Einstein Probe spalanca gli occhi sul cielo X
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Lanciato il 9 gennaio 2024, il telescopio spaziale Einstein Probe dell’Accademia cinese delle scienze (Cas) è andato ad affiancare Xmm-Newton dell’Esa e a Xrism della Jaxa nella ricerca rivolta all’universo in raggi X. Nei mesi successivi al decollo, il team operativo della missione – una collaborazione guidata dalla Cas e della quale fanno parte l’Esa, l’istituto tedesco Max Planck per la fisica extraterrestre (Mpe) e il Cnes francese – ha completato i test necessari per confermare la funzionalità del veicolo spaziale e calibrare gli strumenti scientifici. Durante questa fase cruciale, Einstein Probe ha acquisito dati scientifici da varie sorgenti di raggi X. Queste immagini – dette “di prima luce” – dimostrano le eccezionali capacità dei due strumenti scientifici a bordo della sonda: il Wide-field X-ray Telescope (Wxt), una sorta di “grandangolo” in grado di cogliere in un solo puntamento quasi un undicesimo dell’intera sfera celeste, e il più sensibile Follow-up X-ray Telescope (Fxt), il “teleobiettivo” della coppia, dedicato all’osservazione in dettaglio degli eventi di breve durata catturati dal Wxt.
«Sono felice di vedere queste prime osservazioni di Einstein Probe, che dimostrano la capacità della missione di studiare ampie zone del cielo a raggi X e di scoprire rapidamente nuove sorgenti celesti», dice Carole Mundell, direttrice scientifica dell’Esa. «Questi primi dati ci mostrano uno scorcio affascinante dell’universo dinamico ad alta energia che presto sarà alla portata delle nostre comunità scientifiche. Congratulazioni ai team scientifici e ingegneristici della Cas, dell’Mpe, del Cnes e dell’Esa per il duro lavoro svolto per raggiungere questo importante traguardo».
La capacità della missione di individuare prontamente nuove sorgenti di raggi X e di monitorare il loro cambiamento nel tempo è fondamentale per migliorare la nostra comprensione dei processi più energetici del cosmo. I raggi X, infatti, vengono prodotti e attraversano l’universo a seguito dello scontro fra stelle di neutroni, quando le supernove esplodono e quando la materia viene inghiottita dai buchi neri o espulsa dai campi magnetici che li avvolgono.
Occhi d’aragosta per tenere sotto controllo l’universo
Lo strumento Wxt di Einstein Probe è composto da dodici moduli basati sulle cosiddette ottiche lobster-eye (a “occhi di aragosta”), testata in volo nel 2022 dal dimostratore tecnologico Leia (Lobster Eye Imager for Astronomy). I dodici moduli forniscono un campo visivo di oltre 3600 gradi quadrati, consentendo a Einstein Probe di monitorare l’intero cielo in sole tre orbite. La modalità di funzionamento delle ottiche a occhi di aragosta fa sì che i rilevamenti di oggetti altamente energetici assumano il caratteristico aspetto di un segno ‘più’ luminoso (vedi immagine qui sotto).
Immagine della Via Lattea in raggi X acquisita dallo strumento Wide-field X-ray Telescope (Wxt) di Einstein Probe durante la campagna di calibrazione. Spiccano una ventina di croci violacee: sono i caratteristici segni a forma di ‘più’ e hanno al centro un punto brillante. Crediti: Epsc, Nao/Cas; Dss; Eso
Wxt ha intrapreso la sua missione di sorveglianza del cielo a raggi X già durante i primi mesi di permanenza nello spazio. La prima sorgente X transiente, vale a dire un oggetto astronomico che non brilla continuamente ma che appare e scompare, è stata rilevata da Einstein Probe il 19 febbraio: si trattava di un candidato gamma-ray burst (Grb) durato 100 secondi. Successivamente, Einstein Probe ha scoperto altre 14 sorgenti temporanee di raggi X e ha rilevato i raggi X dovuti ai brillamenti di 127 stelle.
Nel corso della missione, le rilevazioni dello strumento ad ampio campo saranno utilizzate per allertare numerosi telescopi a terra e nello spazio al fine di eseguire osservazioni di follow-up in diverse bande dello spettro elettromagnetico. Relativamente alla banda X, le osservazioni di follow-up possono essere fatte anche direttamente dallo strumento Fxt a bordo del satellite.
Il resto di supernova Puppis A immortalato da Einstein Proble. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Osservazioni rapide di follow-up
Lo strumento Fxt di Einstein Probe dispone di due telescopi a raggi X per studi dettagliati di oggetti ed eventi che emettono in questa banda dello spettro. Negli ultimi mesi, Fxt ha dimostrato di essere uno strumento affidabile per osservare vari tipi di sorgenti di raggi X. Le prime immagini che ha acquisito sono quelle di un resto di supernova, di una galassia ellittica, di un ammasso globulare e di una nebulosa.
Fxt è inoltre già riuscito, con un certo stupore da parte dei responsabili della missione, a compiere un’osservazione di follow-up di un evento a raggi X rilevato da Wxt il 20 marzo 2024. «È sorprendente che, pur con gli strumenti non ancora del tutto calibrati, siamo già riusciti a eseguire, utilizzando lo strumento Fxt, un’osservazione di follow-up – critica dal punto di vista temporale – di un transiente veloce ai raggi X individuato per la prima volta da Wxt», dice Erik Kuulkers, project scientist Esa di Einstein Probe. «È una dimostrazione di ciò che Einstein Probe sarà in grado di fare durante la sua survey».
Avvio della campagna scientifica
Nei prossimi mesi, la Einstein Probe continuerà a svolgere le attività di calibrazione in orbita, per poi dare inizio, verso la metà di giugno, alle osservazioni scientifiche di routine. Durante i tre anni di durata prevista della missione, il satellite orbiterà intorno alla Terra a 600 km di altezza mantenendo gli occhi ben puntati sul cielo alla ricerca di eventi transienti a raggi X. E grazie al telescopio di follow-up Fxt studierà in dettaglio sia gli eventi di nuova rilevazione sia altri oggetti interessanti già noti.
«Einstein Probe è la missione giusta al momento giusto. Con i grandi satelliti per raggi X Chandra e Xmm con ciascuno più di vent’anni sulle spalle, eRosita in standby per la guerra in Ucraina e NewAthena previsto nel 2037, a breve e medio termine tocca proprio a Einstein Probe permetterci di catturare e studiare i transienti nel cielo X», concludono Luigi Piro e Giancarlo Ghirlanda dell’Istituto nazionale di astrofisica, entrambi fra gli scienziati selezionati dall’Esa per la partecipazione a Einstein Probe. «La sua strumentazione permette infatti di rivelare, localizzare e poi seguire l’emissione X di transienti, fra cui le controparti di onde gravitazionali e i gamma ray burst nell’universo primordiale».
Fonte: press release Esa
Guarda su MediaInaf Tv un servizio video di gennaio 2024 su Einstein Probe:
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Sotto il cielo dell’eclissi
L’ultimo “spettacolo celeste” che ha ricevuto una forte attenzione mediatica è stata sicuramente l’eclissi totale di Sole dell’8 aprile 2024, osservabile da Messico, Stati Uniti e Canada. Come inviato di Media Inaf, ho seguito l’eclissi da Burleson, in Texas: una cittadina di circa 50mila abitanti posta nei sobborghi della città di Fort Worth (vicinissima alla più nota Dallas), posta in favorevole posizione all’interno della striscia di visibilità totale dell’evento e con una probabilità di cielo sereno del 50 per cento. Gli obiettivi della missione erano ovviamente la documentazione dell’intero evento celeste, con l’osservazione del disco solare, della cromosfera, delle protuberanze e della corona e l’osservazione dell’eventuale fenomeno di natura atmosferica delle ombre volanti, che a volte si manifesta durante le eclissi. L’occasione è stata anche propizia per un ulteriore (e inusuale) esperimento per immortalare l’intero gruppo di pianeti del Sistema solare su una stessa immagine panoramica deep sky nel corso dell’eclissi, senza dimenticare la cometa 12P/Pons-Brooks, che sarebbe passata al perielio solo qualche giorno dopo, il 21 aprile.
Un primo piano del disco nero della Luna che copre il Sole mostrando solo la cromosfera solare e le protuberanze al bordo pochi secondi dopo il secondo contatto con l’effetto “anello di diamante”. Crediti: A. Carbognani/Inaf
Le osservazioni del disco solare sono state condotte con una fotocamera con filtro Uv-Ir cut, modificato in modo tale da trasmettere anche la luce in emissione della righa H-alfa dell’idrogeno, nella banda rossa dello spettro, dotata di un teleobiettivo da 300 mm F/11. Per evitare di avere immagini mosse durante le riprese a lunga posa della corona, la fotocamera è stata montata su un astroinseguitore per compensare la rotazione terrestre.
La foto panoramica del Sistema solare è stata invece l’occasione ghiotta per mettere alla prova le camere del nuovo progetto Astra, sviluppato presso l’Inaf Oas Bologna nell’ambito dell’accordo attuativo Inaf-Asi per la sorveglianza spaziale e tracking (Sst) dei satelliti artificiali e dei detriti spaziali.
«Con molto piacere abbiamo preso l’occasione per questo esperimento così particolare e, per certi aspetti, unico», spiega Alberto Buzzoni dell’Inaf di Bologna, coordinatore del progetto, «equipaggiando la spedizione americana di Media Inaf con una delle cinque camere grandangolari, in uso alle stazioni Astra del network nazionale. Si tratta di obiettivi grandangolari Zeiss-Voigtlander Nokton di 21 mm F/1,4, di alte prestazioni, accoppiati a camere full format Sony α A7 III, in grado di fornire immagini di 24 megapixel su campi celesti molto estesi, fino a 80 x 60 gradi. In ambito Sst, questo ci permette, ad esempio, di rilevare oggetti inferiori al mezzo metro in orbita terrestre bassa o di pattugliare la fascia orbitale geostazionaria, a 35mila km dalla Terra, fino alla magnitudine 13».
Veduta panoramica del cielo durante la fase di totalità dell’eclissi ottenuta con la camera del progetto Astra (cliccare per ingrandire). L’immagine sottende un campo di vista di 80 x 60 gradi ed è la somma di 50 frames, ciascuno con esposizione di 0,8 s e sensibilità di 200 Iso. Per rendere più evidenti le stelle alla vista, all’immagine finale è stato applicato un filtro unsharp mask. Il globo biancastro al centro è la corona solare da cui si dipartono i pennacchi coronali. Sono visibili i pianeti Urano, Giove, Mercurio, Venere e la cometa 12P/Pons-Brooks. In prossimità di Venere e a destra nell’immagine sono visibili dei veli di nubi biancastri. Crediti A: Carbognani/Astra/Inaf
L’alba dell’8 aprile a Burleson è stata spettacolare: in cielo erano presenti dei veli, ma tutto sommato era abbastanza sereno e senza vento, condizioni favorevoli all’osservazione. Il momento di grazia è durato poco: subito dopo il cielo ha iniziato ad annuvolarsi con nubi provenienti da sud-ovest ed è rimasto tale fino a circa un’ora dal primo contatto. Nonostante il cielo nuvoloso è stato allestito il campo di osservazione, con i due setup di ripresa posti uno di fianco all’altro. Per fortuna le nubi hanno iniziato a diradarsi rapidamente e l’eclissi totale di Sole è stata uno spettacolo indescrivibile a parole: durante la totalità erano ben visibili in cielo Venere (circa 15° in basso a destra rispetto al Sole) e Giove (in alto a sinistra a circa 30° di distanza), ma il cielo è rimasto sempre chiaro, come 25-30 minuti dopo il tramonto. Non era visibile a occhio nudo Mercurio perché di magnitudine +4 a circa 6° di distanza dal Sole. Spettacolare la corona solare, visibile a occhio nudo come un anello molto luminoso attorno al disco nero della Luna.
Visibili anche diverse protuberanze al bordo solare, di un bel colore rosso vivo tipico della riga H-alfa dell’idrogeno a 656,3 nm di lunghezza d’onda. Non sono state viste le classiche “ombre volanti” (shadow bands), ma le “falci volanti” sì: da alcuni minuti prima del secondo contatto a diversi minuti dopo il terzo contatto, sul lenzuolo bianco steso al suolo che doveva funzionare come “detector” delle ombre volanti, si muovevano rapidamente delle piccole falci d’ombra che si dissolvevano e riformavano in continuazione. Di questo fenomeno è stato ripreso un video (qui sotto) che lo documenta chiaramente, anche se “le falci” non sono percepibili in modo univoco nei singoli frame per via del basso contrasto.
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Mentre venivano riprese le immagini del disco solare con il teleobiettivo, con la camera grandangolare Astra è stata ripresa una sequenza di 93 immagini con tempi di posa di 0,8 s e sensibilità di 200 Iso. Il setup era stato deciso in base ai test condotti nelle settimane precedenti, con la ripresa del cielo del crepuscolo usando la stessa camera. Con il senno di poi il tempo di posa si è rivelato un po’ troppo elevato rispetto alla luminosità di fondo cielo. Comunque, mediando 50 delle migliori immagini e correggendo per la vignettatura del campo di vista, la magnitudine stellare raggiunta è stata la +7,3. Nell’immagine a grande campo sono ben visibili i pianeti Urano, Giove, Mercurio e Venere. Purtroppo Nettuno, Saturno e Marte erano dietro a un banco di nubi, anche se Nettuno sarebbe stato comunque troppo debole per essere rilevato. La chioma verde della cometa 12P/Pons-Brooks è stata rilevata facilmente, anche se la coda è al limite della detezione per via di sottili veli di nubi che erano comunque presenti in cielo. La corona solare risulta estesa per 10°-15° oltre il bordo solare e sono visibili le estreme propaggini dei pennacchi coronali. Oltre alla 12P, molto prossima al Sole c’era la cometa sungrazer Soho-5008, disintegratasi poche ore dopo l’eclissi. Purtroppo nell’immagine a grande campo è affogata all’interno della corona solare e nelle immagini riprese con il teleobiettivo è appena al di fuori del campo di vista.
Tirando le somme, si può dire che è stata un’esperienza unica, un ottimo preludio all’eclissi totale di Sole del 2 agosto 2027 – in Egitto, 60 km a sud-est di Luxor – che, con la sua durata record di ben 6 minuti e 23 secondi, permetterà di tentare osservazioni ancora più interessanti usando telescopi con un moderato campo di vista, come quella degli asteroidi vulcanoidi.
Scorciatoie spaziali con la teoria dei nodi
Per un veicolo spaziale gli spostamenti da un’orbita a un’altra sono cruciali per raggiungere la propria destinazione finale, siano essi trasferimenti tra orbite di uno stesso corpo celeste o tra orbite di corpi differenti. In questo senso, individuare percorsi che consentano di ridurre lo spreco di carburante è fondamentale. È fondamentale per massimizzare l’efficienza e ridurre i costi della missione. Ed è fondamentale anche per estenderne la durata e mitigare i rischi, contribuendo complessivamente al successo e alla sostenibilità della missione stessa. Due scienziati dell’Università del Surrey, nel Regno Unito, hanno ora sviluppato un nuovo metodo che permette facilmente di trovare traiettorie di trasferimento tra orbite all’interno di sistemi dinamici, come ad esempio il sistema Terra-Luna, senza spreco di carburante.
Una rappresentazione generata al computer di tutte le orbite compiute dalla sonda Cassini su Saturno dal primo luglio 2014, il giorno dell’inserzione nell’orbita del pianeta, fino 15 settembre 2015, il giorno del “Gran finale”. L’insieme di tutte le orbite è chiamato dai pianificatori della missione “ball of yarn”, ovvero gomitolo. Crediti: Nasa
Il problema che bisogna affrontare quando una navicella si sposta tra due orbite in un sistema dinamico è conosciuto come “problema circolare ristretto dei tre corpi“. Noto anche con l’acronimo Crtbp, da circular restricted three bodies problem, il modello descrive il moto di un corpo di massa trascurabile (la navicella spaziale) sotto l’azione gravitazionale simultanea di due corpi di massa maggiore (la Terra e la Luna nel sistema Terra-Luna). In un sistema così composto, ci sono punti di equilibrio del moto, detti punti di Lagrange, intorno ai quali esistono diverse famiglie di orbite, a ciascuna delle quali sono associate una sorta di “autostrade” che permettono il trasferimento del veicolo spaziale da un’orbita ad un’altra. Ma quali di queste orbite sono le più vantaggiose in termini di risparmio di propellente?
I metodi oggi utilizzati per individuare queste traiettorie – le cosiddette orbite eterocline – prevedono, oltre all’uso delle leggi della meccanica celeste, l’applicazione di algoritmi di machine learning, l’analisi delle perturbazioni orbitali, simulazioni e complessi calcoli computazionali. Il nuovo metodo, descritto in dettaglio in uno studio pubblicato questo mese sulla rivista Astrodynamics, utilizza anch’esso la matematica per rivelare i percorsi migliori per spostarsi da un’orbita all’altra, ma senza fare ricorso a reti neurali artificiali e dunque senza la necessità di utilizzare calcolo ad alte prestazioni. Sviluppata presso il Surrey Space Center (Regno Unito), la nuova tecnica sfrutta la teoria dei nodi, grazie alla quale è possibile rilevare rapidamente traiettorie approssimative, che possono poi essere perfezionate.
Come anticipato, gli autori dello studio sono due: lo studente di dottorato all’Università del Surrey Danny Owen e lo scienziato italiano Nicola Baresi. Laureato in Fisica presso l’Università degli studi di Padova, dopo una parentesi in Israele, dove ha lavorato come ricercatore post-laurea per l’Istituto israeliano di tecnologia, nel 2013 Baresi si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha continuato gli studi prima con una borsa di studio Fulbright Usa-Italia e successivamente con un dottorato di ricerca sul volo in formazione di veicoli spaziali e sulla teoria dei sistemi dinamici. Ha lavorato per la Jaxa, collaborando a missioni di piccola e larga scala sulla Luna e su Marte, e oggi è docente di meccanica celeste al Surrey Space Center. Lo abbiamo intervistato.
Nel vostro articolo si parla di progettazione di missioni spaziali e in particolare di ricerca delle cosiddette connessioni eterocline. Che cosa sono, esattamente? E perché è utile mapparle?
«Le connessioni eterocline sono delle traiettorie molto particolari nello spazio delle fasi che collegano due orbite differenti. Le traiettorie devono possedere un livello energetico simile e devono essere instabili. Ciò avviene per molte famiglie di orbite periodiche in modelli dinamici caotici che vengono utilizzati per il disegno di traiettorie di satelliti soggetti all’attrazione gravitazionale esercitata da due corpi celesti. Si pensi per esempio al caso di un satellite spaziale in viaggio verso la Luna, oppure di un telescopio spaziale come Jwst, la cui orbita è stata appositamente selezionata cercando di sfruttare al meglio l’attrazione gravitazionale simultanea della Terra e del Sole per minimizzare il consumo di propellente. Il vantaggio di mappare le connessioni eterocline tra due traiettorie instabili consente di ampliare le opzioni per il disegno di missioni spaziali, oppure di manovrare satelliti da un orbita instabile ad un’altra senza il consumo di carburante. Il paragone che faccio spesso ai miei studenti è quello di un’imbarcazione che si lascia trasportare dalle correnti oceaniche per spostarsi da un continente all’altro senza dover ricorrere all’uso dei motori».
Nicola Baresi, docente di meccanica orbitale all’Università del Surrey e co-autore dello studio pubblicato su Astrodynamics
Per trovare queste “autostrade” spaziali, come modello dinamico per lo studio del moto dei veicoli utilizzate il “problema circolare ristretto dei tre corpi”. Ci spieghi meglio.
«Il problema dei tre corpi viene ampiamente utilizzato per il disegno di traiettorie di satelliti soggetti all’attrazione gravitazionale esercitata da due corpi celesti. Il problema è da sempre un cruccio della comunità scientifica sin dai tempi di Newton e dalle origini della teoria gravitazionale. Per secoli sono stati fatti tentativi di raggiungere una soluzione analitica del problema che potesse spiegare il moto della Luna causato dalla sua interazione gravitazionale con la Terra ed il Sole. Ciò aveva delle ramificazioni molto importanti per la navigazione a mare e a terra quando ancora non si poteva beneficiare di orologi accurati o dei moderni sistemi a Gps. Verso la fine del 19esimo secolo, il re Oscar II di Svezia si spinse fino a organizzare una competizione internazionale che potesse finalmente trovare una soluzione analitica al problema. La teoria che fu accreditata della vittoria è dovuta al grande matematico Jules Henri Poincaré, il quale dimostrò che il problema dei tre corpi non può di fatto essere risolto analiticamente. Così facendo, Poincaré ebbe il merito di spostare l’attenzione della ricerca su soluzioni particolari che potessero se non altro aiutare a capire la dinamica del problema in alcune zone peculiari dello spazio delle fasi. Nacque così la teoria dei sistemi dinamici che a oggi viene impiegata per trovare i cosiddetti punti lagrangiani e le famiglie di orbite periodiche utilizzate per le missioni spaziali interplanetarie e non. Secondo i progetti recenti della Nasa, il futuro dell’esplorazione umana dello spazio passerà da una nuova stazione spaziale che verrà inserita in una traiettoria quasi-periodica nei pressi della superficie lunare. L’“orbita” in questione non rispetta le leggi di Keplero proprio perché frutto dell’interazione gravitazionale del satellite, denominato Lunar Orbital Platform Gateway, sia con la Luna che con la Terra».
Qual è il nesso che lega questo modello alle connessioni eterocline?
«Seguendo la rotta tracciata da Poincaré agli inizi del secolo scorso, ricercatori da tutto il mondo hanno continuato a ricercare soluzioni particolari del problema dei tre corpi sempre più complesse e che possano aiutarci a raggiungere una comprensione superiore del problema caotico. L’avvento del computer e del calcolo scientifico ha portato enormi benefici al settore, inclusa la possibilità di calcolare non solo intere famiglie di orbite periodiche (orbite che si ripetono dopo un certo periodo), ma anche di orbite quasi-periodiche, ovvero di orbite che non si ripetono esattamente, ma che finiscono col ricoprire una superficie topologicamente equivalente a quella di una ciambella. Come per le orbite periodiche, anche le orbite quasi-periodiche possono essere instabili e avere connessioni eterocline che permettono a un satellite di passare da una traiettoria nei pressi di un punto lagrangiano a un’altra in un punto lagrangiano diverso nello spazio delle fasi. Il vantaggio è che, essendo varietà di dimensione maggiore rispetto alle orbite periodiche, le connessioni eterocline per le orbite quasi-periodiche sono molto più frequenti e quindi più opportune per il disegno di traiettorie satellitari».
Connessioni eterocline tra orbite quasi-halo nel sistema Terra-Luna (cliccare per ingrandire). Crediti: Danny Owen e Nicola Baresi, Astodynamics, 2024
Può farci un esempio?
«Immaginate di dover trovare un punto di sovrapposizione tra due rette o due piani in uno spazio tri-dimensionale. Nel primo caso, simile a quello delle orbite periodiche, la sovrapposizione tra due rette avviene solo in casi molto rari ed isolati. Nel secondo caso invece, a meno che i due piani siano perfettamente paralleli, è possibile trovare un’intera retta di punti per i quali è possibile spostarsi da un piano all’altro».
Andiamo adesso al nuovo metodo che avete sviluppato per individuare le migliori traiettorie di trasferimento tra orbite. Per rilevare questi percorsi, la tecnica che avete messo a punto sfrutta la “teoria dei nodi”. Di che teoria si tratta? E che risultati avete ottenuto?
«Assieme al mio studente di dottorato, Danny Owen, dell’Università del Surrey, abbiamo realizzato che, volendo cercare connessioni eterocline su un piano particolare dello spazio delle fasi, possiamo ricondurci a una situazione in cui le traiettorie provenienti da un’orbita quasi-periodica e quelle destinate a raggiungere una seconda orbita quasi-periodica ottenuta attorno a un punto lagrangiano differente possono essere raffigurate come due superfici in uno spazio quattro-dimensionale. Selezionando una delle quattro coordinate come ‘variabile di scansionamento’, possiamo visualizzare le rimanenti tre coordinate come curve chiuse in uno spazio tri-dimensionale. Qui entra in gioco la teoria dei nodi e in particolare il cosidetto linking-number, ovvero il numero di volte che una curva si intreccia attorno all’altra. Variando la variabile di scansionamento, monitoriamo come il linking-number delle possibili connessioni eterocline varia lungo tutto il dominio delle possibili sovrapposizioni. Due curve disgiunte hanno un linking-number uguale a zero, mentre due anelli di una catena hanno un linking-number uguale a +1 oppure a -1, a seconda di come gli anelli vengono incastrati. Il punto è che per passare da zero a +1 o -1 dev’esserci per forza un valore della variabile di scansionamento nel quale le due curve si sovrappongono. Tali punti sono per forza di cose connessioni eterocline, che permettono ad un satellite di viaggiare dall’orbita quasi-periodica di partenza all’orbita quasi-periodica di arrivo senza dover ricorrere a manovre che richiedono l’uso di propellente. Così facendo abbiamo identificato un metodo che permette di mappare tutte le possibili connessioni eterocline date due traiettorie quasi-periodiche instabili e allo stesso livello energetico».
Su quali sistemi avete testato la tecnica?
«Il vantaggio del problema ristretto dei tre corpi è che può essere applicato più o meno a tutti i sistemi del Sistema solare. Basta prendere il Sole e un pianeta, oppure un pianeta e una delle sue lune, come nel caso delle lune Galileiane di Giove. Al momento abbiamo applicato il nostro approccio con successo per calcolare connessioni eterocline tra orbite quasi-periodiche sia nel sistema Terra-Luna che in quello Sole-Terra, lo stesso utilizzato per il disegno dell’orbita del Jwst. Abbiamo anche provato con successo a calcolare connessioni eterocline tra orbite quasi-periodiche nei pressi di Ganimede sapendo che sarà il punto finale di una missione Europea appena lanciata e molto affascinante come Juice».
Quali sono le missioni che potranno beneficiare del vostro studio?
«Tutte le missioni spaziali che vengono concepite cercando di sfruttare la caoticità del problema dei tre corpi per ridurre il consumo di carburante possono beneficiare del nostro approccio. Penso alle missioni lunari a venire che contribuiranno alla costruzione del Lunar Orbital Platform Gateway e a quelle che verranno rilasciate dalla nuova stazione spaziale per esplorare lo spazio lunare. Penso anche a telescopi spaziali futuri che raggiungeranno Jwst e altri satelliti europei come Gaia ed Euclid in orbite quasi-periodiche attorno al secondo punto lagrangiano del sistema Sole-Terra. In realtà, il nostro metodo può essere applicato anche per le missioni già in orbita attorno a punti lagrangiani, che si accingono a raggiungere la fine delle operazioni scientifiche previste dal progetto per le quali sono state lanciate. Si tratta di satelliti ancora funzionanti, già in orbita, e con quantità di propellente limitato che possono sfruttare le connessioni eterocline per essere riposizionati in nuovi punti strategici e/o orbite quasi-periodiche contribuendo a fornire nuove prospettive e osservazioni del nostro universo».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrodynamics l’articolo “Applications of knot theory to the detection of heteroclinic connections between quasi-periodic orbits” di Danny Owen e Nicola Baresi
Così giovani e già così barrate
Non è la prima volta che l’occhio del James Webb Space Telescope (Jwst) supera le aspettative teoriche, presentandoci un universo più precoce di quanto ci si attendeva. È quello che è successo – di nuovo – studiando la formazione delle barre nelle galassie e andando a osservare come apparivano tra gli otto e gli undici miliardi di anni fa – dunque quando l’universo, che oggi ha 13,7 miliardi di anni, era ancora molto giovane.
Un’immagine in scala di grigi della galassia Egs 31125 a 10,6 miliardi di anni fa, classificata visivamente come “fortemente barrata” (la barra è evidenzaiata nell’immagine centrale dall’ellisse viola, mentre le due linee viola continue indicano i bracci a spirale). Da sinistra a destra: un’immagine di Hubble e due della NirCam di Jwst, con il filtro F356W (al centro) e con quello F444W (a destra). Il confronto fra i diversi filtri mostra gli effetti della funzione di diffusione del punto (Psf), della sensibilità e della gamma di lunghezze d’onda sull’immagine della galassia, in particolare nel contesto delle barre. Crediti: Zoe Le Conte
Ebbene, sembrerebbe che le prime galassie fossero meno caotiche e si sviluppassero molto più velocemente del previsto. A sostenerlo, un nuovo risultato ottenuto da un team guidato da Zoe Le Conte della Durham University, nel Regno Unito, e pubblicato questa settimana su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Utilizzando Jwst i ricercatori sono infatti riusciti osservare la presenza di numerose galassie barrate – vale a dire, galassie il cui nucleo è attraversato da una barra di stelle, come per esempio nella Via Lattea – quando l’universo aveva solo pochi miliardi di anni. Man mano che le barre si sviluppano, regolano la formazione stellare all’interno di una galassia, spingendo il gas verso il centro galattico. La loro presenza – del tutto inattesa – indica che le galassie avevano raggiunto una fase stabile e matura già tra gli 8 e gli 11,5 miliardi di anni fa.
«Questa è una vera sorpresa, perché ci si aspetterebbe che l’universo in quella fase fosse molto turbolento, con molte collisioni tra galassie e molto gas che non si è ancora trasformato in stelle», spiega Le Conte. «Tuttavia, grazie al telescopio spaziale James Webb, stiamo osservando molte di queste barre apparire ben prima nella vita dell’universo, il che significa che le galassie si trovavano in uno stadio della loro evoluzione più stabile di quanto si pensasse in precedenza e che dovremo modificare le nostre teorie sull’evoluzione delle prime galassie».
Precedenti studi condotti utilizzando il telescopio spaziale Hubble erano stati in grado di rilevare galassie con le loro barre in formazione risalenti fino a otto o nove miliardi di anni fa. Tuttavia, la maggiore sensibilità e la gamma di lunghezze d’onda offerte da Jwst hanno permesso ai ricercatori di vedere il fenomeno accadere ancora più indietro nel tempo. Delle 368 galassie a disco osservate, i ricercatori hanno visto che quasi il venti per cento mostrava delle barre: il doppio di quanto visto con Hubble. «Ciò implica che l’evoluzione delle galassie guidata dalle barre sta accadendo da molto più tempo di quanto si pensasse», dice Dimitri Gadotti, della Durham University, coautore dello studio. «Le simulazioni dell’universo ora devono essere esaminate per vedere se producono gli stessi risultati ottenuti dalle osservazioni fatte con James Webb».
Il prossimo passo sarà quello di indagare ancora più galassie per verificare se già mostravano barre in epopca primordiale. La speranza è di riuscire a spingersi fino a circa 12,2 miliardi di anni fa, per osservare la crescita delle barre nel tempo e comprendere i meccanismi fisici che si celano dietro il loro sviluppo. Più si guarda indietro nel tempo, notano infatti gli autori dello studio, e meno galassie s’incontrano che formano barre. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che le galassie a uno stadio ancora più precoce dell’universo potrebbero non essere così ben formate, ma attualmente non c’è modo – nemeno per Jwst – di osservare barre di stelle più corte, e dunque meno facili da individuare.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A JWST investigation into the bar fraction at redshifts 1 ≤ z ≤ 3” di Zoe A. Le Conte, Dimitri A. Gadotti, Leonardo Ferreira, Christopher J. Conselice, Camila de Sá-Freitas, Taehyun Kim, Justus Neumann, Francesca Fragkoudi, E. Athanassoula e Nathan J Adams
Una magnetar accende la galassia Sigaro
La sezione di cielo osservata dal rilevatore di raggi gamma sul satellite Integral dell’Esa. Uno dei due riquadri mostra i dati a raggi X della galassia M82 e l’altro mostra un’osservazione in luce visibile. Il cerchio blu sulle due immagini ritagliate indica la posizione corrispondente al brillamento gigante. Crediti: Esa/Integral, Esa/Xmm-Newton, Inaf/Tng, M. Rigoselli (Inaf)
Utilizzando i dati del satellite dell’Agenzia spaziale europea (Esa) Integral, costruito con il contributo dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), responsabile del telescopio principale Ibis, il 15 novembre 2023 un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha individuato l’improvvisa esplosione di un oggetto raro: per solo un decimo di secondo, un rapido lampo di raggi gamma è apparso dalla direzione di una luminosa galassia vicino alla nostra. Di cosa si tratta? Il team ha scoperto la presenza di un brillamento gigante (giant flare, in inglese) generato da una magnetar nella galassia Sigaro (conosciuta anche con le sigle M82 o Ngc 3034), uno degli oggetti celesti più affascinanti che costellano il cielo. L’articolo relativo alla scoperta è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature.
Particolare classe di stelle di neutroni (resti stellari super-densi delle esplosioni di supernove), le magnetar sono i magneti più potenti dell’universo, noti per emettere brevi esplosioni di raggi gamma che in genere durano meno di un secondo ma sono miliardi di volte più luminose del Sole. Le magnetar possono produrre brillamenti giganti, cioè brevi esplosioni durante le quali possono emettere in meno di un secondo l’energia che il Sole irradia in un milione di anni, ma individuarle è davvero arduo.
La scoperta è stata ottenuta grazie all’Integral Burst Alert System (Ibas), che permette la localizzazione in tempo reale di lampi di raggi gamma e altri fenomeni transienti nei raggi gamma. Nello specifico, Integral ha rilevato un lampo di raggi gamma solo per un decimo di secondo. Il software di Ibas, che esamina i dati ricevuti al data center scientifico Integral di Ginevra, ha determinato la localizzazione precisa di questo evento e l’ha distribuita agli astronomi di tutto il mondo solo tredici secondi dopo che Integral lo aveva rivelato.
«Quando il software automatico Ibas ci ha allertati per questo evento, ci siamo subito resi conto che si trattava di qualcosa di speciale. Si sospetta da tempo che alcuni dei lampi di raggi gamma di breve durata (Grb, lampi luminosi di raggi gamma osservati al ritmo di uno al giorno da direzioni imprevedibili del cielo) potrebbero essere giant flare provenienti da magnetar nelle galassie vicine, ma ciò non era stato ancora dimostrato in maniera inequivocabile», spiega Sandro Mereghetti, primo autore dell’articolo e ricercatore all’Inaf di Milano. «I brillamenti giganti sono la manifestazione più estrema delle magnetar, in termini di energia emessa e rapidità, ma non si conosce ancora bene cosa li produca». Quello scoperto dal team guidato da Inaf (Grb 231115A) è il primo giant flare generato da una magnetar in una galassia che non appartiene al Gruppo Locale.
«Sono eventi estremamente rari, tanto che ne sono stati osservati solo tre in 50 anni: due nella nostra galassia e uno nella Grande Nube di Magellano. Poterli rivelare anche in galassie più lontane, come nel presente caso, permette di studiarne un maggior numero e in condizioni più favorevoli», sottolinea Mereghetti. «I casi precedenti di “candidati” giant flare al di fuori del Gruppo Locale non erano stati individuati in tempo reale e le incertezze sulla loro posizione rende incerte anche le associazioni con galassie vicine».
«Integral è un telescopio spaziale longevo e a 22 anni dal lancio continua a fornire contributi sorprendenti», ricorda Elisabetta Cavazzuti, responsabile Asi del programma Integral. «Il team scientifico ha migliorato sempre più l’utilizzo di tutti gli apparati del satellite, sviluppando un software che sfrutta ogni singola informazione trasmessa dal telescopio anche in maniera completamente nuova. Questo modo di osservare e sfruttare gli strumenti in ottica sempre innovativa consente di raggiungere risultati importanti confermando che l’universo è fonte inesauribile di scoperte».
La rilevazione del fenomeno con Integral ha avviato poi una serie di osservazioni rapide ad altre lunghezze d’onda (ottiche, X, radio) che hanno permesso di stabilirne la natura. Nell’articolo i ricercatori presentano, infatti, anche dati richiesti al satellite Xmm-Newton e dati ottici provenienti da telescopi italiani dell’Inaf (il Tng alle Canarie, lo Schmidt di Asiago e lo Schmidt di Campo Imperatore) e francesi (come il French Observatoire de Haute-Provence): se si fosse trattato di un lampo di raggi gamma causato dalla collisione di due stelle di neutroni, lo scontro avrebbe creato onde gravitazionali e avrebbe avuto un intenso bagliore residuo nei raggi X e nella luce visibile. Le osservazioni di Xmm-Newton hanno mostrato solo il gas caldo e le stelle nella galassia.
L’articolo pubblicato su Nature conferma quindi un’ipotesi che si sospettava da diversi anni. «Inoltre non è casuale che questo brillamento gigante provenga proprio da una delle galassie che sta formando nuove stelle di alta massa a un ritmo elevato. In queste regioni ci si aspetta, infatti, di trovare il maggior numero di stelle di neutroni e quindi di magnetar», aggiunge Ruben Salvaterra, ricercatore Inaf di Milano e coautore dell’articolo.
Osservabile anche con piccoli telescopi, M82 è una galassia starburst (in cui appunto il processo di formazione stellare è eccezionalmente elevato) a spirale barrata che si trova a circa 12 milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. L’interazione gravitazionale con altre galassie vicine, in particolare M81, ha accelerato drasticamente il suo tasso di formazione stellare che è almeno dieci volte maggiore di quello della Via Lattea.
«Dopo questa scoperta, la galassia M82 diventa un “sorvegliato speciale” da cui aspettarci altri eventi simili nei prossimi anni», conclude Mereghetti.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A magnetar giant flare in the nearby starburst galaxy M82”, di Sandro Mereghetti, Michela Rigoselli, Ruben Salvaterra, Dominik P. Pacholski, James C. Rodi, Diego Gotz, Edoardo Arrigoni, Paolo D’Avanzo, Christophe Adami, Angela Bazzano, Enrico Bozzo, Riccardo Brivio, Sergio Campana, Enrico Cappellaro, Jerome Chenevez, Fiore De Luise, Lorenzo Ducci, Paolo Esposito, Carlo Ferrigno, Matteo Ferro, Gian Luca Israel, Emeric Le Floc’h, Antonio Martin-Carrillo, Francesca Onori, Nanda Rea, Andrea Reguitti, Volodymyr Savchenko, Damya Souami, Leonardo Tartaglia, William Thuillot, Andrea Tiengo, Lina Tomasella, Martin Topinka, Damien Turpin e Pietro Ubertini
Vicino a Sagittarius A* con l’intelligenza artificiale
Illustrazione artistica del disco di accrescimento attorno a un buco nero supermassiccio. Sono mostrati due hot spots, le bolle di plasma incandescente che secondo Yuhei Iwata et al. potrebbero produrre l’emissione quasi-periodica millimetrica rilevata da Alma. Crediti: Keio University
L’ambiente circostante l’orizzonte degli eventi di un buco nero è noto essere piuttosto tumultuoso, con gas caldo magnetizzato che spiraleggia su un disco a velocità e temperature tremende. Le osservazioni astronomiche mostrano che all’interno di questo disco si verificano misteriosi brillamenti fino a diverse volte al giorno, che si accendono temporaneamente e poi svaniscono. Ora, un team guidato da scienziati del Caltech ha utilizzato i dati raccolti dall’Atacama Large Millimeter/ submillimeter Array (Alma) – in un periodo di 100 minuti, subito dopo un’eruzione osservata in banda X l’11 aprile 2017 – e una tecnica di intelligenza artificiale, per ottenere la prima ricostruzione 3D che mostra l’aspetto di questi brillamenti intorno a Sagittarius A* (Sgr A*), il buco nero supermassiccio nel cuore della nostra galassia. La struttura tridimensionale del brillamento riprodotta nel video pubblicato, presenta due caratteristiche luminose e compatte, a circa 75 milioni di chilometri (ovvero la metà della distanza tra la Terra e il Sole) dal centro del buco nero.
Aviad Levis, primo autore dello studio uscito ieri su Nature Astronomy, sottolinea che il video non è una simulazione, ma nemmeno una registrazione diretta degli eventi così come si sono svolti. «È una ricostruzione basata sui nostri modelli fisici dei buchi neri. C’è ancora molta incertezza perché si basa sull’accuratezza di questi modelli», afferma.
Per ricostruire l’immagine 3D, il team ha sviluppato nuovi strumenti di imaging computazionale che tengono conto della traiettoria della luce in presenza della curvatura dello spaziotempo intorno a oggetti caratterizzati da un’enorme gravità.
Il buco nero supermassiccio al centro di Messier 87. Crediti: The Event Horizon Telescope
Quando venne pubblicata la prima immagine del buco nero supermassiccio al centro della galassia M87, Pratul Srinivasan di GoogleResearch, coautore del nuovo studio, era in visita al team del Caltech. Aveva contribuito a sviluppare una tecnica nota come Neural Radiance Fields (Nerf), che all’epoca iniziava a essere utilizzata dai ricercatori e che da allora ha avuto un enorme impatto sulla computer grafica. Nerf utilizza l’apprendimento profondo per creare una rappresentazione 3D di una scena basata su immagini 2D, fornendo così un modo per osservare la scena da diverse angolazioni, anche quando sono disponibili solo viste limitate della scena stessa. Il team all’epoca si chiese se, basandosi su questi recenti sviluppi nelle rappresentazioni delle reti neurali, fosse possibile ricostruire l’ambiente 3D intorno a un buco nero.
Il punto è che dalla Terra, o anche da un satellite nello spazio, abbiamo solo un unico punto di vista del buco nero. Secondo gli scienziati, questo problema può essere risolvibile perché il gas si comporta in modo piuttosto prevedibile quando si muove intorno al buco nero. Scattando istantanee temporizzate dell’oggetto e sfruttando la conoscenza del modo in cui il gas si muove a diverse distanze da un buco nero, è possibile risolvere la ricostruzione dei brillamenti in 3D con misurazioni effettuate dalla Terra nel tempo.
Così, i ricercatori hanno implementato una versione di Nerf che tiene conto del modo in cui il gas si muove intorno al buco nero. Sotto la guida di Andrew Chael dell’Università di Princeton, hanno sviluppato un modello di calcolo per simulare il lensing gravitazionale. La nuova versione di Nerf è stata così in grado di recuperare la struttura degli elementi luminosi orbitanti attorno all’orizzonte degli eventi di un buco nero.
Chi ha l’orizzonte libero potrà ammirare a Sud la costellazione del Sagittario, dove si trova il centro della nostra galassia. Crediti: Eso/José Francisco Salgado (josefrancisco.org), Eht Collaboration
Ma il team aveva bisogno di dati reali per testare il nuovo metodo di ricostruzione ed è qui che è entrato in gioco Alma. L’immagine di Eht di Sgr A* si basava sui dati raccolti il 6 e 7 aprile 2017, giorni relativamente tranquilli nell’ambiente circostante il buco nero. Tuttavia, pochi giorni dopo, l’11 aprile, gli astronomi hanno rilevato una luminosità esplosiva e improvvisa nell’ambiente circostante. Quando Maciek Wielgus, del Max Planck Institute for Radio Astronomy in Germania, ha riesaminato i dati Alma di quel giorno, ha notato un segnale con un periodo corrispondente al tempo necessario a un punto luminoso all’interno del disco per completare un’orbita intorno a Sgr A*.
Sebbene Alma sia uno dei radiotelescopi più potenti al mondo, a causa della grande distanza dal centro galattico (più di 26mila anni luce), non ha la risoluzione necessaria per vedere i dintorni di Sgr A*. Ciò che Alma misura sono le curve di luce, ossia l’intensità di un singolo pixel tremolante rilevata in vari istanti. Recuperare un volume 3D da un singolo pixel potrebbe sembrare impossibile ma sfruttando ciò che si conosce della fisica dei dischi di accrescimento, il team è riuscito ad aggirare la mancanza di informazioni spaziali nei dati di Alma.
C’è di più. Alma non si limita a catturare una singola curva di luce bensì ne registra due, a due diversi stati di polarizzazione della luce. Come la lunghezza d’onda e l’intensità, la polarizzazione è una proprietà fondamentale della luce e rappresenta la direzione in cui la componente elettrica di un’onda luminosa è orientata rispetto alla direzione di propagazione dell’onda.
Recenti studi teorici suggeriscono che le zone calde che si formano all’interno del gas sono fortemente polarizzate, il che significa che il campo elettrico delle onde luminose provenienti da queste zone ha una direzione privilegiata, al contrario con il resto del gas, in cui la direzione del campo elettrico è casuale. Raccogliendo le misure delle diverse polarizzazioni, i dati di Alma hanno fornito agli scienziati informazioni utili per localizzare la provenienza dell’emissione nello spazio 3D.
Basandosi sui dati di Alma, un team guidato dal Caltech ha utilizzato reti neurali per ricostruire un’immagine 3D che mostra come potrebbero apparire i brillamenti nel disco di gas attorno a Sagittarius A*. La struttura tridimensionale dei brillamenti presenta due elementi luminosi e compatti situati a circa 75 milioni di chilometri dal centro del buco nero. Qui, la struttura 3D ricostruita è vista da un angolo fisso mentre il modello si evolve nell’arco di circa 100 minuti, mostrando il percorso che le due caratteristiche luminose tracciano intorno al buco nero. Crediti: A. Levis/A. Chael/K. Bouman/M. Wielgus/P. Srinivasan
Per individuare una probabile struttura tridimensionale che spiegasse le osservazioni, il team ha sviluppato una versione aggiornata del suo metodo che non solo incorpora la fisica della curvatura della luce e la dinamica attorno a un buco nero, ma anche l’emissione polarizzata prevista nei punti caldi in orbita attorno al buco nero. In questa tecnica, ogni struttura del bagliore viene rappresentata come un volume continuo utilizzando una rete neurale. Ciò consente ai ricercatori di far evolvere dal punto di vista computazionale la struttura 3D iniziale di un hotspot nel tempo, mentre orbita attorno al buco nero, per creare un’intera curva di luce. Hanno quindi potuto risolvere la migliore struttura 3D iniziale che, progredendo nel tempo secondo la fisica del buco nero, corrispondeva alle osservazioni di Alma. Il risultato è un video che mostra il movimento in senso orario di due regioni luminose compatte che tracciano un percorso attorno al buco nero, molto simili a quelle previste dalle simulazioni al computer dei buchi neri.
Questo risultato è stato possibile grazie alla sinergia tra informatici e astrofisici. «Insieme, abbiamo sviluppato qualcosa che è all’avanguardia in entrambi i campi: sia lo sviluppo di codici numerici che modellano il modo in cui la luce si propaga attorno ai buchi neri, sia il lavoro di imaging computazionale che abbiamo svolto», conclude Levis. «Si tratta di un’applicazione molto interessante di come l’intelligenza artificiale e la fisica possano unirsi per rivelare qualcosa che altrimenti non si vedrebbe. Speriamo che gli astronomi possano utilizzarla su altre serie temporali di dati per far luce sulla complessa dinamica di altri eventi simili e trarre nuove conclusioni».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Orbital Polarimetric Tomography of a Flare Near the Sagittarius A* Supermassive Black Hole” di Aviad Levis, Andrew A. Chael, Katherine L. Bouman, Maciek Wielgus & Pratul P. Srinivasan
Gli anelli di fumo dell’Etna affascinano la Nasa
“Luna e anelli di fumo dall’Etna” è la foto selezionata come Apod della Nasa del 22 aprile 2024. Crediti e copyright: Dario Giannobile
La notizia e le immagini degli “anelli di fumo” fuoriusciti dall’Etna hanno fatto il giro del mondo. Ma se aggiungiamo un’alba scaldata dalla luce rossa del Sole e una falce di Luna in cielo, ecco che il paesaggio diventa ancora più spettacolare tanto da finire come foto del giorno scelta dalla Nasa per la rassegna di immagini Apod – Astronomy Picture of the Day.
L’eccezionale scatto è stato eseguito all’alba del 7 aprile dall’astrofotografo siracusano Dario Giannobile, che si è recato a Gangi, in Sicilia, per catturare questo suggestivo momento. Nell’immagine scelta, sono visibili più anelli di fumo, o meglio di vapore, emessi con grande sorpresa in questi giorni dall’Etna, il più grande vulcano attivo d’Europa.
Tecnicamente noti come “anelli di vortice vulcanico” (volcanic vortex rings), i cerchi vaporosi vengono generati dalle esplosioni di bolle di gas all’interno di un condotto stretto sopra una camera magmatica. Quando il magma sale attraverso il condotto, infatti, la pressione circostante diminuisce, permettendo ai gas disciolti di emergere sotto forma di bolle. Se il magma non è troppo viscoso, le bolle possono fondersi in singolari sacche di gas pressurizzato. Quando si avvicinano allo sfiato, queste sacche di gas possono depressurizzarsi violentemente ed esplodere, spingendo il vapore caldo verso l’alto a velocità elevate, fino a 40 metri al secondo. A quel punto, le pareti del vulcano rallentano leggermente la risalita degli sbuffi di fumo verso l’esterno, facendo muovere più velocemente il gas interno e creando un cerchio di bassa pressione che fa sì che lo sbuffo di gas e cenere vulcanica emesso si avvolga in un anello, una struttura geometrica familiare che può essere sorprendentemente stabile mentre sale.
«Gli anelli non sono un segno di eruzione imminente», rassicura Boris Behncke, vulcanologo dell’Osservatorio etneo dell’Ingv, «ma solo il frutto di un condotto aperto, bello circolare e ben stretto, attraverso il quale viene sparato il gas in maniera pulsante, sotto forma di una quantità impressionante di anelli di vapore. Da quasi un mese questa attività sta andando avanti, con l’emissione di già centinaia se non migliaia di questi graziosi anelli».
Studiati dalla fine del diciannovesimo secolo – ma i primi avvistamenti sull’Etna risalgono al 1724 – gli anelli vulcanici sono piuttosto rari e richiedono una coincidenza tra la geometria del condotto, la giusta velocità del fumo espulso e la relativa calma dell’atmosfera esterna. Il fenomeno è stato documentato in diversi apparati vulcanici, tra cui il Vesuvio, lo Stromboli, i vulcani Eyjafjallajökull e Hekla in Islanda, e Momotombo in Nicaragua. «Ma nessun vulcano sulla Terra produce tanti anelli di vapore quanto l’Etna», dice Behncke.
Il Maat Mons, qui in prospettiva tridimensionale generata al computer, è il rilievo vulcanico più elevato del pianeta Venere: si eleva a quasi 5 chilometri sopra il terreno circostante. Crediti: Jet Propulsion Lab / Nasa
E il vulcano siciliano, per le sue particolari caratteristiche eruttive e geomorfologiche, è speciale e interessante per tanti altri studi scientifici. Per capire cosa sta succedendo ai vulcani di Venere, ad esempio. A questo scopo, nelle prossime settimane, un gruppo di ricerca guidato da Piero D’Incecco dell’Inaf d’Abruzzo tornerà sull’Etna con una squadra di geologi planetari, vulcanologi, planetologi ed esperti di spettrografia per raccogliere i campioni della lava fuoriuscita più recentemente dai crateri etnei.
«L’ultima missione Magellano su Venere ci ha mostrato un pianeta ricoperto da ampi bacini di lava solidificata con centinaia di vulcani. Un recente studio ha confermato che c’è attività vulcanica in corso su Venere, ma abbiamo bisogno di capire di più su che tipo di vulcanismo sia in atto e sul passato geologico del pianeta», dice D’Incecco a Media Inaf. «Per questo motivo, la comparazione spettrale tra i materiali vulcanici “giovani” provenienti dall’Etna con quelli sulla superficie di Venere ci servirà per vedere sostanzialmente come poter identificare e classificare le lave eruttate in tempi recenti dai crateri dell’Idunn Mons e di altri vulcani sul pianeta venusiano».
Dunque, i vulcani su Venere sono ancora attivi? Erutteranno con violente esplosioni o lente effusioni? Potranno anch’essi fare “giochi di fumo”? C’è ancora tanto da scoprire sui misteri del vulcanismo di Venere e il progetto Avengers (Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), guidato dall’Inaf d’Abruzzo, si occuperà proprio di selezionare e studiare una serie di vulcani attivi sulla Terra come “pianeta gemello” di Venere. «La collaborazione multidisciplinare tra astrofisici, geologi planetari e vulcanologi», conclude D’Incecco, «sta gettando nuova luce sui fenomeni venusiani. E questa sinergia tra gli esperti sarà protagonista anche della nostra prossima attività di campionamento e analisi delle eruzioni vulcaniche di lava fluida, prevista verso la fine dell’estate, sui vulcani delle Hawaii».
Servono regole sulle grandi costellazioni di satelliti
Il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni (primo a sinistra) durante il suo intervento a Torino alla Conferenza degli addetti scientifici, spaziali e agricoli delle ambasciate italiane. Crediti: Inaf
Servono regole per fare in modo che le grandi costellazioni dei satelliti per l’internet globale non disturbino le osservazioni astronomiche: lo ha detto il neopresidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, Roberto Ragazzoni, nel corso della Conferenza degli addetti scientifici, spaziali e agricoli delle ambasciate italiane organizzata dal ministero degli Esteri.
Per il presidente dell’Inaf bisogna prendere atto che la presenza in orbita delle nuove costellazioni satellitari «è ormai inarrestabile» e che «è un problema da affrontare senza gridare, ma si deve cercare di regolare il più possibile per raggiungere una soglia accettabile». Questo è importante in quanto «c’è un grande spazio per la tecnologia italiana al servizio dell’astronomia e si deve riuscire a lavorare perché l’osservazione del cielo non sia disturbata da questa nuova manifestazione della space economy».
Fra gli esempi di tecnologia italiana al servizio dell’astronomia, Ragazzoni ha citato il grande telescopio Elt dello European Southern Observatory in costruzione sulle Ande cilene: «È un esempio di collaborazione internazionale al quale l’Italia partecipa e in cui c’è tanta tecnologia nuova». Investimenti in macchine come questa sono importanti, ha osservato il presidente dell’Inaf, perché l’industria italiana sia sempre più innovativa e sono moltissime anche le possibili ricadute.
È così, che «l’Inaf ha affrontato sfide formidabili», ha concluso riferendosi a scoperte straordinarie, come quella delle onde gravitazionali.
Prima luce per Hermes
Rappresentazione artistica del cubesat Spirit. Crediti: University of Melbourne
L’Università di Melbourne (Australia), l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) annunciano il successo delle operazioni scientifiche del telescopio spaziale Hermes a bordo del satellite australiano Spirit, lanciato lo scorso 1° dicembre e operativo in un’orbita eliosincrona, a 513 km sopra la superficie terrestre, completando un’orbita ogni 96 minuti. Hermes ha raccolto i primi fotoni in modalità “osservazione” per circa dieci minuti durante lo scorso 27 marzo. Questo importante traguardo è chiamato dagli astronomi “prima luce” dello strumento.
Spirit è un satellite di 11,8 kg sviluppato da un consorzio che comprende l’Università di Melbourne, l’Asi, Inovor Technologies, Neumann Space, Sitael Australia, Nova Systems in Australia, nonché l’Inaf, la Fondazione Bruno Kessler, l’Università di Tubinga e i loro partner. L’Agenzia spaziale australiana ha sostenuto il progetto con quasi sette milioni di dollari. Il principal investigator di Spirit è Michele Trenti dell’Università di Melbourne mentre il coordinatore scientifico del progetto Hermes Pathfinder è Fabrizio Fiore dell’Inaf.
La fase di commissioning di Spirit e dei suoi payloads – ovvero la fase di calibrazione prima della piena operatività – è ben avviata, con sforzi concentrati sulla verifica di funzionalità via via più complesse. Oltre il 95 per cento dell’hardware funziona nominalmente, incluso il cuore della missione, il nuovo telescopio spaziale Hermes in grado di rivelare fotoni di energia dai raggi X ai raggi gamma. Il restante lavoro di commissioning si concentrerà sul raggiungimento di un funzionamento continuo e ottimale del satellite lungo la sua orbita, e i team stanno lavorando a stretto contatto per completare questa fase.
Le attività di commissioning sono proseguite con un’analisi delle prestazioni e la calibrazione in orbita, ed Hermes è entrato con successo nella modalità di osservazione nominale il 27 marzo 2024, grazie all’impegno dedicato di un team composto prevalentemente da ricercatori di prima e media carriera.
Lo strumento Hermes è stato progettato per scansionare il cielo alla ricerca di lampi di raggi gamma, che si creano quando le stelle muoiono o si scontrano e per un attimo emettono più energia di un’intera galassia. Queste osservazioni possono essere effettuate solo da telescopi spaziali e sono fondamentali per far progredire la nostra comprensione della fisica estrema e hanno anche il potenziale per scovare le tracce della quantum gravity.
«La prima luce osservata con uno strumento spaziale è sempre molto emozionante», commentano Yuri Evangelista e Riccardo Campana dell’Inaf, responsabili del payload Hermes, dell’integrazione e della calibrazione, «e segna il momento in cui i rivelatori catturano la loro prima visione dell’universo. Per il team dello strumento, la prima luce di Hermes rappresenta anche il culmine di anni di sforzi, con innumerevoli ore di pianificazione, progettazione, sviluppo, test e risoluzione dei problemi del nostro compatto e innovativo monitor per raggi X e gamma. Inoltre, le prime operazioni scientifiche di Hermes/Spirit ci danno fiducia per il successo dello sviluppo e del funzionamento in orbita dei prossimi sei satelliti della costellazione Hermes Pathfinder».
Lo strumento Hermes in fase di test nei laboratori dell’Inaf Iaps di Roma. Crediti: Inaf
Grazie a un design efficiente e ai progressi dei rivelatori a basso rumore e ad alte prestazioni, lo strumento Hermes pesa poco più di 1,5 kg e occupa un cubo di 10 cm di lato, ma è quasi altrettanto sensibile quanto gli strumenti all’avanguardia a bordo di satelliti centinaia di volte più grandi e massicci, come il Gamma-ray Burst Monitor di Fermi.
Spirit è il primo di una costellazione di sette nanosatelliti che ospiteranno ciascuno lo strumento Hermes. L’Asi lancerà gli altri sei satelliti della costellazione Hermes Pathfinder nei prossimi 12 mesi. Questa costellazione di telescopi spaziali sarà in grado di scansionare simultaneamente una grande area di cielo alla ricerca di lampi di raggi gamma e di localizzarli grazie all’analisi dei diversi tempi di arrivo del segnale della sorgente su almeno tre satelliti.
Poiché a Spirit è stato affidato il primo volo dello strumento, il raggiungimento delle operazioni in orbita rappresenta una pietra miliare significativa per l’intero progetto della costellazione Hermes Pathfinder. Come tipico per i progetti spaziali, il percorso verso il successo ha incluso fasi complesse e alcune sfide inaspettate da superare.
Dopo i test iniziali dell’unità di controllo dello strumento sviluppata presso l’Università di Melbourne e dell’unità di gestione dei dati dello strumento sviluppata presso l’Università di Tubinga, i rivelatori dello strumento prodotti da Fondazione Bruno Kessler sono stati accesi, ottenendo la “prima luce” per il telescopio spaziale Hermes il 16 gennaio 2024, con lo strumento che ha operato in una modalità di base simile a un contatore Geiger.
I dati scientifici vengono ricevuti e distribuiti attraverso un cosiddetto “segmento di terra” parzialmente condiviso tra le missioni Spirit e Hermes Pathfinder come parte dell’accordo internazionale che regola la cooperazione. Il processamento dei dati e la loro archiviazione vengono effettuati presso lo Space Science Data Center (Ssdc) dell’Asi. L’Ssdc ha inoltre sviluppato il software scientifico per la calibrazione e la pulizia dei dati e ospita il Science Operation Center (Soc) di Hermes.
«Siamo molto soddisfatti di aver contribuito allo sviluppo del rivelatore Hermes a bordo di Spirit e di questa nuova collaborazione con l’Australia», dice Simonetta Puccetti, project scientist di Hermes Pathfinder per l’Asi e responsabile del Soc. «Il risultato dell’analisi dei dati della prima luce è stato entusiasmante. Da un oggetto così piccolo stiamo ottenenendo dati di qualità scientifica comparabile con quella di satelliti di dimensioni considerevolmente maggiori. Grazie a Spirit, stiamo acquisendo informazioni preziose sul comportamento in orbita del nostro rivelatore, che saranno molto utili in previsione del lancio della costellazione Hermes Pathfinder il prossimo anno».
«Durante la mia visita al Centro di controllo della missione dell’Università di Melbourne, ho avuto l’opportunità di seguire da vicino il grande lavoro di messa in funzione del team e di assistere all’emozionante momento dell’arrivo dei primi dati», aggiunge Giulia Baroni, membro del team scientifico Hermes Pathfinder e dottoranda Inaf. «Come studente, considerare il potenziale di questa tecnologia per far progredire scienza innovativa è incredibilmente stimolante, soprattutto sapendo che questo risultato è solo l’inizio».
Il team scientifico non vede l’ora di completare le attività di messa in servizio e di iniziare la campagna di operazioni scientifiche per scoprire nuovi gamma ray burst fino ai confini dell’universo osservabile.
Guarda l’intervista a Fabrizio Fiore (in italiano, del 2022) su Hermes:
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Galassie spente dal soffio dei buchi neri
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Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
I buchi neri supermassicci generano venti cosmici tanto forti da “spegnere” le galassie. A confermarlo per la prima volta è un gruppo internazionale di astronomi che ha sfruttato le straordinarie capacità del nuovo telescopio spaziale James Webb (Jwst). I risultati dello studio – pubblicati ieri su Nature – nascono infatti grazie al programma “Blue Jay”, che coinvolge il primo ciclo di osservazioni del Jwst ed è guidato da Sirio Belli, professore al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna.
«Grazie al telescopio spaziale James Webb siamo finalmente riusciti a misurare un vento galattico così forte da poter causare lo spegnimento di una galassia», spiega Belli. «La differenza tra il nostro studio e i lavori precedenti sta nel tipo di gas osservato: mentre fino ad oggi era possibile misurare solamente il gas ionizzato, e quindi caldo, con il telescopio Webb siamo ora in grado di misurare anche il gas neutro, e quindi freddo».
L’indagine degli studiosi si è concentrata su un fenomeno ancora misterioso noto come quenching: lo spegnimento della capacità di formare nuove stelle che avviene nel corso dell’evoluzione delle galassie massive. Nell’universo primordiale, infatti, le galassie trasformavano grandi quantità di gas in stelle, ed erano quindi in grado di crescere molto rapidamente. A un certo punto, però, le galassie più grandi hanno smesso improvvisamente di crescere.
Un’ipotesi avanzata dagli studiosi per spiegare questo fenomeno è che lo spegnimento sia dovuto al buco nero supermassiccio che si trova al centro di ogni galassia. In effetti, i modelli teorici mostrano che questi enormi buchi neri sono in grado di generare venti talmente forti da riuscire a spazzare via tutto il gas, e spegnere quindi la formazione di nuove stelle. Il problema, però, è che le osservazioni realizzate finora hanno rilevato solo venti galattici deboli, insufficienti per attivare il meccanismo del quenching.
La scommessa degli studiosi, allora, era sfruttare le capacità avanzate del telescopio spaziale James Webb per ottenere nuove informazioni. Tra le prime 150 galassie osservate dal programma “Blue Jay”, gli astronomi si sono concentrati su Cosmos-11142: una galassia che si trova a più di dieci miliardi di anni luce da noi.
«Grazie alle osservazioni del telescopio James Webb abbiamo potuto fare una fotografia di questa galassia come appariva nell’universo giovane», dice Belli. «In quell’epoca, che viene spesso chiamata “mezzogiorno cosmico”, le galassie si trovavano al picco delle loro capacità di formare nuove stelle, ed è proprio in quell’epoca che il processo di spegnimento ebbe inizio”.
Jwst ha consentito agli studiosi di scoprire che più del 90 per cento del vento galattico generato dal buco nero supermassiccio al centro della galassia è fatto di gas neutro: un tipo di gas freddo che era fino ad oggi praticamente invisibile dai telescopi.
«La galassia che abbiamo osservato si trova nella fase successiva al momento di grande crescita, quando si è verificato un rapido spegnimento della capacità di formare nuove stelle», conferma Belli. «Analizzando i venti galattici, abbiamo potuto verificare che il forte flusso di gas neutro è il fattore che con ogni probabilità provoca la fase di quenching nelle galassie massive».
Fonte: comunicato stampa Unibo
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Star Formation Shut Down by Multiphase Gas Outflow in a Galaxy at a Redshift of 2.45”, di Sirio Belli, Minjung Park, Rebecca L. Davies, J. Trevor Mendel, Benjamin D. Johnson, Charlie Conroy, Chloë Benton, Letizia Bugiani, Razieh Emami, Joel Leja, Yijia Li, Gabriel Maheson, Elijah P. Mathews, Rohan P. Naidu, Erica J. Nelson, Sandro Tacchella, Bryan A. Terrazas & Rainer Weinberger
Bolla di gas ionizzato da 50 milioni di masse solari
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Scattata con il Very Large Telescope dell’Eso, questa immagine (cliccare per ingrandire) mostra il deflusso di gas studiato dai ricercatori all’interno della galassia Ngc 4383. Il gas esce dal nucleo della galassia a una velocità media superiore a 200 km al secondo. Questa misteriosa eruzione di gas ha un’unica causa: la formazione stellare. Crediti: Watts et al, 2024
Gli stellar feedback-driven outflows sono bolle di gas in espansione prodotte all’interno delle galassie da esplosioni stellari estremamente violente. Questi deflussi di materia hanno un ruolo importante nel regolare il ciclo di formazione stellare: la loro potenza d’urto è infatti tale da impedire la nascita di nuove stelle a livello locale. Studiarli è dunque fondamentale per comprendere l’evoluzione delle galassie stesse.
Un team internazionale di ricerca ha ora rilevato uno di questi deflussi, creando la prima mappa ad alta risoluzione del gas che lo costituisce. L’emissione è stata osservata all’interno di Ngc 4383, una galassia a spirale situata a circa 60 milioni di anni luce da noi nella costellazione della Chioma di Berenice. Stando a quanto riportato dagli scienziati nel loro studio, i cui risultati sono stati pubblicati ieri su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, si tratterebbe di una bolla di gas immensa, così grande che ci vorrebbero circa 20mila anni affinché la luce la percorra da un’estremità all’altra. La dimensione non è però l’unica caratteristica degna di nota di questa nube. A renderla straordinaria è la sua massa, equivalente a quella di oltre 50 milioni di Soli. E la velocità massima del gas al suo interno, prossima a 300 km al secondo.
I ricercatori hanno osservato l’enorme bolla bilobata utilizzando lo strumento Muse (Multi Unit Spectroscopic Explorer), uno spettrografo montato sul Very Large Telescope dell’Eso, l’Osservatorio europeo australe, in Cile. Muse è uno spettrografo a campo integrale, ovvero uno strumento che scompone la luce proveniente da ogni punto all’interno del suo campo visivo. Quando viene puntato in direzione di una galassia, Muse consente agli astronomi di analizzare la sua composizione chimica e il movimento del gas e delle stelle al suo interno. Grazie ai dati ottenuti dallo strumento, i ricercatori hanno potuto studiare la struttura e la complessa cinematica del gas ionizzato della bolla in questione, realizzandone la mappa ad alta risoluzione.
«Il gas espulso è piuttosto ricco di elementi pesanti e ci offre una visione unica del complesso processo di miscelazione tra idrogeno e metalli che avviene nel deflusso», dice Adam Watts, ricercatore all’International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar), in Australia, e primo autore della pubblicazione. «In questo caso particolare abbiamo rilevato ossigeno, azoto, zolfo e molti altri elementi chimici». Nell’animazione qui in basso vengono mostrate le linee di emissione osservate dai ricercatori con lo strumento Muse.
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Il programma nell’ambito del quale sono state condotte le osservazioni si chiama Mauve, acronimo di Muse e Alma Unveiling the Virgo Environment, una survey che mira a comprendere l’impatto dell’ambiente sull’evoluzione delle galassie dell’ammasso della Vergine, di cui Ngc 4383 fa parte, e alla cui guida ci sono Barbara Catinella e Luca Cortese, due dei quattro ricercatori italiani – tutti e quattro all’estero – coinvolti nello studio.
«Abbiamo progettato la survey Mauve per studiare come i processi fisici, come i deflussi di gas, contribuiscano a bloccare la formazione stellare nelle galassie», sottolinea a questo proposito Catinella. «Ngc 4383 è stato il nostro primo obiettivo, poiché sospettavamo che al suo interno stesse accadendo qualcosa di molto interessante, ma i dati hanno superato tutte le nostre aspettative».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “MAUVE: a 6 kpc bipolar outflow launched from NGC 4383, one of the most H I-rich galaxies in the Virgo cluster” di Adam B Watts, Luca Cortese, Barbara Catinella, Amelia Fraser-McKelvie, Eric Emsellem, Lodovico Coccato, Jesse van de Sande, Toby H Brown, Yago Ascasibar, Andrew Battisti, Alessandro Boselli, Timothy A Davis, Brent Groves e Sabine Thater
Montagne e laghi di lava su Io
Lo strumento JunoCam della sonda Juno della Nasa ha catturato questa vista della luna di Giove Io. È la prima immagine in assoluto della sua regione polare meridionale, ottenuta durante il 60esimo flyby della sonda su Giove il 9 aprile. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRI/Msss, Gerald Eichstädt/Thomas Thomopoulos
Mercoledì scorso, alla European Geophysical Union General Assembly di Vienna, il principal investigator della missione Juno della Nasa, Scott Bolton, ha annunciato alcune nuove scoperte della sonda americana. Partendo dai dati raccolti durante due recenti sorvoli di Io, gli scienziati della missione sono riusciti a creare animazioni che evidenziano due delle caratteristiche più drammatiche della luna gioviana: una montagna ripidissima – così ripida che El Capitan sembra una dolce collina – e un lago di lava liscio quasi come vetro. Oltre a queste animazioni, Bolton ha presentato aggiornamenti sui cicloni polari di Giove e sull’abbondanza di acqua sul gigante gassoso.
Nel dicembre 2023 e nel febbraio 2024, Juno ha effettuato sorvoli estremamente ravvicinati di Io, arrivando a circa 1.500 chilometri dalla superficie e ottenendo le prime immagini ravvicinate delle latitudini settentrionali della luna. «Io è disseminato di vulcani e ne abbiamo ripresi alcuni in azione», racconta Bolton. «Abbiamo anche ottenuto dei bellissimi primi piani e altri dati su un lago di lava lungo 200 chilometri, chiamato Loki Patera. Ci sono dettagli sorprendenti che mostrano queste isole pazzesche incastonate nel mezzo di un lago di magma potenzialmente circondato da lava incandescente. La riflessione speculare che i nostri strumenti hanno registrato del lago suggerisce che alcune parti della superficie di Io sono lisce come vetro, ricordando il vetro di ossidiana creato dai vulcani sulla Terra».
Le mappe generate con i dati raccolti dallo strumento Microwave Radiometer (Mwr) rivelano che Io non solo ha una superficie relativamente liscia rispetto alle altre lune galileiane di Giove, ma ha anche poli più freddi rispetto alle medie latitudini.
Durante la missione prolungata di Juno, la sonda si avvicina al polo nord di Giove a ogni passaggio. Il cambiamento di orientamento consente allo strumento Mwr di migliorare la risoluzione dei cicloni polari settentrionali di Giove. I dati consentono di confrontare i poli a più lunghezze d’onda, rivelando che non tutti i cicloni polari sono uguali. «L’esempio più eclatante di questa disparità si trova nel ciclone centrale del polo nord di Giove», spiega Steve Levin, project scientist di Juno presso il Jet Propulsion Laboratory della Nasa. «È chiaramente visibile nelle immagini a infrarossi e a luce visibile, ma la sua firma a microonde non è così forte come quella di altre tempeste vicine. Questo ci dice che la sua struttura sottosuperficiale deve essere molto diversa da quella degli altri cicloni. Il team Mwr continua a raccogliere dati a microonde sempre migliori a ogni orbita, quindi prevediamo di sviluppare una mappa 3D più dettagliata di queste intriganti tempeste polari».
Questa animazione è una rappresentazione artistica di Loki Patera, un lago di lava sulla luna di Giove Io, realizzata utilizzando i dati della JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa. Con più isole al suo interno, Loki è una depressione piena di magma. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRI/Msss
Uno dei principali obiettivi scientifici della missione è quello di raccogliere dati che possano aiutare a comprendere meglio l’abbondanza di acqua di Giove. Non si tratta ovviamente di rilevare acqua liquida bensì di quantificare la presenza di molecole di ossigeno e idrogeno (che compongono l’acqua) nell’atmosfera di Giove. Una stima accurata di tali molecole è fondamentale per ricomporre il puzzle della formazione del Sistema solare. Giove è stato probabilmente il primo pianeta a formarsi e contiene la maggior parte del gas e della polvere che non sono stati incorporati nel Sole. Inoltre, l’abbondanza di acqua ha importanti implicazioni per la meteorologia del gigante gassoso (compreso il modo in cui le correnti di vento fluiscono su Giove) e la struttura interna.
Nel 1995, la sonda Galileo della Nasa ha fornito una prima serie di dati sull’abbondanza di acqua su Giove durante la sua discesa di 57 minuti nell’atmosfera gioviana. Ma i dati hanno generato più domande che risposte, indicando che l’atmosfera del gigante gassoso era inaspettatamente calda e – contrariamente a quanto indicato dai modelli – priva di acqua. «La sonda ha svolto un lavoro scientifico straordinario, ma i suoi dati erano così lontani dai nostri modelli sull’abbondanza d’acqua di Giove che ci siamo chiesti se la posizione campionata potesse essere un caso anomalo. Ma prima di Juno non potevamo confermarlo», spiega Bolton. «Ora, grazie ai recenti risultati ottenuti con i dati dell’Mwr, abbiamo stabilito che l’abbondanza di acqua vicino all’equatore di Giove è circa tre o quattro volte superiore a quella solare rispetto all’idrogeno. Questo dimostra definitivamente che il sito di ingresso della sonda Galileo era una regione anomalamente secca e desertica».
Creata utilizzando i dati raccolti dalla JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa durante i voli del dicembre 2023 e del febbraio 2024, questa animazione è una rappresentazione artistica di una caratteristica della luna gioviana Io che il team scientifico della missione ha soprannominato “Steeple Mountain”. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRI/Msss
Dai risultati si può supporre che, durante la formazione ed evoluzione del gigante gassoso, il ghiaccio d’acqua sia stato la fonte dell’arricchimento di elementi pesanti (elementi chimici più pesanti dell’idrogeno e dell’elio che sono stati accumulati da Giove). La formazione di Giove rimane sconcertante, perché i risultati di Juno sul suo nucleo suggeriscono una bassissima abbondanza di acqua – un mistero che gli scienziati stanno ancora cercando di risolvere.
I dati raccolti durante il resto della missione prolungata di Juno potrebbero essere d’aiuto, consentendo agli scienziati di confrontare l’abbondanza d’acqua di Giove vicino alle regioni polari con quella della regione equatoriale e facendo ulteriore luce sulla struttura del nucleo del pianeta. Durante l’ultimo flyby di Juno su Io, il 9 aprile, la sonda si è avvicinata a circa 16.500 chilometri dalla superficie della luna. Il 12 maggio effettuerà il suo 61esimo flyby di Giove.
A caccia di asteroidi con Hubble
Un esempio di traccia asteroidale ripresa da Hubble nel campo della galassia Ugc 12158. Le diverse tracce si riferiscono ad altrettante esposizioni e la curvatura è dovuta all’effetto di parallasse. Crediti: Nasa, Esa, Pablo García Martín (Uam); Image Processing: Joseph DePasquale (Stsci); Acknowledgment: Alex Filippenko (UC Berkeley)
Fin dalla scoperta casuale di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi dal Reale osservatorio astronomico di Palermo il 1 gennaio 1801, gli asteroidi vengono rilevati grazie al moto proprio. Al telescopio gli asteroidi sono indistinguibili dalle stelle di campo perché appaiono puntiformi, ed è solo il loro movimento attorno al Sole che ne denuncia la natura planetaria. Nel 2019 un gruppo di astronomi ha lanciato Hubble Asteroid Hunter, un progetto di citizen science per identificare gli asteroidi nei dati di archivio del telescopio spaziale Hubble (Hst). In effetti le osservazioni d’archivio dell’Hst possono essere utilizzate per lo studio degli asteroidi, perché i puntamenti sono orientati in modo casuale in cielo e coprono lunghi periodi di tempo. Inoltre, le analisi possono essere fatte senza costi aggiuntivi per quanto riguarda il tempo-telescopio, il che non guasta. L’iniziativa è stata sviluppata da ricercatori e ingegneri dello European Science and Technology Centre (Estec) e dello European Space Astronomy Centre’s science data center (Esdc) dell’Esa, in collaborazione con Zooniverse, la piattaforma di citizen science più nota, e Google. Hanno risposto alla chiamata 11.482 volontari che hanno fornito quasi due milioni di identificazioni, utilizzate per istruire un algoritmo di machine learning così da poter identificare automaticamente gli asteroidi, in questo e in futuri database.
Il telescopio spaziale Hubble ha un diametro di 2,4 metri ed è stato immesso in orbita terrestre dallo Space Shuttle Discovery nel lontano 1990. La sua orbita, con un apogeo di 524 km un perigeo di 520 km e un’inclinazione di circa 28,5° sull’equatore terrestre, viene percorsa in soli 95 minuti. Durante il rapido movimento attorno alla Terra il telescopio viene utilizzato per riprendere immagini di nebulose, ammassi stellari, galassie e può capitare che riprenda casualmente anche degli asteroidi. Visto che i tempi di posa possono essere lunghi (in media 30 minuti) e che l’asteroide si muove, il risultato è che viene lasciata una traccia nell’immagine. Considerato che Hubble cambia rapidamente la propria posizione nello spazio, la traccia dell’asteroide è soggetta a un effetto di parallasse ed è curva: conoscendo la posizione di Hubble durante l’osservazione e misurando la curvatura delle tracce, si possono determinare le distanze degli asteroidi e la forma dell’orbita. Il range di distanze esplorate per il best fit delle tracce con il modello va da 0,2 a 6,7 unità astronomiche, per includere anche gli asteroidi troiani di Giove. In alcuni casi la traccia dell’asteroide non presenta una curvatura sufficiente a convergere verso un valore di distanza ben definita. Questo accade quando l’asteroide si muove nel piano orbitale di Hubble, mentre la curvatura è massima quando l’asteroide si trova angolarmente lontano da questo piano. Questo metodo di misura della distanza degli asteroidi usando la parallasse duvuta al moto orbitale di Hubble è stato testato su asteroidi con distanza nota e i valori trovati si sono mostrati coerenti con quelli determinati dal Jpl Horizons service. Gli asteroidi “catturati” da Hubble risiedono principalmente nella fascia principale (main-belt, in inglese), la regione di spazio che si trova tra le orbite dei pianeti Marte e Giove, popolata da circa 1,5 milioni di asteroidi noti. Misurando la luminosità dell’asteroide sull’immagine e conoscendo la distanza si può fare anche una stima delle dimensioni dell’asteroide se si ipotizza la riflettività della superficie.
La distribuzione delle dimensioni degli asteroidi identificati nelle immagini riprese da Hubble. Crediti: Pablo García Martín (Uam), Elizabeth Wheatley (Stsci)
Questa specie di “caccia al tesoro” ha richiesto l’esame di 37mila immagini riprese da Hubble nell’arco di 19 anni. Il risultato è stato il ritrovamento di 1.701 tracce di asteroidi, di cui 1.031 completamente nuovi perché non presenti nel database del Minor Planet Center. Fra questi nuovi asteroidi ce ne sono 454 che hanno dimensioni inferiori a 1 chilometro. Questi nuovi asteroidi main-belt di piccole dimensioni sono la conferma delle previsioni dei modelli evolutivi del Sistema solare: nei circa 5 miliardi di anni di evoluzione ci sono state innumerevoli collisioni nella main-belt che hanno portato alla formazione delle “famiglie di asteroidi” e alla creazione di una grande quantità di frammenti anche piccoli di cui quelli trovati sono solo una minima parte. D’altra parte che dovessero esistere asteroidi di piccole dimensioni nella main-belt è chiaro anche dal fatto che gli asteroidi near-Earth, che provengono da quella regione, sono per lo più di dimensioni inferiori a 1 km. Fra gli asteroidi trovati nella immagini di Hubble ci sono anche 45 potenziali comete e 74 potenziali asteroidi near-Earth.
Ora il progetto proseguirà con l’analisi fotometrica delle tracce lasciate da tutti gli asteroidi rilevati per studiarne le proprietà, come i periodi di rotazione.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Hubble Asteroid Hunter III. Physical properties of newly found asteroids”, di Pablo García-Martín, Sandor Kruk, Marcel Popescu, Bruno Merín, Karl R. Stapelfeldt, Robin W. Evans, Benoit Carry e Ross Thomson
L’ottimismo di Google per la Giornata della Terra
È di nuovo il 22 aprile. È di nuovo la Giornata della Terra. E Google ha scelto la politica dell’ottimismo, abbinando a ogni lettera che compone il suo nome un esempio virtuoso di azioni che l’umanità ha messo in atto per salvaguardare il pianeta. Una raccolta di immagini che – citando la spiegazione scritta – mostrano la bellezza naturale e la biodiversità del nostro pianeta per ricordarci di salvaguardarlo. Le immagini provengono da alcuni dei satelliti delle agenzie spaziali di tutto il mondo, che da decenni monitorano il pianeta allo scopo di studiarne le variazioni climatiche e ambientali. Una branca delle scienze spaziali indispensabile, considerando la crisi climatica in atto e le conseguenze che – ormai inevitabilmente – ci colpiranno nei prossimi decenni.
Il doodle del giorno, dunque, lo trovate qui sopra, mentre di seguito elenchiamo le spiegazioni fornite da Google stesso per le immagini scelte. Da sinistra verso destra:
G: Isole Turks e Caicos. Le isole ospitano importanti aree di biodiversità con sforzi di conservazione volti ad affrontare le sfide ambientali in corso, tra cui la protezione delle risorse naturali e delle barriere coralline e il ripristino di specie minacciate come l’iguana autoctono delle isole.
O: Parco nazionale della Scorpion Reef, Messico. Conosciuta anche come Arrecife de Alacranes, è la più grande barriera corallina del Golfo del Messico meridionale e riserva della biosfera dell’Unesco. L’area marina protetta funge da rifugio per coralli complessi e per diverse specie di uccelli e tartarughe in via di estinzione.
O: Parco nazionale di Vatnajökull, Islanda. Istituito come parco nazionale nel 2008 dopo decenni di battaglie, questo sito del patrimonio mondiale dell’Unesco protegge l’ecosistema all’interno e intorno al ghiacciaio più grande d’Europa. Il mix di vulcani e ghiaccio glaciale produce paesaggi e flora rari.
G: Parco nazionale di Jaú, Brasile. Conosciuto anche come Parque Nacional do Jaú, è una delle più grandi riserve forestali del Sud America e un sito del patrimonio mondiale dell’Unesco. Situato nel cuore della foresta amazzonica, protegge una vasta gamma di specie, tra cui il margay, il giaguaro, la lontra gigante e il lamantino amazzonico.
L: Grande muraglia verde, Nigeria. Avviata nel 2007, questa iniziativa guidata dall’Unione Africana sta ripristinando i terreni colpiti dalla desertificazione in tutta l’Africa, piantando alberi e altra vegetazione e attuando pratiche di gestione sostenibile del territorio. In questo modo si offrono alle popolazioni e alle comunità dell’area maggiori opportunità economiche, sicurezza alimentare e resilienza al clima.
E: Riserve naturali delle isole Pilbara, Australia. L’immagine riguarda una delle 20 riserve naturali in Australia che aiutano a proteggere ecosistemi fragili, habitat naturali sempre più rari e una serie di specie minacciate o in pericolo, tra cui diverse specie di tartarughe marine, uccelli costieri e uccelli marini.
Esempi importanti, esempi concreti. Esempi, però, ancora troppo confinati a realtà locali. Rispetto a questa scelta, viene da chiedersi se ci sia ancora posto per la bellezza e l’ottimismo, mentre il tempo per intraprendere azioni concrete e significative stringe. Secondo il famoso motore di ricerca, a quanto pare, sì. Tanto che alla fine della spiegazione dell’acronimo di immagini, non manca di sottolineare come la Giornata della Terra sia un promemoria per praticare abitudini sostenibili tutto l’anno e per continuare a lavorare per conservare l’acqua, l’elettricità e altre risorse. Ma è davvero così?
È di nuovo il 22 aprile. Questa giornata – alla quale ha preso parte anche l’Inaf portando un planetario gonfiabile a Villa Borghese – volge al termine, e da domani della salute del nostro pianeta probabilmente ci saremo già (nuovamente) disinteressati. Serve, allora, continuare a dedicare una Giornata alla Terra? Dopo le aspettative puntualmente disattese, anno dopo anno, alle conferenze sul clima e sul futuro del pianeta, verrebbe da dire di no. Ma se lo scopo è “muovere gli animi”, forse ogni tentativo vale la pena di essere fatto. Almeno secondo quanto riportano le statistiche di Google sull’aumento delle ricerche a tema sostenibilità, che trovate qui. Le prime, a dirla tutta, sembrerebbero più che altro un tentativo di risparmio a fronte del rincaro carburanti, energia e gas. Le ultime, invece, hanno tutta l’aria di un interesse genuino verso un modo di vivere più virtuoso. Qualunque sia la motivazione dietro questi trend, comunque, se lo sforzo collettivo si concentra in una direzione più in linea con i tempi e con la crisi climatica, di immagini come quelle postate da Google potremo vederne molte altre. E non solo durante la Giornata della Terra.
Identificare cellule nei grani di ghiaccio di Encelado
Struttura interna di Encelado basata sui dati della sonda Cassini. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Tra i numerosi satelliti naturali di Saturno, uno spicca fra gli altri in quanto sembra avere gli ingredienti per supportare la vita così come la conosciamo. La luna Encelado, di 500 chilometri di diametro, ospita infatti un oceano d’acqua liquida sotto la sua crosta ghiacciata, che si estende per l’intera superficie della luna.
Una serie di geyser al polo sud del satellite proiettano nello spazio gas e granuli di ghiaccio formati a partire dall’acqua dell’oceano. Questo fenomeno, noto come criovulcanismo, ha fornito un elemento chiave di conoscenza per quell’oceano, altrimenti inaccessibile.
Dal 2004 al 2017, la sonda Cassini ha studiato Saturno, i suoi anelli e i suoi satelliti principali, compreso Encelado, producendo risultati spettacolari. I progettisti di Cassini non prevedevano di analizzare i granuli di ghiaccio che Encelado stava emettendo attivamente, ma avevano comunque incluso un analizzatore di polveri nell’equipaggiamento della sonda. Questo strumento è riuscito a misurare individualmente i granuli di ghiaccio emessi e ha fornito ai ricercatori informazioni sulla composizione dell’oceano, nascosto sotto decine di chilometri di crosta ghiacciata.
Possibile schema per il criovulcanismo di Encelado. Crediti: Nasa/Jpl/Space Science Institute
Il nucleo roccioso di Encelado probabilmente interagisce con l’oceano d’acqua attraverso bocche idrotermali, sorgenti calde sgorganti sul fondo dell’oceano, che sulle Terra potrebbero essere state il luogo dove si sono sviluppati i primi mattoni della vita.
Anche una luna di Giove, Europa, possiede un oceano che si estende sotto la sua crosta ghiacciata. I granuli di ghiaccio galleggiano sopra la superficie, e alcuni scienziati pensano che Europa possa persino avere geyser che sparano granuli nello spazio, come Encelado.
Nell’entusiasmante ipotesi che in questi oceani siano presenti forme di vita, come i batteri, gli scienziati si chiedono se sarebbe tecnicamente possibile trovarne le tracce nei grani di ghiaccio provenienti dalle profondità marine delle due lune ghiacciate.
Fabian Klenner, planetologo e astrobiologo all’Università di Washington, ha guidato uno studio, pubblicato il mese scorso su Science Advances, che indaga la possibilità per una futura missione di individuare materiale cellulare all’interno di singoli grani di ghiaccio di Encelado e di Europa.
Fabian Klenner, University of Washington
La conclusione è che l’impronta spettrometrica dei batteri eventualmente presenti sarebbe chiaramente identificabile, anche se un granulo di ghiaccio contenesse pochissima sostanza organica, molto meno di una singola cellula.
Inoltre, lo studio dimostra il vantaggio delle analisi dei singoli grani di ghiaccio rispetto a quelle su un campione diluito proveniente da un pennacchio eterogeneo.
«Come quelli sulla Terra, l’oceano di Encelado contiene sale, principalmente cloruro di sodio, il comune sale da tavola», spiega Klenner in un articolo pubblicato su The Conversation. «L’oceano contiene anche vari composti a base di carbonio ed è soggetto a un processo chiamato riscaldamento mareale che genera energia all’interno del satellite. Acqua liquida, chimica a base di carbonio ed energia sono tutti ingredienti chiave per la vita».
Nel 2023, Klenner è stato fra gli autori di uno studio che ha trovato fosfati di sodio nei granuli di ghiaccio provenienti dall’oceano di Encelado. Il fosfato, una forma del fosforo, è un elemento chiave per tutta la vita sulla Terra. Fa parte del Dna, delle membrane cellulari e delle ossa. È stata la prima volta che i ricercatori hanno rilevato questo composto in un oceano d’acqua extraterrestre.
Le lune ghiacciate di Giove e Saturno risultano dunque di particolare interesse per Nasa ed Esa, che hanno già in cantiere o hanno pianificato missione spaziali verso tali obbiettivi. In particolare, la missione Europa Clipper della Nasa è programmata per il lancio nell’ottobre 2024 e l’arrivo a Giove nell’aprile 2030.
Lo strumento Suda, SUrface Dust Analyzer, della missione Nasa Europa Clipper. Crediti: Nasa/Cu Boulder/Glenn Asakawa
Uno dei due spettrometri di massa di cui è dotata Europa Clipper, il Surface Dust Analyzer, è progettato per l’analisi di singoli granuli di ghiaccio.
Secondo Klenner, che è affiliato alla missione proprio per tale spettrometro, il nuovo studio dimostra che questo strumento sarà in grado di individuare anche frazioni minime di una cellula batterica, se presenti in pochi granuli di ghiaccio emessi.
«Con i piani a breve termine di queste agenzie spaziali e i risultati del nostro studio, le prospettive delle future missioni spaziali su Encelado o Europa sono decisamente entusiasmanti», conclude Klenner. «Ora sappiamo che con strumentazioni attuali e future gli scienziati dovrebbero essere in grado di scoprire se c’è vita su una di queste due lune».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances lo studio “How to identify cell material in a single ice grain emitted from Enceladus or Europa”, di Fabian Klenner, Janine Bönigk, Maryse Napoleoni, Jon Hillier, Nozair Khawaja, Karen Olsson- Francis, Morgan L. Cable, Michael J. Malaska, Sascha Kempf, Bernd Abel e Frank Postberg
Brilla brilla la stellina… di “starnuti” magnetici
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Illustrazione della baby stella al centro circondata da un disco brillante chiamato disco protostellare. I picchi di flusso magnetico, gas e polvere sono rappresentati in blu. I ricercatori hanno scoperto che il disco protostellare espelle flusso magnetico, gas e polvere durante la formazione stellare. Crediti: Alma (Eso / Naoj / Nrao)
Di solito le persone alle prese con un neonato sono molto preoccupate per la sua salute: controllano che abbia mangiato, dormito e che sia al caldo e, al primo segnale di qualcosa che non va, per esempio uno starnuto, si allarmano. Ma come reagiremmo se a starnutire fosse una baby stella? Questa è la situazione in cui si sono trovati i ricercatori della Kyushu University (Giappone), la cui scoperta ha gettato nuova luce sulla questione fondamentale di come si sviluppano le stelle ancora in fasce.
Utilizzando il radiotelescopio Alma, in Cile, il team ha scoperto che nella sua infanzia il disco protostellare che circonda una baby stella emette pennacchi di polvere, gas e flusso magnetico. Questi “starnuti”, come li descrivono i ricercatori, rilasciano il flusso magnetico all’interno del disco protostellare e potrebbero essere una parte vitale della formazione stellare. I risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su The Astrophysical Journal.
Tutte le stelle, incluso il nostro Sole, si sviluppano da quelle che vengono chiamate nurseries stellari, ovvero grandi concentrazioni di gas e polvere che si condensano sino a formare un nucleo stellare, una baby stella — o protostella. Durante questo processo, gas e polvere formano attorno alla stella neonata un anello chiamato disco protostellare.
«Queste strutture sono continuamente attraversate da campi magnetici, che portano con sé un flusso magnetico. Tuttavia, se tutto questo flusso magnetico fosse mantenuto durante lo sviluppo della stella, genererebbe campi magnetici di molti ordini di grandezza più forti di quelli osservati in qualsiasi protostella conosciuta», nota Kazuki Tokuda della Kyushu University, primo autore dello studio.
Per questo motivo i ricercatori hanno ipotizzato che intervenga un meccanismo, durante lo sviluppo delle stelle, in grado di rimuovere il flusso magnetico. L’opinione prevalente era che il campo magnetico si indebolisse gradualmente nel tempo, man mano che la nube di materia viene attirata nel nucleo stellare.
Per andare a fondo di questo misterioso fenomeno, il team ha messo gli occhi su Mc 27, una nursery stellare situata a circa 450 anni luce dalla Terra. Le osservazioni sono state fatte utilizzando l’array Alma, un gruppo di 66 radiotelescopi ad alta precisione costruiti a 5000 metri sopra il livello del mare nel deserto di Atacama, nel nord del Cile.
«Mentre analizzavamo i dati, abbiamo trovato qualcosa di abbastanza inaspettato», ricorda Tokuda. «C’erano queste strutture “a punta” che si estendevano per alcune unità astronomiche dal disco protostellare. Scavando più in profondità, abbiamo scoperto che si trattava di picchi di flusso magnetico, polvere e gas espulsi».
«È un fenomeno chiamato “instabilità di interscambio” in cui le instabilità nel campo magnetico reagiscono con le diverse densità dei gas nel disco protostellare, provocando un’espulsione verso l’esterno del flusso magnetico. Lo abbiamo soprannominato lo “starnuto” di una baby stella perché ricorda quando espelliamo aria e particelle ad alta velocità». Inoltre, sono stati osservati altri picchi a diverse migliaia di unità astronomiche dal disco protostellare. Gli autori dello studio hanno quindi ipotizzato che si tratti tracce d’altri “starnuti” avvenuti in passato.
«Analoghe strutture a forma di punta sono state osservate in altre giovani stelle, e la loro scoperta si fa sempre più frequente», conclude Tokuda. «Indagando sulle condizioni che portano a questi “starnuti” speriamo di espandere la nostra comprensione di come si formano stelle e pianeti».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Discovery of Asymmetric Spike-like Structures of the 10 au Disk around the Very Low-luminosity Protostar Embedded in the Taurus Dense Core MC 27/L1521F with ALMA” di Kazuki Tokuda, Naoto Harada, Mitsuki Omura, Tomoaki Matsumoto, Toshikazu Onishi, Kazuya Saigo, Ayumu Shoshi, Shingo Nozaki, Kengo Tachihara, Naofumi Fukaya, Yasuo Fukui, Shu-ichiro Inutsuka e Masahiro N. Machida
Fuga di gas dall’atmosfera di Venere
Rilevazioni compiute dalla missione spaziale BepiColombo in una regione precedentemente inesplorata dell’ambiente magnetico di Venere hanno mostrato la presenza di ioni di carbonio e ossigeno accelerati al punto da sfuggire all’attrazione gravitazionale del pianeta. I risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su Nature Astronomy.
A differenza della Terra, Venere non genera un campo magnetico intrinseco nel suo nucleo. Tuttavia, attorno al pianeta viene creata una debole magnetosfera indotta a forma di cometa, causata dall’interazione delle particelle cariche emesse dal Sole – il vento solare – con le particelle elettricamente cariche nell’atmosfera superiore di Venere. Avvolta attorno alla magnetosfera c’è una regione chiamata magnetoguaina dove il vento solare viene rallentato e riscaldato.
Il 10 agosto 2021 BepiColombo è passato vicino Venere, per rallentare e aggiustare la rotta verso Mercurio, la sua destinazione finale. La navicella spaziale ha sorvolato la lunga coda della magnetoguaina di Venere ed è emersa dalle regioni magnetiche più vicine al Sole. In quell’occasione, nel corso di un periodo di osservazioni di 90 minuti, gli strumenti di BepiColombo hanno misurato il numero e la massa delle particelle cariche incontrate, acquisendo informazioni sui processi chimici e fisici che causano la fuga atmosferica nel fianco della magnetoguaina.
Infografica sulla fuoriuscita di materiale planetario dall’atmosfera di Venere. La linea rossa e la freccia mostrano la regione e la direzione delle osservazioni di BepiColombo quando sono stati osservati gli ioni in fuga (C+, O+, H+). Crediti: Thibaut Roger/Europlanet 2024 RI/Hadid et al.
«È la prima volta in cui vengono osservati ioni positivi di carbonio fuggire dall’atmosfera di Venere. Sono ioni pesanti che solitamente si muovono lentamente», sottolinea la prima autrice dello studio, Lina Hadid, ricercatrice al Laboratorio di fisica del plasma del Cnrs francese, «dunque stiamo ancora cercando di capire i meccanismi in gioco. Potrebbe essere che un “vento” elettrostatico li stia allontanando dal pianeta, o potrebbero essere accelerati attraverso processi centrifughi».
All’inizio della sua storia Venere aveva molte somiglianze con la Terra, comprese quantità significative di acqua allo stato liquido. Le interazioni con il vento solare hanno successivamente portato via l’acqua, lasciando un’atmosfera composta principalmente da anidride carbonica e piccole quantità di azoto e altri gas in tracce. Missioni precedenti, tra cui Pioneer Venus Orbiter della Nasa e Venus Express dell’Esa, hanno effettuato studi dettagliati sul tipo e sulla quantità di molecole e particelle cariche che si perdono nello spazio. Tuttavia, le orbite di queste missioni hanno lasciato alcune aree attorno a Venere inesplorate e molte domande ancora senza risposta.
I dati per lo studio sono stati ottenuti, durante questo secondo sorvolo di Venere, dal Mass Spectrum Analyzer e dal Mercury Ion Analyzer, due dei sensori dello strumento Mercury Plasma Particle Experiment a bordo del Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo, dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa), uno dei due moduli della missione BepiColombo.
«Caratterizzare la perdita di ioni pesanti e comprendere i meccanismi di fuga su Venere», dice Dominique Delcourt del Laboratorio di fisica del plasma del Cnrs, responsabile del Mass Spectrum Analyzer, «è fondamentale per capire come si è evoluta l’atmosfera del pianeta e come ha perso tutta la sua acqua».
«Questo risultato mostra i risultati unici che possono emergere dalle misurazioni effettuate durante i sorvoli planetari, in cui la sonda può spostarsi attraverso regioni generalmente irraggiungibili dalle navicelle spaziali in orbita», osserva un altro fra i coautori dello studio, Nicolas André, responsabile del servizio Spider, un’infrastruttura di Europlanet i cui strumenti di modellizzazione della meteorologica spaziale hanno consentito ai ricercatori di monitorare il modo in cui le particelle si propagavano attraverso la magnetoguaina venusiana.
Sono numerosi i veicoli spaziali che nel prossimo decennio studieranno Venere, tra cui le sonde Nasa Veritas e Davinci, la missione Esa EnVision e la missione indiana Shukrayaan-1. Collettivamente, forniranno un quadro completo dell’ambiente venusiano, a partire dalla magnetoguaina, attraverso l’atmosfera, fino alla superficie e all’interno del pianeta.
«Risultati recenti suggeriscono che la fuga atmosferica da Venere non può spiegare completamente la perdita dell’acqua che conteneva in passato. Questo studio», conclude Moa Persson dell’Istituto svedese di fisica spaziale, «è un passo importante per scoprire la verità sull’evoluzione storica dell’atmosfera venusiana e le prossime missioni contribuiranno a colmare molte lacune».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “BepiColombo observations of cold oxygen and carbon ions in the flank of the induced magnetosphere of Venus”, di L. Z. Hadid, D. Delcourt, Y. Saito, M. Fränz, S. Yokota, B. Fiethe, C. Verdeil, B. Katra, F. Leblanc, H. Fischer, M. Persson, S. Aizawa, N. André, Y. Harada, A. Fedorov, D. Fontaine, N. Krupp, H. Michalik, J-J. Berthelier, H. Krüger, G. Murakami, S. Matsuda, D. Heyner, H.-U. Auster, I. Richter, J. Z. D. Mieth, D. Schmid e D. Fischer
Campionati di astronomia, ecco i 18 vincitori
Le tre mascotte dei 22esimi Campionati italiani di astronomia. Da sinistra: la gattina Karel, l’Astropolpo, lo scoiattolo rosso Corty), alle prese con la risoluzione di una prova teorica. Crediti: Giulia Iafrate
L’Astropolpo, ossia un polpo spaziale. Ecco cosa si è inventata la giuria come mascotte della finale nazionale dei 22esimi Campionati italiani di astronomia, che si è tenuta a Reggio Calabria dal 16 al 18 aprile 2024. La gara, alla quale hanno preso parte 90 studenti e studentesse provenienti da tutta Italia, è il punto di arrivo di un percorso iniziato a ottobre 2023 con un record di iscritti (12427) da 397 scuole, comprese due scuole italiane all’estero. La fase di preselezione di dicembre 2023 ha ridotto i concorrenti a 1136, rimasti poi in 90 al termine della gara interregionale, che si è svolta a febbraio 2024.
I partecipanti alla finale nazionale – divisi in quattro categorie: 22 Junior 1, 22 Junior 2, 32 Senior e 14 Master – non hanno dovuto affrontare solo il temibile Astropolpo, grande come un pianeta e perennemente alla ricerca di corpi celesti da avvinghiare coi suoi tentacoli: hanno anche dovuto sventare il furto di un inestimabile orologio a tempo siderale, misurarsi con una stella composta di materia esotica (gatti neri), salvare la Terra dall’incontro con una nebulosa oscura, far orbitare un neutrone intorno a un altro neutrone, analizzare le curve di luce del satellite Kepler e persino progettare una missione verso il pianeta Urano con vista sul polo nord del Sole. Tutto questo in poche ore e, letteralmente, senza rete: né computer o altri dispositivi elettronici, ma con il solo ausilio di carta, penna, calcolatrice, spremitura di meningi e soprattutto tanto studio, concentrazione e passione per l’astronomia.
Il carattere “epico” di questa finale era evidente già dal logo, selezionato tra 37 bellissime proposte disegnate dagli studenti delle scuole secondarie di secondo grado della Città metropolitana di Reggio Calabria. Creato da Jonas Oloris, studente del Liceo artistico “M. Preti – A. Frangipane” di Reggio Calabria, il logo mostra San Giorgio alle prese con il mitico drago sullo sfondo del cielo attraversato da una meteora.
I 18 vincitori dei 22esimi Campionati italiani di astronomia (cliccare per ingrandire). Dietro, da sinistra: Riccardo Brunetta, Andrea Cusimano, Raffaello Pio Marino, Ludovica Rial Corsini, Nicola Bortoluzzi, Gabriele Lambertini, Andrea Iorfida, Damiano Paganella, Tiziano Grillo, Andrea Zihan Wang, Marco Rosiello. Davanti, da sinistra: Alessandro Fabi, Francesco Tropenscovino, Chiara Luppino, Matteo Tivan, Giuseppe Monaco, Lorenzo Contrisciani, Giuseppe Cateniello. Crediti: Giulia Iafrate
La Finale ha avuto inizio con la cerimonia di apertura, martedì 16 aprile, presso la sala “Le Vele” dell’Hotel Altafiumara. Nell’occasione sono stati premiati i plurifinalisti, alcuni dei quali anche con 5 o 6 esperienze alle spalle. Le gare vere e proprie si sono svolte il giorno successivo al liceo scientifico “Leonardo da Vinci”: i 90 finalisti hanno risolto problemi di astrofisica durante la mattina, mentre il pomeriggio è stato dedicato alla prova pratica, consistita nell’analisi di dati di astronomia osservativa. Tutti problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria. Una volta finite le prove sono iniziate le valutazioni, che hanno visto la giuria – Giuseppe Cutispoto, Maria Pia Di Mauro, Silvia Galleti, Giulia Iafrate, Paolo Romano, Gaetano Valentini e chi scrive, tutti dell’Inaf, e Pierluigi Veltri dell’Università della Calabria – fare notte fonda per avere la classifica pronta per la mattina successiva, giovedì 18 aprile, in modo da procedere alla stampa dei diplomi in tempo per la cerimonia di chiusura, che si è tenuta nel pomeriggio nella sala “Versace” del Centro direzionale di Reggio Calabria.
Nel corso della cerimonia di chiusura è stata nominata la squadra nazionale che rappresenterà l’Italia alle Olimpiadi internazionali di astronomia, anche se – a causa delle incertezze legate all’attuale situazione geopolitica, e in particolare al fatto che fra i paesi partecipanti c’è anche la Russia – gli organizzatori ancora non hanno reso noto né dove né quando si terranno: i cinque azzurri, scelti fra i 18 vincitori dei Campionati nazionali, sono Gabriele Lambertini (liceo “G. Bruno”, Budrio, BO), Ludovica Rial Corsini (liceo “L. Gigli”, Rovato, BS) e Nicola Bortoluzzi (liceo “Galilei – Tiziano”, Belluno) per la categoria Junior 2 e Raffaello Pio Marino (liceo “T. Campanella”, Reggio Calabria) e Andrea Cusimano (liceo “T. Levi Civita”, Roma) per la categoria Senior.
Piacevolmente sorpresa dall’alto livello della preparazione dei partecipanti, oltre a proclamare i 18 vincitori dei Campionati, che si aggiudicano medaglia “Margerita Hack”, la giuria ha assegnato anche 18 diplomi di merito (l’elenco completo sarà disponibile nei prossimi giorni sul sito dei Campionati). E ora, mentre applaudiamo tutti i finalisti e i vincitori e ci prepariamo a tifare per la nostra squadra nazionale, iniziamo già a pensare all’edizione 2025 dei Campionati italiani di astronomia, la cui finale si terrà a Teramo.
Per saperne di più sui Campionati italiani di astronomia:
Vincitori dei 22esimi Campionati italiani di astronomia:
- Categoria Junior 1: Lorenzo Contrisciani (istituto comprensivo “M. Hack” – Castellalto-Cellino, TE), Alessandro Fabi (istituto comprensivo “Pio Fedi”, Grotte S. Stefano, VT), Andrea Iorfida (istituto comprensivo “Leonardo da Vinci”, Roma), Marco Rosiello (istituto comprensivo “E.Q. Visconti”, Roma) e Francesco Tropenscovino (istituto comprensivo “Parco della Vittoria”, Roma)
- Categoria Junior 2: Nicola Bortoluzzi (liceo scientifico e delle scienze applicate “Galilei – Tiziano”, Belluno), Giuseppe Cateniello (istituto d’istruzione superiore “P. Mazzone”, Roccella Jonica, RC), Gabriele Lambertini (liceo scientifico e delle scienze applicate “G. Bruno”, Budrio, BO), Ludovica Rial Corsini (liceo scientifico e delle scienze applicate “L. Gigli”, Rovato, BS), Andrea Zihan Wang (liceo scientifico e delle scienze applicate “P. Frisi”, Monza)
- Categoria Senior: Riccardo Brunetta (liceo scientifico “G. Leopardi – E. Majorana”, Pordenone), Andrea Cusimano (liceo scientifico “T. Levi Civita”, Roma), Tiziano Grillo (liceo scientifico “A. Moro”, Reggio Emilia), Raffaello Pio Marino (liceo classico “T. Campanella”, Reggio Calabria) e Damiano Paganelli (liceo scientifico “Wiligelmo”, Modena)
- Categoria Master: Chiara Luppino (liceo scientifico e delle scienze applicate “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria), Giuseppe Monaco (liceo scientifico “G. Galilei”, Catania), Matteo Tivan (liceo scientifico e delle scienze applicate “Pellico – Peano”, Cuneo)
Bye (for now), Ingenuity
Non è più in grado di volare già da tre mesi Ingenuity, da quell’atterraggio maldestro del 18 gennaio scorso in cui si sono danneggiate alcune pale del rotore. Tanto che la missione del primo velivolo che ha esplorato i cieli di un altro pianeta era stata dichiarata chiusa pochi giorni dopo, il 25 gennaio. Nonostante questo, Ingenuity continuava a parlare con Perseverance, il suo ponte di comunicazione anche verso Terra. Due giorni fa, però, la distanza dal rover che prosegue nelle sue attività scientifiche allontanandosi, è diventata troppo grande per continuare a comunicare. E il team della Nasa, non senza commozione, ha scaricato gli ultimi dati del piccolo velivolo e gli ha detto addio.
L’elicottero marziano Ingenuity della Nasa, a destra, si trova vicino all’apice di un’ondulazione di sabbia in un’immagine scattata da Perseverance il 24 febbraio, circa cinque settimane dopo il volo finale del velivolo. Parte di una delle pale del rotore di Ingenuity giace sulla superficie a circa 15 metri a ovest dell’elicottero (a sinistra del centro nell’immagine). Crediti: Nasa/ Jpl-Caltech/ Lanl/ Cnes/ Cnrs
Ma l’ingegnoso elicotterino non poteva terminare così la sua carriera. D’altra parte, il nome che gli è stato dato non è scelto a caso, e Ingenuity si reinventa in un nuovo mestiere. Prima di ricevere il messaggio di addio da Ingenuity – contenente i nomi delle persone che hanno lavorato alla missione – il team del Jet Propulsion Laboratory ha caricato un nuovo software con le ultime (definitive) istruzioni. Fermo nella sua attuale posizione, a Valinor Hills, si sveglierà ogni giorno, attiverà i suoi computer di bordo e testerà le prestazioni del pannello solare, delle batterie e delle apparecchiature elettroniche; scatterà quindi una foto della superficie con la sua telecamera a colori e raccoglierà dati sulla temperatura dai sensori posizionati su tutto il velivolo.
Secondo scienziati e ingegneri della Nasa, questa attività quotidiana potrà essere utile ai futuri progettisti di aerei e altri veicoli per il Pianeta rosso, e fornire una prospettiva a lungo termine sui modelli meteorologici marziani e sul movimento della polvere. Anche perché, se nulla dovesse guastarsi e se i pannelli non si copriranno di polvere rossa, la memoria di Ingenuity avrà la capacità di raccogliere dati per circa vent’anni. E a quel punto, qualcuno o qualcosa in viaggio verso Valinor Hills potrebbe approfittarne per recuperarli.
Torneremo a trovarti Ingenuity, intanto sappi che il tuo volo ha fatto la storia e di te si parlerà ancora a lungo.
Nella ricerca di vita aliena, il viola è il nuovo verde
Usando la vita sulla Terra come guida, gli scienziati stanno catalogando i colori e le firme chimiche che una vasta gamma di organismi e minerali presenterebbe nella luce riflessa di un esopianeta. Crediti: Ryan Young/Cornell University
Nella ricerca della vita nell’universo, la familiare tonalità verde che associamo alla vita sulla Terra potrebbe non essere il miglior indicatore. Un pianeta simile al nostro in orbita attorno a un’altra stella potrebbe avere un aspetto molto diverso, potenzialmente ricoperto da batteri che utilizzano la radiazione infrarossa, invisibile all’occhio umano, per alimentare la fotosintesi.
Secondo gli scienziati della Cornell University, molti di questi batteri sulla Terra contengono pigmenti viola e i mondi viola su cui potrebbero essere dominanti produrrebbero una distintiva “impronta luminosa” rilevabile dai telescopi terrestri e spaziali di prossima generazione. «I batteri viola possono prosperare in un’ampia gamma di condizioni, il che li rende uno dei principali contendenti per la vita che potrebbe dominare una varietà di mondi», sostiene Lígia Fonseca Coelho del Carl Sagan Institute (Csi), prima autrice dello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
«Abbiamo bisogno di creare una banca dati per le firme biologiche per assicurarci che i nostri telescopi non si perdano la vita nel caso in cui non assomigliasse esattamente a quella che incontriamo ogni giorno, intorno a noi», aggiunge la coautrice Lisa Kaltenegger, direttrice del Csi. Per questo motivo, utilizzando la vita sulla Terra come guida, il team multidisciplinare di scienziati sta catalogando i colori e le firme chimiche che una vasta gamma di organismi e minerali presenterebbe nella luce riflessa di un esopianeta.
Quelli che vengono chiamati comunemente batteri viola hanno in realtà una gamma di colori che comprende il giallo, l’arancione, il marrone e il rosso, grazie a pigmenti simili a quelli che rendono rossi i pomodori e arancioni le carote. Prosperano con luce rossa o infrarossa a bassa energia, mettendo in atto sistemi di fotosintesi più semplici che sfruttano forme di clorofilla che assorbono gli infrarossi e non producono ossigeno. Per i ricercatori, è probabile che tali batteri fossero presenti sulla Terra primordiale prima dell’avvento della fotosintesi di tipo vegetale e potrebbero essere particolarmente adatti a pianeti che ruotano attorno a stelle nane rosse più fredde, il tipo più comune nella nostra galassia. «Qui prosperano già in alcune nicchie», spiega Coelho. «Immaginate se non fossero in competizione con piante verdi, alghe e batteri: un sole rosso potrebbe offrire loro le condizioni più favorevoli per la fotosintesi».
Dopo aver misurato i biopigmenti e le impronte luminose dei batteri viola, i ricercatori hanno creato modelli di pianeti simili alla Terra con condizioni e copertura nuvolosa variabili. In una serie di ambienti simulati, ha spiegato Coelho, i batteri viola sia umidi che secchi hanno prodotto biofirme dai colori intensi. «Nel caso in cui i batteri viola prosperino sulla superficie di una Terra ghiacciata, di un mondo oceanico, di una Terra a palla di neve o di una Terra moderna in orbita attorno a una stella più fredda, ora abbiamo gli strumenti per cercarli».
L’individuazione di un “pallido punto viola” in un altro sistema solare darebbe il via a intense osservazioni del pianeta per cercare di escludere altre fonti di colore, come i minerali colorati che il Csi sta catalogando.
Lisa Kaltenegger, direttrice del Carl Sagan Institute (Csi) e autrice dello studio pubblicato su Mnras. Crediti: Ryan Young/Cornell University
Kaltenegger, autrice del libro di prossima pubblicazione Alien Earths: The New Science of Planet Hunting in the Cosmos, ritiene che sebbene individuare la vita sia complicato con la tecnologia attuale, nel caso in cui venissero trovati organismi unicellulari in un luogo, ciò suggerirebbe che la vita dovrebbe essere diffusa nel cosmo. Questo rivoluzionerebbe il nostro modo di pensare sull’annosa questione: siamo soli nell’universo?
«Stiamo solo aprendo gli occhi su questi mondi affascinanti che ci circondano», conclude Kaltenegger. «I batteri viola possono sopravvivere e prosperare in una tale varietà di condizioni che è facile immaginare che su molti mondi diversi il viola possa essere il nuovo verde».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Purple is the new green: biopigments and spectra of Earth-like purple worlds” di Lígia Fonseca Coelho, Lisa Kaltenegger, Stephen Zinder, William Philpot, Taylor L Price, Trinity L Hamilton
Galassie vecchie, galassie disordinate
La vecchiaia fa brutti scherzi. E non sembra valere solo per gli esseri umani. Con l’età che avanza, pare infatti che i moti delle stelle si facciano più caotici. A darne notizia è uno studio guidato da Scott Croom, docente dell’ARC Centre of Excellence for All Sky Astrophysics in 3 Dimensions (ASTRO 3D) in Australia, e uscito all’inizio del mese sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Impropriamente abituati a pensare alle stelle come a degli oggetti fissi attorno ai quali orbitano i pianeti, dimentichiamo che pure le stelle si muovono, e vanno pure belle svelte. Basti pensare che il Sole (e noi assieme a lui) in questo momento sta orbitando attorno al centro della Via Lattea ad una velocità di circa duecentoventi chilometri al secondo, ovvero quasi ottocentomila chilometri all’ora.
Il fatto è che le stelle non si muovono tutte allo stesso modo. Esistono infatti galassie i cui astri seguono ordinate traiettorie circolari ed altre in cui i moti caotici regnano sovrani, moti che ricordano un po’ quelli delle molecole in un gas. Ci si è chiesti per anni che cosa determini tale dicotomia. In particolare, i principali indiziati erano ritenuti l’ambiente, ovvero la presenza o meno di altre galassie nei dintorni, e la massa delle galassie stesse.
La ricerca di Croom e collaboratori propone uno scenario diverso. L’età delle popolazioni stellari sembra infatti l’elemento determinante in questa differenziazione. Le stelle nelle galassie giovani si muovono in media più rapidamente e in maniera più ordinata rispetto agli astri che abitano le galassie anziane, nelle quali risulta dominante la componente di moto casuale. In particolare, a parità di età delle galassie prese in esame, differenze nell’ambiente e nella massa sembrano non avere alcuna influenza sui moti delle stelle. «Se trovi una galassia giovane le stelle ruotano ordinatamente, a prescindere dall’ambiente in cui sia immersa, e se trovi una galassia vecchia avrà più orbite casuali, che si trovi in un ambiente denso o in un vuoto», ovvero in un ambiente particolarmente povero di galassie, dice Croom. Allora gli studi precedenti si erano sbagliati? Non proprio, dice il secondo autore dello studio, Jesse van de Sande. «Sappiamo che l’età delle galassie è influenzata dall’ambiente. Se una galassia si trova in un ambiente denso», ovvero ricco di altre galassie, «tenderà ad interrompere la formazione di nuove stelle. Quindi, le galassie che si trovano in ambienti densi sono generalmente più vecchie. Il punto della nostra analisi è che non è vivere in un ambiente denso a ridurre la velocità delle stelle, ma il fatto che le galassie siano più vecchie.»
Una galassia giovane (in alto) e una galassia vecchia (in basso) analizzate nello studio. La componente di rotazione risulta maggiore nella galassia più giovane (seconda colonna), mentre i moti caotici risultano dominante nella galassia più anziana (terza colonna). Crediti: Hyper Suprime-Cam Subaru Strategic Program.
Questo risultato ha delle conseguenze importanti per i modelli di formazione delle galassie. In particolare, la correlazione riscontrata tra età delle popolazioni stellari e moti degli astri consente di escludere alcuni processi e di raffinare i modelli attuali sull’evoluzione delle strutture nell’universo.
E la nostra galassia? Il fatto che l’età delle stelle ne influenzi i moti sembra osservabile anche nella Via Lattea. La Via Lattea infatti è una galassia che continua a formare stelle in una struttura a disco, sottile rispetto alle dimensioni della galassia stessa. E questo è in accordo col fatto che presenti una componente rotazionale importante. Tuttavia, se andiamo a guardare la nostra galassia più nel dettaglio, noteremo l’esistenza di un disco di stelle più diffuso, e dunque caratterizzato da moti più disordinati, e che è in effetti caratterizzato da stelle più vecchie rispetto al disco sottile.
La ricerca è stata realizzata utilizzando i dati di tremila galassie osservate con lo spettrografo SAMI montato sull’Anglo-Australian Telescope in Australia, nell’ambito del programma SAMI Galaxy Survey. Per il futuro è prevista un’espansione dello studio tramite il nuovo spettrografo Hector, che osserverà un numero di galassie cinque volte superiore a quello del programma attuale e con una risoluzione maggiore, consentendo una caratterizzazione più dettagliata dell’età e della velocità delle stelle, oltre che dell’ambiente in cui si trovano le galassie.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “The SAMI Galaxy Survey: galaxy spin is more strongly correlated with stellar population age than mass or environment” di S. M. Croom, J. van de Sande, S. P. Vaughan, T. H. Rutherford, C. P. Lagos, S. Barsanti, J. Bland-Hawthorn, S. Brough, J. J. Bryant, M. Colless, L. Cortese, F. D’Eugenio, A. Fraser-McKelvie, M. Goodwin, N. P. F. Lorente, S. N. Richards, A. Ristea, S. M. Sweet, S. K. Yi e T. Zafar
Transitare lungo i bordi
Rappresentazione artistica di Wasp-39b. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joseph Olmsted (Stsci)
Il metodo dei transiti è tra quelli più utilizzati per l’individuazione di pianeti extrasolari e ha permesso di scoprirne fino a oggi quasi quattromila. Per spiegarlo partiamo dal definire una curva di luce come una misurazione della luminosità di una stella durante un certo periodo di tempo. Gli esopianeti possono lasciare tracce nella curva di luce: se un pianeta passa davanti alla sua stella, ne attenua la luminosità, portando così la curva di luce ad abbassarsi. Valutazioni precise della forma, della durata di tali curve forniscono informazioni sulle dimensioni e sul periodo orbitale del pianeta.
Spiegato così sembrerebbe un meccanismo molto semplice. Ma come accade spesso in ambito scientifico la realtà è assai più complessa. Uno dei problemi emerge dall’impossibilità di riuscire a riprodurre con successo attraverso i modelli teorici tutti i dettagli cruciali delle osservazioni, e questo ostacola un’analisi ancora più precisa dei dati. In un nuovo studio sull’argomento, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy e guidato dal Max Planck Institute for Solar System Research (Mps), gli autori, tra cui ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, dello Space Telescope Science Institute, dell’Università di Keele e dell’Università di Heidelberg, mostrano un modo per superare questo problema.
Fenomeno dell’oscuramento al bordo nel Sole. Crediti: Nasa
Lo studio si basa inizialmente sull’esopianeta Wasp-39b, in orbita attorno alla stella Wasp-39, a 700 anni luce di distanza da noi, nella costellazione della Vergine. Subito è risultato chiaro che i dati raccolti dall’osservazione di questo pianeta non fossero esattamente in linea con i modelli. «I problemi che sorgono nell’interpretare i dati di Wasp-39b», spiega Nadiia Kostogryz, ricercatrice del Mps e prima auttrice dell’articolo, «sono ben noti per molti altri esopianeti, indipendentemente dal fatto che siano osservati con Kepler, Tess, James Webb o il futuro telescopio spaziale Plato. Come con altre stelle intorno a cui orbitano esopianeti, la curva di luce osservata di Wasp-39 è più piatta di quanto possano spiegare i modelli più recenti». Detto altrimenti, la diminuzione della luminosità risulta meno brusca di quanto vorrebbero i modelli. «Era chiaro che mancava un pezzo fondamentale per comprendere precisamente il segnale degli esopianeti», aggiunge Sami Solanki, fra i coautori dello studio. E il tassello mancante, suggeriscono gli autori, è il campo magnetico della stella.
Prima di addentrarci in dettaglio nel perché il campo magnetico non sia da sottovalutare, conviene fare un passo indietro e considerare come è fatta una stella. Il suo “bordo”, cioè il margine del disco stellare, gioca infatti un ruolo importante nell’interpretazione della sua curva di luce. Proprio come nel caso del Sole (figura in alto), a noi osservatori il bordo appare più scuro rispetto all’area interna. Tuttavia, la stella non brilla meno intensamente più lontano da quello che vediamo come centro. «Poiché la stella è una sfera e la sua superficie è curva, man mano che ci spostiamo verso il bordo vediamo strati più “alti” e quindi più freddi rispetto al centro», spiega il direttore dell’Mps Laurent Gizon, fra i coautori dello studio. «Questa area, quindi, ci appare più scura».
Oscuramento al bordo in funzione del campo magnetico e curva di luce durante il transito. Crediti: MPS / hormesdesign.de
Il fenomeno dell’oscuramento al bordo influisce sulla forma esatta del segnale del transito dell’esopianeta nella curva di luce: l’estensione dell’oscuramento determina infatti quanto ripidamente la luminosità di una stella diminuisce durante un transito planetario. Tuttavia, come dicevamo, non è stato possibile riprodurre accuratamente i dati osservativi utilizzando i modelli convenzionali dell’atmosfera stellare. Tenendo però conto, nei modelli, del campo magnetico è stato possibile osservare un effetto importante: l’oscuramento è più pronunciato nelle stelle con un campo magnetico debole, mentre è più debole in quelle con un campo magnetico forte.
Gli autori dello studio sono stati così in grado di dimostrare che la discrepanza tra i dati osservativi e i calcoli del modello scompare se il campo magnetico della stella viene incluso nei calcoli. In particolare, il team di scienziati ha utilizzato dati selezionati dal telescopio spaziale Kepler della Nasa, che ha catturato le curve di luce di migliaia di stelle dal 2009 al 2018. Dal confronto fra i dati reali e il nuovo modello che include anche il campo magnetico, le osservazioni di Kepler vengono riprodotti con successo.
Il campo magnetico, ora che conosciamo il suo effetto sull’oscuramento al bordo della stella, e dunque il suo impatto sulla ripidità delle curve di luce dei transiti, dovrebbe perciò essere tenuto in considerazione, nelle future osservazioni, per ottenere dati ancora più precisi.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Magnetic origin of the discrepancy between stellar limb-darkening models and observations” di Nadiia M. Kostogryz, Alexander I. Shapiro, Veronika Witzke, Robert H. Cameron, Laurent Gizon, Natalie A. Krivova, Hans-G. Ludwig, Pierre F. L. Maxted, Sara Seager, Sami K. Solanki e Jeff Valenti
Guarda l’animazione del transito prodotta dal Max Planck:
Tripudio di galassie in tre nuove immagini del Vst
Il Vst a Paranal. Crediti: Eso/Y. Beletsky
Galassie, lontane e lontanissime. Galassie interagenti, la cui forma è stata scolpita dalla reciproca influenza gravitazionale, ma anche galassie che formano gruppi e ammassi, tenute insieme dalla mutua gravità. Sono le protagoniste di tre nuove immagini rilasciate dal Vlt Survey Telescope (Vst) in occasione del convegno dedicato alle attività scientifiche del telescopio, in corso dal 16 al 18 aprile presso l’Auditorium nazionale dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Napoli.
Il Vst è un telescopio ottico dal diametro di 2,6 metri, costruito completamente in Italia e operativo dal 2011 presso l’osservatorio dello European Southern Observatory (Eso) di Paranal, in Cile. Da ottobre 2022, il telescopio è gestito interamente da Inaf attraverso il Centro italiano di coordinamento per Vst presso la sede Inaf di Napoli, con il 90 per cento del tempo osservativo dedicato alla comunità astronomica italiana. Il Vst è specializzato nelle osservazioni di grandi aree del cielo grazie alla sua fotocamera a grande campo, OmegaCam, un vero e proprio “grandangolo celeste” in grado di immortalare, in ciascuna ripresa, un grado quadrato di cielo, ovvero una porzione della volta celeste larga due volte il diametro apparente della Luna piena. Oltre alle immagini raccolte per la ricerca astrofisica, che per il Vst spazia dalle stelle alle galassie fino alla cosmologia, nell’ultimo anno il telescopio ha condotto un nuovo programma dedicato al grande pubblico, osservando nebulose, galassie e altri oggetti celesti iconici durante alcune notti di Luna piena, nelle quali la luminosità del nostro satellite naturale disturba l’acquisizione dei dati scientifici. Nuove immagini saranno pubblicate nei prossimi mesi.
La galassia Eso 510-G13. Crediti: Inaf/Vst. Acknowledgment: M. Spavone (Inaf), R. Calvi (Inaf)
«Oltre alla ricerca scientifica, uno degli obiettivi del centro Vst è quello di disseminare la conoscenza scientifica e condividere le meraviglie dell’universo con i non-esperti del settore. In particolare, ci piacerebbe che le nuove generazioni di ragazze e ragazzi, attraverso queste fantastiche immagini, possano scoprire ed alimentare l’interesse per l’astrofisica», commenta Enrichetta Iodice, ricercatrice Inaf a Napoli e responsabile del Centro italiano di coordinamento per Vst.
Una delle tre immagini rilasciate oggi ritrae Eso 510-G13, una curiosa galassia lenticolare a circa 150 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione dell’Idra. Spicca il rigonfiamento centrale della galassia, su cui si staglia la silhouette scura del disco di polvere visto di taglio, che ne oscura parte della luce. La forma distorta del disco ricorda vagamente una ‘S’ rovesciata, indice del passato turbolento di Eso 510-G13, che potrebbe aver acquisito la sua attuale conformazione a seguito di una collisione con un’altra galassia. Nell’angolo in basso a destra, tra le tantissime stelle della Via Lattea disseminate nell’immagine, si distingue anche una coppia di galassie a spirale a circa 250 milioni di anni luce da noi. Zoomando nell’immagine, si possono notare molte altre galassie ancora più distanti, visibili come piccole macchie di luce elongate tra i tanti puntini sullo sfondo.
In alto, il gruppo di galassie Hgc 90; in basso, l’ammasso di galassie Abell 1689. Crediti: Crediti: Inaf/Vst. Acknowledgment: M. Spavone (Inaf), R. Calvi (Inaf)
La seconda immagine mostra un piccolo gruppo formato da quattro galassie, chiamato Hickson Compact Group 90 (Hgc 90), che dista circa 100 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, verso la costellazione del Pesce Australe. Le due macchie di luce rotondeggianti vicino al centro dell’immagine sono le galassie ellittiche Ngc 7173 ed Ngc 7176. La striscia luminosa che si biforca e collega queste due galassie è la terza componente del gruppo, la galassia a spirale Ngc 7174: la sua forma singolare tradisce l’interazione in corso tra i tre corpi celesti, che ha strappato loro stelle e gas, rimescolandone la distribuzione. Un alone di luce diffusa avvolge le tre galassie. Non sembra partecipare a questa danza celeste la quarta galassia appartenente al gruppo, Ngc 7172, visibile nella parte superiore dell’immagine: si tratta di una galassia il cui nucleo, solcato da scure nubi di polvere, nasconde un buco nero supermassiccio che divora attivamente il materiale circostante. Il quartetto di galassie Hgc 90 è immerso in una struttura molto più vasta, che comprende decine di galassie, alcune delle quali visibili in questa immagine.
La terza immagine mostra un raggruppamento di galassie molto più ricco e ancora più distante: l’ammasso di galassie Abell 1689, che si può osservare nella costellazione della Vergine. Abell 1689 contiene più di duecento galassie, visibili per lo più come macchie di colore giallo-arancio, la cui luce ha viaggiato per circa due miliardi di anni prima di raggiungere il Vst. L’enorme massa, che oltre alle galassie comprende anche enormi quantità di gas caldo e della misteriosa materia oscura, deforma lo spazio-tempo in prossimità dell’ammasso, che funge così da “lente gravitazionale” sulle galassie ancora più lontane, amplificando la loro luce e creando immagini distorte, in modo non dissimile da quanto farebbe una comune lente ottica. Alcune di queste galassie si possono distinguere sotto forma di puntini e di minuscoli trattini dalla forma leggermente curva, in particolare intorno alle regioni centrali dell’ammasso.
Buco nero stellare record: ben 33 masse solari
I tre buchi neri nella Via Lattea, scoperti da Gaia. Bh3, l’ultimo scoperto, è il secondo più vicino ed è il buco nero stellare più massiccio mai scoperto nella nostra galassia. Crediti: Esa/Gaia/Dpac
Un buco nero di origine stellare, dormiente e massiccio. Tre caratteristiche che, insieme, nella nostra galassia non si erano mai viste. Tre caratteristiche che, prima dell’arrivo del satellite Gaia e della sua rivoluzionaria precisione astrometrica, era impensabile osservare insieme. In un articolo pubblicato oggi su Astronomy and Astrophysics Letters, invece, la notizia: un buco nero di 33 masse solari, dormiente, a soli 1926 anni luce di distanza da noi. Buchi neri simili erano in precedenza stati rilevati solo attraverso l’emissione di onde gravitazionali durante la fusione tra coppie di buchi neri, e sempre in altre galassie.
Terzo in ordine di scoperta, per il satellite Gaia, ma primo in ordine di “peso”: membro di un sistema binario assieme a una vecchia stella di bassa metallicità appartenente all’alone della nostra galassia, Bh3 – o black hole 3, questa la sigla con cui viene indicato – è infatti il buco nero di origine stellare (ovvero che si è formato al termine della vita di una stella) più massiccio che sia stato scoperto finora nella Via Lattea. Quello da 70 masse solari di cui avevamo dato notizia nel 2019, annunciato da un articolo su Nature, è stato infatti ridimensionato da studi successivi, dunque le 33 masse solari di Bh3 lo pongono a oggi in cima al podio.
«Mai mi sarei aspettato di trovare un buco nero così massiccio, così vicino a casa nostra», dice a Media Inaf Pasquale Panuzzo, 52 anni, originario di Reggio Calabria, ingegnere di ricerca Cnrs all’Observatoire de Paris e autore principale dello studio pubblicato oggi su A&AL, al quale hanno preso parte anche numerosi ricercatori dell’Inaf. «Solo Gaia Bh1 è più vicino. E chissà quanti altri “mostri” come questo vagano nei dintorni senza essere rilevabili».
Cominciamo quindi descrivendo le caratteristiche di questo oggetto unico e del sistema in cui abita. Innanzitutto, gli astronomi lo definiscono “dormiente”, ovvero un buco nero che non dà informazione di sé con emissioni sceniche di radiazione (come fanno invece i buchi neri attivi al centro delle galassie, ad esempio). In altre parole, un buco nero che non sta accrescendo massa prelevandola da altri corpi celesti vicini. Perché, quando questo invece avviene, normalmente si forma un disco di accrescimento, dove la materia si scalda per frizione e in cui le temperature raggiunte nelle parti più interne del disco (dell’ordine di milioni di gradi) e nella corona fanno sì che questo diventi luminoso nel lontano ultravioletto e nei raggi X.
Quasi tutti i buchi neri di origine stellare scoperti finora sono di questo tipo, sono “attivi”: si trovano in un sistema binario in cui la stella compagna orbita abbastanza vicino al buco nero da cedergli massa, oppure produce un forte vento stellare che arriva fino all’oggetto oscuro. Vengono quindi scoperti tramite osservazioni con telescopi che vedono ai raggi X, come i satelliti Xmm-Newton e Chandra.
In alto, confronto tre buchi neri stellari della nostra galassia: Gaia Bh1, Cygnus X-1 e Gaia Bh3, le cui masse sono rispettivamente 10, 21 e 33 volte quella del Sole (crediti: Eso/M. Kornmesser). In basso, nel riquadro di sinistra, il movimento orbitale sul cielo della stella (linea blu) e del buco nero (linea rossa) Bh3, confrontate con le misure astrometriche di Gaia (punti neri). La linea tratto-punteggiata indica la posizione del periastro (ovvero il punto dell’orbita in cui buco nero e stella sono più vicini). Le cifre indicano la posizione della stella ogni 2 anni. Nel riquadro di destra, l’evoluzione della velocità radiale della stella (linea blu) confrontata con le misure ottenute con lo strumento Rvs di Gaia (punti neri) e con tre spettrografi su telescopi a terra (Uves al Vlt dell’Eso, Hermes al telescopio Mercator (Las Palmas) e Sophie al telescopio da 1.95 metri all’Observatoire de Haute Provence (cliccare per ingrandire). Crediti: Gaia collaboration, Panuzzo et al. (2024), A&A Letters
Buchi neri dormienti, invece, si possono scoprire attraverso il fenomeno del microlensing, quando il buco nero passa tra noi e una stella più lontana, e come conseguenza noi vediamo la luminosità della stella lontana aumentare a causa della lente gravitazionale generata dal buco nero; oppure, se il buco nero ha una stella compagna, si possono trovare misurando l’orbita della compagna attorno al buco nero con la tecnica delle velocità radiali, o ancora misurandone l’astrometria come nel caso dei tre buchi neri scoperti da Gaia nella nostra galassia.
Nel caso di Bh3, dunque, l’orbita della stella compagna attorno al centro di massa comune è di circa 11.6 anni. Significa che, considerando i 5.5 anni di dati già elaborati dal satellite, Gaia è stata in grado di mappare metà della sua orbita. Un tempo sufficiente per distinguere l’oscillazione nella posizione e nel moto della stella compagna.
«L’orbita della stella attorno a Bh3 è molto grande, 27 milliarcosecondi, rispetto alla precisione delle misure astrometriche di Gaia (qualche decimo di milliarcosecondi)», spiega Panuzzo. «Il fatto che sia stato trovato da Gaia e non da altri è dovuto innanzitutto al suo periodo orbitale molto lungo, e in secondo luogo al fatto che si tratta di un oggetto raro, e quindi bisogna osservare tutto il cielo per avere la possibilità concreta di scovarlo».
Dopo averlo osservato con Gaia, per confermarne la natura il sistema è stato osservato anche con diversi telescopi a terra. Ne è stato innanzitutto cercato lo spettro nell’archivio dell’Eso, e sono state poi effettuate osservazioni di follow-up con lo spettrografo Hermes al telescopio Mercator a La Palma (Isole Canarie), e con lo spettrografo Sophie all’Observatoire Haute Provence in Francia. Le velocità radiali ottenute con questi osservatori a terra hanno confermato le caratteristiche orbitali del sistema.
Non solo, le osservazioni fotometriche hanno consentito di stimare che l’età della stella compagna sia circa 11 miliardi di anni, e quelle spettroscopiche (provenienti dallo spettrografo Uves del Vlt) di affermare che abbia una bassa metallicità. In altre parole, la stella compagna di Bh3 è molto vecchia e si è formata in un ambiente povero di metalli, e quindi pressoché incontaminato. Farebbe parte della cosiddetta Popolazione II di stelle, fra le prime a essersi formate in un universo in cui molti luoghi erano ancora “vergini”.
Caratteristica, questa, a supporto di una delle teorie più accreditate circa la formazione di buchi neri stellari così massicci.
«Buchi neri di questa massa sono stati osservati con le onde gravitazionali in galassie esterne, ma i modelli di evoluzione stellare non riescono a spiegarli, se non supponendo che siano formati da stelle massicce a bassa metallicità», dice Panuzzo. «Il nostro buco nero è dunque il primo scoperto nella nostra galassia equivalente ai buchi neri di grande massa osservati con le onde gravitazionali. Inoltre, il fatto che abbia come compagna una stella di bassa metallicità ci dice che anche lui è stato formato da una stella a bassa metallicità. Questa scoperta è quindi la prima conferma di quei modelli che spiegano i buchi neri di grande massa visti con le onde gravitazionali come dovuti a stelle di bassa metallicità».
Pasquale Panuzzo, 52 anni, originario di Reggio Calabria, autore principale dell’articolo che descrive la scoperta di Bh3.
Infine, una particolarità: questo sistema sembrerebbe non essere farina del nostro sacco. Di quello della Via Lattea, s’intende.
«Un punto importante che non abbiamo trattato nell’articolo, e che approfondiremo al più presto, è l’origine di questo sistema», spiega infatti Panuzzo. «Sappiamo che ha un’orbita retrograda nella nostra galassia (ovvero ruota nella galassia nel senso opposto delle stelle del disco galattico), e probabilmente appartiene ad un antico ammasso globulare ora distrutto. Se questo fosse vero, darebbe ragione ad alcuni modelli che dicono che i sistemi binari buco nero-stella con orbita larga (come quelli trovati da Gaia, e come questo), sono prodotti in ammassi tramite un processo di scambio dinamico, in cui il buco nero “ruba” una stella da un altro sistema binario passandoci vicino».
Una scoperta unica, quella di Bh3, che lascia però molti punti interrogativi. Tanto che queste osservazioni non definiscono che l’inizio dello studio di questo sistema.
«Ovviamente abbiamo in mente qualche follow-up», conclude Panuzzo, «ma preferirei che fosse sottolineato che la scoperta è stata annunciata per permettere alla comunità intera di fare i propri follow-up. Il consorzio Dpac (quello che produce i cataloghi delle osservazioni di Gaia, ndr) è stato fatto per fornire i dati Gaia alla comunità, ed è quindi una missione di servizio verso la comunità, che userà i dati per fare ricerca. Sono sicuro che il giorno stesso della pubblicazione ci sarà chi proporrà osservazioni, ad esempio, con Chandra e Xmm-Newton nei raggi X, per vedere se la compagna di Bh3 non produca un po’ di vento stellare “ingoiato” dal buco nero».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics Letters l’articolo “Discovery of a dormant 33 solar-mass black hole in pre-release Gaia astrometry“, di Gaia collaboration, Pasquale Panuzzo, et al.
- Leggi su Media Inaf l’intervista a Mario Lattanzi “Che fine ha fatto il buco nero da 70 masse solari?”
- Leggi la press release dell’Esa
- Leggi la press release dell’Eso
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Che fine ha fatto il buco nero da 70 masse solari?
Mario Lattanzi, dirigente di ricerca all’Inaf di Torino e coautore sia dell’articolo pubblicato su Nature nel 2019 sul buco nero Lb-1 sia di quello pubblicato oggi su ApJL su Bh3, il buco nero da 33 masse solari. Crediti: Inaf
È di oggi l’annuncio della scoperta del buco nero di massa stellare più grande a oggi noto nella nostra galassia, la Via Lattea. Si trova a meno di duemila anni luce da noi, è stato chiamato Bh3 – essendo il terzo oggetto di questo tipo individuato grazie al telescopio spaziale Gaia dell’Agenzia spaziale europea – e la sua massa stimata è pari a 33 volte quella del Sole. Va sottolineato che parliamo di un buco nero di massa stellare, dunque di una categoria completamente diversa rispetto ai “pesi massimi” che si trovano al centro delle galassie – nel caso della nostra, il buco nero supermassiccio Sagittarius A*, un mostro da oltre quattro milioni di masse solari. L’annuncio odierno potrebbe comunque lasciare perplessi, perché qualche anno fa – era il 2019 – avevamo dato notizia di un altro buco nero della Via Lattea – si chiama Lb-1, ed è anch’esso di massa stellare – da ben 70 masse solari. Enorme, dunque, al punto che avevamo intitolato la news “Quel buco nero non dovrebbe esistere”.
Che fine ha fatto, Lb-1? Come mai è stato spodestato da un oggetto, il buco nero Bh3 annunciato oggi, che pesa poco più della metà? E cosa c’è di diverso, fra le due scoperte? Per capirlo abbiamo raggiunto uno degli autori dello studio pubblicato su Nature nel 2019, l’astrofisico Mario Lattanzi dell’Inaf di Torino.
Lattanzi, che è successo a Lb-1? Vi eravate sbagliati? Non esiste, quel buco nero?
«Esiste, esiste. Era stato individuato attraverso una survey spettroscopica con il metodo delle velocità radiali, lo stesso che si usa per cercare gli esopianeti. In quel caso, esattamente come nel caso di Bh3, si trattava infatti di un buco nero in un sistema binario, e quel che si vedeva era il moto della stella compagna che gli orbitava attorno. Solo che, mentre quando sono in gioco i pianeti osserviamo velocità radiali che si misurano in metri al secondo, nel caso della stella in orbita attorno a Lb-1 erano decine di chilometri al secondo. Insomma, è fuori dubbio che le ragioni che il sistema Lb-1 contenga un buco nero sono ancora tutte in campo. Ma è sempre più probabile che la sua massa andrà ridimensionata. Il fatto è che si tratta di un oggetto problematico».
In che senso, problematico?
«Anzitutto, l’oggetto osservato spettroscopicamente era una stella Be, caratterizzata da righe di emissione, più emissione nella riga Hα dovuta ad un disco di gas attorno alla compagna invisibile. Dunque era un oggetto piuttosto complesso, e non si capiva bene se il periodo misurato di circa 80 giorni era relativo al moto del disco di materia attorno alla stella invisibile o al moto orbitale della stessa Be. Insomma, c’erano alcune ambiguità. I dati astrometrici di Gaia, che fornimmo ai colleghi cinesi, permisero di porre un primo vincolo: sicuramente era un sistema binario, dunque c’era senza dubbio qualcosa che causava la forte variazione periodica nella velocità radiale osservata. Ma a differenza del buco nero Bh3, che dista meno di duemila anni luce da noi, Lb-1 era molto lontano. Non solo: non era facile stabilire esattamente quanto. Dobbiamo infatti ricordare che, nel 2019, erano disponibili solo i dati della seconda release di Gaia, la Dr2».
Rappresentazione artistica del sistema composto dal buco nero Lb-1 e dalla sua stella compagna. Crediti: Jingchuan Yu
E questo è rilevante per il calcolo della massa?
«Sì, certo. Per derivare la massa di un oggetto dall’osservazione della variazione delle velocità radiali occorre conoscere alcuni parametri del sistema. L’inclinazione dell’orbita rispetto a noi che la osserviamo, per esempio: minore è l’inclinazione e maggiore è la massa “vera” rispetto alla massa minima che noi stimiamo. Purtroppo il periodo orbitale di Lb-1 era attorno agli ottanta giorni: un’orbita quindi relativamente troppo breve e stretta per consentire a una survey come quella di Gaia un’agevole ricostruzione astrometrica dell’inclinazione dell’orbita della stella del sistema Lb-1 attorno al buco nero. Un altro parametro è appunto la distanza. È solo con la Dr3 – la terza release dei dati di Gaia – che abbiamo potuto stimare la distanza di Lb-1 da noi in modo affidabile: 2,78 kiloparsec (circa novemila anni luce), dunque molto meno degli oltre quattro kiloparsec delle stime iniziali suggerite dai dati spettroscopici. E questo ha un ovvio impatto sulla stima della separazione lineare tra la stella Be dal buco nero, visto che l’effetto astrometrico va con l’inverso della distanza».
Riepilogando: il buco nero in Lb-1 c’è, ma la sua massa non è di 70 masse solari come avevate riportato nell’articolo su Nature del 2019…
«Il ragionamento che facemmo quando arrivarono i dati della terza release fu questo: se la massa fosse stata quella che avevamo riportato, nonostante si fosse quasi dimezzata la distanza dell’oggetto avremmo comunque dovuto vedere un segnale astrometrico orbitale almeno doppio di quello che in realtà si vede. Ecco allora che occorre diminuire la massa: grosso modo da 70 a 35 masse solari. In realtà il calcolo non è così lineare, comunque parliamo di un valore che guarda caso si avvicina alle 33 masse solari di Bh3, il buco nero del nuovo studio».
Ecco, veniamo al “nuovo” buco nero, Bh3, il protagonista dello studio pubblicato oggi. Il metodo con il quale è stato scoperto è esattamente lo stesso di Lb-1?
«Sì, il metodo è identico, anche se, contrariamente a Lb-1, in questo caso la scoperta è tutta di Gaia visto che l’oggetto non era noto come binaria spettroscopica. Quando il gruppo di Gaia che si occupa di binarie s’imbatte in uno di questi sistemi, se si vede un solo membro della coppia subito inizia a sospettare la possibile presenza di un “compagno oscuro”, diciamo».
Se il metodo è lo stesso, perché in questo caso il risultato dovrebbe essere più affidabile?
«Perché questa volta siamo stati fortunati, molto più fortunati. Primo, Bh3 è molto più vicino a noi di Lb-1: si trova a meno di duemila anni luce, dunque attorno a mezzo kiloparsec. Seconda differenza fondamentale, il periodo orbitale è enormemente più lungo: 11 anni, rispetto agli 80 giorni di Lb-1. Parliamo di un periodo orbitale paragonabile a quello di Giove attorno al Sole. Due aspetti questi – distanza ravvicinata e orbita ampia – favorevolissimi per misure di tipo astrometrico come quelle di Gaia. Con i dati preliminari della Dr4, in particolare, abbiamo una copertura di oltre cinque anni: praticamente mezza orbita. Il che ha consentito una ricostruzione dell’orbita estremamente accurata».
Insomma, questa volta siete ragionevolmente certi che si tratti davvero del buco nero di massa stellare più grande a oggi scoperto nella nostra galassia?
«Sì, è sicuro: essendo riusciti a determinare l’inclinazione dell’orbita con grande precisione, l’errore sulla stima della massa del buco nero questa volta è veramente piccolo. Siamo attorno alle 35 masse solari: una scoperta straordinaria. Un numero destinato a diventare una pietra miliare per l’astrofisica stellare».
Perché?
«Perché a questo punto non si scappa: buchi neri stellari di grande massa esistono, dunque è necessario che i teorici rimettano mano alle teorie sui meccanismi della loro formazione. E proprio a questo proposito va sottolineata un’altra differenza fra i due sistemi: mentre Lb-1 era un candidato formidabile, ideale per studiare la formazione di questi oggetti, proprio perché era un oggetto con una compagna massiccia di tipo B che in qualche modo stava alimentando il buco nero, nel caso di Bh3 siamo di fronte a un buco nero probabilmente vecchio attorno al quale orbita una stella relativamente giovane e dall’orbita larga. L’ipotesi è dunque che non si siano formati insieme, ma che la stella, passandogli accanto, sia stata “catturata” dal buco nero».
E di Lb-1 sentiremo ancora parlare? Non è che torna a scippare il record a Bh3?
«Se ne parlerà ancora, certo, ma le nostre ultime stime dicono che siamo addirittura sotto alle 15 masse solari. In ogni caso al di sotto delle 20 masse solari. Dunque no, il record di Bh3 per il momento è al sicuro».
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’articolo del 2019 su Lb-1 “Quel buco nero non dovrebbe esistere”
- Leggi su Media Inaf l’articolo del 2024 su Bh3 “Buco nero stellare record: ben 33 masse solari”
A Brera, un tesoro inventariato
Inventario dell’archivio storico dell’Osservatorio astronomico di Brera e degli archivi aggregati (1737-2003). A cura di Agnese Mandrino e Raffaella Gobbo. Progettazione e realizzazione informatica: Cristina Bernasconi (con la collaborazione di Cristina Zangelmi). Copertina: Laura Barbalini
È da pochi giorni online il nuovo inventario dell’archivio storico dell’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Brera, dopo un lavoro di riordino e inventariazione pluridecennale, curato dalla scrivente – Agnese Mandrino – e Raffaella Gobbo, con la collaborazione di esperti informatici, storici della scienza e astronomi.
L’inventario è lo strumento principale per scoprire cosa l’archivio custodisce, per muoversi tra oltre 1400 cartelle colme di documenti e registri rilegati, per avviare le ricerche, per camminare attraverso la storia dell’Osservatorio e della società della quale faceva parte.
Fra gli osservatori astronomici italiani, quello di Brera fu il primo, nel lontano 1987, a pubblicare l’inventario del proprio archivio, facendo così emergere gli aspetti della storia istituzionale e scientifica della Specola ma anche l’importanza degli osservatori come fonti per lo studio della storia dell’astronomia, dando il via a iniziative che hanno permesso di riordinare e inventariare anche gli archivi storici degli altri osservatori astronomici italiani.
Nel corso degli anni, però, un’altra mole incredibile di carte era venuta alla luce: carte disperse in stanze allora abbandonate dell’Osservatorio, negli uffici degli astronomi, tra i libri della biblioteca. Anche queste carte, ci si rese subito conto, dovevano essere raccolte e ripulite, e poi riordinate ed inventariate per essere messe a disposizione degli studiosi come un tesoro prezioso.
Tra esse, ad esempio, una delle serie più lunghe al mondo di osservazioni magnetiche e meteorologiche, a partire dalla seconda metà del Settecento, oppure le carte appartenute a Emilio Bianchi, deus ex machina della politica astronomica italiana nel Ventennio e uno dei maggiori studiosi delle questioni legate al volo delle aeronavi, e ancora l’intero corpus documentario della Società astronomica italiana, con i documenti del 1938 legati alla persecuzione degli astronomi ebrei.
In un archivio non c’è mai un documento più importante di un altro, tutto dipende dall’interesse e dal campo di azione dello studioso che se ne serve: a volte anche un insignificante pezzettino di carta si rivela indispensabile per dar corpo a una ricerca. Ma, a lavoro concluso, ricordiamo che in archivio si possono trovare oltre trentamila lettere di personaggi che vanno da Pierre Simon Laplace e Ruggero Boscovich a Cesare Beccaria e Napoleone I Bonaparte, materiale cartografico relativo alla realizzazione, nel 1787, della prima carta della Lombardia redatta con criteri scientifici, fotografie scattate da dirigibili in volo, passando per Marte, con i diari osservativi e i disegni senza tempo di Giovanni Schiaparelli.
«Il nuovo inventario del nostro archivio storico apre nuove frontiere di ricerca che aspettano soltanto di essere esplorate», dice Roberto Della Ceca, direttore dell’Inaf di Brera. «L’archivio è aperto e gli studiosi saranno perciò i benvenuti presso la nostra sede di Brera, proprio sotto la cupola della quale Schiaparelli fece le sue osservazioni del Pianeta rosso».
Per saperne di più:
La causa di Boat? Il collasso di una stella massiccia
Impressione artistica di Grb 221009A che mostra gli stretti getti relativistici, che emergono dal buco nero centrale, che danno origine al Grb. Grazie a Jwst, gli autori hanno rivelato la supernova, confermando che Grb 221009a è il risultato del collasso di una stella massiccia. Inoltre, hanno scoperto che l’evento si è verificato in una regione di formazione stellare densa della sua galassia ospite, come rappresentato dalla nebulosa sullo sfondo. Crediti: Aaron M. Geller / Northwestern / Ciera / IT Research Computing and Data Services
Finis coronat opus dicevano i latini, ovvero «la fine corona l’opera». Non è forse vero che le cose se non hanno una fine cominciano a diventare noiose? Alcune stelle, chissà magari per paura di diventarlo, hanno un finale a dir poco esplosivo. È il caso delle supernove, originate da stelle massicce che nelle fasi finali della loro vita collassano e successivamente esplodono.
Le supernove sono conosciute, più o meno nel dettaglio, da molto tempo: già alcuni popoli antichi sapevano della loro esistenza, o almeno le avevano viste, anche se non ne avevano compreso il processo alla base. Si può dire che siano un fenomeno piuttosto “normale”.
Eppure, il 9 ottobre 2022 un team internazionale di ricercatori, compresi gli astrofisici della Northwestern University, ha osservato il lampo di raggi gamma (Grb acronimo di gamma ray burst) più luminoso mai registrato: Grb 221009A. Il lampo è stato così brillante che, quando ha “investito” la Terra, ha saturato la maggior parte dei rivelatori di raggi gamma del mondo.
Ora, un team guidato dalla Northwestern, usando il telescopio spaziale James Webb (Jwst), ha confermato che il fenomeno responsabile dell’esplosione storica – soprannominata Boat, dall’inglese brightest of all time – è il collasso e successiva esplosione di una stella massiccia.
Questa scoperta – pubblicata oggi sul Nature Astronomy – ha risolto un mistero, ma ne ha acuito un altro. Infatti, i ricercatori avevano ipotizzato che all’interno della supernova appena scoperta potessero esserci evidenze di elementi pesanti, come platino e oro, ma dopo un’estesa ricerca non sono state trovate le tracce che accompagnano questi elementi. L’origine degli elementi pesanti nell’universo continua a rimanere una delle più grandi domande aperte dell’astronomia.
«Quando abbiamo confermato che il Grb è stato generato dal collasso di una stella massiccia, questo ci ha dato l’opportunità di testare l’ipotesi su come alcuni degli elementi più pesanti nell’universo si siano formati», riferisce Peter Blanchard della Northwestern, che ha guidato lo studio. «Non abbiamo visto le tracce di questi elementi pesanti, ciò suggerisce che Grb estremamente energetici come Boat non li producano. Questo non significa che tutti i Grb non li producano, ma è un’informazione chiave mentre continuiamo a capire dove si formano questi elementi pesanti. Future osservazioni con Jwst determineranno se i cugini “normali” di Boat producono questi elementi».
La potente esplosione in oggetto si è verificata a circa 2,4 miliardi di anni luce lontano dalla Terra, nella direzione della costellazione della Sagitta, ed è durata alcune centinaia di secondi. Mentre gli astronomi si affrettavano a osservare l’origine di questo fenomeno incredibilmente luminoso, sono stati immediatamente colpiti da un senso di stupore. «Da quando siamo stati in grado di rilevare Grb, non c’è dubbio che questo Grb sia il più brillante a cui abbiamo mai assistito, di un fattore 10 o più», afferma Wen-fai Fong, professoressa associata di fisica e astronomia al Northwestern’s Weinberg College of Arts and Sciences e membro del Ciera.
«L’evento ha prodotto alcuni dei fotoni con la più alta energia mai registrati dai satelliti progettati per il rilevamento di raggi gamma», dice Blanchard. «La Terra vede eventi simili solo una volta ogni 10mila anni. Siamo fortunati a vivere in un’epoca in cui disponiamo della tecnologia per rilevare queste esplosioni che si verificano in tutto l’universo».
Piuttosto che osservare immediatamente l’evento, Blanchard, la sua collaboratrice Ashley Villar della Harvard University e il loro team hanno osservato il lampo gamma durante le sue fasi successive, in particolare circa sei mesi dopo il primo rilevamento. «Il Grb era così luminoso che ha oscurato qualsiasi potenziale firma di supernova nelle prime settimane e mesi dopo lo scoppio», riferisce Blanchard. «In quei momenti, il cosiddetto bagliore residuo del Grb era come i fari di un’auto che ti viene incontro, impedendoti di vedere l’auto stessa. Quindi, abbiamo dovuto aspettare che svanisse in modo significativo per darci la possibilità di vedere la supernova».
Blanchard ha utilizzato lo spettrografo per il vicino infrarosso del Jwst per osservare la luce dell’oggetto alle lunghezze d’onda dell’infrarosso. È stato allora che ha visto la caratteristica firma di elementi come il calcio e l’ossigeno tipicamente presenti all’interno una supernova che però in questo caso, sorprendentemente, non era eccezionalmente luminosa. «Non è più luminosa delle supernove precedenti», dice Blanchard. «Sembra abbastanza normale rispetto alle altre supernove associate a Grb meno energetici. Ci si aspetterebbe che la stella che collassando produce un Grb molto energetico e luminoso, produca anche una supernova molto energetica e luminosa. Ma si è scoperto che non è così. Abbiamo questo Grb estremamente luminoso, ma una supernova normale».
Dopo aver confermato – per la prima volta – la presenza della supernova, Blanchard e i suoi collaboratori hanno cercato prove di elementi pesanti al suo interno. Attualmente gli astrofisici hanno un quadro incompleto di tutti i meccanismi dell’universo che possono produrre elementi più pesanti del ferro. Il meccanismo primario per la produzione di elementi pesanti — i processi di cattura neutronica rapidi — richiedono un’alta concentrazione di neutroni. Finora gli astrofisici hanno confermato solo la produzione di elementi pesanti tramite questo processo nella fusione di due stelle di neutroni, rilevata nel 2017 dal Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (Ligo). Ma gli scienziati dicono che ci devono essere altri modi per produrre questi materiali sfuggenti. Ci sono troppi elementi pesanti nell’universo e troppe poche fusioni di stelle di neutroni.
«C’è probabilmente un’altra sorgente», dice Blanchard. «Ci vuole molto tempo affinché le stelle di neutroni binarie si fondano. Due stelle in un sistema binario devono prima esplodere per lasciare dietro di sé stelle di neutroni. Quindi, possono volerci miliardi e miliardi di anni perché le due stelle di neutroni si avvicinino sempre di più e infine si fondano. Ma le osservazioni di stelle molto antiche indicano che parti dell’universo erano già arricchite di metalli pesanti prima che la maggior parte delle stelle di neutroni binarie avesse avuto il tempo di fondersi. E questo ci sta indicando un canale alternativo».
Gli astrofisici hanno ipotizzato anche che gli elementi pesanti potrebbero essere prodotti dal collasso di una stella massiccia in rapida rotazione – la tipologia di stella che ha generato Boat. Blanchard ha quindi studiato gli strati interni della supernova, dove dovrebbero essersi formati gli elementi pesanti, utilizzando lo spettro infrarosso ottenuto dal Jwst. «Il materiale esploso della stella è opaco nei primi tempi, quindi è possibile vedere solo gli strati esterni», spiega Blanchard. «Ma una volta che si espande e si raffredda, diventa trasparente. Quindi si possono vedere i fotoni proveniente dallo strato interno della supernova. Inoltre, diversi elementi assorbono ed emettono fotoni a diverse lunghezze d’onda, a seconda della loro struttura atomica, conferendo a ciascun elemento una firma spettrale unica. Perciò, osservare lo spettro di un oggetto può dirci quali elementi sono presenti. Dopo aver esaminato lo spettro di Boat non abbiamo visto alcuna traccia di elementi pesanti, il che suggerisce che eventi estremi come Grb 221009A non ne sono fonti primarie. Questa è un’informazione cruciale mentre continuiamo a cercare di individuare dove si formano gli elementi più pesanti».
Il lampo gamma Grb 221009A osservato dal telescopio Gemini South, in Cile, il 14 ottobre 2022
Per separare la luce della supernova da quella del bagliore residuo che l’ha preceduta, i ricercatori hanno accoppiato i dati Jwst con le osservazioni dell’Atacama Large Millimeter/ Submillimeter Array (Alma) in Cile. «Anche diversi mesi dopo la scoperta dell’esplosione, il bagliore residuo era abbastanza luminoso da contribuire notevolmente alla luce negli spettri Jwst», dice Tanmoy Laskar, assistente professore di fisica e astronomia alla University of Utah e coautore dello studio. «La combinazione dei dati dei due telescopi ci ha aiutato a misurare esattamente quanto fosse luminoso il bagliore residuo al momento delle nostre osservazioni con Jwst e ci ha permesso di estrarre accuratamente lo spettro della supernova».
Anche se gli astrofisici devono ancora scoprire come una supernova “normale” e un Grb da record siano stati prodotti dal collasso della stessa stella, Laskar sostiene che potrebbe essere correlato alla forma e struttura dei getti relativistici. Quando ruotano rapidamente, le stelle massicce collassano in buchi neri, e producono getti di materiale che lanciano a velocità vicine alla velocità della luce. Se questi getti sono stretti, producono un raggio di luce più concentrato — e più luminoso. «È come focalizzare il raggio di una torcia elettrica in una colonna stretta, invece di un raggio ampio che attraversa un intero muro», dice Laskar. «Infatti, questo era uno dei getti più stretti visti finora per un lampo di raggi gamma, il che ci dà un indizio sul motivo per cui il bagliore residuo appariva così luminoso come era. Potrebbero esserci altri fattori responsabili; questa è una questione che i ricercatori studieranno negli anni a venire».
Ulteriori indizi potrebbero arrivare anche da futuri studi della galassia in cui Boat si è verificato. «Oltre allo spettro di Boat, abbiamo ottenuto anche uno spettro della sua galassia “ospite”», riporta Blanchard. «Lo spettro mostra segni di intensa formazione stellare, suggerendo che l’ambiente in cui è nata la stella originale potrebbe essere diverso da quello degli eventi precedenti». Yijia Li della Penn State ha modellato lo spettro della galassia, scoprendo che ha la metallicità (una misura dell’abbondanza di elementi più pesanti di idrogeno ed elio) più bassa di tutte le precedenti galassie ospiti di Grb. «Questo è un altro aspetto unico di Boat che potrebbe aiutare a spiegare le sue proprietà», conclude Li.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “JWST detection of a supernova associated with GRB 221009A without an r-process signature” di Peter K. Blanchard, V. Ashley Villar, Ryan Chornock, Tanmoy Laskar, Yijia Li, Joel Leja, Justin Pierel, Edo Berger, Raffaella Margutti, Kate D. Alexander, Jennifer Barnes, Yvette Cendes, Tarraneh Eftekhari, Daniel Kasen, Natalie LeBaron, Brian D. Metzger, James Muzerolle Page, Armin Rest, Huei Sears, Daniel M. Siegel e S. Karthik Yadavalli.
Così la Luna si è capovolta
Illustrazione artistica che mostra la mappa delle anomalie gravitazionali nel lato visibile della Luna e la sezione trasversale del nostro satellite con cumuli di ilmenite rimasti sotto la superficie dopo il ribaltamento del mantello. Crediti: drien Broquet/University of Arizona & Audrey Lasbordes
Circa 4,5 miliardi di anni fa, un piccolo corpo delle dimensioni di Marte, chiamato Theia, si è schiantato contro il nostro pianeta, scaraventando grandi quantità di roccia fusa nello spazio. Lentamente, questi detriti si sono aggregati, raffreddati e solidificati, formando la Luna. A oggi, questo scenario – conosciuto come Teoria dell’impatto gigante – è l’ipotesi più accreditata dalla maggior parte degli scienziati per spiegare la formazione del nostro satellite naturale. Tuttavia, i dettagli di come ciò sia accaduto non sono ancora chiari. Quale sia l’esatto processo che abbia forgiato la Luna non è l’unica domanda che si pongono gli scienziati. Ce n’è un’altra, anzi due, che hanno a che fare con la sua evoluzione, in particolare con la sua composizione interna, che attendono ancora una risposta.
Il nostro satellite naturale presenta sulla sua superficie rocce vulcaniche contenenti un minerale molto denso, ricco di titanio e Kreep – acronimo inglese di kalium (potassio), rare earth elements (terre rare) e phosphorus (potassio). Questo minerale, chiamato ilmenite, è distribuito diversamente nelle due facce, visibile e nascosta, del nostro satellite, con la prima che presenta quantità maggiori rispetto al lato nascosto. Come è possibile che un minerale così denso sia presente in superficie? E ancora: quale processo lo ha concentrato nel lato visibile, rendendo il nostro satellite composizionalmente sbilenco?
Una possibile risposta a queste domande è arrivata nel 2022 grazie alle simulazioni condotte da un team di scienziati guidati dall’Università di Pechino. Secondo questo studio, la ilmenite si sarebbe depositata in superficie in seguito alla solidificazione di un oceano globale di magma. Questa solidificazione sarebbe avvenuta sopra a strati di roccia meno densi, provocando un’instabilità gravitazionale che è alla base di quello che gli addetti ai lavori chiamano ribaltamento del mantello. Secondo questo processo, nei millenni che seguirono la formazione della Luna, il minerale denso è sprofondato nel mantello, sciogliendosi e mescolandosi al suo interno, ma è poi ritornato in superficie sotto forma di lava, dove lo troviamo oggi in forma solidificata. In questo scenario, la concentrazione del minerale sul lato visibile della Luna sarebbe avvenuta prima del ribaltamento. I modelli suggeriscono infatti che il materiale ricco di titanio nella crosta sia prima migrato verso il lato più vicino della Luna; una migrazione probabilmente innescata da un gigantesco impatto sul lato opposto – l’impatto che ha formato il bacino Polo Sud-Aitken, il più grande bacino da impatto presente sulla Luna. Solo successivamente il minerale è sprofondato, ritornando infine in superficie con il ribaltamento.
Sebbene questo scenario sia molto interessante, fino a oggi non è stato avvalorato da prove osservative. Fino a oggi, appunto. Ora un team di ricerca guidato dall’Università dell’Arizona queste prove le ha trovate.
Nel nuovo studio, i cui risultati sono pubblicati su Nature Geoscience, i ricercatori hanno condotto simulazioni che modellano l’evoluzione nel tempo degli strati ricchi di ilmenite, il minerale contenente ferro e titanio (FeTiO3), comune nelle rocce lunari basaltiche. Hanno quindi confrontato questi modelli geodinamici con i dati di gravità ottenuti dal Gravity Recovery and Interior Laboratory (Grail), una missione della Nasa le cui sonde hanno rilevato anomalie lineari nella gravità localizzate proprio sulla faccia visibile della Luna.
Le indagini gravitazionali si basano sul principio che le variazioni della densità del sottosuolo provochino corrispondenti variazioni del campo gravitazionale locale. Materia ad alta densità, come ad esempio la ilmenite, esercita un’attrazione gravitazionale più forte rispetto ai materiali a bassa densità. Misurando queste variazioni gravitazionali, come ha fatto la missione Grail, gli scienziati possono dedurre la distribuzione di diversi tipi di rocce sotto la superficie lunare.
Tre immagini diverse della Luna. Da destra a sinistra: La visione familiare della Luna; una visualizzazione della distribuzione del Titanio; la mappa della anomalie gravitazionali rilevate dalla missione Grail, interpretate come la prima evidenza fisica del ribaltamento globale del mantello globale. Crediti: Adrien Broquet/University of Arizona
Confrontando i dati osservativi e i modelli, gli scienziati hanno scoperto che le variazioni di gravità misurate dalla missione Grail erano perfettamente coerenti con le simulazioni. E in entrambi, modelli e dati osservativi, ci sono le tracce di cumuli contenenti ilmenite nel mantello: la firma del minerale rimasto dopo il ribaltamento globale. Dati e modelli, dunque, raccontano la stessa storia; la storia dell’evoluzione del nostro satellite naturale.
«Le nostre analisi mostrano che le rocce ricche di ilmenite sono prima migrate muovendosi superficialmente verso il lato visibile della Luna e successivamente sono sprofondate all’interno del satellite in cascate simili a lamine, lasciandosi dietro le tracce che sono alla base delle anomalie nel campo gravitazionale rilevate da Grail», dice Weigang Liang, ricercatore presso il Lunar and Planetary Laboratory dell’Università dell’Arizona e primo autore della pubblicazione.
Nella loro indagine, i ricercatori vincolano anche la tempistica di questo evento. Le anomalie gravitazionali sono interrotte a livello dei più grandi e antichi bacini da impatto presenti sul lato visibile della Luna, e quindi devono essersi formate prima, sottolineano i ricercatori. Sulla base delle loro analisi, gli autori suggeriscono che lo strato ricco di ilmenite sia sprofondato prima di 4,22 miliardi di anni fa, il che è coerente con il contributo di questo evento al successivo vulcanismo osservato sulla superficie lunare, che ha riportato il minerale in superficie.
«Per la prima volta abbiamo evidenze fisiche che ci mostrano cosa è successo all’interno della Luna durante una fase critica della sua evoluzione», conclude Jeffrey Andrews-Hanna, professore all’Università dell’Arizona e co-autore della pubblicazione. «Abbiamo scoperto che la storia più antica della Luna è scritta sotto la sua superficie, ed è bastata la giusta combinazione di modelli e dati per svelarla».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Vestiges of a lunar ilmenite layer following mantle overturn revealed by gravity data” di Weigang Liang, Adrien Broquet, Jeffrey C. Andrews-Hanna, Nan Zhang, Min Ding e Alexander J. Evans
Magnifica nebulosa con una storia violenta
La nebulosa Ngc 6164/6165 che circonda Hd 148937 osservata dal Vlt in luce visibile. Crediti: Eso/Vphas+ team
Nell’osservare una coppia di stelle nel cuore di una sorprendente nube di gas e polvere, gli astronomi sono rimasti assai sorpresi. Tipicamente le coppie di stelle sono molto simili, come gemelle, ma in Hd 148937 una stella appare più giovane e, a differenza dell’altra, magnetica. Nuovi dati dell’Eso (Osservatorio europeo australe) suggeriscono che originariamente nel sistema ci fossero tre stelle, finché due di loro non si sono scontrate e si sono fuse. L’evento violento creò la nube circostante e alterò per sempre il destino del sistema.
«Facendo ricerche bibliografiche sono rimasta molto colpita da quanto questo sistema apparisse speciale», dice Abigail Frost, astronoma dell’Eso in Cile e autrice principale della ricerca pubblicata oggi su Science. Il sistema, Hd 148937, si trova a circa 3800 anni luce dalla Terra nella direzione della costellazione Regolo (Norma in latino). È formato da due stelle molto più massicce del Sole e circondate da una bellissima nebulosa: una nube di gas e polveri. «Una nebulosa che circonda due stelle massicce è una vera rarità e ci ha fatto davvero pensare che qualcosa di insolito fosse accaduto in questo sistema. Osservando i dati, la sensazione non ha fatto altro che aumentare».
«Con un’accurata analisi abbiamo potuto determinare che la stella più massiccia sembra molto più giovane della compagna, il che non ha alcun senso poiché avrebbero dovuto formarsi nello stesso periodo», aggiunge Frost. La differenza di età – una stella sembra avere almeno 1,5 milioni di anni meno dell’altra – suggerisce che qualcosa abbia ringiovanito la stella più massiccia.
Un altro pezzo del puzzle è la nebulosa che circonda le stelle, nota come Ngc 6164/6165. Ha 7500 anni, centinaia di volte più giovane di entrambe le stelle. La nebulosa mostra anche quantità molto elevate di azoto, carbonio e ossigeno. Ciò è sorprendente, poiché questi elementi si trovano di solito nelle profondità della stella, non all’esterno; è come se qualche evento violento li avesse liberati.
Per svelare il mistero, il gruppo di lavoro ha raccolto nove anni di dati provenienti dagli strumenti Pionier e Gravity, entrambi installati sul Vlti (l’interferometro del Very Large Telescope) dell’Eso, situato nel deserto cileno di Atacama. Sono stati utilizzati anche i dati d’archivio dello strumento Feros presso l’Osservatorio di La Silla dell’Eso.
«Pensiamo che in origine il sistema avesse almeno tre stelle: due di esse vicine tra di loro in un punto dell’orbita e un’altra molto più distante», spiega Hugues Sana, professore alla Ku Leuven in Belgio e ricercatore principale delle osservazioni. «Le due stelle interne si sono fuse in modo violento, creando una stella magnetica e espellendo del materiale che ha creato la nebulosa. La stella più distante ha quindi formato una nuova orbita con la stella appena fusa, ora magnetica, creando il sistema binario che vediamo oggi al centro della nebulosa».
«Avevo già in mente lo scenario che prevedeva la fusione nel 2017, quando ho studiato le osservazioni della nebulosa ottenute con il telescopio spaziale Herschel dell’Agenzia spaziale europea (Esa)», aggiunge il coautore Laurent Mahy, attualmente ricercatore senior presso l’Osservatorio reale del Belgio. «La scoperta di una discrepanza di età tra le stelle suggerisce che questo sia lo scenario più plausibile. È stato possibile mostrarlo solo grazie ai nuovi dati dell’Eso».
Questo scenario spiega anche perché una delle stelle nel sistema sia magnetica e l’altra no: un’altra caratteristica peculiare di Hd 148937 individuata nei dati Vlti. Inoltre aiuta a risolvere un mistero di vecchia data in astronomia: come le stelle massicce acquisiscano i loro campi magnetici. Mentre i campi magnetici sono una caratteristica comune delle stelle di piccola massa come il Sole, le stelle più massicce non possono sostenere i campi magnetici con le stesse modalità. Eppure alcune stelle massicce sono effettivamente magnetiche.
Gli astronomi sospettavano da tempo che le stelle massicce potessero acquisire campi magnetici durante la fusione tra due stelle. Ma questa è la prima volta in cui i ricercatori trovano prove così dirette di questo fatto. Nel caso di Hd 148937 la fusione deve essere avvenuta di recente. «Si pensa che i campi magnetici non durino molto a lungo nelle stelle massicce, rispetto alla vita della stella, quindi dovremmo aver osservato questo raro evento appena dopo che si è verificato», aggiunge Frost.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “A magnetic massive star has experienced a stellar merger”, di A. J. Frost, H. Sana, L. Mahy, G. Wade, J. Barron, J.-B. Le Bouquin, A. Mérand, F. R. N. Schneider, T. Shenar, R. H. Barbá, D. M. Bowman, M. Fabry, A. Farhang, P. Marchant, N. I. Morrell e J. V. Smoker
Fondono le calotte, affogano le meteoriti
Meteorite antartica (HUT 18036) parzialmente affondata nel ghiaccio, a differenza della maggior parte dei campioni raccolti in superficie. Meteorite raccolta dal progetto Lost Meteorites of Antarctica.
Crediti: Katherine Joy, Università di Manchester, progetto Lost Meteorites of Antarctica.
Secondo uno studio pubblicato questa settimana su Nature climate change, entro il 2050 circa un quarto delle meteoriti stimate in Antartide (dai 300 agli 800mila) andrà perso a causa dello scioglimento dei ghiacciai. E, nel caso le emissioni antropiche continuassero a questo ritmo – cosa che purtroppo non possiamo escludere – questa frazione potrebbe addirittura avvicinarsi ai tre quarti. «Dobbiamo accelerare e intensificare gli sforzi per recuperare le meteoriti antartiche. La perdita di meteoriti antartiche è molto simile alla perdita delle carote di ghiaccio causata dalla scomparsa dei ghiacciai: una volta perse, scompaiono con esse anche alcuni dei segreti dell’universo», sostiene Harry Zekollari, secondo autore dell’articolo che prospetta questo scenario, per gli studiosi, di perdita catastrofica.
Ma perché preoccuparsi tanto per le meteoriti? E perché focalizzarsi sull’Antartide?
Cominciamo col dire che circa il sessanta per cento di tutte le meteoriti mai raccolte provengono proprio dal continente dell’estremo sud. E non perché siano cadute tutte là, ma perché è molto più semplice vederle sulla superficie della calotta glaciale che ricopre tutto il territorio. Non solo: lo scorrimento della calotta glaciale concentra le meteoriti nelle cosiddette “zone di incaglio delle meteoriti”, dove la loro crosta scura permette di individuarle facilmente.
Proprio a causa del loro colore scuro, però, le meteoriti si riscaldano maggiormente rispetto al ghiaccio circostante, al quale trasferiscono il calore accumulato causandone la fusione e, di conseguenza, sprofondando sotto la superficie della calotta glaciale. Un po’ come se si scavassero la fossa da sole: una volta entrate nella calotta glaciale, anche a basse profondità, non possono più essere trovate e sono perse per sempre. Se non bastasse, la cattiva notizia è che l’aumento della temperatura atmosferica (comunque già in atto, come nel resto del pianeta) sufficiente a innescare questo meccanismo è davvero basso.
«Anche quando le temperature del ghiaccio sono ben al di sotto dello zero», spiega Veronica Tollenaar, ricercatrice dell’Université Libre de Bruxelles e prima autrice dello studio, «le meteoriti scure si riscaldano così tanto al sole da sciogliere il ghiaccio sottostante. Attraverso questo processo, la meteorite calda crea una depressione locale nel ghiaccio e con il tempo scompare completamente sotto la superficie».
Campionamento di ghiaccio su un’area di ghiaccio blu. Foto scattata durante la missione di ricerca sul campo 2022 dell’Instituto Antártico Chileno (Inach) all’Union Glacier, Ellsworth Mountains, Antartide. Crediti: José Jorquera (Antarctica.cl), Università di Santiago, Cile.
Le stime fornite nello studio di Tollenaar e Zekollari sono state ottenute combinando un algoritmo di apprendimento automatico che stima la distribuzione delle meteoriti in Antartide con proiezioni temporali dei modelli regionali del cambiamento climatico. La perdita di meteoriti nei prossimi anni, poi, è stata stimata considerando diversi scenari di cambiamento climatico. Nei prossimi decenni, come dicevamo, potrebbero andare perse circa 5mila meteoriti all’anno, indipendentemente dallo scenario delle emissioni. Con le politiche attuali, che potrebbero portare a un riscaldamento globale di 2,6-2,7 °C rispetto ai livelli preindustriali, il 28-30% dei meteoriti in Antartide potrebbe diventare inaccessibile. Questo numero aumenta fino al 76% in uno scenario ad alte emissioni. Alcune regioni del continente, come le Grove Mountains e la Enderby Land nell’Antartide orientale, sarebbero particolarmente sfortunata e potrebbero perdere fino al 50% delle meteoriti nelle aree di raccolta finora più dense.
Dal punto di vista scientifico, perdere una porzione così significativa di campioni gratuiti di rocce extraterrestri – quali le meteoriti appunto – è un danno non da poco. Le meteoriti sono infatti campioni unici e forniscono informazioni cruciali sull’origine e l’evoluzione del Sistema solare e, con esso, del nostro pianeta. Perderle sarebbe un po’ come perdere un pezzo del nostro passato, un pezzo della nostra storia. Ma quel che è peggio, a dirla tutta, è che questo non è che un sintomo di un processo che rischia di rubarci qualcosa di ancor più prezioso: il nostro futuro.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Climate Change l’articolo “Antarctic meteorites threatened by climate warming“, di Veronica Tollenaar, Harry Zekollari, Christoph Kittel, Daniel Farinotti, Stef Lhermitte, Vinciane Debaille, Steven Goderis, Philippe Claeys, Katherine Helen Joy & Frank Pattyn
Una magnetar dal comportamento atipico
Rappresentazione artistica di un magnetar con campo magnetico e getti. Crediti: Csiro
Le magnetar sono stelle di neutroni con campi magnetici superficiali estremanete forti, superiori a 10mila miliardi di gauss: per capirci, il campo magnetico terrestre è dell’ordine di 0.3-0.6 gauss. La maggior parte di queste stelle emettono radiazione alle lunghezze d’onda dei raggi X e dei raggi gamma. Finora solamente per sei di queste sono stati registrati degli impulsi radio. Fra queste vi è la protagonista dell’articolo pubblicato questa settimana su Nature Astronomy: Xte J1810-197, l’esemplare a noi più vicino – si trova a “solo” 8000 anni luce di distanza. La peculiarità emersa nel nuovo studio è il tipo di polarizzazione della luce che emette: parte della radiazione proveniente da questa magnetar è infatti polarizzata circolamente.
Un risultato completamente inaspettato e senza precedenti, sottoliena il primo autore dell’articolo, Marcus Lower, ricercatore post-dottorato a Csiro, l’agenzia nazionale australiana per le scienze. «A differenza dei segnali radio che abbiamo visto provenire da altre magnetar, questa sta emettendo enormi quantità di luce polarizzata circolarmente che cambia con estrema rapidità. Non avevamo mai visto niente del genere prima d’ora».
Quello che non è chiaro è il motivo per cui questa magnetar si comporta in modo così diverso. Il team di ricercatori però ha un’idea. «I nostri risultati suggeriscono che ci sia plasma surriscaldato sopra il polo magnetico della magnetar, che funziona come un filtro polarizzante», dice Lower. «Come esattamente il plasma stia producendo questo effetto deve ancora essere determinato».
Murriyang, il radiotelescopio all’osservatorio di Parkes, con canguri selvatici in primo piano. Crediti: Csiro
Già finita in passato nel mirino anche di team guidati dell’Inaf, Xte J1810-197 è stata osservata per la prima volta emettere segnali radio nel 2003. Poi è rimasta silenziosa per oltre un decennio. I segnali sono stati nuovamente rilevati nel 2018 dal telescopio Lovell dell’Università di Manchester, presso l’osservatorio di Jodrell Bank, e sono stati rapidamente seguiti da Murriyang, il radiotelescopio australiano all’osservatorio di Parkes, del Csiro, che è stato fondamentale per osservare le emissioni radio della magnetar da allora.
Il radiotelescopio del Cisro, situato nella cittadina di Parkes, nel Nuovo Galles del Sud, ha un diametro di 64 metri ed è dotato di un ricevitore all’avanguardia, grazie al quale è possibile compiere misure precise degli oggetti celesti, in particolare delle magnetar. Infatti, è altamente sensibile ai cambiamenti di luminosità e polarizzazione in un ampio range di frequenze radio. Gli studi sulle magnetar come questo forniscono conoscenze su una serie di fenomeni estremi e insoliti, come la dinamica del plasma, i bursts di raggi X e gamma e candidati fast radio bursts.
Per saperne più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Linear to circular coversion in the polarized emission of a magnetar” di Marcus E. Lower, Simon Johnston, Maxim Lyutikov, Donald B. Melrose, Ryan M. Shannon, Patrick Weltevrede, Manisha Caleb, Fernando Camilo, Andrew D. Cameron, Shi Dai, George Hobbs, Di Li, Kaustubh M. Rajwade, John E. Reynolds, John M. Sarkissian e Benjamin W. Stappers
Stellamoti: rilevato il più piccolo mai registrato
Rappresentazione artistica delle onde di pressione, a frequenze diverse, che si propagano negli strati interni di una stella. Crediti: Tania Cunha (Planetário do Porto – Centro Ciência Viva)/Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço
All’interno delle stelle, i moti turbolenti della materia generano onde di pressione che fanno pulsare la loro superficie. Stellamoti, starquakes in inglese, è così che si chiamano queste onde in grado di scuotere le stelle. Come i geologi utilizzano i terremoti per indagare la struttura della Terra, gli astronomi utilizzano gli stellamoti per ottenere informazioni sulla struttura e sulla composizione interna delle stelle. Utilizzando tecniche di astrosismologia, la scienza che studia questi fenomeni, Tiago Campante, astronomo dell’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, e colleghi sono ora riusciti a captare piccolissime pulsazioni della superficie di una nana arancione, la stella Epsilon Indi, riconducibili al più piccolo stellamoto mai rilevato. Allo studio, accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics Letters, hanno partecipato Enrico Corsaro ed Ennio Poretti dell’Inaf.
Un modo per rilevare gli stellamoti prevede di misurare le piccole variazioni nella luce di una stella. Le pulsazioni della superficie dell’astro influenzano infatti le lunghezze d’onda della radiazione visibile che osserviamo, producendo spostamenti verso il blu o verso il rosso per effetto Doppler, rilevabili misurando la velocità radiale della stella. Nello studio in questione, utilizzando lo spettrografo Espresso montato sul Very Large Telescope dell’Eso, i ricercatori sono riusciti a registrare queste variazioni luminose nello spettro di Epsilon Indi, una nana arancione distante 11.9 anni luce dalla Terra, situata nella costellazione dell’Indiano.
«Le velocità radiali sono una misura ottenuta grazie all’effetto Doppler che le oscillazioni della stella producono sul suo spettro» dice a Media Inaf Enrico Corsaro, astronomo dell’Inaf di Catania e co-autore della pubblicazione. «Quando si verificano queste oscillazioni (o stellamoti) – aggiunge Corsaro – la stella si espande e si contrae continuamente. Quando si espande, per effetto Doppler le righe dello spettro si spostano verso il blu, viceversa quando si contrae le righe si spostano verso il rosso. Grazie a strumenti come gli spettrografi, siamo in grado di osservare queste variazioni, anche se di entità molto piccola, che sono direttamente legate a proprietà fondamentali della stella quali massa e raggio, e alla sua struttura interna».
Infografica che mostra alcune caratteristiche della nana arancione Epsilon Indi e del Sole a confronto. Crediti: Paulo Pereira (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço)
La successiva traduzione di queste variazioni luminose in onde sonore ha permesso ai ricercatori di osservare qualcosa che non si aspettavano. Negli spettri di frequenza risultanti, hanno trovato che l’ampiezza dello onde variava di un paio di centimetri al secondo (un valore che è circa il 14 per cento dell’ampiezza di oscillazione degli starquakes registrati sulla nostra stella): la firma del più piccolo stellamoto mai registrato fino ad oggi.
L’estremo livello di precisione di queste osservazioni, spiegano i ricercatori, dimostra che è possibile fare astrosismologia anche su stelle con temperature superficiali fino a 4.200 gradi Celsius, circa 1.000 gradi in meno della temperatura della superficie del Sole, aprendo di fatto un nuovo dominio nell’astrofisica osservativa.
«Grazie alle capacità dello spettrografo Espresso, siamo riusciti a cogliere delle oscillazioni sulla superficie stellare con un’ampiezza di appena 2.6 centimetri al secondo» sottolinea Corsaro. «Questo nuovo limite di precisione ci permette di misurare le oscillazioni in un nuovo regime che di base prima non era accessibile, quello delle stelle fredde di tipo K con temperature intorno ai 4.200 gradi Celsius, che presentano oscillazioni molto piccole. Prima di questo lavoro, la stella più fredda in cui sono state misurate oscillazioni di tipo solare era la stella Kepler-444, che ha una temperatura superiore a 4700 gradi Celsius».
I risultati ottenuti in questo studio possono aiutare gli scienziati a risolvere il disaccordo di lunga data tra teoria e osservazioni circa la relazione tra massa e diametro di queste stelle di classe spettrale K e classe di luminosità V.
Enrico Corsaro, ricercatore all’Inaf di Catania, coautore dello studio accettato per la pubblicazione su A&AL
«È noto che i modelli di evoluzione stellare sottostimino il diametro delle nane K del 5-15 per cento rispetto al valore ottenuto con metodi empirici» dice a questo proposito Margarida Cunha, ricercatrice dell’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço e co-autrice della pubblicazione. «Lo studio delle oscillazioni delle nane K attraverso l’astrosismologia, aiuterà a identificare le carenze degli attuali modelli stellari e, quindi, a migliorarli in modo da eliminare questa discrepanza».
Le nane arancioni e i loro sistemi planetari sono diventate recentemente un obiettivo primario nella ricerca di mondi abitabili e di vita extraterrestre. I risultati di questo studio, sottolineano i ricercatori, dimostrano che l’astrosismologia può ora essere potenzialmente utilizzata per la caratterizzazione dettagliata di queste stelle e dei loro pianeti abitabili. Inoltre, la determinazione precisa dell’età di stelle fredde vicine grazie all’astrosismologia può essere fondamentale per interpretare le biofirme di esopianeti fotografati tramite imaging diretto.
Dopo aver rilevato la presenza di oscillazioni di tipo solare in Epsilon Indi, quello che hanno in programma ora i ricercatori è di utilizzare le oscillazioni per studiare la complessa fisica delle stelle nane di tipo K. Queste stelle sono infatti più fredde e più attive del nostro Sole, il che le rende veri e propri laboratori per sondare fenomeni chiave che hanno luogo nei loro strati superficiali e che non sono ancora stati studiati in dettaglio.
Ogni volta che apriamo una nuova finestra sulla natura, nuove sorprese ci portano a scoperte inaspettate, concludono i ricercatori. Epsilon Indi promette di essere una di queste finestre. Una finestra con una vista luminosa.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Expanding the frontiers of cool-dwarf asteroseismology with ESPRESSO. Detection of solar-like oscillations in the K5 dwarf ε Indi” di T. L. Campante, H. Kjeldsen, Y. Li, M. N. Lund, A. M. Silva, E. Corsaro, J. Gomes da Silva, J. H. C. Martins, V. Adibekyan, T. Azevedo Silva, T. R. Bedding, D. Bossini, D. L. Buzasi, W. J. Chaplin, R. R. Costa, M. S. Cunha, E. Cristo, J. P. Faria, R. A. García, D. Huber, M. S. Lundkvist, T. S. Metcalfe, M. J. P. F. G. Monteiro, A. W. Neitzel, M. B. Nielsen, E. Poretti, N. C. Santos e S. G. Sousa
Dopo Marte, più in là di Giove: l’Esa vuole Encelado
Alice Lucchetti, ricercatrice all’Inaf di Padova che ha partecipato nel gruppo di lavoro dell’Esa per decidere la destinazione della prossima missione di classe “large”. Destinazione: il mondo ghiacciato Encelado
L’Agenzia spaziale europea (Esa) vuole una missione su Encelado, uno dei satelliti di Saturno. Sesto per grandezza, Encelado nasconde sotto una crosta ghiacciata un enorme e profondo oceano di acqua liquida, che dà informazione di sé attraverso pennacchi d’acqua che fuoriescono da alcune fessure nel ghiaccio. Non una missione qualsiasi, bensì la prima missione di taglia large del prossimo programma osservativo dell’Esa Voyage 2050. Il tema generale di questa classe di missioni, “Lune dei pianeti giganti del Sistema solare”, era stato scelto alla fine del 2021. La missione, in particolare, dovrebbe concentrarsi sull’abitabilità del mondo oceanico, studiando i legami tra l’interno e l’ambiente circostante, ricercando segni di vita passata o presente e cercando di identificare la chimica che consente la vita in superficie. A decidere il candidato più promettente fra tutti, e ad aiutare l’agenzia nella definizione di una possibile missione, un gruppo di scienziati esperti selezionati per competenza e conoscenza a partire da una call aperta. Fra loro, Alice Lucchetti, ricercatrice dell’Inaf di Padova, che Media Inaf ha raggiunto per un’intervista.
Lucchetti, in cima alla lista dei desideri dell’Esa c’è dunque Encelado. Desideri, appunto: stiamo parlando per ora solo di un report, per quanto corposo. Un wishful thinking messo nero su bianco. O c’è anche qualcosa di concreto?
«Direi che non è solo un desiderio, ma assolutamente qualcosa che si concretizzerà nel futuro. Il gruppo di lavoro è nato a valle delle raccomandazioni presentate nel report Voyage 2050 dell’Agenzia spaziale europea, pubblicato nel dicembre 2021, riguardo le possibili destinazioni della prossima missione large dell’Esa (L4). Stiamo parlando di una missione che dovrà raggiungere le lune dei pianeti giganti, identificati come target scientifico di questa missione, ed essere lanciata negli anni 2040. Quindi la missione è assolutamente nel programma Esa! Abbiamo lavorato per due anni per analizzare e vagliare le possibili destinazioni di una missione di questo tipo e per supportare l’Agenzia spaziale europea nel cominciare a fare studi di fattibilità volti a identificare anche le soluzioni e le sfide tecnologiche necessarie per raggiungerle».
Quali aspetti avete analizzato in questi due anni di lavoro? E perché alla fine ha vinto Encelado?
«All’inizio c’è stata molta discussione per identificare le domande scientifiche alle quali si vuole rispondere con una missione di questo tipo. Quando si parla di lune dei pianeti giganti, le prime che vengono in mente sono quelle che potrebbero avere un oceano di acqua liquida al loro interno e che potrebbero quindi ospitare una qualche forma di vita (per come la conosciamo). Abbiamo però anche considerato alcuni ambienti in cui la chimica si basa su altri solventi, come il caso di Titano, caratterizzato dalla presenza di laghi di idrocarburi. Abbiamo poi identificato le domande scientifiche cardine a cui questa missione dovrebbe rispondere, concentrandoci in particolare sull’abitabilità di questi “mondi oceanici”, sulla loro chimica prebiotica e sulla possibilità di identificare biosignatures – tutti temi che permetterebbero di fare un passo in avanti notevole nell’esplorazione rispetto alle missioni passate e in programma. Ci siamo poi concentrati sulle possibili destinazioni restringendo il campo alle lune di Giove e Saturno (Ganimede, Europa, Encelado e Titano), analizzando per ciascuna di esse se gli obiettivi scientifici individuati potessero essere soddisfatti e – altrettanto importante – se fossero già raggiunti da missioni spaziali (in essere o future) dalle altre agenzie spaziali del mondo. Questo ci ha permesso di identificare la luna Encelado come miglior candidata per la prossima missione L4».
Ci sono possibilità concrete di trovare forme di vita?
«La luna Encelado possiede quello che definiamo un ambiente abitabile, dal momento che ospita un oceano liquido al suo interno, e tradisce la presenza di elementi definiti essenziali per la vita (i cosiddetti Chnops, gli elementi più presenti nella chimica organica) e di una sorgente di energia chimica. Considerando quindi l’elevata rilevanza scientifica di questo target e la mancanza di future missioni programmate verso questa destinazione, la luna Encelado è risultata essere il target più interessante. Sicuramente, date le condizioni al contorno e quello che finora conosciamo di Encelado, direi proprio che, se presente, avremo la possibilità di trovare forme di vita».
Encelado visto dalla sonda Cassini, che ha orbitato attorno a Saturno e le sue lune dal 2004 al 2017. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/University of Arizona/Lpg/Cnrs/University of Nantes/Space Science Institute
Lei, personalmente, aveva altre preferenze?
«Le lune ghiacciate del Sistema solare esterno sono state il mio primo amore, quindi sono felicissima che la luna Encelado sia la migliore candidata. Devo dire che anche se fosse risultata Europa la miglior scelta, ne sarei stata entusiasta in egual modo. Entrambe le lune sono dei mondi pazzeschi!»
Encelado è una meta davvero ambiziosa, per un’agenzia come l’Esa che, da sola, non ha ancora messo piede sulla Luna, unica fra le grandi agenzie spaziali, né fatto un atterraggio di successo su Marte. Perché con Encelado dovrebbe andare meglio?
«È assolutamente vero, ma è anche vero che per una missione che deve studiare l’abitabilità delle lune del Sistema solare esterno, è necessario avere non solo un orbiter, ma anche un elemento che possa fare misure in situ della luna selezionata. Avendo definito quali dovevano essere gli obiettivi scientifici principali di una missione di questo tipo, abbiamo poi identificato differenti scenari di missione. Due di questi sono stati analizzati dalla Concurrent Design Facility (Cdf) dell’Esa per verificarne la fattibilità. Ad esempio, nel caso di Encelado abbiamo pensato a una soluzione di missione con un orbiter, un sistema di sampling del plume e un soft lander che dovrebbe atterrare al polo sud e analizzare i campioni della superficie: un’idea che è stata valutata ottima dallo studio di fattibilità per una missione L4. Mi chiede se con Encelado dovrebbe andare meglio? Beh, direi che c’è sempre una prima volta».
E adesso, che succede? Come comincia, a partire da questo report, la fase di progettazione della missione reale?
«Il nostro compito si è concluso con la stesura di questo report dove abbiamo riportato tutte le raccomandazioni scientifiche per la prossima missione L4. I concetti di missioni presentati in questo report potrebbero rivoluzionare la nostra conoscenza riguardo l’abitabilità delle lune di Saturno garantendo a Esa un primato nell’esplorazione delle lune dei pianeti giganti. Ma adesso tocca a Esa, che dovrà chiamare e riunire la comunità per cominciare a progettare realmente questa missione».
Quel che ci resta da scoprire, e da capire
Alcuni dei partecipanti al congresso “Indigenous Peoples’ Knowledge and the Sciences”. Da sinistra: Agnes Leina (founder and executive director of Il’laramatak Community Concerns, Icc, Kenia), Hindou Oumarou Ibrahim, (presidente dell’Afpat, Ciad) e Nelson Ole Reiyia (Nashulai Maasai Conservancy, Ceo). Crediti: Pontifical Academy of Sciences
Questa volta non sono qui a commentare le ultime scoperte della ricerca in astrofisica, ma a raccontare di un’esperienza in cui sono stato recentemente coinvolto e che mi ha davvero colpito. Sono stato infatti invitato a partecipare ad un congresso organizzato dalla Pontificia Accademia delle scienze e intitolato “Indigenous Peoples’ Knowledge and Sciences – Combining traditional knowledge and science on innovations for resilience to address climate change, biodiversity loss, food security, and health” (“Conoscenze e scienze delle popolazioni indigene – Combinare conoscenze tradizionali e scienza sulle innovazioni per la resilienza per affrontare i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute”). Che la Pontificia Accademia delle scienze organizzi un congresso su queste tematiche non è né insolito né sorprendente, visto che Papa Francesco ha chiesto all’Accademia di concentrarsi su tematiche che abbiano un impatto sociale, quindi legate per esempio alla medicina, all’alimentazione, alle migrazioni, al cambiamento climatico. Forse è un po’ più insolito che vi partecipi un astronomo…
All’evento hanno partecipato rappresentanti e studiosi delle popolazioni indigene di tutti i continenti (l’elenco completo è nel programma del congresso), che hanno raccontato le difficoltà che incontrano a vivere in un ambiente in cui gli spazi e le risorse naturali con cui hanno vissuto in equilibrio per secoli sono stravolti dall’espansione del mondo moderno. Il cambiamento climatico è un’altra fonte importante di tensione, in quanto minaccia la sopravvivenza di tante popolazioni abituate a usare i cicli naturali per le scelte legate alla loro sopravvivenza. Un caso eclatante sono le popolazioni nomadi che decidono i loro spostamenti in base alle combinazioni di segni naturali (meteorologici, botanici e astronomici) che sono spesso stravolti dai cambiamenti climatici. Oltre agli aspetti pratici, il confronto con il mondo moderno mette in discussione il sistema di conoscenze e di valori che le popolazioni indigene hanno sviluppato nei secoli. L’approccio razionale e riduzionista della scienza moderna è spesso in contrasto con la visione olistica delle culture tradizionali, in cui l’uomo è parte di un sistema unitario che comprende aspetti naturali e spesso spirituali, quando non magici.
Scarica il programma del congresso che si è tenuto dal 14 al 14 marzo 2024 al Vaticano
So che vi state ancora chiedendo cosa ci faccia un astrofisico in un incontro di questo tipo: un po’ me lo sono chiesto anche io quando sono stato invitato. Il punto di partenza è in realtà ovvio: l’astronomia è una delle prime scienze che le popolazioni umane hanno sviluppato, e ancora oggi l’osservazione del cielo ha un ruolo importante in tante culture indigene. Mi è stato chiesto di raccontare cosa hanno imparato gli astronomi che osservano l’universo oggi, sperando che questo racconto possa stabilire una connessione con i diversi sistemi di conoscenza.
Preparare il mio intervento è stato diverso e più impegnativo che in altre conferenze. Senza venir meno al rigore scientifico, volevo trasmettere anche il rispetto verso le persone con cui andavo a dialogare e l’umiltà di chi sa che c’è ancora un universo da scoprire.
Usando le parole dei giganti del passato, come Galileo e Hubble, ho mostrato come gli astronomi di tutte le epoche abbiano seguito lo stesso approccio. Ho spiegato che partiamo da quel che possiamo vedere con i nostri occhi speciali, i telescopi, e inventiamo nuovi telescopi per aprire nuove finestre sull’universo, che ci consentono di vedere sempre più lontano e nel dettaglio. Ho raccontato che abbiamo scoperto ormai migliaia di pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, e di come siamo capaci di studiare le loro caratteristiche e persino la composizione della loro atmosfera. Che ne abbiamo trovato di infiniti tipi, tutti diversi per composizione chimica, dimensione, temperatura, sfidando le nostre idee su come si formano i pianeti. Ho spiegato che abbiamo dimostrato che l’universo ha una storia, iniziata quasi 14 miliardi di anni fa nell’evento che chiamiamo Big Bang, che lo vediamo espandersi a una velocità sempre maggiore e che grazie ai nostri telescopi possiamo vedere indietro nel tempo e vedere come le stelle e le galassie sono nate e sono andate cambiando nel tempo.
Adriano Fontana (Istituto nazionale di astrofisica)
Ma soprattutto ho raccontato quello che non abbiamo ancora scoperto o capito. Non abbiamo ancora trovato pianeti come la nostra Terra e pensiamo che ce ne siano milioni che aspettano di essere scoperti. Non sappiamo assolutamente se la vita sia diffusa o meno nell’universo, né quali siano le condizioni necessarie perché si sviluppi. Non sappiamo di cosa sia composto il 90 per cento dell’universo né cosa stia trascinando l’universo nella sua espansione: abbiamo solo due nomi affascinanti (materia ed energia oscura) e molte teorie, ma non sappiamo se ce ne sia almeno una giusta. Non sappiamo cosa sia stato il Big Bang, se ci sia stato qualcosa prima, o meglio se abbia senso chiederci cosa ci fosse prima. Sappiamo insomma che sono molti più i misteri ancora da scoprire che le scoperte che abbiamo fatto.
Ho concluso spiegando che almeno due cose ci legano a tutte le culture del mondo. La prima è il senso di meraviglia per le bellezze che scopriamo e per le forme che la natura prende nell’universo. La seconda è la lucida consapevolezza che l’universo non sia un posto amichevole per la vita e quanto sia prezioso conservare la Terra in cui ci troviamo a vivere: non sarà facile recuperare quanto stiamo distruggendo, né trovare altri posti da colonizzare.
Non volevo fare una lezione ma offrire spunti di dialogo con le persone venute lì da tutto il mondo. Viste le tante domande e curiosità che ho sollevato, spero di aver piantato un piccolo seme che possa crescere in futuro.
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Shared Sky, tutti sotto lo stesso cielo”
- Consulta su EduInaf la risorsa didattica dedicata per informarsi e dibattere dell’impatto delle grandi infrastrutture astronomiche sui territori e i loro abitanti, sviluppata dal gruppo di lavoro Univers@ll
Esplorando l’universo, di festival in festival
Locandina della Festa di scienza e di filosofia 2024
In primavera, anche gli appuntamenti per gli appassionati di scienza e astronomia fioriscono rigogliosi. E come ogni anno l’Inaf partecipa a due tra le più attese e interessanti rassegne di divulgazione scientifica in Italia: la Festa di scienza e filosofia a Foligno e il Festival delle scienze di Roma.
A partire dall’11 e fino a 14 aprile partirà la 13esima edizione di Festa di scienza e di filosofia – Virtute e canoscenza. Dalla scorsa edizione la Festa si è fatta in due e oltre alla cittadina umbra ci sarà anche quella marchigiana di Fabriano a ospitare i numerosi incontri, conferenze ed eventi di divulgazione uniti dal tema “Il Mediterraneo: da culla della scienza e della filosofia a scenario per le sfide del cambiamento”.
Proprio nel giorno di apertura, Federica Govoni, direttrice dell’Inaf di Cagliari, insieme ad Alessandro Cardini dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Cagliari, parlerà di come sia possibile “Studiare l’universo dal cuore della terra sarda”. La conferenza, prevista alle ore 18:00 presso il Teatro San Carlo, si concentrerà sullo studio dell’universo dal cuore della Sardegna, evidenziando il ruolo cruciale del Sardinia Radio Telescope e del progetto internazionale Einstein Telescope nella ricerca delle onde gravitazionali e della materia oscura.
Nel suggestivo Auditorium Santa Caterina, l’astrobiologo John Brucato dell’Inaf di Firenze, Andrea Bernagozzi dell’Osservatorio astronomico Regione autonoma Valle d’Aosta e Daniela Billi dell’Università di Roma Tor Vergata parleranno di possibilità e future prospettive per esplorare forme di vita extraterrestri nell’universo. L’evento, moderato da Davide Coero Borga, conduttore e autore televisivo RAai e divulgatore scientifico dell’Inaf, si terrà venerdì 12 aprile con un doppio appuntamento: alle ore 9:30 per le scuole e alle ore 16:45 per il pubblico generale del festival.
Il 12 aprile pomeriggio, a Palazzo Trinci, nell’incontro “L’acqua del mare viene dalle stelle” si indagheranno le origini cosmiche dell’acqua, esplorando il ruolo che le comete e altri corpi celesti hanno giocato nel portare l’acqua sulla Terra e nel plasmare il nostro pianeta. A parlarne sarà Patrizia Caraveo, astrofisica dell’Inaf di Milano, protagonista anche della conferenza sugli effetti biologici, i vantaggi e gli svantaggi dell’illuminazione artificiale nelle nostre città “Troppa luce fa male (i pericoli dell’illuminazione artificiale)” prevista sabato 13 aprile mattina al Palazzo del Podestà di Fabriano.
Ma il fitto calendario di eventi firmati Inaf per il mese di aprile non finisce qui.
Dal 16 al 21 aprile 2024, infatti, torn all’Auditorium Parco della musica il Festival delle scienze di Roma, dedicato quest’anno al tema “Errori e meraviglie”, e quindi alla forza motrice che spinge gli scienziati verso l’esplorazione e la conquista di nuovi saperi e territori, con un cammino fatto di passi falsi, smentite, errori, contrasti con le tradizioni e le conoscenze consolidate.
Il 20 aprile va in scena l’evento “Galileo e i viaggiatori del tempo: una difesa scientificamente avvincente”. Crediti: pagina ufficiale del Festival delle scienze di Roma
Proprio alla sfida delle vecchie convinzioni scientifiche è dedicata l’intrigante rappresentazione intitolata “Galileo e i viaggiatori del tempo: una difesa scientificamente avvincente“, che si terrà sabato 20 aprile alle ore 17:00 al Teatro Studio Borgna. Attraverso un gioco di ruolo e di improvvisazione condotto da Francesco Lancia, autore e voce di Radio Deejay, si farà un viaggio nel tempo per affiancare Galileo Galilei durante il suo processo per eresia. Ad aiutarlo a scampare alla condanna, grazie alle conoscenze scientifiche, ci sarà Stefano Sandrelli, dell’Inaf di Milano, Denise Perrone dell’Asi, Sabrina Presto del Cnr, Marco Signore della Stazione zoologica Anton Dohrn e l’astrofisica e scrittrice Licia Troisi. Troisi sarà tra i protagonisti anche dell’evento moderato da Elisa Nichelli, astrofisica, divulgatrice e giornalista scientifica Inaf che vedrà, insieme a Daria Guidetti dell’Ira di Bologna, l’astrofisico Ettore Perozzi dell’Asi nell’evento “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”. In programma alle ore 12:00 del 20 aprile, la conferenza parlerà dello spazio, fonte inesauribile di meraviglia ma anche di pericoli e minacce per l’essere umano.
Sempre sabato pomeriggio, ma in Auditorium Arte, si parlerà di altre folli imprese come quella della ricerca e della rilevazione delle onde gravitazionali. Predette da Albert Einstein più di un secolo fa, sono uno dei fenomeni più affascinanti dell’astrofisica e, da semplici ipotesi, le onde gravitazionali sono oggi diventate una realtà confermata che ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’universo. Durante l’incontro “La più folle delle imprese: l’avventura delle onde gravitazionali da Einstein a Et” – moderato da Andrea Bettini di RaiNews24 – saliranno sul palco, insieme all’astrofisica dell’Inaf di Roma Silvia Piranomonte, Massimo Carpinelli, direttore dello European Gravitational Observatory, Eugenio Coccia, direttore dell’Institute for High Energy Physics di Barcellona, e Giulio Selvaggi dell’Ingv. L’evento, coordinato dall’Inaf, sarà l’occasione per esplorare il viaggio delle onde gravitazionali attraverso la storia, partendo dai dubbi di Einstein fino alle scoperte rivoluzionarie degli ultimi decenni e verso il futuro rilevatore Einstein Telescope (Et), il progetto di terza generazione di enorme impatto scientifico e tecnologico che la Sardegna è candidata a ospitare.
La grafica ufficiale del Festival delle Scienze di Roma 2024. Crediti: sito web ufficiale del Festival.
Ma non ci saranno solo conferenze. Durante il fine settimana, il Festival delle scienze aprirà la ludoteca scientifica realizzata da Ludo Labo, in collaborazione con il Game Science Research Center e l’Inaf, e ospiterà altre attività dedicate alle scuole e alle famiglie, grazie a laboratori dedicati allo spazio, alla natura, all’ambiente. Tra questi, vi segnaliamo anche il laboratorio dell’Inaf “Pianeti di sale”, dedicato al Sistema solare e ai pianeti gassosi.
Infine, il Festival farà da palcoscenico all’ottava edizione del World Forum for Women in Science con la conferenza scientifica internazionale dal titolo “Envisioning tomorrow – Science for the sustainable development goals and new partnership for sustainable futures”. Un approccio, transculturale e multidisciplinare, che vedrà coinvolti diversi enti scientifici italiani: tra questi l’Inaf, grazie alla partecipazione – nel comitato scientifico, nei panel tematici e nell’evento di networking internazionale – di diverse ricercatrici da tutt’Italia che presenteranno le attività e i progetti dell’istituto sull’inclusione di genere nella ricerca scientifica.
Dunque, siete pronti a lasciarvi stupire e divertire dalla scienza?
Per saperne di più:
- Consulta il programma della Festa di scienza e di filosofia di Foligno
- Consulta il programma del Festival delle scienze di Roma
Dalle cavità di polvere ai pianeti rocciosi
La protostella all’interno della nube L1527 inserita in una nube di materiale che ne alimenta la crescita, ripresa da NirCam a bordo del telescopio spaziale James Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
Piccolissimi grani di polvere nel mezzo interstellare, aggregandosi in modo progressivo, danno origine a nuovi mondi come la Terra che orbitano attorno a stelle giovani simili al Sole. È così che nascono i pianeti rocciosi, ma il loro processo di formazione – che dura milioni di anni – è ancora oggetto di studio. Grazie al telescopio Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) è stato possibile osservare per la prima volta una cavità conica contenente grani di polvere grande migliaia di unità astronomiche scavata da un outflow nella regione di formazione stellare della Corona Australe, distante da noi circa quattrocento anni luce. I risultati dello studio, condotto nell’ambito del progetto Faust ,sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics Letters da un gruppo di ricerca guidato da Giovanni Sabatini dell’Inaf di Arcetri.
Era già noto che il processo di accrescimento dei grani di polvere avvenisse nei dischi fino al raggiungimento delle dimensioni di qualche centimetro, e che poi i grani migrassero rapidamente verso la protostella centrale. Durante questa fase i grani possono accrescere ulteriormente fino a formare planetesimi, i progenitori dei pianeti rocciosi. Inoltre, con la formazione dei dischi protoplanetari si sviluppano getti supersonici di materia in direzione perpendicolare al disco stesso, i cosiddetti outflows: strutture enormi che si estendono da dieci a mille volte la distanza tra la Terra e il Sole, visibili da Terra come oggetti minuscoli nel cielo della dimensione di una frazione di secondo d’arco.
Sebbene i meccanismi fisici che generano gli outflows siano noti da più di cinquant’anni, la scoperta delle cavità di polvere aggiunge elementi importanti perché la materia presente in queste cavità è così densa che potrebbe essere la fucina in cui avviene la crescita dei grani. Questa scoperta getta una luce completamente nuova sull’intero processo di formazione dei pianeti, perché i grani formati nelle cavità ad alta densità possono poi ricadere nel disco, dove continuano a crescere formando i planetesimi, ovvero i mattoni alla base dei pianeti.
Anche il Sistema solare in origine era una nube di polvere e gas interstellare, come molte altre nubi molecolari nella Via Lattea. Tuttavia, circa 4,6 miliardi di anni fa, questa nube ha iniziato a contrarsi, portando alla formazione del Sole e della Terra. In questo contesto, l’astrochimica – ovvero lo studio di molecole interstellari complesse con almeno sei atomi, come il metanolo – è fondamentale per capire come le molecole organiche abbiano creato le basi della vita sulla Terra.
Giovanni Sabatini (in primo piano), Claudio Codella e Linda Podio. Crediti: Inaf Arcetri
«I grani di polvere giocano un ruolo chiave sia nella formazione dei pianeti che nel favorire l’aumento della complessità chimica, perché i grani sono il catalizzatore per la formazione delle cosiddette molecole complesse interstellari», spiega Sabatini, primo autore dell’articolo pubblicato su A&AL. «Questo studio rappresenta un nuovo piccolo (ma cruciale) tassello per spiegare il misterioso processo di crescita dei grani e quindi della formazione dei pianeti nei dischi. Inoltre, i grani funzionano da catalizzatori per la formazione di molecole fondamentali alla vita come l’acqua e il metanolo».
«È ancora un mistero come si formino i pianeti in sistemi simili al nostro. Questo ci ha portato a studiare, da un lato, come i grani di polvere crescano fino a formare pianeti nei dischi e, dall’altro, come si formano le molecole interstellari durante il processo di formazione di stelle e pianeti», aggiunge Linda Podio dell’Inaf di Arcetri, coautrice dello studio. «In ultima analisi, le scoperte in questo campo possono svelare come si sia formata la vita sulla Terra».
«Faust sta mettendo in luce sempre più informazioni sulle nostre origini», conclude Claudio Codella, uno dei ricercatori alla guida del progetto Faust, sempre dell’Inaf di Arcetri, «sottolineando l’importanza delle prime fasi evolutive del processo che ha portato alla formazione del Sistema solare. Nel contempo, ci stiamo preparando all’arrivo di Ska, che ci permetterà di studiare questi processi con un’accuratezza e un dettaglio mai raggiunti prima».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics Letters l’articolo “FAUST XIII. Dusty cavity and molecular shock driven by IRS7B in the Corona Australis cluster” di G. Sabatini, L. Podio, C. Codella, Y. Watanabe, M. De Simone, E. Bianchi, C. Ceccarelli, C.J. Chandler, N. Sakai, B. Svoboda, L. Testi, Y. Aikawa, N. Balucani, M. Bouvier, P. Caselli, E. Caux, L. Chahine, S. Charnley, N. Cuello, F. Dulieu, L. Evans, D. Fedele, S. Feng, F. Fontani, T. Hama, T. Hanawa, E. Herbst, T. Hirota, A. Isella, I. Jímenez-Serra, D. Johnstone, B. Lefloch, R. Le Gal, L. Loinard, H. Baobab Liu, A. López-Sepulcre, L.T. Maud, M.J. Maureira, F. Menard, A. Miotello, G. Moellenbrock, H. Nomura, Y. Oba, S. Ohashi, Y. Okoda, Y. Oya, J. Pineda, A. Rimola, T. Sakai, D. Segura-Cox, Y. Shirley, C. Vastel, S. Viti, N. Watanabe, Y. Zhang, Z.E. Zhang e S. Yamamoto
Cosmo in espansione: la più grande mappa 3D
Desi ha prodotto la più grande mappa 3D dell’universo (cliccare per ingrandire). La Terra è al centro della sezione di mappa mostrata in figura. Nella porzione ingrandita si può vedere la struttura portante della materia nell’universo. Crediti: Claire Lamman/Collaborazione Desi
Si è da poco concluso il primo anno operativo di Desi (Dark Energy Spectroscopy Instrument), progetto volto a produrre una mappa tridimensionale del cielo, analizzando il ruolo dell’energia oscura, responsabile misteriosa dell’espansione dell’universo. Lo strumento, posto in cima al telescopio Mayall al Kitt Peak National Observatory (Arizona, Usa), sta raccogliendo una quantità enorme di dati con una precisione senza precedenti. Dati che potrebbero portare a una vera e propria svolta nella comprensione del cosmo: lo studio della luce emessa da oggetti celesti molto lontani aiuterà infatti a tracciare la storia dell’espansione dell’universo da 11 miliardi di anni fa ad oggi. Nel frattempo, i risultati dell’analisi del primo anno di dati sono stati pubblicati preliminarmente in rete giovedì 4 aprile, su arXiv, in un serie di articoli presentati in anteprima nei giorni scorsi al meeting dell’American Physical Society, negli Stati Uniti, e in Italia ai Rencontres de Moriond, in Valle D’Aosta.
«Siamo incredibilmente orgogliosi dei dati, che hanno prodotto risultati cosmologici all’avanguardia a livello mondiale e sono i primi a emergere dalla nuova generazione di esperimenti sull’energia oscura», dice il direttore di Desi Micheal Levi, del Lawrence Berkeley National Laboratory. «Finora abbiamo riscontrato un accordo di base con il nostro modello migliore dell’universo, ma stiamo anche osservando alcune differenze potenzialmente interessanti che potrebbero indicare un’evoluzione dell’energia oscura nel tempo. Differenze che potrebbero o meno sparire man mano che aumentano i dati, quindi non vediamo l’ora d’iniziare ad analizzare il nostro insieme di dati triennale».
Crediti: NoirLab / Nsf / Aura / P. Marenfeld and Desi collaboration
L’attuale modello standard dell’universo è conosciuto com Lambda-Cdm, e include sia la materia oscura fredda (Cdm, da cold dark matter) sia l’energia oscura (indicata dalla lettera greca lambda, a rappresentare la costante cosmologica). Materia ed energia oscura condizionano il modo in cui l’universo si espande, ma in maniera opposta: la prima rallenta l’espansione mentre l’altra la velocizza. La quantità di ciascuna influenza, quindi, come si evolve l’universo.
Combinando i risultati ottenuti da Desi nel primo anno di ricerca con i dati di altri studi però, come accennato da Levi, sono state notate delle piccole differenze con quello che il modello Lambda-Cdm predice. Nel corso dei cinque anni totali di durata della survey, l’obiettivo sarà capire se i nuovi risultati offriranno spiegazioni alternative ai dati osservati o se sarà necessario modificare il modello attuale. Inoltre miglioreranno la conoscenza della costante di Hubble e della massa dei neutrini.
«Nessun esperimento spettroscopico ha raccolto così tanti dati finora, continueremo a raccoglierne da più di un milione di galassie ogni mese», aggiunge la co-portavoce di Desi, Nathalie Palanque-Delabrouille, del Lawrence Berkeley National Laboratory. «È stupefacente come, con un solo anno di dati, siamo già in grado di misurare la storia dell’espansione dell’universo in sette diverse fasce di tempo cosmico, ognuna con una precisone che va dall’uno al tre per cento. Il team ha svolto un’enorme quantità di lavoro per tenere conto delle complessità della modellazione strumentale e teorica, e questo ci rende fiduciosi circa l’affidabilità dei nostri primi risultati».
Un’illustrazione semplificata (cliccare per ingrandire) delle diverse parti del diagramma di Hubble ricostruito con Desi. Crediti: Claire Lamman/Collaborazione Desi
Le misure dell’espansione nelle fasi più antiche del cosmo, quelle relative a oltre otto miliardi di anni fa, sono incredibilmente difficili da compiere. Eppure in un solo anno Desi ha ottenuto misure di precisione doppia rispetto al suo predecessore (Sloan Digital Sky Survey’s Boss/eBoss), che ha impiegato più di un decennio. Un risultato reso possibile anche grazie al ricorso ai quasar, più che alle semplici galassie, per estendere la stima delle oscillazioni acustiche dei barioni (Bao) – una sorta di “righello cosmico” per misurare la velocità di espansione dell’universo – fino a 11 miliardi di anni fa.
«Usiamo i quasar come retroilluminazione per vedere, sostanzialmente, l’ombra del gas che si frappone tra noi e loro», spiega uno degli scienziati di Desi, Andreu Font-Ribera, dell’Institute for High Energy Physics (Spagna). «Questo ci permette di spingere lo sguardo fino a un’epoca in cui l’universo era molto giovane. Sono misure molto difficili da compiere, ma è meraviglioso vederle realizzate».
In particolare, i ricercatori del team di Desi si sono avvalsi dei dati relativi a 450mila quasar, e alla fine della survey il progetto avrà mappato 3 milioni di quasar e 37 milioni di galassie. «Abbiamo misurato la storia dell’espansione lungo questo enorme intervallo di tempo cosmico con una precisione che supera quella di tutti i precedenti studi Bao combinati», conclude Hee-Jong Seo dell’Ohio University. «Siamo entusiasti di scoprire come queste nuove misure miglioreranno e modificheranno la nostra conoscenza del cosmo. L’universo ha un fascino senza tempo per gli esseri umani, che vogliono scoprire come sia costituito e cosa gli succederà».
Per saperne di più:
Appuntamento con uno sconosciuto
Immagine tratta dalla simulazione numerica coerente con Gw 230529. Crediti: I. Markin/Università di Potsdam, T. Dietrich, H. Pfeiffer, A. Buonanno /Università di Potsdam e Istituto Max Planck
Troppo piccolo per essere un buco nero, troppo grande per essere una stella di neutroni. Stando ai modelli attuali, messi a punto a partire dalle popolazioni di oggetti compatti conosciuti, le stelle di neutroni si collocherebbero al di sotto delle 3 masse solari, i buchi neri al di sopra delle 5 masse solari. E nell’intervallo tra 3 e 5 masse solari? È il territorio dei casi spinosi. Come quello emerso nella rilevazione dell’onda gravitazionale Gw 230529, avvenuta – come svela la stessa sigla – il 29 maggio 2023, dunque durante la prima parte del quarto periodo di osservazione (il cosiddetto run O4) dei rilevatori della collaborazione internazionale Ligo-Virgo-Kagra. L’onda sarebbe stata generata, infatti, dalla fusione di una stella di neutroni compresa tra 1,2 e 2 masse solari e un oggetto compatto sconosciuto tra 2,5 e 4,5 masse solari. L’oggetto misterioso, appunto: quello che costringe a mettere in discussione la nostra comprensione della formazione degli oggetti compatti nell’universo.
Le stelle di neutroni e i buchi neri sono entrambi oggetti compatti nati dai resti solidi di massicce esplosioni stellari. Le fusioni tra stelle di neutroni e buchi neri sono eventi rari. Pertanto, ogni nuova rilevazione è estremamente preziosa per lo studio dei tassi di fusione e per la caratterizzazione delle popolazioni di buchi neri e stelle di neutroni, che è uno degli obiettivi dell’astronomia delle onde gravitazionali. Ciò che rende questo segnale intrigante è, come dicevamo, la massa dell’oggetto più pesante, che ricade all’interno di un possibile divario tra le stelle di neutroni più massicce conosciute e i buchi neri più leggeri. Un intervallo che sfida i modelli teorici esistenti.
Recenti osservazioni di onde gravitazionali già avevano suggerito l’esistenza di oggetti situati in quel gap di massa: in una precedente rilevazione si era ipotizzato un oggetto compatto con massa compresa tra 2,5 e 2,7 masse solari, dunque superiore alla massa della stella di neutroni più pesante osservata finora, ma molto inferiore alla massa dei buchi neri. «Il nuovo rilevamento, il primo dei nostri entusiasmanti risultati del quarto ciclo di osservazione Ligo-Virgo-Kagra, rivela che potrebbe esserci un tasso più elevato di collisioni simili, tra stelle di neutroni e buchi neri di bassa massa, di quanto non si pensasse in precedenza», dice Jess McIver dell’Università della British Columbia (Canada), portavoce vicario della collaborazione scientifica Ligo.
Secondo i ricercatori della collaborazione Ligo-Virgo-Kagra, la natura dell’oggetto sconosciuto renderebbe Gw 230529 un forte candidato per ridefinire i modelli delle popolazioni di buchi neri e stelle di neutroni. Sebbene il segnale delle onde gravitazionali non fornisca informazioni sufficienti per determinare con certezza se questi oggetti siano stelle di neutroni o buchi neri, sembra probabile che l’oggetto più leggero sia una stella di neutroni e quello più pesante un buco nero. Gli scienziati nella collaborazione sono comunque abbastanza sicuri che l’oggetto più pesante si trovi all’interno del divario di massa.
Tuttavia, il segnale delle onde gravitazionali da solo non può rivelare la natura di questo oggetto; future rilevazioni di eventi simili, specialmente quelli accompagnati da emissione di radiazione elettromagnetica, potrebbero contenere la chiave per risolvere questo mistero cosmico.
Gli interferomentri della collaborazione Ligo-Virgo-Kagra pronti per la seconda fase del quarto run osservativo. Crediti: Ligo
A oggi, le osservazioni delle onde gravitazionali hanno fornito quasi duecento misurazioni di masse di vari oggetti compatti. Ma il bello deve ancora venire. A partire da domani, mercoledì 10 aprile, i rivelatori della collaborazione Ligo-Virgo-Kagra riprenderanno la loro campagna di osservazione congiunta, con l’obiettivo di arrivare a un totale complessivo di oltre duecento eventi di onde gravitazionali entro la fine del quarto ciclo di osservazione O4. Gli astronomi sperano anche nell’osservazione di nuovi eventi multi-messaggero, con il rilevamento simultaneo sia di onde gravitazionali che elettromagnetiche (a oggi è accaduto una volta soltanto). Dopo lo stop delle prima parte del quarto run osservativo, durato per ora dal 23 maggio al 16 gennaio 2024, alla seconda fase – O4b – prenderà parte anche il rivelatore Virgo, situato in Italia, vicino a Pisa.
La prima fase della campagna, O4a, era stata condotta dai soli due rivelatori di Ligo di Hanford, Washington, e di Livingston, Louisiana, negli Stati Uniti e si è interrotta a inizio anno per manutenzione e aggiornamenti. Virgo non ha partecipato all’O4a, scegliendo invece di continuare le attività di messa in servizio per mitigare l’impatto di diverse sorgenti di rumore, ma si unirà invece, come detto, alla seconda fase. «Gli osservatori di onde gravitazionali sono progetti all’avanguardia e, come tali, devono affrontare molte sfide. Oggi siamo molto contenti di unirci al nuovo ciclo di osservazione», dice Gianluca Gemme, portavoce dell’esperimento Virgo e ricercatore dell’Infn. «Il contributo di Virgo sarà fondamentale per migliorare la localizzazione degli eventi multi-messaggero, che ci aspettiamo di rilevare in questa seconda fase del run». A non partecipare questa volta sarà il rivelatore Kagra, in Giappone, che ha partecipato all’O4a solo per un mese prima di tornare alla messa in servizio, ma, attualmente, sta cercando di riprendersi dai danni causati dal terremoto di magnitudo 7,6 che il 1° gennaio 2024 ha colpito la penisola di Noto, a 120 km dal sito. La fine di O4b è prevista all’inizio del 2025. Nuove scoperte su quelli che sono considerati gli eventi più violenti e più misteriosi dell’universo ci aspettano dunque dietro l’angolo.
A caccia di assioni con un imbuto
La scienza moderna non è esente dai misteri, dai grandi interrogativi a cui gli scienziati cercano di rispondere: uno di questi è la materia oscura. Anche se è pur vero che Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, i ricercatori non si danno pace nel cercare un modo per osservare questa materia che si rifiuta di mostrarsi alla nostra vista. Pur avendo numerose prove della sua esistenza – ne osserviamo infatti gli effetti su altri oggetti del cosmo – non siamo mai stati in grado di vederla direttamente. Non si può neanche pensare che sia una cosa di poco conto, considerando che attualmente gli scienziati pensano che costituisca circa l’85 per cento di tutta la massa dell’universo.
Un nuovo esperimento, nato da una collaborazione guidata dalla University of Chicago e dal Fermi National Accelerator Laboratory e chiamato Bread (acronimo per Broadband Reflector Experiment for Axion Detection), ha ora pubblicato su Physical Review Letters i primi risultati nella ricerca della materia oscura, proponendo un approccio inusuale al problema. Lo studio, nonostante non sia stata rivelata la materia oscura, ha ristretto i limiti sul range di frequenze entro il quale potrebbe trovarsi e ha dimostrato le potenzialità di un nuovo metodo che potrebbe accelerare la ricerca con spazio e costi relativamente ridotti.
«Siamo molto entusiasti di ciò che siamo stati in grado di fare finora», dice David Miller della University of Chicago, co-leader dell’esperimento insieme ad Andrew Sonnenschein del Fermilab, che originariamente sviluppò il concetto dell’esperimento. «Ci sono molti vantaggi pratici in questo design e abbiamo già dimostrato la migliore sensibilità fino a oggi con questa frequenza di 11-12 gigahertz».
Stefan Knirck del Fermilab con delle componenti del rilevatore BREAD Crediti: UChicago News
«Questo risultato rappresenta una pietra miliare per il nostro concetto, dimostrando per la prima volta la potenza del nostro approccio», aggiunge Stefan Knirck, ricercatore postdoc al Fermilab e autore principale dello studio, che ha guidato la costruzione e il funzionamento del rilevatore. «È fantastico realizzare questo tipo di scienza creativa su scala ridotta, in cui un piccolo team può occuparsi di tutto, dalla costruzione dell’esperimento all’analisi dei dati, e avere comunque un grande impatto sulla moderna fisica delle particelle».
Ma come funziona nello specifico questo approccio? Guardando l’universo possiamo vedere che una qualche sostanza esercita una gravità sufficiente ad attirare stelle, galassie e luce che passa, ma nessun dispositivo o telescopio è mai riuscito a captarne direttamente la fonte — per questo è chiamata “materia oscura”. Non avendola mai vista non è neanche del tutto chiaro come potrebbe apparire o dove cercarla esattamente. «Siamo molto fiduciosi che ci sia qualcosa, ma le forme che potrebbe assumere sono moltissime», dice Miller.
Fino ad ora l’approccio degli scienziati è stato quello di costruire rilevatori che controllassero in modo approfondito una specifica regione — in questo caso, un insieme di frequenze — al fine di escluderla. L’approccio del team di Chicago è stato, invece, un design a “banda larga”, ovvero sondare una serie più ampia di possibilità a costo di una precisione leggermente inferiore.
«Se la pensi come una radio, la ricerca della materia oscura è come sintonizzare la manopola per cercare una particolare stazione, solo che ci sono un milione di frequenze da controllare», spiega Miller. «Il nostro metodo è come eseguire una scansione di centomila stazioni radio, anziché di poche molto approfondita».
Un rendering del design Bread. La struttura a forma di “Hershey’s Kiss” — un cioccolatino dalla forma conica — incanala potenziali segnali di materia oscura verso il rilevatore color rame a sinistra. Il rilevatore è sufficientemente compatto da poter essere posizionato su un tavolo. Crediti: Bread Collaboration
Il rilevatore si concentra su un sottoinsieme specifico di possibilità, ovvero è costruito per cercare la materia oscura sotto forma dei cosiddetti assioni o “fotoni oscuri”, particelle con masse estremamente piccole che, nelle giuste circostanze, potrebbero essere convertite in un fotone visibile. Bread è costituito da un tubo metallico contente una superficie curva che cattura e incanala — come un imbuto — potenziali fotoni verso un sensore posto a un’estremità. Lo strumento è abbastanza piccolo da poter essere abbracciato, il che è una cosa insolita per questo tipo di esperimenti. La versione a grandezza naturale di Bread verrà ospitata all’interno di un magnete per generare un forte campo magnetico, che aumenta le possibilità di convertire le particelle di materia oscura in fotoni.
Per dimostrarne il principio, il team ha per ora condotto l’esperimento senza magneti. La collaborazione ha fatto funzionare il prototipo del dispositivo all’Università di Chicago per circa un mese e ha analizzato i dati. Secondo gli scienziati i risultati sono molto promettenti e mostrano una sensibilità molto elevata sulla frequenza scelta.
Da quando i risultati pubblicati su Physical Review Letters sono stati accettati, Bread è stato spostato all’interno di un magnete per la risonanza riconvertito, all’Argonne National Laboratory, e sta raccogliendo ulteriori dati. La sua sede finale, al Fermi National Accelerator Laboratory, utilizzerà un magnete ancora più potente.
«Questo è solo il primo passo di una serie di entusiasmanti esperimenti che stiamo pianificando», dice Sonnenschein. «Abbiamo molte idee per migliorare la sensibilità della nostra ricerca di assioni».
«Ci sono ancora così tante domande aperte nella scienza e un enorme spazio per nuove idee creative per tentare di rispondere», conclude Miller. «Penso che il nostro sia un esempio davvero caratteristico di questo tipo di idee creative — in questo caso, partnerships collaborative e di grande impatto tra la scienza su scala ridotta nelle università e la scienza su scala più ampia nei laboratori nazionali».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “First Results from a Broadband Search for Dark Photon Dark Matter in the 44 to 52 μeV Range with a Coaxial Dish Antenna” di Stefan Knirck et al. (Bread Collaboration)
L’ultima eclissi del re dell’horror
Percorso dell’eclissi totale di Sole del 20 luglio 1963
L’ultima eclissi di questo speciale sarebbe dovuta essere quella del 29 maggio 1919, conosciuta come eclissi di Einstein perché permise a sir Arthur Eddington di misurare la deflessione della luce di alcune stelle dovuta alla presenza del Sole, confermando così la teoria della Relatività Generale pubblicata solo pochi anni prima da Albert Einstein. La curvatura dello spaziotempo prevista dalla teoria impone infatti che la traiettoria della luce sia incurvata in presenza di una massa. La luce delle stelle in prossimità del Sole durante un’eclisse dovrebbe quindi risultare “piegata” dalla sua presenza, e in cielo le stelle dovrebbero apparire in una posizione leggermente diversa rispetto a quando il Sole non si trova lungo la linea di vista. Questo è ciò che Eddington verificò quel 29 maggio del 1919 dall’isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa. Ma questa storia è già stata magistralmente raccontata da Stefano Giovanardi sulle pagine di Media Inaf nel 2019, e la mia sarebbe stata una brutta copia.
Così, un po’ perché quando leggerete sarà sabato (e possiamo quindi essere un po’ più “leggeri”), un po’ perché non sono mai stata così vicina al Maine (mi trovo a meno di dieci ore d’auto da Portland, aspettando l’eclissi totale di lunedì), vi parlerò di un’altra eclissi… che non ha fatto la storia. Almeno non di quella con la “s” maiuscola.
Immagine dell’eclisse del 1963, ripresa dal Maine
Si tratta dell’eclissi del 20 luglio 1963. La totalità è stata di breve durata – un minuto e quaranta secondi – ed è stata visibile da Hokkaido in Giappone, dall’Alaska e dal Maine negli Stati Uniti e anche dal Canada.
Certo, venne osservata e studiata dagli astronomi da più parti. L’astronomo Charles H. Smiley, ad esempio, la osservò da un aereo supersonico F-104D Starfighter dell’aeronautica statunitense che “cavalcò” l’ombra della Luna a oltre 2mila chilometri orari, prolungando la durata della totalità a 4 minuti e 3 secondi. L’astronauta Scott Carpenter, insieme all’astronoma della Nasa Jocelyn Gill, sorvolarono il Maine a circa 14 chilometri di quota a bordo di un DC-8 appositamente attrezzato per osservare l’evento cosmico. Tantissime persone la fotografarono… ma non è per questo che chiuderò con questa eclissi.
Questa è stata l’ultima eclissi di Stephen King, il re dell’horror, che ho iniziato a leggere tutto d’un fiato da ragazza e che mi accompagna ancora adesso. Un’eclissi che fa da sfondo a due romanzi nei quali l’autore si è discostato dal genere horror per mettere in scena thriller psicologici che vedono protagoniste due donne: Il gioco di Gerald e Dolores Claiborne. Due donne molto forti, che hanno impiegato un po’ di tempo per capire di esserlo ma che alla fine, con strade molto diverse, ce l’hanno fatta. Due donne a cui quell’eclissi, forse poco significativa per la storia della scienza, ha cambiato la vita.
Chissà se King, con l’eclissi che lunedì attraverserà di nuovo il Maine dopo 61 anni da quel lontano 1963, troverà l’ispirazione per nuove storie. Io lo spero.
Per saperne di più:
- Segui lo speciale di Media Inaf dedicato alle eclissi storiche
- Iniziative dell’Inaf per l’eclissi dell’8 aprile 2024