Un mondo iceano potenzialmente abitabile
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L’esopianeta temperato Lhs 1140 b potrebbe essere un mondo completamente ricoperto di ghiaccio (a sinistra), simile alla luna di Giove Europa, oppure un mondo di ghiaccio con un oceano substellare liquido e un’atmosfera nuvolosa (al centro). Lhs 1140 b è grande 1,7 volte la Terra (a destra) ed è l’esopianeta in zona abitabile più promettente finora trovato. Crediti: Benoit Gougeon, Université de Montréal
Un team internazionale di astronomi guidato dall’Università di Montréal ha fatto una scoperta entusiasmante sul già noto esopianeta Lhs 1140 b: potrebbe essere una promettente super-Terra ricoperta di ghiaccio o acqua.
Quando è stato scoperto, gli astronomi hanno ipotizzato che Lhs 1140 potesse essere un mini-Nettuno: un pianeta essenzialmente gassoso di dimensioni molto ridotte rispetto a Nettuno. Ma dopo aver analizzato i dati del James Webb Space Telescope (Jwst) raccolti nel dicembre 2023, insieme a quelli ottenuti precedentemente con altri telescopi spaziali come Spitzer, Hubble e Tess, sono giunti a una conclusione molto diversa.
Situato a circa 48 anni luce dalla Terra nella costellazione della Balena, Lhs 1140 b sembra essere uno degli esopianeti più promettenti nella zona abitabile della sua stella, potenzialmente in grado di ospitare un’atmosfera e persino un oceano di acqua liquida. I risultati di questa scoperta saranno presto pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.
Il pianeta orbita attorno a una stella nana rossa di bassa massa, grande circa un quinto del Sole. L’esopianeta ha affascinato gli scienziati sin dalla sua scoperta, perché è fra i più vicini al Sistema solare che si trova nella zona abitabile della sua stella. Gli esopianeti che si trovano in questa “zona Goldilocks” (o Riccioli d’oro, dalla famosa favola) hanno temperature che permettono all’acqua di trovarsi in forma liquida.
All’inizio di quest’anno, i ricercatori guidati da Charles Cadieux hanno ottenuto nuove stime di massa e raggio del pianeta con un’accuratezza eccezionale, paragonabile a quelle dei noti pianeti di Trappist-1: 1,7 volte le dimensioni della Terra e 5,6 volte la sua massa.
Come si diceva all’inizio, una delle questioni aperte su Lhs 1140 b era se si trattasse di un mini-Nettuno (un piccolo gigante gassoso con una spessa atmosfera ricca di idrogeno) o di una super-Terra (un pianeta roccioso più grande della Terra). Quest’ultimo scenario include la possibilità di un cosiddetto mondo iceano– dalle parole hydrogen (idrogeno) e ocean (oceano) – con un oceano liquido globale avvolto da un’atmosfera ricca di idrogeno, che avrebbe mostrato un segnale atmosferico ben distinto, osservabile con il potente telescopio Webb.
Gli autori dello studio sono riusciti a ottenere prezioso tempo di osservazione con Webb lo scorso dicembre, durante il quale hanno osservato due transiti di Lhs 1140 b usando lo strumento canadese Niriss (Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph). L’analisi di queste osservazioni ha escluso lo scenario del mini-Nettuno e ottenuto prove consistenti che suggeriscono che l’esopianeta Lhs 1140 b sia di fatto una super-Terra che potrebbe anche avere un’atmosfera ricca di azoto. Se questo risultato venisse confermato, Lhs 1140 b sarebbe il primo pianeta temperato a mostrare prove di un’atmosfera secondaria, formatasi dopo la formazione iniziale del pianeta.
Le stime basate su tutti i dati accumulati rivelano che Lhs 1140 b è meno denso di un pianeta roccioso con una composizione simile alla Terra, il che suggerisce che il 10-20% della sua massa potrebbe essere sotto forma di acqua. Potrebbe trattarsi di un mondo acquatico, dunque, probabilmente simile a un pianeta “palla di neve”, o a un pianeta di ghiaccio con un potenziale oceano liquido nella zona sub-stellare – l’area della superficie del pianeta rivolta sempre verso la stella ospite, dato che il pianeta si trova in rotazione sincrona (come avviene per la Luna).
Inoltre, i modelli attuali indicano che se avesse un’atmosfera simile a quella della Terra, Lhs 1140 b potrebbe essere un pianeta palla di neve con un vasto oceano “a occhio di bue” di circa 4mila chilometri di diametro, equivalente alla metà della superficie dell’Oceano Atlantico. La temperatura superficiale al centro di questo oceano alieno potrebbe addirittura raggiungere i 20 gradi centigradi: da farci il bagno, insomma.
Per confermare la presenza e la composizione dell’atmosfera di Lhs 1140 b e discernere tra gli scenari di pianeta palla di neve e pianeta con un oceano a occhio di bue sono necessarie ulteriori osservazioni. Gli autori dello studio hanno sottolineato la necessità di effettuare ulteriori misurazioni dei transiti e delle eclissi con il telescopio Webb, concentrandosi su un segnale specifico che potrebbe rivelare la presenza di anidride carbonica. Questa caratteristica è fondamentale per comprendere la composizione atmosferica e rilevare potenziali gas serra che potrebbero indicare condizioni di abitabilità sull’esopianeta.
«Rilevare un’atmosfera simile a quella terrestre su un pianeta temperato significa spingere le capacità di Webb ai suoi limiti: è fattibile, abbiamo solo bisogno di molto tempo di osservazione», afferma René Doyon, principal investigator di Niriss. «L’attuale accenno a un’atmosfera ricca di azoto richiede una conferma con ulteriori dati. Abbiamo bisogno di almeno un altro anno di osservazioni per confermare che Lhs 1140 b ha un’atmosfera, e probabilmente di altri due o tre per rilevare l’anidride carbonica».
Data la limitata visibilità di Lhs 1140 b con Webb – sono possibili al massimo otto osservazioni all’anno – gli astronomi avranno bisogno di diversi anni di osservazioni per rilevare l’anidride carbonica e confermare la presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta.
«Tra tutti gli esopianeti temperati attualmente conosciuti, Lhs 1140 b potrebbe essere la nostra migliore possibilità di confermare un giorno, in modo indiretto, la presenza di acqua liquida sulla superficie di un mondo alieno al di là del nostro sistema solare», conclude Cadieux. «Si tratterebbe di un’importante pietra miliare nella ricerca di esopianeti potenzialmente abitabili».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Transmission Spectroscopy of the Habitable Zone Exoplanet LHS 1140 b with JWST/NIRISS” di Charles Cadieux, René Doyon, Ryan J. MacDonald, Martin Turbet, Étienne Artigau, Olivia Lim, Michael Radica, Thomas J. Fauchez, Salma Salhi, Lisa Dang, Loïc Albert, Louis-Philippe Coulombe, Nicolas B. Cowan, David Lafrenière, Alexandrine L’Heureux, Caroline Piaulet, Björn Benneke, Ryan Cloutier, Benjamin Charnay, Neil J. Cook, Marylou Fournier-Tondreau, Mykhaylo Plotnykov, Diana Valencia
Il primo volo di Ariane 6
Il primo decollo del nuovo razzo dell’Agenzia spaziale europea, Ariane 6. Crediti: Esa
È partito oggi, martedì 9 luglio, alle 21 dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana Francese, il nuovo razzo Ariane 6 dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Un progetto che ha visto il coinvolgimento di partner industriali in 13 paesi europei e che inaugura una nuova era per il trasporto spaziale europeo. Con Ariane 6, infatti, l’Europa dello spazio ritrova la propria autonomia dopo il pensionamento del precedente vettore Ariane 5, che ha volato 117 volte tra il 1996 e il 2023. A bordo del razzo ci sono cinque esperimenti scientifici, alcuni rilasciati durante il volo e altri che raccoglieranno dati dall’interno dello stadio superiore del razzo. Si chiamano Peregrinus, Parisat, Sidloc, LiFi and Ypsat.
«Il primo volo di un nuovo razzo è sempre un momento incredibile, perché ci sono centinaia di migliaia di dettagli che devono funzionare in perfetta armonia, per la prima volta insieme in modo completo», afferma Loïc Bourillet, responsabile del Collective Launch Service Procurement dell’Esa.
E così è andata, per Ariane 6. Dopo essere stato posticipato di un’ora, dalle 20.00 alle 21.00 italiane, a causa di un “piccolo problema” nell’acquisizione dei dati rilevato sul segmento di terra, il lancio e le fasi successive sono state eseguite in maniera nominale. Fino al raggiungimento dell’orbita circolare finale, a 580 chilometri di altezza, e alla separazione del payload, poco più di un’ora dopo il lancio.
Un nuovo inizio per l’Esa, dicevamo. E proprio in virtù di questa ritrovata autonomia, il design del nuovo razzo europeo è all’insegna della versatilità, potendo assumere due configurazioni diverse a seconda delle prestazioni richieste. Una prima versione con due booster, chiamata Ariane 62 e alta 56 metri – questa la versione utilizzata durante il lancio di prova – che può lanciare carichi utili fino a circa 4,5 tonnellate in orbita di trasferimento geostazionario o fino a 10,3 tonnellate in orbita terrestre bassa; e una versione con quattro booster, Ariane 64, alta 62 metri e in grado di lanciare carichi utili di circa 11,5 tonnellate in orbita di trasferimento geostazionario e 21,6 tonnellate in orbita terrestre bassa. Lo scopo è acquisire, al “prezzo” di un unico vettore, la flessibilità di lanciare carichi pesanti e leggeri in un’ampia gamma di orbite per applicazioni come l’osservazione della Terra, le telecomunicazioni, la meteorologia, la scienza e la navigazione. A carico completo, Ariane 6 peserà quasi 900 tonnellate al lancio, equivalente circa a un aereo passeggeri Airbus A380 e mezzo.
Rappresentazione delle due configurazioni in cui è disponibile il nuovo razzo Ariane 6 dell’Esa, suddiviso nelle parti (gli stadi) che lo compongono. Crediti: Esa – D. Ducros
Ma vediamo un po’ più nel dettaglio com’è suddiviso il razzo. Ariane 6 è composto da tre sezioni principali – i cosiddetti “stadi” – utili a fornire la spinta necessaria a far volare il carico: due o quattro booster, lo stadio principale inferiore e lo stadio superiore. Li potete vedere nello schema a sinistra. I booster a lato dello stadio principale forniscono la spinta al momento del decollo e si separano poco più di due minuti dopo l’accensione; successivamente si accende lo stadio principale alimentato da un motore Vulcain 2.1 a combustibile liquido – una versione aggiornata del motore Vulcain dell’Ariane 5 – che si separa dopo circa 7 minuti e 40 secondi dal lancio, e per ultimo si accende lo stadio superiore, alimentato da un motore Vinci riaccendibile che funziona, come lo stadio principale, con ossigeno e idrogeno liquidi. Accendendosi a più riprese, questo motore consente ad Ariane 6 di mettere in orbita più satelliti in un’unica missione; una volta consegnati tutti i carichi utili, poi, si accende un’ultima volta per smaltire in modo sicuro lo stadio superiore, assicurandosi che non diventi un detrito spaziale e non minacci altri oggetti in orbita. Infine, il fairing, ovvero la struttura a cono con cui termina la parte superiore del razzo: è costruita in composito di fibra di carbonio e polimeri e si divide in due verticalmente, esponendo gli esperimenti scientifici – in questo caso – o i nuovi satelliti che trasporterà nello spazio. Anche questa parte è disponibile in diverse versioni intercambiabili a seconda del carico del lancio.
Nello specifico di questo volo inaugurale, l’ogiva del razzo contiene due capsule di rientro e diversi satelliti programmati per volare liberi, posizionati in cima al razzo in ordine di rilascio. Verranno liberati dopo poco più di un’ora dal lancio, a una quota di circa 600 chilometri sopra la Terra. Non solo, altri esperimenti rimarranno fissati allo stadio superiore dell’Ariane 6 e raccoglieranno dati per tutta la durata del volo. Passeranno circa tre ore dall’accensione dei booster alla prima manovra di passivazione, e se tutto procederà come previsto, sentiremo presto e spesso parlare di questo nuovo razzo, che supporterà le numerose missioni spaziali nelle quali l’Esa è impegnata.
«Sono fiducioso perché abbiamo fatto tutto quello che andava fatto», ha detto all’Ansa il direttore del Trasporto spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea, Toni Tolker-Nielsen. «Se tutto andrà bene per l’Ariane 6 sono previsti 6 lanci nel 2025 e 8 nel 2026».
Una pulsar al millisecondo per una stagista
Riproduzione artistica di una pulsar millisecondo. Crediti: NASA/Goddard Space Flight Center/Dana Berry
Le pulsar millisecondo sono stelle di neutroni estremamente dense che nascono in seguito alla morte di una stella massiccia sotto forma di esplosione di supernova. Sono gli astri più piccoli e magnetizzati che si conoscano, motivo per il quale sono considerati dagli addetti ai lavori dei laboratori naturali, utili per studiare il comportamento della materia sotto campi gravitazionali e magnetici estremi. Ma non solo: sono anche le stelle a più rapida rotazione scoperte fino a oggi. Per via dell’accrescimento di materia da una stella compagna, riescono infatti a vorticare su sé stesse fino a centinaia di volte al secondo, caratteristica che le rende dei veri e propri fari cosmici.
Come partecipante di uno stage estivo svolto presso il Naval Research Laboratory (Nlr) nell’ambito del Naval Research Enterprise Internship Program, l’obiettivo di Amaris McCarver, giovane laureanda della Texas Tech University (Usa), era quello di scovare questi fari cosmici all’interno di densi ammassi stellari.
Per farlo, la stagista aveva a disposizione i dati d’archivio ottenuti dal Very large array Low-band Ionosphere and Transient Experiment (Vlite), un esperimento che, tramite l’utilizzo di una rete di antenne radio situate nel New Mexico (Usa), il Very large Array, consente ai ricercatori di monitorare il cielo a basse frequenze radio. Operativo dall’agosto del 2017, l’esperimento Vlite registra circa 6mila ore di dati all’anno e ha un archivio che copre circa il 98 per cento del cielo nord.
Spulciando attentamente tra questi dati, e precisamente tra quelli ottenuti dal luglio 2017 a luglio 2022, e servendosi di dati aggiuntivi di diverse survey radio a diverse frequenze, alla fine Amaris ce l’ha fatta: in uno spicchio di cielo contenente ammassi globulari privi di pulsar precedentemente note, trova dieci candidate trottole spaziali che ruotano al millisecondo, tra le quali ce n’è una che pulsar al millisecondo lo è sicuramente, Glimpse-C01A: la prima pulsar al millisecondo confermata presente all’interno dell’ammasso stellare Glimpse-C01. La conferma che si tratti proprio di una pulsar al millisecondo arriva dal National Radio Astronomy Observatory, grazie a tecniche di ricerca degli impulsi di recente sviluppo. La scoperta è descritta in uno studio pubblicato di recente su The Astrophysical Journal.
«È stato emozionante vedere un progetto di internato funzionare con così tanto successo», dice Amaris, che per la sua scoperta ha ricevuto il Robert S. Hyer Award dalla sezione texana dell’American Physical Society (Aps), un premio assegnato ogni anno a studenti che eccellono nella ricerca.
La studentessa Amaris McCarver con in mano la targa del Robert S. Hyer Research Award. Crediti: U.S. Naval Research Laboratory
La conferma di una nuova pulsar millisecondo dall’elenco dei candidati compilato da Amaris evidenzia non solo l’elevato potenziale di scoperta con i dati Vlite, ma soprattutto il ruolo chiave che gli stagisti come Amaris svolgono nella ricerca d’avanguardia.
«Questo tipo di scoperta scientifica è stata possibile solo grazie alla collaborazione tra Naval Research Laboratory e National Radio Astronomy Observatory», sottolinea Tracy E. Clarke, astronoma del Naval Research Laboratory e co-autrice della pubblicazione. «Questa ricerca», aggiunge la scienziata, «sottolinea come sia possibile utilizzare misure di luminosità radio a diverse frequenze per trovare nuove pulsar in modo efficiente. Le survey del cielo disponibili, combinate con la mole di dati Vlite, fanno sì che queste misure siano essenzialmente sempre disponibili. Ciò apre le porte a una nuova era di ricerche di pulsar altamente disperse e accelerate».
McCarver è stata una dei sedici stagisti del Naval Research Enterprise Internship svolto presso Nlr. Nel gennaio 2024 ha presentato la sua ricerca al 243mo meeting dell’American Astronomical Society. Adesso, il suo prossimo obiettivo è la difesa della tesi di laurea in Fisica e Astronomia, dopo la quale intende proseguire gli studi in astronomia.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “A VLITE Search for Millisecond Pulsars in Globular Clusters: Discovery of a Pulsar in GLIMPSE-C01” di Amaris V. McCarver, Thomas J. Maccarone, Scott M. Ransom, Tracy E. Clarke, Simona Giacintucci, Wendy M. Peters, Emil Polisensky, Kristina Nyland, Tasha Gautam, Paulo C. C. Freire e Blagoy Rangelov.
Nasce Boqa, la Bologna Quantum Alliance
Crediti: Forest Stearns, Google AI Quantum Artist in Residence, CC BY-ND
Il futuro delle scienze e delle tecnologie quantistiche trova a Bologna un nuovo punto di riferimento a livello nazionale ed europeo. È la Bologna Quantum Alliance (Boqa): un’intesa che riunisce l’Università di Bologna, il Consorzio interuniversitario Cineca, il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv).
Siglato alla vigilia del G7 Scienza e Tecnologia, ospitato al Tecnopolo di Bologna, l’accordo mette a sistema le tante competenze distribuite sul territorio nazionale legate a temi d’avanguardia della scienza quantistica, dalla ricerca fondamentale alle applicazioni scientifiche e industriali.
In questo modo, grazie al ruolo di coordinamento svolto dall’Alma Mater, la Bologna Quantum Alliance potrà dare un forte impulso allo sviluppo dell’intera filiera quantistica, promovendo ambiti strategici come quello dei computer quantistici, delle comunicazioni quantistiche sicure e della sensoristica quantistica di precisione. Un nuovo fondamentale tassello che va ad arricchire l’ecosistema dell’innovazione bolognese e dell’Emilia-Romagna.
Temi centrali per lo sviluppo tecnologico e sociale come quelli dei big data, del supercalcolo e dell’intelligenza artificiale potranno così fondersi insieme alle enormi potenzialità delle scienze quantistiche, con applicazioni possibili in molteplici campi tra cui la salute, la climatologia, le scienze della terra e l’innovazione industriale.
Con la Bologna Quantum Alliance nasceranno progetti congiunti, attività comuni per favorire l’innovazione sul fronte della ricerca fondamentale e applicata, e collaborazioni con le aziende, anche mirate al trasferimento tecnologico. Senza dimenticare il campo, altrettanto centrale, della formazione: saranno messi a punto percorsi di formazione sulle scienze quantistiche per studentesse e studenti, per la qualificazione di ricercatrici e ricercatori e per l’aggiornamento delle figure professionali. E ci saranno anche attività di comunicazione e di divulgazione sul mondo delle tecnologie quantistiche a livello locale e nazionale.
A partire dalle numerose iniziative su queste tematiche già avviate dai partner fondatori, la Bologna Quantum Alliance punterà ad ampliare ulteriormente il suo raggio d’azione, coinvolgendo altre realtà presenti in Emilia-Romagna, in Italia e in altri paesi europei. L’orizzonte è infatti quello tracciato dalla European Declaration on Quantum Technologies, con l’obiettivo di contribuire a rendere l’Europa una regione leader a livello globale nell’ambito delle scienze e tecnologie quantistiche.
«I ricercatori Inaf lavorano già da qualche anno nel contesto del Centro nazionale Icsc alla realizzazione di algoritmi di quantum computing per la risoluzione di problemi di astrofisica», ricorda Andrea Bulgarelli, ricercatore all’Inaf di Bologna. «La collaborazione Boqa rappresenta un ulteriore fondamentale passo in avanti per l’Inaf, permettendoci di sfruttare al meglio le nascenti tecnologie quantistiche per avanzare nella ricerca astrofisica. Con Boqa potremo unire le nostre competenze con quelle dei partner per comprendere come sfruttare i vantaggi della computazione quantistica, tra i quali l’elaborazione più veloce di problemi complessi, il miglioramento della simulazione di sistemi quantistici naturali per cui i computer quantistici sono particolarmente adatti, e l’ottimizzazione avanzata ai fini di trovare le soluzioni ottimali (o quasi ottimali) a un dato problema, in tempi molto più rapidi rispetto ai metodi classici».
Puzza di uova marce sull’esopianeta Hd 189733 b
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Rappresentazione artistica di Hd 189733 b, a 64 anni luce dalla Terra. Crediti: Roberto Molar Candanosa/ Johns Hopkins Univeristy
Un esopianeta noto per il suo clima infernale nasconde un’altra bizzarra caratteristica: puzza di uova marce. Lo sostengono gli autori di uno studio appena pubblicato su Nature, basato sui dati del telescopio spaziale James Webb.
Il pianeta, un gigante gassoso delle dimensioni di Giove chiamato Hd 189733 b, ha un’atmosfera composta prevalentemente da idrogeno solforato (o acido solfidrico), una molecola che non solo emette un odore fetido – di uova marce, appunto – ma permette agli scienziati di carpire nuovi indizi su come lo zolfo potrebbe influenzare l’interno e le atmosfere dei mondi gassosi al di là del Sistema solare.
«L’idrogeno solforato è una molecola importante di cui non conoscevamo la presenza. Avevamo previsto che ci sarebbe stata, e sappiamo che si trova su Giove, ma non l’avevamo mai rilevata al di fuori del Sistema solare», afferma Guangwei Fu, astrofisico della Johns Hopkins alla guida della ricerca. «Non cerchiamo la vita su questo pianeta perché è troppo caldo, ma trovare l’idrogeno solforato è un passo avanti per trovare questa molecola su altri pianeti e per capire meglio come si formano i diversi tipi di pianeti».
Oltre a rilevare l’acido solfidrico e a misurare lo zolfo nell’atmosfera di Hd 189733 b, Fu ha misurato con precisione le principali sorgenti di ossigeno e carbonio del pianeta: acqua, anidride carbonica e monossido di carbonio. «Lo zolfo è un elemento vitale per la costruzione di molecole più complesse e, come il carbonio, l’azoto, l’ossigeno e il fosfato, gli scienziati devono studiarlo meglio per capire come sono fatti i pianeti e di cosa sono fatti», dichiara il ricercatore.
A soli 64 anni luce dalla Terra, Hd 189733 b è il gioviano caldo più vicino che gli astronomi possono osservare transitare davanti alla sua stella, il che lo rende un pianeta di riferimento per gli studi dettagliati delle atmosfere esoplanetarie sin dalla sua scoperta nel 2005. Il pianeta è circa 13 volte più vicino alla sua stella di quanto Mercurio lo sia al Sole e impiega solo due giorni terrestri per completare un’orbita. Ha temperature roventi di oltre 900 gradi Celsius ed è noto per il suo clima avverso, tra cui la pioggia di “vetro” che sferza con venti a oltre 8mila chilometri orari.
Rilevando acqua, anidride carbonica, metano e altre molecole critiche in esopianeti, anche in questo caso Webb sta fornendo agli scienziati un nuovo strumento per tracciare l’acido solfidrico e misurare lo zolfo nei pianeti gassosi al di fuori del Sistema solare. «Supponiamo di studiare altri 100 Giove caldi e che siano tutti ricchi di zolfo. Cosa ci dice questo su come sono nati e come si sono formati in modo diverso rispetto al nostro Giove?», si domanda Fu.
I nuovi dati hanno anche escluso la presenza di metano in Hd 189733 b con una precisione senza precedenti e con le osservazioni alla lunghezza d’onda dell’infrarosso del telescopio Webb, contrastando le precedenti affermazioni sull’abbondanza di questa molecola nell’atmosfera.
Il team ha anche misurato i livelli di metalli pesanti come quelli presenti su Giove, una scoperta che potrebbe aiutare gli scienziati a rispondere alle domande su come la metallicità di un pianeta sia correlata alla sua massa, ha detto Fu.
I pianeti giganti ghiacciati meno massicci, come Nettuno e Urano, contengono più metalli di quelli che si trovano nei giganti gassosi come Giove e Saturno, i pianeti più grandi del Sistema solare. La maggiore metallicità suggerisce che Nettuno e Urano abbiano accumulato più ghiaccio, roccia e altri elementi pesanti rispetto a gas come idrogeno ed elio durante i primi periodi di formazione. Gli scienziati stanno verificando se questa correlazione vale anche per gli esopianeti.
«Questo pianeta di massa gioviana è molto vicino alla Terra ed è stato studiato molto bene. Ora abbiamo queste nuove misurazioni che dimostrano che le concentrazioni di metalli che possiede forniscono un punto di ancoraggio molto importante per lo studio di come la composizione di un pianeta varia con la sua massa e il suo raggio», conclude Fu. «I risultati supportano ciò che già sappiamo di come i pianeti si formino attraverso la creazione di materiale più solido dopo la formazione iniziale del nucleo e poi si arricchiscano naturalmente di metalli pesanti».
Nei prossimi mesi, il team di Fu ha in programma di monitorare lo zolfo in altri esopianeti e di capire in che modo gli alti livelli di questo composto potrebbero influenzare la vicinanza alla loro stella madre.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Hydrogen sulfide and metal-enriched atmosphere for a Jupiter-mass exoplanet” di Guangwei Fu, Luis Welbanks, Drake Deming, Julie Inglis, Michael Zhang, Joshua Lothringer, Jegug Ih, Julianne I. Moses, Everett Schlawin, Heather A. Knutson, Gregory Henry, Thomas Greene, David K. Sing, Arjun B. Savel, Eliza M.-R. Kempton, Dana R. Louie, Michael Line & Matt Nixon
L’Etna erutta al chiarore della Via Lattea
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Nei giorni scorsi l’Etna – il più grande vulcano attivo d’Europa – ha dato spettacolo di sé, eruttando lava dal cratere Voragine, uno dei suoi quattro crateri sommitali. Un’occasione ghiotta per gli appassionati di fotografia, che l’astrofotografo ragusano Gianni Tumino non si è fatto scappare, realizzando lo scatto che vedete qui in basso: U Mingibeddu – com’è chiamato in dialetto siciliano il vulcano – in piena attività eruttiva, che si staglia lungo l’orizzonte, illuminato dal bagliore della Via Lattea sullo sfondo. Uno scatto mozzafiato che la Nasa ha scelto come Astronomy Picture Of the Day (Apod) del 5 luglio.
L’attività effusiva dell’Etna è iniziata il 13/14 giugno scorso, evolvendosi presto in attività stromboliana – dal nome del vulcano Stromboli, anch’esso tornato a dare spettacolo in questi giorni con eruzioni dalla bocca della Sciara del Fuoco – e successivamente in fontane di lava. L’attività vulcanica si è protratta nei giorni seguenti, per poi affievolirsi nella mattina tra sabato 6 e domenica 7 luglio. La sera del 29 giugno l’astrofotografo Gianni Tumino era lì, pronto a immortalare l’ennesimo spettacolo della natura offerto dall’Etna.
«Quando l’Etna è in attività si sta sempre in preallarme perché conoscendone la sua imprevedibilità bisogna essere sempre pronti per non farsi scappare l’occasione di riprendere qualche evento spettacolare. Così è stato sabato 29 giugno 2024» dice a Media Inaf Tumino. «Sono partito da Ragusa al mattino con il mio collaboratore e appassionato astrofotografo, Giovanni Passalacqua, con tutta l’attrezzatura fotografica, organizzandoci il lavoro della giornata nella zona Etnea, per essere più vicini a Mongibello. Nel primo pomeriggio, abbiamo verificato dal sito dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) che i tremori del vulcano si mantenevano alti e abbiamo deciso, confortati anche del parere del caro amico ed esperto Rosario Catania, di andare sul versante ovest del vulcano, e precisamente a Piano dei Grilli, sopra Bronte. La scelta non è stata casuale: nel caso in cui il vulcano ci avesse ripensato, sarebbe rimasta l’opportunità di eseguire astrofotografie del cielo stellato e del sorgere della Via Lattea» continua Timino. «Piazzate le varie fotocamere ancora con la luce del giorno, abbiamo aspettato che facesse notte. All’ora blu l’attività del vulcano appariva già in tutta la sua maestosità, con lanci di lapilli e cenere da due bocche del cratere Voragine».
Fotocamere alla mano, Tumino e il suo collaboratore si sono messi all’opera, catturando l’immagine che avete visto in apertura. In basso nella foto è ben visibile la silhouette dell’Etna mentre è in eruzione. Al centro, in tutta la sua maestosità, c’è la nostra galassia, la Via Lattea, con le sue enormi nubi di polvere raggruppate lungo il piano galattico. Familiare agli osservatori del cielo del nostro emisfero, quello boreale, è il triangolo estivo, l’asterismo formato dalle stelle luminose Deneb, Vega e Altair, situato a cavallo tra le nebulose oscure e le nubi stellari luminose che svettano sopra il vulcano.
«Per fotografare insieme la Via lattea e il vulcano ho utilizzato una tecnica che consiste nel riprendere la stessa zona di panorama e cielo nello stesso momento, con due fotocamere (di cui una modificata per astronomia) con la stessa focale» aggiunge Tumino. Questo mi ha permesso di ottenere due immagini, una del panorama ed una della volta stellata con tutte le nebulose non visibili a occhio nudo, che ho fuso in post produzione ottenendo il risultato che vedete. Come tutte le foto che eseguo che ritengo di particolare interesse, ne ho inviata una copia agli indirizzi dei curatori del sito Apod della Nasa, che l’hanno scelta come foto astronomica del giorno 5 luglio».
Oggi giornata di immagini molto spettacolari dai nostri #vulcani. Ecco con un video di questa mattina dall'Etna: un'intensa attivita' stromboliana al cratere Voragine da un nuovo cono di scorie e alimenta una colata di lava che si tuffa nel cratere di Bocca Nuova.#Etna #INGV pic.twitter.com/zuXVorJGba— INGVvulcani (@INGVvulcani) July 3, 2024
Osservatore privilegiato dell’irrequietezza dell’Etna – che ricordiamo è uno dei vulcani oggetto del progetto a guida Inaf Avengers (Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), col quale si studieranno diversi vulcani attivi sulla Terra per svelare i misteri del vulcanismo di Venere – è Astri-Horn, il telescopio Cherenkov dell’Inaf installato presso la Stazione Osservativa M.G. Fracastoro e gestito dall’Inaf di Catania. Nonostante la sua posizione ai piedi del monte Etna, Astri-Horn è stato investito solo in parte dalla cenere vulcanica proveniente dalla nube alta diversi chilometri emessa dal vulcano nei giorni scorsi.
«Il vulcano ha cominciato a manifestare attività via via crescente a partire dal 13 giugno scorso. All’inizio era attività stromboliana minore localizzata nella “voragine”, il cratere centrale dell’Etna. Si tratta di una zona abbastanza distante dal telescopio, motivo per cui non ci sono stati effetti né sulla nostra sede osservativa né su Astri-Horn, tant’è che abbiamo iniziato le misure durante il periodo di Luna nuova come programmato a inizio di luglio» spiega a Media Inaf Giuseppe Leto dell’Inaf di Catania, responsabile del telescopio Astri-Horn. «Le cose sono cambiate il pomeriggio del 4 luglio, quando l’attività si è intensificata e si è evoluta in una fontana di lava che ha raggiunto circa 5mila metri ed è durata fino alle 4 ora italiana del mattino del 5 luglio» osserva il ricercatore.
«Per precauzione, le operazioni osservative sono state sospese ma fortunatamente, dato l’orientamento del vento in quota, le ceneri si sono disperse verso Sud-Est, lasciando quasi indenne la sede di Serra la Nave. Qualcosa di simile è poi successo il 7 luglio, con una nuova intensificazione dell’attività stromboliana che ci ha indotto a sospendere le osservazioni giusto qualche ora prima che l’attività si evolvesse di nuovo in fontana di lava, questa volta raggiungendo quota 9mila metri con un carico di ceneri notevole. Fortunatamente anche in questo caso i venti hanno prodotto ricadute concentrate sul versante Est e Sud-Est, senza ripercussioni per il telescopio. In definitiva, la cenere che è caduta nella nostra area è stata in quantità limitata e non ha determinato problemi. Abbiamo dovuto rinunciare alle osservazioni, ma il nostro obiettivo era tenere il telescopio in condizione di sicurezza. Comunque sappiamo già che Astri-Horn è resiliente rispetto alla cenere: è già successo che ne sia caduta, anche in quantità cospicua, ma alla ripresa delle osservazioni si è comportato come previsto», conclude Leto.
Via libera ai lanciatori spaziali europei
Il lanciatore europeo Vega in rampa di lancio. Crediti: Esa
A seguito della riunione a Parigi del 18 e 19 giugno scorsi, il Consiglio dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha deciso di aprire la strada alla commercializzazione del lanciatore Vega, arrivando finalmente alla risoluzione di un nodo importante sui servizi di lancio europei e sulla continuità dell’accesso europeo allo spazio.
La risoluzione dell’Esa include ufficialmente la definizione di servizio di lancio europeo, aspetto fondamentale per garantire l’accesso autonomo dell’Europa allo spazio nell’era della new space economy e della liberalizzazione del mercato spaziale globale. Queste decisioni gettano infatti le basi per una maggiore diversificazione dei servizi di lancio europei in un ambiente sempre più competitivo.
«Gli Stati membri dell’Esa stanno ultimando le modifiche necessarie al quadro normativo che regola lo sfruttamento dei lanciatori sviluppati dall’Esa per consentire ad Avio di diventare fornitore dei servizi di lancio di Vega» ha dichiarato Toni Tolker-Nielsen, direttore del trasporto spaziale dell’Esa. «Con le decisioni odierne, gli Stati membri dell’Esa assicurano la continuità, consentendo ad Avio di commercializzare d’ora in poi i servizi di lancio di Vega».
La decisione fa seguito all’invito che l’Esa – durante la riunione precedente del Consiglio a Siviglia nel novembre 2023 – ha rivolto agli Stati ad avviare una revisione del quadro giuridico che regola lo sfruttamento dei lanciatori sviluppati dall’Esa.
Il lanciatore Vega (Vettore Europeo di Generazione Avanzata), sviluppato con la collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana, è entrato a far parte della famiglia dei lanciatori sviluppati dall’Esa con il suo primo volo nel 2012 ed è entrato nel mercato commerciale nel 2015. La versione più potente di Vega – Vega Consolidation, detto anche Vega-C – ha poi debuttato nel 2022. Entrambe le varianti sono costruite sotto la responsabilità di Avio e commercializzate da Arianespace.
Avio e Arianspace hanno concordato che quest’ultima continuerà a fornire i servizi di lancio per Vega e Vega-C fino al volo Vega 29 (VV29), previsto per la fine del 2025. Per i lanci di Vega-C successivi a questa data, sarà possibile convertire i contratti già stipulati con Arianespace in contratti con Avio come nuovo fornitore di servizi di lancio e operatore unico di Vega. Arianespace si concentrerà principalmente con ArianeGroup per l’utilizzo dell’Ariane 6.
Infine, il Consiglio dell’Esa ha anche autorizzato l’uso dello spazioporto europeo nella Guyana francese da parte di quattro mini-lanciatori forniti dalle aziende europee di servizi di lancio Isar Aerospace, MaiaSpace, Pld Space e Rocket Factory Augsburg (Rfa).
«Finalmente l’Esa ha deciso di intaccare il monopolio di Arianespace nella gestione dei lanciatori europei», commenta l’astrofisica Patrizia Caraveo, autrice di Europe in the global Space Economy (Springer, 2023) con Clelia Iacomino. «Il panorama dell’accesso europeo allo spazio è desolato, praticamente inesistente davanti all’avanzata inarrestabile di SpaceX, a causa della gestione monopolistica del mercato dei lanciatori europei tutto nelle mani di Arianespace. L’approccio “ricicla e riusa” di SpaceX è chiaramente vincente ma l’Europa si è rifiutata di capirlo e ora ha accumulato un ritardo abissale».
«Era chiaro che qualsiasi errore strategico o gestionale della società fosse destinato ad avere riflessi devastanti sull’accesso allo spazio dei paesi europei. La decisione di dismettere Ariane 5 prima che Ariane 6 fosse pronto a sostituirlo è stato un gravissimo errore che ha regalato quote di mercato a SpaceX che è stato il vettore delle missioni Euclid, Galileo e Earthcare, senza contare i lanci commerciali delle società di telecomunicazioni europee. Dare la gestione dei lanci Vega ad Avio a partire dal 2026 è un passo nella giusta direzione per diversificare i provider dei servizi di lancio e lo stesso è vero per le compagnie interessate al mercato dei piccoli satelliti» aggiunge Caraveo. «Purtroppo la decisione non risolverà la carenza di servizi di lancio europei nel breve termine e il 2024 si prospetta non molto diverso dal 2023 che ha visto 109 lanci americani contro 3 europei. Non che le compagnie spaziali tradizionali americane possano cantare vittoria, sono una sparuta minoranza contro SpaceX che con novantotto lanci ha fatto la parte del leone, facendo meglio di Cina e Russia messi insieme».
Guarda la conferenza stampa del 327th Esa Council:
Potremmo essere soli nella Via Lattea
Karl G. Jansky Very Large Array (Vla). Crediti: Nrao
Secondo una nuova ricerca condotta da Robert Stern dell’Università del Texas a Dallas e da Taras Gerya del Politecnico federale di Zurigo, il motivo per cui non sono state trovate evidenze di civiltà extraterrestri avanzate – nonostante l’equazione di Drake preveda che nella nostra galassia ce ne siano decine, in grado di comunicare con noi – è di natura geologica.
In uno studio pubblicato su Nature’s Scientific Reports, Stern e Gerya suggeriscono che la presenza di oceani e continenti, nonché di una tettonica delle placche a lungo termine, sui pianeti che ospitano la vita, sia fondamentale per l’evoluzione di civiltà attive e comunicative (in breve Acc, acronimo di active, communicative civilizations). I ricercatori concludono che la probabile scarsità di questi tre requisiti sugli esopianeti diminuirebbe significativamente il numero di tali civiltà extraterrestri nella galassia.
«Sulla Terra la vita esiste da circa 4 miliardi di anni, ma gli organismi complessi come gli animali non sono comparsi fino a circa 600 milioni di anni fa, cioè non molto tempo dopo l’inizio dell’episodio moderno della tettonica a placche», spiega Stern. «La tettonica a placche fa davvero ripartire la macchina dell’evoluzione e noi pensiamo di averne capito il motivo».
Nel 1961 l’astronomo Frank Drake ideò un’equazione in cui diversi fattori vengono moltiplicati per stimare il numero di civiltà intelligenti nella nostra galassia in grado di rendere nota la loro presenza agli esseri umani. In questa equazione, riportata nell’immagine sotto, N è il numero di civiltà nella Via Lattea le cui emissioni elettromagnetiche (onde radio, ad esempio) sono rilevabili, R* è il numero di stelle che si formano ogni anno, fp è la frazione di stelle con sistemi planetari, ne è il numero di pianeti per sistema solare con un ambiente idoneo alla vita, fl è la frazione di pianeti idonei alla vita che di fatto la ospitano, fi è la frazione di pianeti sui quali la vita è intelligente, fc è la frazione di civiltà che sviluppano una tecnologia in grado di produrre segni rilevabili della loro esistenza e infine L è la durata media (in anni) in cui tali civiltà producono tali segnali.
Il motivo per cui non sono state trovate prove conclusive di civiltà extraterrestri avanzate – anche se l’equazione di Drake, qui illustrata, prevede che nella nostra galassia ce ne dovrebbero essere molte, in grado di comunicare con noi – potrebbe avere radici geologiche. Crediti: University of Texas at Dallas
L’attribuzione di valori plausibili alle sette variabili è un esercizio basato su ipotesi, che ha portato a prevedere la diffusione di tali civiltà. E ciò che ne deriva non è una stima irrisoria. Ma se questo è vero, perché non sono mai state trovate evidenze conclusive della loro esistenza?
Questa contraddizione è nota come paradosso di Fermi, dal nome del fisico e premio Nobel Enrico Fermi che aveva informalmente posto la questione ai colleghi.
Nel loro studio, Stern e Gerya propongono di perfezionare uno dei fattori dell’equazione di Drake – fi, la frazione di pianeti su cui emerge vita intelligente – per tenere conto della necessità di grandi oceani e continenti e dell’esistenza della tettonica delle placche per più di 500 milioni di anni.
«Nella formulazione originale, si pensava che questo fattore fosse quasi pari a 1, o al 100%: in altre parole, l’evoluzione su tutti i pianeti in cui c’era vita sarebbe andata avanti e, con un tempo sufficiente, si sarebbe trasformata in una civiltà intelligente», riferisce Stern. «Noi crediamo che questo non sia vero».
La tettonica delle placche è una teoria formulata alla fine degli anni Sessanta che afferma che la crosta terrestre e il mantello superiore sono suddivisi in pezzi in movimento, o placche, che si muovono molto lentamente, più o meno alla velocità con cui crescono le unghie e i capelli. Nel nostro sistema solare, solo uno dei quattro corpi rocciosi con deformazione superficiale e attività vulcanica – la Terra – presenta la tettonica a placche. Altri tre corpi rocciosi – Venere, Marte e la luna di Giove, Io – si stanno deformando attivamente e hanno vulcani giovani, ma non hanno la tettonica a placche. Altri due corpi rocciosi – Mercurio e la Luna – non presentano attività e sono tettonicamente morti.
«È molto più comune che i pianeti abbiano un guscio solido esterno che non è frammentato, il che è noto come tettonica a singolo strato», afferma Stern. «Ma la tettonica a placche è molto più efficace della tettonica a singolo strato per guidare l’emergere di forme di vita avanzate».
Quando le placche tettoniche si muovono, si scontrano o si allontanano l’una dall’altra, formando strutture geologiche come montagne, vulcani e oceani, che permettono anche lo sviluppo di modelli climatici e meteorologici moderati. Attraverso gli agenti atmosferici, le sostanze nutritive vengono rilasciate negli oceani. Creando e distruggendo habitat, la tettonica a placche sottopone le specie a uno stress ambientale moderato ma incessante, affinché si evolvano e si adattino.
Robert Stern, primo autore dell’articolo pubblicato su Nature’s Scientific Reports. Crediti: Utd
Stern e Gerya hanno anche valutato l’importanza della presenza duratura di grandi masse terrestri e oceani per l’evoluzione che porta a una specie attiva e capace di comunicare. «Sia i continenti che gli oceani sono necessari per gli Acc, perché l’evoluzione della vita multicellulare da semplice a complessa deve avvenire nell’acqua, ma l’ulteriore evoluzione che porta a interrogarsi sul cielo notturno, a sfruttare il fuoco e a usare i metalli per creare nuove tecnologie, e infine alla nascita di Acc in grado di inviare onde radio e razzi nello spazio, deve avvenire sulla terraferma», afferma Stern.
Il team di ricerca ha quindi proposto una revisione dell’equazione di Drake che definisce fi come il prodotto di due termini: foc, la frazione di esopianeti abitabili con continenti e oceani significativi, e fpt, la frazione di pianeti che hanno avuto una tettonica a placche di lunga durata.
Sulla base della loro analisi, Stern ha affermato che la frazione di esopianeti con un volume d’acqua ottimale è probabilmente molto piccola. Stimano che il valore di foc sia compreso tra 0,0002 e 0,01. Allo stesso modo, i ricercatori hanno concluso che anche una tettonica a placche di durata superiore a 500 milioni di anni è altamente insolita, portando a una stima di fpt inferiore a 0,17.
«Quando moltiplichiamo questi fattori, otteniamo una stima raffinata di fi che è molto piccola, tra lo 0,003% e lo 0,2%, invece del 100%», afferma Stern. «Questo spiega l’estrema rarità di condizioni planetarie favorevoli allo sviluppo di vita intelligente nella nostra galassia e risolve il paradosso di Fermi».
Secondo la Nasa, nella Via Lattea sono stati confermati più di 5.500 esopianeti ma non è ancora possibile rilevare, su questi pianeti, la presenza della tettonica delle placche. «La biogeochimica presuppone che la Terra solida, in particolare la tettonica delle placche, acceleri l’evoluzione delle specie», conclude Stern. «Studi come il nostro sono utili perché stimolano una riflessione ampia su misteri più grandi e forniscono un esempio di come possiamo applicare la nostra conoscenza dei sistemi terrestri a domande interessanti sul nostro universo».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature’s Scientific Reports l’articolo “The importance of continents, oceans and plate tectonics for the evolution of complex life: implications for finding extraterrestrial civilizations” di Robert J. Stern & Taras V. Gerya
Jwst cattura la drammatica fusione quasar-galassie
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“Qso”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / Inaf / A&A 2024
Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NirSpec a bordo del James Webb Space Telescope (Jwst, di Nasa, Esa e Csa) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della European Astronomical Society (Eas) a Padova.
Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NirSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1 per cento per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (Agn), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa due miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.
«Il nostro studio», spiega Roberto Decarli, ricercatore presso l’Inaf di Bologna e primo autore dell’articolo, «rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano». I dati sono stati ottenuti nel settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di Jwst. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.
Rappresentazione artistica degli specchi del James Webb Space Telescope. Crediti: Jwst/Nasa/Esa
Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica, il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.
«Grazie a NirSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti», commenta entusiasta Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’Inaf di Bologna e coautrice dell’articolo. «Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NirSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili». Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NirSpec al Jwst Support Centre dell’Inaf, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.
«Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso», continua Loiacono, «è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente “vista” offerta da Jwst è in grado di assicurare queste osservazioni». Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio «rollercoaster emotivo», aggiunge Decarli, «con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati».
Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb: «Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono et al.
Origine della vita? La risposta di Marte
Mappa interattiva della posizione del rover Curiosity della Nasa nel cratere Gale. La traccia del percorso che il rover ha effettuato sin dal suo atterraggio, nell’agosto 2012, è segnata in bianco. Crediti: Nasa
Non ci saranno gli omini verdi, su Marte, ma alcune molecole organiche certamente sì. Tracce di vita? Allo stato attuale delle conoscenze, non si può dire. Ma dalla loro analisi si è riusciti a comprendere il processo chimico che le ha generate nell’atmosfera del pianeta. Si chiama fotolisi e lo studio che ne parla è stato pubblicato su Nature Geoscience. Vediamo di che si tratta.
Già da alcuni anni, il rover Curiosity della Nasa – che su Marte gironzola da ormai 12 anni nel cratere Gale, di origine meteoritica – ha scoperto e confermato la presenza di materiale organico. Le analisi sono state effettuate con lo strumento Sample Analysis at Mars (Sam) a bordo del rover, e le proprietà di questi materiali a base di carbonio, in particolare il rapporto degli isotopi del carbonio, non lasciano alcun dubbio: si tratta di materia organica di origine sedimentaria conservata in sedimenti stratificati d’acqua e risalenti a circa 3,5 miliardi di anni fa.
Materiali organici con tali proprietà, se trovati sulla Terra, sarebbero in genere segno di microrganismi, ma possono anche essere il risultato di processi chimici non biologici. Come, appunto, la fotolisi. Il nome si riferisce semplicemente al processo per cui la luce del Sole, con le sue frequenze più energetiche ultraviolette (Uv), fornisce alle molecole l’energia necessaria per effettuare una trasformazione chimica. Secondo lo studio, in particolare, nell’atmosfera marziana il 20% delle molecole di CO2 sarebbe stato scisso in ossigeno e monossido di carbonio. Ma il carbonio ha due isotopi stabili: carbonio-12 e carbonio-13. Normalmente sono presenti in un rapporto di un carbonio-13 per ogni 99 carbonio-12. Tuttavia, la fotolisi funziona più velocemente per il carbonio-12 (più leggero), tanto che nel corso del tempo il monossido di carbonio prodotto risulta impoverito di carbonio-13, che finisce per accumularsi nella CO2 rimanente. Tutto questo determina il cosiddetto “arricchimento isotopico” nella CO2 e l’impoverimento nel monossido di carbonio, in un gioco di bilanci la cui somma, alla fine, deve sempre tornare.
Teoria della fotolisi alla mano, dunque, gli autori dell’articolo sapevano come cercare tracce di questo processo chimico nei campioni di Curiosity: occorreva analizzare precisamente il rapporto del carbonio nei sedimenti organici.
«Le molecole complesse a base di carbonio sono il prerequisito della vita, i mattoni della vita si potrebbe dire», dice Matthew Johnson, professore di chimica all’università di Copenhagen e coautore dello studio. «È un po’ come il vecchio dibattito su chi sia nato prima, l’uovo o la gallina. Abbiamo dimostrato che il materiale organico trovato su Marte si è formato attraverso reazioni fotochimiche atmosferiche – senza vita, cioè. Questo è l’uovo, ovvero il prerequisito della vita. Resta ancora da dimostrare se questo materiale organico abbia portato o meno alla vita sul Pianeta rosso».
Per capire che è stata proprio quella l’origine del materiale organico, il nuovo studio ha confrontato la composizione isotopica di un meteorite marziano giunto sulla Terra, con quella dei sedimenti organici trovati da Curiosity. Il primo, chiamato Allan Hills 84001 per il luogo in Antartide in cui è stato trovato, contiene minerali di carbonato che si formano dalla CO2 presente nell’atmosfera, ed è arricchito in carbonio-13. Il secondo, ovvero il materiale organico in situ, è risultato invece impoverito dello stesso isotopo. Come da previsioni teoriche, il Sole avrebbe scomposto la CO2 nell’atmosfera marziana miliardi di anni fa, e il monossido di carbonio risultante avrebbe gradualmente reagito con altre sostanze chimiche nell’atmosfera sintetizzando molecole complesse e fornendo a Marte materiali organici.
«Inoltre», continua Johnson, «poiché la Terra, Marte e Venere avevano atmosfere ricche di CO2 molto simili molto tempo fa, quando questa fotolisi ha avuto luogo, questa scoperta può anche rivelarsi importante per la nostra comprensione di come sia cominciata la vita sulla Terra».
Non ci sarebbero altre teorie ugualmente valide per spiegare sia l’impoverimento di carbonio-13 nel materiale organico che l’arricchimento nel meteorite marziano. Viene da pensare, a questo punto, che se si riuscisse a fare lo stesso ragionamento per il nostro pianeta, si avrebbe finalmente una risposta alla più antica domanda sull’origine della vita. È possibile, dunque, trovare prove simili qui, sul nostro pianeta?
Secondo i ricercatori, trovare le stesse prove isotopiche sulla Terra non sarebbe altrettanto lineare perché lo sviluppo geologico del nostro pianeta e della vita su di esso hanno cambiato la superficie in modo significativo rispetto a Marte.
«È ragionevole supporre che la fotolisi della CO2 sia stata anche un prerequisito per l’emergere della vita qui sulla Terra, in tutta la sua complessità», conclude Johnson. «Ma non abbiamo ancora potuto dimostrare che lo stesso processo ha avuto luogo sulla Terra. Forse perché la superficie terrestre è molto più viva, geologicamente e letteralmente, e quindi in continuo cambiamento. Ma averlo trovato su Marte è già un grande passo avanti, in un’epoca in cui i due pianeti erano molto simili».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Synthesis of 13C-depleted organic matter from CO in a reducing early Martian atmosphere“, di Yuichiro Ueno, Johan A. Schmidt, Matthew S. Johnson, Xiaofeng Zang, Alexis Gilbert, Hiroyuki Kurokawa, Tomohiro Usui e Shohei Aoki
La Nasa si esercita con un nuovo scenario di impatto
Davide Farnocchia, matematico, 39 anni, lavora dal 2012 al Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Si occupa principalmente della determinazione delle orbite di asteroidi e comete, con particolare attenzione riguardo al rischio di impatto o incontri ravvicinati con la Terra. Ha ideato l’orbita dell’asteroide utilizzato nell’ultima esercitazione della Nasa per la difesa planetaria. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Un asteroide del diametro di qualche centinaio di metri potrebbe impattare la Terra fra 14 anni, con una probabilità del 72 per cento. Tra i potenziali luoghi d’impatto ci sono aree molto popolate del Nord America, dell’Europa meridionale e del Nord Africa. Rimane un 28% di possibilità che l’asteroide manchi la Terra, ma di certo non si può contare su questo. Soprattutto perché dopo alcuni mesi di tracciamento, l’asteroide si avvicinerà troppo al Sole, rendendo impossibili ulteriori osservazioni per altri sette mesi. Che fare? Se lo sono chiesti il Planetary Defense Coordination Office (Pdco) della Nasa, il Federal Emergency Management Agency Response Directorate e il Department of State Office of Space Affairs: nel corso di due giorni in aprile, si sono riuniti presso il Johns Hopkins Applied Physics Laboratory di Laurel, nel Maryland, per considerare le potenziali risposte nazionali e globali allo scenario. Prima di procedere con i dettagli, però, una precisazione: non c’è nulla di vero, si tratta di un’esercitazione di difesa planetaria. La quinta, per la precisione, che la Nasa mette in piedi con cadenza biennale. Lo scopo è quello di informare e valutare la capacità (degli Stati Uniti, in collaborazione con altre agenzie ed enti preposti a livello internazionale) di rispondere efficacemente alla minaccia di un asteroide o di una cometa potenzialmente pericolosi. Per sapere tutti i dettagli, Media Inaf ha intervistato Davide Farnocchia, matematico 39enne che lavora al Center for Near Earth Object Studies (Cneos) del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, e che ha disegnato la traiettoria dell’asteroide considerato in questa esercitazione.
In cosa consiste questa simulazione e chi coinvolge?
«L’esercitazione consiste nel simulare un asteroide in rotta di collisione con la Terra. Nonostante si tratti di un asteroide simulato, l’esercitazione ha un alto livello di realismo: la traiettoria segue le leggi della fisica, la “scoperta” avviene esattamente quando l’asteroide diventerebbe osservabile coi telescopi e vengono simulati i dati che sarebbero a disposizione per caratterizzare l’asteroide e decidere il da farsi. Questi scenari di impatto vengono progettati dalla Nasa in collaborazione con Fema (la Federal Emergency Management Agency) e i colleghi della John Hopkins University e del Lawrence Livermore National Laboratory. L’esercitazione in sé dura un paio di giorni e prevede la partecipazione di varie agenzie governative degli Stati Uniti e talvolta di partner internazionali come l’Agenzia Spaziale Europea e l’Organizzazione delle Nazioni Unite».
Avete lavorato alla simulazione della traiettoria di un asteroide, come se fosse vero. Perché?
«Fortunatamente nessuno degli asteroidi conosciuti rappresenta una seria minaccia di impatto, quindi per poterci esercitare abbiamo bisogno di inventarne uno. Simulare un asteroide ha anche il vantaggio di permetterci di sceglierne le caratteristiche in modo da esercitare aspetti diversi ogni volta».
Qualche esempio?
«Ad esempio, per l’esercitazione del 2022 si è scelto un asteroide di “soli” 70 metri scoperto 6 mesi prima di un impatto nella Carolina del Nord. In così poco tempo non è possibile deflettere l’asteroide e quindi si è lavorato soprattutto a livello di governo federale e statale per implementare misure a livello territoriale per limitare il danno, come evacuare l’area che sarebbe stata colpita. Questa ultima volta, invece, abbiamo scelto un asteroide di un paio di centinaia di metri e con 14 anni di preavviso. Il punto di impatto non era ancora conosciuto, rendendo necessaria la collaborazione internazionale, che era uno degli scopi principali di questa esercitazione».
Da questo tipo di simulazioni, che risultato si spera di ottenere? Voglio dire, se un asteroide arriva sulla Terra non abbiamo scampo in ogni caso.
«Lo scopo è quello di acquisire familiarità col problema per poi essere in grado di adottare la strategia giusta nell’improbabile eventualità di dover affrontare la minaccia di un impatto asteroidale nella realtà. Acquisire familiarità è particolarmente importante per chi non si occupa quotidianamente di asteroidi. Giusto per fare un esempio, per le agenzie che si occupano di gestire disastri frequenti come uragani o terremoti, 14 anni sembrano un lasso di tempo lungo e quindi non necessariamente si percepisce la necessità di agire presto. Ma una volta che si inizia a guardare al tempo necessario per costruire una sonda, al tempo di volo necessario per raggiungere l’asteroide e alle opportunità effettive per defletterlo, ci si rende conto come invece sia importante mettersi al lavoro subito».
Se dovesse davvero verificarsi una situazione simile, quali sarebbero i passi da compiere?
«Nel caso ci fosse un asteroide in rotta di collisione, i passi da compiere dipenderebbero principalmente da quanto distante nel tempo è l’impatto, e dalle dimensioni dell’oggetto. Avere telescopi potenti che scoprano asteroidi il prima possibile è importante perché le opzioni a disposizione aumentano se l’impatto è identificato con largo anticipo».
Come il telescopio spaziale infrarosso in costruzione dalla Nasa, il Neo Surveyor (Near-Earth Object Surveyor). Una volta identificato, si spera, con ampio margine, quali sono le opzioni a disposizione?
«Per evitare un impatto si dovrebbe deflettere l’asteroide. La tecnologia più testata, come dimostrato dalla missione Dart, è l’impatto cinetico, ovvero mandare una sonda che colpisca l’asteroide a grande velocità cambiandone la traiettoria. Un’altra opzione sarebbe quella nucleare, soprattutto se l’oggetto fosse di grandi dimensioni ed il tempo a disposizione limitato. Se invece l’oggetto fosse piccolo ed il danno limitato e localizzato, la scelta ricadrebbe su misure di limitazione del danno, come ad esempio evacuare l’area dove l’asteroide è diretto».
E come si raccontano, alle persone, questi scenari?
«Per quanto riguarda la comunicazione col pubblico, i dati che usiamo per il calcolo della traiettoria degli asteroidi e i nostri risultati sono pubblici. Tenere il pubblico aggiornato e avere diverse agenzie come Nasa ed Esa che fanno i calcoli e riportano gli stessi risultati dovrebbe infondere fiducia. Speriamo inoltre di sfruttare eventi come l’incontro ravvicinato dell’asteroide Apophis nel 2029, che sarà addirittura visibile a occhio nudo, per coinvolgere il pubblico e dargli un’idea del lavoro che facciamo».
Quanto è probabile che si verifichi un impatto con un asteroide grande quanto quello che avete simulato?
«Impatti con asteroidi di grandi dimensioni sono rari. Ad esempio, oggetti in grado di fare danni a livello globale (diametro di almeno 1 kilometro) colpiscono la Terra ogni 700 mila anni, in media. Di questi ne abbiamo già scoperti almeno il 90%.
Corpi più piccoli, invece?
«Abbiamo avuto asteroidi impattanti di qualche metro, che raggiungono la Terra ogni paio di anni, in media. Questi non sono pericolosi ma permettono di esercitarci e dimostrare che possiamo prevedere il tempo e luogo di impatto. L’ultimo è stato 2024 BX1, entrato nell’atmosfera esattamente dove e quando previsto».
Per saperne di più:
- Leggi il Summary pubblicato dalla Nasa con tutti i risultati dell’ultima simulazione
Così ticchetta l’orologio più preciso al mondo
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Un gas ultrafreddo di atomi di stronzio è intrappolato in un reticolo ottico. Per aiutare a preservarne i delicati e fragili stati quantistici, gli atomi sono tenuti in un ambiente a vuoto ultraspinto. Il puntino rosso che si vede nell’immagine è un riflesso della luce laser usata per creare la trappola per atomi. Crediti: K. Palubicki/Nist
Per un orologio, la regolarità del ticchettio è tutto. Ma a quanto può arrivare? Per scoprirlo occorre andare a Boulder, in Colorado, dove sorgono i laboratori del Jila, un istituto congiunto del National Institute of Standards and Technology (Nist) statunitense e dell’Università del Colorado. È lì che si trova quello che è attualmente l’orologio atomico più preciso al mondo. Descritto in dettaglio in un articolo in uscita la prossima settimana su Physical Review Letters, è realizzato con un reticolo ottico, una sorta di “rete di luce” intessuta con raggi laser in grado di mantenere intrappolati decine di migliaia di atomi di stronzio, misurandone al tempo stesso una particolare transizione – la transizione 1S0→3P0 – e ottenendo così un clock dalla stabilità senza rivali: in teoria non dovrebbe perdere più di un secondo ogni 30 miliardi di anni.
Rispetto agli orologi atomici di generazione precedente, che funzionavano eccitando gli atomi con microonde, questo utilizza luce visibile, dunque a frequenza molto più elevata. Non è però l’unica novità: per ottenere una precisione così spinta, è stato necessario un lavoro certosino sia sul fonte del controllo degli atomi che su quello della stabilità ambientale, così da ridurre il più possibile gli errori sistematici. Risultato: l’incertezza raggiunta è pari a 8×10-19, vale a dire otto parti su dieci miliardi di miliardi. Un risultato sbalorditivo, che migliora l’accuratezza di oltre un fattore 2 rispetto all’orologio a reticolo ottico con atomi di stronzio più preciso mai realizzato in precedenza.
Ma a cosa può mai servire un orologio così accurato? Il suo fine va ben oltre il semplice fornire l’ora esatta. La sua precisione è infatti tale da poter misurare le dilatazioni del tempo dovute a effetti di relatività generale anche a scale microscopiche. È dunque potenzialmente in grado di registrare le alterazioni nell’andamento del tempo prodotte da variazioni di potenziale gravitazionale dovute, a loro volta, a spostamenti submillimetrici. Detto altrimenti: se lo solleviamo o lo abbassiamo di una quantità pari allo spessore d’un capello, un orologio di questo tipo riuscirà a calcolare l’impercettibile spostamento misurando di quanto la differenza di potenziale gravitazionale ha fatto accelerare o rallentare lo scorrere del tempo.
Le applicazioni concrete sono innumerevoli. Un oggetto così sensibile al variare del potenziale gravitazionale può essere usato, per esempio, nella ricerca di giacimenti minerari nascosti nel sottosuolo. Quanto alla precisione nel calcolo del tempo, è un requisito essenziale per la navigazione interplanetaria, dove anche il più piccolo errore può portare a deviazioni rispetto alla rotta desiderata che aumentano esponenzialmente con la distanza. «Se vogliamo far atterrare una navicella spaziale su Marte con una precisione millimetrica», dice a questo proposito uno degli autori dello studio, Jun Ye del Jila, «avremo bisogno di orologi con una precisione di parecchi ordini grandezza superiore a quella di cui disponiamo oggi con il Gps. Il nostro nuovo orologio atomico è un passo importante in questa direzione». Non vanno poi dimenticate le importanti ricadute che le tecnologie messe a punto per raggiungere una precisione così spinta – in particolare, il reticolo ottico in grado di imbrigliare e controllare i singoli atomi – possono avere per il quantum computing.
Ma più che le applicazioni concrete, a essere affascinanti sono le implicazioni per la conoscenza. Poter osservare gli effetti della relatività generale su scale così microscopiche, sottolineano infatti i ricercatori, aiuta a colmare in modo significativo il divario tra il regno microscopico dei quanti e i fenomeni su larga scala descritti dalla relatività generale. «Stiamo esplorando le frontiere della scienza della misurazione. E quando si giunge a misurare la realtà con questo livello di precisione», conclude Ye, «si iniziano a vedere fenomeni che finora abbiamo potuto solo teorizzare».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Physical Review Letters “A clock with 8×10−19 systematic uncertainty”, di Alexander Aeppli, Kyungtae Kim, William Warfield, Marianna S. Safronova e Jun Ye
A Bologna l’estate è tempo di scienza
Osservazioni guidate del cielo notturno, laboratori didattici, esperimenti, incontri e conferenze con autori e divulgatori illustri, tra cui AstroViktor, alias Vittorio Baraldi, e Curiuss, alias Alan Zamboni. A Bologna viaggio alla scoperta dell’universo comincia venerdì 5 luglio 2024 in via san Donato 149, nello storico cortile del Casalone.
Locandina degli eventi di È tempo di scienza
Un festival a tutto tondo, perché non racconta soltanto la fisica delle leggi che muovono il Sistema solare, ma esorta a osservare e ad ascoltare le stelle, provando a vederci le stesse storie che si tramandano dall’antichità; un festival che invita a sognare la Luna con la stessa fantasia che ha ispirato poesie, romanzi, film e canzoni, a scoprire le imperfezioni della superficie solare e infine a riflettere sui comportamenti della nostra atmosfera.
Un festival che attraversa il tempo: comincia dalle credenze della mitologia più remota per arrivare alle aspettative che riponiamo nello spazio per il nostro futuro; esplora come l’essere umano nella storia abbia imparato a scandire le proprie attività grazie alla misura del tempo mediante il movimento degli astri e si interroga sul significato profondo del tempo nelle nostre vite e nella fisica stessa.
Con questo fil rouge nasce È tempo di scienza, un festival dedicato alla scienza e allestito al circolo culturale “Il Casalone”, situato nel cuore del quartiere San Donato-San Vitale di Bologna, grazie alla collaborazione tra Sofos Aps, una realtà attiva nella divulgazione delle scienze da quasi vent’anni, e il quartiere San Donato-San Vitale, da sempre attento alla promozione sociale e culturale sul territorio. Collaborano al progetto l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e le associazioni Fucina XXI Aps, La Casa del Faro Aps, Ritmo Lento Aps, Circolo Ghinelli 33 Asd e Fascia Boscata.
Programmazione
Venerdì 5 luglio 2024 alle 21:30, al Casalone, incontro letterario con Maria Giulia Andretta, autrice di Stregati dalla Luna e Dalla Terra a Marte.
Sabato 6 luglio alle 16:00, al Casalone, laboratorio didattico sul Sistema solare in cui bambine e bambini potranno costruire con le proprie mani una riproduzione in miniatura del pianeta che più li affascina.
Giovedì 11 luglio alle 21:30, al Casalone, incontro letterario col ricercatore Vincenzo Levizzani del Cnr di Bologna per parlare delle piogge e della nostra atmosfera.
Giovedì 18 luglio alle 21:30 science show con Vittorio Baraldi, divulgatore spaziale noto come AstroViktor, che parlerà di generazioni future nello spazio.
Venerdì 19 luglio alle 16:00, nel parco san Donnino, a poche centinaia di metri dal Casalone, un pomeriggio dedicato al Sole in occasione del picco di attività in corso quest’anno. Si osserverà e si ascolterà il Sole attraverso un telescopio e un radiometro mentre per i più piccoli saranno svolti laboratori didattici a tema.
Mercoledì 24 luglio alle 21:30, nel parco san Donnino, serata Col favore del buio insieme al divulgatore Luca Angeretti di Sofos Aps, l’astronomo Sandro Bardelli dell’Inaf di Bologna e l’arpista Gabriele Giunchi. Una serata all’insegna dell’osservazione a occhio nudo degli oggetti celesti usando un potente puntatore laser.
Mercoledì 31 luglio alle 21:30, al Casalone si conclude il festival con un altro ospite d’eccezione: Alan Zamboni, padre del canale YouTube di divulgazione Curiuss, che terrà uno spettacolo sulla misura del tempo.
Tutti gli eventi sono gratuiti e a ingresso libero, con prenotazione consigliata solo per i laboratori del 6 e 19 luglio per questioni logistiche. I dettagli di ogni evento del festival sono pubblicati sul sito web e sulle pagine social di Sofos Aps, sui canali ufficiali di Bologna Estate e di tutti i partner di questo progetto, tra cui l’Inaf Oas di Bologna. Per ulteriori informazioni si consiglia di scrivere una e-mail a eventi@sofosdivulgazionedellescienze.it o inviare un WhatsApp al 3703155954.
Una starburst per festeggiare Gemini North
Questa immagine, che assomiglia a una nuvola di coriandoli cosmici, è stata pubblicata per celebrare il 25esimo anniversario di Gemini North. Ngc 4449 è un ottimo esempio di attività stellare causata dall’interazione di galassie, mentre assorbe lentamente i suoi vicini galattici più piccoli. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura
Gran parte della materia visibile nell’universo – quella che costituisce le stelle, i pianeti e anche noi – viene creata all’interno delle stelle mentre completano il loro ciclo di nascita, vita e morte. Nascono da nubi di gas e polvere e quando muoiono i loro resti vengono riciclati nel mezzo interstellare per essere utilizzati come combustibile per la successiva generazione di stelle. E in un angolo non troppo lontano dell’universo, a 13 milioni di anni luce di distanza, nella costellazione dei Cani da Caccia, l’inizio di questo ciclo si sta svolgendo a un ritmo eccezionale.
Ngc 4449, conosciuta anche come Caldwell 21, sembra stia organizzando uno spettacolo pirotecnico cosmico in questa immagine catturata con il telescopio Gemini North – uno dei due telescopi dell’Osservatorio Internazionale Gemini, in parte supportato dalla National Science Foundation degli Stati Uniti e gestito dal NoirLab.
Le fluttuanti nuvole rosse della galassia e lo scintillante velo blu illuminano il cielo con i colori delle stelle appena formate. È classificata come galassia irregolare di tipo Magellanico, per via della sua struttura a spirale decisamente “sparsa” e la stretta somiglianza con la Grande Nube di Magellano.
All’interno di Ngc 4449, le stelle si sono formate per diversi miliardi di anni, ma attualmente la galassia sta generando nuove stelle a un ritmo molto più elevato che in passato. Questa attività di formazione stellare insolitamente esplosiva e intensa la qualifica come galassia starburst. Mentre le esplosioni stellari si verificano solitamente nelle regioni centrali delle galassie, la formazione stellare di Ngc 4449 è più diffusa, come dimostra il fatto che le stelle più giovani si trovano sia nel nucleo che nei flussi che circondano la galassia.
Questa intensa attività di starburst assomiglia a quelle che caratterizzano le prime galassie a formazione stellare dell’universo, che si sono sviluppate fondendosi con sistemi stellari più piccoli e accorpandoli. E come i suoi predecessori galattici, la rapida formazione stellare di Ngc 4449 è stata probabilmente innescata dalle interazioni con le galassie vicine.
La Via Lattea risplende sopra al telescopio Gemini North. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura/ B. Tafreshi
Come membro del Gruppo di galassie M94 – uno dei gruppi di galassie più vicini al Gruppo Locale, che ospita la Via Lattea – Ngc 4449 si trova in prossimità di una manciata di galassie più piccole circostanti, ed effettivamente gli astronomi hanno trovato prove di interazioni tra Ngc 4449 e almeno due di queste galassie satellite.
Una di queste è una galassia nana molto debole che tuttora viene attivamente assorbita, come dimostra un flusso diffuso di stelle che si estende su un lato di Ngc 4449. Questa fusione “furtiva” a occhio è quasi impercettibile a causa della sua natura diffusa e della sua bassa massa stellare. Tuttavia, possiede una grande quantità di materia oscura, il che significa che la sua presenza può essere rilevata dall’influenza gravitazionale che esercita su Ngc 4449. L’altro oggetto che fornisce indizi di una fusione passata è un massiccio ammasso globulare nell’alone esterno di Ngc 4449. Gli astronomi ritengono che questo ammasso sia il nucleo superstite di una precedente galassia satellite ricca di gas, ora in procinto di essere assorbita da Ngc 4449.
I partecipanti alla cerimonia di inaugurazione del telescopio Gemini Nord. Le bandiere dei Paesi partner sono appese al telescopio. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura
Quando Ngc 4449 interagisce e assorbe le sue compagne galattiche più piccole, le interazioni mareali tra le galassie comprimono e sconvolgono il gas. Le regioni rosse incandescenti sparse in questa immagine mostrano questo processo, indicando un’abbondanza di idrogeno ionizzato – un segno rivelatore della formazione stellare in corso. Dai forni galattici sta emergendo una pletora di giovani e caldi ammassi stellari blu, alimentati dai filamenti scuri di polvere cosmica che attraversano la galassia. Al ritmo attuale, la riserva di gas che alimenta la produzione di stelle di Ngc 4449 durerà solo per un altro miliardo di anni circa.
Questa immagine è stata pubblicata il 25 giugno per celebrare il 25° anniversario del telescopio Gemini North. Il 25 giugno 1999 si tenne una cerimonia di inaugurazione a Maunakea, alle Hawaii, per presentare il nuovo telescopio da 8,1 metri e rivelare le sue prime immagini, che all’epoca erano tra le più nitide all’infrarosso mai ottenute da un telescopio terrestre. Negli ultimi due decenni e mezzo, il grande specchio di Gemini North, la potente suite di strumenti e le sue avanzate ottiche adattive hanno permesso agli astronomi di scrutare sempre più lontano nel cosmo. Dalla cattura della prima immagine diretta di un sistema multiplanetario alla verifica della teoria generale della relatività di Einstein – che ha permesso agli astronomi di ottenere il Premio Nobel 2020 – Gemini North ha contribuito in modo determinante alla comprensione dell’universo da parte dell’umanità. L’immagine di Ngc 4449 è solo un piccolo e bellissimo esempio.
Muschio con prestazioni da far invidia ai tardigradi
Esemplare di Syntrichia caninervis. Crediti: Sheri Hagwood/Usda-Nrcs Plants Database
Quando il cercare vita su Marte cederà il posto al portare vita su Marte, è molto probabile che una fra le prime creature che tenteremo d’esportare sul Pianeta rosso sarà un muschio. Non un muschio qualunque, ma la specie che vedete qui a fianco: si chiama Syntrichia caninervis e quanto a resistenza a condizioni avverse è “il tardigrado dei vegetali”.
Nemmeno il più nero dei pollici riuscirebbe a metterlo in crisi. Abituato qui sulla Terra – dove prolifera in ambienti non proprio ospitali quali il Tibet, l’Antartide e le regioni circumpolari – a tollerare lunghi periodi di siccità estrema, in laboratorio ha dato mostra di saper superare pressoché indenne i più spietati maltrattamenti, mettendo a dura prova il team multidisciplinare di ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze che ha poi riportato questa settimana, su The Innovation (una rivista del gruppo Cell), i risultati delle “torture”.
Hanno provato ad abbatterlo tenendolo in freezer a -80 °C per cinque anni. Quando lo hanno scongelato era più sano di prima. Allora l’hanno calato in una tanica d’azoto liquido, a −196 °C, e l’hanno lasciato lì per un mese. Niente da fare. L’immortale muschio si è sempre ripreso, e con maggiore rapidità se prima d’affrontare il supplizio del freddo era stato disidratato.
A quel punto hanno provato con le radiazioni – in dose da cavallo, anzi da pianta: 500 Gray, quanto basta per uccidere praticamente qualunque vegetale (a mettere fuori gioco noi umani ne bastano 50). E qui l’esito ha avuto il sapore della beffa: Syntrichia caninervis non solo se l’è cavata senza accusare alcun colpo, ma addirittura sembra che ne abbia tratto beneficio, visto che, notano gli autori dello studio, l’esposizione ai raggi letali “ha promosso in modo deciso la rigenerazione di nuovi rami”. Per arrivare a quella che i tossicologi chiamano Ld 50, ovvero la dose necessaria a uccidere la metà della popolazione, di radiazioni ne hanno dovute erogare dieci volte di più: 5000 Gray. «I nostri risultati indicano che S. caninervis è tra gli organismi più tolleranti alle radiazioni che si conoscano», scrivono i ricercatori.
Infografica dei test condotti. Crediti: Xiaoshuang Li et al., The Innovation, 2024
È dunque venuto spontaneo chiedersi come una specie così cocciutamente attaccata alla vita possa cavarsela in un ambiente extraterrestre, in particolare sul Pianeta rosso. In attesa di poterlo imbarcare su qualche sonda spaziale, lo hanno traslocato all’interno della Planetary Atmospheres Simulation Facility dell’Accademia cinese delle scienze, un simulatore di atmosfere planetarie in grado di riprodurre condizioni simili a quelle che l’ostinato muschio incontrerebbe su Marte: aria ultrararefatta e composta al 95 per cento da CO2, temperature che oscillano da -60°C a 20°C e alti livelli di radiazioni ultraviolette. Alcuni campioni sono rimasti lì dentro per un giorno, altri per due, altri per tre e alcuni per un’intera settimana. Com’è andata a finire già l’avrete intuito: entro un mese dal termine del soggiorno simil-marziano il 100 per cento delle piante che avevano affrontato la prova da essiccate si erano già perfettamente riprese. E anche quelle che avevano trascorso un giorno nel simulatore da idratate, seppur con maggior lentezza, sono riuscite a rigenerarsi.
Tutto pronto per il primo presepe vivente su Marte, dunque? In realtà c’è ancora parecchia strada da fare. Anzitutto occorre vedere come S. caninervis se la cava a contatto con i temibili perclorati, che pare siano presenti in quantità nel suolo marziano. Poi non va dimenticato che, mentre qui sulla Terra l’ordalia affrontata dal muschio era comunque a termine, su Marte non ci sarebbe tregua, trattandosi di condizioni immutabili.
I ricercatori sono comunque cautamente ottimisti. «Sebbene ci sia ancora molta strada da fare per creare habitat autosufficienti su altri pianeti», scrivono, «abbiamo dimostrato il grande potenziale di S. caninervis come pianta pioniera per la crescita su Marte. Guardando al futuro, ci aspettiamo che questo promettente muschio possa essere portato su Marte o sulla Luna per testare ulteriormente la possibilità di colonizzazione e crescita delle piante nello spazio esterno».
Per saperne di più:
- Leggi su The Innovation l’articolo “The extremotolerant desert moss Syntrichia caninervis is a promising pioneer plant for colonizing extraterrestrial environments”, di Xiaoshuang Li, Wenwan Bai, Qilin Yang, Benfeng Yin, Zhenlong Zhang, Banchi Zhao, Tingyun Kuang, Yuanming Zhang e Daoyuan Zhang
Una notte con tre asteroidi
La strisciata del Nea 2011 UL21 ripresa la notte del 30 giugno 2024 con il sistema Tandem dell’Inaf-Oas. Crediti: A. Carbognani/Tandem/Inaf.
Lo scorso 30 giugno c’è stata la decima edizione dell’Asteroid Day e – per una pura coincidenza – in cielo erano ben osservabili gli asteroidi near-Earth 2011 UL21 e 2024 MK, rispettivamente di 2,5 chilometri e 150 metri di diametro, di cui vi avevamo parlato. Questi asteroidi erano molto luminosi perché vicini alla Terra: il 27 giugno 2011 UL21 è arrivato a 6,6 milioni di chilometri (mag +11), mentre il 29 giugno 2024 MK era a soli 295mila chilometri (mag +8,5).
Quando gli asteroidi near-Earth passano così vicino a noi si tratta di una buona occasione per caratterizzarli dal punto di vista fisico: se sono troppo distanti – essendo di piccole dimensioni e molto scuri in superficie – diventano difficilmente osservabili anche con grandi telescopi.
Per fortuna, la notte del 30 giugno il cielo era perfettamente sereno e senza Luna e alla Stazione Astronomica di Loiano dell’Inaf di Bologna ne abbiamo approfittato per fare un “test asteroidale” con l’innovativo sistema di telescopi Tandem (Telescope Array eNabling DEbris Monitoring), concepito per il monitoraggio degli space debris in orbita bassa, ma utilizzabile anche sui corpi minori. Si tratta di un array di quattro telescopi da 35 centimetri di diametro ad ampio campo di vista: ogni Tandem è in grado di abbracciare un quadrato di 2° di lato in cielo. I telescopi sono alloggiati sulla montatura equatoriale del telescopio G. D. Cassini da 1,52 metri di diametro di cui condividono l’ascensione retta, ma non la declinazione che è indipendente.
La sessione osservativa è iniziata con largo anticipo con l’apertura della cupola per permettere la climatizzazione dei telescopi e la ripresa dei flat field necessari, insieme ai dark frame, per la calibrazione delle immagini catturate dalle quattro camere Cmos di Tandem.
L’asteroide main belt (20014) Annalisa, indicato dalla freccia, ripreso con Tandem quando era a circa 300 milioni di chilometri dalla Terra. Crediti: A. Carbognani/Tandem/Inaf.
Il primo target è stato 2011 UL21, ancora alto sull’orizzonte ovest. L’asteroide era già in fase di allontanamento, ma ancora brillante di mag +12 e con una velocità angolare moderata di 23 secondi d’arco al minuto. Una posa della durata di 120 secondi è stata sufficiente per metterne in evidenza “la strisciata” dovuta al moto proprio dell’asteroide in cielo. Numerose pose più brevi e con diversi filtri sono state fatte per ottenere l’astrometria e gli indici di colore.
In attesa che 2024 MK fosse abbastanza alto sull’orizzonte est, i Tandem sono stati puntati su un anonimo asteroide che ha fatto parlare molto di sè in questi giorni: (20014) Annalisa. L’asteroide, un main belt di magnitudine +18,3 con un diametro di 4,5 chilometri, è stato immortalato con Tandem quando era a una distanza di circa 300 milioni di chilometri dalla Terra. Va detto che il nome all’asteroide non è stato assegnato dalla Nasa (come è stato riportato su alcune testate), ma è arrivata una proposta di dedica al Working Group Small Bodies Nomenclature della Iau (International Astronomical Union) che l’ha accettata assegnando il nome all’asteroide (20014) 1991 RM29 e pubblicandola ufficialmente nel Bulletin, Vol.4, n.7 del 2024. Il proponente è stato il Delegato alla Cultura del Comune di Rosarno, Antonino Brosio, come si legge dal comunicato apparso oggi sui social.
La strisciata del Nea 2024 MK ripreso all’alba del 1 luglio 2024 con Tandem. Crediti: A. Carbognani/Tandem, Inaf.
Nella seconda parte della notte, quindi all’alba del 1 luglio, anche l’asteroide 2024 MK è arrivato alla portata di Tandem. Essendo molto più piccolo di 2011 UL21 e in rapido allontanamento, questo Nea era già di magnitudine +14,5, ma ancora nel range d’azione del sistema ed è bastata una posa di pochi minuti per catturarne la strisciata. A differenza di 2011 UL21, qui la striscia si mostra progressivamente più debole: la causa è la rapida rotazione dell’asteroide attorno al proprio asse, abbinata alla forma allungata, che ne provoca un cambiamento repentino di luminosità. Per conoscere il valore esatto del periodo bisognerà analizzare con calma le immagini riprese, ma sembra dell’ordine di 15-30 minuti.
Se confermato, questo valore indicherebbe che 2024 MK è un oggetto con una struttura monolitica e non un rubble pile come Dimorphos (che ha dimensioni simili), altrimenti la rapida rotazione ne provocherebbe la disgregazione nei blocchi componenti. D’altra parte si tratta di un asteroide di dimensioni modeste (ma pur sempre con una massa circa 30 volte superiore all’asteroide responsabile della catastrofe di Tunguska) e una struttura monolitica è possibile. La sessione si è chiusa all’approssimarsi dell’alba, con uno spicchio di Luna sull’orizzonte est: grazie Tandem per questa notte ricca di emozioni.
Matisse si aggiorna verso la geologia planetaria
Screenshot dell’interfaccia di Matisse con la superficie di Mercurio. Crediti: Ssdc/Inaf-Oar/UniPv
È stato recentemente pubblicato sulla rivista Astronomy & Computing un nuovo articolo, a primo nome di Veronica Camplone (Ssdc/Inaf-Oar/UniPv), relativo a un importante aggiornamento del webtool scientifico di Asi-Ssdc dedicato all’analisi dei dati di esplorazione planetaria Matisse (Multi-purpose Advanced Tool for Instruments for the Solar System Exploration).
Matisse, nato nel 2013, permette di effettuare la ricerca e la visualizzazione del dato (anche proiettato sulla forma tridimensionale dell’oggetto studiato) utilizzando solo un comune web browser, quindi senza necessità di installare software aggiuntivo. Questo tool è in costante sviluppo grazie anche a nuove collaborazioni che vanno instaurandosi tra Ssdc e diversi gruppi di ricerca, sia italiani che internazionali, e al momento fornisce l’accesso a dati relativi a Mercurio, Venere, Marte, Cerere, Vesta e Didymos, permettendo ai ricercatori di condurre analisi comparative e di approfondire la comprensione dei processi che caratterizzano i diversi mondi esplorati.
L’articolo in questione illustra la recente aggiunta di una funzionalità particolare sul tool, ovvero la possibilità di effettuare ricerche nei dati basandosi non solo sulle classiche informazioni geografiche o temporali, ma anche su informazioni semantiche di più alto livello, contenute nelle carte geologiche. Tale aggiornamento è stato l’argomento principale del dottorato della stessa Camplone.
La ricercatrice Veronica Camplone (Ssdc/Inaf-Oar/UniPv)
In particolare in questo articolo, la possibilità di effettuare ricerche selezionando i dati di Mercurio acquisiti dalla camera Mdis a bordo della sonda Nasa Messenger ha permesso di concentrarsi su crateri con central pit, utilizzando esclusivamente Matisse, senza dover incrociare in maniera complessa dati provenienti da diverse fonti. «Una delle sfide più significative nel portare a termine quest’aggiornamento è stata la necessità di trasformare carte geologiche complesse e diverse in informazioni omogeneizzate secondo standard internazionali per la preservazione dei dati, come il Virtual Observatory», dichiara Camplone. «Questo lavoro mi ha fatto comprendere l’importanza della corretta gestione dei dati e come questa possa essere migliorata attraverso innovazioni tecnologiche, rendendo la ricerca scientifica più agile e incisiva».
Secondo Angelo Zinzi, responsabile Asi per l’accordo Asi-Inaf per Ssdc, e coordinatore del gruppo di esplorazione del Sistema solare dello stesso Ssdc, in futuro l’obiettivo è quello di espandere questa funzionalità anche ad altri corpi del Sistema solare, a partire dalla Luna, obiettivo di estremo interesse in questo periodo anche per le future missioni Artemis, destinate a riportare umani sulla Luna.
Il lavoro comprenderà anche la standardizzazione e l’omogeneizzazione di carte geologiche prodotte da autori diversi, così da rendere ancora più semplice il loro confronto e la ricerca di dati di interesse.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Computing l’articolo “Enhancement of the MATISSE tool for the geological analysis of planetary surfaces: A study on central pit craters on Mercury” di V. Camplone, A. Zinzi, M. Massironi, A.P. Rossi, F. Zucca
Dopo sei mesi, Sherloc è di nuovo operativo
L’11 maggio 2024 lo strumento Mastcam-Z ha scattato queste tre immagini che mostrano il movimento della copertura della fotocamera Aci durante un test per valutare il suo funzionamento. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss
Per la prima volta, dopo un problema riscontrato lo scorso gennaio, lo strumento Sherloc(Scanning Habitable Environments with Raman & Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance della Nasa torna a essere operativo sul suolo marziano.
Il 17 giugno gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) hanno confermato che lo strumento è riuscito a raccogliere dati. «Sei mesi di diagnostica, test, analisi delle immagini e dei dati, risoluzione dei problemi e ripetizione dei test non potevano portare a una conclusione migliore», dichiara Kevin Hand, principal investigator di Sherloc.
Montato sul braccio robotico del rover, Sherloc utilizza due telecamere e uno spettrometro laser per cercare composti organici e minerali nelle rocce che in passato si suppone siano state alterate dagli ambienti acquatici marziani e che potrebbero rivelare segni di un’antica vita microbica. Il 6 gennaio, una copertura mobile progettata per proteggere dalla polvere lo spettrometro e una delle sue telecamere si è bloccata in una posizione che ha impedito a Sherloc di raccogliere dati.
L’analisi condotta dal team ha evidenziato il malfunzionamento di un piccolo motore responsabile dello spostamento della copertura e della regolazione della messa a fuoco dello spettrometro e della fotocamera Autofocus and Context Imager (Aci). Testando le potenziali soluzioni su un duplicato dello strumento Sherloc al Jpl, il team ha iniziato un lungo e meticoloso processo di valutazione per verificare se e come fosse possibile spostare la copertura in posizione aperta.
Le immagini catturate da una telecamera di navigazione a bordo di Perseverance il 23 gennaio mostrano la posizione della copertura dello strumento Sherloc, bloccata diverse settimane prima. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Tra le varie misure adottate, il team ha provato a riscaldare il piccolo motore del copriobiettivo, a comandare il braccio robotico del rover per ruotare lo strumento Sherloc in diversi orientamenti – con il supporto delle immagini della Mastcam-Z –, a far oscillare il meccanismo avanti e indietro per rilasciare qualsiasi detrito potenzialmente in grado di bloccare la copertura e persino a utilizzare il trapano a percussione del rover per cercare di smuoverlo. Finché il 3 marzo le immagini di Perseverance hanno mostrato che il coperchio dell’Aci si era aperto di oltre 180 gradi, liberando il campo visivo dell’imager e consentendo all’Aci di posizionarsi vicino al suo obiettivo.
Questo labirinto – con al centro la silhouette di Sherlock Holmes – è usato come target di calibrazione per le telecamere e il laser dello strumento Sherloc, a bordo del rover Perseverance. L’immagine è stata catturata dall’Autofocus and Context Imager di Sherloc l’11 maggio 2024, il 1.147esimo sol della missione, mentre il team del rover stava ultimando gli ultimi test per confermare di aver risolto il problema con la copertura bloccata di una lente. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Rimaneva solo il problema della messa a fuoco, senza la quale le immagini di Sherloc sarebbero state sfocate e il segnale spettrale sarebbe stato debole. Non potendo modificare manualmente la messa a fuoco delle ottiche dello strumento, per effettuare minime regolazioni della distanza tra Sherloc e il suo obiettivo si sono affidati al braccio robotico del rover al fine di ottenere la migliore risoluzione dell’immagine. Sherloc ha così scattato alcune foto del suo originalissimo calibratore, in modo che il team potesse verificare l’efficacia di questo approccio.
«Il braccio robotico del rover è straordinario. Può essere comandato con piccoli passi di un quarto di millimetro per aiutarci a valutare la nuova posizione di messa a fuoco di Sherloc e può posizionare Sherloc con grande precisione su un obiettivo», riferisce Kyle Uckert del Jpl. «Dopo aver effettuato i test prima sulla Terra e poi su Marte, abbiamo capito che la distanza migliore per il braccio robotico per posizionare Sherloc è di circa 40 millimetri. A questa distanza, i dati raccolti dovrebbero essere ottimi, come sempre».
La conferma del buon posizionamento dell’Aci su un bersaglio roccioso marziano è arrivata il 20 maggio. Il 17 giugno, la verifica del funzionamento dello spettrometro ha chiuso il cerchio, confermando che Sherloc è di nuovo operativo.
Questa immagine del rover Perseverance che raccoglie dati sulle Walhalla Glades è stata scattata il 14 giugno nella regione Bright Angel del cratere Jezero da una delle telecamere frontali del rover. La fotocamera Watson dello strumento Sherloc è la più vicina alla superficie marziana. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Un biglietto per il centro galattico
Immagine della zona della Galassia vicino al suo centro. La Via Lattea è stata artificiosamente aumentata in luminosità per permettere il riconoscimento della sua struttura. In giallo sono indicati i principali oggetti celesti fino alla magnitudine 8. Crediti: Stellarium
Dopo il tramonto del Sole le prime stelle visibili sono Vega, Deneb e Altair ai vertici dell’asterismo del triangolo estivo. Sono le stelle principali rispettivamente delle costellazioni della Lira, del Cigno e dell’Aquila, altrettante costellazioni tipicamente estive. In queste costellazioni ci sono oggetti interessanti: nel Cigno la bellissima stella doppia Albireo, nella Lira l’iconica Nebulosa Anello, entrambi visibili con un telescopio e, sotto l’Aquila, nella costellazione dello Scudo, l’ammasso stellare M11 visibile con un binocolo.
Sicuramente questo mese, oltre a essere ancora un mese perfetto per osservare gli ammassi globulari della nostra galassia, è anche il mese ideale per osservare il centro galattico. Non perdiamo quindi l’occasione di imbarcarci in un ipotetico viaggio verso il buco nero della nostra galassia. Basta un binocolo e un cielo buio, senza Luna, per avere il biglietto gratuito. In questo mese, a notte fonda, la Via Lattea attraversa tutto il cielo. La costellazione del Sagittario ci fa da guida. La sua tipica forma a ‘teiera’ ci indica la direzione in cielo del centro della galassia.
La zona di cielo intorno al centro galattico è uno spettacolo di ammassi globulari, ammassi aperti, nebulose e regioni oscure della galassia. Alcuni, e nemmeno pochi, almeno limitatamente agli oggetti di Messier, sono ben visibili con un binocolo. Se ne avete uno scegliete un posto lontano da luci cittadine, puntate a caso verso il Sagittario e lo Scorpione, verso Sud Sud-Ovest, a notte fonda e osserverete tanti sbuffi di luce fioca che ci proiettano fuori dal Sistema solare verso il centro galattico. Tra i vari oggetti da osservare, due sono particolarmente belli: la Nebulosa Laguna (M8) e, poco più in alto, la Nebulosa Trifida (M20). Entrambe le nebulose sono visibili con un binocolo. Addirittura, M8 è visibile anche a occhio nudo.
Chi è mattiniero, nei primi quattro giorni del mese, potrà osservare la Luna spostarsi sull’eclittica con Saturno, Marte e Giove che le fanno da quinta. Il nostro satellite, con una falce calante molto suggestiva, passerà prospetticamente vicino a Marte sia il primo che il 2 luglio e poi vicino a Giove, il 3 e il 4 del mese. L’ora migliore per osservarli sarà verso le quattro e mezza del mattino prima del sorgere del sole verso Est. Questa configurazione di pianeti ci farà compagnia per tutto il mese, con Marte che pian piano si avvicinerà sempre più a Giove, fino ad incontrarlo nel prossimo mese.
La nebulosa planetaria Ngc 7009, nota anche come Nebulosa Saturno. L’immagine variopinta è stata ottenuta dello strumento Muse montato sul Very Large Telescope dell’Eso. Crediti: Eso/J. Walsh
Il 15 luglio Marte e Urano saranno piuttosto vicini tra loro, a circa mezzo grado di distanza angolare. Marte come sempre visibile a occhio nudo di magnitudine 1 mentre Urano visibile solo con un binocolo di magnitudine di poco inferiore alla 6. A sinistra completerà il quadro l’ammasso aperto delle Pleiadi, sempre bello e facilmente riconoscibile. Gli astri sorgeranno alle 2 del mattino e saranno visibili fino al chiarore del cielo.
Il 23 di luglio Plutone sarà in opposizione. In questo mese è visibile sostanzialmente per tutta la notte nella costellazione del Capricorno. Data la scarsa luminosità di Plutone sarà comunque impossibile accorgersi della sua presenza anche con grossi telescopi amatoriali. È troppo lontano e debole. Ma poco più in alto e a sinistra di Plutone, c’è una nebulosa chiamata Nebulosa Saturno: è una nebulosa planetaria con l’aspetto simile a quello del pianeta con gli anelli osservato al telescopio e scoperta da William Herschel il 7 settembre del 1782 .
Il vero Saturno è il pianeta più visibile in questo mese, sorgendo all’inizio di luglio intorno alla mezzanotte e addirittura verso le 22 a fine mese. Purtroppo in questo periodo i suoi anelli sono quasi di taglio e quindi poco visibili. Giove e Marte saranno visibili al mattino prima del sorgere del sole verso l’orizzonte Est.
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Webb svela i segreti sulla Grande Macchia Rossa
Immagine all’infrarosso del pianeta Giove, scattata dalla NirCam del Jwst. Il pianeta è mostrato in più colori, soprattutto ai poli e sulla Grande Macchia Rossa, visibile come una tempesta circolare in basso a destra del pianeta. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, Jupiter Ers Team, J. Schmidt, H. Melin, M. Zamani (Esa/Webb)
Seppur visibile a occhio nudo nelle notti limpide, Giove presenta un’atmosfera il cui bagliore è così debole da renderne difficile l’osservazione in dettaglio con i telescopi terrestri. Tuttavia, appena sotto l’equatore gioviano, è facile individuare una zona turbolenta e rossastra, chiamata Grande Macchia Rossa, divenuta una caratteristica distintiva del pianeta gigante.
Con un’estensione e profondità tali da poter contenere tre volte la Terra, la più grande tempesta anticiclonica del Sistema solare ha sorpreso gli scienziati che, grazie alla sensibilità nel vicino e medio infrarosso del telescopio spaziale James Webb (Jwst), hanno potuto esaminare nuovi dettagli dell’atmosfera superiore di Giove proprio al di sopra della Grande Macchia Rossa.
Secondo un recente studio pubblicato su Nature Astronomy da un team di ricerca internazionale guidato dall’Università di Leicester, nel Regno Unito, l’occhio rosso di Giove presenterebbe una serie di caratteristiche inedite e un’atmosfera più complessa del previsto. La scoperta è stata possibile grazie alla Integral Field Unit di NirSpec che, nelle prime osservazioni del 2022, si è concentrato appunto sulla Grande Macchia Rossa, rilevando la presenza nell’atmosfera superiore di Giove di una varietà di strutture complesse, archi oscuri e punti luminosi.
Lo strato superiore dell’atmosfera di Giove è l’interfaccia tra il campo magnetico del pianeta e l’atmosfera sottostante ed è composta da una termosfera neutra e da una ionosfera carica. In questa regione, si possono osservare spettacoli luminosi come le vibranti aurore polari alimentate dal materiale vulcanico espulso dalla luna Io di Giove. Più vicino all’equatore, la struttura dell’atmosfera superiore del pianeta è influenzata dalla luce solare in arrivo ma, poiché Giove riceve solo il 4% della luce che arriva sulla Terra, gli astronomi l’hanno finora sempre ritenuta piuttosto tranquilla e omogenea.
Spesso però l’apparenza inganna. Le osservazioni del Jwst nella ionosfera di Giove alle basse latitudini, dove c’è la Grande Macchia Rossa, hanno mostrato inaspettate caratteristiche di intensità su piccola scala come archi, bande e macchie suggerendo che la ionosfera lì sia fortemente accoppiata all’atmosfera inferiore tramite onde di gravità che si sovrappongono producendo questa complessa e intricata morfologia. «Forse ingenuamente, pensavamo che questa regione fosse davvero noiosa», dice Henrik Melin dell’Università di Leicester, primo autore dello studio. «In realtà è interessante quanto l’aurora boreale, se non di più. Giove non smette mai di sorprendere».
L’immagine catturata dal telescopio spaziale è stata ottenuta da sei scatti diversi, ciascuno di circa 300 chilometri quadrati, e ha mostrato la luce infrarossa emessa dalle molecole di idrogeno nella ionosfera di Giove, a oltre 300 chilometri sopra le nubi della Grande Macchia Rossa, dove la luce del Sole ionizza l’idrogeno e stimola l’emissione infrarossa.
Questa immagine mostra la regione osservata dal Near-InfraRed Spectrograph (NIRSpec) di Webb. È stata unita a sei immagini NIRSpec Integral Field Unit riprese nel luglio 2022, ciascuna di circa 300 km quadrati. Si vede la luce infrarossa emessa dalle molecole di idrogeno nella ionosfera di Giove a oltre 300 km sopra le nubi della tempesta. I colori più rossi mostrano l’emissione di idrogeno nelle quote più alte della ionosfera; i colori più blu mostrano la luce infrarossa proveniente da quote più basse, comprese le cime delle nubi e la Grande Macchia Rossa. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, Jupiter Ers Team, J. Schmidt, H. Melin, M. Zamani (Esa/Webb)
Secondo il gruppo di ricerca – che vede coinvolto, tra gli altri, anche Alessandro Mura dell’Inaf di Roma – la luce emessa da questa zona potrebbe essere influenzata non solo dalla luce solare ma anche da onde di gravità, generate nella turbolenta atmosfera inferiore attorno alla Grande Macchia Rossa. Onde atmosferiche che – presenti anche sulla Terra, ma meno intense che su Giove – risalirebbero di quota, modificando la struttura e le emissioni dell’atmosfera superiore.
«Un meccanismo per modificare la struttura è rappresentato dalle onde di gravità, simili alle onde che si infrangono su una spiaggia e che creano increspature nella sabbia», spiega Melin. «Queste onde sono generate in profondità nella turbolenta atmosfera inferiore, intorno alla Grande Macchia Rossa, e possono salire di quota, modificando la struttura e le emissioni dell’atmosfera superiore».
Le osservazioni – parte dei primi dati raccolti dal James Webb nel programma Early Release Science #1373 (Ers) della Nasa – avevano inizialmente l’obiettivo di esplorare le temperature sopra la Grande Macchia Rossa. «La proposta Ers è stata scritta nel 2017», ricorda Imke de Pater, ricercatrice dell’Università della California e coautrice dello studio. «I nuovi dati hanno mostrato risultati molto diversi dalle nostre aspettative iniziali».
L’atmosfera di Giove, dunque, si sta mostrando molto più affascinante del previsto, tanto da spingere il team a progettare ulteriori osservazioni per capire meglio il movimento delle onde nell’atmosfera superiore e il bilancio energetico della regione. Intanto, le informazioni finora ottenute forniranno un supporto prezioso per la missione Jupiter Icy Moons Explorer (Juice) dell’Esa che, lanciata il 14 aprile 2023, effettuerà osservazioni dettagliate del gigante gassoso e delle sue lune Ganimede, Callisto ed Europa, esplorando l’ambiente complesso di Giove con una serie di strumenti avanzati – di telerilevamento, geofisici e in situ – caratterizzandole sia come oggetti planetari che come possibili habitat.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Ionospheric irregularities at Jupiter observed by JWST”, di Henrik Melin, J. O’Donoghue, L. Moore, T. S. Stallard, L. N. Fletcher, M. T. Roman, J. Harkett, O. R. T. King, E. M. Thomas, R. Wang, P. I. Tiranti, K. L. Knowles, I. de Pater, T. Fouchet, P. H. Fry, M. H. Wong, B. J. Holler, R. Hueso, M. K. James, G. S. Orton, A. Mura, A. Sánchez-Lavega, E. Lellouch, K. de Kleer e M. R. Showalter
L’astronomia europea si riunisce a Padova
La città di Padova è pronta ad accogliere il prossimo meeting della European Astronomical Society (Eas), il più grande congresso europeo dedicato all’astrofisica, che si terrà dall’1 al 5 luglio 2024. L’evento vedrà la partecipazione di quasi 1800 esperte ed esperti di astronomia e astrofisica, rendendolo uno degli appuntamenti più importanti dell’anno per la comunità astronomica internazionale. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha un ruolo di primo piano, non solo nell’organizzazione del congresso (dal punto di vista scientifico e logistico), ma anche per la forte presenza di ricercatrici e ricercatori che presenteranno alla comunità le ultime scoperte e i più recenti studi nel campo dell’astrofisica.
L’Inaf, con la sua rete di osservatori e istituti di ricerca sparsi su tutto il territorio italiano, continua a essere un pilastro fondamentale per l’astronomia mondiale, contribuendo significativamente al progresso della conoscenza del cosmo – dalla terra allo spazio, osservando l’universo a tutte le lunghezze d’onda. Lo Scientific Organising Committee del meeting è a guida Inaf, con Bianca Poggianti, direttrice dell’Inaf di Padova, e Giuseppina Micela, dirigente di ricerca presso l’Inaf di Palermo.
Durante i cinque giorni del convegno, i partecipanti – provenienti da più di 60 paesi – avranno l’opportunità di assistere in modalità completamente ibrida (in presenza e online) a conferenze, workshop e presentazioni su una vasta gamma di argomenti, dai buchi neri alla formazione delle galassie, dai pianeti extrasolari alle onde gravitazionali, per non dimenticare l’astrochimica, dedicando ampio spazio anche alla data science e all’applicazione dell’intelligenza artificiale nell’astronomia, alla diversità della comunità di ricerca e alle sfide del public engagement. Sarà poi anche un’occasione per discutere delle attuali e future missioni spaziali (come il James Webb Space Telescope ed Euclid, oppure Athena e Plato), dei grandi osservatori che sono in fase di costruzione in tutto il mondo (Elt e Skao), e delle nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il modo in cui esploriamo l’universo.
La European Astronomical Society è stata fondata in Svizzera nel 1990 con lo scopo di promuovere l’astronomia e la ricerca spaziale in Europa, facilitando la collaborazione tra scienziati e sostenendo l’educazione scientifica. Il meeting annuale rappresenta un momento fondamentale per la condivisione delle conoscenze e per la creazione di nuove sinergie tra i ricercatori di tutto il mondo.
Gli organizzatori hanno ricevuto oltre 2350 abstract, il 16 per cento in più rispetto al meeting Eas 2023 di Cracovia. Quest’anno i partecipanti da remoto avranno accesso a tutte le sessioni (plenarie, simposi, sessioni speciali, eccetera), in diretta o registrate, su una piattaforma virtuale, nonché accedendo alla piattaforma degli ePoster e allo spazio dedicato su Slack per Eas 2024. Tra le presentazioni sono previsti anche interventi dei vincitori dei premi Merac ed Eas e report dalle principali strutture di ricerca europee, che forniranno una panoramica completa delle attività e dei progressi in corso nel continente.
Crediti: Alexander Grey/Pexels
Grazie al contributo del gruppo che, all’interno dell’Inaf, ha stilato il Gender Equality Plan, quest’anno il meeting della Eas offre un servizio di assistenza all’infanzia a pagamento per i partecipanti al meeting, per la prima volta all’interno del centro congressi. Questo servizio, pensato per facilitare la partecipazione al congresso dei genitori con bambini piccoli, contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza di genere nelle discipline Stem, in linea con l’obiettivo 5 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile. Il servizio sarà gestito da personale qualificato e garantirà un ambiente sicuro e stimolante per i bambini, permettendo ai genitori di prendere parte alle varie sessioni del convegno. Il costo del servizio sarà mantenuto a una tariffa conveniente, riflettendo l’impegno dell’Eas a rendere il meeting inclusivo e accessibile a tutti i membri della comunità astronomica.
«Padova è una città che vanta una straordinaria tradizione per quanto riguarda la ricerca astronomica, ed è oggi uno dei centri di eccellenza a livello europeo in questa disciplina. Per questa settimana la città diventa anche la capitale mondiale dell’astronomia», dice Sara Lucatello, astrofisica dell’Inaf di Padova, già vicepresidente dell’Eas che, a partire da questa edizione, dirigerà in qualità di presidente (sarà la prima volta che un presidente proviene da un paese mediterraneo). «L’edizione 2024 vedrà la partecipazione di professioniste e professionisti che lavorano in tutti i campi dell’astrofisica e delle scienze spaziali, esperti di politiche scientifiche e divulgazione. Si discuteranno vari temi caldi dell’astrofisica moderna, dagli straordinari risultati ottenuti grazie a Jwst alle grandi potenzialità dei telescopi in costruzione, come Elt e Skao».
Prima presidente donna nella storia dell’Eas, Lucatello ricoprirà la massima carica dell’organizzazione per due anni. «È un particolare onore per me assumere, in occasione dell’Eas 2024, la presidenza della società, che è cresciuta molto negli ultimi anni e che oggi conta più di 5300 membri. Succedere al precedente presidente, Roger Davies, che ha guidato Eas con competenza e dedizione per sette anni, non sarà un compito semplice, ma sono determinata a continuare nei suoi passi durante il mio mandato».
Locandine dei due appuntamenti aperti al pubblico
Eventi a margine del congresso
In occasione dell’apertura del meeting, il 1° luglio alle 14:30 l’Ordine dei giornalisti del Veneto, l’Inaf e l’Ugis (Unione giornalisti italiani scientifici) organizzano un corso di formazione gratuito per giornalisti dal titolo “La comunicazione nell’informazione scientifica: la ricerca in astrofisica e come raccontarla”: il corso offre una panoramica su come comunicare correttamente le informazioni scientifiche, con un focus sull’astrofisica. Le iscrizioni sono aperte fino a sabato 29 giugno sulla piattaforma della formazione giornalisti.
Sempre il primo luglio, nell’ambito del Castello Festival di Padova, l’Inaf partecipa a una tavola rotonda per il pubblico sul tema “Space Jam. Astronauti e astronomi bloccati nel traffico in orbita”, con l’astronauta riservista Esa Anthea Comellini, la presidente Eas Sara Lucatello e il presidente Inaf Roberto Ragazzoni, moderato da Davide Coero Borga, che si terrà alle 21:15 a Piazza Eremitani, Padova. La partecipazione all’evento è gratuita, su prenotazione.
Da non perdere, martedì 2 luglio alle 18, la conferenza pubblica “Nuovi occhi sul cielo: i primi due anni del James Webb Space Telescope”, organizzata dall’Inaf e dal Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova. Adriano Fontana, dirigente di ricerca dell’Inaf di Roma, presidente della Lbt Corporation, e capo della divisione ottico-infrarosso dell’Istituto nazionale di astrofisica, terrà una conferenza divulgativa sui primi due anni del Jwst, il più potente “occhio” mai puntato sul cielo. Anche in questo caso la partecipazione è gratuita, ma su registrazione.
Gravità quantistica in una trappola atomica
In questa fotografia si vedono raggruppamenti di circa diecimila atomi di cesio fluttuare in una camera a vuoto, levitati da fasci laser incrociati che creano un reticolo ottico stabile. In alto sono visibili un peso cilindrico di tungsteno e il suo supporto. Crediti: Cristian Panda, UC Berkeley
Un tempo, per studiare la gravità, era sufficiente lasciar cadere qualche oggetto dall’alto, come nel caso del celebre esperimento, attribuito a Galileo, della caduta dei gravi dalla torre di Pisa. Oggi le domande di fisica fondamentale ancora senza risposta – e sono tante – attorno a questa che rimane la più irriducibile tra le forze, l’unica che ancora resiste a una teoria del tutto, richiedono esperimenti enormemente più complessi. Esperimenti come quello approntato da un team di fisici dell’Università della California, a Berkeley, riportato questa settimana sulle pagine di Nature, per la ricerca di minuscole deviazioni dalla teoria della gravità comunemente accettata. Deviazioni che, se riscontrate, potrebbero offrire indizi, per esempio, per comprendere qualcosa di più sulla natura dell’energia oscura. Sebbene i ricercatori non abbiano riscontrato alcuna deviazione dalla teoria della gravità di Newton, i miglioramenti previsti nella precisione dell’esperimento promettono di portare alla luce prove a supporto – o a smentita – di teorie come quella su un’ipotetica “quinta forza” mediata da particelle cosiddette “camaleonte”, o “simmetroni”, candidate a spiegare, appunto, l’energia oscura.
L’esperimento, realizzato sulla scia di altri analoghi dei quali già abbiamo scritto su Media Inaf, combina un interferometro atomico, che permette di misurare con precisione la gravità, con un reticolo ottico in grado di mantenere piccoli gruppi di atomi – in questo caso, gruppi da circa diecimila atomi di cesio – in posizione, raffreddandoli e intrappolandoli con un sistema di fasci laser, per tempi relativamente molto lunghi, fino a 70 secondi. Consentendo così di arrivare una misura dell’attrazione gravitazionale esercitata sugli atomi da una piccola massa – un cilindro di tungsteno – cinque volte più precisa della migliore a oggi disponibile.
Rappresentazione schematica dell’esperimento realizzato a UC Berkeley. Piccoli raggruppamenti di atomi di cesio (in rosa) sono stati immobilizzati in una camera a vuoto verticale, poi ogni atomo è stato suddiviso in due pacchetti d’onda (in bianco e azzurro) così da ritrovarsi in una sovrapposizione quantistica di due “altezze”, la “metà” più in alto (in bianco) più vicina alla massa di tungsteno (il cilindro lucido) e l’altra “metà” (in azzurro) più in basso. Quando i pacchetti d’onda si ricombinano danno luogo a un’interferenza che consente di misurare la differenza di attrazione gravitazionale fra le due “metà”. Crediti: Cristian Panda/UC Berkeley
Ma come funziona? «In una prima fase, gli atomi di cesio vengono raffreddati con luce laser fino a una temperatura vicina allo zero assoluto e intrappolati in “buche” luminose in prossimità di un piccolo cilindretto di tungsteno», spiega a Media Inaf uno dei coautori dello studio, Guglielmo Maria Tino dell’Università di Firenze. «Successivamente si realizza un interferometro atomico: ogni atomo viene portato per alcuni secondi in uno stato quantistico in cui si trova simultaneamente in due diverse posizioni in cui sono diversi i valori del campo gravitazionale generato dalla massa sorgente. Quando le due parti vengono di nuovo sovrapposte, si osserva un effetto di interferenza quantistica da cui si può misurare l’attrazione gravitazionale esercitata sugli atomi dalla massa di tungsteno».
«Rispetto a esperimenti precedenti basati su interferometria atomica per lo studio di effetti gravitazionali, quali quelli condotti dal mio gruppo a Firenze da ormai circa vent’anni, la particolarità di questo lavoro», continua Tino, «è nella piccola massa sorgente utilizzata, da cui la necessità di ottimizzare la sensibilità dell’interferometro atomico controllando allo stesso tempo possibili effetti sistematici».
Lo scopo principale di questi esperimenti, come dicevamo, è cercare risposta ai grandi problemi irrisolti della fisica fondamentale, dalla natura dell’energia oscura alla ricerca di una formulazione quantistica della gravità. «La maggior parte dei teorici concorda sul fatto che la gravità sia quantistica, ma nessuno ha mai osservato al riguardo una firma sperimentale», ricorda a questo proposito un altro degli autori dello studio, Holger Müller di UC Berkeley. «Se potessimo trattenere i nostri atomi 20 o 30 volte più a lungo di quanto sia mai stato fatto, potremmo avere una probabilità da 400 a 800mila volte maggiore di trovare la prova che la gravità è effettivamente quantistica».
L’interferometro atomico a reticolo può inoltre essere usato, in veste di sensore quantistico, anche per applicazioni più “quotidiane” che richiedano misure di precisione della gravità. «L’interferometria atomica è particolarmente sensibile alla gravità o agli effetti inerziali. È possibile sfruttarla per costruire giroscopi e accelerometri», sottolinea infatti il primo autore dello studio, Cristian Panda, di UC Berkeley. «Questo dà una nuova direzione all’interferometria atomica, dove il rilevamento quantistico della gravità, dell’accelerazione e della rotazione potrebbe essere effettuato con atomi mantenuti grazie ai reticoli ottici in una struttura compatta che resiste alle imperfezioni ambientali o al rumore».
«Tali dispositivi», conclude Tino, «potrebbero venire utilizzati, ad esempio, nella ricerca di cavità sotterranee e risorse minerarie, nel monitoraggio di vulcani attivi e nello studio dei terremoti».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Measuring gravitational attraction with a lattice atom interferometer”, di Cristian D. Panda, Matthew J. Tao, Miguel Ceja, Justin Khoury, Guglielmo M. Tino & Holger Müller
Anche l’ultimo tassello del primario di Elt è pronto
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Anche il 949esimo e ultimo segmento dello specchio primario di Elt è stato fuso ed è pronto per essere modellato. Crediti: Schott
L’Elt (Extremely Large Telescope ) dell’Osservatorio Europeo Australe (Eso), in costruzione nel deserto cileno di Atacama, ha fatto un altro passo avanti verso il completamento. L’azienda tedesca Schott ha terminato con successo l’ultimo dei 949 segmenti commissionati per lo specchio primario del telescopio (M1). Con un diametro di oltre 39 metri, M1 sarà di gran lunga lo specchio più grande mai realizzato per un telescopio.
Troppo grande per essere realizzato con un unico pezzo di vetro, M1 sarà composto da 798 segmenti esagonali, ciascuno spesso circa cinque centimetri e largo 1,5 metri, che lavoreranno insieme per raccogliere decine di milioni di volte più luce dell’occhio umano. Sono stati prodotti altri 133 segmenti per facilitare la manutenzione e il rivestimento dei segmenti una volta che il telescopio sarà operativo. L’Eso ha inoltre procurato 18 segmenti di riserva, portando il numero totale a 949.
I pezzi grezzi di M1, pezzi sagomati di materiale che vengono successivamente lucidati per diventare i segmenti dello specchio, sono realizzati in Zerodur, un materiale vetroceramico a bassa espansione sviluppato da Schott e ottimizzato per le escursioni termiche estreme del sito dell’Elt nel deserto di Atacama. Questa azienda ha anche prodotto i pezzi grezzi di altri tre specchi di Elt – M2, M3 e M4 – presso i propri stabilimenti a Magonza, in Germania.
«Ciò che l’Eso ha ordinato a Schott è molto più che un semplice Zerodur», dice Marc Cayrel, responsabile dell’Elt Optomechanics dell’Eso. «In stretta collaborazione con l’Eso, Schott ha messo a punto ogni singola fase della produzione, personalizzando il prodotto per soddisfare e spesso superare i requisiti molto esigenti dell’Elt. L’eccezionale qualità dei grezzi è stata mantenuta durante tutta la produzione in serie di oltre 230 tonnellate di questo materiale super performante. L’Eso è quindi molto grato alla professionalità dei team qualificati di Schott, il nostro partner di fiducia».
«Tutto il nostro team è entusiasta di concludere quello che è stato il più grande ordine singolo di Zerodur nella storia della nostra azienda», dice Thomas Werner, project lead Elt presso Schott. «Per questo progetto, abbiamo concluso con successo la produzione in serie di centinaia di substrati specchianti Zerodur, quando solitamente operiamo su un unico pezzo. È stato un onore per tutti noi svolgere un ruolo nel plasmare il futuro dell’astronomia».
Una volta fusi, tutti i segmenti seguono un viaggio internazionale in più fasi. Dopo una lenta sequenza di raffreddamento e trattamento termico, la superficie di ciascun pezzo grezzo viene modellata mediante una rettifica ultraprecisa presso Schott. I pezzi grezzi vengono poi trasportati alla società francese Safran Reosc, dove ciascuno di essi viene tagliato a forma esagonale e lucidato con una precisione di 10 nanometri su tutta la superficie ottica, il che significa che le irregolarità superficiali dello specchio saranno inferiori a un millesimo di un capello umano. Nel lavoro svolto sugli assemblaggi dei segmenti M1 sono coinvolti anche: la società olandese Vdl Etg Projects Bv, che produce i supporti dei segmenti; il consorzio franco-tedesco Fames, che ha sviluppato e sta finalizzando la produzione di 4500 sensori di precisione nanometrica che monitorano la posizione relativa di ciascun segmento; l’azienda tedesca Physik Instrumente, che ha progettato e sta producendo i 2500 attuatori in grado di posizionare il segmento con precisione nanometrica; e la società danese Dsv, incaricata del trasporto dei segmenti in Cile.
Una volta lucidato e assemblato, ogni segmento M1 viene spedito attraverso l’oceano per raggiungere la struttura tecnica dell’Elt presso l’Osservatorio Paranal dell’Eso, nel deserto di Atacama: un viaggio di 10.000 chilometri che oltre 70 segmenti M1 hanno già completato. A Paranal, a pochi chilometri dal cantiere dell’Elt, ogni segmento viene rivestito con uno strato d’argento per diventare riflettente, dopodiché verrà conservato con cura finché la struttura principale del telescopio non sarà pronta a riceverli.
Quando entrerà in funzione entro la fine di questo decennio, l’Elt dell’Eso sarà il più grande occhio del mondo rivolto al cielo. Affronterà le più grandi sfide astronomiche del nostro tempo e farà scoperte ancora inimmaginabili.
Fonte: comunicato stampa Eso
Guarda il video di MediaInaf Tv sul contributo italiano a Elt:
Dentro ai Pilastri della Creazione
Un mosaico di viste a luce visibile (Hubble) e infrarossa (Webb) dello stesso fotogramma dei Pilastri della Creazione. La sequenza di visualizzazione sfuma avanti e indietro tra questi due modelli mentre la telecamera passa davanti e tra i pilastri. Queste viste contrastanti illustrano come le osservazioni dei due telescopi si completino a vicenda. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (StScI), Nasa’s Universe of Learning
Resi celebri nel 1995 dal telescopio spaziale Hubble, i Pilastri della Creazione nel cuore della Nebulosa Aquila hanno catturato l’immaginazione di tutto il mondo con la loro bellezza eterea. Ora la Nasa ha pubblicato una nuova visualizzazione 3D di queste imponenti strutture celesti utilizzando i dati dei telescopi spaziali Hubble e James Webb. Si tratta del filmato a più lunghezze d’onda più completo e dettagliato mai realizzato di queste nubi di gas interstellare e polveri.
«Volando accanto e tra i pilastri, gli spettatori sperimentano la loro struttura tridimensionale e vedono come appaiono diversi nella vista a luce visibile di Hubble rispetto a quella a luce infrarossa di Webb», spiega Frank Summers, principal visualization scientist dello Space Telescope Science Institute (StScI) di Baltimora, che ha guidato il team di sviluppo del filmato per Universe of Learning della Nasa. «Il contrasto aiuta a capire perché abbiamo più di un telescopio spaziale per osservare aspetti diversi dello stesso oggetto».
Il video porta i visitatori all’interno delle strutture tridimensionali dei pilastri. Più che su un’interpretazione artistica, il video si basa sui dati osservativi di uno studio condotto da Anna McLeod dell’Università di Durham nel Regno Unito, che è stata anche consulente scientifica per il filmato.
I quattro Pilastri della Creazione, costituiti principalmente da idrogeno e polvere molecolare fredda, vengono erosi dai venti impetuosi e dalla luce ultravioletta delle giovani e calde stelle vicine. Dalla sommità dei pilastri sporgono strutture simili a dita, più grandi del Sistema solare. All’interno di queste dita si possono trovare incastonati embrioni di stelle. Il pilastro più alto si estende per tre anni luce, tre quarti della distanza tra il Sole e la stella più vicina.
Nella visualizzazione sono evidenziate diverse fasi della formazione stellare. Avvicinandosi al pilastro centrale, lo spettatore vede sulla sua sommità una protostella appena nata che brilla di un rosso vivo nella luce infrarossa. Vicino alla cima del pilastro di sinistra è visbile un getto diagonale di materiale espulso da una stella neonata. Sebbene il getto sia una prova della nascita della stella, non è possibile vedere la stella stessa. Infine, è possibile notare una nuova stella anche all’estremità di una delle “dita” sporgenti del pilastro sinistro.
Nella versione di Hubble del modello (a sinistra), i pilastri sono caratterizzati da polvere marrone scuro e opaca e da gas ionizzato giallo brillante su uno sfondo blu-verde. La versione di Webb (a destra) mostra polvere arancione e arancione-marrone semitrasparente, con gas ionizzato azzurro su uno sfondo blu scuro. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (STScI), Nasa’s Universe of Learning
Il filmato aiuta a sperimentare come due dei telescopi spaziali più potenti del mondo lavorino insieme per fornire un ritratto più complesso e completo dei pilastri. Hubble vede gli oggetti che brillano nella luce visibile, a migliaia di gradi. La visione a infrarossi di Webb, sensibile agli oggetti più freddi con temperature di poche centinaia di gradi, penetra attraverso la polvere oscurante per vedere le stelle incastonate nei pilastri.
Prodotta per la Nasa dall’StScI con i partner del Caltech/Ipac e sviluppata dal progetto AstroViz, la visualizzazione 3D fa parte di un video più lungo che permette agli spettatori di esplorare le questioni fondamentali della scienza, di sperimentare come si fa scienza e di scoprire, in autonomia, le bellezze dell’universo.
Un ulteriore regalo che Nasa ci fa insieme a questa visualizzazione è un nuovo modello stampabile in 3D dei Pilastri della Creazione. Il modello base dei quattro pilastri utilizzato nella visualizzazione è stato adattato al formato Stl, in modo che possiate scaricare il file e stamparlo su stampanti 3D, per aggiungere la dimensione tattile all’esplorazione visuale.
Guarda il video della Nasa:
Fosfati idrosolubili nelle rocce di Bennu
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Dettagli osservati al microscopio del campione di materiale proveniente dall’asteroide Bennu, recuperato dalla missione Osiris-Rex. Il pannello in alto a sinistra mostra una particella scura di circa un millimetro appartenente al materiale superficiale di Bennu, che presenta una crosta esterna di fosfato luminoso. Gli altri tre pannelli mostrano viste progressivamente ingrandite di un frammento della particella che si è staccato lungo una frattura luminosa contenente fosfato, ripresa al microscopio elettronico a scansione. Crediti: Nasa
Arrivano i primi risultati delle analisi del campione di rocce dell’asteroide (101955) Bennu, prelevato e riportato a terra lo scorso autunno dalla missione Osiris-Rex (Origins, Spectral Interpretation, Resource Identification, and Security-Regolith Explorer) della Nasa. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca internazionale che comprende ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). I grani analizzati, sia dal punto di vista morfologico che chimico, contengono i costituenti primordiali da cui si è formato il Sistema solare. La polvere dell’asteroide risulta ricca di carbonio e azoto, oltre che di composti organici, tutti componenti essenziali per la vita come la conosciamo. Il campione studiato contiene anche fosfato di magnesio-sodio, una sorpresa per il team di ricerca, poiché questo composto non era stato individuato dagli strumenti di telerilevamento raccolti dalla sonda in prossimità di Bennu. La presenza di magnesio-sodio suggerisce che l’asteroide potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di acqua.
«Grazie all’analisi delle immagini ad alta risoluzione dei campioni abbiamo contato 7154 grani», commentano Maurizio Pajola e Filippo Tusberti, entrambi ricercatori all’Inaf di Padova che hanno partecipato alle analisi, pubblicate ieri su Meteoritics & Planetary Science. «Di questi, il 95 per cento sono più grandi di 0,5 mm, 34 grani sono più grandi di 1 cm, e il più grande è risultato essere di 3,5 cm. Il conteggio completo di tutte le particelle è attualmente ancora in corso dato l’enorme numero riportato a terra. In particolare, l’ottenimento della distribuzione in taglia di tutti i grani è di fondamentale importanza per comprendere se rifletta quella ottenuta da remoto, quando orbitavamo Bennu, o vi sono state alterazioni (disintegrazioni) durante il processo di campionamento e/o rientro in atmosfera terrestre. Inoltre, identificare le taglie più grandi ha aiutato da subito il team a decidere su quali grani lavorare dal principio».
Le indagini chimiche del campione di Bennu hanno svelato informazioni interessanti sulla composizione dell’asteroide. Dominato da minerali argillosi, in particolare serpentino, il campione rispecchia il tipo di roccia che si trova sulle dorsali medio-oceaniche della Terra, dove il materiale del mantello – lo strato immediatamente al di sotto della crosta terrestre – incontra l’acqua. Questa interazione non solo provoca la formazione di argilla, ma dà anche origine a una varietà di minerali come carbonati, ossidi di ferro e solfuri di ferro. Ma la scoperta più inaspettata da queste prime indagini è la presenza di fosfati idrosolubili, che sono i “mattoni” della vita conosciuta oggi sulla Terra.
Fosfati sono stati rinvenuti anche nei grani dell’asteroide Ryugu riportati a Terra dalla missione Hayabusa2 della Jaxa (Japan Aerospace Exploration Agency) nel 2020. Il fosfato di magnesio-sodio rilevato nel campione di Bennu si distingue per la mancanza di inclusioni nel minerale e per le dimensioni dei suoi grani, senza precedenti in qualsiasi campione di meteorite.
Il ritrovamento di fosfati di magnesio-sodio nel campione di Bennu solleva interrogativi sui processi geochimici che hanno concentrato questi elementi e fornisce preziosi indizi sulle condizioni formative di Bennu.
«La presenza e lo stato dei fosfati, insieme ad altri elementi e composti su Bennu, suggeriscono la presenza di acqua nella storia dell’asteroide», spiega Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona a Tucson, primo cautore dell’articolo e responsabile scientifico della missione Osiris-Rex. «Bennu potenzialmente avrebbe potuto far parte di un mondo più umido. Tuttavia, questa ipotesi richiede ulteriori indagini».
Nonostante la sua possibile storia di interazione con l’acqua, Bennu rimane un asteroide chimicamente primitivo, con abbondanze di elementi chimici molto simili a quelle rilevate nel Sole.
«Il campione che abbiamo restituito è il più grande quantitativo di materiale asteroidale inalterato sulla Terra in questo momento», aggiunge Lauretta.
Questa composizione offre uno sguardo sugli albori del Sistema solare, oltre 4,5 miliardi di anni fa. Queste rocce hanno mantenuto il loro stato originale, non essendosi né fuse né risolidificate sin dalla loro formazione e preservando fino a oggi preziose informazioni sulle loro origini. Il team ha inoltre confermato che l’asteroide è ricco di carbonio e azoto. Questi elementi sono cruciali per comprendere gli ambienti in cui hanno avuto origine i costituenti di Bennu e i processi chimici che hanno trasformato elementi semplici in molecole complesse, gettando potenzialmente le basi per la vita sulla Terra.
«Contrariamente a quanto avviene con le meteoriti, le missioni di sample return come Osiris-Rex, ci permettono di studiare materiale prelevato direttamente sulla superficie di oggetti planetari e quindi di contestualizzare con grande precisione i risultati delle analisi che si fanno su questi grani nei laboratori sparsi in tutto il mondo», dice Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Asi. «È proprio questa caratteristica che ha permesso di fare immediatamente il collegamento tra la presenza di fosfati nei grani di Bennu con le proprietà che aveva il nostro sistema planetario all’epoca della sua formazione. Ulteriori analisi e il confronto con quanto trovato nei grani prelevati su Ryugu, asteroide molto simile a Bennu, forniranno preziose indicazioni per capire meglio i processi di evoluzione planetaria».
Nei prossimi mesi, molti laboratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo riceveranno materiale dell’asteroide Bennu. attualmente custodito al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Questo permetterà di moltiplicare le indagini e quindi gli articoli scientifici che ne conseguiranno, permettendo di studiare con un dettaglio sempre maggiore le loro proprietà e ricostruire la storia dell’asteroide e del Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Asteroid (101955) Bennu in the laboratory: Properties of the sample collected by OSIRIS-REx”, di Dante S. Lauretta, Harold C. Connolly Jr, Joseph E. Aebersold, Conel M. O’D. Alexander, Ronald-L. Ballouz, Jessica J. Barnes, Helena C. Bates, Carina A. Bennett, Laurinne Blanche, Erika H. Blumenfeld, Simon J. Clemett, George D. Cody, Daniella N. DellaGiustina, Jason P. Dworkin, Scott A. Eckley, Dionysis I. Foustoukos, Ian A. Franchi, Daniel P. Glavin, Richard C. Greenwood, Pierre Haenecour, Victoria E. Hamilton, Dolores H. Hill, Takahiro Hiroi, Kana Ishimaru, Fred Jourdan, Hannah H. Kaplan, Lindsay P. Keller, Ashley J. King, Piers Koefoed, Melissa K. Kontogiannis, Loan Le, Robert J. Macke, Timothy J. McCoy, Ralph E. Milliken, Jens Najorka, Ann N. Nguyen, Maurizio Pajola, Anjani T. Polit, Kevin Righter, Heather L. Roper, Sara S. Russell, Andrew J. Ryan, Scott A. Sandford, Paul F. Schofield, Cody D. Schultz, Laura B. Seifert, Shogo Tachibana, Kathie L. Thomas-Keprta, Michelle S. Thompson, Valerie Tu, Filippo Tusberti, Kun Wang, Thomas J. Zega, C. W. V. Wolner, the OSIRIS-REx Sample Analysis Team
C’è vita aliena? Ce lo dicono i gas serra
Un’illustrazione di varie tecnofirme planetarie, tra cui i gas atmosferici artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside
Se gli alieni modificassero un pianeta del loro sistema solare per renderlo più caldo, saremmo in grado di capirlo. Questa è la conclusione di un nuovo studio della Uc Riverside pubblicato su Astrophysical Journal, che identifica i gas serra artificiali che rivelerebbero la presenza di un pianeta “terraformato” e suggerisce i tempi necessari al telescopio spaziale James Webb (Jwst) per rilevare diverse concentrazioni di tali gas.
La terraformazione è un ipotetico processo artificiale che serve per rendere abitabile un pianeta intervenendo sulla sua atmosfera – creandola o modificandone la composizione chimica – in modo da renderla simile a quella della Terra e in grado di sostenere un ecosistema. Attualmente gli studi sulla terraformazione sono del tutto speculativi. Tuttavia, i gas descritti nello studio sarebbero rilevabili anche a concentrazioni relativamente basse nelle atmosfere di pianeti al di fuori del Sistema solare utilizzando la tecnologia esistente. Tra queste potrebbe esserci il Jwst o esperimenti futuri come Life, il Large Interferometer For Exoplanets del Politecnico federale di Zurigo (Eth).
Sebbene sulla Terra questi gas inquinanti debbano essere controllati per evitare effetti climatici dannosi, ci sono ragioni per cui potrebbero essere usati intenzionalmente su un esopianeta. «Per noi, questi gas sono negativi perché non vogliamo aumentare il riscaldamento globale. Ma sarebbero ottimi per una civiltà che volesse prevenire un’imminente era glaciale o terraformare un pianeta altrimenti inabitabile nel proprio sistema, come gli esseri umani hanno proposto per Marte», riferisce Edward Schwieterman, astrobiologo della Uc Riverside e primo autore dello studio.
Poiché in natura questi gas non sono presenti in quantità significative, devono essere fabbricati. Trovarli, quindi, sarebbe un segno della presenza di forme di vita intelligenti e tecnologiche, le cosiddette tecnofirme. I cinque gas proposti dai ricercatori – CF4 (tetrafluorometano), C2F6 (esafluoroetano), C3F8 (ottafluoropropano), SF6 (esafluoruro di zolfo) e NF3 (trifluoruro di azoto) – sono utilizzati sulla Terra in applicazioni industriali come la produzione di chip per computer. Comprendono versioni fluorurate di metano, etano e propano, oltre a gas composti da azoto e fluoro o zolfo e fluoro. In particolare, gli autori hanno analizzato le potenzialità di questi gas di generare firme atmosferiche rilevabili.
A differenza dei sottoprodotti passivi accidentali dei processi industriali, i gas serra artificiali rappresenterebbero uno sforzo intenzionale per modificare il clima di un pianeta con gas a lunga vita e bassa tossicità, e avrebbero un basso potenziale di falsi positivi. Come sottolineato da Schwieterman, una civiltà extraterrestre potrebbe essere motivata a intraprendere un tale sforzo per arrestare il raffreddamento del proprio mondo o per terraformare un pianeta terrestre altrimenti inabitabile all’interno del proprio sistema.
Un vantaggio è che sono gas serra incredibilmente efficaci. L’esafluoruro di zolfo, ad esempio, ha un potere riscaldante 23.500 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Una quantità relativamente piccola potrebbe riscaldare un pianeta gelido fino al punto in cui l’acqua liquida potrebbe persistere sulla sua superficie.
Un altro vantaggio dei gas proposti – almeno dal punto di vista alieno – è che sono eccezionalmente longevi e persisterebbero in un’atmosfera simile a quella terrestre fino a 50mila anni. «Non avrebbero bisogno di essere riforniti troppo spesso per mantenere un clima ospitale», spiega Schwieterman.
Spettri qualitativi di trasmissione ed emissione nel medio infrarosso di un ipotetico pianeta simile alla Terra il cui clima è stato modificato con gas serra artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside
Qualcuno ha proposto sostanze chimiche refrigeranti come i Clorofluorocarburi (Cfc) come traccianti di tecnofirme perché sono quasi esclusivamente artificiali e visibili nell’atmosfera terrestre. Tuttavia, i Cfc potrebbero non essere vantaggiosi perché distruggono lo strato di ozono, a differenza dei gas completamente fluorurati discussi nello studio, che sono chimicamente inerti. «Se un’altra civiltà avesse un’atmosfera ricca di ossigeno, avrebbe anche uno strato di ozono che vorrebbe proteggere», dice Schwieterman. «I Cfc verrebbero smembrati nello strato di ozono anche se ne catalizzano la distruzione». Essendo più facilmente scomponibili, i Cfc hanno anche una vita breve, che li rende più difficili da rilevare.
Infine i gas fluorurati devono assorbire la radiazione infrarossa per avere un impatto sul clima. L’assorbimento produce una corrispondente firma infrarossa che potrebbe essere rilevata con telescopi spaziali. Con la tecnologia attuale o futura, gli scienziati potrebbero rilevare queste sostanze chimiche in alcuni sistemi esoplanetari vicini. «Con un’atmosfera come quella terrestre, solo una molecola su un milione potrebbe essere uno di questi gas e sarebbe potenzialmente rilevabile», aggiunge Schwieterman. «Quella concentrazione di gas sarebbe inoltre sufficiente a modificare il clima».
Per arrivare alle loro conclusioni, i ricercatori hanno simulato un pianeta nel sistema Trappist-1, a circa 40 anni luce dalla Terra. Hanno scelto questo sistema, che contiene sette pianeti rocciosi conosciuti, perché è uno dei sistemi planetari più studiati, oltre al nostro. È anche un obiettivo realistico da esaminare per i telescopi spaziali esistenti.
Come già detto, poiché i gas serra artificiali assorbono fortemente nella finestra termica del medio infrarosso delle atmosfere temperate, un pianeta terraformato possiederà forti caratteristiche di assorbimento di questi gas alle lunghezze d’onda del medio infrarosso (∼8-12 μm), eventualmente accompagnate da caratteristiche nel vicino infrarosso. Gli autori hanno calcolato il tempo di osservazione necessario per rilevare 1[10](100) ppm di C2F6/C3F8/SF6 su Trappist-1 f con lo spettrometro a bassa risoluzione (Lrs) di Miri e con NirSpec, a bordo di Jwst. Hanno scoperto che una combinazione di 1[10](100) ppm di C2F6, C3F8 e SF6 può essere rilevata con un rapporto segnale/rumore maggiore di 5 in soli 25[10](5) transiti con Miri/Lrs.
Il gruppo ha anche considerato la capacità della missione europea Life di rilevare i gas fluorurati. La missione Life sarebbe in grado di fotografare direttamente i pianeti utilizzando la luce infrarossa, consentendo di individuare un numero maggiore di esopianeti rispetto al telescopio Webb, che osserva i pianeti mentre passano davanti alle loro stelle.
Pur non potendo quantificare la probabilità di trovare questi gas nel prossimo futuro, i ricercatori sono fiduciosi che – se presenti – è del tutto possibile rilevarli durante le missioni attualmente pianificate per caratterizzare le atmosfere planetarie. «Non ci sarebbe bisogno di uno sforzo supplementare per cercare queste tecnofirme, se il telescopio sta già caratterizzando il pianeta per altri motivi», conclude Schwieterman. «E sarebbe sorprendente trovarle».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal l’articolo “Artificial Greenhouse Gases as Exoplanet Technosignatures” di Edward W. Schwieterman, Thomas J. Fauchez, Jacob Haqq-Misra, Ravi K. Kopparapu, Daniel Angerhausen, Daria Pidhorodetska, Michaela Leung, Evan L. Sneed, and Elsa Ducrot
Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione
L’immagine in alto (crediti: A. Mura/Jiram Team) mostra l’emissione nell’infrarosso di Chors Patera, sulla luna Io di Giove. È stata creata combinando i dati raccolti dallo strumento Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper) durante un sorvolo della luna il 15 ottobre 2023. Gli scienziati della missione Juno ritengono che la maggior parte del lago di lava, largo circa 70 chilometri, sia coperta da una spessa crosta di materiale fuso (la parte centrale che appare rosso/verde nel grafico) con una temperatura superficiale di circa -40 °C. L’anello bianco che lo circonda è dove la lava proveniente dall’interno di Io è direttamente esposta allo spazio, ossia la parte più calda di questa caratteristica vulcanica, intorno ai 500 °C. L’area in verde è esterna al lago di lava ed è molto fredda (circa -150 °C). L’anello di lava sui bordi del lago è una caratteristica simile a quella visibile in alcuni laghi Hawaiani, come quello mostrato in basso, il lago di lava Puʻu ʻŌʻō, qui ripreso nei primi anni ’90 (crediti: Nps/Usgs)
Nuovi risultati in arrivo dal satellite gioviano Io forniscono un quadro più completo su quanto i laghi di lava siano diffusi su tutta la e rivelano per la prima volta i meccanismi dei processi vulcanici in atto. Questi risultati sono stati ottenuti grazie allo strumento italiano Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper, finanziato dall’Asi, l’Agenzia spaziale italiana) a bordo della sonda Nasa Juno, che osserva nella luce infrarossa, non visibile all’occhio umano. I ricercatori hanno pubblicato un articolo su queste recenti scoperte la settimana scorsa su Nature Communications Earth and Environment.
Io ha affascinato la comunità astronomica sin dal 1610, quando Galileo Galilei scoprì la luna gioviana. 369 anni dopo, la sonda Voyager della Nasa catturò un’eruzione vulcanica sulla luna. Le successive missioni Galileo e Juno hanno compiuto diverse osservazioni di Io e grazie a queste molti più dettagli sul suo vulcanismo sono stati scoperti. Gli scienziati pensano che Io, che è stirata e compressa come una fisarmonica dalla gravità delle lune vicine e dal massiccio Giove, sia il mondo più vulcanicamente attivo del Sistema solare. Ma mentre ci sono molte teorie sul tipo di eruzioni vulcaniche che popolano la sua superficie, esistevano pochi dati a supporto.
A maggio e ottobre 2023, Juno ha effettuato sorvoli di Io con una distanza di avvicinamento di circa, rispettivamente, 35mila chilometri e 13mila chilometri,. All’epoca, i due sorvoli erano i più vicini che una sonda avesse raggiunto la luna gioviana in oltre due decenni. Tra gli strumenti di Juno che stavano osservando da vicino la luna, affascinante e leggermente più grande di quella della Terra, c’era lo strumento italiano Jiram.
Jiram è stato progettato per catturare la luce infrarossa proveniente dall’interno profondo di Giove, sondando lo strato meteorologico fino a 50-70 chilometri sotto la sommità delle nuvole di Giove. Ma durante la missione estesa di Juno, lo strumento è stato anche impiegato per studiare le lune Io, Europa, Ganimede e Callisto. Le immagini di Io prese da Jiram hanno mostrato la presenza di anelli luminosi nell’infrarosso in corrispondenza numerosi hot spot (letteralmente, punti caldi, ossia caldere, vulcani o colate laviche).
«L’elevata risoluzione spaziale delle immagini a infrarossi di Jiram, combinata con la posizione favorevole di Juno durante i sorvoli, ha rivelato che l’intera superficie di Io è coperta da laghi di lava contenuti in strutture simili a caldere –grandi depressioni formate quando un vulcano erutta e collassa», spiega Alessandro Mura, co-investigator di Juno dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma. «Stimiamo che nella regione della superficie di Io in cui abbiamo i dati più completi circa il 3 per cento sia coperto da uno di questi laghi di lava».
Dentro la bocca dei laghi di fuoco
I dati del sorvolo di Io di Jiram non solo evidenziano le abbondanti riserve di lava di Io, ma forniscono anche un’idea di ciò che potrebbe accadere sotto la superficie. Le immagini a infrarossi di diversi laghi di lava su Io hanno mostrato un cerchio di lava estremamente sottile al confine, tra la crosta centrale (che copre la maggior parte del lago di lava) e le pareti del lago. La mancanza di flussi di lava oltre il bordo del lago, fanno supporre un sostanziale riciclo del magma, indicando che c’è un equilibrio tra quello che è eruttata nei laghi di lava e quello che è reiniettato nel sistema sotterraneo.
In questo grafico, il meccanismo proposto per la formazione dell’anello di lava: la risalita e ridiscesa del magma provoca la rottura della crosta sui bordi del lago. Crediti: A. Mura
«Adesso abbiamo l’idea di quale sia il tipo di vulcanismo più frequente su Io: enormi laghi di lava dove il magma sale e scende», dice Mura. «La crosta di lava è costretta a rompersi contro le pareti del lago, formando l’anello di lava tipico visto nei laghi di lava hawaiiani. Le pareti sono probabilmente alte centinaia di metri, il che spiega perché generalmente il magma non viene osservato fuoriuscire dalle paterae (termine usato per indicare le caldere su Io, ossia strutture a forma di scodella create dal vulcanismo) e muoversi sulla superficie della luna».
I dati di Jiram suggeriscono che la maggior parte della superficie di questi laghi di lava su Io sia composta da una crosta rocciosa che si muove su e giù ciclicamente, come una superficie unica, a causa della risalita e ridiscesa centrale del magma. La crosta che tocca le pareti del lago non può scivolare a causa dell’attrito con le pareti del lago, quindi si deforma e alla fine si rompe – permettendo alla lava appena sotto la superficie incrostata di risultare visibile da Jiram.
Un’ipotesi alternativa rimane valida: la risalita del magma al centro del lago. In questo scenario, la crosta isolante (anche se sottile) si diffonde radialmente attraverso processi di convezione nel lago e poi sprofonda ai bordi, esponendo la lava.
«Stiamo appena iniziando a esaminare i risultati di Jiram dai sorvoli ravvicinati di Io a dicembre 2023 e febbraio 2024», dice Scott Bolton, principal investigator di Juno, del Southwest Research Institute di San Antonio. «Le osservazioni mostrano nuove affascinanti informazioni sui processi vulcanici di Io. Combinando questi nuovi risultati con la campagna a lungo termine di Juno per monitorare e mappare i vulcani nei poli nord e sud di Io, mai osservati prima, Jiram si sta rivelando uno degli strumenti più preziosi per comprendere come funziona questo mondo tormentato».
Juno ha eseguito il suo 62° sorvolo di Giove – che includeva un sorvolo di Io a un’altitudine di circa 29.250 km il 13 giugno. Il suo 63° sorvolo del gigante gassoso è previsto per il 16 luglio.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications Earth and Environment l’articolo “Hot rings on Io observed by Juno/JIRAM”, Alessandro Mura, Federico Tosi, Francesca Zambon, Rosaly M. C. Lopes, Peter J. Mouginis-Mark, Heidi Becker, Gianrico Filacchione, Alessandra Migliorini, Candice. J. Hansen, Alberto Adriani, Francesca Altieri, Scott Bolton, Andrea Cicchetti, Elisa Di Mico, Davide Grassi, Raffaella Noschese, Alessandro Moirano, Madeline Pettine, Giuseppe Piccioni, Christina Plainaki, Julie Rathbun, Roberto Sordini e Giuseppe Sindoni
La materia oscura è fatta di buchi neri?
Impressione artistica di un evento di microlensing causato da un buco nero che si trova tra la Terra e la stella della Grande Nube di Magellano. La luce della stella viene piegata dal buco nero (lente) nell’alone galattico e ingrandita quando viene osservata dalla Terra. Il microlensing causa una variazione molto caratteristica della luminosità della stella, permettendo di determinare la massa e la distanza della lente. Crediti: J. Skowron / Ogle
Diverse osservazioni astronomiche indicano che la materia ordinaria, che possiamo vedere o toccare, comprende solo il 5 per cento del bilancio totale di massa ed energia dell’universo. Ma nella Via Lattea, per ogni chilogrammo di materia ordinaria presente nelle stelle, ci sono ben 15 chilogrammi di materia oscura, che non emette luce e interagisce solo attraverso la sua attrazione gravitazionale.
«La natura della materia oscura rimane un mistero. La maggior parte degli scienziati pensa che sia composta da particelle elementari sconosciute», dice Przemek Mróz dell’Osservatorio astronomico dell’Università di Varsavia, primo autore di due articoli pubblicati su Nature e Astrophysical Journal Supplement Series che offrono una risposta alla domanda riportata nel titolo di questa news. «Purtroppo, nonostante decenni di sforzi, nessun esperimento – compresi quelli condotti con il Large Hadron Collider – ha trovato nuove particelle che potrebbero essere responsabili della materia oscura».
Dalla prima rilevazione di onde gravitazionali generate dalla fusione di una coppia di buchi neri, avvenuta nel 2015, gli esperimenti Ligo e Virgo hanno rilevato più di 90 eventi di questo tipo. Gli astronomi hanno notato che i buchi neri rilevati in questo modo sono tipicamente molto più massicci (20-100 masse solari) di quelli conosciuti in precedenza nella Via Lattea (5-20 masse solari). «Spiegare perché queste due popolazioni di buchi neri siano così diverse è uno dei più grandi misteri dell’astronomia moderna», afferma Mróz.
Una possibile spiegazione ipotizza che i rivelatori Ligo e Virgo abbiano scoperto una popolazione di buchi neri primordiali che potrebbero essersi formati nelle prime fasi di vita dell’universo. La loro esistenza è stata proposta per la prima volta oltre 50 anni fa dal famoso fisico teorico britannico Stephen Hawking e, in modo indipendente, dal fisico sovietico Yakov Zeldovich. «Sappiamo che l’universo primordiale non era idealmente omogeneo: piccole fluttuazioni di densità hanno dato origine alle galassie e agli ammassi di galassie attuali», spiega Mróz. «Fluttuazioni di densità simili, se superano un contrasto di densità critica, possono collassare e formare buchi neri».
Dalla prima rilevazione delle onde gravitazionali, un numero sempre maggiore di scienziati ha ipotizzato che questi buchi neri primordiali possano costituire una frazione significativa, se non la totalità, della materia oscura. Ipotesi, questa, che può essere verificata con osservazioni astronomiche. Nella Via Lattea esistono abbondanti quantità di materia oscura. Se fosse composta da buchi neri, dovremmo essere in grado di rilevarli nel nostro vicinato cosmico. È possibile farlo, visto che i buchi neri non emettono alcuna luce rilevabile? Assolutamente sì.
Eventi di microlensing previsti e osservati da parte di oggetti massicci in direzione della Grande Nube di Magellano, visti attraverso l’alone della Via Lattea. Se la materia oscura fosse costituita da buchi neri primordiali, la survey Ogle avrebbe dovuto rilevare oltre 500 eventi di microlensing negli anni 2001-2020. In realtà, ha registrato solo 13 rilevamenti di eventi di microlensing, molto probabilmente causati da stelle normali. Crediti: J. Skowron / Ogle
Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, la luce può essere piegata e deviata dal campo gravitazionale di oggetti massicci, un fenomeno chiamato microlensing gravitazionale. «Il microlensing si verifica quando tre oggetti – un osservatore sulla Terra, una sorgente di luce e una “lente” – si allineano prospetticamente in modo ideale nello spazio», spiega Andrzej Udalski, pricipal investigator di Ogle (Optical Gravitational Lensing Experiment). «Durante un evento di microlensing, la luce della sorgente può essere deviata e amplificata e noi osserviamo un temporaneo aumento della luminosità della sorgente».
La durata di questo aumento nella luminosità dipende dalla massa dell’oggetto che fa da lente: maggiore è la massa, più lungo è l’evento. Gli eventi di microlensing da parte di oggetti di massa solare durano in genere alcune settimane, mentre quelli da parte di buchi neri cento volte più massicci del Sole durano alcuni anni.
L’idea di utilizzare il microlensing gravitazionale per studiare la materia oscura non è nuova. È stata proposta per la prima volta negli anni ’80 dall’astrofisico polacco Bohdan Paczyński. La sua idea ha ispirato l’avvio di tre importanti esperimenti: il polacco Ogle, l’americano Macho e il francese Eros. I primi risultati di questi esperimenti dimostrarono che i buchi neri meno massicci di una massa solare possono costituire meno del 10 per cento della materia oscura. Queste osservazioni, tuttavia, non erano sensibili agli eventi di microlensing su scala temporale estremamente lunga e, quindi, non erano sensibili ai buchi neri massicci, simili a quelli recentemente rilevati dai rivelatori di onde gravitazionali.
Nel nuovo articolo, pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Supplement Series, gli astronomi di Ogle presentano i risultati di un monitoraggio fotometrico durato quasi 20 anni di circa 80 milioni di stelle appartenenti a una galassia vicina, la Grande Nube di Magellano, e la ricerca di eventi di microlensing gravitazionale. I dati analizzati sono stati raccolti durante la terza e la quarta fase del progetto Ogle, dal 2001 al 2020. «Questo set di dati fornisce le osservazioni fotometriche più lunghe, più ampie e più accurate delle stelle della Grande Nube di Magellano nella storia dell’astronomia moderna», dice Udalski.
Il secondo articolo, pubblicato su Nature, illustra le conseguenze astrofisiche delle scoperte. «Se l’intera materia oscura della Via Lattea fosse composta da buchi neri di 10 masse solari, avremmo dovuto rilevare 258 eventi di microlensing», spiega Mróz. «Per i buchi neri di 100 masse solari, ci aspettavamo 99 eventi di microlensing. Per i buchi neri di 1000 masse solari, 27 eventi di microlensing».
Notte sull’Osservatorio di Las Campanas in Cile (gestito dalla Carnegie Institution for Science). La stazione osservativa del progetto Ogle e le Grandi e Piccole Nubi di Magellano. Crediti: Krzysztof Ulaczyk
Al contrario, gli astronomi di Ogle hanno trovato solo 13 eventi di microlensing. La loro analisi dettagliata dimostra che tutti questi eventi possono essere spiegati dalle popolazioni stellari conosciute nella Via Lattea o nella Grande Nube di Magellano, non dai buchi neri. «Questo indica che i buchi neri massicci possono costituire al massimo qualche percentuale della materia oscura», afferma Mróz.
Calcoli dettagliati dimostrano che i buchi neri di 10 masse solari possono comprendere al massimo l’1,2 per cento della materia oscura, i buchi neri di 100 masse solari il 3 per cento della materia oscura e i buchi neri di 1000 masse solari l’11 per cento della materia oscura.
«Le nostre osservazioni indicano che i buchi neri primordiali non possono costituire una frazione significativa della materia oscura e, allo stesso tempo, spiegare i tassi di fusione dei buchi neri misurati da Ligo e Virgo», conclude Udalski.
Pertanto, sono necessarie altre spiegazioni per i buchi neri massicci rilevati da Ligo e Virgo. Secondo un’ipotesi, si sono formati come prodotto dell’evoluzione di stelle massicce a bassa metallicità. Un’altra possibilità richiama la fusione di oggetti meno massicci in ambienti stellari densi, come gli ammassi globulari.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Supplement Series l’articolo “Microlensing optical depth and event rate toward the Large Magellanic Cloud based on 20 years of OGLE observations” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Mateusz Kapusta, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak
- Leggi su Nature l’articolo “No massive black holes in the Milky Way halo” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak
Tutti insieme allineatamente
Capita talvolta che una persona che conosciamo da molto tempo ci lasci di stucco per qualche uscita che proprio non ci aspettavamo. Lo stesso può accadere per certe regioni del cielo, immortalate innumerevoli volte nel corso degli anni, regioni dello spazio che diremmo ormai familiari se non noiose, e che eppure possono rivelare mirabili sorprese. Questo è avvenuto quando Joel Green, astronomo dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, e alcuni suoi collaboratori si sono trovati al cospetto delle nuove immagini della Nebulosa Serpente realizzate con lo strumento NirCam del telescopio spaziale James Webb.
La Nebulosa Serpente vista da Jwst/NirCam. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)
Situata nell’omonima costellazione, la Nebulosa Serpente è una regione della Via Lattea collocata a 1300 anni luce dalla Terra che ospita numerose stelle in formazione (o protostelle) con un’età di appena centomila anni. E proprio nei pressi di queste stelle si celava la sorpresa. Le immagini Webb hanno infatti rivelato numerosi getti di gas dalla geometria bipolare che fuoriescono dalle protostelle. Il fatto straordinario è che i getti non sono orientati a caso ma risultano diligentemente allineati, un po’ come le gocce di un acquazzone quando c’è vento. È la prima volta che un fenomeno di questo tipo viene osservato. Lo studio che riporta la scoperta è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal la scorsa settimana e fornisce importanti indicazioni ai modelli di formazione stellare. «Gli astronomi hanno a lungo assunto che, a mano a mano le nubi collassano per formare le stelle, queste ultime tendono a ruotare nella stessa direzione», dice Klaus Pontoppidan, responsabile del programma scientifico che ha portato alla scoperta, in una press releasesul sito della Nasa. «Tuttavia, questo non era mai stato visto in maniera così diretta prima d’ora. Queste strutture allineate e dalla forma allungata sono una traccia del modo in cui nascono le stelle.»
L’allineamento dei getti si parlerebbe dunque con la rotazione delle stelle. Man mano che il gas collassa per formare una stella, esso comincia a ruotare sempre più rapidamente formando un disco di accrescimento. Affinché nuovo gas possa collassare, parte di questa rotazione viene trasferita ai getti di materiale, che vengono lanciati in direzioni opposte, perpendicolarmente al disco di accrescimento. Le protostelle con i getti annessi sono localizzate nella regione in alto a sinistra delle immagini Webb, con i getti di colore rossastro, indicativo della presenza di idrogeno molecolare e monossido carbonio. In passato anche il telescopio spaziale Hubble aveva scrutato questa regione. Cruciale è stata la sopraffina risoluzione angolare di Webb, che ha consentito di distinguere delle strutture dalla forma allungata là dove Hubble aveva visto solo dei blob indistinti.
Zoom sulla regione della Nebulosa Serpente in cui si notano numerosi getti protostellari allineati fra di loro. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)
Non è la prima volta che questa regione della nostra galassia fa parlare di sé. Nel 2020 alcune immagini di Hubble hanno immortalato la cosiddetta Bat shadow (ombra del pipistrello), che non è una traccia del passaggio di Batman, ma l’ombra generata da un disco protoplanetario. Anche quella, scoperta avvenuta per caso.
Gli scienziati adesso vogliono studiare la composizione chimica dei getti utilizzando lo strumento NirSpec, sempre del James Webb. Oggetto privilegiato dell’indagine saranno le sostanze volatili, ovvero quei composti che passano dallo stato liquido allo stato gassoso a temperature relativamente basse. Esempi di queste sostanze sono l’acqua e il monossido di carbonio. «A livello elementare, noi tutti siamo fatti di materia che proviene da queste sostanze volatili. La maggior parte dell’acqua qui sulla Terra ha avuto origine quando il Sole era una protostella miliardi di anni fa», dice Pontoppidan. «Studiare le abbondanze di questi composti nelle protostelle appena prima che si formino i dischi protoplanetari potrebbe aiutarci nel capire quanto uniche siano state le circostanze in cui il nostro sistema solare si è formato».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal “Why are (almost) all the protostellar outflows aligned in Serpens Main?”, di Joel D. Green, Klaus M. Pontoppidan, Megan Reiter, Dan M. Watson, Sachindev S. Shenoy, P. Manoj e Mayank Narang
Onde di metano sulle rive di Titano
Illustrazione artistica di un lago al polo nord della luna di Saturno Titano, ispirata alle immagini riprese dalla sonda Cassini intorno al Winnipeg Lacus della luna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Le rive dei laghi e dei mari di idrocarburi di Titano, la luna più grande di Saturno, potrebbero essere state erose dall’attività ondosa delle distese liquide che si trovano sul satellite. È quanto riporta un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology (Mit) in uno studio pubblicato la settimana scorsa su Science Advances.
Titano è l’unico corpo planetario del Sistema solare oltre alla Terra che ospita fiumi, laghi e mari attivi. I sistemi fluviali di Titano sembrano essere ricchi di metano ed etano liquidi che confluiscono in laghi e mari – alcuni delle dimensioni dei Grandi Laghi dell’America settentrionale – la cui esistenza è stata confermata nel 2007 grazie alle immagini scattate dalla sonda Cassini della Nasa.
Gli esperti di geologia del Mit hanno studiato la conformazione delle coste di Titano e hanno dimostrato, attraverso simulazioni, che i grandi mari della luna sono stati probabilmente modellati dalle onde. Il gruppo di ricerca ha sviluppato i modelli di erosione sulla base dei processi attraverso i quali un lago può erodere le coste terrestri, e li ha poi applicati ai mari di Titano per capire che tipo di meccanismo erosivo abbia potuto produrre le sue caratteristiche coste. La spiegazione più probabile è che siano state proprio le onde a dare origine alle coste frastagliate di Titano.
Per arrivare a questa conclusione, gli autori dello studio hanno individuato gli scenari possibili di ciò che sarebbe potuto accadere dopo che l’innalzamento dei livelli di liquido ha inondato il paesaggio attraversato da valli fluviali. Gli scenari possibili sono tre: nessuna erosione costiera, erosione guidata dalle onde ed erosione “uniforme”, guidata dall’azione del liquido che dissolve passivamente il materiale di una costa oppure da un meccanismo per cui la costa si stacca gradualmente sotto il suo stesso peso.
I ricercatori hanno quindi simulato l’evoluzione delle varie forme di litorale in ciascuno dei tre scenari. Per simulare l’erosione provocata dalle onde hanno preso in considerazione un parametro – noto, anche ai surfisti, come fetch – che descrive la distanza fisica tra un punto della costa e il lato opposto, di un lago o di un mare – entro cui avviene la generazione del moto ondoso.
«L’erosione delle onde è determinata dall’altezza e dall’angolo dell’onda», spiega Rose Palermo del Mit, alla guida dello studio. «Abbiamo usato il fetch per approssimare l’altezza delle onde, perché più grande è il fetch, più lunga è la distanza su cui il vento può soffiare e le onde possono crescere».
Per verificare le differenze tra i tre scenari, i ricercatori hanno iniziato a simulare un mare con valli fluviali allagate ai bordi. Per l’erosione guidata dalle onde, hanno calcolato la distanza del fetch da ogni singolo punto lungo la linea di costa a ogni altro punto e hanno convertito queste distanze in altezza delle onde. Poi hanno eseguito una simulazione per vedere come le onde avrebbero eroso la linea di costa iniziale nel tempo e hanno confrontato il risultato con l’evoluzione della stessa linea di riva in caso di erosione uniforme.
I ricercatori hanno ripetuto questa modellazione comparativa per centinaia di forme diverse della linea di riva di partenza, e hanno scoperto che la forma finale della costa era molto diversa a seconda del meccanismo sottostante. In particolare, l’erosione uniforme ha prodotto coste rialzate che si sono allargate in modo uniforme su tutto il perimetro, analogamente alle valli fluviali allagate, mentre l’erosione ondosa ha levigato soprattutto le parti delle coste esposte a lunghe distanze di fetch, lasciando le valli allagate strette e ruvide.
Una volta confrontate le simulazioni con i laghi presenti sulla Terra, i ricercatori hanno riscontrato la stessa differenza di forma tra i laghi terrestri noti per essere stati erosi dalle onde e i laghi colpiti da un’erosione uniforme dovuta alla dissoluzione del calcare.
I modelli hanno rivelato che le forme assunte delle coste sono caratteristiche del meccanismo con cui si sono evolute. Il team di ricercatori si è quindi chiesto: «Dove si collocherebbero le coste di Titano, tra queste forme caratteristiche?»
Titano in un mosaico a colori nel vicino infrarosso, ripreso dalla sonda Cassini. Crediti: Nasa/JPpl-Caltech/Università dell’Arizona/Università dell’Idaho
In particolare, si sono concentrati su quattro dei mari più grandi e meglio mappati di Titano: il Kraken Mare, di dimensioni paragonabili al Mar Caspio, il Ligeia Mare, più grande del Lago Superiore, il Punga Mare, più lungo del Lago Vittoria, e l’Ontario Lacus, grande circa il venti per cento del suo omonimo terrestre.
Il confronto tra le coste di ciascun mare, sulla base delle immagini radar di Cassini, e i modelli teorici corrispondenti ai diversi meccanismi di erosione ha mostrato che tutti e quattro i mari si adattano perfettamente al modello di erosione guidata dalle onde.
«Se potessimo stare sulla riva di uno dei mari di Titano, potremmo vedere onde di metano ed etano che si infrangono sulle coste durante le tempeste. E sarebbero in grado di erodere il materiale di cui sono fatte le coste», dice Taylor Perron del Mit, coautore dell’articolo.
I ricercatori stanno lavorando per determinare quanto forti debbano essere i venti di Titano per creare onde di idrocarburi liquidi esotici che potrebbero ripetutamente intaccare le coste. L’obiettivo della ricerca è anche decifrare, dalla forma delle coste, da quali direzioni soffia prevalentemente il vento. Sapere se i mari di Titano ospitano attività ondose potrebbe fornire agli scienziati informazioni sul clima della luna, come per esempio la forza dei venti che potrebbero sollevare tali onde.
«Titano rappresenta un caso di sistema completamente incontaminato», conclude Palermo. «Potrebbe aiutarci a imparare cose più fondamentali su come le coste si erodono senza l’influenza dell’uomo, e forse questo potrebbe aiutarci a gestire meglio, in futuro, le nostre coste sulla Terra».
Fonte: sito web del Mit
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Signatures of wave erosion in Titan’s coasts” di Rose V. Palermo, Andrew D. Ashton, Jason M. Soderblom, Samuel P. D. Birch e J. Taylor Perron
L’entanglement misura la rotazione terrestre
Interferometro di Sagnac costruito con 2 chilometri di fibre ottiche avvolte intorno a un telaio quadrato di alluminio di 1,4 metri di lato. Crediti: R. Silvestri
Un gruppo di ricercatori della Università di Vienna ha condotto un esperimento pionieristico in cui ha misurato l’effetto della rotazione della Terra su fotoni entangled. Il lavoro, appena pubblicato su Science Advances, rappresenta un risultato significativo che spinge i confini della sensibilità alla rotazione nei sensori basati sull’entanglement quantistico, ponendo potenzialmente le basi per ulteriori esplorazioni al confine tra meccanica quantistica e relatività generale.
L’esperimento ha impiegato un interferometro ottico di Sagnac, tra i dispositivi più sensibili alle rotazioni. Tali interferometri sono stati cruciali per la comprensione della fisica fondamentale fin dai primi anni del secolo scorso, contribuendo ad affermare la teoria della relatività speciale di Einstein. Oggi, la loro impareggiabile precisione li rende lo strumento definitivo per misurare le velocità di rotazione, limitato solo dai confini della fisica classica.
Per comprendere il funzionamento di questi dispositivi e la misura effettuata, abbiamo intervistato Raffaele Silvestri, primo autore dello studio, dottorando all’Università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther, gruppo che si occupa principalmente di scienza dell’informazione e computazione quantistica, fondamenti della teoria quantistica e investigazione dell’interfaccia fra la meccanica quantistica e la gravità generando e utilizzando stati quantistici della luce, come l’entanglement a più fotoni.
Gli interferometri che utilizzano l’entanglement quantistico hanno il potenziale per infrangere i limiti della fisica classica. In che modo?
«Gli interferometri “classici” (ovvero che non utilizzano stati quantistici della luce, come ad esempio la luce laser) sono limitati nella precisione di misura dello sfasamento indotto (da qualsivoglia effetto che si voglia misurare) sui fasci di luce che si propagano nei due percorsi (o bracci) dell’interferometro da un limite chiamato di shot-noise (shot-noise limit). Questo limite è proporzionale all’inverso della radice quadrata del numero di fotoni rilevati dal detector in un certo intervallo di tempo, un risultato che proviene banalmente dalla statistica dei conteggi di un processo random a variabili indipendenti, statistica che segue una distribuzione di Poisson (numero di conteggi/fotoni rilevati: N, incertezza o shot-noise: sqrt(N), incertezza relativa o shot-noise limit: 1/sqrt(N)). Ora, si possono sfruttare stati della luce in cui i fotoni invece che essere indipendenti condividono delle correlazioni quantistiche, andando quindi a modificare la statistica dello stato della luce. L’esempio più celebre è quello dello squeezing quantistico (statistica sub-Poissoniana), in cui le correlazioni dello stato di luce inviato nell’interferometro possono essere controllate in modo tale da ridurre l’incertezza sulla misura della fase (a discapito di un’incertezza maggiore sull’ampiezza del campo di luce, quindi dell’intensità o numero di fotoni per unità di tempo). Questa tecnica è stata utilizzata dagli interferometri rilevatori di onde gravitazionali delle collaborazioni Virgo e Ligo, riuscendo nella pratica a migliorare la precisione della misura della fase relativa indotta dalla fluttuazione spazio-temporale fra i due bracci di un interferometro di tipo Michelson. Come lo squeezing, anche l’entanglement fra le particelle (fotoni) che compongono uno stato quantistico può essere utilizzato per migliorare la precisione nella misura della fase interferometrica».
Illustrazione dell’esperimento: lo schema interferometrico di Sagnac a fibra (visualizzato all’interno di un inserto), è collocato a Vienna, in Austria, sulla Terra in rotazione. Due fotoni indistinguibili incidono su un cubo che divide il fascio, si crea un entanglement tra di essi e poi vengono accoppiati nell’interferometro a fibra. Crediti: M. Di Vita
In che modo?
«Per intuire la ragione fondamentale di tale fenomeno, consideriamo di avere uno stato di N particelle (fotoni) che sono entangled tramite il grado di libertà della loro posizione (path-entangled) all’interno dell’interferometro. Il caso fondamentale è rappresentato dallo stato NOON, ovvero una sovrapposizione quantistica in cui N fotoni si propagano in un braccio dell’interferometro (a) e 0 nell’altro (b) e viceversa (|N>a|0>b+|0>a|N>b). Lo stato quantistico con N fotoni in un modo spaziale (braccio) |N>a acquisterà al termine della propagazione N volte la fase rispetto a quella che avrebbe acquistato se solo 1 fotone si fosse propagato attraverso lo stesso percorso, (|N>a –> exp(i*N*phi)|N>a, mentre se N=0, |0>a –> exp(i*0*phi)|0>a = |0>a )). Lo stato entangled complessivo quindi acquisterà N volte la fase relativa rispetto al caso in cui solo un singolo fotone fosse stato inviato nell’interferometro (questo è dovuto all’evoluzione unitaria di uno stato di N bosoni in un singolo modo in questo caso spaziale). La precisione sulla misura di fase sarà invece un fattore sqrt(N) più precisa. Difatti, le frange d’interferenza incrementeranno la frequenza di N volte (il periodo della figura di interferenza è ridotto di N volte, 2Pi/N) e nel punto di massima sensibilità dell’interferometro (altrimenti detto punto di quadratura) la pendenza della funzione sarà N-volte maggiore, quindi aumentando considerevolmente la reazione dell’intensità o numero di fotoni rilevati rispetto a piccoli cambiamenti di fase. In linea di principio utilizzando stati NOON, che sono massimamente entangled, si può raggiungere il limite di precisione di Heisenberg, ovvero la soglia ultima di precisione raggiungibile in un interferometro dettata dalle leggi della meccanica quantistica (lo scaling è 1/N invece di 1/sqrt(N), un miglioramento di un fattore sqrt(N)). Questo effetto è anche chiamato super-risoluzione, ed è puramente dovuto alla presenza di questo particolare tipo di correlazione quantistica o entanglement fra N particelle (fotoni) e i due modi spaziali di propagazione. Purtroppo, nella realtà questo limite è molto difficile da raggiungere per via della decoerenza che questi stati quantistici subiscono nell’interazione con l’ambiente».
Come fate a dire che le particelle/fotoni sono entangled?
«La firma incontrovertibile della presenza dell’entanglement fra i due fotoni generati e i due modi spaziali all’interno dell’interferometro (senso di propagazione orario e antiorario in un interferometero Sagnac) è data dalla forma delle frange d’interferenza. In particolare dal raddoppiamento della frequenza o dimezzamento del periodo di oscillazione della curva d’interferenza rispetto al caso in cui singoli fotoni fra loro indipendenti e non correlati quantisticamente sono stati inviati nell’interferometro (effetto di super-risoluzione). Il fatto che la qualità dell’entanglement generato è invece quantificabile dalla visibilità o contrasto delle frange di interferenza, visibilità che è rimasta praticamente invariata prima e dopo la propagazione nell’interferometro ad un valore di circa 97%. A essere precisi, si può ottenere l’effetto di super-risoluzione andando a utilizzare fotoni di lunghezza d’onda minore (metà di quella di riferimento in questo caso, ovvero 1550 nm / 2 = 775 nm ). Tuttavia, sono stati utilizzati fotoni generati dallo stesso processo (Spdc o spontaneous parametric down-conversion) sia per la misura a singolo fotone che per quella a due fotoni, ma solo dopo essere stati tutti filtrati alla lunghezza d’onda selezionata (1550 nm o lunghezza d’onda telecom), assicurando senza ombra di dubbio che la lunghezza d’onda dei fotoni fosse sempre la stessa in entrambe le misure. Non può esservi quindi altra spiegazione se non la presenza di entanglement nella misura a due fotoni».
Il salto di qualità nella sensibilità finora è sempre stato ostacolato dalla natura delicata dell’entanglement ma il vostro esperimento ha fatto la differenza. Ci può spiegare come?
«Uno stato NOON a due fotoni (N=2) è molto fragile e soggetto a decoerenza (e la sua fragilità aumenta esponenzialmente con il numero N di fotoni entangled) dove il contributo principale è dato dalla perdita di fotoni durante l’interazione con l’ambiente circostante, nel nostro caso la propagazione in una fibra ottica lunga 2 chilometri. Ad esempio, se l’interferometro trasmette il 10% della potenza iniziale (o del numero totale di singoli fotoni indipendenti inviati), il numero di stati NOON a due fotoni che sopravvivrà alla propagazione sarà solo l’1% ( (0,1)^N = (0,1)^2 = 0,01 ) degli stati generati. Tuttavia, la sensibilità di una misura di rotazione con un interferometro Sagnac è direttamente proporzionale al tempo di propagazione dei fotoni (lunghezza della fibra ottica) e all’area chiusa dell’interferometro (area circoscritta dal percorso chiuso). Più è grande e più sarà capace di risolvere una rotazione molto lenta, dove il fattore di proporzionalità fra la velocità di rotazione e la fase indotta (osservabile misurata) prende il nome di fattore di scala. È quindi estremamente impegnativo effettuare misure di precisione in interferometri di grandi dimensioni (grandi fattori di scala) utilizzando questi stati, poiché richiede la misurazione di una quantità significativa di questi (coppie di fotoni entangled che sopravvivono alla propagazione in una lunga fibra ottica) e della massima qualità possibile (la forza dell’entanglement è inizialmente elevata e si conserva dopo la propagazione)».
Come avete superato questi ostacoli?
«Abbiamo superato questi ostacoli aumentando, con una tecnica innovativa per questo scenario di applicazione, la stabilità nel tempo del nostro interferometro (area effettiva di oltre 700 metri quadrati, realizzata con 2 chilometri di fibra ottica attorcigliata in una bobina quadrata di 1,4 metri di lato) a diverse ore, consentendo tempi di misura stabili di quasi un giorno intero, così rilevando un numero di fotoni in quantità e qualità sufficiente a ottenere questa notevole precisione (per uno stato così fragile). Da notare che la suddetta stabilità raggiunta è unica per un interferometro Sagnac in fibra ottica di tale dimensioni, per di più considerando il fatto che la fibra è stata attorcigliata a mano senza l’ausilio di macchine automatiche! Ci tengo a precisare che nel nostro esperimento il limite di Heisenberg non è stato raggiunto, né un vantaggio quantistico incondizionato nell’utilizzo di stati NOON a due fotoni rispetto a stati a singolo fotone (considerando lo stesso numero di fotoni rilevati durante l’intero corso della misura) è stato dimostrato. Il passo in avanti è esclusivamente dovuto all’aver raggiunto una tale precisione utilizzando stati entangled in un interferometro così grande e quindi con un’interazione così prolungata fra i fotoni e un ambiente esterno ostile, che provoca un enorme numero di perdite. Il segreto è stato nell’aver raggiunto una stabilità tale nel lungo periodo, grazie all’introduzione di uno switch ottico, per poter aumentare significativamente il tempo di misura e la quantità di fotoni rilevati compensando l’effetto delle perdite».
Come avete fatto a isolare il segnale di rotazione della Terra?
«Come anticipato, la svolta sotto vari punti di vista per noi è stata l’introduzione di uno switch ottico che divide e connette due bobine di fibra da 1 chilometro ciascuna (lunghezza totale 2 chilometri). Siamo quindi riusciti a scambiare la direzione di propagazione dei due fotoni (che si propagano in direzioni opposte) per metà della lunghezza di propagazione nella fibra ottica. Ciò significa che quando i fotoni tornano al punto di partenza il ritardo che hanno accumulato (fase di Sagnac), che quantifica la velocità di rotazione della Terra, è nullo. Quindi, anche se l’interferometro ruota con la Terra, l’effetto indotto dalla rotazione terrestre viene annullato, creando così uno stato di riferimento per estrarre il segnale rotazionale costante di interesse che altrimenti sarebbe stato sempre presente come segnale di fondo. In altre parole è come avere due interferometri Sagnac identici e sovrapposti e sommare i loro segnali, scambiando a comando la direzione di propagazione dei fotoni solo in uno di essi il segnale complessivo è doppio o nullo per via del cambio di segno del segnale di fase in uno di essi. Mi piace dire scherzosamente di avere ingannato la luce facendole credere di trovarsi in un universo non rotante. Questa aggiunta è importante non solo perché consente di confrontare il comportamento dello stato entangled da un sistema di riferimento rotante a uno effettivamente non rotante, ma comporta anche diversi vantaggi tecnici come la soppressione del rumore a bassa frequenza (si può modulare la velocità dello switch a frequenze anche molto elevate) e una maggiore stabilità a lungo termine. Quantificando, la stabilità a lungo termine ottenuta senza e con lo switch ottico a una velocità di modulazione del segnale nell’ordine degli Hz è passata da un minuto a quasi un giorno».
In conclusione, cosa siete stati in grado di osservare?
Raffaele Silvestri, primo autore dell’articolo pubblicato su Science Advances. È dottorando all’università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther. Si è laureato all’università di Roma “La Sapienza” discutendo una tesi di metrologia quantistica su chip fotonici integrati. Crediti: R. Silvestri
«Abbiamo osservato l’effetto della rotazione terrestre su uno stato di due fotoni entangled, ovvero l’introduzione di uno sfasamento relativo nello stato quantistico causato dall’effetto Sagnac (un effetto predetto dalla relatività speciale) che è raddoppiato in grandezza rispetto al caso “classico” in cui un fascio laser o singoli fotoni indipendenti e scorrelati (in assenza di correlazioni di natura quantistica) fossero stati utilizzati nella misura interferometrica (effetto di super-risoluzione). L’effetto osservato risiede quindi all’interfaccia fra la relatività speciale e la meccanica quantistica (compatibile con la teoria quantistica dei campi). Se confrontiamo la precisione con quella che possono raggiungere i moderni giroscopi ottici (sensori di rotazione “classici” che operano con fasci laser), siamo ancora lontani. In particolare, i giroscopi laser (ring laser gyroscopes) sono in grado di percepire anche le minime variazioni della velocità di rotazione della Terra e dell’orientamento del suo asse (dovuta ad esempio al moto delle maree) e questa sensibilità è di ordini di grandezza superiore alla nostra (vedi progetto Ginger/Ino dell’Infn). Ciò che è notevole è la precisione che abbiamo raggiunto nel misurare una velocità di rotazione con l’entanglement quantistico, in particolare con uno stato quantistico di due fotoni massimamente entangled. Una domanda che viene naturale porsi è perché non sfruttare l’enorme sensibilità, precisione, accuratezza e stabilità di tali strumenti già operativi e sondarli con fotoni entangled. La risposta è che queste sono cavità ottiche che selezionano una lunghezza d’onda ben precisa e di conseguenza quasi tutti i fotoni, avendo una larghezza di banda spettrale molto maggiore, sarebbero filtrati dalla cavità e perduti. Per questo riteniamo che l’approccio in fibra ottica sia il più promettente se si vogliono spingere i limiti di precisione raggiungibile con stati entangled di singoli fotoni».
Cosa comporta il risultato ottenuto rispetto a esperimenti futuri?
«Un seguito naturale a questo esperimento potrebbe essere l’utilizzo di un altro effetto quantistico senza analogo classico, come ad esempio l’effetto Hong-Ou-Mandel, che può essere osservato inviando due fotoni indistinguibili (non è necessario che siano entangled) nell’interferometro. Questo manterrebbe la natura quantistica dell’esperimento, ma allo stesso tempo potrebbe aumentare ulteriormente la sua sensibilità andando a misurare il ritardo temporale, invece dello sfasamento, fra i due fotoni che si propagano in sensi opposti. Inoltre, la piattaforma interferometrica e lo schema sperimentale è abbastanza flessibile da consentire ulteriori test con molti altri stati quantistici a più fotoni. Alcuni di essi sono più resistenti alle perdite di fotoni rispetto agli stati NOON e potrebbero in linea di principio dimostrare un vantaggio quantistico incondizionato, aumentando al contempo la precisione della misura grazie al flusso di fotoni più elevato. In ogni caso, il passo successivo sarebbe quello di aumentare la precisione di una quantità significativa tale da poter rilevare effetti gravitazionali come l’effetto geodetico (o precessione di de Sitter) e di frame-dragging (o precessione di Lense-Thirring) su una coppia di fotoni entangled. Si tratta di effetti gravitazionali previsti dalla teoria generale della relatività di Einstein in presenza di un corpo massiccio statico (geodetico) e rotante (frame-dragging, cioè la Terra in rotazione “trascina” la sua curvatura dello spaziotempo) e si manifesta semplicemente come una piccola correzione della velocità di rotazione della Terra. Questa misura rappresenterebbe il primo test sperimentale del comportamento di un fenomeno quantistico fondamentale come l’entanglement in uno spaziotempo curvo come descritto dalla teoria della gravitazione di Einstein, facendo luce su questo regime inesplorato dove le due teorie fondamentali si incontrerebbero, e forse in un futuro non così lontano».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Experimental Observation of Earth’s Rotation with Quantum Entanglement” di R. Silvestri, H. Yu, T. Strömberg, C. Hilweg, R. W. Peterson, P. Walther
Chang’e 6 è rientrata sulla Terra con rocce lunari
La capsula della sonda lunare cinese Chang’e 6, con a bordo i primi campioni al mondo provenienti dal lato nascosto della Luna, è atterrata oggi sulla Terra a Siziwang Banner, nella Mongolia interna. Lo riferiscono i media di Pechino, ricordando che la navicella era approdata sul nostro satellite il 2 giugno scorso. La missione sottolinea la crescente influenza tecnologica cinese nelle missioni aerospaziali.
Chang’e-6 back to earth. Source:t.co/7Psoz3ejKX pic.twitter.com/AghmeEjkLs— CNSA Watcher (@CNSAWatcher) June 25, 2024
La capsula di rientro dovrebbe contenere circa due chili di materiale, raccolto utilizzando una sorta di paletta e un trapano (vedi il video della Cnsa, qui di seguito), ed è uno dei quattro moduli della missione, lanciata il 3 maggio e arrivata nell’orbita lunare il primo giugno. La Chang’e 6 comprende infatti il lander che si posato al suolo nel cratere Apollo, all’interno del bacino South Pole-Aitken. A bordo c’erano la capsula di rientro, appena tornata sulla Terra, e un ascender, ossia il piccolo razzo che ha portato la capsula fino alla sonda rimasta nell’orbita lunare e che poi l’ha portata a Terra.
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La Cina è finora il primo e unico paese ad avere toccato il suolo del lato nascosto della Luna e Chang’e 6 è la seconda missione diretta a questa parte ancora sostanzialmente sconosciuta del satellite naturale della Terra. La prima, nel gennaio 2019, era stata la missione Chang’e 4, che ha portato sulla Luna il rover Yutu 2, ancora attivo. Con le missioni Chang’e 7 e Chang’e 8, previste rispettivamente nel 2026 e nel 2028, la Cina si prepara a raccogliere i dati necessari per costruire un avamposto lunare. La missione e Chang’e 8, in particolare, dovrà sperimentare le tecnologie necessarie per realizzare la base lunare, che la Cina intende costruire vicino al polo sud, ricco di acqua, intorno al 2030.
Fonte: Ansa
Cinque nane brune per la coppia Gaia e Gravity
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Impressione artistica di una nana bruna in orbita vicino a una stella brillante. Crediti: Esa
Avete mai provato a fotografare una lucciola accanto a un lampione acceso? È probabile che l’unica cosa che vedrete nella vostra istantanea sia il bagliore del lampione. È lo stesso problema che devono affrontare gli astronomi quando cercano piccole e deboli stelle oppure pianeti accanto a una stella luminosa.
Per affrontare questa sfida, un team internazionale di astronomi guidato da Thomas Winterhalder, scienziato dell’European Southern Observatory (Eso), ha iniziato a cercare nel catalogo prodotto da Gaia, che elenca centinaia di migliaia di stelle che si sospetta abbiano una compagna. Sebbene gli oggetti compagni non siano abbastanza luminosi da essere visti direttamente da Gaia, la loro presenza provoca piccole oscillazioni nel percorso delle stelle ospiti più luminose, che solo Gaia può misurare.
Nel catalogo delle orbite stellari di Gaia, il team ha identificato otto stelle da sottoporre all’attenzione di Gravity, l’interferometro nel vicino infrarosso del Very Large Telescope dell’Eso, a Cerro Paranal in Cile. Gravity combina la luce infrarossa di diversi telescopi per cogliere dettagli minuscoli in oggetti deboli, con una tecnica chiamata interferometria.
Grazie al sensibile e risoluto occhio di Gravity, il team ha catturato il segnale luminoso di tutte le otto compagne previste, sette delle quali precedentemente sconosciute. Tre delle compagne sono stelle molto piccole e deboli, mentre le altre cinque sono nane brune. Si tratta di oggetti celesti a metà tra i pianeti e le stelle: più massicci dei pianeti più pesanti, ma più leggeri e più deboli delle stelle più leggere. Una delle nane brune individuate in questo studio orbita intorno alla sua stella ospite alla stessa distanza della Terra dal Sole. È la prima volta che una nana bruna così vicina alla sua stella ospite è stata catturata direttamente.
«Abbiamo dimostrato che è possibile catturare un’immagine di una debole compagna, anche quando orbita molto vicino alla sua luminosa ospite», spiega Winterhalder. «Questo risultato evidenzia la notevole sinergia tra Gaia e Gravity. Solo Gaia è in grado di identificare sistemi così stretti che ospitano una stella e una compagna “nascosta”, e poi Gravity può subentrare per fotografare l’oggetto più piccolo e più debole con una precisione senza precedenti».
Le piccole compagne dedotte dalle osservazioni di Gaia si trovano tipicamente a poche decine di millisecondi d’arco dalle stelle attorno alle quali orbitano, che corrisponde circa alla dimensione angolare di una moneta da un euro vista da 100 chilometri di distanza. «Nelle nostre osservazioni, i dati di Gaia agiscono come una sorta di cartello segnaletico», continua Winterhalder. «La parte di cielo che possiamo vedere con Gravity è molto piccola, quindi dobbiamo sapere dove guardare. Le misure di precisione senza precedenti di Gaia dei movimenti e delle posizioni delle stelle sono essenziali per indirizzare il nostro strumento nella giusta direzione del cielo».
La complementarietà di Gaia e Gravity va oltre l’utilizzo dei dati di Gaia per pianificare le osservazioni successive e consentire le rilevazioni. Combinando le due serie di dati, gli scienziati hanno potuto “pesare” separatamente i singoli oggetti celesti e distinguere la massa della stella ospite e della rispettiva compagna.
Gravity ha anche misurato il contrasto tra la compagna e la stella ospite in una gamma di lunghezze d’onda nell’infrarosso. Insieme alle stime della massa, queste conoscenze hanno permesso al team di valutare l’età delle compagne. Sorprendentemente, due delle nane brune si sono rivelate meno luminose di quanto ci si aspetterebbe date le loro dimensioni e la loro età. Una possibile spiegazione potrebbe essere che le nane stesse abbiano una compagna ancora più piccola.
Dopo aver dimostrato la potenza del duo Gaia-Gravity, gli scienziati sono ora ansiosi di individuare i potenziali pianeti compagni delle stelle elencate nel catalogo Gaia. «La capacità di individuare i piccoli moti di coppie vicine nel cielo è un’esclusiva della missione Gaia. Il prossimo catalogo, che sarà reso disponibile nell’ambito della quarta release di dati (Dr4), conterrà una raccolta ancora più ricca di stelle con compagni potenzialmente più piccoli», osserva Johannes Sahlmann dell’Esa. «Questo risultato apre nuove strade nella caccia ai pianeti della nostra galassia e ci fa intravedere nuovi mondi lontani».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Combining Gaia and GRAVITY: Characterising Five New Directly Detected Substellar Companions” di T.O. Winterhalder, S. Lacour, A. Merand, J. Kammerer, A.-L. Maire, T. Stolker, N. Pourre, C. Babusiaux, A. Glindemann, R. Abuter, A. Amorim, R. Asensio-Torres, W.O. Balmer, M. Benisty, J.-P. Berger, H. Beust, S. Blunt, A. Boccaletti, M. Bonnefoy, H. Bonnet, M.S. Bordoni, G. Bourdarot, W. Brandner, F. Cantalloube, P. Caselli, B. Charnay, G. Chauvin, A. Chavez, E. Choquet, V. Christiaens, Y. Clénet, V. Coudé du Foresto, A. Cridland, R. Davies, R. Dembet, J. Dexter, A. Drescher, G. Duvert, A. Eckart, F. Eisenhauer, N.M. Forster Schreiber, P. Garcia, R. Garcia Lopez, T. Gardner, E. Gendron, R. Genzel, S. Gillessen, J.H. Girard, S. Grant, X. Haubois, G. Heißel, Th. Henning, S. Hinkley, S. Hippler, M. Houlle, Z. Hubert, L. Jocou, M. Keppler, P. Kervella, L. Kreidberg, N.T. Kurtovic, A.-M. Lagrange, V. Lapeyrere, J.-B. Le Bouquin, D. Lutz, F. Mang, G.-D. Marleau, P. Molliere, J.D. Monnier, C. Mordasini, D. Mouillet, E. Nasedkin, M. Nowak, T. Ott, G.P.L. Otten, C. Paladini, T. Paumard, K. Perraut, G. Perrin, O. Pfuhl, L. Pueyo, D.C. Ribeiro, E. Rickman, Z. Rustamkulov, J. Shangguan, T. Shimizu, D. Sing, J. Stadler, O. Straub, C. Straubmeier, E. Sturm, L.J. Tacconi, E.F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Vincent, S.D. von Fellenberg, J. Wang, F. Widmann, J. Woillez, S. Yazici, and the GRAVITY Collaboration
Tre potenziali super-Terre attorno a una stella vicina
media.inaf.it/2024/06/24/hd-48…
Individuate tre potenziali super-Terre in orbita attorno a una stella nana arancione relativamente vicina a noi. A firmare la scoperta, pubblicata oggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un team guidato da Shweta Dalal dell’Università di Exeter (Regno Unito).
I tre candidati esopianeti orbitano attorno alla stella Hd 48498, situata a circa 55 anni luce dalla Terra, impiegando rispettivamente 7, 38 e 151 giorni terrestri, e hanno masse minime che vanno da 5 a 11 volte quella della Terra. Degno di particolare interesse è Hd 48948 d, il candidato esopianeta più esterno: risiede infatti nella zona abitabile della sua stella ospite, dove le condizioni potrebbero consentire l’esistenza di acqua allo stato liquido. Il team suggerisce che la vicinanza della stella, unita all’orbita favorevole del pianeta più esterno, rende questo sistema un obiettivo promettente per futuri studi di imaging diretto ad alto contrasto e spettroscopia ad alta risoluzione.
Rappresentazione artistica del sistema planetario Hd 48948, che si trova a una distanza di 55 anni luce dalla Terra. La sonda Voyager 1, con la sua velocità attuale, impiegherebbe quasi un milione di anni per raggiungere Hd 48948. Crediti: Soumita Samanta (www.soumitasamanta.com)
«Fra quelli con una stella simile al Sole, si tratta del sistema planetario a noi più vicino nel quale sia presente una super-Terra nella zona abitabile», dice a Media Inaf uno degli autori dello studio, l’astronomo Luca Malavolta dell’Università di Padova, ricordando che «la scoperta è il risultato di anni di osservazioni al Telescopio nazionale Galileo (Tng) con lo spettrografo Harps-N, uno dei più precisi cacciatori di esopianeti al mondo».
Grazie a Harps-N, nell’arco di un decennio il team ha raccolto quasi 190 misure di velocità radiale di alta precisione. Le misure di velocità radiale, tracciando i minuscoli movimenti della stella causati dai pianeti che le orbitano attorno, sono cruciali per queste scoperte. Analizzando lo spettro della luce della stella, i ricercatori riescono a determinare se si sta muovendo verso di noi (blueshift) o lontano da noi (redshift), risalendo così al numero, al periodo di rivoluzione e alla massa dei pianeti presenti nel sistema. Per garantire l’accuratezza della scoperta, il team ha fatto ricorso a diverse metodologie e analisi di confronto.
Queste tre potenziali super-Terre – vale a dire, pianeti con una massa superiore a quella della Terra ma significativamente inferiore a quella dei giganti di ghiaccio del Sistema solare, Urano e Nettuno – sono state individuate, in particolare, nell’ambito del programma di Harps-N “Rocky Planet Search”. La scoperta apre ora nuove possibilità per la comprensione dei sistemi planetari e per la ricerca della presenza di vita oltre il Sistema solare.
«Questa scoperta evidenzia l’importanza del monitoraggio a lungo termine e delle tecniche avanzate per scoprire i segreti dei sistemi stellari lontani», sottolinea Dalal. «Siamo ansiosi di continuare le nostre osservazioni e di cercare altri pianeti nel sistema». E aver individuato «una super-Terra nella zona abitabile attorno a una stella arancione», conclude la ricercatrice, «è un entusiasmante passo avanti nella nostra ricerca di pianeti abitabili attorno a stelle di tipo solare».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Trio of super-Earth candidates orbiting K-dwarf HD 48948: a new habitable zone candidate”, di S Dalal, F Rescigno, M Cretignier, A Anna John, F Z Majidi, L Malavolta, A Mortier, M Pinamonti, L A Buchhave, R D Haywood, A Sozzetti, X Dumusque, F Lienhard, K Rice, A Vanderburg, B Lakeland, A S Bonomo, A Collier Cameron, M Damasso, L Affer, W Boschin, B Cooke, R Cosentino, L Di Fabrizio, A Ghedina, A Harutyunyan, D W Latham, M López-Morales, C Lovis, A F Martínez Fiorenzano, M Mayor, B Nicholson, F Pepe, M Stalport, S Udry, C A Watson e T G Wilson
Jwst osserva antichissimi ammassi stellari
Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari. Crediti:
Esa/Webb, Nasa & Csa, L. Bradley (Stsci), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration
È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (Jwst) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.
Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.
«Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale», commenta Adamo, prima autrice del lavoro. «La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce».
Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da Jwst nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’universo.
«Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito», ricorda Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna e terzo autore dell’articolo. «Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di Jwst: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari».
La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.
«Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio Jwst e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti», aggiunge Vanzella. «L’universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto».
Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con Jwst, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude: «Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems arc con due strumenti, NirSpec e Miri: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch, Jose M. Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura
Doppio passaggio in coincidenza con l’Asteroid Day
media.inaf.it/2024/06/23/2011-…
Per tutti gli appassionati di asteroidi near-Earth, giugno è un mese speciale perché, a partire dal 2015, ogni 30 giugno si celebra l’Asteroid Day ossia la giornata mondiale degli asteroidi, volta a sensibilizzare i cittadini sul rischio impatti con i corpi minori del Sistema Solare. Infatti, come ben sanno i lettori, il 30 giugno 1908 nella regione di Tunguska in Siberia, cadde un piccolo asteroide di 50-80 metri di diametro che devastò 2150 kmq di taiga siberiana, senza formazione di un cratere da impatto e al suolo non è mai stata ritrovata nessuna meteorite.
Quest’anno, il mese di giugno 2024 si chiude con un doppio passaggio ravvicinato che la Terra avrà con gli asteroidi (415029) 2011 UL21 e 2024 MK che, in un certo senso, “celebreranno” l’Asteroid Day. Questi asteroidi sono entrambi dei Pha (Potentially Hazardous Asteroid), il che non vuol dire che siamo spacciati, ma semplicemente che sono corpi con dimensioni maggiori di 140 metri e possono arrivare a meno di 7,5 milioni di km dall’orbita terrestre. Chiarito che per la Terra in questo caso non ci sono rischi, vediamo che cosa conosciamo di questi due asteroidi, quando verrà raggiunta la minima distanza e quando saranno osservabili dall’Italia.
Iniziamo da 2011 UL21, scoperto il 17 ottobre 2011 dalla Catalina Sky Survey. Questo asteroide si muove su un’orbita di tipo Apollo avente un semiasse maggiore di circa 2,1 unità astronomiche, un’eccentricità di 0,65 e con un’inclinazione di quasi 35° sul piano dell’eclittica. Questa notevole inclinazione, indice di una storia orbitale travagliata, all’afelio porta 2011 UL21 a innalzarsi di ben 300 milioni di km sul piano dell’eclittica, mentre al perielio – che cade grossomodo all’altezza dell’orbita di Venere – scende al di sotto di circa 60 milioni di km. Dal punto di vista fisico di 2011 UL21 non conosciamo molto: abbiamo la stima del diametro, circa 2,5 km, e una misura approssimata del periodo di rotazione, circa 2,7 h. Questo valore è vicino alle 2,5 h della spin barrier, al di sotto del quale un asteroide inizia a perdere materia nello spazio, quindi non è da escludere che 2011 UL21 possa essere un sistema binario simile a Dinkinesh.
La scoperta di 2024 MK è invece molto più recente, infatti è avvenuta solo il 16 giugno 2024 grazie alla rete di telescopi Atlas, un sistema di alert per l’impatto di asteroidi, sviluppato dall’Università delle Hawaii e finanziato dalla Nasa, composto da quattro telescopi (due nelle Hawaii, uno in Cile e uno in Sud Africa), che scansionano automaticamente il cielo più volte ogni notte alla ricerca di oggetti in movimento. L’annuncio dell’esistenza di 2024 MK è stata fatto il 19 giugno 2024 nella Minor Planet Electronic Circular 2024-M31. Anche in questo caso siamo in presenza di un oggetto che si muove su un’orbita di tipo Apollo, abbastanza simile a quella di 2011 UL21, ma con l’inclinazione sull’eclittica di soli 8°. A parte una stima delle dimensioni, basata sulla luminosità che lo colloca nel range 150-200 m, di 2024 MK non conosciamo nulla, nemmeno il periodo di rotazione.
L’asteroide 2024 MK identificato dal cerchietto rosso ripreso il 19 giugno 2024 dal telescopio “Ferrante” (IAU M21) operante presso la Hakos Farm in Namibia. Il sud è in alto, l’est a sinistra. Crediti: Luca Buzzi e Gianni Galli
Giovedì 27 giugno 2024 alle 20:16 Utc, 2011 UL21 si troverà alla minima distanza dalla Terra di 6,6 milioni di km. Si tratta della minima distanza più piccola mai raggiunta dopo la sua scoperta. Per vederlo a una distanza minore bisognerà aspettare il 25 giugno del 2089, quando 2011 UL21 si troverà a soli 2,7 milioni di km dal nostro pianeta. La minima distanza di 2024 MK invece sarà raggiunta il 29 giugno 2024, alle 13:41 Utc, quando si troverà a 295mila km dalla Terra, ossia al di sotto del raggio dell’orbita lunare. Quindi in un paio di giorni avremo un asteroide di grosse dimensioni che passerà a milioni di km di distanza, mentre un altro molto più piccolo del primo che invece si troverà molto più vicino a noi. Il risultato sarà che entrambi gli asteroidi diventeranno molto luminosi rispetto al classico Nea, pur restando sempre invisibili a occhio nudo: un’occasione da non lasciarsi scappare!
Purtroppo però, dato che arriveranno entrambi da sotto il piano dell’eclittica, nella fase di avvicinamento alla Terra, questi asteroidi non saranno osservabili dall’emisfero settentrionale e quindi dall’Italia. Nel caso di 2011 UL21 dalle nostre latitudini si potrà iniziare a osservarlo senza difficoltà a partire dal 28 giugno in prima serata basso sull’orizzonte ovest nella costellazione della Vergine, circa 24 ore dopo avere raggiunto la minima distanza dalla Terra. La sera del 28 giugno 2011 UL21 raggiungerà la massima luminosità con una magnitudine apparente di +11, quindi bello luminoso, ma del tutto invisibile a occhio nudo. Per quanto riguarda invece 2024 MK si potrà osservare a partire dalla notte fra il 29 e il 30 giugno, poche ore dopo avere raggiunto la minima distanza e aver toccato anche la massima luminosità con una magnitudine di +8,5. Dall’Italia, a inizio serata, questo asteroide brillerà ancora di magnitudine +10,6 nella costellazione di Pegaso in movimento verso la costellazione di Andromeda. All’alba del 30 giugno 2024 MK sarà diventato decisamente più debole, arrivando alla magnitudine +12, per via del sensibile allontanamento da noi. Data la distanza ridotta a cui si troverà dalla Terra, il moto angolare in cielo di 2024 MK nella notte fra il 29 e il 30 giugno passerà da 260 arcsec/minuto a 116 arcsec/minuto il che significa che, anche usando un piccolo telescopio da 15-20 cm di diametro, potrà essere visto muoversi in tempo reale nel campo dell’oculare.
Come abbiamo già accennato, pur essendo invisibili a occhio nudo, entrambi questi asteroidi potranno essere osservati visualmente all’oculare di piccoli telescopi e ripresi anche con piccoli teleobiettivi da 135-200 mm di focale con tempi di posa di 20-30 s a patto di usare una reflex abbinata a un semplice astro-inseguitore. In ogni caso appariranno come piccoli puntini luminosi, ma non sarà difficile riprendere la traccia di questi asteroidi mentre si spostano in cielo, specie nel caso di 2024 MK, che è quello con la velocità angolare più elevata. Per puntare l’esatta zona di cielo in cui si troveranno i due asteroidi al momento della ripresa, si può utilizzare il servizio effemeridi del Minor Planet Center. Per chiudere, giova osservare che per entrambi questi asteroidi non è nota la classificazione tassonomica, quindi questo doppio passaggio ravvicinato sarà un’ottima occasione per gli astronomi che si occupano di corpi minori per caratterizzarli dal punto di vista fotometrico.
Meno di 24 ore al decollo del satellite Svom
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Illustrazione della missione franco-cinese Svom, dedicata allo studio dei gamma-ray burst. Crediti: Cnes/ ill. Sattler Oliver
Domani, 22 giugno 2024, alle ore 7:00 Utc (le 9:00 a Roma, le 15:00 a Xichang) un razzo cinese Long March 2C lancerà in orbita il satellite Svom (acronimo di Space-based multi-band astronomical Variable Objects Monitor), una missione franco-cinese dedicata allo studio dei gamma-ray burst.
Dopo eRosita, esempio di cooperazione tra Germania e Russia (poi interrotta dalla guerra con l’Ucraina) per studiare il cielo X, la missione Svom è il risultato di una collaborazione tra due agenzie spaziali nazionali, la China National Space Administration (Cnsa) e il Centre national d’études spatiales (Cnes), con il contributo dello Institute of Research into the Fundamental Laws of the Universe (Irfu) e il Research Institute of Astrophysics and Planetology (Irap) per la Francia e del National Astronomical Observatory (Nao) e Beijing High Energy Institute (Ihep) per la Cina.
La missione è composta da quattro strumenti, di cui due francesi (Eclairs e Mxt) e due cinesi (Grm e Vt). L’obiettivo di Eclairs è rilevare e localizzare i lampi gamma nella banda dei raggi X e raggi gamma a bassa energia (da 4 a 250 keV); quello di Mxt è l’osservazione dei lampi gamma nella banda dei raggi X morbidi (da 0,2 a 10 keV). Grm misurerà lo spettro dei burst ad alta energia (da 15 keV a 5000 keV), mentre il telescopio Vt osserverà l’emissione visibile prodotta immediatamente dopo un lampo gamma.
Tic tac tic tac … ⏲️Svom se prépare au lancement. Décollage prévu le 22 juin 2024 à 7h UTC (9h à Paris) depuis la base de Xichang (Sichuan, UTC+8)
t.co/xxZHEmAUBR pic.twitter.com/qcLVku4NWy
— SVOM (@SVOM_mission) June 11, 2024
Il satellite, dal peso di circa 930 chilogrammi per un carico utile di 450 chilogrammi, sarà collocato in un’orbita terrestre bassa con un’inclinazione di 30 gradi, a un’altitudine di 625 chilometri e un periodo orbitale di 96 minuti.
Non appena Svom rileverà un’esplosione di raggi gamma, allerterà un team di scienziati attivo 24 ore al giorno. In meno di cinque minuti, una rete di telescopi a terra volgerà lo sguardo verso l’esplosione, nella speranza di saperne di più su questo affascinante quanto violento fenomeno cosmico.
Arrampicandosi sulle cime dello spaziotempo
In primo piano, rappresentazione della curvatura dello spaziotempo in corrispondenza di grandi masse. Crediti: Esa/C. Carreau
Complici gli exhibit di tanti festival scientifici, siamo ormai abituati a immaginare lo spaziotempo come un telo elastico punteggiato qua e là da avvallamenti, depressioni e pozzi, laddove un buco nero o qualche altro oggetto massiccio – interpretato di solito da una pesante biglia – lo affossa. Ma potrebbero esserci anche innalzamenti, nel tessuto dello spaziotempo? Picchi, rilievi e montagne? Forse sì, o almeno questa è l’opinione di chi ritiene che la gravità – un effetto, o meglio, una manifestazione, secondo la relatività generale, della curvatura dello spaziotempo – abbia anche una controparte repulsiva, una sorta di antigravità.
Chi la eserciterebbe, questa repulsione? Cosa sarebbe in grado di “sollevarlo”, lo spaziotempo, invece d’affossarlo? Secondo alcuni fisici teorici, ad avere questa controintuitiva proprietà sarebbe qualcosa di ben noto e – per quanto non in abbondanza – presente ovunque attorno a noi: l’antimateria. E come funzionerebbe? Per rimanere nell’analogia del telo elastico, immaginiamo di poter guardare “da sotto” per vedere come apparirebbe l’altro lato del telo: in corrispondenza degli affossamenti vedremmo innalzamenti. E viceversa: laddove nello spaziotempo invertito un “anti buco nero” crea una profonda depressione, ecco che sul nostro versante d’universo ci ritroveremmo un picco. Vale a dire, una regione di spaziotempo che respinge tutto ciò che le si avvicina.
Va detto che si tratta di ipotesi confinate nel regno della matematica (almeno per ora), ma se le cose stessero effettivamente così materia e antimateria potrebbero non subire una reciproca attrazione gravitazionale, anzi: si respingerebbero. Con alcuni gradevoli corollari. Per esempio, potremmo forse fare a meno dell’energia oscura, perché magari basterebbe questa repulsione a spiegare l’espansione dell’universo. E non avremmo più l’imbarazzante problema di dover giustificare la scomparsa dell’antimateria dopo il big bang, visto che si potrebbe ancora trovare in qualche regione del cosmo.
Meraviglioso, no? C’è però almeno un problema: i dati sperimentali. Gli esperimenti condotti l’anno scorso al Cern dalla collaborazione Alpha, osservando il comportamento di atomi di anti-idrogeno in caduta libera, hanno dimostrato che materia e antimateria si attraggono, come previsto dal principio di equivalenza, e che l’antimateria è soggetta alla stessa accelerazione gravitazionale – o quasi – della materia ordinaria.
Rappresentazione schematica delle due soluzioni proposte da Villata al conflitto tra la gravità CPT e i risultati dell’esperimento Alpha-g. Nel primo caso (a sinistra), la gravità repulsiva su larga scala sarebbe data dall’interazione con la materia PT-trasformata (e non con l’antimateria) in un universo dominato dalla materia. Nel secondo caso (a destra), l’intera CPT si conserva, dando luogo a una gravità repulsiva materia-antimateria. Ma la minuscola quantità di antimateria immersa nel nostro spazio-tempo non può essere PT-trasformata. Crediti: M. Villata, Annalen der Physik, 2024
Ma c’è chi non si dà per vinto: Massimo Villata, ricercatore associato all’Inaf di Torino da tempo impegnato nelle ricerche sulla gravità repulsiva, ha pubblicato lo scorso aprile su Annalen der Physik – la stessa rivista sulla quale uscirono nel 1905 i quattro articoli storici di Einstein, e nel 1916 quello celebre sulla relatività generale – uno studio, disponibile in open access, nel quale propone due soluzioni (vedi schema a fianco) per salvare l’ipotesi della gravità repulsiva nonostante i risultati ottenuti al Cern.
Com’è possibile? I fisici della collaborazione Alpha avrebbero forse commesso qualche errore? «No, non credo che ci siano errori sperimentali», dice Villata a Media Inaf, «e quindi qui sulla Terra abbiamo attrazione tra una materia dominante e le minuscole briciole di antimateria che riusciamo a produrre. Posso sinceramente dire che me lo aspettavo, perché quell’esigua quantità di antimateria non può invertire il proprio spaziotempo, immersa com’è nel flusso temporale della pervasiva materia che la circonda. Sarebbe come gettare controcorrente una fogliolina in un fiume impetuoso e pretendere che possa risalire la corrente. Ma quel valore che trovano di 0.75 g (invece di 1 g), sebbene abbia una grande incertezza, potrebbe essere un indizio del tentativo della foglia di opporsi al fluire del fiume».
Se qui sulla Terra non possiamo apprezzarne gli effetti, dove bisognerebbe dunque andare, per misurare sperimentalmente l’antigravità? In quale luogo dell’universo si nasconderebbe, tutta questa antimateria respingente? La risposta che s’incontra nell’articolo di Villata è quasi ovvia: se cerchiamo qualcosa che respinge la materia, conviene andare a vedere anzitutto là dove la materia non c’è, o quanto meno scarseggia. Luoghi del genere nell’universo esistono: si chiamano vuoti cosmici. «Sono regioni ben note ad astronomi e cosmologi, immense “bolle” nell’universo dove la materia è quasi assente», spiega Villata. «E manifestano un notevole effetto repulsivo sulle galassie che le circondano. Sarebbero “isole” di spaziotempo invertito, alternate nel cosmo alle isole di materia occupate dagli ammassi di galassie».
Poiché dei vuoti cosmici, per lo meno di quelli più grandi dell’universo visibile, non solo sappiamo che esistono ma ne conosciamo anche la posizione in cielo, viene a questo punto naturale chiedersi perché non siamo mai riusciti a osservarla, tutta questa antimateria teoricamente in essi presente. «Non la vediamo», suggerisce Villata, «proprio perché emetterebbe radiazione cosiddetta “anticipata” (cioè l’altra soluzione delle equazioni di Maxwell nel vuoto, rispetto a quella della radiazione che ben conosciamo), per la quale non abbiamo (ancora) strumenti capaci di rivelarla. Basti pensare che i fotoni emessi dall’antimateria verrebbero nel nostro spaziotempo “percepiti” come fotoni emessi dal rivelatore per raggiungere l’anti-stella che li ha prodotti, cioè con un cammino spaziotemporale invertito. Quindi, là dove vediamo il buio nell’universo non sappiamo per ora dire se c’è il vuoto oppure antimateria».
Per saperne di più:
- Leggi su Annalen der Physik l’articolo “Antimatter Gravity and the Results of the ALPHA-g Experiment”, di Massimo Villata
Buchi neri che accrescono come giovani stelle
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Un vento a spirale aiuta il buco nero supermassiccio della galassia ESO320-G030 a crescere, aiutato dai campi magnetici. In questa illustrazione, il nucleo della galassia è dominato da un vento rotante di gas denso che si dirige verso l’esterno dal buco nero supermassiccio (nascosto) al centro della galassia. I movimenti del gas, tracciati dalla luce delle molecole di cianuro di idrogeno, sono stati misurati con il telescopio Alma. Crediti: M. D. Gorski/Aaron M. Geller, Northwestern University, Ciera
Nel centro della maggior parte delle galassie, compresa la nostra, dimora un buco nero supermassiccio. Come facciano questi oggetti a crescere fino a “pesare” l’equivalente di milioni o miliardi di stelle è ancora un mistero. Per cercare di capirlo, un team di scienziati guidato da Mark Gorski della Northwestern University e Susanne Aalto della Chalmers ha scelto di studiare la galassia Eso320-G030, distante solo 120 milioni di anni luce. È una galassia molto attiva, che forma stelle a una velocità dieci volte superiore alla nostra.
«Poiché questa galassia è molto luminosa nell’infrarosso, i telescopi possono risolvere dettagli sorprendenti nel suo centro. Volevamo misurare la luce delle molecole trasportate dai venti provenienti dal nucleo della galassia, sperando di tracciare il modo in cui i venti vengono accelerati da un buco nero supermassiccio che si sta accrescendo, o che è in procinto di farlo. Utilizzando Alma, siamo riusciti a studiare la luce proveniente da strati spessi di polvere e gas», spiega Susanne Aalto, docente di radioastronomia alla Chalmers.
Per focalizzarsi sul gas denso, il più possibile vicino al buco nero centrale, gli scienziati hanno studiato la luce emessa dalle molecole di cianuro di idrogeno (HCN). Grazie alla risoluzione angolare di Alma, ossia alla sua capacità di distinguere dettagli fini, e di tracciare i movimenti del gas (utilizzando l’effetto Doppler) hanno scoperto pattern che suggeriscono la presenza di un vento magnetizzato e rotante.
Mentre altri venti e getti al centro delle galassie spingono il materiale lontano dal buco nero supermassiccio, il vento rilevato qui suggerisce un ulteriore processo che, al contrario dei precedenti, potrebbe alimentare il buco nero e contribuire a farlo crescere. Prima di cadere nel buco nero, la materia gli ruota attorno come l’acqua intorno a uno scarico. Quella che si avvicina si raccoglie in un disco rotante, dove si sviluppano e si rafforzano i campi magnetici che aiutano a spostare materia dalla galassia, creando il vento a spirale. La perdita di materia in questo vento rallenta la rotazione del disco e questo facilita il fluire della materia verso il buco nero.
Per Gorski, il modo in cui ciò avviene ricorda in modo impressionante un ambiente su scala molto più piccola nello spazio: i vortici di gas e polvere che portano alla nascita di nuove stelle e pianeti. «È assodato che le stelle nelle prime fasi della loro evoluzione crescono con l’aiuto di venti rotanti, accelerati da campi magnetici, proprio come il vento di questa galassia. Le nostre osservazioni mostrano che i buchi neri supermassicci e le piccole stelle possono crescere con processi simili, ma su scale molto diverse», afferma Gorski.
Potrebbe questa scoperta costituire un indizio per risolvere il mistero della crescita dei buchi neri supermassicci? Per rispondere, occorre studiare altre galassie che potrebbero ospitare deflussi a spirale nascosti nei loro centri. «Nelle nostre osservazioni vediamo una chiara evidenza di un vento rotante che aiuta a regolare la crescita del buco nero centrale della galassia», conclude Gorski. «Ora che sappiamo cosa cercare, il passo successivo è scoprire quanto sia comune questo fenomeno. E se questa è una fase attraverso la quale passano tutte le galassie con buchi neri supermassicci, cosa accadrà loro in seguito?».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “A spectacular galactic scale magnetohydrodynamic powered wind in ESO 320-G030” di Mark Gorski, Susanne Aalto, Sabine König, Clare F. Wethers, Chentao Yang, Sebastien Muller, Kyoko Onishi, Mamiko Sato, Niklas Falstad, J. G. Mangum, S. T. Linden, F. Combes, S. Martín, M. Imanishi, K. Wada, L. Barcos-Muñoz, F. Stanley, S. García-Burillo, P. P. van der Werf, A. S. Evans, C. Henkel, S. Viti, N. Harada, T. Díaz-Santos, J. S. Gallagher e E. González-Alfonso