. Bonnet, M.S. Bordoni, G. Bourdarot, W. Brandner, F. Cantalloube, P. Caselli, B. Charnay, G. Chauvin, A. Chavez, E. Choquet, V. Christiaens, Y. Clénet, V. Coudé du Foresto, A. Cridland, R. Davies, R. Dembet, J. Dexter, A. Drescher, G. Duvert, A. Eckart, F. Eisenhauer, N.M. Forster Schreiber, P. Garcia, R. Garcia Lopez, T. Gardner, E. Gendron, R. Genzel, S. Gillessen, J.H. Girard, S. Grant, X. Haubois, G. Heißel, Th. Henning, S. Hinkley, S. Hippler, M. Houlle, Z. Hubert, L. Jocou, M. Keppler, P. Kervella, L. Kreidberg, N.T. Kurtovic, A.-M. Lagrange, V. Lapeyrere, J.-B. Le Bouquin, D. Lutz, F. Mang, G.-D. Marleau, P. Molliere, J.D. Monnier, C. Mordasini, D. Mouillet, E. Nasedkin, M. Nowak, T. Ott, G.P.L. Otten, C. Paladini, T. Paumard, K. Perraut, G. Perrin, O. Pfuhl, L. Pueyo, D.C. Ribeiro, E. Rickman, Z. Rustamkulov, J. Shangguan, T. Shimizu, D. Sing, J. Stadler, O. Straub, C. Straubmeier, E. Sturm, L.J. Tacconi, E.F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Vincent, S.D. von Fellenberg, J. Wang, F. Widmann, J. Woillez, S. Yazici, and the GRAVITY Collaboration


Tre potenziali super-Terre attorno a una stella vicina


media.inaf.it/2024/06/24/hd-48…
Individuate tre potenziali super-Terre in orbita attorno a una stella nana arancione relativamente vicina a noi. A firmare la scoperta, pubblicata oggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un team guidato da Shweta Dalal dell’Università di Exeter (Regno Unito).

I tre candidati esopianeti orbitano attorno alla stella Hd 48498, situata a circa 55 anni luce dalla Terra, impiegando rispettivamente 7, 38 e 151 giorni terrestri, e hanno masse minime che vanno da 5 a 11 volte quella della Terra. Degno di particolare interesse è Hd 48948 d, il candidato esopianeta più esterno: risiede infatti nella zona abitabile della sua stella ospite, dove le condizioni potrebbero consentire l’esistenza di acqua allo stato liquido. Il team suggerisce che la vicinanza della stella, unita all’orbita favorevole del pianeta più esterno, rende questo sistema un obiettivo promettente per futuri studi di imaging diretto ad alto contrasto e spettroscopia ad alta risoluzione.

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Rappresentazione artistica del sistema planetario Hd 48948, che si trova a una distanza di 55 anni luce dalla Terra. La sonda Voyager 1, con la sua velocità attuale, impiegherebbe quasi un milione di anni per raggiungere Hd 48948. Crediti: Soumita Samanta (www.soumitasamanta.com)

«Fra quelli con una stella simile al Sole, si tratta del sistema planetario a noi più vicino nel quale sia presente una super-Terra nella zona abitabile», dice a Media Inaf uno degli autori dello studio, l’astronomo Luca Malavolta dell’Università di Padova, ricordando che «la scoperta è il risultato di anni di osservazioni al Telescopio nazionale Galileo (Tng) con lo spettrografo Harps-N, uno dei più precisi cacciatori di esopianeti al mondo».

Grazie a Harps-N, nell’arco di un decennio il team ha raccolto quasi 190 misure di velocità radiale di alta precisione. Le misure di velocità radiale, tracciando i minuscoli movimenti della stella causati dai pianeti che le orbitano attorno, sono cruciali per queste scoperte. Analizzando lo spettro della luce della stella, i ricercatori riescono a determinare se si sta muovendo verso di noi (blueshift) o lontano da noi (redshift), risalendo così al numero, al periodo di rivoluzione e alla massa dei pianeti presenti nel sistema. Per garantire l’accuratezza della scoperta, il team ha fatto ricorso a diverse metodologie e analisi di confronto.

Queste tre potenziali super-Terre – vale a dire, pianeti con una massa superiore a quella della Terra ma significativamente inferiore a quella dei giganti di ghiaccio del Sistema solare, Urano e Nettuno – sono state individuate, in particolare, nell’ambito del programma di Harps-N “Rocky Planet Search”. La scoperta apre ora nuove possibilità per la comprensione dei sistemi planetari e per la ricerca della presenza di vita oltre il Sistema solare.

«Questa scoperta evidenzia l’importanza del monitoraggio a lungo termine e delle tecniche avanzate per scoprire i segreti dei sistemi stellari lontani», sottolinea Dalal. «Siamo ansiosi di continuare le nostre osservazioni e di cercare altri pianeti nel sistema». E aver individuato «una super-Terra nella zona abitabile attorno a una stella arancione», conclude la ricercatrice, «è un entusiasmante passo avanti nella nostra ricerca di pianeti abitabili attorno a stelle di tipo solare».

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Trio of super-Earth candidates orbiting K-dwarf HD 48948: a new habitable zone candidate”, di S Dalal, F Rescigno, M Cretignier, A Anna John, F Z Majidi, L Malavolta, A Mortier, M Pinamonti, L A Buchhave, R D Haywood, A Sozzetti, X Dumusque, F Lienhard, K Rice, A Vanderburg, B Lakeland, A S Bonomo, A Collier Cameron, M Damasso, L Affer, W Boschin, B Cooke, R Cosentino, L Di Fabrizio, A Ghedina, A Harutyunyan, D W Latham, M López-Morales, C Lovis, A F Martínez Fiorenzano, M Mayor, B Nicholson, F Pepe, M Stalport, S Udry, C A Watson e T G Wilson


Jwst osserva antichissimi ammassi stellari


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Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

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A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari. Crediti:
Esa/Webb, Nasa & Csa, L. Bradley (Stsci), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (Jwst) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

«Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale», commenta Adamo, prima autrice del lavoro. «La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce».

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da Jwst nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’universo.

«Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito», ricorda Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna e terzo autore dell’articolo. «Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di Jwst: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari».

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

«Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio Jwst e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti», aggiunge Vanzella. «L’universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto».

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con Jwst, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude: «Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems arc con due strumenti, NirSpec e Miri: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch, Jose M. Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura


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The chart of cosmic exploration

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Doppio passaggio in coincidenza con l’Asteroid Day


media.inaf.it/2024/06/23/2011-…
Per tutti gli appassionati di asteroidi near-Earth, giugno è un mese speciale perché, a partire dal 2015, ogni 30 giugno si celebra l’Asteroid Day ossia la giornata mondiale degli asteroidi, volta a sensibilizzare i cittadini sul rischio impatti con i corpi minori del Sistema Solare. Infatti, come ben sanno i lettori, il 30 giugno 1908 nella regione di Tunguska in Siberia, cadde un piccolo asteroide di 50-80 metri di diametro che devastò 2150 kmq di taiga siberiana, senza formazione di un cratere da impatto e al suolo non è mai stata ritrovata nessuna meteorite.

Quest’anno, il mese di giugno 2024 si chiude con un doppio passaggio ravvicinato che la Terra avrà con gli asteroidi (415029) 2011 UL21 e 2024 MK che, in un certo senso, “celebreranno” l’Asteroid Day. Questi asteroidi sono entrambi dei Pha (Potentially Hazardous Asteroid), il che non vuol dire che siamo spacciati, ma semplicemente che sono corpi con dimensioni maggiori di 140 metri e possono arrivare a meno di 7,5 milioni di km dall’orbita terrestre. Chiarito che per la Terra in questo caso non ci sono rischi, vediamo che cosa conosciamo di questi due asteroidi, quando verrà raggiunta la minima distanza e quando saranno osservabili dall’Italia.

Iniziamo da 2011 UL21, scoperto il 17 ottobre 2011 dalla Catalina Sky Survey. Questo asteroide si muove su un’orbita di tipo Apollo avente un semiasse maggiore di circa 2,1 unità astronomiche, un’eccentricità di 0,65 e con un’inclinazione di quasi 35° sul piano dell’eclittica. Questa notevole inclinazione, indice di una storia orbitale travagliata, all’afelio porta 2011 UL21 a innalzarsi di ben 300 milioni di km sul piano dell’eclittica, mentre al perielio – che cade grossomodo all’altezza dell’orbita di Venere – scende al di sotto di circa 60 milioni di km. Dal punto di vista fisico di 2011 UL21 non conosciamo molto: abbiamo la stima del diametro, circa 2,5 km, e una misura approssimata del periodo di rotazione, circa 2,7 h. Questo valore è vicino alle 2,5 h della spin barrier, al di sotto del quale un asteroide inizia a perdere materia nello spazio, quindi non è da escludere che 2011 UL21 possa essere un sistema binario simile a Dinkinesh.

La scoperta di 2024 MK è invece molto più recente, infatti è avvenuta solo il 16 giugno 2024 grazie alla rete di telescopi Atlas, un sistema di alert per l’impatto di asteroidi, sviluppato dall’Università delle Hawaii e finanziato dalla Nasa, composto da quattro telescopi (due nelle Hawaii, uno in Cile e uno in Sud Africa), che scansionano automaticamente il cielo più volte ogni notte alla ricerca di oggetti in movimento. L’annuncio dell’esistenza di 2024 MK è stata fatto il 19 giugno 2024 nella Minor Planet Electronic Circular 2024-M31. Anche in questo caso siamo in presenza di un oggetto che si muove su un’orbita di tipo Apollo, abbastanza simile a quella di 2011 UL21, ma con l’inclinazione sull’eclittica di soli 8°. A parte una stima delle dimensioni, basata sulla luminosità che lo colloca nel range 150-200 m, di 2024 MK non conosciamo nulla, nemmeno il periodo di rotazione.

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L’asteroide 2024 MK identificato dal cerchietto rosso ripreso il 19 giugno 2024 dal telescopio “Ferrante” (IAU M21) operante presso la Hakos Farm in Namibia. Il sud è in alto, l’est a sinistra. Crediti: Luca Buzzi e Gianni Galli

Giovedì 27 giugno 2024 alle 20:16 Utc, 2011 UL21 si troverà alla minima distanza dalla Terra di 6,6 milioni di km. Si tratta della minima distanza più piccola mai raggiunta dopo la sua scoperta. Per vederlo a una distanza minore bisognerà aspettare il 25 giugno del 2089, quando 2011 UL21 si troverà a soli 2,7 milioni di km dal nostro pianeta. La minima distanza di 2024 MK invece sarà raggiunta il 29 giugno 2024, alle 13:41 Utc, quando si troverà a 295mila km dalla Terra, ossia al di sotto del raggio dell’orbita lunare. Quindi in un paio di giorni avremo un asteroide di grosse dimensioni che passerà a milioni di km di distanza, mentre un altro molto più piccolo del primo che invece si troverà molto più vicino a noi. Il risultato sarà che entrambi gli asteroidi diventeranno molto luminosi rispetto al classico Nea, pur restando sempre invisibili a occhio nudo: un’occasione da non lasciarsi scappare!

Purtroppo però, dato che arriveranno entrambi da sotto il piano dell’eclittica, nella fase di avvicinamento alla Terra, questi asteroidi non saranno osservabili dall’emisfero settentrionale e quindi dall’Italia. Nel caso di 2011 UL21 dalle nostre latitudini si potrà iniziare a osservarlo senza difficoltà a partire dal 28 giugno in prima serata basso sull’orizzonte ovest nella costellazione della Vergine, circa 24 ore dopo avere raggiunto la minima distanza dalla Terra. La sera del 28 giugno 2011 UL21 raggiungerà la massima luminosità con una magnitudine apparente di +11, quindi bello luminoso, ma del tutto invisibile a occhio nudo. Per quanto riguarda invece 2024 MK si potrà osservare a partire dalla notte fra il 29 e il 30 giugno, poche ore dopo avere raggiunto la minima distanza e aver toccato anche la massima luminosità con una magnitudine di +8,5. Dall’Italia, a inizio serata, questo asteroide brillerà ancora di magnitudine +10,6 nella costellazione di Pegaso in movimento verso la costellazione di Andromeda. All’alba del 30 giugno 2024 MK sarà diventato decisamente più debole, arrivando alla magnitudine +12, per via del sensibile allontanamento da noi. Data la distanza ridotta a cui si troverà dalla Terra, il moto angolare in cielo di 2024 MK nella notte fra il 29 e il 30 giugno passerà da 260 arcsec/minuto a 116 arcsec/minuto il che significa che, anche usando un piccolo telescopio da 15-20 cm di diametro, potrà essere visto muoversi in tempo reale nel campo dell’oculare.

Come abbiamo già accennato, pur essendo invisibili a occhio nudo, entrambi questi asteroidi potranno essere osservati visualmente all’oculare di piccoli telescopi e ripresi anche con piccoli teleobiettivi da 135-200 mm di focale con tempi di posa di 20-30 s a patto di usare una reflex abbinata a un semplice astro-inseguitore. In ogni caso appariranno come piccoli puntini luminosi, ma non sarà difficile riprendere la traccia di questi asteroidi mentre si spostano in cielo, specie nel caso di 2024 MK, che è quello con la velocità angolare più elevata. Per puntare l’esatta zona di cielo in cui si troveranno i due asteroidi al momento della ripresa, si può utilizzare il servizio effemeridi del Minor Planet Center. Per chiudere, giova osservare che per entrambi questi asteroidi non è nota la classificazione tassonomica, quindi questo doppio passaggio ravvicinato sarà un’ottima occasione per gli astronomi che si occupano di corpi minori per caratterizzarli dal punto di vista fotometrico.


Meno di 24 ore al decollo del satellite Svom


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Illustrazione della missione franco-cinese Svom, dedicata allo studio dei gamma-ray burst. Crediti: Cnes/ ill. Sattler Oliver

Domani, 22 giugno 2024, alle ore 7:00 Utc (le 9:00 a Roma, le 15:00 a Xichang) un razzo cinese Long March 2C lancerà in orbita il satellite Svom (acronimo di Space-based multi-band astronomical Variable Objects Monitor), una missione franco-cinese dedicata allo studio dei gamma-ray burst.

Dopo eRosita, esempio di cooperazione tra Germania e Russia (poi interrotta dalla guerra con l’Ucraina) per studiare il cielo X, la missione Svom è il risultato di una collaborazione tra due agenzie spaziali nazionali, la China National Space Administration (Cnsa) e il Centre national d’études spatiales (Cnes), con il contributo dello Institute of Research into the Fundamental Laws of the Universe (Irfu) e il Research Institute of Astrophysics and Planetology (Irap) per la Francia e del National Astronomical Observatory (Nao) e Beijing High Energy Institute (Ihep) per la Cina.

La missione è composta da quattro strumenti, di cui due francesi (Eclairs e Mxt) e due cinesi (Grm e Vt). L’obiettivo di Eclairs è rilevare e localizzare i lampi gamma nella banda dei raggi X e raggi gamma a bassa energia (da 4 a 250 keV); quello di Mxt è l’osservazione dei lampi gamma nella banda dei raggi X morbidi (da 0,2 a 10 keV). Grm misurerà lo spettro dei burst ad alta energia (da 15 keV a 5000 keV), mentre il telescopio Vt osserverà l’emissione visibile prodotta immediatamente dopo un lampo gamma.

Tic tac tic tac … ⏲️

Svom se prépare au lancement. Décollage prévu le 22 juin 2024 à 7h UTC (9h à Paris) depuis la base de Xichang (Sichuan, UTC+8)

t.co/xxZHEmAUBR pic.twitter.com/qcLVku4NWy

— SVOM (@SVOM_mission) June 11, 2024

Il satellite, dal peso di circa 930 chilogrammi per un carico utile di 450 chilogrammi, sarà collocato in un’orbita terrestre bassa con un’inclinazione di 30 gradi, a un’altitudine di 625 chilometri e un periodo orbitale di 96 minuti.

Non appena Svom rileverà un’esplosione di raggi gamma, allerterà un team di scienziati attivo 24 ore al giorno. In meno di cinque minuti, una rete di telescopi a terra volgerà lo sguardo verso l’esplosione, nella speranza di saperne di più su questo affascinante quanto violento fenomeno cosmico.


Arrampicandosi sulle cime dello spaziotempo


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In primo piano, rappresentazione della curvatura dello spaziotempo in corrispondenza di grandi masse. Crediti: Esa/C. Carreau

Complici gli exhibit di tanti festival scientifici, siamo ormai abituati a immaginare lo spaziotempo come un telo elastico punteggiato qua e là da avvallamenti, depressioni e pozzi, laddove un buco nero o qualche altro oggetto massiccio – interpretato di solito da una pesante biglia – ­lo affossa. Ma potrebbero esserci anche innalzamenti, nel tessuto dello spaziotempo? Picchi, rilievi e montagne? Forse sì, o almeno questa è l’opinione di chi ritiene che la gravità – un effetto, o meglio, una manifestazione, secondo la relatività generale, della curvatura dello spaziotempo – abbia anche una controparte repulsiva, una sorta di antigravità.

Chi la eserciterebbe, questa repulsione? Cosa sarebbe in grado di “sollevarlo”, lo spaziotempo, invece d’affossarlo? Secondo alcuni fisici teorici, ad avere questa controintuitiva proprietà sarebbe qualcosa di ben noto e – per quanto non in abbondanza – presente ovunque attorno a noi: l’antimateria. E come funzionerebbe? Per rimanere nell’analogia del telo elastico, immaginiamo di poter guardare “da sotto” per vedere come apparirebbe l’altro lato del telo: in corrispondenza degli affossamenti vedremmo innalzamenti. E viceversa: laddove nello spaziotempo invertito un “anti buco nero” crea una profonda depressione, ecco che sul nostro versante d’universo ci ritroveremmo un picco. Vale a dire, una regione di spaziotempo che respinge tutto ciò che le si avvicina.

Va detto che si tratta di ipotesi confinate nel regno della matematica (almeno per ora), ma se le cose stessero effettivamente così materia e antimateria potrebbero non subire una reciproca attrazione gravitazionale, anzi: si respingerebbero. Con alcuni gradevoli corollari. Per esempio, potremmo forse fare a meno dell’energia oscura, perché magari basterebbe questa repulsione a spiegare l’espansione dell’universo. E non avremmo più l’imbarazzante problema di dover giustificare la scomparsa dell’antimateria dopo il big bang, visto che si potrebbe ancora trovare in qualche regione del cosmo.

Meraviglioso, no? C’è però almeno un problema: i dati sperimentali. Gli esperimenti condotti l’anno scorso al Cern dalla collaborazione Alpha, osservando il comportamento di atomi di anti-idrogeno in caduta libera, hanno dimostrato che materia e antimateria si attraggono, come previsto dal principio di equivalenza, e che l’antimateria è soggetta alla stessa accelerazione gravitazionale – o quasi – della materia ordinaria.

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Rappresentazione schematica delle due soluzioni proposte da Villata al conflitto tra la gravità CPT e i risultati dell’esperimento Alpha-g. Nel primo caso (a sinistra), la gravità repulsiva su larga scala sarebbe data dall’interazione con la materia PT-trasformata (e non con l’antimateria) in un universo dominato dalla materia. Nel secondo caso (a destra), l’intera CPT si conserva, dando luogo a una gravità repulsiva materia-antimateria. Ma la minuscola quantità di antimateria immersa nel nostro spazio-tempo non può essere PT-trasformata. Crediti: M. Villata, Annalen der Physik, 2024

Ma c’è chi non si dà per vinto: Massimo Villata, ricercatore associato all’Inaf di Torino da tempo impegnato nelle ricerche sulla gravità repulsiva, ha pubblicato lo scorso aprile su Annalen der Physik – la stessa rivista sulla quale uscirono nel 1905 i quattro articoli storici di Einstein, e nel 1916 quello celebre sulla relatività generale – uno studio, disponibile in open access, nel quale propone due soluzioni (vedi schema a fianco) per salvare l’ipotesi della gravità repulsiva nonostante i risultati ottenuti al Cern.

Com’è possibile? I fisici della collaborazione Alpha avrebbero forse commesso qualche errore? «No, non credo che ci siano errori sperimentali», dice Villata a Media Inaf, «e quindi qui sulla Terra abbiamo attrazione tra una materia dominante e le minuscole briciole di antimateria che riusciamo a produrre. Posso sinceramente dire che me lo aspettavo, perché quell’esigua quantità di antimateria non può invertire il proprio spaziotempo, immersa com’è nel flusso temporale della pervasiva materia che la circonda. Sarebbe come gettare controcorrente una fogliolina in un fiume impetuoso e pretendere che possa risalire la corrente. Ma quel valore che trovano di 0.75 g (invece di 1 g), sebbene abbia una grande incertezza, potrebbe essere un indizio del tentativo della foglia di opporsi al fluire del fiume».

Se qui sulla Terra non possiamo apprezzarne gli effetti, dove bisognerebbe dunque andare, per misurare sperimentalmente l’antigravità? In quale luogo dell’universo si nasconderebbe, tutta questa antimateria respingente? La risposta che s’incontra nell’articolo di Villata è quasi ovvia: se cerchiamo qualcosa che respinge la materia, conviene andare a vedere anzitutto là dove la materia non c’è, o quanto meno scarseggia. Luoghi del genere nell’universo esistono: si chiamano vuoti cosmici. «Sono regioni ben note ad astronomi e cosmologi, immense “bolle” nell’universo dove la materia è quasi assente», spiega Villata. «E manifestano un notevole effetto repulsivo sulle galassie che le circondano. Sarebbero “isole” di spaziotempo invertito, alternate nel cosmo alle isole di materia occupate dagli ammassi di galassie».

Poiché dei vuoti cosmici, per lo meno di quelli più grandi dell’universo visibile, non solo sappiamo che esistono ma ne conosciamo anche la posizione in cielo, viene a questo punto naturale chiedersi perché non siamo mai riusciti a osservarla, tutta questa antimateria teoricamente in essi presente. «Non la vediamo», suggerisce Villata, «proprio perché emetterebbe radiazione cosiddetta “anticipata” (cioè l’altra soluzione delle equazioni di Maxwell nel vuoto, rispetto a quella della radiazione che ben conosciamo), per la quale non abbiamo (ancora) strumenti capaci di rivelarla. Basti pensare che i fotoni emessi dall’antimateria verrebbero nel nostro spaziotempo “percepiti” come fotoni emessi dal rivelatore per raggiungere l’anti-stella che li ha prodotti, cioè con un cammino spaziotemporale invertito. Quindi, là dove vediamo il buio nell’universo non sappiamo per ora dire se c’è il vuoto oppure antimateria».

Per saperne di più:


Buchi neri che accrescono come giovani stelle


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Un vento a spirale aiuta il buco nero supermassiccio della galassia ESO320-G030 a crescere, aiutato dai campi magnetici. In questa illustrazione, il nucleo della galassia è dominato da un vento rotante di gas denso che si dirige verso l’esterno dal buco nero supermassiccio (nascosto) al centro della galassia. I movimenti del gas, tracciati dalla luce delle molecole di cianuro di idrogeno, sono stati misurati con il telescopio Alma. Crediti: M. D. Gorski/Aaron M. Geller, Northwestern University, Ciera

Nel centro della maggior parte delle galassie, compresa la nostra, dimora un buco nero supermassiccio. Come facciano questi oggetti a crescere fino a “pesare” l’equivalente di milioni o miliardi di stelle è ancora un mistero. Per cercare di capirlo, un team di scienziati guidato da Mark Gorski della Northwestern University e Susanne Aalto della Chalmers ha scelto di studiare la galassia Eso320-G030, distante solo 120 milioni di anni luce. È una galassia molto attiva, che forma stelle a una velocità dieci volte superiore alla nostra.

«Poiché questa galassia è molto luminosa nell’infrarosso, i telescopi possono risolvere dettagli sorprendenti nel suo centro. Volevamo misurare la luce delle molecole trasportate dai venti provenienti dal nucleo della galassia, sperando di tracciare il modo in cui i venti vengono accelerati da un buco nero supermassiccio che si sta accrescendo, o che è in procinto di farlo. Utilizzando Alma, siamo riusciti a studiare la luce proveniente da strati spessi di polvere e gas», spiega Susanne Aalto, docente di radioastronomia alla Chalmers.

Per focalizzarsi sul gas denso, il più possibile vicino al buco nero centrale, gli scienziati hanno studiato la luce emessa dalle molecole di cianuro di idrogeno (HCN). Grazie alla risoluzione angolare di Alma, ossia alla sua capacità di distinguere dettagli fini, e di tracciare i movimenti del gas (utilizzando l’effetto Doppler) hanno scoperto pattern che suggeriscono la presenza di un vento magnetizzato e rotante.

Mentre altri venti e getti al centro delle galassie spingono il materiale lontano dal buco nero supermassiccio, il vento rilevato qui suggerisce un ulteriore processo che, al contrario dei precedenti, potrebbe alimentare il buco nero e contribuire a farlo crescere. Prima di cadere nel buco nero, la materia gli ruota attorno come l’acqua intorno a uno scarico. Quella che si avvicina si raccoglie in un disco rotante, dove si sviluppano e si rafforzano i campi magnetici che aiutano a spostare materia dalla galassia, creando il vento a spirale. La perdita di materia in questo vento rallenta la rotazione del disco e questo facilita il fluire della materia verso il buco nero.

Per Gorski, il modo in cui ciò avviene ricorda in modo impressionante un ambiente su scala molto più piccola nello spazio: i vortici di gas e polvere che portano alla nascita di nuove stelle e pianeti. «È assodato che le stelle nelle prime fasi della loro evoluzione crescono con l’aiuto di venti rotanti, accelerati da campi magnetici, proprio come il vento di questa galassia. Le nostre osservazioni mostrano che i buchi neri supermassicci e le piccole stelle possono crescere con processi simili, ma su scale molto diverse», afferma Gorski.

Potrebbe questa scoperta costituire un indizio per risolvere il mistero della crescita dei buchi neri supermassicci? Per rispondere, occorre studiare altre galassie che potrebbero ospitare deflussi a spirale nascosti nei loro centri. «Nelle nostre osservazioni vediamo una chiara evidenza di un vento rotante che aiuta a regolare la crescita del buco nero centrale della galassia», conclude Gorski. «Ora che sappiamo cosa cercare, il passo successivo è scoprire quanto sia comune questo fenomeno. E se questa è una fase attraverso la quale passano tutte le galassie con buchi neri supermassicci, cosa accadrà loro in seguito?».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “A spectacular galactic scale magnetohydrodynamic powered wind in ESO 320-G030” di Mark Gorski, Susanne Aalto, Sabine König, Clare F. Wethers, Chentao Yang, Sebastien Muller, Kyoko Onishi, Mamiko Sato, Niklas Falstad, J. G. Mangum, S. T. Linden, F. Combes, S. Martín, M. Imanishi, K. Wada, L. Barcos-Muñoz, F. Stanley, S. García-Burillo, P. P. van der Werf, A. S. Evans, C. Henkel, S. Viti, N. Harada, T. Díaz-Santos, J. S. Gallagher e E. González-Alfonso


Ixpe svela un tesoro nascosto nella Via Lattea


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Rappresentazione artistica dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer. Crediti: Nasa/Msfc

Il rilascio di energia gravitazionale nei sistemi binari è tra i processi fisici più potenti dell’universo. I sistemi binari che emettono raggi X sono costituiti da un oggetto compatto (un buco nero o una stella di neutroni) e da una stella compagna da cui viene risucchiato del gas. Fino a oggi sono state identificate alcune centinaia di queste sorgenti nella nostra galassia. A identificarle, il satellite Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer), realizzato dalla Nasa e dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) con il contributo sostanziale dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e di Ohb-Italia

Fin dai primi anni ’70, il sistema binario Cygnus X-3 è noto per diventare molto brillante in banda radio, salvo poi affievolirsi in pochi giorni. Questa sua peculiare caratteristica ha stimolato gli scienziati di tutto il mondo ad effettuare le prime indagini astronomiche coordinate. Il comportamento unico della sorgente durante questi rapidi eventi altamente energetici ha portato nel 1973 Robert Michael Hjellming a definirlo “il puzzle astronomico Cygnus X-3”. Da allora numerosi sforzi sono stati compiuti per comprendere meglio la sua natura e anche il satellite italiano Agile e la missione Fermi della Nasa (con importante partecipazione italiana) hanno rivelato alcuni anni fa un’emissione nei raggi gamma proveniente da questa sorgente.

Il punto di svolta nella soluzione di questo puzzle astrofisico è stata l’osservazione di Cygnus X-3 con il satellite Ixpe. Secondo Alexandra Veledina, ricercatrice presso l’Università di Turku (Finlandia) e autrice principale di uno studio pubblicato oggi su Nature Astronomy, l’uso della polarizzazione nei raggi X ha fornito informazioni cruciali sulla geometria del materiale in prossimità del buco nero centrale. «Abbiamo scoperto che l’oggetto compatto è circondato da un involucro di materia densa e opaca», dice la ricercatrice. «La luce che osserviamo è un riflesso dalle pareti interne di un “imbuto” simile a una “tazza” con l’interno a specchio».

«Sapevamo che Cygnus X-3 è una sorgente particolare», aggiunge Fabio Muleri, primo ricercatore all’Inaf Iaps di Roma e secondo autore dell’articolo, «ma siamo comunque rimasti a bocca aperta quando l’abbiamo osservata con gli occhi di Ixpe, che ci hanno permesso per la prima volta di osservare la polarizzazione, ovvero il grado di ordine, dei raggi X che emette. Il valore misurato, pari a oltre il 20 per cento, non può essere spiegato con nessun modello applicabile alle altre sorgenti di questo tipo e quindi ne abbiamo dovuto sviluppare uno appositamente. Questo si basa sull’assunzione che non osserviamo la luce emessa direttamente, ma quella che arriva a noi dopo essere stata riflessa da un “muro” formato dalla materia che sta cadendo nel buco nero».

Questa scoperta ha portato alla classificazione di Cygnus X-3 come una sorgente di raggi X ultra-luminosa (Ulx): la sorgente riesce ad inghiottire così tanto gas così rapidamente che una parte di questo non viene catturata del buco nero, ma viene invece espulsa dal sistema stesso. «Le Ulx sono tipicamente osservate come puntini luminosi nelle immagini delle galassie lontane. Le loro emissioni sono amplificate dall’imbuto che circonda l’oggetto compatto, agendo perciò come un megafono», spiega Juri Poutanen, dell’Università di Turku, coautore della ricerca. «Tuttavia, a causa delle enormi distanze di queste sorgenti, esse appaiono relativamente deboli ai telescopi a raggi X. La nostra scoperta ha ora svelato un corrispettivo estremamente luminoso di queste lontane Ulx anche all’interno della nostra stessa galassia».

«La materia densa e opaca che porta a una polarizzazione così alta nei raggi X era stata osservata finora solo in buchi neri supermassicci, che hanno masse milioni di volte più grandi. Questo rende l’osservazione Ixpe di Cygnus X-3 unica», conclude Andrea Marinucci, ricercatore all’Asi, «poiché mette in relazione oggetti compatti di qualche massa solare con quelli più massicci al centro di galassie lontane come Circinus e Ngc 1068».

Per saperne di più:


Il solstizio d’estate, tradizioni per l’uso


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Crediti: Fabio Partenheimer/Pexels.com

La commedia di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate fu pubblicata per la prima volta nel 1600 – erano gli anni in cui Galileo stava per puntare il cannocchiale verso il cielo – e ha ispirato innumerevoli opere in ogni campo dell’arte attraversando i secoli fino ai nostri giorni.

Tuttavia, se alle nostre latitudini temperate chiediamo a chiunque per strada cosa intende per “mezza estate” – a meno che non faccia parte di una ristretta élite di cultori della materia, letteraria o astronomica poco importa – sarà probabile ricevere una risposta che punta sul mese di agosto. La logica ci porta infatti a considerare che, se l’estate astronomica comincia il 21 giugno e termina il 21 settembre, la mezza estate cadrà più o meno in quel periodo. Ma la realtà è che da noi il concetto di “mezza estate” non esiste.

Più saliamo di latitudine e più la presenza del Sole viene ritenuta importante e meno scontata che dalle nostre parti. La ragione non risiede solamente nel fatto che i popoli nordici soffrono di una insolazione minore perché i raggi solari arrivano di sbieco (come da noi al tramonto), ma anche e soprattutto nella variazione molto più ampia, rispetto a latitudini più meridionali, della durata del giorno e della notte durante tutto l’arco dell’anno. A Stoccolma, ad esempio, che si trova quasi a 60° di latitudine sopra l’equatore, d’estate si raggiungono le 18 ore di luce e 6 di buio, mentre a Roma in questi giorni stiamo sperimentando al massimo 15 ore di luce e 9 di buio. All’equatore, in qualsiasi momento dell’anno, il giorno dura 12 ore, esattamente come la notte.

Midsummer e solstizio estivo

È in questo contesto che nasce l’importanza di celebrare la stagione calda in modo profondo con le feste di “midsummer”, idea che per tutti i popoli nordeuropei (e affini) non conosce equivoci e rappresenta infatti sempre e solo una cosa: il solstizio estivo, ovvero il culmine – nel nostro emisfero – dell’illuminazione della terra, sia in quanto a ore di luce che ad altezza del sole sull’orizzonte e ampiezza dell’arco descritto in cielo. Ma per solstizio non dobbiamo intendere solo quel preciso istante che ogni anno tutti i media del mondo si affannano a pubblicare in ore, minuti e secondi. E nemmeno l’intera giornata del 21 giugno basterebbe a descrivere midsummer. Per le genti nordiche il solstizio rappresenta quello che è nella realtà: un momento di stasi, un vero e proprio “ozio solare” a cui viene data grande importanza.

Fuochi nella notte di San Giovanni

Queste feste nordiche sono chiaramente di origine pagana, ma sono state nel tempo assorbite dal cristianesimo (che in quel caso è di stampo protestante) per essere dedicate alla figura di Giovanni Battista, santo veneratissimo e famoso non solo per aver battezzato Cristo ma anche per essere protettore dell’agricoltura e unico santo di cui nei calendari liturgici cristiani si festeggia non solo la morte ma anche la nascita, stabilita appunto il 24 giugno.

Come per il Natale, la vera festa è tuttavia rappresentata da un’attesa che inizia il 21 giugno e culmina nella notte di vigilia tra il 23 e il 24, in cui riti cristiani e pagani si intrecciano con un unico comun denominatore: il fuoco, inteso sia come purificatore (non mancano infatti i fantocci infarciti di petardi sistemati sui falò, un po’ come a carnevale) che come aiuto e supporto a quel sole che, da questo momento, comincerà un’inesorabile retromarcia verso la parte buia dell’anno. In realtà anche l’acqua ha un suo ruolo, infatti nella notte di San Giovanni vengono raccolte tutte quelle tipiche erbe e infiorescenze estive – come timo, salvia, elicriso, rosmarino e tante altre – che andranno in infusione in acqua, possibilmente proprio rugiada dell’alba del 24 giugno, per renderla medicamentosa e magica. Per questo in ambienti esoterici e astrologici, a noi estranei, quello tra il fuoco e l’acqua viene considerato un vero e proprio sposalizio.

Ovviamente il culto di san Giovanni è molto sentito anche da noi. Intanto è patrono di ben tre grandi città come Genova, Firenze e Torino, e poi il culto del fuoco resta presente in tante province italiane. In molti centri nella Sardegna nordoccidentale si festeggia ancora con i fuochi, e in particolare ad Alghero, dove i falò vengono accesi, analogamente a molte località spagnole, sulla grande spiaggia del Lido – nomen omen – di san Giovanni. Chi salta il fuoco per tre volte mano nella mano con un amico diventa “compare” o “comare” per tutta la vita.

Il solstizio estivo 2024: perché il 20 e non il 21?

Volete sapere allora quando sarà il solstizio del 2024? Potreste averlo trovato ovunque nella rete, ma è nostro dovere dare questi importanti dettagli: il solstizio estivo, inteso nella sua perfezione di “sole più alto e giornata più lunga” sarà oggi 20 giugno alle ore 22:50 ora italiana. Vi starete chiedendo perché il 20 e non il 21 e la risposta non è semplice. Le date cambiano di anno in anno: ad esempio, dal 2001 al 2100 saranno 54 i solstizi al 21 giugno e 46 quelli al 20. Gli aggiustamenti vengono calcolati tenendo conto del fatto che anno solare (o tropico) e anno siderale sono leggermente diversi. Il primo considera lo stesso punto raggiunto dalla Terra rispetto al Sole di un anno prima. Il secondo invece considera le stelle fisse e non il Sole. Sta di fatto che ogni anno ci sono circa sei ore di avanzo, rispetto ai canonici 365 giorni, che vengono compensate con l’inserimento di un 29 febbraio ogni quattro anni – l’anno bisestile.

Ma non finisce qui perché, per via della forma ellittica dell’orbita terrestre, l’estate boreale coincide quasi perfettamente con una particolare posizione della Terra rispetto al Sole, ovvero l’afelio, che è il punto più lontano, a ben 152 milioni di km, e che avrà il culmine il prossimo 5 luglio. Quando la Terra è invece in perielio (a 147 milioni di km dal Sole) da noi è inverno e sotto l’equatore è estate. Attenzione, la distanza Terra-Sole non ha niente a che vedere con le stagioni ma è un parametro indipendente che non influisce, se non in minima parte, su clima e temperature. E che c’entra con le differenze nelle date del solstizio? Presto detto: per via della reciproca attrazione gravitazionale, quando siamo lontani dal Sole andiamo più lenti, quando siamo più vicini invece acceleriamo, e questo scombina non di poco i calcoli anche dei solstizi.

Se da qualche parte leggete che a questo cambio di date partecipa anche la precessione degli equinozi non credeteci: quella infatti riguarda sempre e solo il grande scenario di sottofondo in cui noi e il Sole ci stiamo muovendo per i fatti nostri, per cui la precessione cambia solo la posizione delle costellazioni nei punti vernali degli equinozi ma non influisce minimamente sui nostri affari solari.

Come funziona astronomicamente il solstizio?

Per rispondere in modo chiaro bisogna prenderla un po’ larga ma può essere divertente. Quando a un bambino si chiede dove sorga il Sole, la risposta non potrà essere che “ad est!”. Questa risposta di per sé non è sbagliata, ma il livello di precisione è analogo a quell’orologio fermo che segna l’ora giusta ben due volte al giorno. Perché noi adulti sappiamo che il Sole sorge perfettamente ad est e tramonta perfettamente a ovest solo in due giorni dell’anno, il 21 marzo e il 21 settembre, ovvero quelli degli equinozi di primavera ed autunno.

Tutto il resto dell’anno il Sole sorge e tramonta in posizioni diverse vagando tra un massimo nord (+23,5°) e un minimo sud (-23,5°) passando, appunto per gli equinozi (0°) come punti mediani. In totale, la somma di queste escursioni è di ben 47°: ciò significa che all’alba del solstizio d’inverno, il 21 dicembre, vedremo un pallido sole sorgere a sudest e che pian pianino risalirà l’orizzonte alba dopo alba per ben 47 gradi fino a raggiungere, il 21 giugno (o giù di lì) una posizione di nordest per il solstizio estivo. Per i tramonti sarà la stessa cosa: le traiettorie non si incrociano, per cui un sole che nasce basso a sudest tramonterà basso a sudovest, un sole che nasce ad est tramonterà ad ovest e un sole che nasce alto a nordest tramonterà alto a nordovest.

Volendo aggiungere un elemento poco conosciuto potremmo dire che sono due le circonferenze celesti – chiamate coluri – che, passando per i poli, determinano questi importanti punti fermi: il coluro equinoziale, che ha direzione est-ovest e passa per gli equinozi, e il coluro solstiziale che ha direzione nord-sud e passa per i solstizi e in particolare per i loro “primi” punti che vengono individuati d’estate dalla costellazione del Cancro, che inizia il 21 giugno, e d’inverno da quella del Capricorno che, specularmente, inaugura l’inverno il 21 dicembre. Ecco perché i tropici, ovvero i paralleli estremi nord e sud in cui i raggi solari raggiungono il suolo verticalmente durante i solstizi, sono dedicati a queste due costellazioni.

Ma perché, dunque, viviamo in un incessante ping pong tra maggior luce e maggior buio? I motivi sono due: il fatto che, come già detto, l’asse di rotazione della terra non è verticale ma inclinato dei fatidici 23,5° (ecco perché le escursioni, positive e negative, del Sole hanno quella misura) e, inoltre, la nostra posizione relativa al Sole cambia costantemente grazie al moto di rivoluzione. In altre parole l’obliquità dell’asse è sempre uguale ma non lo è la nostra posizione rispetto al Sole. Quindi, a seconda che ci troviamo da una parte o dall’altra della stella, sarà uno dei due poli ad essere più illuminato e l’altro in ombra. Scusate, ci abbiamo messo tanto ma era davvero tutto qui.


Troppo giovani per essere così fredde


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Scavando nei dati delle missioni Xmm-Newton dell’Esa e Chandra della Nasa, gli scienziati hanno scoperto tre stelle di neutroni eccezionalmente giovani e fredde, da 10 a 100 volte più fredde delle loro coetanee. Confrontando le loro proprietà con i tassi di raffreddamento previsti da diversi modelli teorici, i ricercatori hanno dovuto escludere tre quarti di questi. Rimanendo così con un pugno di possibilità, fra le quali si celerebbe l’equazione giusta per comprendere, finalmente, quale sia la fisica che governa questi oggetti estremi ed esotici. I risultati sono pubblicati su Nature Astronomy.

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Infografica che spiega il contesto e i risultati dello studio. Le stelle di neutroni sono i nuclei compressi delle stelle di grande massa, che al termine della loro vita esplodono in supernove. Sono così dense che la quantità di materiale di una stella di neutroni in una zolletta di zucchero peserebbe quanto tutti gli abitanti della Terra. Gli scienziati non sono sicuri di cosa succeda alla materia quando viene schiacciata così tanto. Non possiamo guardare direttamente dentro una stella di neutroni. Invece, gli scienziati determinano le loro proprietà osservandole da lontano e confrontandole con diversi modelli di ciò che accade all’interno. Tutte le stelle di neutroni devono obbedire alle stesse leggi fisiche, quindi solo un modello può essere corretto. È quindi in corso la caccia all’equazione di stato della stella di neutroni che le governa tutte. Crediti: Esa

«La giovane età e la fredda temperatura superficiale di queste tre stelle di neutroni possono essere spiegate solo invocando un meccanismo di raffreddamento rapido», spiega Nanda Rea, astrofisica che ha coordinato il progetto all’Istituto di scienze spaziali (Ice-Csic) e all’Istituto di studi spaziali della Catalogna (Ieec), coautrice dell’articolo. «Poiché il raffreddamento rapido può essere attivato solo da alcune equazioni di stato, questo ci permette di escludere una parte significativa dei modelli possibili».

Le stelle di neutroni si classificano fra i cosiddetti “oggetti compatti”. Non sono stelle nel senso canonico del termine, poiché al loro interno non è attivo alcun processo di fusione nucleare e la materia al loro interno si trova spesso in condizioni estreme. Tanto che vengono chiamate, in gergo, stelle degeneri. Le stelle di neutroni sono quel che rimane di un nucleo stellare dopo l’esplosione in una supernova: dopo aver esaurito il combustibile, il nucleo della stella implode sotto la forza di gravità, mentre gli strati esterni vengono espulsi nello spazio. Il nome deriva dal fatto che, sotto questa immensa pressione, anche gli atomi collassano: gli elettroni si fondono con i nuclei atomici, trasformando i protoni in neutroni. La verità, però, è che la materia che collassa al centro di una stella di neutroni è talmente compressa che gli scienziati non sanno esattamente quale forma assuma, né riescono a prevedere esattamente come si comporti.

Per farlo, dovrebbero essere in grado di definire la cosiddetta “equazione di stato”, un modello teorico che descrive quali processi fisici possono verificarsi all’interno di una stella di neutroni, e al quale tutte – indipendentemente dalla loro massa, età, o dalle loro proprietà dinamiche – devono obbedire. Per ora ci sono ancora troppe possibilità aperte fra cui scegliere, ma aver trovato queste tre stelle così particolari potrebbe essere di grande aiuto.

Nello studio, le temperature delle stelle di neutroni sono state calcolate misurando l’emissione ai raggi X della loro superficie, mentre le dimensioni e le velocità dei resti di supernova circostanti hanno permesso di ricostruire precisamente la loro storia, e calcolarne l’età. Utilizzando diverse equazioni di stato che incorporano diversi meccanismi di raffreddamento, gli autori hanno poi calcolato le cosiddette “curve di raffreddamento”, che definiscono il modo in cui la luminosità di una stella di neutroni – e quindi la temperatura – cambia nel tempo. Confrontando poi queste previsioni con le misure, si sono resi conto che quasi nessun modello riusciva a spiegare il comportamento di queste tre stelle giovani e fredde.

Insomma, gli autori dell’articolo sono convinti di essere riusciti a fare un lungo passo in avanti verso la definizione dell’equazione che regola la fisica di questi oggetti compatti. Cosa, sottolineano, che ha anche importanti implicazioni per la comprensione delle leggi fondamentali dell’universo. O meglio, per la loro unificazione in un’unica grande legge. I fisici non sanno ancora come mettere insieme la teoria della relatività generale (che descrive gli effetti della gravità su grandi scale) con la meccanica quantistica (che descrive ciò che accade a livello di particelle), e le stelle di neutroni sono un eccellente laboratorio, poiché al loro interno raggiungono densità e gravità molto superiori a quelle che possiamo creare sulla Terra.

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Veloce come una cefeide


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Candele standard. Questa famiglia (eterogenea) di oggetti che consente di misurare le distanze nell’universo conta pochi membri. Tanto che lo spettro di aver fatto una considerazione sbagliata circa la natura di questi oggetti e le loro proprietà spaventa qualunque astrofisico. Per questo è nato il progetto Veloce (che sta per Velocities of Cepheids), che in circa 12 anni ha raccolto più di 18mila misure di alta precisione di velocità radiali di 258 cefeidi utilizzando spettrografi avanzati. Su Astronomy and Astrophysics, pochi giorni fa, questi risultati sono stati resi pubblici.

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RS Puppis, una delle stelle variabili Cefeidi più luminose: si illumina e si abbassa ritmicamente in un ciclo di sei settimane. Crediti: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STScI/AURA)-Collaborazione Hubble/Europa

Le cefeidi sono stelle giganti che pulsano radialmente, aumentando e diminuendo periodicamente il proprio raggio, e dunque la loro luminosità. La loro caratteristica particolare – quella che le rende dei buoni indicatori di distanza – è che la loro luminosità intrinseca è nota e dipende dal periodo di pulsazione. Osservando in maniera precisa la loro variabilità è quindi possibile stimarne la luminosità e, confrontandola con la luminosità apparente influenzata dalla distanza che le separa da noi, la loro distanza.

Nonostante scritto così sembri semplice, lo studio delle cefeidi è impegnativo. Le loro pulsazioni e le potenziali interazioni con le stelle compagne creano schemi complessi, difficili da misurare con precisione. Tanto che diversi strumenti e metodi utilizzati nel corso degli anni hanno portato a dati incoerenti, complicando la nostra comprensione di queste stelle.

«Tracciare le pulsazioni delle cefeidi con la velocimetria ad alta definizione ci permette di capire la struttura di queste stelle e la loro evoluzione», dice Richard Anderson, astrofisico all’École Polytechnique Fédérale de Lausanne, in Svizzera, e primo autore dell’articolo. «In particolare, la misura della velocità con cui le stelle si espandono e si contraggono lungo la linea di vista – le cosiddette velocità radiali – forniscono una controparte cruciale alle misure di luminosità. Tuttavia, c’è stato un urgente bisogno di velocità radiali di alta qualità perché sono costose da raccogliere e perché pochi strumenti sono in grado di raccoglierle».

I dati raccolti dal programma Veloce, di cui Anderson è la guida, servono dunque a collegare le osservazioni delle cefeidi effettuate da diversi telescopi nel tempo, per creare un campione omogeneo e preciso: le pulsazioni tipiche delle cefeidi portano a variazioni della velocità della linea di vista fino a 70 km/s, ovvero circa 250 mila km/h, e grazie all’utilizzo dei due spettrografi Hermes (nell’emisfero nord) e Coralie (nell’emisfero sud),il team è riuscito a misurare queste variazioni con una precisione media di circa 130 km/h (37 m/s), che in alcuni casi raggiunge anche i 7 km/h (2 m/s).

Non solo, i dati raccolti hanno permesso di scoprire che diverse cefeidi presentano una variabilità complessa e modulata nei loro movimenti. Significa che le velocità radiali di queste stelle cambiano in modi che non possono essere spiegati da modelli di pulsazione semplici e regolari, e non seguono un ritmo prevedibile come atteso – e previsto dai modelli teorici di pulsazione.

Secondo gli autori, questa discrepanza suggerisce che all’interno di queste stelle si verificano processi più complessi, come interazioni tra i diversi strati della stella, o segnali di pulsazione aggiuntivi (non radiali). All’interno del campione, infine, 77 cefeidi fanno parte di sistemi binari: una su tre, secondo una prima statistica, avrebbe dunque una compagna invisibile rilevabile attraverso l’effetto Doppler misurando le velocità radiali.

«Comprendere la natura e la fisica delle cefeidi è importante perché ci dicono come si evolvono le stelle in generale e perché ci basiamo su di esse per determinare le distanze e il tasso di espansione dell’universo», conclude Anderson. «Inoltre, Veloce fornisce i migliori controlli incrociati disponibili per le misure simili, ma meno precise, della missione Gaia dell’Esa, che alla fine condurrà la più estesa indagine sulle velocità radiali delle cefeidi».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “VELOcities of CEpheids (VELOCE) I. High-precision radial velocities of Cepheids“, di Richard I. Anderson, Giordano Viviani, Shreeya S. Shetye, Nami Mowlavi, Laurent Eyer, Lovro Palaversa, Berry Holl, Sergi Blanco-Cuaresma, Kateryna Kravchenko, Michał Pawlak, Mauricio Cruz Reyes, Saniya Khan, Henryka E. Netzel, Lisa Löbling, Péter I. Pápics, Andreas Postel, Maroussia Roelens, Zoi T. Spetsieri, Anne Thoul, Jiří Žák, Vivien Bonvin, David V. Martin, Martin Millon, Sophie Saesen, Aurélien Wyttenbach, Pedro Figueira, Maxime Marmier, Saskia Prins, Gert Raskin e Hans van Winckel


I predatori del ferro perduto


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Uno degli ammassi di galassie più studiato: Abell 1689. Si trova a 2.3 miliardi di anni luce. Il colore diffuso viola mostra la distribuzione del gas caldo osservata dall’osservatorio X-ray Chandra della Nasa. In giallo sono invece mostrate le singole galassie osservate dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa / Cxc / Mit e Nasa / Stsci

Metalli. Così, senza andare troppo per il sottile, gli astronomi chiamano tutti gli elementi più pesanti di idrogeno ed elio. Indistintamente. In effetti, almeno quanto a origine, gli elementi che occupano le prime righe della tavola periodica – tolti appunto idrogeno ed elio, la cui genesi risale direttamente al big bang – hanno parecchio in comune: sono tutti sintetizzati nelle stelle, durante i processi a cascata di fusione nucleare o nel corso delle fasi terminali della loro evoluzione, come le esplosioni di supernove.

E dove vanno a finire, tutti questi metalli, alla fine del “ciclo di produzione”? Per rispondere il sistema più semplice è seguirne uno in particolare, di questi elementi: il ferro. «Il motivo è presto detto: è l’elemento più facile da misurare in banda X, perlomeno in determinati contesti», spiega a Media Inaf Silvano Molendi, astrofisico all’Inaf di Milano e primo autore di uno studio, pubblicato il mese scorso su Astronomy & Astrophysics, dedicato proprio alla distribuzione dei metalli nell’universo. «La sua riga spettrale a 6.7 KeV – la cosiddetta riga K-alpha – è quella che meglio si misura nello spettro degli ammassi. Ne segue che la stragrande maggioranza delle misure di metallicità nell’intracluster medium Icm, in italiano mezzo intra-ammasso, il gas caldo che permea gli ammassi di galassie – sono in realtà misure del ferro».

Follow the iron, dunque. Ed è proprio lanciandosi sulle tracce del ferro e misurandone le quantità che una ventina di anni fa ci si è accorti che i conti non tornavano: dalla misura in banda X emerge infatti che la massa del ferro presente nel mezzo intra-ammasso è maggiore di quella prodotta dalle stelle presenti nelle galassie dell’ammasso. Un rompicapo al quale l’astrofisico Alvio Renzini, una decina d’anni fa, diede il nome di Fe conundrum: l’enigma del ferro, appunto.

Un enigma per il quale il lavoro guidato da Molendi giunge ora a proporre una soluzione, suggerendo una revisione sia della massa delle stelle sia dell’efficienza con la quale le stelle producono ferro. E arrivando a stimare – giustapponendo misure in banda X e in banda ottica in un modello semplice, matematicamente descrivibile attraverso l’algebra e, in qualche caso, attraverso
il calcolo integrale – che solo circa un quarto del ferro si trovi ancora nelle stelle.

«Fino a una ventina di anni fa la convinzione generale era che, negli ammassi, il grosso del ferro fosse nelle stelle e solo una parte minore nel gas caldo», ricorda Molendi. «Negli ultimi anni, grazie anche a un nostro lavoro del 2021, almeno una parte della comunità si sta convincendo che negli ammassi il grosso del ferro si trovi nel gas caldo e non nelle stelle».

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Rappresentazione fumettistica di un “apex accretor”. Crediti: Silvano Molendi/Inaf

Quanto al processo di trasferimento dei metalli dalle strutture piccole dove vengono sintetizzati, le galassie appunto, a quelle più grandi, come gruppi e ammassi di galassie, Molendi e colleghi lo descrivono nel loro studio facendo ricorso a un’analogia con un concetto tratto dalla biologia, quello di predatore di vertice o apex predator: così come il pesce grande mangia quello piccolo, gli ammassi di galassie – le più grandi strutture nell’universo – diventano apex accretors, o “accrescitori di vertice”.

«Se poi spostiamo lo sguardo dagli ammassi all’universo in generale, la stima che proponiamo – quella secondo la quale circa 3/5 dei metalli sarebbero situati nel gas tiepido presente all’interno delle galassie e nello spazio intergalattico – è una novità assoluta», conclude Molendi. «È vero che diverse simulazioni cosmologiche prevedono risultati simili al nostro, ma questa è la prima volta in cui si misura, anche se indirettamente, la frazione di metalli in questo gas. Un altro risultato nuovo, strettamente collegato a quello appena descritto, è che la metallicità dell’universo attuale è un fattore 6-7 più grande di quanto precedentemente stimato».

Per una verifica diretta delle stime della metallicità del gas tiepido sarà però necessario attendere misure ad alta risoluzione spettrale nella banda degli X molli, come quelle che promette di fornire lo strumento X-Ifu a bordo del futuro telescopio spaziale per raggi X Athena dell’Esa, il cui lancio è previsto nella seconda metà degli anni Trenta.

Per saperne di più:


Assistendo al risveglio d’un buco nero


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Rappresentazione artistica di due fasi della formazione di un disco di gas e polvere attorno al buco nero massiccio al centro della galassia Sdss1335+0728. Il nucleo di questa galassia si è acceso nel 2019 e continua a brillare ancora oggi: è la prima volta che osserviamo un buco nero massiccio attivarsi in tempo reale. Crediti: Eso/M. Kornmesser

Verso la fine del 2019, la galassia Sdss1335+0728, fino a quel momento del tutto trascurabile, ha improvvisamente iniziato a brillare più luminosa che mai. Per capirne il motivo, gli astronomi hanno utilizzato i dati provenienti da diversi osservatori spaziali e da terra, tra cui il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio Europeo Australe), per seguire le variazioni di luminosità della galassia. In uno studio pubblicato oggi, concludono che stiamo assistendo a cambiamenti mai visti prima in una galassia, probabilmente il risultato dell’improvviso risveglio del buco nero massiccio nel nucleo.

«Immaginate di aver osservato per anni una galassia lontana e che essa sia sempre apparsa calma e inattiva», dice Paula Sánchez Sáez, astronoma dell’Eso in Germania e autrice principale dello studio accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics. «All’improvviso, il suo nucleo inizia a mostrare evidenti cambiamenti di luminosità, diversi da qualsiasi altro evento tipico osservato finora». Questo è quello che è successo a Sdss1335+0728, che ora, da quando è diventata così brillane nel dicembre 2019, viene classificata come dotata di un “nucleo galattico attivo” (Agn, dall’inglese active galactic nucleus) – una regione compatta e luminosa alimentata da un buco nero molto massiccio.

Alcuni fenomeni, come le esplosioni di supernova o gli eventi di distruzione mareale – cioè quando una stella si avvicina troppo a un buco nero e viene fatta a brandelli – possono rendere improvvisamente brillanti le galassie. Ma queste variazioni di luminosità durano tipicamente solo poche decine o, al massimo, qualche centinaio di giorni. Sdss1335+0728 continua a diventare sempre più luminosa, più di quattro anni dopo essere stata osservata “accendersi” per la prima volta. Inoltre, le variazioni osservate nella galassia, che si trova a 300 milioni di anni luce di distanza da noi, nella costellazione della Vergine, sono diverse da quelle mai viste prima e indirizzano gli astronomi verso una spiegazione alternativa.

Il gruppo di lavoro ha cercato di comprendere le variazioni di luminosità utilizzando una combinazione di dati di archivio e nuove osservazioni provenienti da diverse strutture, incluso lo strumento X-shooter installato sul Vlt dell’Eso nel deserto di Atacama, in Cile. Confrontando i dati rivelati prima e dopo il dicembre 2019, hanno scoperto che Sdss1335+0728 ora irradia molta più luce alle lunghezze d’onda ultravioletta, ottica e infrarossa. La galassia ha anche iniziato a emettere raggi X nel febbraio 2024. «Questo comportamento non ha precedenti», aggiunge Sánchez Sáez, che ha anche un’affiliazione con il Millennium Institute of Astrofisica (Mas) in Cile.

«L’opzione più concreta per spiegare questo fenomeno è che stiamo vedendo il nucleo della galassia che sta iniziando a mostrare attività», dice la coautrice Lorena Hernández García, del Mas e dell’Università di Valparaíso in Cile. «Se così fosse, questa sarebbe la prima volta che vediamo l’attivazione di un buco nero massiccio in tempo reale».

Al centro della maggior parte delle galassie, compresa la Via Lattea, si trovano buchi neri molto grandi, con massa pari a oltre centomila volte quella del Sole. «Questi mostri giganti di solito dormono e non sono direttamente visibili», spiega il coautore Claudio Ricci, dell’Università Diego Portales, sempre in Cile. «Nel caso di Sdss1335+0728, abbiamo potuto osservare il risveglio del buco nero massiccio, che improvvisamente ha iniziato a nutrirsi del gas disponibile nei dintorni, diventando molto luminoso».

«Questo processo non è mai stato osservato prima», sottolinea Hernández García. Studi precedenti avevano trovato alcune galassie inattive che dopo diversi anni erano diventate attive, ma questa è la prima volta che il processo stesso – il risveglio del buco nero – è stato osservato in tempo reale. «Questo potrebbe accadere anche a Sgr A*», aggiunge Ricci, che è anche affiliato al Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics dell’Università di Pechino, in Cina, «il buco nero massiccio situato al centro della nostra galassia», ma non è chiaro quanto ciò sia probabile.

Sono necessarie ulteriori osservazioni per escludere spiegazioni alternative. Un’altra possibilità è che stiamo assistendo a un evento di distruzione mareale insolitamente lento, o addirittura a un nuovo fenomeno. Se si trattasse effettivamente di un evento di distruzione mareale, questo sarebbe l’evento più lungo e debole mai osservato. «Indipendentemente dalla natura delle variazioni, questa galassia fornisce informazioni preziose su come i buchi neri crescono ed evolvono», conclude Sánchez Sáez. «Ci aspettiamo che strumenti come Muse, installato sul Vlt, o i futuri strumenti di Elt (Extremely Large Telescope) saranno fondamentali per comprendere perché la galassia sta diventando più luminosa».

Fonte: comunicato stampa Eso


Tre giorni nello spazio cambiano corpo e mente


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Per la prima volta, la missione SpaceX ha lanciato quattro civili: Chris Sembroski, Sian Proctor, Jared Isaacman e Hayley Arceneaux. Crediti: SpaceX/Inspiration4

Con l’aumento dell’interesse verso i voli spaziali commerciali e le future missioni che mirano a portare l’uomo nuovamente sulla Luna e per la prima volta su Marte, emergono nuove sfide riguardanti gli effetti delle missioni spaziali sul corpo umano. In un momento in cui lo spazio sta diventando più accessibile ai civili, una collaborazione formata da ricercatori di oltre cento istituzioni ha condotto una serie di studi approfonditi – gli articoli del pacchetto Soma (Space Omics and Medical Atlas), pubblicati la settimana scorsa su varie riviste del gruppo Nature – sui cambiamenti fisici e psicologici dell’equipaggio di Inspiration4 (I4), la prima missione interamente civile operata da SpaceX.

In particolare, è stato monitorato l’equipaggio – composto da due donne e due uomini, uno dei quali, ventinovenne, è il più giovane astronauta americano – nel corso della missione di tre giorni lanciata a bordo di una capsula Dragon dal Kennedy Space Center nel settembre 2021, ponendo le basi per un database biomedico che potrebbe rivelarsi fondamentale per studiare e affrontare i rischi per la salute durante i voli spaziali.

Durante la missione, l’equipaggio ha viaggiato a una quota di 575 chilometri sopra la Terra – dunque in orbita terrestre bassa (Leo), ma comunque oltre l’orbita della Stazione spaziale internazionale – e ha affrontato rischi simili a quelli degli astronauti professionisti, come quelli dovuti all’esposizione alle radiazioni galattiche, ai campi gravitazionali alterati, all’isolamento e al confinamento. L’equipaggio di Inspiration4, durante la permanenza in orbita, ha anche effettuato un’ampia serie di esperimenti scientifici, che sono stati ora elaborati, sequenziati e analizzati, andando così a contribuire alla raccolta di 44 articoli.

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La cupola della capsula Dragon usata per la missione Inspiration 4. Crediti: SpaceX

Inspiration4 ha rappresentato un’opportunità senza precedenti per la scienza: prima della missione, la maggior parte dei dati sull’impatto dei viaggi spaziali sulla salute erano stati raccolti da agenzie spaziali governative da astronauti accuratamente selezionati e altamente addestrati. Non era chiaro, dunque, se i dati raccolti sarebbero stati applicabili anche ai voli con civili. Inoltre, la missione I4 si distingue dalle missioni degli astronauti della Iss – che in genere restano 120, 180 o 365 giorni – anche per la durata molto più contenuta. «Il monitoraggio della salute durante il volo spaziale è stato tradizionalmente riservato a pochi professionisti altamente selezionati e formati. Ciò rappresenta dunque un importante primo passo», sottolinea a questo proposito Mathias Basner, professore di psichiatria e coautore della ricerca sui cambiamenti molecolari e fisiologici condotta alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, «per determinare la sicurezza dei voli spaziali per i civili, in un momento in cui la possibilità di viaggiare nello spazio si sta aprendo a un numero sempre maggiore di persone».

Utilizzando dispositivi come Apple Watch e iPad per monitorare attività motoria, sonno e reazioni cardiovascolari, e somministrando – prima, durante e dopo il volo – una serie di test cognitivi (dieci brevi prove ideate dalla Penn Medicine per la Nasa), i ricercatori hanno monitorato i cambiamenti nella fisiologia e nel funzionamento neurocomportamentale dell’equipaggio di Inspiration4 in risposta all’ambiente del volo spaziale includendo vari parametri, tra cui la variabilità della frequenza cardiaca, la saturazione dell’ossigeno nel sangue, le prestazioni cognitive, la valutazione dello stress e degli stati comportamentali. Inoltre, i membri dell’equipaggio I4 sono stati sottoposti a brevi e ripetuti sondaggi per valutare cambiamenti sulla vigilanza e sull’umore.

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Jared Isaacman, a sinistra, e Hayley Arceneaux, due dei quattro membri dell’equipaggio Inspiration4, durante la missione nel 2021. Crediti: SpaceX

Durante il volo, l’equipaggio ha mostrato deficit di prestazioni su tre test cognitivi principalmente riguardanti l’attenzione, la ricerca visiva, l’assunzione di rischi, la memoria di lavoro e la velocità sensomotoria. A livello fisiologico, i cambiamenti cardiovascolari sono stati modesti e simili a quelli previsti, con una diminuzione della frequenza cardiaca tipica dell’ambiente di microgravità. L’umore e la vigilanza dell’equipaggio sono rimasti stabili durante il volo e non sono stati segnalati conflitti tra i membri dell’equipaggio.

La gamma di risposte fisiologiche indotte dalla breve permanenza nello spazio – ad esempio, il disallineamento oculare e le alterazioni del funzionamento neurocognitivo, alcune delle quali analoghe a quelle dei voli spaziali più lunghi – è stata ampia, ma quasi tutti i cambiamenti osservati sono tornati ai livelli precedenti al volo dopo il ritorno sulla Terra, coerentemente con i risultati di altri progetti di ricerca di Inspiration4.

I risultati dello studio rappresentano un punto di partenza fondamentale per capire meglio come il corpo e la mente umana reagiscono ai viaggi spaziali, anche di breve durata, aprendo la strada a future missioni sempre più inclusive e sicure per tutti. «Con l’espansione della capacità degli esseri umani di raggiungere lo spazio, ci auguriamo che la nostra ricerca sia un punto di riferimento per valutare l’impatto sul loro benessere mentale, emotivo e fisico», conclude Christopher W. Jones, professore di psichiatria alla Penn University e primo autore dello studio sui cambiamenti molecolari e fisiologici pubblicato su Nature.

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Raffiche di vento relativistico da un lontano quasar


media.inaf.it/2024/06/18/venti…
Un team di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dall’Università di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar distante ma decisamente attivo (uno tra i più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli autori dello studio hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

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Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi – per la precisione, a redshift z = 6.632 (ossia la radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni) – con al centro un quasar. La luce dei quasar viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

«L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso – circa 50mila anni luce – rilevato in epoche remote», dice Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’Inaf e l’Università di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, ha captato raffiche di materia, in gergo Bal winds (venti con righe di assorbimento larghe, in inglese broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di Alma (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array dell’Eso), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti Bal e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

«I Bal sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, vediamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso», spiega Bischetti. «Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il Bal di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento Bal è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di Alma ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia».

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (Hsc), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dal National Astronomical Observatory of Japan (Naoj), e – con una misura molto più accurata – dalla NirCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (Jwst, delle agenzie spaziali Nasa, Esa e Csa). «Questo quasar verrà osservato nuovamente dal Jwst in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone», annuncia Bischetti.

«Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero», prosegue la ricercatrice, spiegando il perché di questa survey, «potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia». Le misure effettuate, aggiunge, «sono di routine nell’universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z > 6».

«Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’universo che vediamo oggi», conclude Bischetti.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin e Yongda Zhu


Collisione tra asteroidi nel disco di Beta Pictoris


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Un team guidato da Christine Chen, astronoma della Johns Hopkins University, ha rilevato dei cambiamenti nelle firme spettrali emesse dai granelli di polvere intorno a Beta Pictoris, un giovane sistema stellare non distante da noi. Confrontando le osservazioni recenti del Jwst con quelle fatte dallo Spitzer Space Telescope tra il 2004 e il 2005, gli autori dello studio sono riusciti a tracciare le differenze nella composizione e nella misura delle particelle di polvere presenti in una determinata regione a distanza di vent’anni. I risultati sono stati presentati la settimana scorsa al 244esimo meeting dell’American Astronomical Society a Madison, Wisconsin.

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Confronto tra la radiazione rilevata dal telescopio Spitzer nel 2004-05 (in rosso) e da Jwst nel 2023 (in giallo) nella stessa regione intorno a Beta Pictoris. Crediti: immagine di Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University, con una rappresentazione artistica di Beta Pictoris di Lynette Cook/Nasa

L’osservazione fa luce in particolare sui processi volatili che modellano i sistemi stellari come il nostro, offrendo una visione unica delle fasi primordiali della formazione planetaria.

«Beta Pictoris si trova in una fase evolutiva nella quale la formazione di pianeti terrestri avviene ancora tramite collisioni di asteroidi giganti, quindi quello che probabilmente abbiamo osservato è come pianeti rocciosi e altri corpi celesti si formano in tempo reale», spiega Chen.

Analizzando il segnale prodotto dal calore emesso dai silicati cristallini – minerali comunemente presenti intorno stelle giovani, così come sulla Terra e su altri corpi celesti – gli autori dello studio non hanno trovato alcuna traccia delle particelle la cui firma era stata osservata nel 2004-05. Questo suggerisce che quelle rilevate circa vent’anni fa da Spitzer siano le tracce di una collisione cataclismica tra asteroidi e altri oggetti che ha ridotto i corpi in particelle di polvere finissima, più del polline o dello zucchero a velo.

I nuovi dati suggeriscono che la polvere sia poi stata dispersa verso l’esterno dalla radiazione della stella al centro del sistema, e non sia dunque più rilevabile. Inizialmente, la polvere vicina alla stella si è scaldata, emettendo radiazione termica – quella identificata, appunto, dagli strumenti di Spitzer. Successivamente la polvere si è raffreddata a causa dell’allontanamento dalla stella, e dunque non emette più radiazione termica. «Questa è la migliore spiegazione che abbiamo», dice Chen. «Abbiamo assistito alle conseguenze di un evento cataclismico, poco frequente tra corpi di grandi dimensioni».

«La maggior parte delle scoperte di Jwst vengono da cose che il telescopio ha identificato direttamente», aggiunge una coautrice dello studio, Cicero Lu, ex dottoranda in astrofisica alla Johns Hopkins. «In questo caso, la storia è un po’ diversa perché i risultati sono emersi da qualcosa che il telescopio non ha visto».

Beta Pictoris, a circa 63 anni luce dalla Terra, è da tempo al centro dell’attenzione degli astronomi, sia a causa dalla sua relativa vicinanza sia per i processi casuali in atto, dove collisioni, clima e altri fattori sulla formazione planetaria detteranno il futuro del sistema. Avendo appena 20 milioni di anni, ed essendo dunque giovanissimo rispetto ai 4.5 miliardi di anni del Sistema solare, Beta Pictoris ha un’età chiave, nella quale i pianeti giganti si sono già formati, mentre quelli di tipo terrestre potrebbero essere ancora in fase formazione. Il sistema ha almeno due giganti gassosi conosciuti, Beta Pic b e Beta Pic c, che a loro volta influenzano i detriti e le polveri circostanti.

Quando Spitzer acquisì i primi dati, gli scienziati ipotizzarono che i corpi più piccoli, frantumandosi, avrebbero prodotto polvere costantemente nel tempo. Ma le nuove osservazioni di Webb hanno mostrato che la polvere è scomparsa senza essere rimpiazzata. La quantità di polvere sollevata, secondo le stime di Chen, è pari a circa 100mila volte quella che formava l’asteroide responsabile dell‘estinzione dei dinosauri.

I nuovi risultati mostrano l’ineguagliabile capacità del telescopio Webb di svelare la complessità degli esopianeti e dei sistemi stellari, sottolineano gli autori dello studio, e offrono indizi fondamentali su come l’architettura degli altri sistemi planetari possa somigliare al nostro. «Il problema che stiamo cercando di contestualizzare è se questo intero processo di formazione di pianeti terrestri e giganti sia comune o raro, e la domanda ancora più fondamentale è: i sistemi planetari come il Sistema solare sono così rari?», dice a questo proposito un altro coautore dello studio, Kadin Worthen, dottorando in astrofisica alla Johns Hopkins. «In pratica stiamo cercando di capire quanto siamo strani o normali».

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical JournalMIRI MRS Observations of Beta Pictoris I. The Inner Dust, the Planet, and the Gas”, di Kadin Worthen, Christine H. Chen, David R. Law, Cicero X. Lu, Kielan Hoch, Yiwei Chai, G.C. Sloan, B. A. Sargent, Jens Kammerer, Dean C. Hines, Isabel Rebollido, William O. Balmer, Marshall D. Perrin, Dan M. Watson, Laurent Pueyo, Julien H. Girard, Carey M. Lisse e Christopher C. Stark


Premio L’Oréal-Unesco a Giada Peron


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La cerimonia di premiazione della XXII edizione italiana del premio L’Oréal-Unesco per le donne e la scienza 2024. Crediti: L’Oréal-Unesco for Women in Science

L’Oréal Italia ha annunciato oggi le sei vincitrici della ventiduesima edizione italiana del premio Young Talents Italia bandito da L’Oréal Italia Unesco per le donne e la scienza. La gara è stata durissima: la giuria ha selezionato fra ben 260 candidature le sei ricercatrici più meritevoli per i loro progetti, e tra queste c’è anche la trentenne Giada Peron dell’Istituto nazionale di astrofisica. Durante la cerimonia, avvenuta oggi pomeriggio a Milano, sono intervenute anche la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini e la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Maria Roccella con un messaggio video.

Dal 2002, ogni anno il programma “L’Oréal Italia per le Donne e la Scienza” ha supportato sei giovani scienziate con altrettante borse di studio del valore di ventimila euro per promuovere concretamente il progresso scientifico e l’empowerment femminile.

«Questo premio è una conferma ma anche una responsabilità che mi rende felice e orgogliosa di quello che ho fatto fino a qui, ma che mi spinge anche a fare sempre meglio», dice soddisfatta Peron a Media Inaf. «Spero che la mia storia sia un esempio per le nuove generazioni a perseguire le loro passioni e i loro talenti, facendosi spingere sempre e solo dalla propria determinazione».

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Giada Peron. Crediti: Inaf

Giada Peron, assegnista di ricerca all’Inaf Osservatorio di Arcetri, è specializzata nell’astrofisica delle alte energie e in particolare la sua ricerca si concentra sull’osservazione in banda gamma di oggetti galattici come i resti di supernova, le nubi molecolari e gli ammassi stellari. Si è aggiudicata il Premio L’Oréal con un progetto sul contributo degli ammassi stellari ai raggi cosmici galattici.

«Se per molto tempo si è pensato che i resti di supernova fossero sufficienti a spiegare le quantità osservate di raggi cosmici, di recente abbiamo visto che, sia dal punto di vista energetico che dal punto di vista chimico, i resti di supernova non bastano ed è quindi necessaria una seconda componente di origine diversa», spiega Peron. «Gli ammassi stellari potrebbero essere la chiave per spiegare le anomalie che osserviamo ma servono conferme dal punto di vista sperimentale. Il mio progetto ha proprio lo scopo di quantificare usando misure da satellite (Fermi-Lat) e da terra (con i futuri Astri-MiniArray e Ctao) quant’è la frazione di raggi cosmici che si riescono ad accelerare negli ammassi di giovani stelle».

«Da anni grazie alla Fondazione L’Oréal sosteniamo le donne e ne favoriamo l’empowerment con diverse iniziative affinché possano dare forma al proprio futuro e fare la differenza all’interno della società», commenta Ninell Sobiecka, presidente e amministratrice delegata di L’Oréal Italia. «Sono molto felice oggi di premiare queste sei giovani e brillanti ricercatrici italiane che potranno, grazie a questo riconoscimento, non solo portare avanti i loro ambiziosi progetti contribuendo al progresso scientifico del nostro Paese ma essere anche di esempio per altrettante future scienziate spronandole a intraprendere carriere in ambito Stem, perché mai come adesso crediamo che il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne». Le altre cinque ricercatrici premiate sono la neurobiologa Bernadette Basilico, l’ecologa Veronica Nava, le fisiche Federica Fabbri e Chiara Trovatello e l’ingegnere biomedico Anna Corti.

Da quest’anno, in accordo con la giuria – composta da voci esperte del panorama scientifico italiano e presieduta da Lucia Votano dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – le borse di studio sono diventate veri e propri premi, per coinvolgere un numero più ampio di ricercatrici e per avere una maggiore compatibilità con altre borse di studio che le candidate potrebbero vincere. Un’apertura che vuole dare ancora una volta un segnale forte: un supporto concreto per giovani ricercatrici che potranno portare avanti la propria attività di ricerca e il proprio progetto di studio in Italia.


Notti d’estate, dieci quelle in programma ad Arcetri


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La rassegna estivi di eventi “Notti d’Estate ad Arcetri”. Crediti: Inaf

Al via martedì 18 giugno la rassegna di eventi per il pubblico Notti d’estate ad Arcetri, che si svolge ogni anno al Teatro del cielo dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto nazionale di astrofisica. Per l’edizione 2024 – Verso nuove frontiere – sono in programma dieci appuntamenti, ogni martedì e giovedì dal 18 giugno al 18 luglio prossimi.

Verso le frontiere della conoscenza è la direzione verso la quale la rassegna – curata da chi scrive – vorrebbe accompagnare gli spettatori, alla scoperta dei temi più attuali dell’astrofisica moderna e della ricerca spaziale, ispirando la curiosità di chi è appassionato ai misteri dell’universo e di chi vuole addentrarsi nella metodologia della ricerca scientifica. Dopo ogni incontro tra i protagonisti della ricerca e il pubblico, che si terrà all’aperto nel Teatro del cielo dell’Osservatorio, sarà possibile – se le condizioni atmosferiche lo permettono – osservare il cielo al telescopio guidati dai ricercatori e dalle ricercatrici dell’Inaf e visitare il telescopio storico Amici.

Fin dalla prima serata, quella di martedì 18 giugno, si entra nel vivo delle sfide del futuro con la conferenza “Alla scoperta del cosmo con l’intelligenza artificiale”, nella quale Francesco Belfiore e Germano Sacco racconteranno delle opportunità – ma anche delle trappole e dei pregiudizi – dell’intelligenza artificiale e del suo uso in astrofisica e non soltanto. Non teme la partita degli Europei di calcio l’incontro del 20 giugno sugli asteroidi, dedicato ai più piccoli: con Daniele Gardiol e Francesca Brunetti, si parlerà del fumetto Frammenti di cielo, prodotto dal gruppo Storie di EduInaf, e ha già fatto il tutto esaurito. Il 25 giugno la serata sarà invece dedicata a scoprire perché la missione europea Hera, in rampa di lancio il prossimo ottobre, si dirigerà verso l’asteroide Didymos, e a raccontarlo sarà direttamente Ian Carnelli dell’Esa, project manager di Hera.

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Il Teatro del Cielo dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, a Firenze. Crediti: Inaf

«Come da tradizione anche quest’anno il nostro Osservatorio apre le porte al pubblico con le Notti d’estate ad Arcetri, un appuntamento a cui siamo molto legati», dice Simone Esposito, direttore dell’Osservatorio. «Un evento speciale, il 27 giugno, sarà dedicato ai primi vent’anni del Large Binocular Telescope, situato in Arizona (Stati Uniti) e nato da una collaborazione tra l’Osservatorio di Arcetri e l’università dell’Arizona. Con questa serata vorremmo ricordare che Lbt è stato ed è attualmente un’occasione di crescita scientifica e tecnologica di grande importanza per l’astronomia italiana». A ripercorrere i passi di “Lbt, da Firenze all’Arizona” insieme a Simone Esposito ci saranno Adriano Fontana, presidente della Lbt Corporation di Tucson, e le immagini scattate dal fotografo Renato Cerisola che rimarranno esposte ad Arcetri fino alla fine della rassegna.

Negli successivi appuntamenti di luglio verrà ripercorsa “L’evoluzione della materia nell’universo: dagli atomi alla vita”, con Teresa Fornaro e Laura Magrini (martedì 2 luglio) e verrà osservato lo strano comportamento dei neutrini insieme a Francesco Vissani dell’Infn con “Viaggio al centro del Sole” (giovedì 4 luglio).

L’intrigante legame fra le meraviglie del cosmo e le armonie della musica verrà messo in scena martedì 9 luglio dall’astrofisico Marco Padovani e dal percussionista Nazareno Caputo (La Filharmonie – Orchestra Filarmonica di Firenze) ne “L’Universo risonante”, ricordando che molti scienziati sono stati anche grandi appassionati di musica come Galileo, Herschel ed Einstein. Si resterà ancora in campo tecnologico l’11 luglio, con Runa Briguglio e Nicolò Azzaroli del laboratorio di ottica adattiva Adoni, percorrendo la strada tortuosa che fa uno specchio quanto passa da un’idea a un telescopio vero e proprio (in particolare parleremo dello specchio M4 destinato all’Extremely Large Telescope dell’Eso, il telescopio di classe 40 metri in costruzione sulle Ande Cilene). A seguire, Emanuele Nardini insieme a Beta Lusso e Guido Risaliti dell’università di Firenze (il 16 luglio) guideranno il pubblico alla scoperta de “La vita movimentata dei buchi neri” fino ad arrivare alla serata finale – giovedì 18 luglio – con uno dei temi dell’astrofisica di cui sentiremo ancora molto parlare in futuro: “Ascoltare lo scontro dei buchi neri con le onde gravitazionali”, con Filippo Mannucci e Alberto Sesana (Università Milano Bicocca).

Vi aspettiamo.

Per consultare il programma completo e prenotare:


Eppur si muove, ai confini della materia oscura


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Lo studio di gruppo di ricerca di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica mette in discussione i modelli cosmologici generalmente condivisi sul mistero della materia oscura. Pubblicato oggi su arXiv e in stampa su The Astrophysical Journal Letters, il risultato aggiunge un tassello importante alla risoluzione dell’enigma della materia oscura – la cui natura è una delle grandi domande dell’astrofisica moderna, tuttora senza risposta – mettendo potenzialmente in discussione i modelli cosmologici generalmente condivisi. Il gruppo di ricerca che ha firmato lo studio ha dimostrato che le velocità di rotazione delle galassie rimangono inaspettatamente costanti anche a distanze molto grandi dal loro centro, confermando le previsioni della teoria della gravità modificata Modified Newtonian Dynamics (Mond), che non contempla la presenza di materia oscura nell’universo.

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Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia Ugc 6614 usando osservazioni “classiche” della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)

In questo lavoro è stata sviluppata una nuova tecnica che consente di misurare le cosiddette curve di rotazione delle galassie – ovvero le velocità di rotazione delle galassie dal loro centro – fino a grandissime distanze, pari a circa due milioni e 500mila anni luce. La tecnica utilizzata sfrutta il fenomeno della lente gravitazionale debole (weak gravitational lensing). Le implicazioni di questa scoperta potrebbero essere potenzialmente molto ampie, portando a ridefinire la nostra comprensione della materia oscura anche tramite teorie cosmologiche alternative.

Il fenomeno della lente gravitazionale è stato previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein e si verifica quando un oggetto massiccio, come un ammasso di galassie o anche una singola stella massiccia, devia il percorso della luce proveniente da una sorgente lontana con il suo campo gravitazionale. Questa curvatura della luce avviene perché la massa dell’oggetto deforma il tessuto dello spaziotempo che lo circonda.

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Federico Lelli (Inaf), esperto di dinamica delle galassie e dei sistemi di galassie (gruppi e ammassi) come banchi di prova sia per teorie di materia oscura che per teorie gravitazionali alternative. Crediti: Inaf

«Abbiamo usato la tecnica del weak gravitational lensing per misurare in modo statistico la “curva di rotazione” media di galassie di diversa massa, raggiungendo grandissime distanze dal centro», spiega Federico Lelli, primo ricercatore all’Inaf di Arcetri e coautore dello studio. «Troviamo che le curve di rotazione continuano a rimanere piatte per centinaia di migliaia di anni luce, possibilmente fino a qualche milione di anni luce: questo è sorprendente, perché a tali distanze ci si aspetterebbe di aver raggiunto il “bordo” dell’alone di materia oscura, quindi le curve di rotazione dovrebbero iniziare a mostrare una decrescita kepleriana, ma invece rimangono piatte».

Le curve di rotazione misurano la velocità che un corpo celeste (come una stella o una nube di gas) a una certa distanza dal centro galattico deve avere per rimanere in un’orbita circolare attorno alla galassia. La presenza di materia oscura nelle galassie è stata dedotta studiando proprio le curve di rotazione, negli anni a cavallo tra il 1970 e 1980. Si ritiene le curve di rotazione delle galassie debbano diminuire con l’aumentare della distanza dal centro della galassia. Secondo la gravità newtoniana, le stelle che si trovano ai margini esterni della galassia dovrebbero essere più lente a causa di una minore attrazione gravitazionale. Poiché questa ipotesi non corrisponde alle osservazioni, gli scienziati hanno ipotizzato la presenza della cosiddetta materia oscura, che non emetterebbe radiazione elettromagnetica ma sarebbe rilevabile solo mediante gli effetti del suo campo gravitazionale. Anche supponendo l’esistenza della materia oscura, però, a un certo punto il suo effetto dovrebbe affievolirsi con la distanza, e quindi le curve di rotazione delle galassie non dovrebbero rimanere costanti in modo indefinito.

Lo studio mette in dubbio questa ipotesi, fornendo una rivelazione sorprendente: l’influenza di quella che chiamiamo materia oscura si estende ben oltre le stime precedenti, ovvero per almeno un milione di anni luce dal centro galattico. Una forza così estesa potrebbe indicare paradossalmente che la materia oscura, come intesa finora, potrebbe non esistere affatto.

«Questa scoperta mette in discussione i modelli esistenti», dice Tobias Mistele della Case Western Reserve University e primo autore dello studio, «suggerendo che esistono o aloni di materia oscura molto estesi o che dobbiamo rivedere radicalmente la nostra comprensione della teoria gravitazionale».

«Abbiamo usato questi dati», aggiunge Lelli, « per studiare la relazione di Tully-Fisher – una legge di scala tra la massa barionica (quella di cui sono fatte le stelle e il gas) e la velocità di rotazione delle galassie – trovando che la stessa legge persiste quando utilizziamo le velocità misurate a grandissime distanze. Tale risultato non è affatto ovvio, poiché a tali distanze la velocità di rotazione è determinata interamente dalla materia oscura, non da quella barionica. Le osservazioni ci permettono di raggiungere distanze dal centro galattico enormemente grandi, circa venti volte maggiori rispetto a quelle raggiunte con le tecniche classiche. Con grande sorpresa, abbiamo trovato che le curve di rotazione rimangono quasi perfettamente piatte – in altre parole, la velocità rimane costante – fino alle distanze più grandi che siamo in grado di raggiungere».

Questo tipo di studio intende chiarire quale sia la natura della materia oscura, ovvero se questi fenomeni gravitazionali siano dovuti a un nuovo tipo di particella elementare “invisibile” ancora da scoprire, oppure se vi sia la necessità di rivedere le leggi gravitazionali di Newton ed Einstein.

«Questo risultato non ha una spiegazione ovvia nel contesto cosmologico standard della Lambda Cold Dark Matter (Lambda-Cdm) e potrebbe avere a che fare con l’ambiente della galassia», precisa Lelli «ovvero con la distribuzione degli aloni di materia oscura più piccoli che si ritiene orbitare attorno all’alone principale. Per limitare questo effetto, infatti, abbiamo selezionato le nostre galassie per essere il più isolate possibile».

Curve di rotazione piatte fino a grandi raggi erano già state predette dalla teoria della gravità modificata Mond, proposta dal fisico Mordehai Milgrom nel 1983 come alternativa alla materia oscura. «Le nostre osservazioni sono in accordo con quanto predetto da Mond più di 40 anni fa», conclude Lelli.

Sono ora necessari ulteriori studi per chiarire l’avvincente rompicapo cosmologico e scrivere una nuova pagina di storia dell’astrofisica moderna.

Per saperne di più:

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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L’universo primordiale di Webb è esplosivo


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Esplodevano come popcorn in pentola, le supernove nell’universo primordiale. Almeno secondo quanto sta osservando Webb, che finora ne ha contate un numero dieci volte superiore a quello precedentemente conosciuto. Questi fuochi d’artificio cosmici apparirebbero confrontando immagini scattate a distanza di un anno, visibili alle lunghezze infrarosse grazie al fenomeno del redshift cosmologico. I risultati sono stati presentati in una conferenza stampa durante il 244° meeting dell’American Astronomical Society a Madison, nel Wisconsin.

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Immagine di Webb che mostra circa 80 oggetti (cerchiati in verde) che hanno cambiato luminosità nel tempo. La maggior parte di questi oggetti, noti come transienti, sono il risultato dell’esplosione di stelle o supernove nell’universo primordiale.
Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, Collaborazione Jades

Le immagini poste a confronto sono state raccolte nell’ambito del programma Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades), che sfrutta il fatto che la luce emessa dall’esplosione di una supernova nell’universo primordiale viene “stirata” a lunghezze d’onda infrarosse – quelle viste da Webb – a causa dell’espansione dell’Universo, un fenomeno noto come redshift cosmologico.

Prima del lancio di Webb, solo una manciata di supernove era stata trovata sopra redshift 2, una distanza che corrisponde a un’età dell’universo di appena 3,3 miliardi di anni. Ora, invece, il campione Jades contiene molte supernove che sono esplose addirittura quando l’universo aveva meno di 2 miliardi di anni. La più vecchia si trova a redshift 3.6: la sua stella progenitrice è esplosa quando l’universo aveva solo 1,8 miliardi di anni. In tutto, gli oggetti identificati dal team di Jades sono 80, e li vedete cerchiati in verde nell’immagine sulla destra. Sono tutti oggetti “transienti”, che hanno cioè mutato la propria luminosità nel tempo, e molti di questi a causa dell’esplosione di una stella in supernova.

«Il fatto che il telescopio spaziale Webb stia trovando un gran numero di supernove era atteso», commenta Andrea Pastorello, ricercatore dell’Inaf di Padova esperto di supernove e non coinvolto nel programma Jades. «L’efficienza dello strumento permette di arrivare a redshift estremamente elevati e quindi campiona un volume significativo di universo. L’effetto del redshift sposta l’emissione delle supernove dal dominio ottico a quello infrarosso, rendendo questo telescopio ideale per la loro scoperta».

Di supernove ce n’è di vari tipi, e quelle più interessanti dal punto di vista cosmologico sono le supernove di tipo Ia. Si tratta di oggetti speciali, perché durante l’esplosione raggiungono una luminosità di picco sempre uguale. Si dice, in gergo, che sono candele standard: questa loro caratteristica viene infatti utilizzata per misurare la distanza delle galassie lontane in cui esplodono e per calcolare il tasso di espansione dell’universo.

Webb ha identificato almeno una supernova di Tipo Ia a un redshift di 2,9: significa che la luce di questa esplosione ha iniziato a viaggiare verso di noi 11,5 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 2,3 miliardi di anni. Il precedente record di distanza per una supernova di tipo Ia confermata spettroscopicamente era un redshift di 1,95, quando l’universo aveva 3,4 miliardi di anni.

Con queste nuove esplosioni per le mani, la domanda è: la loro luminosità era diversa così lontano nel tempo e nello spazio, quando l’universo era più giovane? Se la risposta fosse sì, e la loro luminosità variasse con il redshift, significherebbe che non sarebbero dei marcatori affidabili per misurare le distanze, e dunque il tasso di espansione dell’universo. Ebbene, l’analisi di questa supernova di tipo Ia trovata a redshift 2,9 non sembra indicare alcuna variazione di luminosità. Sono necessari ulteriori dati, ma per ora le teorie basate su queste sorgenti esplosive sono salve.

«Scoprire supernove primordiali e poterle osservare anche in spettroscopia ci permette di capire come variano le proprietà dei diversi tipi di supernove con il redshift», spiuga Pastorello. «Questo ha ovvie conseguenze nel loro uso come indicatori di distanza. Inoltre, determinare come varia la composizione del materiale eiettato dalle supernove distanti rispetto a quelle “locali” è utile per comprendere come la composizione chimica dei progenitori (ovvero delle stelle da cui provengono) ne determini il cammino evolutivo. Questo aiuta la nostra comprensione dei meccanismi che regolano i vari tipi di esplosioni stellari».


Osservato il più piccolo di una coppia di buchi neri


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Due buchi neri in orbita l’uno intorno all’altro. Entrambi hanno dei getti associati: il più grande di colore rossastro e il più piccolo di colore giallastro. Normalmente si vede solo il getto rossastro, ma durante le 12 ore del 12 novembre 2021, il getto del più piccolo ha dominato, dandoci una prova della sua esistenza. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/R. Hurt (Ipac) & M. Mugrauer (Aiu Jena)

Nel 2021, Tess (acronimo di Transiting Exoplanet Survey Satellite, il cacciatore di esopianeti della Nasa), ha rivolto il suo sguardo verso una galassia lontana lontana, denominata Oj 287. L’ha fatto perché, secondo una teoria proposta da ricercatori finlandesi, al centro di questa galassia dovrebbero esserci due buchi neri in orbita l’uno attorno all’altro. Così Tess, per confermarlo, ha trascorso diverse settimane a osservare in quella direzione, trovando effettivamente prove indirette dell’esistenza di un buco nero in orbita attorno a un altro con una massa 100 volte più grande.

Per verificare l’esistenza del buco nero più piccolo, Tess ha monitorato la luminosità di quello più grande e del getto a esso associato. Effettivamente, l’osservazione diretta del buco nero più piccolo che orbita attorno a quello più grande è molto difficile, ma la sua presenza è stata rivelata indirettamente da un improvviso aumento di luminosità del sistema.

Sebbene questo tipo di evento non fosse mai stato osservato in Oj 287, Pauli Pihajoki dell’Università di Turku in Finlandia lo aveva previsto nella sua tesi di dottorato già nel 2014. Pihajoki in realtà aveva fatto molto di più, prevedendo addirittura il periodo in cui si sarebbe verificato il “brillamento”, alla fine del 2021. È per questo motivo che, alla fine di quell’anno, diversi satelliti e telescopi erano puntati in quella direzione.

Tess ha rilevato il brillamento previsto il 12 novembre 2021 alle 2 del mattino Gmt e le osservazioni sono state pubblicate su The Astrophysical Journal nel dicembre 2023. L’evento è durato solo 12 ore. La breve durata dimostra che è molto difficile trovare un burst di grande luminosità se non se ne conosce in anticipo la tempistica. In questo caso, la teoria dei ricercatori di Turku si è rivelata corretta e Tess ha puntato su Oj 287 proprio al momento giusto. La scoperta è stata confermata anche dal telescopio Swift della Nasa, puntato sullo stesso obiettivo. Un’ampia collaborazione internazionale guidata da Staszek Zola della Università Jagellonica di Cracovia, in Polonia, ha rilevato lo stesso evento utilizzando telescopi in diverse parti della Terra. Inoltre, un gruppo della Università di Boston (Usa), guidato da Svetlana Jorstad e altri osservatori, ha confermato la scoperta studiando la polarizzazione della luce prima e dopo il brillamento.

Ora, in un nuovo studio che combina tutte le osservazioni precedenti, Mauri Valtonen e il suo gruppo di ricerca dell’Università di Turku hanno dimostrato che l’aumento di luminosità di 12 ore proveniva dai dintorni del buco nero più piccolo del sistema.

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Il burst osservato appare come una brusca impennata nella curva di luce, mostrando come un oggetto normalmente poco luminoso si sia illuminato improvvisamente. Nell’angolo superiore, il flaring osservato è mostrato in maggior dettaglio. La quantità di luce emessa nel burst è equivalente alla luminosità di circa 100 galassie. Crediti: Kishore et al. 2024

Secondo i ricercatori, la rapida esplosione di luminosità si è verificata quando il buco nero più piccolo ha “inghiottito” una grossa fetta del disco di accrescimento che circonda quello più grande, trasformandolo in un getto di gas verso l’esterno. Per circa 12 ore, il getto del buco nero più piccolo è quindi stato più luminoso di quello del buco nero più grande.

Il colore di Oj 287 è risultato, in questo periodo di tempo, meno rosso del solito. Era più tendente al giallo, il che significa che per quelle 12 ore è stata vista la luce del buco nero più piccolo. Gli stessi risultati possono essere dedotti da altre caratteristiche della luce emessa da Oj 287 nello stesso periodo di tempo.

«Ora possiamo dire di aver “visto” per la prima volta un buco nero orbitante, allo stesso modo in cui possiamo dire che Tess ha visto pianeti in orbita attorno ad altre stelle. E proprio come nel caso dei pianeti, è estremamente difficile ottenere un’immagine diretta del buco nero più piccolo. Infatti, a causa della grande distanza di Oj 287, che sfiora i quattro miliardi di anni luce, probabilmente ci vorrà molto tempo prima che i nostri metodi di osservazione siano sufficientemente sviluppati per catturare un’immagine, anche del buco nero più grande», afferma Valtonen.

«Il buco nero più piccolo potrebbe presto rivelare la sua esistenza in altri modi, poiché si prevede che emetta onde gravitazionali al nano-Hertz. Le onde gravitazionali di Oj 287 dovrebbero essere rilevabili nei prossimi anni con i pulsar timing array», conclude il co-autore Achamveedu Gopakumar del Tata Institute of Fundamental Research, in India.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Evidence of Jet Activity from the Secondary Black Hole in the OJ 287 Binary System” di Mauri J. Valtonen, Staszek Zola, Alok C. Gupta, Shubham Kishore, Achamveedu Gopakumar, Svetlana G. Jorstad, Paul J. Wiita, Minfeng Gu, Kari Nilsson, Alan P. Marscher, Zhongli Zhang, Rene Hudec, Katsura Matsumoto, Marek Drozdz, Waldemar Ogloza, Andrei V. Berdyugin, Daniel E. Reichart, Markus Mugrauer, Lankeswar Dey, Tapio Pursimo, Harry J. Lehto, Stefano Ciprini, T. Nakaoka, M. Uemura, Ryo Imazawa, Michal Zejmo, Vladimir V. Kouprianov, James W. Davidson Jr., Alberto Sadun, Jan Štrobl, Z. R. Weaver e Martin Jelínek


Hubble si dovrà accontentare d’un solo giroscopio


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L’astronauta Mike Massimino intento a rimuovere e sostituire le Rate Sensor Units di Hubble, che contengono i giroscopi del telescopio, durante la Servicing Mission del 2009, nel corso della quale tutti e sei i giroscopi sono stati sostituiti. Crediti: Nasa

Necessari ai telescopi spaziali per effettuare correttamente le manovre di puntamento, quanto a fragilità e sensibilità all’usura i giroscopi sono le anche e i menischi dei satelliti: man mano che gli anni passano, sono i primi a subire acciacchi. Per questo si tende a metterne in quantità ridondante e, quando è possibile, si prova anche a sostituirli: nel caso di Hubble è avvenuto durante l’ultima servicing mission, quella del 2009, alla veneranda età di 19 anni, quando i suoi sei giroscopi originali vennero rimpiazzati con altri sei nuovi fiammanti.

Ora però, trascorsi parecchi altri anni, anche le “protesi” hanno iniziato a mostrare segni di cedimento. Già da tempo i tre giroscopi di riserva avevano dato forfait, lasciando il telescopio sin dal 2018 senza più ridondanza. Dallo scorso novembre, però, anche uno dei tre giroscopi superstiti ha iniziato a non funzionare correttamente, indicando erroneamente valori di saturazione e costringendo più volte Hubble a entrare in safe mode – l’ultima volta il 24 maggio – e dunque a sospendere le operazioni scientifiche.

Accertato che i tentativi di ripristinarne il corretto funzionamento tramite una serie di reset dell’elettronica hanno un effetto solo temporaneo, la Nasa ha alla fine preso una decisione drastica: rinunciare alla modalità di funzionamento standard ­– quella con tre giroscopi – e riprendere le osservazioni scientifiche nel cosiddetto one-gyro mode. Vale a dire, avvalendosi di un giroscopio soltanto, così da poter tenere l’unico altro ancora funzionante come riserva.

NASA’s Hubble Space Telescope entered safe mode May 24 due to an ongoing gyroscope issue, temporarily suspending science operations.

Hubble’s instruments are stable, and the telescope is in good health: t.co/LXyup3VqKh pic.twitter.com/2Xyi2A2WjD

— Hubble (@NASAHubble) May 31, 2024

È una modalità già ampiamente pianificata e sperimentata su numerosi satelliti, nel 2008 anche sullo stesso Hubble, senza particolare impatto sulle osservazioni, questa a singolo giroscopio. Certo qualche conseguenza ci sarà: proprio come accade anche a noi umani raggiunta un’età importante, Hubble dovrà rassegnarsi a muoversi un po’ più lentamente. Non potrà permettersi gli scatti d’un tempo, né d’inseguire con lo sguardo oggetti molto veloci, in particolare quelli più vicini dell’orbita di Marte – eventualità peraltro che si presenta raramente. Ma tutto il resto potrà tranquillamente continuare a farlo, garantisce la Nasa. Insomma, sarà un “anziano attivo”, e le osservazioni scientifiche dovrebbero riprendere a breve.

E a proposito di anziani in perfetta forma, è di ieri la notizia che la sonda Voyager 1, superati i contrattempi degli ultimi mesi, ha ripreso a funzionare pienamente: tutt’e quattro gli strumenti di bordo stanno inviando verso la Terra – distante dalla sonda Nasa 24 miliardi di km – pacchetti di dati corretti e comprensibili. Non accadeva dallo scorso novembre.


Vera Rubin e Nancy Roman, il cielo a confronto


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Due telescopi intitolati a due grandi scienziate. E due immagini, simulate, di quel che potranno vedere. A sinistra il telescopio Vera Rubin, con il suo specchio da 8.4 metri di diametro e un grande campo di vista; a destra il telescopio spaziale Nancy Roman, con il suo specchio di 2.4 metri di diametro, come Hubble, ma un campo di vista cento volte maggiore. Inquadrano virtualmente la stessa regione di cielo, in questa simulazione creata grazie al supercomputer del Department of Energy’s Argonne National Laboratory in Illinois.

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Questa coppia di immagini simulate mostra la stessa regione di cielo vista dall’Osservatorio Vera C. Rubin (a sinistra, elaborata dalla Legacy Survey of Space and Time Dark Energy Science Collaboration) e dal telescopio spaziale Nancy Grace Roman della Nasa. Crediti: J. Chiang (Slac), C. Hirata (Osu), and Nasa’s Goddard Space Flight Center

L’immagine è solo una piccola parte della campagna di simulazioni messa in piedi da Michael Troxel, professore associato di fisica alla Duke University di Durham, North Carolina, nell’ambito di un progetto più ampio chiamato OpenUniverse. Circa 400 terabyte di dati, in tutto, i primi 10 dei quali saranno rilasciati ora, mentre i restanti 390 terabyte seguiranno in autunno, una volta elaborati.

«I risultati daranno forma ai futuri tentativi di Roman e Rubin di scoprire di più sulla materia oscura e sull’energia oscura», dice Troxel, «e offrono ad altri scienziati un’anteprima del tipo di cose che saranno in grado di esplorare utilizzando i dati dei telescopi».

Le simulazioni complete copriranno un’area di cielo grande 70 gradi quadrati, circa l’area occupata da 350 lune piene. Le due immagini che vedete qui, invece, coprono la stessa porzione di cielo di 0.08 gradi quadrati (circa un terzo delle dimensioni di una luna piena). Roman catturerà immagini più profonde e nitide dallo spazio, mentre Rubin osserverà una regione più ampia del cielo da terra. Dovendo attraversare l’atmosfera terrestre, le immagini di Rubin non saranno sempre abbastanza nitide da distinguere più sorgenti vicine come oggetti separati. Appariranno, come già si può intuire da questa simulazione, un po’ più sfocate rispetto a quelle del telescopio Roman, cosa che porrà un limite un po’ più stringente alla scienza che i ricercatori potranno fare utilizzando le sole immagini. Potranno però confrontarle con quelle del telescopio Roman, e intuire da queste in quali punti due oggetti sono fusi insieme, in modo da studiare delle strategie di correzione e miglioramento specifiche. Anche le lunghezze d’onda d’osservazione saranno diverse, ma avranno un intervallo ampio di sovrapposizione largo circa 600 nm: Vera Rubin sarà in grado di coprire lunghezze d’onda più blu, mentre Roman si spingerà molto più in là nell’infrarosso.

Due telescopi intitolati a due grandi scienziate. E due immagini, simulate, di quel che potranno vedere. Chissà quale avrebbero scelto, Vera Rubin e Nancy Grace Roman, se gliele avessimo fatte vedere entrambe.


Phoenix si tiene ben stretta la sua atmosfera


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Rappresentazione artistica di “Phoenix”. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

La mitologia e i racconti degli antichi offrono molti spunti all’astronomia, basti pensare a quanti nomi di personaggi mitologici sono stati dati alle costellazioni: Orione, Cassiopea e Andromeda, per citarne solo alcuni. Questa volta a offrire uno spunto è stata la Fenice, l’uccello sacro agli Egizi in grado di rinascere dalle ceneri e quindi sopportare le fiamme in cui bruciava. È a quest’ultima abilità dell’animale che gli scienziati hanno pensato quando hanno visto Tic 365102760 b, un raro pianeta extrasolare che sarebbe dovuto già essere stato ridotto a nuda roccia a causa dell’intensa radiazione della sua vicina stella ospite. Eppure, in barba al triste destino che gli era riservato, ha sviluppato un’atmosfera puffy – gonfia e a bassa densità. Ecco dunque che per la sua capacità di sopravvivere all’energia emanata della sua stella, una gigante rossa, è stato soprannominato dagli scienziati “Phoenix” – la Fenice, appunto.

Questa è solo l’ultima di una serie di scoperte che costringono gli scienziati a ripensare le teorie su come i pianeti invecchiano e muoiono in ambienti estremi. Tic 365102760 b testimonia la grande diversità dei sistemi planetari e la complessità della loro evoluzione, soprattutto alla fine della vita delle stelle. I risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su The Astronomical Journal.

«Questo pianeta non si sta evolvendo come pensavamo, sembra avere un’atmosfera molto più grande e meno densa di quanto ci aspettassimo per questi sistemi», osservaSam Grunblatt, astrofisico della Johns Hopkins University che ha guidato la ricerca. «La grande domanda è come sia riuscito a mantenere quell’atmosfera nonostante fosse così vicino a una stella ospite tanto grande».

Il nuovo pianeta appartiene alla categoria di mondi piuttosto rari chiamati nettuniani caldi (hot Neptunes), poiché condividono molte somiglianze con il gigante ghiacciato più esterno del Sistema solare, nonostante siano molto più vicini alla loro stella ospite e molto più caldi. Tic 365102760 b è sorprendentemente più piccolo, più vecchio e più caldo di quanto gli scienziati ritenessero possibile. È appena 6,2 volte più grande della Terra, completa un’orbita intorno alla sua stella – una gigante rossa – in 4,2 giorni ed è circa 6 volte più vicino alla sua stella di quanto Mercurio lo sia al Sole.

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Un’altra rappresentazione artistica di Tic 365102760 b, soprannominato “Phoenix” per la sua capacità di sopravvivere vicino all’intensa radiazione di una gigante rossa. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

Tenendo conto dell’età di Phoenix e delle sue temperature torride, nonché della sua densità inaspettatamente bassa, gli scienziati hanno concluso che il processo di rimozione della sua atmosfera deve essere avvenuto a un ritmo più lento di quanto ritenessero possibile. Hanno anche stimato che il pianeta ha una densità 60 più bassa del più denso fra i nettuniani caldi scoperti finora, e che non sopravviverà più di 100 milioni di anni prima di iniziare a morire spiraleggiando verso la sua gigante.

«È il pianeta più piccolo che abbiamo mai trovato attorno a una di queste giganti rosse, e probabilmente il pianeta di massa più piccola in orbita attorno a una gigante [rossa] che abbiamo mai visto», spiega Grunblatt. «Ecco perché sembra davvero strano. Non sappiamo perché abbia ancora un’atmosfera mentre altri nettuniani caldi molto più piccoli e molto più densi sembrano perdere la loro atmosfera in ambienti assai meno estremi».

Grunblatt e il suo team sono stati in grado di ottenere tali informazioni ideando un nuovo metodo per mettere a punto i dati di Tess, il Transiting Exoplanet Survey Satellite della Nasa. Il telescopio del satellite può individuare pianeti a bassa densità osservando come attenuano la luminosità delle loro stelle ospiti quando vi transitano davanti. Il team di Grunblatt ha poi filtrato la luce indesiderata nelle immagini e le ha combinate con ulteriori misurazioni del W.M. Keck Observatory, una struttura sul vulcano Maunakea, alle Hawaii, che permette di tracciare le piccole oscillazioni delle stelle causate dai pianeti che orbitano loro attorno. Grunblatt ha spiegato che questi risultati possono aiutare gli scienziati a comprendere meglio come potrebbero evolversi atmosfere simili a quella terrestre. Gli scienziati prevedono che tra qualche miliardo di anni il Sole si espanderà in una gigante rossa, gonfiandosi e inghiottendo la Terra e gli altri pianeti interni. «Non comprendiamo molto bene lo stadio avanzato dell’evoluzione dei sistemi planetari», sottolinea a questo proposito Grunblatt. «Questo ci dice che forse l’atmosfera terrestre non si evolverà esattamente come pensavamo».

I pianeti puffy sono spesso composti da gas, ghiaccio o altri materiali più leggeri che li rendono complessivamente meno densi di qualsiasi pianeta del Sistema solare. Sono così rari che gli scienziati ritengono che solo circa l’un per cento delle stelle ne possieda. Grunblatt ha precisato che è difficile scoprire esopianeti come Phoenix perché le loro piccole dimensioni li rendono più difficili da individuare rispetto a quelli più grandi e più densi. Ecco perché la sua squadra sta cercando altri di questi mondi più piccoli, e grazie alla loro nuova tecnica hanno già trovato una dozzina di potenziali candidati. «Abbiamo ancora molta strada da fare per capire come le atmosfere planetarie si evolvono nel tempo», conclude Grunblatt.

Per saperne di più:

  • Leggi sul The Astronomical Journal l’articolo “TESS Giants Transiting Giants. IV. A Low-density Hot Neptune Orbiting a Red Giant Star” di Samuel K. Grunblatt, Nicholas Saunders, Daniel Huber, Daniel Thorngren, Shreyas Vissapragada, Stephanie Yoshida, Kevin C. Schlaufman, Steven Giacalone, Mason Macdougall, Ashley Chontos, Emma Turtelboom, Corey Beard, Joseph M. Akana Murphy, Malena Rice, Howard Isaacson, Ruth Angus e Andrew W. Howard


Una nube glaciale, non proprio passeggera


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Mammuth, tigri dai denti a sciabola, enormi roditori, infinite distese di ghiaccio. Circa due milioni di anni fa, la Terra era un luogo molto diverso da quello che conosciamo oggi. Durante questo periodo si sono verificate una serie di glaciazioni – lunghe milioni di anni e susseguitesi fino a circa 12 mila anni fa – che modificarono totalmente l’ambiente, rendendolo ostile per qualsiasi forma di vita. Gli esperti di paleoclimatologia hanno, negli anni, proposto diverse ipotesi su ciò che avrebbe causato l’alternarsi delle ere glaciali sul nostro pianeta: effetto serra, inclinazione e rotazione terrestre, movimento delle placche tettoniche, eruzioni vulcaniche. E se cambiamenti drastici come questi non fossero dovuti solo alla Terra, ma anche alla posizione del Sole nella galassia?

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Per un breve periodo di tempo, milioni di anni fa, la Terra potrebbe essere stata esclusa dallo scudo protettivo di plasma del Sole, l’eliosfera, qui rappresentata come una bolla grigio scuro sullo sfondo dello spazio interstellare. Secondo una nuova ricerca, questo potrebbe aver esposto la Terra ad alti livelli di radiazioni e influenzato il clima. Crediti: Opher, et al., Nature Astronomy

Stando a uno studio pubblicato questa settimana su Nature Astronomy e guidato da ricercatori della Boston University, il nostro Sistema solare potrebbe aver attraversato una densa e gelida nube interstellare circa due milioni di anni fa. Ciò potrebbe aver interferito con il vento solare, riducendo temporaneamente l’eliosfera, lo scudo protettivo di plasma che emana dal Sole e che avvolge il nostro sistema solare.

Un incontro fatale che potrebbe aver alterato il clima della Terra, dunque. Costituita da un flusso costante di particelle cariche, il cosiddetto vento solare, che si estende ben oltre Plutone, l’eliosfera è in effetti una sorta di bolla gigante che ci protegge dalle radiazioni cosmiche e dai raggi galattici – raggi che possono alterare il Dna. Questa sorta di protezione è considerata una delle ragioni principali per cui la vita si sarebbe evoluta sulla Terra.

Dall’altra parte ci sono enormi nubi di gas interstellare, con masse fino a un milione di volte quella del Sole, e temperature molto basse, da circa una decina a poche centinaia di gradi sopra lo zero assoluto.

Secondo il team di ricerca, proprio una densa nube interstellare fredda potrebbe aver “compresso” l’eliosfera, esponendo temporaneamente la Terra e gli altri pianeti del Sistema solare a livelli elevati di radiazioni cosmiche. «Il nostro studio è il primo a dimostrare quantitativamente che c’è stato un incontro tra il Sole e qualcosa al di fuori del Sistema solare che potrebbe aver influenzato il clima della Terra», dice Merav Opher, fisica spaziale alla Boston University e autrice principale della ricerca. «Le stelle si muovono e questo lavoro dimostra non solo che si muovono, ma che vanno incontro a cambiamenti drastici».

Il team di ricerca sta studiando come l’eliosfera e la regione in cui il Sole si muove nello spazio potrebbero influenzare la chimica atmosferica della Terra. Utilizzando sofisticati modelli al computer, ha guardato indietro nel tempo e ricostruito la posizione del Sole – insieme all’eliosfera e al resto del Sistema solare – due milioni di anni fa. I ricercatori hanno mappato il percorso del Local Ribbon of Cold Clouds, un sistema di nubi stellari dense e fredde composte principalmente da atomi di idrogeno: le simulazioni hanno suggerito che una di queste nubi – chiamata Local Lynx of Cold Cloud, nella costellazione della Lince – potrebbe aver interagito con l’eliosfera 2-3 milioni di anni fa.

Se ciò fosse accaduto, la Terra sarebbe stata esposta al mezzo interstellare, un mix di gas, polvere, elementi atomici residui delle stelle esplose – tra cui ferro e plutonio – e particelle radioattive che, normalmente, l’eliosfera filtra. Senza la sua protezione, tali particelle potrebbero aver raggiunto la Terra. E non mancano indizi del fatto che ciò possa essere realmente accaduto: le prove geologiche, infatti, mostrano un aumento, nello stesso periodo, degli isotopi del ferro-60 del plutonio-244 negli oceani, nella neve antartica e nelle carote di ghiaccio, nonché sulla Luna. Inoltre, gli isotopi coinciderebbero anche con le registrazioni delle temperature indicanti un periodo di notevole raffreddamento. Un’ipotesi è dunque che possa esserci una relazione fra l’interazione del nostro pianeta con la Local Lynx of Cold Cloud e le massicce glaciazioni del Quaternario.

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Una nube molecolare interstellare fredda, vista dal telescopio spaziale Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa e M. Zamani (Esa)

La ricerca non solo ha messo sotto una nuova luce il passato geologico e climatico della Terra, ma sottolinea anche l’importanza delle dinamiche cosmiche nel modellare le condizioni climatiche del nostro pianeta. «Solo raramente i nostri “vicini cosmici” al di là del Sistema solare influenzano la vita sulla Terra», dice Avi Loeb, direttore dell’Institute for Theory and Computation dell’Università di Harvard e coautore del lavoro. «È emozionante scoprire che il nostro passaggio attraverso dense nubi qualche milione di anni fa potrebbe aver esposto la Terra a un flusso molto più ampio di raggi cosmici e atomi di idrogeno. I nostri risultati aprono una nuova finestra sul rapporto tra l’evoluzione della vita sulla Terra e il nostro vicinato cosmico».

La pressione esterna esercitata dalla nube fredda interstellare nella Lince potrebbe aver ridotto l’eliosfera per centinaia di anni o anche per un milione di anni, secondo Opher. Successivamente, una volta che la Terra si è allontanata dalla nube, l’eliosfera ha ripreso il suo ruolo “protettivo”.

Anche se non possiamo conoscere l’effetto esatto che questa nube fredda ha avuto sul clima terrestre, è probabile che il Sistema solare abbia incontrato altre nubi fredde nel mezzo interstellare nel corso dei miliardi di anni dalla sua formazione. E probabilmente ne incontreremo altre nel futuro, tra circa un milione di anni.

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A sign in space: è questione di chimica (organica)


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La soluzione condivisa su Discord l’11 giugno 2024. Ma cosa vorrà dire? Crediti: A sign in space

Ricordate quella specie di “mappa stellare” che era emersa dai primi tentativi di decodifica del messaggio simil-alieno di “A sign in space”, inviato da Marte verso la Terra il 24 maggio dello scorso anno? Ebbene, le cinque nuvolette di punti, se opportunamente analizzate, si trasformano in altrettante molecole a base di idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno: gli amminoacidi.

La chimica organica è dunque un ingrediente per interpretare il misterioso dispaccio cosmico architettato dall’artista Daniela de Paulis. Trasmesso dal Trace Gas Orbiter dell’Agenzia spaziale europea, il messaggio era stato ricevuto puntualmente dal radiotelescopio di Medicina dell’Istituto nazionale di astrofisica, vicino Bologna, dall’Allen Telescope Array del Seti Institute, in California, e dal Robert C. Byrd Green Bank Telescope in West Virginia.

La soluzione è stata identificata da John e Sarah (nomi di fantasia), una squadra formata da un padre e una figlia che hanno chiesto di rimanere anonimi per proteggere la loro privacy. Ad annunciarlo, la stessa de Paulis alle 17.44 ora italiana dell’11 giugno sulla piattaforma Discord, che negli ultimi dodici mesi ha visto migliaia di entusiasti da tutto il mondo cimentarsi con la complessa sfida e condividere i loro tentativi di interpretazione, scambiandosi oltre 54mila messaggi (recentemente catalogati in un database).

Per risolvere l’arcano, i due decoder hanno analizzato il messaggio – una sequenza di 65.696 zeri e uni – utilizzando il modello matematico dell’automa cellulare, già invocato nelle discussioni su Discord pochi giorni dopo il lancio del progetto. Si tratta di un modello basato su una griglia di celle, usato per descrivere l’evoluzione di sistemi complessi in diverse discipline, tra cui la biologia. Come illustrato dallo stesso John nella nota che accompagnava il diagramma con i cinque amminoacidi, la decodifica del messaggio cifrato ha richiesto 6625 trasformazioni (rotazioni) su un motore grafico per videogiochi, utilizzando il cosiddetto automa cellulare reversibile a blocchi sviluppato dal matematico canadese Norman Margolus. L’immagine finale mostra una serie di blocchi formati rispettivamente da uno, sei, sette e otto pixel: rispettivamente il numero atomico dei quattro elementi alla base della vita così come la conosciamo sulla Terra – idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno. «È assolutamente ovvio per me di cosa si tratta, così come per il mio amico chimico a cui l’ho spiegato», ha comunicato John nella sua nota. «È meraviglioso osservare tutti i deltaplani e le astronavi dell’automa cellulare che trasportano i bit binari del messaggio in giro per la “galassia” e poi all’improvviso si riuniscono in coerenza e significato».

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L’annuncio della soluzione su Discord (cliccare per ingrandire). Crediti: A sign in space

L’annuncio è stato accolto con decine di reazioni entusiaste da parte dei membri più attivi della piccola comunità che si è venuta a creare su Discord intorno alla sfida lanciata da “A sign in space” cercando di dare un senso all’enigmatico “segno” proprio come se a trasmetterlo fosse stata una lontana civiltà aliena. La discussione si è intensificata e diversi decoder si sono già attivati nel tentare di riconoscere le molecole in questione, interrogandosi sul perché della loro scelta. Del resto la sfida non finisce qui: cosa vorrà poi dire questo messaggio, lanciato come la proverbiale bottiglia nelle profondità dello spazio? Il team del progetto ha invitato la comunità a contribuire al dibattito, usando la descrizione e la soluzione fornite da John per replicare il risultato ottenuto e condividere la propria interpretazione.

«La decodifica del messaggio che abbiamo concepito per “A sign in space” ha richiesto finora competenze di informatica, tecnologie radio, chimica, semiotica e linguaggio visivo» dichiara de Paulis a Media Inaf. «Ora che tutti gli elementi sono stati portati alla luce, il pubblico e i citizen scientists potranno esplorare le molteplici interpretazioni culturali e concettuali del messaggio. Il processo quindi continua e come in un lavoro teatrale, si apre una nuova fase narrativa».


Fuga spericolata di una stella


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Quali siano le ragioni che hanno portato CWise J124909+362116.0, stella subnana dal criptico nome, a intraprendere una forsennata fuga attraverso la Via Lattea rimane attualmente un mistero. Quello che sappiamo è che questo piccolo astro (abbreviato come J1249+36) viaggia nella nostra galassia a una velocità di due milioni di chilometri orari. Che in cifre astronomiche può non voler dire molto, ma che quando la paragoniamo alla velocità del Sole può far trasalire anche il lettore più spericolato. La nostra stella, e noi assieme a lei, sfiora a malapena gli ottocentomila chilometri all’ora. Più che doppiando questa velocità, J1249+36 è dunque a buon diritto una pirata degli spazi interstellari.

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Simulazione di un sistema binario costituito da J1249+36 e da una nana bianca esplosa come supernova. Crediti: Adam Makarenko / W.M. Keck Observatory

La scoperta di quest’astro bizzarro è avvenuta nell’ambito di Backyard Worlds: Planet 9, un progetto che coinvolge oltre ottantamila cittadini volontari che hanno scrupolosamente esaminato caterve di immagini della missione Wise della Nasa, con l’obiettivo di segnalare eventuali anomalie. I repentini spostamenti nelle immagini di questo piccolo astro non sono passati inosservati, e così J1249+36 è stata sottoposta all’attenzione degli astronomi. Che sono rimasti sbalorditi, e hanno pertanto deciso di indagare la natura di quest’oggetto utilizzando uno spettro infrarosso ottenuto con il telescopio Keck, alle Hawaii. I risultati di questa analisi sono stati presentati ieri da Adam Burgasser, professore di astronomia all’Università della California – San Diego, durante il 244esimo meeting dell’American Astronomical Society, in corso in questi giorni a Madison, Wisconsin. Grazie allo spettro, è stato possibile identificare la composizione chimica di J1249+36 e classificarla come una stella subnana di classe L, categoria di astri dotati di massa molto piccola e basse temperature superficiali, e che costituiscono probabilmente le stelle più antiche della Via Lattea. L’utilizzo combinato di immagini e dello spettro ha consentito agli astronomi di mappare posizione e velocità di J1249+36 e di predire la sua orbita con una certa accuratezza. E anche il suo destino. Fuori dalla Via Lattea sembra infatti che si consumeranno le sorti della stella in fuga, che costituisce un raro esempio di stella iperveloce, famiglia di astri raminghi che si muovono così forsennatamente da vincere l’attrazione gravitazionale della galassia che li ospita e vagabondare per gli spazi intergalattici.

Ma cos’è accaduto affinché una piccola stella si ritrovasse a fuggire a velocità dissennata per gli spazi siderali? Come si diceva all’inizio, di preciso non lo si sa. E però gli astronomi hanno ipotizzato due scenari per spiegare il folle moto di J1249+36. Secondo il primo, J1249+36 si trovava in passato in un sistema binario, in compagnia di una nana bianca che a un certo punto è esplosa come supernova a causa dell’accrescimento di materiale da parte di J1249+36. L’esplosione avrebbe dato un poderoso calcio al piccolo astro, conferendogli l’elevata velocità osservata. Purtroppo però dell’esplosione e della nana bianca non resterebbe traccia alcuna e pertanto, benché i calcoli lo prevedano, non esistono evidenze stringenti a favore di questo scenario. La seconda ipotesi vede invece J1249+36 come un antico membro di un ammasso globulare, ovvero un sistema di stelle dalla forma sferica e che, secondo le teorie, potrebbe contenere diversi buchi neri al proprio interno. In particolare, un sistema binario di buchi neri costituirebbe una vera e propria catapulta, capace di scagliare lontano ogni astro che malauguratamente si ritrovi a transitare nei paraggi. Anche in questo caso i conti tornano ma gli scienziati non sanno quale potrebbe essere l’ammasso globulare di partenza. Un’analisi chimica più approfondita potrebbe risolvere il rompicapo della misteriosa origine di quest’oggetto. Gli elementi pesanti della nana bianca potrebbero infatti aver inquinato l’atmosfera di J1249+36, così come gli ammassi globulari hanno dei pattern chimici caratteristici che, se identificati nella stella, potrebbero chiarire il sistema stellare di provenienza. Burgasser e collaboratori sperano di ottenere presto nuove e più profonde osservazioni di J1249+36 per svelarne le origini. Nel frattempo, godiamoci la sua folle fuga.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Su Marte un lago d’interferenze costruttive


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Rappresentazione artistica di bacini d’acqua liquida nel sottosuolo marziano. Crediti: Medialab, Esa 2001

Non sarà ancora arrivato ai 46 colpi dello scambio fra Sinner e Paul al Master di Toronto del 2023, ma è sulla buona strada. Stiamo parlando dell’appassionante serie di palleggi scientifici, a colpi di pubblicazioni su riviste prestigiose, per il match dell’acqua nel sottosuolo marziano. È o non è un lago sotterraneo d’acqua allo stato liquido, quello individuato nelle profondità del Pianeta rosso dal radar Marsis del satellite Mars Express? A sfidarsi – sin dalla prima memorabile “battuta”, vale a dire l’annuncio della scoperta, pubblicato su Science nel 2018 – sono (quasi) sempre loro: da un lato della rete il team italiano che fa capo a Roberto Orosei dell’Inaf e a Elena Pettinelli dell’Università Roma Tre, convinto che di acqua liquida si tratti; di parere opposto, sulla metà campo avversaria, il trio della Cornell University formato da Daniel Lalich, Alexander Hayes e Valerio Poggiali.

Gli ultimi (per ora) a toccare palla sono stati quest’ultimi, con un articolo piazzato giusto la scorsa settimana su Science Advances nel quale riportano i risultati di simulazioni che mostrerebbero come variazioni negli strati di ghiaccio d’acqua – dunque non acqua allo stato liquido – sottili al punto da non poter essere risolti dagli strumenti radar possano causare interferenze costruttive. Vale a dire, interferenze tali da far sì che i segnali si rinforzino a vicenda, così che l’onda risultante abbia un’ampiezza maggiore delle varie componenti. In pratica, il contrario di quel che fanno i sistemi audio di cancellazione attiva del rumore (basati su interferenze distruttive) presenti in alcune cuffie. Sarebbero proprio queste interferenze costruttive, e non la presenza di acqua nel sottosuolo, a rendere così bright – così luminosi – i riflessi catturati dal radar di Marsis.

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Inferferenze costruttive (sopra) e distruttive (sotto). Crediti: Haade/Wikimedia Commons

«Non posso dire che sia impossibile che ci sia acqua liquida laggiù», mette le mani avanti Daniel Lalich, ricercatore al Cornell Center for Astrophysics and Planetary Science, «ma stiamo dimostrando che ci sono modi molto più semplici per ottenere la stessa osservazione senza dover far ricorso a ipotesi remote, utilizzando meccanismi e materiali che già sappiamo essere presenti».

Quali materiali? Strati di ghiaccio e polvere di spessori casuali, sottolinea Lalich, purché – appunto – sufficientemente sottili. Un “colpo” più insidioso, dunque, rispetto a quello di un precedente articolo dello stesso team, pubblicato nel 2022 su Nature Astronomy (e prontamente respinto dal team italiano), nel quale si ipotizzava la presenza di strati alternati di ghiaccio d’acqua e ghiaccio secco, ovvero di CO2. Sostanza quest’ultima, però, difficilmente presente sotto al ghiaccio d’acqua delle calotte marziane, come ammettono gli stessi ricercatori della Cornell.

«Per la prima volta abbiamo un’ipotesi che spiega l’intero insieme di osservazioni relative a quel che c’è sotto la calotta glaciale, senza dover introdurre nulla di unico o strano», continua Lalich. «Questo risultato, con riflessi luminosi diffusi più o meno ovunque, è esattamente quello che ci si aspetterebbe dall’interferenza, nel radar, dovuta a uno strato sottile».

Ora la palla è di nuovo nella metà campo italiana, quella dell’acqua liquida, e possiamo star certi che una risposta non tarderà ad arrivare. Anzi, in parte già è giunta. «Il modello numerico presentato nell’articolo riproduce con successo le proprietà degli echi radar che sono stati interpretati come prodotti dall’acqua liquida alla base della calotta polare meridionale di Marte. In attesa di un’analisi più approfondita, tuttavia, sono rimasto perplesso dalla scelta di valori per i parametri del modello che descrivono le proprietà dielettriche del ghiaccio marziano, alcuni dei quali sono più simili a quelli delle rocce vulcaniche», obietta infatti a Media Inaf Roberto Orosei dell’Istituto nazionale di astrofisica, raggiunto per un commento. «Inoltre, l’articolo non discute altre linee di prova a sostegno della presenza di acqua, come la morfologia della superficie sopra il riflettore luminoso del radar. Un altro fattore sconcertante è che questi echi basali luminosi, che secondo gli autori dell’articolo possono derivare da combinazioni casuali comuni di strati nella regione polare, non sembrano essere affatto presenti nella calotta polare settentrionale».

Insomma, siamo ancora ben lontani dal match point – se mai ci arriveremo – di questo avvincente incontro scientifico.

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La Via Lattea come Benjamin Button


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Via Lattea. A sinistra, l’alone appare disordinato e “rugoso”, segno che la fusione è avvenuta in tempi relativamente recenti. A destra, appare liscio e uniforme, segno che la fusione è avvenuta in un passato antico. Crediti: Halo stars: Esa/Gaia/Dpac, T Donlon et al. 2024; Background Milky Way and Magellanic Clouds: Stefan Payne-Wardenaar.

Il curioso caso della nostra galassia che, invecchiando, perde le sue “rughe”. No, non stiamo parlando di un nuovo film con Brad Pitt, ma di nuovi indizi sulla comprensione dell’universo. I ricercatori di Rensselaer Polytechnic Institute, negli Stati Uniti, potrebbero aver stravolto le teorie sulla formazione della Via Lattea suggerendo che l’ultima grande collisione della nostra galassia sarebbe avvenuta miliardi di anni dopo rispetto a quanto si pensasse. La scoperta è stata resa possibile grazie all’analisi dei dati presenti nel terzo catalogo (Data Release 3) di Gaia, il satellite dell’Agenzia spaziale europea che sta mappando più di un miliardo di stelle in tutta la Via Lattea, seguendone il movimento, la luminosità, la temperatura e la composizione chimica.

In questo caso, Heidi Jo Newberg, astrofisica al Rensselaer Polytechnic Institute, nota per il suo lavoro nella comprensione della struttura della nostra galassia, e Tom Donlon, ricercatore all’Università dell’Alabama, si sono concentrati sulle cosiddette “rughe” che si formano quando la Via Lattea si scontra con altre galassie. «Man mano che invecchiamo le rughe aumentano, ma il nostro lavoro rivela che per la Via Lattea è vero il contrario. È una sorta di Benjamin Button cosmico, che diventa meno rugoso con il passare del tempo», dice Donlon, primo autore del nuovo studio, pubblicato il mese scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Osservando il modo in cui queste rughe si dissipano nel tempo, possiamo risalire al momento in cui la Via Lattea ha subito l’ultimo grande scontro, scoprendo che questo è avvenuto miliardi di anni più tardi di quanto pensassimo».

Come quelle sui nostri corpi, dunque, anche le “rughe galattiche” sarebbero il segno del tempo che passa – seppur al contrario, “spianandosi” con gli anni – e mostrerebbero le tracce lasciate dai vari scontri galattici. L’alone interno della Via Lattea, contiene, infatti, tra le sue “pieghe”, stelle con una componente ricca di ferro (dunque ad alta metallicità) e con orbite molto eccentriche, e viene spesso indicato come segno dell’ultima grande fusione galattica. Sebbene le ipotesi sull’origine dell’alone stellare siano diverse, la morfologia dei detriti stellari e la metallicità delle stelle al suo interno – due aspetti che dipendono dal tempo che hanno avuto per mescolarsi in fase – possono fornire indicazioni preziose sull’età della galassia.

Confrontando le osservazioni delle rughe con le simulazioni cosmologiche, il team ha potuto, dunque, affermare che l’ultima collisione significativa della Via Lattea con un’altra galassia non è avvenuta circa dieci miliardi di anni fa, come si riteneva in precedenza, ma almeno cinque miliardi di anni più tardi. Finora, si pensava che la nostra galassia avesse inglobato una sua simile – Gaia-Encelado, con dimensioni di poco superiori a quelle della Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea attuale – le cui stelle superstiti avrebbero formato una parte consistente dell’alone interno della nostra galassia e andando a “gonfiare” il disco galattico interno. Gli scienziati avevano datato questa collisione – che avrebbe generato un gran numero di stelle con orbite insolite – tra gli 8 e gli 11 miliardi di anni fa, chiamandola fusione Gaia-Sausage-Enceladus (Gse).

Ora, i risultati di Newberg e Donlon proverebbero che il momento dell’ultima collisione significativa della Via Lattea con un’altra galassia risalga ad almeno cinque miliardi di anni dopo, e che le stelle con orbite insolite potrebbero derivare dal cosiddetto Virgo Radial Merger, un “urto laterale” con una galassia dell’ammasso della Vergine avvenuto meno di tre miliardi di anni fa.

«Ogni volta che le stelle oscillano avanti e indietro attraverso il centro della Via Lattea si formano nuove “rughe”. Perché le rughe di stelle siano così evidenti come appaiono nei dati di Gaia, devono essersi unite a noi non meno di tre miliardi di anni fa – almeno cinque miliardi di anni dopo rispetto a quanto si pensava in precedenza», spiega Newberg. «Se si fossero unite a noi otto miliardi di anni fa, ci sarebbero così tante rughe una accanto all’altra che non le vedremmo più come elementi separati».

In pratica, se gli urti della Via Lattea fossero più vecchi, le rughe sarebbero meno distinte tra loro e il suo “volto galattico” ci apparirebbe più liscio e uniforme. Proprio come accade al protagonista del racconto scritto da Francis Scott Fitzgerald nel 1922.

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Guarda l’animazione di una collisione galattica:

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Brina d’acqua sulle cime dei vulcani marziani


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Brina sul pavimento della caldera del vulcano Ceraunius Tholus (cliccare per ingrandire) nelle immagini dello strumento Cassis (a-c) della sonda ExoMars Tgo. La brina non si osserva nel pomeriggio (d). Crediti: Adomas Valantinas

Avete presente le mattine d’inverno, quando il Sole, ancora basso, non riesce a scaldare il terreno e sull’erba si forma quel sottile strato di ghiaccio che chiamiamo brina? Ecco, secondo uno studio appena pubblicato su Nature Geoscience, anche su Marte succede lo stesso: nelle mattine fredde, la cima dei vulcani della regione equatoriale Tharsis si copre di brina d’acqua. Pensando al clima e ai rilievi terrestri, e già sapendo che il ghiaccio d’acqua, su Marte, è stato rilevato più e più volte, questa informazione sembrerebbe poco degna di nota, eppure è qualcosa di davvero inaspettato. Perché all’equatore di Marte, dove si trovano questi vulcani – i più alti di tutto il Sistema solare – l’atmosfera è molto sottile e l’irraggiamento solare mantiene le temperature molto alte durante il giorno, sia in pianura sia sulle cime.

La regione di Tharsis è un altopiano situato a latitudini tropicali e ospita alcuni dei vulcani più grandi e alti del Sistema solare, tra cui l’Olympus Mons, alto 21 chilometri. Le sonde in orbita attorno al pianeta hanno osservato nubi di ghiaccio d’acqua e misurato elevati livelli locali di vapore acqueo nell’atmosfera sopra i vulcani dell’altopiano, a indicazione del fatto che potrebbe esserci un ciclo dell’acqua attivo in questa regione. Tuttavia, come dicevamo, le condizioni atmosferiche ai tropici non sarebbero favorevoli alla formazione di brina d’acqua e, finora, non erano mai stati osservati simili fenomeni di condensazione.

«Non ci aspettavamo la presenza di ghiaccio d’acqua sulla caldera dei vulcani marziani, poiché la brina si osserva solitamente sulla superficie ad altitudini molto basse», dice a Media Inaf Giovanni Munaretto, ricercatore postdoc all’Inaf di Padova e coautore dello studio. «Invece con lo strumento Cassis abbiamo notato che al mattino apparivano dei depositi blu, riconducibili a ghiaccio d’acqua, assenti nelle immagini precedenti di dette caldere (ottenute solitamente durante il pomeriggio locale). Ciò è del tutto inaspettato, poiché a tali altitudini l’atmosfera è talmente rarefatta che difficilmente potrebbe depositare brina».

Secondo quanto osservato dalle due sonde europee in orbita attorno al Pianeta rosso, Trace gas orbiter (Tgo) e Mars Express, la brina sarebbe presente solo per poche ore dopo l’alba prima di evaporare alla luce del Sole. E sarebbe anche incredibilmente sottile: appena un centesimo di millimetro – la larghezza di un capello. Tuttavia, è piuttosto vasta: i ricercatori hanno calcolato che equivalga ad almeno 150mila tonnellate di acqua che passano dalla superficie all’atmosfera ogni giorno durante le stagioni fredde. È l’equivalente di circa 60 piscine olimpioniche.

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Giovanni Munaretto, 29 anni, ricercatore postdoc all’Inaf di Padova e coautore dell’articolo pubblicato su Nature Geoscience. Crediti: Inaf

La brina copre, di fatto, l’intera superficie delle caldere dei vulcani, ed è dovuta alla particolare circolazione dell’aria sopra le cime, che crea un microclima unico che permette la formazione di sottili chiazze di brina. Modellare il processo attraverso il quale si formano le gelate potrebbe consentire agli scienziati di svelare altri segreti di Marte, tra cui capire dove si trova l’acqua e come si muove, nonché comprendere le dinamiche atmosferiche del pianeta, essenziali per le future esplorazioni e la ricerca di possibili segni di vita.

«La scoperta di questi depositi di ghiaccio transienti (ovvero che si formano al mattino ed evaporano nel pomeriggio locale) nelle caldere e il modelling associato ci dice che in tali zone esista un microclima apposito, un ciclo dell’acqua locale che permette alla stessa di condensare sulla superficie al mattino ed evaporare il pomeriggio», continua Munaretto. «Tali volumi di acqua, essendo l’atmosfera molto rarefatta, sarebbero trasportati dagli slope winds, dei venti che dalla base del vulcano risalirebbero fino alla caldera. Tutto ciò implica la presenza di un meccanismo di circolazione atmosferica ancora del tutto da scoprire e da studiare in dettaglio».

Le immagini ad alta risoluzione che vedete provengono da Cassis, il Colour and Stereo Surface Imaging System a bordo di Tgo. I risultati sono stati poi convalidati utilizzando le osservazioni indipendenti della High Resolution Stereo Camera a bordo di Mars Express e dello spettrometro Nadir and Occultation for Mars Discovery a bordo di Tgo. Per trovare la brina, e in seguito confermarla, gli autori hanno analizzato oltre 30mila immagini della regione.

«La cosa molto interessante di questo studio è senz’altro la sua interdisciplinarità, poiché combina l’analisi di dati di diversi strumenti a modelli della circolazione atmosferica di Marte per capire meglio come funziona il suo ciclo dell’acqua e la sua atmosfera», conclude Munaretto. «In particolare, questo studio mostra come i dati forniti dalla missione ExoMars Tgo e dai suoi strumenti siano fondamentali per avanzare la nostra conoscenza del Pianeta rosso».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Evidence for transient morning water frost deposits on the Tharsis volcanoes of Mars“, di A. Valantinas, N. Thomas, A. Pommerol, O. Karatekin, L. Ruiz Lozano, C. B. Senel, O. Temel, E. Hauber, D. Tirsch, V. T. Bickel, G. Munaretto, M. Pajola, F. Oliva, F. Schmidt, I. Thomas, A. S. McEwen, M. Almeida, M. Read, V. G. Rangarajan, M. R. El-Maarry, C. Re, F. G. Carrozzo, E. D’Aversa, F. Daerden, B. Ristic, M. R. Patel, G. Bellucci, J. J. Lopez-Moreno, A. C. Vandaele e G. Cremonese


Nuovo look per l’ammasso Westerlund 1


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Dista da noi circa 13 mila anni luce e ha un’età compresa tra i 3 e i 5 milioni di anni l’ammasso stellare Westerlund 1, uno tra gli affascinanti oggetti stellari studiati dal progetto Extended Westerlund 1 and 2 Open Clusters Survey (Ewocs), guidato da Mario Giuseppe Guarcello dell’Inaf di Palermo.

Chandra ha osservato l’ammasso per circa dodici giorni e, combinando le sue osservazioni in banda X con quelle in ottico di Hubble, è stato possibile rivelare nuovi dettagli utili a comprendere l’ambiente che circonda le sue stelle in formazione e la loro evoluzione. Osservando l’immagine composita di Westerlund 1, infatti, è possibile notare ai raggi X (in bianco e rosa) alcune giovani stelle, nonché gas riscaldato diffuso in tutto l’ammasso – che mostra in ordine di temperatura crescente il gas colorato in rosa, verde e blu. Molte delle stelle riprese da Hubble appaiono come punti gialli e blu.

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Immagine dell’ammasso stellare Westerlund 1 e della regione circostante, come rilevato nei raggi X (Chandra) e nella luce ottica (Hubble). La tela nera dello spazio è costellata di punti colorati di luce di varie dimensioni, per lo più nei toni del rosso, verde, blu e bianco. Al centro dell’immagine c’è una nuvola di gas semitrasparente, rossa e gialla che circonda un gruppo fitto di stelle dorate. Crediti: Nasa/Cxc/Inaf/M. Guarcello et al. (raggi X); Nasa/Esa/Stsci (ottico); Nasa/Cxc/Sao/L. Frattare (elaborazione delle immagini)

L’immagine viene analizzata in uno studio guidato dallo stesso Guarcello pubblicato lo scorso febbraio su Astronomy & Astrophysics.

Attualmente nella nostra galassia si formano solo una manciata di stelle ogni anno, ma in passato – circa 10 miliardi di anni fa, secondo i ricercatori – la Via Lattea produceva dozzine o centinaia di stelle all’anno. Gli astronomi ritengono che la maggior parte di questa formazione stellare abbia avuto luogo in massicci ammassi di stelle – o “super ammassi stellari”: proprio come Westerlund 1.

Ma gli ambienti di formazione stellare non sono tutti uguali, spiega Guarcello a Media Inaf. «Queste regioni stellari possono avere ambienti completamente diversi, ambienti che possono influenzare sia il processo di formazione di stelle e pianeti, sia le primissime fasi evolutive delle stelle. Molta della nostra conoscenza sul processo di formazione stellare viene dalle regioni vicine al Sole, che però sono di massa piccola. In queste regioni non è possibile testare gli effetti degli ambienti massicci, in particolare quelli legati alla presenza di stelle di grande massa o ad alte densità stellari».

Secondo i ricercatori, sono pochi i super ammassi di stelle che esistono ancora nella nostra galassia, e offrono indizi importanti sull’antica era in cui si è formata la maggior parte delle stelle della Via Lattea. Westerlund 1 è il più grande di questi super ammassi stellari rimasti: contiene una massa compresa tra 50mila e 100mila soli. Queste qualità rendono Westerlund 1 un obiettivo eccellente per studiare l’impatto dell’ambiente di un super ammasso stellare sul processo di formazione di stelle e pianeti, nonché sull’evoluzione delle stelle su un’ampia gamma di masse.

Prima del progetto Ewocs, Chandra aveva rilevato in Westerlund 1 1721 sorgenti luminose. Questo nuovo set di dati ha registrato quasi seimila sorgenti in raggi X, comprese le stelle più deboli con masse inferiori a quella del Sole. Di queste, 1075 stelle sono state rilevate da Chandra molto vicine al centro dell’ammasso, entro i quattro anni luce. Ciò offre agli astronomi la possibilità di studiare una nuova popolazione stellare. Per dare un’idea di quanto sia affollato, quattro anni luce rappresentano circa la distanza tra il Sole e Proxima Centauri, la seconda stella più vicina alla Terra.

«Sono vari i motivi per cui questo è interessante», conclude Guarcello. «Mi piace pensare che queste regioni di formazione stellare siano oggi rare nella Via Lattea a differenza di quando la nostra galassia attraversava epoche di intensa formazione stellare dopo eventi di merging».

L’emissione diffusa osservata nei dati Ewocs rappresenta la prima rilevazione di un alone di gas caldo che circonda il centro di Westerlund 1, che gli astronomi ritengono sarà cruciale per valutare la formazione e l’evoluzione dell’ammasso e per fornire una stima più precisa della sua massa.

Per saperne di più: