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Per la missione Life un banco di prova di nome Terra


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La caratterizzazione dell’atmosfera degli esopianeti situati nella zona abitabile delle loro stelle madri è uno sforzo chiave nel campo delle scienze esoplanetarie. Studiare la composizione, la struttura e la dinamica dell’involucro gassoso che avvolge questi mondi fornisce infatti preziose informazioni sulla loro abitabilità. Inoltre, è essenziale per individuare la presenza di eventuali bioforme – cioè le tracce lasciate da una qualche forma di attività biologica – e dunque per identificare la vita al di fuori del Sistema solare.

Una delle tecniche che utilizzano gli astronomi per analizzare la composizione chimica dell’atmosfera di un esopianeta è la spettroscopia nel medio infrarosso, consistente nel rivelare la radiazione termica emessa dalle molecole. Ciò che si ottiene da questo tipo di indagini sono i cosiddetti spettri di emissione termica: una sorta di codice a barre contenente le impronte digitali di tutte le specie chimiche presenti. Life, acronimo di Large Interferometer For Exoplanets, è un concetto di missione a guida europea il cui obiettivo primario è proprio questo: ottenere gli spettri di emissione termica di mondi simili alla Terra in orbita ad altre stelle, al fine di caratterizzare le loro atmosfere, valutarne l’abitabilità e identificare eventuali biofirme.

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Illustrazione artistica che mostra la configurazione nello spazio dei satelliti della missione Life. Crediti: Eth Zurich / Life

Per riuscire nell’intento, il team della missione, comprendente tra gli altri Laura Silva dell’Inaf di Torino e Stavro Ivanovski dell’ Inaf di Trieste, prevede di posizionare nello spazio quattro satelliti, chiamati satelliti collettori, che rifletteranno la luce verso un veicolo spaziale cosiddetto combinatore. La disposizione spaziale di questi manufatti tecnologici sarà la seguente: i quattro satelliti saranno disposti a raggiera, mentre il veicolo combinatore sarà al centro. In questa configurazione, i cinque satelliti si comporteranno come un unico grande telescopio, che sarà in grado captare la radiazione termica nel medio infrarosso emessa da un esopianeta sfruttando la cosiddetta Mir nulling interferometry. Si tratta di una metodologia abbastanza nuova, che permette di eliminare dalla luce raccolta dai telescopi quella di origine stellare, lasciando la sola luce proveniente dal pianeta sotto osservazione, che è quella che interessa ai fini delle analisi.

Come tutte le missioni in fase embrionale, la missione Life deve affrontare però sfide non indifferenti. Tra queste sfide ci sono la validazione del metodo di caratterizzazione e la corretta interpretazione degli spettri Mir ottenuti. Detto in altri termini, prima che la missione veda la luce, occorre che sia valutato il suo potenziale scientifico. Lo ha fatto di recente un team di ricercatori guidato da Jean-Noël Mettler, ricercatore all’Eth di Zurigo, optando per una soluzione molto efficace: hanno utilizzato la Terra come modello di pianeta extrasolare.

Le domande alle quali volevano rispondere i ricercatori erano queste: se la missione Life osservasse la Terra, riuscirebbe a rivelare tracce di vita? Se sì, che tipo di spettri di emissione termica acquisirebbe? E ancora: se questi spettri venissero poi analizzati per recuperare informazioni sull’atmosfera e sulle condizioni della superficie planetaria, in che modo i risultati dipenderebbero dalle variazioni stagionali e dalla particolare vista del pianeta che catturerebbero i telescopi?

Per rispondere a questi quesiti, l’approccio utilizzato dai ricercatori è stato il seguente. Utilizzando i dati climatici della Terra ottenuti dallo strumento Airs (Atmospheric Infrared Sounder) a bordo del satellite Aqua Earth della Nasa, hanno generato spettri di emissione termica nella gamma del medio infrarosso simili a quelli che potrebbero essere registrati dalla missione nelle future osservazioni degli esopianeti. Hanno quindi dato in pasto questi dati a Lifesim, un software appositamente sviluppato per simulare le osservazioni di sistemi esoplanetari da parte della missione Life. Infine, hanno esaminato quanto bene possa essere caratterizzata la Terra in termini di abitabilità. In tutte le simulazioni con dati reali, i ricercatori hanno impostato quattro specifiche geometrie per l’osservazione della Terra – due viste dai poli e due viste equatoriali – per valutare la dipendenza delle osservazioni dal tipo di vista. Inoltre, per tenere conto dei cambiamenti stagionali, hanno utilizzato i dati raccolti nei mesi di gennaio e luglio.

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Le quattro geometrie di osservazione della Terra considerate nello studio. Crediti: J. N. Mettler, B. Konrad, S.P. Quanz e R. Helled

I risultati dello studio, pubblicato su The Astrophysical Journal, sono incoraggianti: se la missione Life osservasse il nostro pianeta da una distanza di circa 30 anni luce, troverebbe segni di un mondo temperato e abitabile, spiegano i ricercatori. Negli spettri Mir, il team è riuscito infatti a rilevare l’anidride carbonica e il metano, ma anche l’acqua e l’ozono, molecole considerate biofirme atmosferiche. I risultati mostrano inoltre che la geometria dell’osservazione, cioè la vista del pianeta che catturano i telescopi, non influenza né la rilevabilità delle molecole né la loro abbondanza relativa. Lo stesso vale per le variazioni stagionali.

I risultati, concludono i ricercatori, suggeriscono che Life potrebbe identificare correttamente la Terra come un pianeta in cui la vita potrebbe prosperare, con livelli rilevabili di bioindicatori, un clima temperato e condizioni superficiali che consentono la presenza di acqua liquida. Anche se la stagionalità atmosferica non è facilmente osservabile, lo studio dimostra inoltre che le missioni spaziali di prossima generazione potranno stabilire se i vicini esopianeti terrestri sono abitabili o addirittura abitati.

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Non è un sistema per pianeti giganti


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Sullo sfondo, una porzione della nebulosa di Orione osservata da Jwst. Nel riquadro, il sistema protoplanetario d203-506. Crediti: Nasa/Esa/Csa/S. Fuenmayor/Pdrs4all. Zoom: I. Schroetter/O. Berné/Pdrs4all

Le stelle massicce emettono potenti “venti” di radiazione ultravioletta verso le regioni circostanti e, se si trovano in un ammasso stellare, come spesso accade, l’effetto sulla formazione di stelle e pianeti nelle vicinanze non è trascurabile. A seconda della massa della stella intorno a cui si sta formando un sistema planetario, infatti, questa radiazione può aiutare i pianeti a formarsi, nel caso di stelle più massicce, ma può anche impedirne del tutto la nascita, nel caso di stelle di piccola massa, in quanto la radiazione fa letteralmente evaporare la materia da cui si stanno formando i pianeti.

È del secondo caso che tratta lo studio apparso oggi su Science, guidato da Olivier Berné, ricercatore presso l’Institut de Recherche en Astrophysique et Planétologie, Université de Toulouse, il Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs) e il Centre National d’Etudes Spatiales di Tolosa, in Francia. Osservando con il telescopio spaziale James Webb (Jwst) il disco protoplanetario chiamato d203-506, nella nebulosa di Orione, Berné e collaboratori hanno misurato in modo molto preciso la temperatura e la densità del gas nel disco nella banda infrarossa usando gli strumenti NirCam e NirSpec. Dai nuovi dati, hanno scoperto che i venti provenienti dalle stelle massicce del vicino ammasso del Trapezio stanno spazzando via la materia del disco in maniera estremamente rapida.

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La stessa porzione della nebulosa di Orione, osservata con il telescopio spaziale Hubble e, nel riquadro, il disco protoplanetario d203-506 nei dati di Jwst. Nasa/Stsci/Rice Univ./C.O’Dell et al / O. Berné, I. Schrotter, Pdrs4all

Queste stelle, che sono circa dieci volte più massicce ma soprattutto centomila volte più luminose del Sole, riversano un intenso flusso di radiazione ultravioletta sui vicini sistemi planetari in formazione, così intenso da dissipare la materia di un disco protoplanetario come questo, che ruota attorno a una stella di piccola massa, in meno di un milione di anni. Con il risultato che, in un sistema planetario simile, non sarebbe possibile la formazione di pianeti giganti simili a Giove.

Lo studio guidato da Berné sottolinea il ruolo chiave delle stelle massicce nel forgiare i sistemi planetari nei loro paraggi, aprendo nuovi orizzonti nella comprensione dei fenomeni che portano alla nascita dei sistemi planetari nell’Universo. Come mai invece si è formato un pianeta come Giove nel Sistema solare? «Una possibile risposta è nel fatto che la stella al centro del disco protoplanetario che abbiamo studiato in Orione», spiega Berné a Media Inaf, «ha una massa molto inferiore rispetto a quella del Sole e non è in grado di trattenere la materia così come il Sole potrebbe fare. Ma è anche possibile che quando il Sistema solare si è formato, le stelle massicce fossero più lontane di quello che vediamo in Orione».

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Nell’occhio di Webb, le minuscole stelle del Tucano


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Emanuele Dondoglio e Anna Fabiola Marino, entrambi dell’Inaf, indicano due nane brune all’interno del campo di vista osservato da Jwst. Crediti: Antonino Milone/Univ. Padova

Gli ammassi globulari sono tra gli oggetti più affascinanti del cielo notturno e sono utilizzati dagli astronomi come laboratori per gli studi sull’evoluzione stellare. Nonostante la maggior parte delle stelle che li costituiscono siano deboli, i limiti imposti dalla strumentazione disponibile hanno a lungo confinato l’osservazione di questi oggetti a una porzione di massa relativamente piccola. Quindi, quello che sappiamo di questi antichi aggregati stellari costituisce de facto solo la punta dell’iceberg.

Come questi oggetti si siano formati agli albori dell’universo, quanto massicci fossero in origine, come abbiano formato popolazioni stellari diverse in composizione chimica, quali siano le proprietà delle stelle di massa più piccola e delle stelle “mancate” – cioè le nane brune – che non hanno acceso le reazioni nucleari, costituiscono tutte questioni irrisolte. Con l’avvento del James Webb Space Telescope (Jwst), lanciato con successo alla fine del 2021, le stelle meno luminose mai osservate in un ammasso globulare sono state finalmente rilevate dalle spettacolari immagini ottenute per 47 Tucanae. I risultati sono riportati in uno studio a guida Inaf in uscita su The Astrophysical Journal.

«Queste immagini incredibilmente profonde», dice Antonino Milone dell’Università di Padova, fra i coautori dello studio, «hanno rivelato le proprietà delle stelle di piccolissima massa, mostrando per la prima volta la sequenza delle nane brune: una scoperta di inestimabile valore per i modelli di evoluzione stellare e per l’analisi delle proprietà che marcano il “confine” tra le stelle e le nane brune».

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Nel pannello a sinistra, immagine di una porzione del campo di vista osservato dal Jwst. I pannelli a destra mostrano immagini monocromatiche nel vicino e lontano infrarosso per la regione indicata dal riquadro in giallo nel pannello di sinistra. I cerchi blu e rosso indicano due nane brune. Crediti: A. F. Marino et al. ApJ, 2024

In parallelo, grazie allo strumento NirSpec a bordo del Jwst, è stato possibile osservare le stelle più deboli per le quali sono disponibili dati spettroscopici in ammassi globulari. «Poiché gli spettri di stelle poco massive così fredde sono dominati da molecole di vapore acqueo, questi dati ci consentono di osservare acqua in stelle. Queste molecole sono ottimi indicatori del contenuto di ossigeno, rivelando che la variazione di abbondanza di questo elemento in stelle di piccola massa è simile a quella osservata in stelle di massa maggiore», spiega la prima autrice dello studio, Anna Fabiola Marino dell’Istituto nazionale di astrofisica.

«Questa scoperta è fondamentale per comprendere come si sono formati gli ammassi globulari nelle prime fasi di vita dell’universo. Il fatto che le stelle di massa più piccola mostrano le stesse variazioni chimiche delle stelle di massa maggiore suggerisce che le stelle con chimica peculiare osservate negli ammassi costituiscano una seconda generazione stellare», conclude Emanuele Dondoglio, giovane ricercatore postdoc dell’Istituto nazionale di astrofisica. «Questo implicherebbe una massa significativamente maggiore di quella che osserviamo oggi per questi fossili stellari, che potrebbero essere stati i mattoni che hanno costruito la Via Lattea».

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Quel legame tra l’acqua e la formazione dei pianeti


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Vicino al centro del disco, dove si trova la giovane stella HL Tauri,, l’ambiente è più caldo e il gas più luminoso. Gli anelli di colore rosso derivano da osservazioni precedenti di Alma e mostrano la distribuzione della polvere intorno alla stella. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/S. Facchini et al.

Alcuni ricercatori hanno trovato vapore acqueo nel disco che circonda una giovane stella, esattamente dove potrebbero formarsi i pianeti. L’acqua è un ingrediente chiave per la vita sulla Terra e si ritiene che svolga un ruolo significativo anche nella formazione del pianeta. Eppure, finora non eravamo mai stati in grado di mappare la distribuzione dell’acqua in un disco stabile e freddo, il tipo di disco che offre le condizioni più favorevoli alla formazione di pianeti intorno alle stelle. Le nuove scoperte sono state possibili grazie ad Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso (Osservatorio europeo australe) è partner.

«Non avrei mai immaginato che avremmo potuto catturare l’immagine di oceani di vapore acqueo nella stessa regione in cui è probabile che si stia formando un pianeta», dice Stefano Facchini, astronomo dell’Università Statale di Milano, che ha guidato lo studio pubblicato oggi su Nature Astronomy. Le osservazioni rivelano una quantità di acqua pari ad almeno tre volte quella contenuta in tutti gli oceani della Terra nel disco interno della giovane stella HL Tauri, simile al Sole, situata a 450 anni luce dalla Terra nella costellazione del Toro.

«È davvero straordinario che possiamo non solo rilevare, ma anche catturare immagini dettagliate e risolvere spazialmente il vapore acqueo a una distanza di 450 anni luce da noi», aggiunge il coautore Leonardo Testi, astronomo dell’Università di Bologna. Le osservazioni “risolte spazialmente” con Alma consentono agli astronomi di determinare la distribuzione dell’acqua in diverse regioni del disco. «Partecipare a una scoperta così importante nell’iconico disco di HL Tauri va oltre a ciò che mi sarei mai aspettato per la mia prima esperienza di ricerca in astronomia», dice Mathieu Vander Donckt dell’Università di Liegi, in Belgio, che era studente di un master quando ha partecipato alla ricerca.

Una quantità significativa di acqua è stata trovata nella regione in cui esiste una lacuna nota nel disco di HL Tauri. Spazi a forma di anello vengono scavati nei dischi ricchi di gas e polvere da corpi celesti giovani, simili a pianet, in orbita intorno alla stella che crescono raccogliendo materiale. «Le nostre immagini recenti rivelano una notevole quantità di vapore acqueo a distanze sempre maggiori dalla stella che includono uno spazio vuoto in cui potrebbe potenzialmente trovarsi un pianeta in questo momento in formazione», spiega Facchini. Ciò suggerisce che questo vapore acqueo potrebbe influenzare la composizione chimica dei pianeti che si formano in quelle regioni.

Osservare l’acqua con un telescopio da terra non è un’impresa da poco, poiché l’abbondante vapore acqueo nell’atmosfera terrestre degrada i segnali astronomici. Alam, gestito dall’Eso insieme ai suoi partner internazionali, è composto da una serie di telescopi nel deserto cileno di Atacama a circa 5000 metri di altitudine, costruito in un ambiente elevato e secco appositamente per ridurre al minimo questo degrado, fornendo condizioni di osservazione eccezionali. «A oggi, Alma è l’unica struttura in grado di risolvere spazialmente l’acqua in un disco freddo di formazione planetaria», sottolinea il coautore Wouter Vlemmings, professore alla Chalmers University of Technology, in Svezia.

«È davvero emozionante osservare direttamente, in un’immagine, il rilascio di molecole d’acqua da particelle di polvere ghiacciata», dice Elizabeth Humphreys, astronoma dell’Eso che ha partecipato allo studio. I granelli di polvere che compongono il disco sono i semi della formazione dei pianeti, che si scontrano e si aggregano in corpi sempre più grandi in orbita intorno alla stella. Gli astronomi ritengono che dove fa abbastanza freddo perché l’acqua si congeli sulle particelle di polvere, sia anche più efficiente ottenere l’unione delle particelle: un luogo ideale per la formazione dei pianeti. «I nostri risultati mostrano come la presenza di acqua possa influenzare lo sviluppo di un sistema planetario, proprio come avvenne circa 4,5 miliardi di anni fa nel Sistema solare», conclude Facchini.

Con i potenziamenti ora in corso per Alma e l’entrata in funzione dell’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso entro il decennio, la formazione dei pianeti e il ruolo giocato dall’acqua diventeranno sempre più chiari. In particolare Metis (Mid-infrared Elt Imager and Spectrograph) offrirà agli astronomi viste impareggiabili delle regioni interne dei dischi di formazione planetaria, dove si formano pianeti simili alla Terra.

Fonte: comunicato stampa Eso

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LiciaCube gioca con i pennacchi di Dimorphos


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LiciaCube è una missione dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), parte integrante della missione Dart della Nasa, il cui obiettivo è stato il primo test in scala reale della tecnica di impatto cinetico, a scopo di difesa planetaria. Crediti: Asi

Il 26 settembre 2022 la sonda spaziale Dart (Double Asteroid Redirection Test) della Nasa – un oggetto da mezza tonnellata lanciato a 22500 chilometri all’ora – ha colpito Dimorphos (il satellite dell’asteroide Didymos) nel corso del primo esperimento di difesa planetaria mai tentato nella storia, modificandone la traiettoria. Tutto questo “sotto gli occhi vigili” del cubesat dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) LiciaCube (Light Italian Cubesat for Imaging of Asteroids), che dopo un anno e mezzo ci restituisce un’ulteriore “fotografia” di ciò che è successo nei secondi successivi l’impatto. In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, il gruppo internazionale di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) analizza la composizione della nube di detriti e di polvere (plume, in inglese) espulsa dall’asteroide Dimorphos in seguito all’impatto esplosivo.

La prima sonda interplanetaria made in Italy – progettata, costruita e operata per l’Asi dalla società torinese Argotec – è parte integrante della missione statunitense e il team scientifico italiano di LiciaCube è coordinato da Inaf e Asi in collaborazione con l’Istituto di fisica applicata “Nello Carrara” del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifac), il Politecnico di Milano, l’Università di Bologna e l’Università Parthenope di Napoli.

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Alcune caratteristiche morfologiche misurate nella coda di materiale espulso dall’asteroide Dimorphos dallo strumento Luke a bordo di LiciaCube 118 s dopo l’impatto. La risoluzione spaziale dell’immagine è di 23 m per pixel a 304 km da Dimorphos. Tutti i fotogrammi sono stati ruotati e ricentrati rispetto a Dimorphos. Didymos e Dimorphos sono saturi. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

Gli strumenti a bordo di LiciaCube – Luke (LiciaCube Unit Key Explorer) e Leia (LiciaCube Explorer Imaging for Asteroid) – hanno inviato a terra dati straordinari prima e dopo l’impatto.

«La fase scientifica è iniziata 71 secondi prima dell’impatto di Dart, testimoniato “in diretta” misurando una rapida variazione della luminosità del piccolo asteroide», racconta Elisabetta Dotto, ricercatrice presso l’Inaf di Roma, prima autrice dell’articolo e coordinatrice del gruppo che lavora al programma LiciaCube sin dalla sua ideazione. «Viaggiando a una velocità relativa di circa 6,1 chilometri al secondo, LiciaCube ha effettuato un sorvolo dell’oggetto raggiungendo, nel suo punto di massimo avvicinamento a Dimorphos, una distanza di soli 58 km, 174 secondi dopo l’impatto. LiciaCube ha acquisito 426 immagini degli effetti prodotti dall’impatto».

I risultati ottenuti da LiciaCube sono importanti a livello scientifico per la comunità internazionale, trattandosi delle sole immagini raccolte in situ della prima missione di difesa planetaria mai condotta finora. I pennacchi di Dimorphos sono simili alla coda di una cometa e sono generati dalla polvere espulsa nello spazio. A differenza delle comete, però, i “ciuffi” di Dimorphos sono stati generati artificialmente.

Ma come è cambiato Dimorphos dopo l’arrivo di Dart? «La prima cosa stupefacente è stata che la superficie di Dimorphos», prosegue Dotto, «non è stata più visibile a causa del materiale espulso. Oltre a testimoniare l’evento unico della deflessione di un asteroide grazie a un impatto cinetico, sono state ottenute immagini dettagliate di un asteroide binario che ci possono permettere di capire meglio la natura di questi oggetti. Poiché gli asteroidi sono ciò che resta di una fase intermedia del processo che ha portato alla formazione dei pianeti, i dati acquisiti forniscono informazioni importanti nello studio delle prime fasi di aggregazione del materiale che compone il Sistema solare».

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I flussi di polvere attorno a Dimorphos (in alto). In basso l’asteroide compagno Didymos. La risoluzione dell’immagine è di 7,5 m per pixel a 97 km da Dimorphos. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

La ricercatrice Inaf spiega che «il materiale espulso dal cratere di impatto ha formato un cono con un angolo di apertura di circa 140 gradi e una struttura complessa e disomogenea, caratterizzata da filamenti, granelli di polvere e massi singoli o raggruppati espulsi a seguito dell’impatto stesso di Dart. Le immagini hanno mostrato che la parte più interna della coda aveva un colore bluastro e diventava via via più rossa con l’aumentare della distanza da Dimorphos. La velocità dei materiali espulsi varia da poche decine di metri al secondo fino a circa 500 metri al secondo».

«La complessa dinamica delle particelle espulse dall’impatto», aggiunge Alessandro Rossi dell’Ifac-Cnr, «costituisce un affascinante laboratorio di meccanica orbitale che verrà studiato a lungo dalla comunità delle scienze planetarie».

«Il contributo dell’Università di Bologna, nell’ambito di questo progetto», ricorda Marco Zannoni, ricercatore presso il Dipartimento di ingegneria industriale (Din) e responsabile tecnico delle attività affidate all’Università di Bologna, «ha riguardato la determinazione ed il controllo della traiettoria di LiciaCube, a partire dai dati di tracking ricevuti dalle antenne di terra del Deep Space Network della Nasa. La sfida più grande è stata quella di guidare il nanosatellite LiciaCube, che si trovava a 10 milioni di chilometri dalla Terra e viaggiava a più di 6 chilometri al secondo, a posizionarsi nel punto giusto ed al momento giusto per scattare le foto dell’impatto di Dart con Dimorphos».

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Gli asteroidi del sistema binario visti dagli strumenti di LiciaCube. Nello specifico, Didymos e Dimorphos viste da Leia (b,c) e Luke (d,e). Immagine b: il sistema binario ripreso a una distanza di circa 1.000 km, 5 s prima dell’impatto; Didymos è visibile al centro e Dimorphos appare come un anello (a causa della sfocatura dello strumento, scoperta durante il volo) nella parte inferiore destra di Didymos. Immagine c: la stessa scena vista 1 s dopo l’impatto. Immagin d: RGB dei bersagli acquisita ad una distanza di 76 km, 159 s dopo l’impatto. Immagine e: Rgb a una distanza di 71 km, 174 s dopo l’impatto. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

«Il lavoro pubblicato può essere considerato un punto di partenza per la missione Dart-LiciaCube e, più in generale, nell’ambito della difesa planetaria», commenta Angelo Zinzi, project scientist Asi per LiciaCube. «Grazie al grande lavoro realizzato da gli enti e le industrie coinvolte nella missione LiciaCube, con il coordinamento del team di progetto dell’Asi, è stato dimostrato che i cubesat sono ormai pronti per missioni sia tecnologiche sia scientifiche nello spazio profondo e che l’Italia è in grado di essere un attore principale in questo contesto».

«LiciaCube ha permesso di ottenere immagini e dati altrimenti impossibili da acquisire», aggiunge Zinzi, «e che hanno fornito un impulso fondamentale alla conoscenza dell’evento di impatto avvenuto tra la sonda Dart e Dimorphos. È importante anche sottolineare che tutti i dati e il software di archiviazione e calibrazione dati sono stati gestiti dal centro dati scientifico di Asi (Ssdc), utilizzando standard internazionalmente riconosciuti per la corretta preservazione e la disseminazione del dato. A seguito di questo lavoro, sono già in fase di pubblicazione e/o revisione, altri lavori dai quali ottoneremo un’analisi dei dati di LiciaCube di maggiore dettaglio e conoscenza».

«Grazie al grande lavoro del team scientifico sulle immagini, il Politecnico di Milano collaborando con Cnr ha potuto contribuire al raffinamento dei modelli di espulsione dei frammenti e al miglioramento dello studio dell’evoluzione del loro moto nel sistema binario asteroideo», dice Michèle Roberta Lavagna, professoressa di flight mechanics del Politecnico di Milano, Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali.

I dati a oggi ottenuti stanno dimostrando come, pur attraverso una piccola sonda, sia possibile raccogliere importanti dati scientifici e come, un team ben affiatato e coordinato possa ottenerne risultati unici di grande rilevanza scientifica.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The Dimorphos ejecta plume properties revealed by LiciaCube”, di E., Dotto, J.D.P., Deshapriya, I., Gai, P.H., Hasselmann, E., Mazzotta Epifani, G.,Poggiali, A., Rossi, G., Zanotti, A., Zinzi, I., Bertini, J.R., Brucato, M., Dall’Ora, V., Della Corte, S.L., Ivanovski, A., Lucchetti, M., Pajola, M., Amoroso, O., Barnouin, A., Campo Bagatin, A., Capannolo, S., Caporali, M., Ceresoli, N.L., Chabot, A.F., Cheng, G., Cremonese, E.G., Fahnestock, T.L., Farnham, F., Ferrari, L., Gomez Casajus, E., Gramigna, M., Hirabayashi, S., Ieva, G., Impresario, M., Jutzi, R., Lasagni Manghi, M., Lavagna6, J.-Y., Li, M., Lombardo, D., Modenini, P., Palumbo, D., Perna, S., Pirrotta, S.D., Raducan, D.C., Richardson, A.S., Rivkin, A.M., Stickle, J.M. Sunshine, P., Tortora, F., Tusberti, M., Zannoni


Che fine faranno i massi di Dimorphos?


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Marco Fenucci, ricercatore del Neo Coordination Centre dell’Agenzia spaziale europea, a Frascati, e primo autore dello studio sul destino orbitale dei detriti di Dimorphos. Crediti: Jelena Jokić

Meno di due mesi dopo l’impatto della sonda Dart sull’asteroide di 160 metri di diametro Dimorphos, in configurazione binaria con Didymos, a undici milioni di chilometri dalla Terra, il telescopio spaziale Hubble ha immortalato 37 massi vaganti da cinque a dieci metri di diametro che si sono staccati dalla superficie. Frammenti di asteroide che non sarebbero stati prodotti dall’impatto, ma che erano già presenti sul corpo celeste e si sarebbero staccati a causa dell’urto. Dove andranno a finire? Per rispondere a questa domanda, due ricercatori – Marco Fenucci dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e Albino Carbognani dell’Inaf – hanno fatto delle simulazioni al computer. I risultati sono stati pubblicati questo mese in un articolo su Mnras.

Prima di cominciare, mettiamo le cose in chiaro. La risposta è no: non c’è il rischio che arrivino qui sulla Terra. Non quelli di Dimorphos, almeno. Per saperlo con precisione gli autori hanno calcolato l’evoluzione orbitale dei massi nei prossimi 20mila anni utilizzando simulazioni numeriche, e hanno visto che la distanza tra i due punti più vicini delle orbite dei due corpi – un parametro chiamato Moid (letteralmente minimum orbit intersection distance) – avrà un minimo di 0.02 unità astronomiche fra 2500 anni e poi aumenterà. I calcoli considerano la velocità dei detriti misurata dallo Hubble Space Telescope e, per tenere conto dell’incognita sulla direzione presa, simulano l’evoluzione di un numero molto elevato di massi, in modo da non escludere alcuna configurazione simile al reale.

La Terra è dunque salva, dicevamo, ma il punto è un altro: con la missione Dart, e più in generale la possibilità di deviare asteroidi per mezzo di un impattore cinetico, si apre un nuovo capitolo nella mitigazione del rischio da impatto e, prima di agire, bisogna fare attenzione e tenere conto anche dell’evoluzione orbitale dei prodotti della collisione perché questi possono costituire un ulteriore rischio.

«Una delle ragione per cui il sistema binario Didymos-Dimorphos era stato scelto come target della missione Dart è che la coppia di asteroidi si manterrà sempre molto lontana dalla Terra, per cui era un obiettivo perfetto per lo scopo della missione», spiega a Media Inaf Marco Fenucci, dottorato in matematica e dal 2022 membro del team del Near Earth Objects Coordination Centre (Neocc) dell’Esa, dove si occupa del calcolo delle orbite degli asteroidi vicini alla Terra e delle loro probabilità di impatto sul nostro pianeta. È il primo autore di questo articolo, che costituisce il primo lavoro pubblicato sull’argomento.

Quando Dart è stato concepito, ricorda Fenucci, non si conosceva ancora il tipo di materiale presente sulla superficie di Dimorphos. Prima delle missioni Hayabusa-2 ed Osiris-Rex, dirette rispettivamente agli asteroidi Ryugu e Bennu, si pensava addirittura che piccoli asteroidi come Dimorphos fossero dei blocchi monolitici, e che quindi non presentassero piccoli massi sulla loro superficie. Per questo, l’eventualità dell’espulsione di questi massi non era stata tenuta in considerazione.

«Con il nostro lavoro suggeriamo che, durante la pianificazione di una missione di deflessione, si debba fare uno step in più, e studiare anche l’evoluzione orbitale del materiale espulso durante, in modo da non creare ulteriori oggetti a rischio di impatto», dice Albino Carbognani, ricercatore all’Inaf di Bologna e secondo autore dello studio. «Non si sapeva esattamente che cosa aspettarsi nell’impatto di Dart e le stime della variazione del periodo orbitale erano fatte considerando semplicemente la conservazione della quantità di moto, senza entrare nei dettagli delle dimensioni dei frammenti emessi. Nessuno aveva previsto o studiato preventivamente l’evoluzione orbitale di possibili boulder, infatti fecero scalpore le osservazioni di Hubble, nessuno se li aspettava così grandi e rilevabili da Terra».

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L’oggetto bianco e luminoso in basso a sinistra è l’asteroide Dimorphos. Ha una coda di polvere blu che si estende in diagonale in alto a destra. Un gruppo di punti blu circonda l’asteroide. Si tratta di massi che sono stati staccati dall’asteroide quando, il 26 settembre 2022 (in Italia era già il 27), la Nasa ha deliberatamente colpito l’asteroide con la sonda impattatrice Dart, per capire cosa occorrerebbe per deviare un futuro asteroide in rotta di collisione con la Terra. La fotografia scattata da Hubble è del dicembre 2022. Crediti: Nasa, Esa, D. Jewitt (Ucla)

Il sistema Dydimos-Dimorphos è quindi fortunato, perché la sua orbita non incontra mai quella della Terra. Conosciamo bene però altri asteroidi, come ad esempio Bennu e Apophis, la cui orbita incontra già quella della Terra e che possono arrivare davvero molto vicini al nostro pianeta.

«La superficie di Bennu presenta delle similitudini con quella di Dimorphos, nel senso che grazie alle immagini riprese dalla sonda Osiris-Rex sappiamo che ci sono dei massi della taglia di diversi metri sulla sua superficie», spiega Fenucci. «Se si tentasse quindi di deflettere un asteroide come Bennu con una missione come Dart, alcuni di questi massi verrebbero espulsi dalla superficie, e anche loro molto probabilmente finirebbero su un’orbita che incrocia quella della Terra. Nel caso si verificasse un rischio concreto di collisione con la Terra si dovrà procedere con una missione di mitigazione, specialmente con un asteroide della taglia di Bennu o di Apophis. Stiamo parlando di asteroidi di qualche centinaio di metri di diametro. Missioni di questo genere, tipicamente, mirano a spostare di poco l’asteroide, in modo che la Terra venga mancata durante l’approccio ravvicinato. Tuttavia, come dimostrato dall’impatto di Dart, massi della taglia di alcuni metri possono essere espulsi durante l’impatto, creando ulteriori oggetti in grado di colpire la Terra. Anche se l’impatto di oggetti di questo tipo ha delle conseguenze molto minori rispetto a quello di un asteroide di centinaia di metri, possono comunque causare dei danni a livello locale, come abbiamo visto nell’impatto avvenuto sopra Chelyabinsk nel 2013. È quindi necessario capire se massi del genere vengano espulsi durante l’impatto, ed eventualmente studiarne il loro destino orbitale».

Che i massi separati dalla superficie di Dimorphos non possano giungere fin qui, è consolatorio per il genere umano. Tuttavia, il problema riguarda ancora alcuni di noi. Ingegneri, tecnici e scienziati dell’Agenzia spaziale europea, e non solo, che sono impegnati nella missione Hera che andrà a vedere da vicino il luogo dell’impatto di Dart. Sarà importante, per loro, conoscere bene la posizione, il numero e l’evoluzione delle traiettorie di questi massi per evitarli – in primis – o anche per essere in grado di osservarli e riprenderli nel caso si siano allontanati dall’asteroide.

Infine, messa da parte la paura, è naturale chiedersi che fine faranno davvero questi massi.

«Dal nostro lavoro abbiamo calcolato che i massi espulsi durante l’impatto di Dart potrebbero impattare con Marte in due possibili occasioni, una fra seimila anni e l’altra fra 15mila anni, e che l’atmosfera marziana non sarebbe in grado di fermarli», conclude Fenucci. «Arriverebbero direttamente al suolo, scavando dei crateri di impatto di circa cento metri di diametro. Questo implica che le meteoriti che arrivano sulla Terra, che si originano tipicamente da meteoroidi della taglia di circa un metro di diametro, possono avere origine dalle collisioni che avvengono su asteroidi vicini alla Terra».

Per saperne di più:


Quando una stella d’assioni esplode


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Timeline della storia del cosmo. Dal punto di vista osservativo, l’epoca della reionizzazione – la linea di demarcazione fra età oscura e alba cosmica – è segnata dalla scomparsa della riga a 21 cm, lunghezza d’onda della luce che l’idrogeno neutro assorbe ed emette durante la cosiddetta transizione iperfine, quando gli spin dell’elettrone e del protone passano da paralleli ad antiparalleli. Avendo perso il suo unico elettrone, l’idrogeno ionizzato non assorbe né emette a questa frequenza: è una prerogativa dell’idrogeno neutro. Crediti: Nasa/Wmap Science Team

Ormai da qualche anno – da quando le wimp sono passate di moda – le candidate più gettonate al ruolo di particelle di materia oscura sono gli assioni. Particelle ipotetiche anch’esse, mai afferrate da alcun rivelatore, a differenza delle wimp – dove la lettera ‘m’ sta a indicarne la natura di particelle massive – gli assioni sono ultraleggeri. Eppure anche loro, come le wimp, potrebbero spiegare quell’80 per cento abbondante di materia che dovrebbe costituire l’universo ma della quale non sappiamo alcunché – la materia oscura, appunto.

Come trovare, dunque, questi assioni? Due studi pubblicati questo mese su Physical Review D da un team di ricercatori guidato da Miguel Escudero (Cern) e Xiaolong Du (Carnegie Observatories, Usa) suggeriscono di guardare alle esplosioni di stelle. Esplosioni di stelle particolari, però: non le classiche supernove, bensì – appunto – stelle di assioni. Cercandone le tracce in un “luogo” che gli astronomi conoscono bene: la riga a 21 cm dell’idrogeno neutro.

«Gli assioni sono uno dei principali candidati per la materia oscura. Abbiamo scoperto che, una volta condensate in densi ammassi, hanno la capacità di riscaldare l’universo, proprio come le supernove», spiega uno fra i coautori dei due studi, l’astrofisico Malcolm Fairbairn del King’s College di Londra. «Armati di questa conoscenza, ora sappiamo con molta più certezza dove puntare i nostri strumenti per trovarli».

L’ipotesi che possano esistere – o essere esistite – stelle di assioni non è nuova, ne abbiamo parlato anche su Media Inaf. Ciò su cui si concentrano gli autori dei due studi è la possibilità che, se la loro massa supera una certa soglia, queste stelle possano diventare instabili, esplodendo in un fiotto di radiazioni elettromagnetiche: fotoni, particelle di luce dunque, che a differenza degli assioni hanno il non trascurabile vantaggio di poter essere rilevati. In particolare, riscaldando il gas intergalattico nel periodo che separa il big bang dalla formazione delle prime stelle, dunque nell’intervallo fra 50 e i 500 milioni dall’inizio dell’universo, questi fotoni d’origine “assionica” potrebbero aver avuto un ruolo cruciale nella cosiddetta reionizzazione. Da qui l’idea di cercarne le tracce nella riga a 21 cm della transizione iperfine dell’idrogeno neutro, spazzato via proprio a seguito della reionizzazione.

Arrivando a una stima del numero totale di stelle di assioni nell’universo e, per estensione, del loro potenziale esplosivo sul gas intergalattico, gli autori dei due studi sono anche riusciti a ipotizzare l’impatto dell’esplosione delle stelle di assioni sulla Cmb – la radiazione cosmica di fondo – all’inizio della reionizzazione. Una stima, questa, che in teoria consentirebbe di usare le misure della riga a 21 cm per calcolare con precisione l’effettivo contributo degli assioni.

«Stelle di assioni coerenti, anche quelle relativamente compatte, hanno il potenziale per esplodere in un alone di elettromagnetismo e luce. Conoscere il tipo di strutture che la materia oscura assionica può formare e il suo impatto sul gas intergalattico circostante», conclude Fairbairn, «può aprire nuove strade per la sua individuazione».

Per saperne di più:

Guarda sul canale YouTube del King’s College di Londra la simulazione dell’esplosione di una stella d’assioni:

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Una magnetar da corsa tra le stelle della Volpetta


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Illustrazione artistica che mostra una magnetar che espelle materia nello spazio tramite venti magnetosferici relativistici. In verde sono rappresentate le linee del campo magnetico della stella di neutroni, in grado di influenzare flusso di materia emessa dall’oggetto. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

I lampi radio veloci – in inglese fast radio burst (Frb) – sono intense esplosioni di onde radio capaci di sprigionare in pochi millisecondi tanta energia quanta ne produce il Sole in un anno. Nel 2020, simili esplosioni sono state rivelate provenire dalla sorgente galattica Sgr 1935+2154, suggerendo che alcuni di essi siano prodotti dalle magnetar, come lo è Sgr 1935+2154: stelle di neutroni superdense, in rapida rotazione e con un campo magnetico estremamente forte.

Nel 2022, un team internazionale di scienziati ha nuovamente messo gli occhi su Sgr 1935+2154, rilevando caratteristiche della sorgente mai osservate prima d’ora: cambiamenti della velocità di rotazione dell’oggetto celeste accoppiati temporalmente all’emissione di Frb. La scoperta, riportata questo mese sulle pagine di Nature, permette di comprendere meglio ciò che causa queste misteriose esplosioni radio veloci.

Sgr 1935+2154 è una magnetar che si trova a circa 30mila anni luce di distanza nella costellazione della Volpetta. Si stima che la stella di neutroni abbia un diametro di circa 20 chilometri e ruoti circa 3 volte al secondo, il che equivale a una velocità rotazionale di quasi 11mila chilometri orari. Il 14 ottobre 2022 la sorgente ha emesso un potente quanto effimero Frb, catturato dal radiotelescopio canadese Chime e dallo statunitense Green Bank Telescope (Gbt) e denominato Frb 20221014. L’emissione del lampo radio è avvenuta in un periodo in cui la sorgente era particolarmente attiva, durante il quale ha emesso centinaia di brevi esplosioni di raggi X.

Allertati di questo periodo di intensa attività, Chin-Ping Hu, ricercatore alla National Changhua University of Education (Taiwan), e il suo team hanno puntato due telescopi targati Nasa in direzione della sorgente. Uno è Nicer, un rivelatore per raggi X installato dal 2017 all’esterno della Stazione spaziale internazionale. L’altro è NuStar, un satellite per raggi X. Osservando con questi due strumenti Sgr 1935+2154 ininterrottamente dal 12 ottobre al 6 novembre 2022, dunque in una finestra temporale comprendente il giorno in cui è stato registrato Frb 20221014, gli scienziati sono riusciti a svelare cosa è successo sulla superficie e nelle immediate vicinanze dell’oggetto celeste prima e dopo l’emissione del lampo radio veloce in questione.

I risultati delle osservazioni hanno mostrato chiaramente che il lampo radio è stato emesso tra due accelerazioni rotazionali della stella di neutroni. Glitch: è così che gli astronomi chiamano questi incrementi repentini della velocità di rotazione. Ma la cosa che più ha sorpreso gli scienziati è stato scoprire che tra un glitch e l’altro, cioè tra un’accelerazione e l’altra, la magnetar ha rallentato rapidissimamente la sua velocità: in sole nove ore – il tempo intercorso tra i due glitch – la sorgente è passata infatti alla velocità rotazionale di “riposo”, cioè quella precedente al primo glitch, decelerando cento volte più rapidamente di quanto sia mai stato osservato in queste sorgenti.

«In genere quando si verificano le accelerazioni, la magnetar impiega settimane o mesi per tornare alla sua velocità normale», sottolinea Chin-Ping Hu, autore principale del nuovo studio. «La decelerazione che abbiamo osservato noi avviene in tempi molto più brevi di quanto si pensasse in precedenza, e questo potrebbe essere legato alla velocità con cui vengono generati i lampi radio».

Ma come spiegare queste rapide decelerazioni, chiamate dagli addetti ai lavori anti-glitch? E in che modo sono correlate all’emissione dei lampi radio? Un’idea i ricercatori se la sono fatta. L’ipotesi è che alla base di questi repentini rallentamenti possa esserci la differente velocità di rotazione tra la superficie rigida della magnetar e il nucleo superfluido. Nelle magnetar può accadere che il nucleo della stella ruoti più velocemente della sua superficie rigida, spiegano i ricercatori. Quando ciò avviene, parte del momento angolare del nucleo può essere trasferito alla crosta, provocando incrementi della velocità di rotazione come quelli osservati in questo studio. Se la prima accelerazione avesse causato una frattura nella superficie della magnetar, in particolare in prossimità dei poli magnetici, tale crepa, in maniera del tutto simile a un’eruzione vulcanica, potrebbe aver causato l’espulsione nello spazio di grandi quantità di materia stellare sotto forma di un vento magnetosferico relativistico. Secondo gli autori, la perdita di massa associata a questo vento relativistico potrebbe essere responsabile degli anti-glitch. Non solo: poiché il vento di particelle può alterare il campo magnetico della magnetosfera di una stella di neutroni, gli autori ipotizzano che questo stesso vento possa aver generato le condizioni per produrre il lampi radio veloce. La rapida decelerazione dopo il primo glitch potrebbe poi aver risincronizzato lo spin tra il nucleo superfluido e il resto della stella, portando al secondo glitch.

Avendo osservato solo uno di questi eventi in tempo reale, concludono i ricercatori, non possiamo ancora dire con certezza cosa provochi queste decelerazioni e in che modo siano connesse all’emissione dei Frb. Le future osservazioni in banda X di Sgr 1935+2154 e di altre magnetar, in combinazione con il monitoraggio in banda radio, contribuiranno a identificare le condizioni necessarie per produrre questi misteriosi lampi radio veloci.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Rapid spin changes around a magnetar fast radio burst”, di Chin-Ping Hu, Takuto Narita, Teruaki Enoto, George Younes, Zorawar Wadiasingh, Matthew G. Baring, Wynn C. G. Ho, Sebastien Guillot, Paul S. Ray, Tolga Guver, Kaustubh Rajwade, Zaven Arzoumanian, Chryssa Kouveliotou, Alice K. Harding e Keith C. Gendreau


Una stella di neutroni nelle ceneri di Sn 1987A


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A sinistra c’è un’immagine NirCam (Near-Infrared Camera) rilasciata nel 2023. L’immagine in alto a destra mostra la luce dell’argon ionizzato singolarmente (Argon II) catturato dalla modalità Mrs (Medium Risoluzione Spectrograph) del Miri (Mid-Infrared Instrument). L’immagine in basso a destra mostra la luce proveniente dall’argon ionizzato multiplo catturato dal NirSpec (Near-Infrared Spectrograph). Entrambi gli strumenti mostrano un forte segnale proveniente dal centro del resto della supernova. Ciò ha indicato al team scientifico che lì c’è una fonte di radiazioni ad alta energia, molto probabilmente una stella di neutroni. Crediti: Nasa, Esa, Csa, STScI, Claes Fransson (Università di Stoccolma), Mikako Matsuura (Università di Cardiff), M. Barlow (Ucl), Patrick Kavanagh (Università di Maynooth), Josefin Larsson (Kth)

Era stata cercata a lungo, la stella di neutroni che si è formata dalle ceneri dell’esplosione di una delle supernove più studiate: Sn 1987A. Molti gli indizi rilevati dai ricercatori in tre decenni e mezzo di intense osservazioni con i migliori telescopi come Hubble o Spitzer, ma nessuna evidenza conclusiva dell’esistenza di una stella di neutroni. La svolta è stata resa possibile grazie al James Webb Space Telescope che ha rilevato gli effetti dell’emissione ad alta energia di quella che potrebbe essere una giovane stella di neutroni o la pulsar wind nebula che l‘avvolge – una nebulosa altamente energetica alimentata dalla stella di neutroni al suo interno.

Le supernove, lo spettacolare risultato finale del collasso di stelle molto massicce, esplodono in poche ore e la loro luminosità raggiunge il picco in pochi mesi, mentre i resti della stella esplosa continuano a evolversi rapidamente nei decenni successivi. L’espandersi di questo oggetto attraverso il mezzo interstellare offre agli astronomi la rara opportunità di studiare un processo astronomico fondamentale per l’evoluzione dell’universo, quasi “in tempo reale”. Infatti, oltre a essere le principali fonti di elementi chimici come carbonio, ossigeno, silicio e ferro che rendono possibile la vita come noi la conosciamo, le supernove sono anche responsabili della creazione degli oggetti più esotici dell’universo come stelle di neutroni e buchi neri.

Webb ha iniziato le osservazioni scientifiche di Sn 1987A nel luglio 2022 e ora, in uno studio pubblicato la settimana scorsa su Science, un team internazionale di astronomi guidato da Claes Fransson della Stockholm University, in Svezia, ha annunciato di aver rilevato segnali di una probabile stella di neutroni provenire dal centro della nebulosa attorno a Sn 1987A. I ricercatori hanno utilizzando il Medium Resolution Spectrograph (Mrs) e il Mid-Infrared Instrument (Miri) di Webb per osservare le righe spettrali che potrebbero essere state create dalla calda e giovane stella di neutroni o dalla pulsar wind nebula.

La presenza di uno di questi due oggetti estremamente energetici tra i resti di Sn 1987A era stata già ipotizzata per la prima volta nel 2019 e poi, nel 2021, in uno studio guidato da Emanuele Greco dell’Inaf di Palermo, grazie ai dati raccolti dai telescopi spaziali Chandra e NuStar e utilizzando simulazioni numeriche all’avanguardia. Nulla a confronto del potente occhio di Webb, come spiega lo stesso Greco – non coinvolto nel nuovo studio uscito su Science – a Media Inaf: «Questo studio sfrutta le straordinarie capacità del telescopio spaziale James Webb e rappresenta, a oggi, la più robusta evidenza della presenza di una stella di neutroni all’interno di Sn 1987A. Nonostante non sia possibile stabilire con certezza se la sorgente responsabile dell’emissione sia una pulsar wind nebula o una stella di neutroni estremamente calda, questo risultato si allinea allo scenario ipotizzato in uno studio del 2019 in banda radio e da noi riproposto nel 2021 e nel 2022 in banda X per spiegare l’eccesso di emissione in banda hard. Dagli studi condotti in bande diverse emerge un quadro coerente che sembra indicare la pulsar wind nebula come origine più plausibile».

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Un’immagine che combina i dati di Hubble e quelli Webb di SN 1987A e della sorgente compatta di argon altamente ionizzata. La sorgente blu debole al centro è stata rilevata dallo strumento NIRSpec su Webb. Crediti: Hst, Jwst/NIRSpec, J. Larsson

L’analisi spettrale dei risultati prodotti da Webb ha rivelato un forte segnale proveniente dal centro del materiale espulso che circonda il luogo in cui si è generata Sn 1987A, attribuito alla presenza di argon ionizzato. Utilizzando poi lo spettrografo NirSpec di Webb, che osserva a lunghezze d’onda più corte, i ricercatori hanno trovato elementi chimici ancora più fortemente ionizzati. La presenza di tali ioni richiede la formazione di fotoni altamente energetici che devono provenire da oggetti come, ad esempio, una stella di neutroni. «La conferma della presenza di una stella di neutroni nel cuore di Sn 1987A», conclude Greco, «è uno step fondamentale per la comprensione di come questi oggetti evolvono nei primi anni della loro vita. In particolare, si tratta della stella di neutroni più giovane che conosciamo e rappresenta quindi un laboratorio cosmico unico nel suo genere».

Ulteriori analisi con Webb, unite a osservazioni con telescopi da terra, potrebbero fornire maggiore chiarezza su ciò che sta accadendo nel cuore del resto di Sn 1987A. Inoltre, i ricercatori si augurano che queste osservazioni possano stimolare lo sviluppo di modelli teorici più dettagliati, consentendo di comprendere meglio non solo l’evoluzione finale di Sn 1987A, ma di molte altre supernove.

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Emission lines due to ionizing radiation from a compact object in the remnant of Supernova 1987A” di C. Fransson, M. J. Barlow, P. J. Kavanagh, J. Larsson, O. C. Jones, B. Sargent, M. Meixner, P. Bouchet, T. Temim, G. S. Wright, J. A. D. L. Blommaert, N. Habel, A. S. Hirschauer, J. Hjorth, L. Lenkić, T. Tikkanen, R. Wesson, A. Coulais, O. D. Fox, R. Gastaud, A. Glasse, J. Jaspers, O. Krause, R. M. Lau, O. Nayak, A. Rest, L. Colina, E. F. van Dishoeck, M. Güdel, Th. Henning, P-O. Lagage, G. Östlin, T. P. Ray e B. Vandenbussche


Cicatrice di metallo su una stella cannibale


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Rappresentazione artistica della nana bianca magnetica WD 0816-310, sulla cui superficie gli astronomi hanno trovato una sorta di cicatrice dovuta al l’ingestione di detriti planetari. Crediti: Eso/L. Calçada

Quando una stella come il Sole si avvicina al termine della propria vita, può inghiottire pianeti e asteroidi che erano nati insieme con lei. Ora, utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (l’Osservatorio europeo australe) in Cile, alcuni ricercatori hanno trovato per la prima volta una firma unica di questo processo: una cicatrice impressa sulla superficie di una nana bianca. I risultati sono stati pubblicati oggi su The Astrophysical Journal Letters.

«È risaputo che alcune nane bianche – braci di stelle come il nostro Sole che si raffreddano lentamente – stanno cannibalizzando pezzi dei loro sistemi planetari. Ora abbiamo scoperto che il campo magnetico della stella gioca un ruolo chiave in questo processo, provocando una cicatrice sulla superficie della nana bianca», spiega Stefano Bagnulo, astronomo all’Osservatorio e planetario di Armagh (Irlanda del Nord, Regno Unito) e autore principale dello studio.

La cicatrice osservata dal gruppo di lavoro è una concentrazione di metalli impressa sulla superficie della nana bianca WD 0816-310, il resto di una stella simile ma leggermente più grande del nostro Sole, di dimensione pari a quella della Terra. «Abbiamo dimostrato che questi metalli provengono da un frammento planetario grande quanto o forse più di Vesta, il secondo asteroide del Sistema solare per dimensione, di circa 500 chilometri», aggiunge Jay Farihi, professore allo University College di Londra (Regno Unito) e coautore dello studio.

Le osservazioni hanno anche fornito indizi su come la stella abbia ottenuto la cicatrice di metallo. L’equipe ha notato che l’intensità della misura del metallo cambiava durante la rotazione della stella, suggerendo che i metalli sono concentrati su un’area specifica sulla superficie della nana bianca, piuttosto che distribuiti uniformemente su di essa. Hanno anche scoperto che questi cambiamenti erano sincronizzati con i cambiamenti nel campo magnetico della nana bianca, indicando che la cicatrice metallica si trova su uno dei suoi poli magnetici. Combinati insieme, questi indizi indicano che il campo magnetico ha incanalato i metalli sulla stella, creando la cicatrice.

«Sorprendentemente, il materiale non era mescolato uniformemente sulla superficie della stella, come previsto dalla teoria. Invece, questa cicatrice è una zona di materiale planetario concentrato, tenuta in posizione dallo stesso campo magnetico che ha guidato la caduta dei frammenti», commenta il coautore John Landstreet, professore alla Western University, Canada, anch’egli affiliato all’Osservatorio e planetario Armagh. «Niente di simile è mai stato visto prima».

Per giungere a queste conclusioni, l’equipe ha utilizzato uno strumento multiuso – un po’ come un coltellino svizzero – installato sul Vlt, chiamato Fors2, che ha permesso di rilevare la cicatrice metallica e collegarla al campo magnetico della stella. «L’Eso ha una combinazione unica della possibilità di osservare oggetti deboli come le nane bianche e di misurare con sensibilità i campi magnetici stellari», conclude Bagnulo. Nello studio, i ricercatori si sono basati anche sui dati d’archivio dello strumento X-Shooter, installato sul Vlt, per confermare i risultati.

Sfruttando la potenza di osservazioni come queste, gli astronomi possono rivelare la composizione complessiva degli esopianeti, pianeti che orbitano attorno a stelle al di fuori del Sistema solare. Questo studio unico mostra anche come i sistemi planetari possano rimanere dinamicamente attivi, anche dopo la loro “morte”.

Fonte: comunicato stampa Eso

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Il primo lander privato si è posato sulla Luna


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Odysseus il 21 febbraio dopo l’inserimento nell’orbita lunare. Credito: Intuitive Machines

Il primo lander privato si è posato sulla Luna. È Odysseus, dell’azienda texana Intuitive Machines.

È una prima assoluta nella storia dell’era spaziale e segna anche il ritorno di un veicolo americano sulla Luna a 52 anni dall’ultima missione del programma Apollo.

Lanciato il 15 febbraio scorso, Odysseus è entrato nell’orbita lunare il 21 febbraio, dopo aver percorso un milione di chilometri. La manovra di allunaggio si è svolta come previsto, ma ci sono stati momenti di tensione perché inizialmente non si riusciva a ricevere il segnale. Dopo alcuni tentativi con più antenne da Terra, finalmente è arrivato il ‘bip’ dal lander.

È stato un segnale debole, quello arrivato a Terra dall’antenna principale di Odysseus, ma sufficiente a far tirare un sospiro di sollievo e a scatenare un applauso sempre più forte e convinto. «Possiamo confermare senza dubbio che il nostro veicolo è sulla superficie della Luna e che stiamo trasmettendo», ha detto il direttore di volo Tim Crain non appena è stato ricevuto il segnale. Adesso si attendono aggiornamenti sulle condizioni del lander.

La missione Im-1 ha raggiunto così il suo obiettivo, cruciale per il futuro dei programmi lunari e per la Lunar Space Economy.

After troubleshooting communications, flight controllers have confirmed Odysseus is upright and starting to send data.
Right now, we are working to downlink the first images from the lunar surface.

— Intuitive Machines (@Int_Machines) February 23, 2024

Quello di Odysseus, il lander della classe Nova-C della Intuitive Machines, è il primo successo di una missione privata dopo i fallimenti del lander Peregrine dell’azienda americana Astrobotic nello scorso gennaio e quelli dei lander da Hakuto-R M1 della giapponese ispace nel 2023 e di Beresheet, dell’azienda israeliana SpaceIL nel 2019. Sono invece quattro i Paesi che hanno fatto posare un loro veicolo sulla Luna: dopo gli Stati Uniti sono riusciti ad allunare Russia, Cina, India e Giappone.

Era dall’11 dicembre 1972 che un veicolo costruito negli Stati Uniti non si posava sul suolo lunare. L’azienda con sede a Houston ha compiuto così quello che in molti già definiscono “un passo da gigante per i privati”.

«Odysseus ha una nuova casa», ha scritto su X la Intuitive Machines, riferendosi al sito di allunaggio del suo lander, vicino al cratere Malapert A, a circa 300 chilometri dal polo Sud lunare. Questo cratere, dal diametro di circa 69 chilometri, è vicino al massiccio di Malapert, una dei 13 siti considerati per la missione Artemis III della Nasa.

Come era accaduto per il lander Peregrine della Astrobotic, anche Odysseus è finanziato in parte dal programma varato nel 2018 dalla Nasa per i voli commerciali, il Commercial Lunar Payload Services e, come l’altra missione, ha a bordo sei strumenti della Nasa, il cui obiettivo è raccogliere dati utili alla pianificazione delle future missioni del programma Artemis, destinato e portare nuovamente degli astronauti sulla Luna.

Guarda su MediaInaf Tv il servizio del 16 febbraio 2024:

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eRosita dice la sua sulla tensione cosmologica S8


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Immagini ottiche che mostrano le galassie in direzione di quattro ammassi di galassie a distanze diverse. L’emissione di raggi X del gas caldo negli ammassi è mostrata in blu. Crediti: M. Kluge, C. Garrel; optical image: Legacy Survey DR10, X-ray: eRosita

Lo studio dell’evoluzione degli ammassi di galassie, le strutture più grandi dell’universo, ha fornito misure precise del contenuto totale di materia e del modo in cui si raggruppa. Questo è quanto sostengono gli scienziati del consorzio tedesco eRosita, guidato dal Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (Mpe) e con la partecipazione dell’Università di Bonn, in un articolo sottomesso alla rivista Astronomy and Astrophysics. I loro risultati confermano il modello cosmologico standard e alleviano la cosiddetta tensione S8, legata alla apparente discrepanza tra la crescita delle strutture stimata dal lensing gravitazionale debole e dalle anisotropie del fondo cosmico a microonde (Cmb). L’analisi si basa su uno dei più grandi cataloghi di ammassi e superammassi di galassie, pubblicato contestualmente allo studio in questione.

eRosita è un telescopio spaziale a raggi X a bordo del satellite Spectrum-RG, lanciato nel luglio 2019. Due settimane fa, il consorzio tedesco eRosita ha pubblicato i dati della prima survey all-sky. L’obiettivo principale della survey è quello di comprendere meglio la cosmologia attraverso la misurazione della crescita nel tempo cosmico degli ammassi di galassie. Tracciando l’evoluzione degli ammassi attraverso i raggi X emessi dal gas caldo rilevati da eRosita, e misurando la massa di questi ammassi attraverso il lensing gravitazionale debole (o weak lensing), sono state effettuate misure precise e accurate sia della quantità totale di densità di materia nell’universo sia della sua clumpiness, o grumosità. Mentre in passato le misurazioni della clumpiness effettuate con tecniche diverse – in particolare il fondo cosmico a microonde e il cosiddetto cosmic shear (la distorsione delle immagini di galassie lontane dovuta all’effetto di lente gravitazionale debole da parte della struttura a grande scala dell’universo) – apparivano incoerenti tra loro, le misure di eRosita mostrano ora una coerenza con i risultati ottenuti dal Cmb.

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Come sopra, ma mostrando solo le galassie che ci si aspetta di trovare nei rispettivi ammassi (e non in quelli di primo piano o di sfondo). Crediti: M. Kluge, C. Garrel; optical image: Legacy Survey DR10, X-ray: eRosita

Secondo il modello cosmologico standard, l’universo primordiale era un mare estremamente caldo e denso di fotoni e particelle. Nel corso del tempo cosmico, piccole variazioni di densità si sono trasformate nelle grandi galassie e negli ammassi di galassie che vediamo oggi. Le osservazioni di eRosita mostrano che la materia (visibile e oscura) costituisce il 29 per cento del bilancio totale di massa/energia dell’universo, in ottimo accordo con i valori ottenuti dalle misure della radiazione di fondo cosmico a microonde, emessa quando l’universo è diventato trasparente.

Oltre a misurare la densità totale di materia nell’universo, eRosita ha misurato anche la clumpiness della distribuzione di materia, descritta attraverso il cosiddetto parametro S8. Come accennato all’inizio, la tensione S8 nasce dal fatto che gli esperimenti sul Cmb misurano un valore di S8 più alto rispetto, ad esempio, alle indagini sul cosmic shear. Se non si riesce a risolvere questa tensione, occorre chiamare in causa una nuova fisica. Ma eRosita ha fatto proprio questo: «eRosita ci dice che l’universo si è comportato come ci si aspettava nel corso della storia cosmica», afferma Vittorio Ghirardini, ricercatore post-dottorato presso l’Mpe che ha guidato lo studio cosmologico. «Non c’è alcuna tensione con la Cmb: forse i cosmologi possono rilassarsi un po’».

Una componente importante dell’analisi è rappresentata dalle misurazioni del lensing gravitazionale debole. Questo effetto descrive le distorsioni coerenti impresse alle forme osservate delle galassie lontane quando i loro raggi di luce attraversano il campo gravitazionale delle strutture in primo piano. Mentre gli studi sul cosmic shear sondano l’effetto lungo direzioni casuali, questo può essere misurato anche in prossimità di ammassi di galassie per stimarne le masse. Il team di eRosita ha condotto tali misure incorporando i dati di tre survey attuali di lensing gravitazionale debole: la Dark Energy Survey (Des), la Hyper Suprime Cam Survey (Hsc) e la Kilo-Degree Survey (KiDs). Queste misure calibrano la relazione tra il segnale a raggi X di eRosita e la massa dell’ammasso, permettendo così il confronto con le previsioni dei modelli cosmologici.

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Come le altre due immagini, ma con l’aggiunta della distorsione media misurata delle immagini delle galassie di fondo, causata dal debole effetto di lente gravitazionale che permette di “pesare” gli ammassi. Crediti: M. Kluge, C. Garrel, S. Grandis; optical image: Legacy Survey DR10, weak lensing: Dark Energy Survey (DES), X-ray: eROSITA

L’analisi della survey di weak lensing KiDS e il confronto dettagliato tra tutte e tre le survey sono presentati in un articolo guidato da Florian Kleinebreil, dottorando nel gruppo di Tim Schrabback. «Sono orgoglioso del team di weak lensing che ha svolto un lavoro eccellente nel fornire l’analisi di tutte e tre le principali survey di weak lensing per la calibrazione della massa degli ammassi di eRosita, che ha permesso di ottenere questi vincoli cosmologici; qualcosa che non è mai stato raggiunto prima», afferma Thomas Reiprich dell’Università di Bonn.

«Abbiamo scoperto che le tre survey di lensing forniscono vincoli di massa coerenti per gli ammassi di eRosita, fornendo un importante test di coerenza per l’analisi complessiva», spiega Kleinebreil. «L’analisi completata dimostra l’eccezionale potere di vincolo cosmologico fornito dalle analisi combinate di campioni di ammassi di galassie all’avanguardia e dalle survey di lensing debole. È interessante notare che questo campo progredirà ulteriormente nei prossimi anni, anche grazie all’arrivo di programmi di weak lensing di nuova generazione, tra cui quello condotto dal nuovo telescopio spaziale Euclid dell’Esa», conclude Schrabback.

E non è tutto. Gli oggetti più grandi dell’universo portano con sé anche informazioni sulle particelle più piccole: i neutrini, particelle leggerissime quasi impossibili da rilevare. Grazie all’abbondanza degli aloni di materia oscura più grandi dell’universo, i risultati di eRosita forniscono la misura combinata della massa dei neutrini più stretta mai ottenuta finora da un satellite cosmologico.

Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eROSITA All-Sky Survey: Cosmology Constraints from Cluster Abundances in the Western Galactic Hemisphere” di V. Ghirardini, E. Bulbul, E. Artis, N. Clerc, C. Garrel, S. Grandis, M. Kluge, A. Liu, Y. E. Bahar, F. Balzer, I. Chiu, J. Comparat, D. Gruen, F. Kleinebreil, S. Krippendorf, A. Merloni, K. Nandra, N. Okabe, F. Pacaud, P. Predehl, M. E. Ramos-Ceja, T. H. Reiprich, J. S. Sanders, T. Schrabback, R. Seppi, S. Zelmer, X. Zhang, W. Bornemann, H. Brunner, V. Burwitz, D. Coutinho, K. Dennerl, M. Freyberg, S. Friedrich, R. Gaida, A. Gueguen, F. Haberl, W. Kink, G. Lamer, X. Li, T. Liu, C. Maitra, N. Meidinger, S. Mueller, H. Miyatake, S. Miyazaki, J. Robrade, A. Schwope, I. Stewart
  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eRosita All-Sky Survey: Weak-Lensing of eRASS1 Galaxy Clusters in KiDS-1000 and Consistency Checks with DES Y3 & HSC-Y3” di Florian Kleinebreil, Sebastian Grandis, Tim Schrabback, Vittorio Ghirardini, I-Non Chiu, Ang Liu, Matthias Kluge, Thomas H. Reiprich, Emmanuel Artis, Emre Bahar, Fabian Balzer, Esra Bulbul, Nicolas Clerc, Johan Comparat, Christian Garrel, Daniel Gruen, Xiangchong Li, Hironao Miyatake, Satoshi Miyazaki, Miriam E. Ramos-Ceja, Jeremy Sanders, Riccardo Seppi, Nobuhiro Okabe, Xiaoyuan Zhang
  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eROSITA All-Sky Survey: First catalog of superclusters in the western Galactic hemisphere” di A. Liu, E. Bulbul, M. Kluge, V. Ghirardini, X. Zhang, J.S. Sanders, E. Artis, Y.E. Bahar, F. Balzer, M. Brueggen, N. Clerc, J. Comparat, C. Garrel, E. Gatuzz, S. Grandis, G. Lamer, A. Merloni, K. Migkas, K. Nandra, P. Predehl, M.E. Ramos-Ceja, T.H. Reiprich, R. Seppi, S. Zelmer


Pesare le galassie con l’intelligenza artificiale


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Intelligenza artificiale e astrofisica. Crediti: C. Tortora

Gli algoritmi e le applicazioni di intelligenza artificiale fanno ormai parte della nostra vita quotidiana. La comunità scientifica, tuttavia, ne fa largo utilizzo già da diversi anni e l’Italia, in questo, è all’avanguardia. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), per esempio, ha partecipato a un progetto guidato da Nicola R. Napolitano, da cinque anni presso la Sun Yat-sen University (Cina), che per la prima volta è riuscito a dimostrare che l’intelligenza artificiale può imparare dalle simulazioni cosmologiche di formazione ed evoluzione dell’universo a misurare correttamente la massa delle galassie. Lo studio che è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, descrive una nuova metodologia per stimare la massa delle galassie (incluso il loro contenuto di materia oscura) usando il machine learning.

Napolitano, già ricercatore Inaf e ora professore ordinario presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, spiega che «in questo modo, è possibile superare i problemi intrinseci alla dinamica delle galassie. I modelli dinamici, infatti, hanno bisogno di pesanti assunzioni sulla distribuzione dei moti interni delle galassie, che possono non essere totalmente corrette, e necessitano un esborso di risorse enorme per ottenere risultati sufficientemente accurati».

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Crescenzo Tortora, Inaf

L’articolo “Total and dark mass from observations of galaxy centers with Machine Learning” dimostra per la prima volta che questa metodologia funziona su cataloghi di galassie reali. Gli esperti hanno confrontato le stime del nuovo codice, denominato Mela (Mass Estimator machine Learning Algorithm), con stime di procedure dinamiche classiche verificando quindi che Mela può riprodurre con incredibile accuratezza le masse dei metodi classici, in alcuni casi molto più laboriosi e basati su dati molto più complessi (per esempio la cinematica 3D) dei dati più semplici di cui Mela ha bisogno e che saranno prodotti per milioni di galassie con i progetti di spettroscopia di nuova generazione in cui Inaf è coinvolta, come Weave e 4Most.

Crescenzo Tortora, ricercatore dell’Inaf di Napoli che ha partecipato allo studio, aggiunge: «Il lavoro è stato possibile grazie a un percorso intrapreso dal nostro gruppo che negli ultimi anni ha esteso le applicazioni dell’intelligenza artificiale a diversi settori dell’analisi dati di grandi survey astronomiche. Questo è stato anche possibile grazie all’esperienza acquisita negli ultimi anni con survey a grande campo (nello specifico Kids al telescopio Vst) nella ricerca di lenti gravitazionali, l’analisi della struttura e delle popolazioni stellari delle galassie».

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Nicola R. Napolitano, Università degli Studi di Napoli Federico II

Come in tanti altri settori, il machine learning è una realtà sempre più concreta nell’ambito dell’astrofisica, non solo nell’analisi dei dati ma anche nel loro sfruttamento scientifico. Napolitano prosegue: «In questo lavoro abbiamo chiesto a Mela di mostrarci come otteneva i suoi risultati e quali fossero le osservabili che avessero più importanza per derivare le sue conclusioni. La cosa straordinaria è che abbiamo capito che Mela può capire la fisica delle gravità».

L’Inaf, e in particolare la sede di Napoli, vanta una storica expertise in materia di dinamica delle galassie con la partecipazione a progetti nati sul solco della tradizione delle fisica delle galassie. I ricercatori Italiani, in particolare Tortora e Napolitano, sono diventati, negli anni, specialisti a livello mondiale con collaborazioni con i gruppi di dinamica delle galassie più importanti nel contesto internazionale e con progetti, come Mela, che sono unici al mondo.

«Da questo lavoro abbiamo capito che l’intelligenza artificiale è pronta a imparare la fisica a partire dai dati», conclude Napolitano. «Nella fattispecie abbiamo verificato che Mela può utilizzare le leggi fisiche che conoscevamo, ma presto l’intelligenza artificiale potrà imparare anche la Fisica che non conosciamo».

Per saperne di più:


Una meteora sul golfo di Napoli


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Meteora sul golfo di Napoli, immortalata da Wang Letian l’8 febbraio 2024 dall’Isola di Capri, e diventata Apod della Nasa lo scorso 17 febbraio. Crediti: Wang Letian

Una strisciata nel cielo, una meteora che sembra cadere proprio sulla cima del Vesuvio, in una vista sognata fin da bambino. È questa la cornice della foto scattata da Wang Letian, e ritrovata fra le altre scattate la stessa notte solo il giorno dopo. L’immagine del golfo di Napoli segnato da questa meteora è stata scattata dall’Isola di Capri, dove Letian si trovava in vacanza, ed è stata scelta dalla Nasa come foto astronomica del giorno – Astronomy picture of the day, Apod – il 17 febbraio scorso.

Era inizio febbraio quando Wang Letian, classe 1985, responsabile finanziario di un’azienda che si occupa di tecnologia in Cina, ha deciso di festeggiare il Capodanno cinese facendo una vacanza in Italia.

«Quando ero bambino, ho letto un racconto di O. Henry, The last leaf», racconta Letian a Media Inaf. «Il protagonista dell’articolo è un pittore che spera di poter dipingere un giorno il golfo di Napoli. Anch’io desidero il paesaggio di Napoli fin da quando ero giovane. Quindi, questo viaggio è stato programmato appositamente per andare a Napoli e a Roma. La sera dell’8 febbraio mi trovavo in un appartamento sull’isola di Capri, che aveva un balcone che si affacciava proprio sul golfo di Napoli. Quella sera il tempo era un po’ nuvoloso ma, essendo un appassionato di astrofotografia, ho messo comunque un treppiede e una macchina fotografica sulla mensola del balcone».

Per scattare Letian ha utilizzato una Canon R5 e un obiettivo Sigma da 14 mm. Ha impostato la fotocamera in modalità di ripresa automatica e quello che sperava di catturare, racconta, era proprio una vista con un bolide sul golfo di Napoli.

«Ma l’apparizione di una meteora è imprevedibile, quindi ho impostato la fotocamera per effettuare scatti temporizzati e, di fatto, non ho visto nulla a occhio nudo», continua Letian. «Il giorno dopo, controllando le foto scattate, ho scoperto per caso questa meteora in uno degli scatti. Non avendo portato con me un computer durante il viaggio, non ho avuto modo di elaborare le foto fino al mio rientro. Sono tornato a Pechino il 15 febbraio dopo aver visitato diverse città vicino a Napoli, Pompei e Roma. Una volta a casa, ho elaborato le foto scattate e sono rimasto abbastanza soddisfatto del risultato. Per questo ho proposto la foto alla Nasa come Apod».

L’astrofotografia per Letian è, da sempre, un hobby che lo aiuta a rilassarsi dopo il lavoro e lo accompagna nelle serate, nei fine settimana e quando si trova in viaggio. Quello del Golfo di Napoli è stato uno scatto fortunato – ci dice – perché il tempo è stato brutto per tutti i giorni successivi a quella serata e, in generale, scattare foto astronomiche richiede anche una buona dose di fortuna.


Bennu, raccolti in tutto 121.6 grammi


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Gli otto vassoi contenenti il materiale finale dell’asteroide Bennu. La polvere e le rocce sono state versate nei vassoi dalla piastra superiore della testa del Tagsam. Da questo versamento sono stati raccolti 51,2 grammi, portando la massa finale del campione di asteroide a 121,6 grammi. Crediti: Nasa/Erika Blumenfeld & Joseph Aebersold

120 grammi. Meno di mezzo panetto di burro, quasi una tazza di farina 00, persino meno di uno yogurt in vasetto. Oppure, il peso totale del campione dell’asteroide Bennu raccolto dalla sonda Osiris-Rex nell’ottobre 2020. Sembra poco, se paragonato alle quantità elencate sopra, ma si tratta del più grande campione di asteroide mai raccolto nello spazio; inoltre, è il doppio del requisito primario della missione per raggiungere gli obbiettivi scientifici prefissati.

Sono 121.6 grammi, per la precisione. Li hanno pesati gli addetti alla manipolazione del campione al Johnson Space Center della Nasa, dopo aver rimosso la copertura della testa del campionatore lo scorso 10 gennaio 2024. Quando hanno aperto per la prima volta la copertura del contenitore scientifico di Osiris-Rex, il Touch-and-Go Sample Acquisition Mechanism (Tagsam), gli esperti si sono accorti che c’era del materiale aggiuntivo rimasto sul coperchio del raccoglitore vero e proprio. Hanno quindi cominciato ad analizzare quello, lo scorso ottobre 2023, prima di procedere all’effettiva apertura della capsula. Anche perché due delle viti di fissaggio si erano ancorate in maniera ostinata e hanno impedito di lavorare subito all’intero campione.

Nei 70.3 grammi di materiale bonus raccolto all’esterno erano stati trovati composti ricchi di carbonio e molti minerali argillosi contenenti acqua. Ora, i 51.3 grammi trovati all’interno sono stati disposti in vassoi appositi – quelli che vedete nell’immagine di destra – in attesa che comincino le attività scientifiche. Il 70 per cento del campione rimarrà al Johnson Space Center della Nasa e conservato per ulteriori ricerche da parte di scienziati di tutto il mondo, comprese le generazioni future.

La restante parte, invece, sarà containerizzato e distribuito per essere studiato dai ricercatori. Oltre 200 scienziati della missione Osiris-Rex provenienti da tutto il mondo esplorerà le proprietà della regolite, mentre in primavera verrà pubblicato un catalogo dei campioni che saranno disponibili per essere richiesti dalla comunità scientifica mondiale tramite proposte di analisi scientifiche competitive.

Bennu è un asteroide primitivo e potrebbe contenere al proprio interno materiale risalente ai primi istanti di vita del Sistema solare. Per questo, studiare questi campioni è così importante: potrebbe farci toccare con mano reperti provenienti dal nostro passato, aiutandoci a capire meglio come si è formato il Sistema solare e quali sono le nostre origini.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Kilonove, fabbriche di metalli pesanti


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Immagine artistica della danza ‘suicida’ di due stelle di neutroni prima di trasformarsi in kilonova. Crediti: Clara & Sofía López Martín (Freepik) / Alberto J. Castro-Tirado (IAA-CSIC/UMA)

Le kilonove, le esplosioni astronomiche che derivano dalla fusione di oggetti celesti super compatti, appartengono a una rara classe di eventi osservati nel cielo. Questi eventi catastrofici sono caratterizzati da lampi gamma (Gamma-ray bursts, Grb) brevi, che durano di solito meno di 2 secondi, tranne alcune eccezioni, tra cui il Grb 230307A piuttosto lungo – circa 40 secondi – rilevato nel 2023.

Yuhan Yang, postdoc in Astrofisica, ed Eleonora Troja, professoressa associata di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Roma Tor Vergata e associata all’Istituto Nazionale di Astrofisica, firmano un nuovo studio pubblicato su Nature che analizza l’evoluzione temporale delle kilonove e il loro coinvolgimento nella produzione di elementi pesanti, noti come lantanoidi o, più comunemente, terre rare. Questi metalli fanno parte della nostra quotidianità: si trovano negli smartphone, nelle lampade e nelle batterie delle auto elettriche.

Secondo gli astronomi, nei giorni successivi a un evento di fusione, l’evoluzione della kilonova è essenzialmente caratterizzata dal decadimento radioattivo degli elementi più pesanti del ferro, sintetizzati durante la fusione. Nel periodo che va da una settimana a un mese, ci si aspetta che il comportamento della kilonova diverga sulla base della composizione del materiale rilasciato e di ciò che rimane lì dove è avvenuta la fusione. «Di solito non si osservano le kilonove per così tanto tempo, ad eccezione di AT2017gfo, che è stata la prima e l’unica kilonova con segnali di onde gravitazionali finora osservata», spiega Yang. Negli anni passati il telescopio spaziale Spitzer aveva osservato AT2017gfo mesi dopo la fusione, ma sfortunatamente il debole segnale non aveva permesso di identificare la presenza di terre rare, lasciando comunque un pezzo mancante del puzzle.

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Immagine artistica di Grb 230307A. L’immagine è stata realizzata da Yuhan Yang grazie all’AI-tool Dreamina.

Nella ricerca pubblicata su Nature sono state invece riportate le osservazioni legate a Grb 230307A. L’inizio della kilonova è stato identificato dalle osservazioni di questo Grb dopo un giorno. Lo studio è stato prorogato per due mesi dopo il lampo gamma. La sensibilità e la visione multicolore del telescopio spaziale Hubble e del telescopio spaziale James Webb hanno permesso di risolvere un pezzo cruciale del puzzle, ovvero l’evoluzione ‘tardiva’ di una kilonova.

«È stato emozionante studiare una kilonova come mai l’abbiamo vista grazie ai potenti occhi dei telescopi Hubble e James Webb Space Telescope» ha commentato Eleonora Troja. «Nei primi pochi giorni il comportamento di una kilonova non varia a seconda della sua composizione chimica. Ci vogliono settimane per capire quali metalli sono stati forgiati nell’esplosione e noi non abbiamo mai avuto la possibilità di osservare una kilonova così a lungo. Ora per la prima volta abbiamo potuto verificare che i metalli più pesanti del ferro e dell’argento si sono formati davanti ai nostri occhi».

I ricercatori spiegano che il rapido processo di cattura dei neutroni, il cosiddetto processo r, produce elementi più pesanti del ferro. La presenza di terre rare derivate dal processo r è cruciale per spiegare la brillante luce infrarossa proveniente da Grb 230307A. Questo conferma che le kilonove giocano un ruolo significativo nella creazione degli elementi più pesanti nell’universo.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A lanthanide-rich kilonova in the aftermath of a long gamma-ray burst” di Yu-Han Yang, Eleonora Troja, Brendan O’Connor, Chris L. Fryer, Myungshin Im, Joe Durbak, Gregory S. H. Paek, Roberto Ricci, Clécio R. Bom, James H. Gillanders, Alberto J. Castro-Tirado, Zong-Kai Peng, Simone Dichiara, Geoffrey Ryan, Hendrik van Eerten, Zi-Gao Dai, Seo-Won Chang, Hyeonho Choi, Kishalay De, Youdong Hu, Charles D. Kilpatrick, Alexander Kutyrev, Mankeun Jeong, Chung-Uk Lee, Martin Makler, Felipe Navarete & Ignacio Pérez-García


Sardegna e Marocco “Sotto lo stesso cielo”


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I nove ragazzi della Sardegna in partenza dall’aeroporto di Cagliari (da sinistra: Giada, Alice, Cinzia, Chiara, Maria, Elena, Maria Chiara, Riccardo, Ivan e Francesco). Crediti: Paolo Soletta/Inaf Cagliari

L’Istituto nazionale di astrofisica è uno tra gli istituti pubblici con più collaborazioni internazionali al mondo, e i suoi 17 osservatori sparsi per l’Italia ospitano centinaia di ricercatori con un grande bagaglio di scienza ma anche di contatti personali che possono essere messi a disposizione delle comunità di appartenenza e della solidarietà internazionale. La storia del progetto “Sotto lo stesso cielo” nasce proprio così, dall’incontro fra l’Inaf e l’associazione Elda Mazzocchi Scarzella – piccola ma pragmatica associazione di mamme di Domusnovas, in Sardegna, in cerca di un partner per partecipare a un bando della Regione Sardegna che finanzia progetti tra l’isola e il resto del mondo, con un particolare riguardo all’area mediterranea.

L’associazione Elda ha dunque contattato l’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Cagliari, ed è stato così possibile individuare un partner in Marocco grazie a un incontro, durante una summer school organizzata nel luglio 2023 dall’Unione astronomica internazionale (Iau), tra Silvia Casu, astrofisica responsabile della divulgazione e didattica dell’Inaf di Cagliari, e Jalili Qawtar, educatrice e programmatrice dell’università di Al Akhawayn a Ifrane, in Marocco. Grazie a questa fortunata congiunzione è stato possibile approntare “Sotto lo stesso cielo”, un progetto piccolo (circa 60mila euro) ma piuttosto articolato che prevede uno scambio giovanile tra nove ragazze e ragazzi di Musei, Domusnovas, Iglesias e Villamassargia con sei loro coetanei, soprattutto ragazze, della municipalità di Ifrane.

Saranno le donne importanti e il cielo stellato i fili conduttori della narrazione che accomuneranno questi giovani nelle tante attività previste: astronomia e coding ma anche teatro, empowerment femminile e arte muraria. Alla fine del progetto è prevista una pièce teatrale a cura di Teatro Impossibile e due murales: uno a tema sardo a Ifrane, l’altro a tema marocchino a Musei, piccolo comune capofila del progetto, grazie alla disponibilità e lungimiranza del giovane sindaco Sasha Sais.

«L’importanza della ‘A’ di art nelle discipline Steam (science, technology, engineering, art and mathematics)», dice Silvia Casu, «è stata riconosciuta solo recentemente. Grazie a progetti come questo possiamo mostrare come arte e scienza siano invece complementari e integranti e come l’arte fornisca una prospettiva unica per parlare di scienza e per mostrare l’importanza della creatività. Inaf in particolare lavora da anni su queste tematiche, grazie anche all’opera del Centro italiano dell’Office of Astronomy for Education dell’Iau, che ha promosso la creazione di una rete di collaborazioni nel Mediterraneo e un processo creativo e collaborativo di progettazione di attività astronomiche. Ed è interessante per noi mettere alla prova alcune di queste attività con gli adolescenti di paesi e culture diverse».

La prima missione del partenariato italiano in Marocco è stata realizzata dal 17 al 22 gennaio 2024 ed è servita anzitutto per poter conoscere i partecipanti di Ifrane e formarli sul concetto di cooperazione internazionale, onere toccato a Roberto Copparoni dell’associazione Amici senza confini di Cagliari. Inoltre è stata l’occasione per far conoscere sindaci e funzionari dei comuni di Musei e Ifrane, anche in vista di eventuali future collaborazioni in altri ambiti, come la raccolta dei rifiuti o la gestione dell’acqua pubblica. Infine, era necessario conoscere i luoghi per poter organizzare il soggiorno dei giovani protagonisti durante la seconda missione, in partenza proprio oggi, mercoledì 21 febbraio.

«Il viaggio è uno strumento educativo che l’associazione Elda inserisce in tutti i suoi progetti», spiega la coordinatrice del progetto, Maria Giovanna Dessì, «in quanto stimolare la curiosità e favorire la bellezza dell’incontro tra ragazzi diversi e distanti è fondamentale per avere cittadini consapevoli del proprio territorio e pronti a conoscerne altri. Dopotutto, sono proprio le diversità che rendono il mondo un’autentica meraviglia, così come il progetto “Sotto lo stesso cielo” vuole comunicare, nel suo senso più profondo».


Dall’asteroide alla palla di neve


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Illustrazione artistica della Terra “a palla di neve”, senza acqua liquida sulla superficie. Crediti: Oleg Kuznetsov/Wikipedia.

Secondo la teoria della Terra a palla di neve, in epoche molto remote il nostro pianeta avrebbe attraversato periodi di glaciazione su scala globale che rappresentano i cambiamenti climatici più marcati della storia della Terra. Riguardo questa teoria – ancora molto discussa tra gli scienziati – ha preso posizione un gruppo di ricerca dell’Università di Yale in collaborazione con le università di Chicago e Vienna, in uno studio pubblicato recentemente su Science Advances.

È noto fin dagli anni ’60 che se la Terra a un certo punto fosse diventata sufficientemente fredda, l’alta riflettività della neve e del ghiaccio avrebbe potuto creare un ciclo di feedback ghiaccio-albedo che avrebbe creato ancora più ghiaccio marino e un ulteriore abbassamento delle temperature, fino a causare una glaciazione completa del pianeta. Queste condizioni si sono verificate almeno due volte durante l’era Neoproterozoica della Terra, da 720 a 635 milioni di anni fa. Tuttavia, a oggi non è chiaro cosa abbia dato inizio a questi periodi di freddo globale, noti come eventi della “Terra a palla di neve”. La maggior parte delle teorie si è concentrata sull’idea che i gas serra nell’atmosfera siano in qualche modo diminuiti a tal punto da dare inizio a un profondo inverno (la fase “palla di neve”, appunto).

«E se fosse stato un impatto extraterrestre ad avere causato queste transizioni climatiche in modo molto brusco?» si chiede Minmin Fu dell’Università di Yale, primo autore dello studio. Secondo l’ipotesi sostenuta dal suo gruppo di ricerca, l’impatto di un asteroide di dimensioni paragonabili a Chicxulub potrebbe essere stato in grado di indurre un abbassamento drastico delle temperature innescando quindi una glaciazione globale a causa dell’effetto feedback.

Per dimostrare questa tesi, i ricercatori hanno utilizzato un sofisticato modello climatico che simula sia la circolazione atmosferica e oceanica, sia la formazione del ghiaccio marino in diverse condizioni. Il modello è stato applicato alle conseguenze di un ipotetico impatto in quattro distinti periodi: preindustriale (150 anni fa), Ultimo massimo glaciale (21mila anni fa), Cretaceo (145 – 66 milioni di anni fa) e Neoproterozoico (1 miliardo – 542 milioni di anni fa). Per due degli scenari climatici più caldi (nel Cretaceo e nell’era preindustriale), un bombardamento di asteroidi in grado di innescare una glaciazione globale è ritenuto improbabile ma nell’Ultimo massimo glaciale e nel Neoproterozoico, in cui la temperatura terrestre poteva essere già abbastanza fredda da essere considerata un’era glaciale, l’impatto di un asteroide avrebbe potuto far precipitare la Terra in uno stato di “palla di neve”.

«Ciò che mi ha sorpreso di più dei nostri risultati è che, date le condizioni climatiche iniziali sufficientemente fredde, uno stato “a palla di neve” dopo l’impatto di un asteroide possa svilupparsi nel giro di un solo decennio», dichiara Alexey Fedorov dell’Università di Yale, coautore dell’articolo. «In quella fase, lo spessore del ghiaccio marino all’equatore potrebbe essere di circa dieci metri, da confrontare con uno spessore di ghiaccio marino tipico di uno o tre metri nell’Artico moderno».

Poiché il modello climatico utilizzato nello studio è lo stesso che viene utilizzato per prevedere gli scenari climatici futuri, verrebbe da chiedersi quale sia la possibilità di un periodo di “Terra a palla di neve” indotto da un asteroide negli anni a venire. Per i ricercatori si tratta di un evento molto improbabile – anche a causa del riscaldamento del pianeta causato dall’uomo – ma indubbiamente analoghi impatti potrebbero essere altrettanto devastanti.

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Marziani per un anno: la Nasa ne vuole quattro


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La Nasa cerca quattro marziani. Quattro persone disposte a trascorrere un intero anno ininterrottamente a Mars Dune Alpha. Requisiti: essere cittadini statunitensi (o con permesso di residenza permanente, dunque con Green Card), sani e motivati, non fumatori e di età compresa tra i 30 e i 55 anni. È richiesta anche una buona conoscenza della lingua inglese, così da poter comunicare senza difficoltà con i compagni di equipaggio e con il centro di controllo della missione. Motivati, dicevamo: la voglia di vivere avventure uniche e gratificanti non può mancare, sottolinea l’agenzia, così come l’interesse a contribuire all’impegno della Nasa nella preparazione del primo viaggio umano su Marte.

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Rendering di Mars Dune Alpha. Crediti: Icon

Già, perché Chapea – questo il nome della missione – è “solo” un programma propedeutico alle future vere missioni verso il Pianeta rosso. E Mars Dune Alpha altro non è se non una sorta di loft ipertecnologico stampato in 3D, poco più di 150 metri quadri calpestabili, situato al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Un ambiente progettato nei minimi dettagli per simulare quelle che si prevede saranno le principali sfide di una vera missione su Marte: risorse con il contagocce, dispositivi che si guastano, una ventina di minuti in media di latenza nelle comunicazioni e altri fattori di stress ambientale. Tra i compiti dell’equipaggio non mancheranno passeggiate spaziali simulate, operazioni robotiche, attività di manutenzione, esercizio fisico, coltivazione d’ortaggi e altre colture.

Insomma, per passare la selezione anche il pollice verde può essere d’aiuto. Ma certo non basterà: i criteri di selezione, chiarisce infatti la Nasa, saranno infatti più o meno quelli richiesti anche agli aspiranti astronauti. Più precisamente: una laurea magistrale in una disciplina Stem rilasciata da un istituto accreditato e almeno due anni di esperienza professionale sempre in ambito Stem o, in alternativa, almeno mille ore di volo come pilota. Saranno presi in considerazione anche i candidati che abbiano completato almeno due anni di dottorato, sempre in discipline Stem, oppure che abbiano conseguito una laurea in medicina o, infine, che abbiano completato con successo un corso per piloti collaudatori. Se poi gli anni di esperienza professionale sono almeno quattro, potranno fare domanda anche gli ufficiali militari e chi è in possesso della sola laurea breve, sempre in una disciplina Stem.

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L’equipaggio della prima missione Chapea (da sinistra: Nathan Jones, Ross Brockwell, Kelly Haston e Anca Selariu). Crediti: Nasa/Josh Valcarcel

La squadra che supererà la selezione prenderà possesso di Mars Dune Alpha nella primavera del 2025, raccogliendo il testimone dai precedenti quattro “marziani”, quelli della prima edizione del programma Chapea: Nathan Jones, Ross Brockwell, Kelly Haston, Anca Selariu.

Termine ultimo per presentare le domande: martedì 2 aprile 2024. Ah, è previsto anche un compenso economico, ma la Nasa non ne specifica l’ammontare: maggiori informazioni, si legge nel sito, saranno fornite durante il processo di selezione dei candidati.


Italia-Sudafrica, accordo tra Inaf e Sarao


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In primo piano, da sinistra, Pontsho Maruping (managing director di Sarao) e Filippo Maria Zerbi (direttore scientifico di Inaf). Alle spalle di Zerbi l’ambasciatore d’Italia in Sudafrica Alberto Vecchi. Crediti: G. Umana/Inaf

È stato firmato presso la sede di Città del Capo in Sudafrica di Sarao (South African Radio Astronomy Observatory) un accordo per la formazione e la mobilità di ricercatori tra Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e Sarao. Presenti alla firma l’ambasciatore d’Italia Alberto Vecchi e il direttore scientifico di Inaf Filippo Maria Zerbi, che ha siglato l’accordo insieme alla managing director di Sarao, Pontsho Maruping.

L’investimento da parte di Inaf sarà di 350mila euro. Inaf rappresenta il governo italiano nello Square Kilometer Array Observatory (Skao), organizzazione inter-governativa creata a Roma nel 2019, di cui sono membri, oltre all’Italia, anche Australia, Cina, Olanda, Portogallo, Sudafrica, Regno Unito, Spagna e Svizzera, e che comporta un impegno finanziario per l’Italia di circa 120 milioni di euro in dieci anni (2021-2030). Nel progetto originale del Sudafrica ci sono 64 telescopi di avanguardia il cui insieme è stato chiamato MeerKat, il nome di una piccola mangusta diffusa nella zona di installazione delle antenne a 600 chilometri da Città del Capo.

L’Italia contribuisce con il MeerKat+, che aggiunge al radio telescopio MeerKat ulteriori 14 antenne in collaborazione con il tedesco Istituto Max Planck. I fondi italiani contribuiti via Inaf per la nuova installazione sono 6 milioni di euro. Le antenne saranno consegnate e installate entro la fine del 2024 e operative entro il 2025.

L’ambasciatore Vecchi ha ospitato la comunità scientifica in una serata in concomitanza con l’apertura del convegno Meerkat@5, che si tiene a Stellenbosch tra il 20 e il 23 febbraio. Vecchi ha ricordato gli impegni congiunti tra Italia e Sudafrica e ha assicurato che il supporto di Inaf continuerà nel futuro. «In un mondo incerto c’è un disperato bisogno di esempi di cooperazione e di questo accordo possiamo essere orgogliosi», ha detto.

Per Pontsho Maruping, managing director di Sarao, «il rapporto tra Italia e Sudafrica è importante perché lavoriamo insieme allo sviluppo di funzionalità aggiuntive sulle parabole MeerKat. Siamo ora in fase di progettazione di ricevitori Banda 5 che daranno al telescopio un’ulteriore modalità di osservazione. Si avrà così un incremento di conoscenze per la prossima fase del telescopio Skao».

Il direttore scientifico di Inaf Filippo Maria Zerbi ha detto di essere «molto lieto di celebrare un ulteriore passo nella collaborazione diplomatico-scientifica tra Italia e Sudafrica, in particolare nel settore della radio astronomia, che promette grandi risultati».

Fonte: Ansa


Nestar, una matrioska di gravastar


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Secondo la scoperta dei fisici della Goethe University di Francoforte, una nestar potrebbe assomigliare a una bambola matrioska di gravastar. Crediti: Daniel Jampolski e Luciano Rezzolla, Università Goethe di Francoforte

Per la scienza, l’interno dei buchi neri è un vero enigma. Nel 1916, il fisico tedesco Karl Schwarzschild delineò una soluzione alle equazioni della relatività generale di Einstein, secondo la quale il centro di un buco nero consiste in una cosiddetta singolarità, un punto in cui spazio e tempo non esistono più. Qui, secondo la teoria, tutte le leggi fisiche, compresa la teoria generale della relatività di Einstein, non si applicano più e il principio di causalità è sospeso. Nessuna informazione può uscire dal cosiddetto orizzonte degli eventi del buco nero e la singolarità costituisce una bella seccatura per gli scienziati. Potrebbe essere per questo motivo che la soluzione di Schwarzschild non attirò particolare attenzione al di fuori dell’ambito teorico per molto tempo, cioè fino alla scoperta del primo candidato buco nero nel 1971, seguita dalla scoperta del buco nero al centro della Via Lattea negli anni 2000 e infine dalla prima immagine di un buco nero, catturata dalla Event Horizon Telescope Collaboration nel 2019.

Nel 2001, Pawel Mazur ed Emil Mottola hanno proposto una soluzione diversa alle equazioni di campo di Einstein che ha portato a oggetti che hanno chiamato gravitational vacuum star, o gravastar. A differenza dei buchi neri, le gravastar presentano diversi vantaggi dal punto di vista dell’astrofisica teorica. Da un lato, sono compatte quasi quanto i buchi neri e sono caratterizzate da una gravità sulla loro superficie forte quanto quella di un buco nero. D’altra parte, le gravastar non hanno un orizzonte degli eventi, cioè un confine dal quale non è possibile inviare informazioni, e il loro nucleo non presenta una singolarità. Il centro delle gravastar infatti è costituito da un’energia esotica – oscura – che esercita una pressione negativa in contrapposizione all’enorme forza gravitazionale che comprime la stella. La superficie delle gravastar è rappresentata da una sottilissima crosta di materia ordinaria, il cui spessore si avvicina allo zero.

In un nuovo studio pubblicato su Classical Quantum Gravity i due fisici teorici Daniel Jampolski e Luciano Rezzolla della Goethe University di Francoforte hanno presentato una soluzione alle equazioni di campo della relatività generale che descrive l’esistenza di una gravastar all’interno di un’altra gravastar. A questo ipotetico oggetto celeste hanno dato il nome di nestar (dall’inglese nested, annidato).

«La nestar è come una bambola matrioska», spiega Jampolski, che ha scoperto la soluzione nell’ambito della sua tesi di laurea triennale, sotto la supervisione di Rezzolla. «La nostra soluzione alle equazioni di campo permette un’intera serie di gravastar annidate». Mentre Mazur e Mottola sostengono che la gravastar abbia una crosta infinitamente sottile costituita da materia normale, nella nestar il guscio di materia è un po’ più spesso: «È un po’ più facile immaginare che qualcosa del genere possa esistere».

«È bello che anche 100 anni dopo che Schwarzschild ha presentato la sua prima soluzione alle equazioni di campo di Einstein della teoria generale della relatività, sia ancora possibile trovare nuove soluzioni. È un po’ come trovare una moneta d’oro lungo un sentiero già esplorato da molti altri. Purtroppo, non abbiamo ancora idea di come si possa creare una gravastar di questo tipo. Ma anche se le nestar non esistessero, esplorare le proprietà matematiche di queste soluzioni ci aiuta a capire meglio i buchi neri», conclude Rezzolla.

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Quasar da record: è il più luminoso e il più vorace


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Rappresentazione artistica del quasar J059-4351, il nucleo luminoso di una lontana galassia alimentata da un buco nero supermassiccio. Grazie al Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile, questo quasar è risultato essere l’oggetto più luminoso a oggi conosciuto nell’Universo. Il buco nero supermassiccio, che si vede qui mentre attrae la materia circostante, ha una massa pari a 17 miliardi di volte quella del Sole e sta crescendo in massa l’equivalente di un Sole al giorno, il che lo rende il buco nero con la crescita più rapida mai conosciuto. Crediti: Eso/M. Kornmesser

Utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (l’Osservatorio Europeo Australe), alcuni astronomi hanno caratterizzato un quasar brillante, trovando che non solo è il più brillante della sua classe, ma anche l’oggetto più luminoso mai osservato. I quasar sono i nuclei luminosi di galassie distanti e sono alimentati da buchi neri supermassicci. La massa del buco nero di questo quasar da record cresce dell’equivalente di un Sole al giorno, rendendolo il buco nero con la crescita più rapida trovato fino a oggi.

I buchi neri che alimentano i quasar raccolgono la materia dall’ambiente circostante in un processo così energetico da emettere grandi quantità di luce, così che i quasar sono tra gli oggetti più luminosi nel cielo, permettendo che anche quelli distanti siano visibili dalla Terra. Come regola generale, i quasar più luminosi indicano i buchi neri supermassicci che crescono più rapidamente.

«Abbiamo scoperto il buco nero con la crescita più rapida finora conosciuto. Ha una massa di 17 miliardi di volte quella del nostro Sole e si nutre con poco più di un Sole al giorno. Questo lo rende l’oggetto più luminoso dell’universo conosciuto», dice Christian Wolf, astronomo all’Università nazionale australiana (Anu) e autore principale dello studio pubblicato oggi su Nature Astronomy. Il quasar, chiamato J0529-4351, è così lontano dalla Terra che la sua luce ha impiegato oltre 12 miliardi di anni per raggiungerci.

La materia attirata verso questo buco nero, sotto forma di disco, emette così tanta energia che J0529-4351 è oltre 500mila miliardi di volte più luminoso del Sole. «Tutta questa luce proviene da un disco di accrescimento caldo che misura sette anni luce di diametro: deve essere il disco di accrescimento più grande dell’universo», dice Samuel Lai, dottorando all’Anu e coautore dell’articolo. Sette anni luce equivalgono a circa 15mila volte la distanza dal Sole all’orbita di Nettuno.

E, cosa sorprendente, questo quasar da record era solo apparentemente nascosto. «È una sorpresa che sia rimasto sconosciuto fino a oggi, quando conosciamo già un milione circa di quasar meno notevoli. Finora ci ha guardato letteralmente negli occhi!», dice il coautore Christopher Onken, astronomo all’Anu. Aggiunge che questo oggetto compare nelle immagini della Schmidt Southern Sky Survey dell’Eso, risalente al 1980, ma non è stato riconosciuto come quasar fino a decenni dopo.

Trovare quasar richiede dati osservativi precisi da vaste aree del cielo. Gli insiemi dei dati risultanti sono così grandi che i ricercatori spesso utilizzano modelli di apprendimento automatico (machine learning) per analizzarli e distinguere i quasar da altri oggetti celesti. Tuttavia, questi modelli vengono addestrati su dati esistenti, il che limita i potenziali candidati a oggetti simili a quelli già noti. Se un nuovo quasar fosse più luminoso di tutti quelli osservati in precedenza, il programma potrebbe rifiutarlo e classificarlo invece come una stella non troppo distante dalla Terra.

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Questa immagine mostra la regione del cielo in cui si trova il quasar J0529-4351. È stata prodotta da immagini della Digitized Sky Survey 2, mentre l’inserto mostra la posizione del quasar in un’immagine della Dark Energy Survey. Crediti: Eso/Digitized Sky Survey 2/Dark Energy Survey

Un’analisi automatizzata dei dati del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea ha escluso J0529-4351 perché troppo luminoso per essere un quasar, suggerendo invece che fosse una stella. I ricercatori lo hanno identificato come un quasar distante l’anno scorso, utilizzando le osservazioni del telescopio Anu da 2,3 metri di diametro, presso l’Osservatorio di Siding Spring, in Australia. Scoprire che si trattava del quasar più luminoso mai osservato, tuttavia, ha richiesto un telescopio più grande e misure effettuate con uno strumento più preciso. Lo spettrografo X-Shooter installato sul Vlt dell’Eso nel deserto cileno di Atacama ha fornito i dati cruciali.

Il buco nero con la crescita più rapida mai osservato sarà anche un obiettivo perfetto per quando l’aggiornamento di Gravity+ installato sul VltI (l’interferometro del Vlt) dell’Eso, progettato per misurare con accuratezze la massa dei buchi neri, compresi quelli lontani dalla Terra. Inoltre, l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, un telescopio di 39 metri di diametro in costruzione nel deserto cileno di Atacama, renderà ancora più fattibile l’identificazione e la caratterizzazione di tali oggetti sfuggenti.

Trovare e studiare i buchi neri supermassicci distanti potrebbe far luce su alcuni dei misteri dell’universo primordiale, tra cui il modo in cui essi e le galassie che li ospitano si sono formati ed evoluti. Ma non è l’unico motivo per cui Wolf li cerca. «Personalmente, mi piace semplicemente la caccia», dice. «Per qualche minuto al giorno mi sento di nuovo un bambino, mentre gioco alla caccia al tesoro, mettendo in gioco tutto quello che ho imparato da allora».

Fonte: comunicato stampa Eso

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Agile, un satellite in famiglia


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Da sinistra, Carlotta Pittori e Francesca Tamburelli ai laboratori di Frascati con il payload di Agile in fase di calibrazione (in secondo piano altri colleghi). Crediti: Inaf

Ora che Agile è tornato rientrando nell’oceano, ho pensato di scrivere una lettera a mia figlia chiedendole: com’è stato crescere dai 3 ai 27 anni con un fratello satellite in famiglia?

Ho iniziato ad avere a che fare con il “concepimento” di Agile nel 1999 (e c’è chi ha cominciato anche qualche anno prima di me!). Eravamo nella cosiddetta Fase A della missione, la fase di studio e progettazione del satellite. Si simulavano i dati, si cercava di capire come ottimizzare il software che sarebbe stato installato poi sul computer di bordo. Un computer dell’epoca, con capacità di calcolo e memoria inferiori anche solo in confronto ai moderni smartphone, ma con un sistema di gestione dei dati unico sviluppato in quegli anni, molto flessibile e in grado di gestire le complesse operazioni dello strumento scientifico che poi è stato installato a bordo e che ha funzionato con successo per più di 16 anni.

Poi c’è stato il periodo di preparazione del centro dati di Agile presso l’Asi Science Data Center (Asdc, ora Ssdc) che avrebbe accolto e gestito tutti i dati scientifici della missione. Ho iniziato a partecipare a questa avventura fin dal 2003 e ho avuto la fortuna di conoscere colleghi da cui ho imparato molto. Nomino solo una persona qui, Francesca Tamburelli della Telespazio, che è purtroppo scomparsa prematuramente pochi mesi dopo il lancio di Agile, nel 2007. Francesca, anche grazie alla sua precedente esperienza con il satellite Beppo-Sax, ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione del centro dati di Agile e da lei ho imparato tanto professionalmente quanto e soprattutto umanamente, una grande lezione di vita con il suo modo di affrontare la malattia senza mai perdere la gioia di vivere e la sua professionalità nel lavoro fino alla fine. Indimenticabili sono stati i suoi preziosi consigli dalla stanza di ospedale.

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Rappresentazione artistica del satellite Agile, telescopio spaziale interamente made in Italy, in orbita attorno alla Terra. Crediti: Asi

Ed eccoci arrivati alla data di lancio: 23 aprile 2007. Io ero presente con i colleghi al centro di controllo di Telespazio al Fucino, con Francesca collegata al mio telefono. Un’emozione non facilmente descrivibile. Abbiamo assistito in diretta al lancio, che è avvenuto alle 12:00 circa (ora italiana) dalla base di Shriharikota, in India. Abbiamo seguito con gli occhi incollati ai monitor e il fiato sospeso il puntino luminoso che tracciava la posizione del satellite Agile in viaggio verso la sua orbita finale seguendo perfettamente le linee di previsione: più di 8 anni di lavoro appesi a un filo. Se qualcosa va male in questa fase non si può far nulla, non si potrà intervenire per riparare qualcosa come per un qualunque esperimento sulla Terra. C’è solo da aspettare. Ventitré minuti dopo Agile è entrato nella sua orbita attorno all’equatore a circa 550 km di altezza. Ma la sua nascita non era ancora conclusa: doveva ancora accendersi e dimostrare di funzionare, che per noi equivaleva ancora a una attesa di circa 90 interminabili minuti, quando infine alle 13:30 ha mandato a Terra tramite la stazione di Asi-Malindi i suoi primi impulsi! I dati sono rimbalzati prima al Fucino e poi arrivati al nostro centro dati, dove abbiamo potuto osservare commossi il primo fotone rilevato, tutto funzionava secondo le migliori aspettative.

E così è iniziata una storia di successo scientifico e tecnologico italiano durata quasi 17 anni, dimostrazione delle capacità che l’Asi, l’Inaf, l’Infn, l’università e l’industria hanno quando riescono a fare squadra.

Non parlerò qui degli importanti risultati di Agile, voglio solo dire che ho avuto il privilegio di vivere circa 17 anni con un satellite in orbita, che costituiva per me e il resto del team un occhio aperto in tempo (quasi) reale sull’universo e sui suoi fenomeni più energetici. Pochi hanno una tale fortuna. Mi mancherà molto.

Terminate le osservazioni, si apre ora una nuova fase di intenso lavoro sull’eredità di Agile, un ricco archivio scientifico di circa 17 anni di dati: attenzione, Agile può ancora riservarci future sorprese!


L’acqua degli asteroidi aridi


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La composizione dei pianeti del Sistema solare cambia in funzione della distanza dal Sole: i pianeti più interni come Mercurio, Venere, Terra e Marte sono di piccole dimensioni, ad alta densità, con atmosfere rarefatte e sono poveri d’acqua. Al contrario Giove, Saturno, Urano e Nettuno sono pianeti di grandi dimensioni, a bassa densità, ricchi di gas e materiale volatile con satelliti ricchissimi d’acqua, basta pensare a Europa ed Encelado. Un andamento analogo vale anche per gli asteroidi, la cui composizione cambia in funzione della distanza di formazione dal Sole: i corpi che si sono formati più vicini al Sole sono fatti per lo più di silicati, mentre quelli più distanti dal Sole hanno anche una componente di materiali volatili come l’acqua. Ad esempio, il maggiore asteroide di tipo C, Hygiea, ha un diametro dell’ordine di 430 km è composto di un materiale simile a quello delle meteoriti del tipo condrite carbonacea e sulla superficie sono stati rilevati composti alterati dalla presenza di acqua. Anche sull’asteroide carbonaceo Themis (diametro di circa 200 km), nel 2009 è stata rilevata la presenza di ghiaccio d’acqua in superficie. La distribuzione dell’acqua sugli asteroidi è di particolare interesse perché può far luce su come l’acqua sia stata portata sulla Terra, con implicazioni importanti anche per i pianeti che si trovano nella fascia di abitabilità di altre stelle. In effetti, in base al diverso rapporto deuterio/idrogeno dell’acqua delle comete rispetto a quella degli oceani terrestri, si pensa che l’acqua sia stata portata sul nostro pianeta per lo più in seguito alle collisioni con asteroidi primordiali di tipo C avvenute quasi cinque miliardi di anni fa.

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Lo Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy (Sofia) della Nasa utilizzato per le detection dell’acqua sugli asteroidi di tipo S. Crediti: Nasa/Carla Thomas/SwRI

Chiaramente gli asteroidi che hanno portato l’acqua sulla Terra sono andati distrutti al momento della “consegna”, ma è possibile andare alla ricerca dei loro “cugini” che sono riusciti a sopravvivere, come è stato fatto per Hygiea e Themis. Durante l’evoluzione del Sistema solare, questi asteroidi hanno subito alterazioni acquose, formando fillosilicati, solfati, ossidi, carbonati, idrossidi e i composti possono essere identificati mediante la spettroscopia nel visibile e nel vicino infrarosso nel range 0,4–4,0 μm. Un metodo ampiamente utilizzato per determinare l’eventuale idratazione degli asteroidi è attraverso il rilevamento di una caratteristica banda di assorbimento nell’infrarosso alla lunghezza d’onda di 3 μm.

Questa banda è dovuta all’assorbimento della radiazione solare da parte dello stato vibrazionale fondamentale del legame O–H e può essere causata da qualsiasi molecola che abbia O e H, come l’acqua (H2O) o l’idrossile (OH). Tuttavia ci sono altre molecole che hanno bande di assorbimento in questa regione, come lo ione ammonio, il metano e composti organici complessi, rendendo complicata l’identificazione della molecola che crea la banda. Sono stati scoperti centinaia di asteroidi che hanno questo assorbimento e per lo più si tratta di corpi carbonacei di tipo C: sono asteroidi primitivi che si sono formati lontano dal Sole, quindi che abbiano la banda di assorbimento a 3 μm, che potrebbe essere dovuta all’acqua, non sorprende.

Più recentemente però è stata riscontrato l’assorbimento a 3 μm anche nel caso degli asteroidi di tipo S, quelli propriamente rocciosi da cui si originano le meteoriti del tipo condrite ordinaria che, essendosi formati più vicino al Sole, dovrebbero essere molto poveri d’acqua. Si tratta degli asteroidi Iris, Melpomene e Massalia, ma come risolvere l’ambiguità nella specie molecolare? In realtà basta spostarsi di qualche micron verso lunghezze d’onda maggiori e si arriva a una banda a 6 μm, dovuta al livello energetico vibrazionale del legame H-O-H. A questa lunghezza d’onda non ci sono interferenze con altre molecole e la sua presenza indicherebbe sicuramente l’esistenza di acqua alla superficie dell’asteroide. Alla temperatura degli asteroidi main belt la banda a 6 μm è in emissione e non in assorbimento.

Le osservazioni infrarosse sugli asteroidi di tipo S alla ricerca della emissione a 6 μm sono state fatte da un team di ricercatori guidato da Anicia Arredondo (Southwest Research Institute), fra gennaio e maggio 2022, utilizzando la Faint Object infraRed CAmera di Sofia, lo Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy. Si tratta di un telescopio del diametro di 2,5 metri che vola su un Boeing 747 – oppurtunamente modificato – a 12 km di quota, così da trovarsi al di sopra dello strato di vapore acqueo della troposfera e poter osservare il cielo nell’infrarosso nel range da 1 a 210 μm. Per gli asteroidi di tipo S le osservazioni sono state fatte fra 4,9 e 13,7 μm e per mettere in evidenza l’emissione a 6 μm è stato necessario mettere a punto un modello della luce solare riflessa dalla superficie dell’asteroide per toglierne il contributo. In questo modo sono usciti dei forti picchi di emissione per Iris e Massalia, mentre per Melpomene lo spettro è troppo rumoroso per poter dire qualcosa. Le abbondanze d’acqua stimate per i due asteroidi di tipo S sono di 454 ± 202 μg/g per Iris e 448 ± 209 μg/g per Melpomene, valori simili a quelli trovati da Sofia in uno dei più grandi crateri dell’emisfero meridionale della Luna.

Quindi l’acqua c’è, ma non bisogna immaginarsi l’esistenza di pozze d’acqua libere: sugli asteroidi l’acqua può essere legata ai minerali di superficie così come adsorbita dai silicati oppure intrappolata o disciolta nei vetri da impatto. Per ricavare un grammo di acqua su Iris sarebbe necessario trattare 2,2 kg di materiale quindi, per ottenerne un litro, supponendo di avere un rendimento del processo di estrazione del 100 per cento, bisognerebbe scavarne più di 2 tonnellate. In ogni caso si tratta della prima detection senza ambiguità della presenza di acqua anche negli asteroidi di tipo S. Adesso saranno necessarie osservazioni mirate con il telescopio spaziale infrarosso Webb per confermare i risultati e allargare la statistica su altri asteroidi “aridi”.

Per saperne di più:

Guarda l’intervista a Davide Perna (Inaf) andata in onda il 13/2/2024 su Tgr Leonardo:

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Onu: costellazioni satellitari e astronomia in agenda


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Dopo intense discussioni, la Commissione delle Nazioni Unite sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico (Copuos) ha deciso di inserire nella sua agenda provvisoria per i prossimi cinque anni un punto dal titolo “Dark and Quiet Skies, astronomy and large constellations: addressing emerging issues and challenges”. In qualità di massimo organo delle Nazioni Unite per le questioni spaziali, con delegati provenienti da oltre 102 Paesi, il Copuos si occupa di tutti i temi legati alla cooperazione internazionale e all’esplorazione dello spazio e dei corpi planetari, tra cui il dispiegamento di satelliti, la mitigazione dei detriti spaziali, la sostenibilità a lungo termine dello spazio e l’uso degli slot orbitali.

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Un arcobaleno cosmico sopra il Very Large Telescope. Crediti: Eso/P. Horálek

La proposta, sostenuta da Cile e Spagna – entrambi paesi che ospitano importanti infrastrutture astronomiche internazionali – e dalla comunità astronomica, ha ricevuto un ampio sostegno ed è stata co-firmata da numerose delegazioni [fra le quali l’Italia, ndr]. L’Unione astronomica internazionale (Iau), l’Osservatorio europeo australe (Eso), la Società astronomica europea (Eas) e lo Square Kilometre Array Observatory (Skao), tutti osservatori permanenti della Commissione, hanno incoraggiato e sostenuto gli sforzi.

«Questo è un momento diplomatico importante per l’astronomia», ha dichiarato Richard Green, direttore ad interim del Cps (Centre for the Protection of the Dark and Quiet Sky from Satellite Constellation Interference) dell’Unione astronomica internazionale. «Dal lancio della prima costellazione nel 2019, abbiamo lavorato duramente per sensibilizzare tutte le parti interessate, e a tutti i livelli, su questo tema. È molto gratificante vedere che le Nazioni Unite ne riconoscono l’importanza e accettano di esaminare le questioni e le sfide poste dalle grandi costellazioni».

La bozza dell’agenda provvisoria sarà sottoposta all’approvazione dell’intera Commissione a giugno. Avendovi dedicato un punto all’ordine del giorno, ci sarà più tempo per discussioni approfondite tra le delegazioni, con l’obiettivo finale di sviluppare e concordare le raccomandazioni da far adottare agli Stati membri.

Questo recente successo riflette l’aumentato riconoscimento dell’importanza di preservare cieli bui e silenziosi sia per la ricerca astronomica che per il patrimonio culturale dell’umanità. Il sostegno a queste iniziative è cresciuto costantemente in seno al Copuos negli ultimi due anni. Lo scorso ottobre, in occasione di una riunione di esperti dell’Iau sulle costellazioni satellitari, le delegazioni di Spagna e Cile hanno lanciato un Group of Friends del cielo buio e silenzioso per la scienza e la società, al quale il Cps fornisce la segreteria tecnica. Il gruppo comprende già 16 delegazioni e 6 osservatori permanenti ed è stato riconosciuto come un forum prezioso in cui discutere la questione fino alla prossima sessione della Commissione.

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L’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna, in Austria, ospita l’Unoosa (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico) e le riunioni della Commissione del Copuos. Crediti: Iau Cps/M. Isidro (Skao)

«Il Cile attribuisce grande importanza alla protezione degli investimenti pubblici internazionali in infrastrutture astronomiche, molte delle quali ospitate in Cile», ha spiegato Mila Francisco, diplomatica cilena e rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. «È stato molto prezioso confrontarsi con gli astronomi per capire le loro preoccupazioni e discuterne con le altre delegazioni in uno spirito di compromesso per concordare una strada da seguire».

Dopo quattro anni di lavoro approfondito da parte degli astronomi per quantificare e comunicare l’impatto delle costellazioni satellitari sulle strutture astronomiche esistenti e future, negli ultimi mesi è cresciuto il numero di diplomatici e politici che riconoscono il problema e prendono provvedimenti. Nel maggio 2023 i ministri della Scienza e della Tecnologia del G7 hanno sottolineato l’importanza di continuare a discutere di questo problema nei forum internazionali. Nel dicembre 2023 le delegazioni dei 193 paesi rappresentati all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu) – l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione – hanno concordato di studiare nuove potenziali protezioni dai satelliti per la radioastronomia nei prossimi quattro anni.

«Sono trascorsi più di dieci anni dall’ultima volta in cui c’è stato, all’Itu, un punto all’ordine del giorno dedicato alla radioastronomia, e questo dimostra il profilo significativo e l’attenzione che l’astronomia ha raccolto presso gli organismi internazionali come le Nazioni Unite», ha detto Federico di Vruno, co-direttore del Cps con sede allo Skao

Mentre proseguono gli sforzi in forum internazionali come l’Onu e l’Itu, anche i singoli paesi stanno iniziando ad attuare una legislazione per proteggere meglio l’astronomia. Negli Stati Uniti, la Federal Communications Commission ha iniziato a richiedere agli operatori satellitari di collaborare con la National Science Foundation per mitigare il loro impatto. Allo stesso tempo, l’industria continua a impegnarsi in modo proattivo con la comunità astronomica, sviluppando e testando nuove misure di mitigazione che gli astronomi poi valutano. Una dozzina di operatori satellitari si stanno già impegnando regolarmente nell’ambito del Cps della Iau.

Il Cps della Iau è impaziente di sostenere il lavoro del Group of Friends nello sviluppo di posizioni per il Copuos e continuerà a impegnarsi con tutte le parti interessate per sviluppare misure pratiche di mitigazione e proporre, ove necessario, una regolamentazione che sostenga lo sviluppo tecnologico e salvaguardi la scienza dell’astronomia.

Fonte: press release Iau


In cerca di una terra come la Terra


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Altre Terre. Viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari, Giovanni Covone. HarperCollins Italia, 2023, pp. 336, 9,90 euro

Una scrivania affollata di articoli, l’ansia per l’ultima materia ancora da superare – “l’incomprensibile chimica” – e la sua passione per le leggi fondamentali della cosmologia. Inizia così l’itinerario interstellare raccontato da Giovanni Covone, professore di astrofisica e cosmologia all’Università Federico II di Napoli, nel suo primo libro Altre Terre. Viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari, edito da HarperCollins Italia e selezionato come finalista all’edizione 2024 del Premio Asimov – riconoscimento che premia le opere di divulgazione e saggistica scientifica in lingua italiana.

L’autore “nello studio del professore” scoprirà il suo destino nella ricerca e lo intreccerà con quello dei più grandi studiosi del passato – da Epicuro a Galilei – che per primi hanno tentato di osservare il cielo oltre le stelle. Un volume scorrevole, puntuale, esilarante. L’autore sceglie di raccontare la storia della ricerca esoplanetaria attraverso le sconfitte, gli errori, le delusioni non soltanto sue, ma anche dei grandi scienziati del passato che siamo soliti conoscere e apprezzare solo attraverso le loro vittorie. Anche se, come dirà lo stesso Covone, “Il momento-èureka non è parte della giornata tipo di un ricercatore”.

Nella storia dell’umanità abbiamo sempre desiderato scoprire altri mondi oltre al nostro, ma ancora non siamo in grado di dire se la vita sulla Terra sia un irripetibile scherzo del caso o se invece si tratta di qualcosa di consueto ed essenziale per l’evoluzione dell’universo. Fra non molti anni potrebbe essere una domanda alla portata nostra abilità tecnologiche, e il perché è presto spiegato dall’autore: un osservatore alieno affascinato dal sistema planetario del nostro Sole, utilizzando la nostra attuale tecnologia, cosa vedrebbe? Sicuramente non riuscirebbe a individuare la Terra al primo colpo, troppo piccola e troppo vicino alla sua stella. Dovrebbe star lì a studiare le perturbazioni del pianetino roccioso in orbita attorno al Sole. Questa è una delle tecniche di rilevazione esoplanetaria – ma non l’unica – oggi impiegata dai ricercatori per individuare pianeti fuori dal nostro sistema Solare.

La ricerca esoplanetaria si è evoluta rapidamente negli ultimi trent’anni, tant’è che oggi siamo abituati a sentir parlare di “pluralismo dei mondi”, i media sono sempre molto interessati alle notizie che riguardano questo tema. Nuove missioni spaziali, dedicate esclusivamente alla scoperta di nuovi pianeti e addirittura all’analisi della loro atmosfera, partiranno nei prossimi anni e molte altre sono già all’opera. Ma, come sottolinea spesso Covone, non è sempre stato così. A causa del pregiudizio, fino al 1995, anno in cui i Premi Nobel Michel Mayor e Didier Queloz rivelarono la presenza del primo esopianeta, gli scienziati che provavano a lavorare sull’osservazione di nuovi mondi erano considerati degli “svalvolati”, dei folli ai margini della ricerca astronomica. L’autore ci racconta gli alti e bassi di questa nuova scienza partendo dalle teorie proposte da Democrito, oltre un secolo prima di Epicuro, riprese poi dai filosofi atomisti che furono messi a tacere da Aristotele e dalla sua teoria cosmologica che poneva la Terra al centro dell’universo. Finché non arrivò Copernico a rimettere tutto al suo posto, o quasi.

La storia della ricerca degli esopianeti raccontata da Covone si rivela, dunque, ricca di molti ingredienti inattesi. Non solo luce, massa, atmosfere, osservazioni e transiti fortuiti, ma anche di errori di valutazione, piste che si rivelano sbagliate e, soprattutto, persone. Perché, come ricorda più volte l’autore, il mondo scientifico è fatto da essere umani, uomini e donne appassionati, che lo animano con i loro sogni, il loro talento e il loro coraggio. Storie che spingono il lettore a credere nelle proprie passioni.

Ultimo appunto, ma non meno importante, il libro è arricchito da disegni fatti a mano dall’autore che “somigliano a quelli che si fanno sulla lavagna quando si spiega“, come chiarisce lui stesso nell’introduzione. Il lettore osserverà orbite, pianeti e stelle dalle forme semplificate, variazioni della velocità, numeri e persino la rappresentazione di un piccolo astronomo che osserva il moto di una stella dalla Terra.

L’esperienza e i risultati finora prodotti ci fanno anche comprendere che trovare una terra come la Terra non solo è difficile, ma è anche molto raro. Dunque, saremo mai in grado di dire da dove veniamo e quale ruolo abbiamo nell’ordine delle cose? Ai posteri l’ardua sentenza.


Emissione radio da mondi binari


Rappresentazione artistica (non in scala) di un sistema binario formato da pianeti senza stella e di massa simile a quella di Giove. Crediti: Gemini Observatory/Jon Lomberg
media.inaf.it/wp-content/uploa…Le stelle non disdegnano la vita di coppia, anzi. Alcuni studi suggeriscono che addirittura la maggior parte di loro – in particolare, le stelle di massa maggiore – trascorra la propria esistenza in sistemi binari. Questo gli astronomi lo sanno da tempo. Ma soltanto da qualche mese si ha il sospetto che anche i pianeti, una volta liberi dal vincolo gravitazionale che li teneva legati a una stella, tendano a cercarsi un compagno. A proporlo è uno studio dell’ottobre scorso, al momento disponibile solo come preprint, condotto da Samuel Pearson e Mark McCaughrean dell’Esa osservando con il telescopio spaziale James Webb la nebulosa di Orione, e in particolare l’ammasso del Trapezio, a circa 1400 anni luce da noi. È lì che i due scienziati dell’Esa hanno individuato una quarantina di possibili sistemi binari formati da coppie di pianeti di massa paragonabile a quella di Giove: Jumbo, li hanno chiamati, dall’inglese Jupiter Mass Binary Objects.

A seguito della scoperta, un team di astronomi dell’Universidad Nacional Autónoma del Messico, guidato da Luis Rodríguez, ha deciso di approfondire il risultato osservando nuovamente le quaranta coppie di mondi, questa volta però da terra. Hanno dunque orientato verso Jumbo le 27 antenne del Vla, il Very Large Array, e con una certa sorpresa hanno rilevato una controparte radio – nella banda da 6 a 10 GHz – da una coppia di pianeti soltanto: la numero 24, o meglio Jumbo 24.

Il nuovo studio, pubblicato il mese scorso su The Astrophysical Journal Letters, mette in discussione le teorie attuali sulla formazione di stelle e pianeti. La luminosità radio dei due pianeti del sistema binario Jumbo 24 è significativamente più alta di quella rilevata dalle nane brune. Un’anomalia che potrebbe aiutare a comprendere meglio la natura di questi pianeti privi di stella, si augurano gli autori dello studio.

«Ciò che è davvero incredibile», sottolinea Rodriguez, «è che questi oggetti potrebbero avere lune simili a Europa o Encelado, entrambe dotate di oceani sotterranei di acqua liquida potenzialmente in grado di sostenere la vita».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “A Radio Counterpart to a Jupiter-Mass Binary Object in Orion”, di Luis F. Rodriguez, Laurent Loinard e Luis A. Zapata


Pronti, via: Euclid inizia la survey scientifica


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Il telescopio spaziale Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha ufficialmente iniziato la sua survey il 14 febbraio 2024. Attualmente si prevede che il telescopio osservi un’area di 130 gradi quadrati – oltre 500 volte l’area della Luna piena nel cielo – nel corso dei prossimi 14 giorni. La porzione di cielo in questione si trova in direzione delle costellazioni del Bulino e del Pittore, nell’emisfero sud.

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La porzione di cielo osservata dal satellite Euclid (in grigio/blu, in alto a sinistra e in basso a destra). Le diverse tonalità di grigio/blu raffigurano l’area del cielo coperta durante la survey di sei anni. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium – CC BY-SA 3.0 IGO

Nel corso del prossimo anno, Euclid coprirà circa il 15 per cento della sua survey. Questo primo anno di dati cosmologici sarà reso pubblico nell’estate del 2026, mentre una data release più piccola, con le osservazioni di campo profondo, è prevista per la primavera del 2025.

Euclid, uno dei telescopi spaziali più precisi e stabili mai costruiti, è stato lanciato il primo luglio 2023. Durante i primi mesi nello spazio, team di tutta Europa hanno avviato, testato e preparato la missione per le osservazioni scientifiche di routine, e non si è trattato di un gioco da ragazzi.​​

50mila galassie in un colpo solo

Uno dei punti di forza di Euclid è la capacità di osservare una vasta area del cielo in un colpo solo. Questo è fondamentale per una missione il cui obiettivo primario è mappare più di un terzo del cielo in sei anni. La modalità di osservazione adottata da Euclid è la cosiddetta step-and-stare: osserverà una zona del cielo per circa 70 minuti, producendo immagini e spettri, e poi impiegherà quattro minuti per spostarsi alla zona successiva. Durante l’intera missione, Euclid eseguirà più di 40mila di questi puntamenti.

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Illustrazione di Euclid mentre scruta il cielo. Crediti: Esa – CC BY-SA 3.0 IGO

«Grazie al suo sguardo ampio sul cosmo, al lungo tempo di esposizione e alla sensibilità, il numero di galassie che Euclid può vedere con un solo puntamento è enorme», spiega Roberto Scaramella, Euclid survey scientist presso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che, fin dall’inizio della missione, è a capo del gruppo che si occupa della survey all’interno del consorzio.

Scaramella ha dovuto sincerarsi che la survey fosse progettata in modo tale da soddisfare gli obiettivi scientifici. Uno degli obiettivi principali di Euclid è misurare in modo più dettagliato che mai la forma di miliardi di galassie nel corso di miliardi di anni di storia cosmica, per fornire una visione 3D della distribuzione di materia oscura nell’universo. «Per studiare le distorsioni individuali causate dalla materia oscura sulle galassie, dobbiamo osservare almeno un miliardo e mezzo di galassie. Euclid osserverà la forma di circa 50mila galassie con la precisione necessaria in un colpo solo, e individuerà molte altre galassie più deboli», aggiunge.

Tuttavia, subito dopo aver acceso gli strumenti di Euclid per la prima volta, il team si è reso conto che l’intera survey doveva essere riprogettata.

Cambio di assetto

Il problema era dovuto a una piccola quantità di luce solare indesiderata che raggiungeva lo strumento visibile di Euclid (Vis) ad angoli specifici, anche se lo schermo parasole della navicella (posto sulla parte posteriore) era rivolto verso il Sole.

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Il lato posteriore di Euclid, con lo schermo parasole e i pannelli solari. Crediti: Esa. – CC BY-SA 3.0 IGO

«Il piano originale prevedeva che Euclid mantenesse il suo schermo parasole rivolto verso il Sole. Ma subito dopo il lancio, nelle immagini di prova è stata rilevata una luce disturbante proveniente dal Sole», spiega Ismael Tereno dell’Università di Lisbona, Portogallo, e capo del team di supporto alle operazioni della survey di Euclid, gestito con il supporto dell’Agenzia spaziale portoghese.

«Dopo un intenso periodo per identificare e risolvere i problemi, i team scientifici, ingegneristici e industriali hanno scoperto che, per far scomparire questa luce indesiderata, Euclid avrebbe dovuto osservare con un assetto diverso rispetto al Sole. Ciò significava che il progetto originale della survey non avrebbe più funzionato. Abbiamo dovuto elaborare rapidamente una nuova strategia, implementarla e testarla», aggiunge João Dinis, anch’egli dell’Università di Lisbona, che insieme a Tereno è stato responsabile della (ri)progettazione della survey.

Per ridurre al minimo l’effetto della luce solare “diffusa”, i team hanno scoperto che Euclid deve osservare con un angolo di rotazione più ristretto, in modo tale che il parasole non sia rivolto direttamente verso il Sole, con un’inclinazione piccola ma efficace in una direzione. Con questo nuovo assetto, alcune parti del cielo non potevano essere raggiunte da nessun punto dell’orbita di Euclid attorno al punto lagrangiano L2. «È stato molto difficile trovare una buona soluzione per la survey e siamo dovuti ripartire da zero», nota Tereno.

Un enorme puzzle

È stato l’inizio di una fase molto intensa per Dinis, Tereno e i team scientifici e operativi della survey. «João ha capito subito cosa doveva essere cambiato e ha lavorato giorno e notte per proporre una riprogettazione praticabile», afferma Tereno.

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La posizione nel cielo dei campi nel cielo che saranno coperti dalla survey ampia (blu) e da quella profonda (giallo) di Euclid. Credit: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa/Planck Collaboration/A. Mellinger – CC BY-SA 3.0 IGO

Progettare la survey di Euclid è stato un puzzle gigantesco. Oltre agli obiettivi scientifici e all’angolazione da cui osservare, ci sono molti altri fattori da considerare. La maggior parte delle osservazioni della missione sarà dedicata alla survey “ampia”, che coprirà più di un terzo del cielo; questa viene completata da una survey approfondita, che prende circa il dieci per cento del tempo totale di osservazione. Inoltre, è stato necessario programmare anche le osservazioni di calibrazione di routine per far quadrare il tutto.

Xavier Dupac, scienziato dell’Esa per il Science Operation Center presso il centro Esac in Spagna, si è assicurato che la survey progettata da Dinis, Tereno e il loro team potesse essere eseguita. «Bisogna tenere conto, per esempio, del tempo impiegato dalla sonda per ruotare da una posizione di osservazione a quella successiva. Questi tempi vanno inclusi nel progetto della survey, oltre al tempo di osservazione effettivo», spiega Dupac.

Alla fine, i team hanno trovato una soluzione praticabile, in cui era necessario effettuare più sovrapposizioni tra osservazioni adiacenti. La survey di Euclid adesso è leggermente meno efficiente, ma è possibile raggiungere tutte le aree necessarie del cielo e la perdita complessiva nell’area della survey è ridotta al minimo.

«I team si sono impegnati molto per riprogettare la survey in un breve lasso di tempo, questo è un risultato importante», afferma Valeria Pettorino, Euclid project scientist all’Esa. «E questa non è la fine della storia. Man mano che la missione avanza e i risultati scientifici inizieranno ad arrivare, i team continueranno a ottimizzare la survey e saranno pronti ad adattarla se necessario».


Un filo di perle di migliaia di anni luce


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Una collana di perle srotolata nello spazio per migliaia di anni luce. Così dalla Nasa hanno definito la struttura che abbraccia la galassia Am 1054-325 in questa immagine immortalata dal Telescopio Spaziale Hubble. Ogni preziosissima perla è costituita da un ammasso stellare, ovvero un gruppo di stelle appena nate dalla stessa nebulosa.

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La galassia Am 1054-325 in interazione con una galassia compagna, immortalata dal telescopio Hubble. A causa dell’interazione, milioni di nuove stelle stanno nascendo in una struttura che somiglia a una collana di perle e che si estende per migliaia di anni luce. Crediti: Nasa, Eesa, StScI, Jayanne English (University of Manitoba)

L’immagine fa parte di una compilation di dodici galassie, studiate da Michael Rodruck del Randolph-Macon College di Ashland, in Virginia, e da alcuni collaboratori in un lavoro apparso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Le dodici protagoniste dello studio hanno in comune il fatto che stanno interagendo con delle galassie situate nei paraggi. Gli astronomi hanno contato ben 425 “perle” nelle dodici sorgenti osservate. E non sarebbe un caso. Quando due galassie interagiscono la forza di gravità ne rimodella la forma generando lunghissime code mareali e comprimendo le nubi di gas sparpagliate al loro interno. Dal collasso di queste nubi si generano dunque nuovi astri, «stelle che altrimenti non sarebbero mai esistite», afferma Rodruck. Si stima che ogni perla contenga un milione di stelle novelle, la cui età sarebbe di “appena” dieci milioni di anni.

Riguardo al destino di queste regioni si profilano diversi scenari. Gli ammassi stellari potrebbero rimanere gravitazionalmente legati ed evolversi in ammassi globulari, analoghi a quelli che si osservano fuori dal disco della Via Lattea. Un’altra possibilità è che col tempo le stelle si disperdano, andando a contribuire all’alone stellare di Am 1054-325. Infine, non si esclude che le stelle sfuggano all’attrazione gravitazionale della galassia e si ritrovino a girovagare nel cosmo come stelle intergalattiche, vere e proprie vagabonde degli spazi interstellari, in quanto prive di una galassia ospitante.

A destare interesse non sono però solo gli scenari futuri. Nei primi miliardi di anni di vita dell’universo le collisioni fra le galassie erano piuttosto frequenti. È dunque plausibile che numerose galassie “indossassero” collane di perle come quella che adorna Am 1054-325. Lo studio dei processi di formazione stellare in queste strutture può dunque esserci di aiuto per comprendere ciò che accadde miliardi di anni fa.

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Star clusters in tidal debris” di M. Rodruck, J. Charlton, S. Borthakur, A. Chitre, P. R. Durrell, D. Elmegreen, J. English, S. C. Gallagher, C. Gronwall, K. Knierman, I. Konstantopoulos, Y. Li, M. Maji, B. Mullan, G. Trancho, W. Vacca


Agile ha concluso la sua missione


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Il satellite Agile con parte del suo team scientifico

Dopo 17 anni di attività, il satellite scientifico dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) Agile(Astrorivelatore gamma a immagini leggero) è rientrato in atmosfera ponendo così fine alla sua intensa attività di cacciatore di sorgenti cosmiche tra le più energetiche dell’universo che emettono raggi gamma e raggi X. Agile ha rappresentato un programma spaziale unico e di enorme successo nel panorama delle attività spaziali italiane.

Agile è stato realizzato dall’Asi con il supporto dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), di università e dell’industria italiana, con Ohb Italia, Thales alenia space, Rheinmetall e Telespazio. In oltre 87.200 orbite intorno alla Terra, Agile ha monitorato il cielo alle alte energie osservando una grande varietà di sorgenti di raggi gamma galattiche ed extra galattiche, evidenziandone i cambiamenti molto rapidi, frequenti episodi di emissione X e gamma provenienti da stelle di neutroni, resti di esplosioni di supernove e buchi neri.

Le osservazioni acquisite dal satellite sono state ricevute a terra dalla stazione del Centro spaziale Luigi Broglio dell’Asi a Malindi, in Kenya. I dati sono stati poi ritrasmessi al Centro di controllo di Telespazio, per poi arrivare all’Asi Space Science Data Center (Ssdc) di Roma, responsabile di tutte le operazioni scientifiche: dalla gestione, analisi e archiviazione fino alla distribuzione dei dati e dei relativi cataloghi accessibili alla comunità internazionale.

La produzione scientifica di Agile è costituita da più di 800 riferimenti bibliografici, di cui più di 160 articoli con referaggio e 12 cataloghi di missione pubblicati fino a gennaio 2024. Tra le principali scoperte scientifiche di Agile ricordiamo la prima individuazione delle sorgenti di raggi cosmici galattici in resti di supernove, l’evidenza di accelerazione di particelle estremamente rapida dalla Nebulosa del Granchio con al centro una pulsar rapidamente ruotante (Premio Bruno Rossi 2012), e l’individuazione di emissione gamma in corrispondenza dell’emissione di getti relativistici dal sistema binario con buco nero galattico Cygnus X-3. Agile inoltre ha fornito una mappatura dell’intera Galassia molto dettagliata e studiato centinaia di sorgenti galattiche ed extra-galattiche.

Nel corso della sua vita operativa, Agile ha anche rivelato migliaia di eventi transienti di origine cosmica come Gamma Ray Bursts (Grb), eventi associati a neutrini e a Fast radio burst (Frb), brillamenti solari, nonché eventi di origine terrestre come i Terrestrial gamma-ray flashes (Tgf). Agile ha contribuito con un ruolo di primo piano alla ricerca delle possibili controparti di sorgenti di onde gravitazionali (Gw). Le osservazioni di follow-up di Agile hanno infatti fornito la risposta più rapida e i limiti superiori più significativi sopra i 100 MeV su tutti gli eventi Gw rilevati dalla collaborazione Ligo-Virgo-Kagra fino ad oggi.

«Agile può considerarsi una missione “da record” non solo per la durata di quasi 17 anni in orbita, ma anche per gli importanti risultati scientifici ottenuti», commenta Teodoro Valente presidente dell’Asi. «Si tratta di una missione scientifica tutta italiana, realizzata dalla nostra industria (satellite e payload), operata dalla Base di Malindi e dal Centro di controllo del Fucino e gestita dallo Space science data center di Asi per le attività di analisi e archiviazione dei dati. A tutto ciò si aggiunge l’ottimo lavoro di interpretazione dei dati svolto dalla comunità scientifica nazionale, che è riuscita a sfruttare al meglio le potenzialità di questa straordinaria “macchina” messa a disposizione dall’Asi».

«Agile ci ha regalato moltissime sorprese e scoperte scientifiche di primo piano, frutto dell’ingegno e dell’enorme lavoro di tutti quelli che lo hanno visto prima crescere e poi lanciato in orbita», dice Marco Tavani presidente dell’Inaf. «Un programma di prim’ordine sia per l’astrofisica che per la tecnologia, che ha visto Asi, istituzioni scientifiche e industria lavorare insieme in modo straordinario. Con il rientro in atmosfera di Agile si chiude la fase operativa in orbita ma se ne apre un’altra di intenso lavoro sull’archivio dei tanti dati accumulati che può riservare ancora sorprese. Chi ha avuto la fortuna di “dialogare” con Agile nel corso degli anni, lo ha considerato come una sorta di “amico” spaziale, sempre pronto, sempre all’erta, sempre capace di scandagliare l’universo. Si può voler bene a un satellite ? Forse sì. Grazie Agile. Grazie a tutti gli Agilisti che lo avranno nel cuore».

«Agile è stata davvero una missione di successo, un piccolo satellite che ha fatto una grande scienza», commenta Antonio Zoccoli, presidente dell’Infn. «Siamo orgogliosi di aver contribuito al cuore di questo successo con il tracciatore al silicio-tungsteno del Gamma Ray Imaging Detector, il cuore, appunto, del principale rivelatore di Agile, che ha fatto anche da apripista all’impiego “dei silici” nello spazio per l’astrofisica gamma delle alte energie, adottata poi anche dal Large Area Telescope della missione Fermi della Nasa. Inoltre, aver lavorato congiuntamente all’analisi dei dati di Agile ha anche dimostrato quanto la collaborazione tra la fisica delle particelle e l’astrofisica delle alte energie sia produttiva e porti a grandi risultati», conclude Zoccoli.

Per saperne di più:


Due facce dello stesso Sole


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In questa pagina potete vedere due immagini del Sole riprese dallo strumento Extreme Ultraviolet Imager di Solar Orbiter. In particolare, è evidente il grande cambiamento avvenuto tra febbraio 2021 e ottobre 2023. Avvicinandosi al massimo del suo ciclo di attività magnetica, la nostra stella manifesta un comportamento irrequieto: brillanti esplosioni, macchie solari, anelli di plasma e vortici di gas super-caldo.

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Il Sole ripreso da Solar Orbiter a febbraio 2021 e ottobre 2023 (cliccare per usare lo slider interattivo). Crediti: Esa & Nasa/Solar Orbiter/Eui Team

Sappiamo che il Sole attraversa un ciclo di attività che dura circa 11 anni, causato dalla dinamo solare, il processo fisico che genera il campo magnetico solare. All’inizio di questo ciclo (il minimo solare) l’attività è relativamente scarsa e le macchie solari sono poche. L’attività aumenta costantemente fino a raggiungere il picco (il massimo solare) e poi diminuisce nuovamente fino a raggiungere il minimo.

Il minimo solare più recente si è verificato nel dicembre 2019, appena due mesi prima del lancio di Solar Orbiter. Le prime immagini della sonda mostrano che nel febbraio 2021 (a sinistra, nell’immagine) il Sole era ancora relativamente tranquillo. Ora ci stiamo avvicinando al massimo solare, che si prevede avverrà nel 2025. Immagini più recenti di Solar Orbiter, scattate durante un avvicinamento al Sole nell’ottobre 2023 (a destra, nell’immagine), mostrano un sorprendente aumento dell’attività solare. Questa evidenza sembra supportare recenti teorie secondo le quali il massimo potrebbe arrivare fino a un anno prima del previsto.

Solar Orbiter ci aiuta a prevedere i tempi e la forza dei cicli solari. Anche se non è facile, è fondamentale perché l’attività solare può influenzare seriamente la vita sulla Terra: i brillamenti e le eruzioni coronali di massa possono danneggiare le reti elettriche terrestri e mettere fuori uso i satelliti in orbita.


M’illumino di… candele


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Anche quest’anno, in occasione di “M’illumino di meno”, la Specola di Padova spegne le luci. All’imbrunire di venerdì 16 febbraio, tutte le stanze all’interno della storica torre padovana appariranno come le vivevano gli astronomi che un tempo non disponevano di energia elettrica. Purtroppo, a causa dell’inquinamento luminoso, che in Italia come nel resto del mondo sta inesorabilmente peggiorando e rende ormai impossibile la vista delle stelle dagli ambienti urbani, il cielo stellato non sarà lo stesso che poteva apprezzare Galileo nel 17esimo secolo. Ma la magia, nella sede dell’Inaf di Padova, si assaporerà all’interno. Tutti gli ambienti della torre e del museo, tutti gli strumenti utilizzati dagli astronomi dei secoli scorsi e gli affreschi, saranno infatti illuminati solamente dalla luce delle candele. A partire dalle 18 sarà possibile visitarli, dotati di piccole luci artificiali allo scopo di muoversi in sicurezza.

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Vista sulla Torre della Specola di Padova, sede dell’Inaf, che in occasione di “M’illumino di meno” si spegnerà, illuminando le sue stanze solamente con delle candele. Crediti: R. Cerisola/Inaf

«Si sa che una divulgazione scientifica efficace passa anche per le emozioni, emozioni che le persone possano provare direttamente, sperimentare su sé stesse», dice a Media Inaf Caterina Boccato, responsabile nazionale della didattica e divulgazione all’Istituto nazionale di astrofisica. «E una visita a lume di candela, di un osservatorio che poggia su una torre millenaria, è effettivamente un’esperienza emozionante che le persone ricordano facilmente. Anche il racconto di come è sorto l’osservatorio nel 1767, e di come lavoravano gli astronomi di ieri, rimarrà impresso nella memoria dei visitatori».

“M’illumino di meno”, nata da un’idea della trasmissione di Rai Radio 2 Caterpillar ormai vent’anni fa per promuovere nel grande pubblico una sensibilità nei confronti del risparmio energetico, è diventata con voto unanime del Parlamento la Giornata nazionale del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili. Un’iniziativa che invita cittadini, aziende e istituzioni a unirsi in un gesto comune e semplice, quello di spegnere le luci non necessarie riflettendo sull’utilizzo consapevole e responsabile dell’energia. E non è questa l’unica attività verso la sostenibilità energetica intrapresa dall’Inaf. Nell’ultimo anno è nato un gruppo interno di riorganizzazione ecologica ed energetica dell’ente che, con l’aiuto e l’impegno di referenti in ogni sede sul territorio italiano, ha lo scopo di intraprendere azioni concrete per rendere la vita dell’ente più sostenibile nel quotidiano.

«L’Inaf – Osservatorio astronomico di Padova aderisce ogni anno con entusiasmo all’iniziativa “M’illumino di meno” fin dal 2008», dice a Media Inaf Bianca Poggianti, prima direttrice donna dell’Inaf di Padova, che ha assunto l’incarico a inizio anno. «L’inquinamento luminoso, cioè l’aumento dei livelli di luce all’aria aperta causato dagli esseri umani rispetto ai livelli naturali, è un problema molto sentito da chi fa ricerca astronomica. Per noi questa iniziativa ha una doppia valenza: quella di sensibilizzare noi stessi e gli altri nei confronti del risparmio energetico e la sostenibilità dei nostri stili di vita, ma anche riguardo all’importanza di preservare il cielo notturno, sia per la ricerca astronomica che per il benessere umano e dell’ecosistema intero. Inoltre, l’inquinamento luminoso compromette la bellezza naturale e l’esperienza della natura; quindi, indebolisce la nostra connessione ad essa, impoverendo le nostre vite. E poi, la Specola senza luci artificiali è ancora più suggestiva, quando è illuminata come lo era quando fu costruita. Per questo abbiamo previsto delle visite speciali a lume di candela dalle 18 in poi del 16 febbraio. Ci sono ancora pochi posti disponibili, venite ad ammirarla».

Se volete partecipare a una delle quattro visite guidate organizzate, dovrete prenotare il biglietto in anticipo sul sito del museo della Specola di Padova. Il costo è di 10 euro per i singoli, 20 per le famiglie. Prima delle visite guidate, alle 17, ci sarà anche la presentazione del libro Oltre i bastioni della Via Lattea. Dalle nebulose alle galassie lontane, di Valeria Zanini e Roberto Rampazzo, entrambi astronomi all’Inaf di Padova. In questo caso l’ingresso è libero fino a esaurimento posti. L’ultimo turno di visita, alle 20, sarà invece su invito e vedrà, per la prima volta, la presenza del sindaco di Padova Sergio Giordani.


La migrazione all’origine della “valle dei raggi”


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Rappresentazione artistica di un esopianeta il cui ghiaccio d’acqua in superficie, durante il suo avvicinamento alla stella del sistema planetario, si vaporizza sempre più e forma un’atmosfera. Questo processo aumenta il raggio planetario misurato rispetto al valore che il pianeta avrebbe nel suo luogo di origine. Crediti: Thomas Müller (Mpia)

Normalmente, i pianeti dei sistemi planetari evoluti (come il nostro) seguono orbite stabili intorno alla loro stella. Tuttavia, molti indizi suggeriscono che durante la prima fase della loro evoluzione, alcuni pianeti potrebbero allontanarsi dai loro luoghi di nascita, migrando verso l’interno o verso l’esterno. Tale migrazione potrebbe spiegare un’evidenza osservativa che sta lasciando perplessi gli astronomi da diversi anni: il numero relativamente basso di esopianeti con dimensioni circa doppie rispetto alla Terra. Questo gap nella distribuzione dei raggi degli esopianeti è noto come valle dei raggi.

«Sei anni fa, una rianalisi dei dati del telescopio spaziale Kepler ha rivelato una carenza di esopianeti con dimensioni intorno a due raggi terrestri», ricorda Remo Burn, ricercatore del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) di Heidelberg e primo autore di un articolo pubblicato su Nature Astronomy. «In realtà, noi – come altri gruppi di ricerca – avevamo previsto, sulla base dei nostri calcoli, anche prima di questa osservazione, che un tale divario dovesse esistere», spiega il coautore Christoph Mordasini, membro del National Centre of Competence in Research (Nccr) PlanetS e direttore della Divisione di Ricerca Spaziale e Scienze Planetarie dell’Università di Berna.

Il meccanismo comunemente suggerito per spiegare l’esistenza della valle dei raggi è che i pianeti potrebbero perdere una parte della loro atmosfera originaria a causa dell’irradiazione della stella centrale, in particolare i gas volatili come l’idrogeno e l’elio. «Tuttavia, questa spiegazione trascura l’influenza della migrazione planetaria», dice Burn. Da circa 40 anni si ritiene che nel corso del tempo, in determinate condizioni, i pianeti possono spostarsi verso l’interno e verso l’esterno dei rispettivi sistemi planetari. E tale migrazione sembra avere un impatto non trascurabile sulla formazione della valle dei raggi.

Alle estremità di questo gap di raggi, si trovano due diversi tipi di esopianeti. Da un lato, ci sono i pianeti rocciosi, che possono essere più massicci della Terra e sono quindi chiamati super-Terre. Dall’altro lato, gli astronomi stanno scoprendo sempre più spesso i cosiddetti sub-nettuniani, che sono in media leggermente più grandi delle super-Terre. Poiché questa classe di esopianeti non è presente nel Sistema solare, gli astronomi non sono sicuri della loro struttura e composizione, anche se concordano sul fatto che questi pianeti possiedano atmosfere molto più estese rispetto ai pianeti rocciosi.

«Sulla base delle simulazioni che abbiamo già pubblicato nel 2020, gli ultimi risultati indicano e confermano che l’evoluzione dei sub-nettuniani dopo la loro nascita contribuisce in modo significativo alla valle dei raggi osservata», conclude Julia Venturini dell’Università di Ginevra, che ha guidato lo studio del 2020.

Nelle fredde regioni in cui si sono formati, dove i pianeti ricevono poca radiazione dalla stella, i subnettuniani dovrebbero avere dimensioni che di fatto non si riscontrano nella distribuzione osservata. La ragione potrebbe essere ricercata nella migrazione planetaria. Quando questi pianeti presumibilmente ghiacciati si spostano più vicino alla stella, il ghiaccio si scongela formando una spessa atmosfera di vapore acqueo. Questo processo si traduce in un aumento delle dimensioni dei pianeti, perché con le osservazioni non siamo in grado di distinguere se le dimensioni sono dovute alla sola parte solida del pianeta o a un’ulteriore atmosfera densa. Nello stesso tempo, i pianeti rocciosi si “restringono” perdendo la loro atmosfera. Nel complesso, entrambi i meccanismi – migrazione dei sub-nettuniani e perdita dell’atmosfera dei pianeti rocciosi – generano una mancanza di pianeti con dimensioni intorno ai due raggi terrestri.

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Distribuzione delle dimensioni degli esopianeti osservati e simulati con raggi inferiori a cinque raggi terrestri. Il numero di esopianeti diminuisce tra 1,6 e 2,2, dando luogo a una pronunciata valle nella distribuzione. Sono invece presenti più pianeti con dimensioni intorno a 1,4 e 2,4 raggi terrestri. Le ultime simulazioni, che per la prima volta tengono conto delle proprietà realistiche dell’acqua, indicano che i pianeti ghiacciati che migrano verso l’interno dei sistemi planetari formano spesse atmosfere di vapore acqueo. Ciò li fa apparire più grandi di quanto sarebbero nel loro luogo di origine. Questi producono il picco a circa 2,4 raggi terrestri. Allo stesso tempo, i pianeti rocciosi più piccoli perdono parte del loro involucro gassoso originario nel corso del tempo, causando una riduzione del loro raggio misurato e contribuendo così all’accumulo intorno a 1,4 raggi terrestri. Crediti: R. Burn, Ch. Mordasini / Mpia

I risultati riportati nell’articolo appena pubblicato sono stati ottenuti partendo da calcoli effettuati con modelli fisici che tracciano la formazione dei pianeti e la loro successiva evoluzione, considerando anche i processi nei dischi di gas e polvere che circondano le giovani stelle e che danno origine a nuovi pianeti. Questi modelli includono l’emergere di atmosfere, la miscelazione di gas diversi e la migrazione radiale.

«Il punto centrale di questo studio riguarda le proprietà dell’acqua alle pressioni e alle temperature che si verificano all’interno dei pianeti e delle loro atmosfere», spiega Burn. Capire come si comporta l’acqua in un’ampia varietà di pressioni e temperature è fondamentale per le simulazioni. Solo negli ultimi anni queste conoscenze hanno raggiunto una qualità sufficiente. È questa componente che ha permesso di calcolare in modo realistico il comportamento dei sub-nettuniani, spiegando così l’evidenza di atmosfere estese nelle regioni più calde.

«Se dovessimo estendere i nostri risultati alle regioni più fredde, dove l’acqua è liquida, questo potrebbe suggerire l’esistenza di mondi acquatici con oceani profondi», afferma Mordasini. «Tali pianeti potrebbero potenzialmente ospitare la vita e, grazie alle loro dimensioni, sarebbero obiettivi relativamente semplici per la ricerca di biomarcatori».

Sebbene la distribuzione dimensionale simulata corrisponda molto bene a quella osservata e la valle dei raggi sia al posto giusto, i dettagli presentano ancora alcune incongruenze. Ad esempio, nei calcoli troppi pianeti ghiacciati finiscono troppo vicino alla stella centrale. Ciononostante, i ricercatori sono positivi e si augurano, anche grazie alle simulazioni, di vederci più chiaro sulla migrazione planetaria. Inoltre, le osservazioni con telescopi come il James Webb Space Telescope (Jwst) o l’Extremely Large Telescope (Elt) in fase di costruzione potrebbero essere d’aiuto, poiché sarebbero in grado di determinare la composizione dei pianeti in base alle loro dimensioni, fornendo così un test per le simulazioni qui descritte.

Per saperne di più:


Il più giovane sistema multi-planetario compatto


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TOI-5398 b è un gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo F. Impiega 10,6 giorni per completare un’orbita della sua stella e la sua scoperta è stata annunciata nel 2022. Crediti: Nasa

Toi-5398, una sigla che potrebbe non dirci molto eppure nasconde un record: si tratta del più giovane sistema multi-planetario “compatto”, in cui vi è la compresenza di un piccolo pianeta vicino alla stella assieme a un compagno planetario gigante con periodo orbitale di circa dieci giorni. Questo sistema è solamente il sesto con tale caratteristica compresenza tra i più di 500 sistemi che ospitano pianeti giganti a corto periodo. I dati relativi a questa conferma sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics da un gruppo guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica e dall’Università di Padova. Secondo gli autori dell’articolo, questo sistema è praticamente unico nel suo genere, potenzialmente una “pietra miliare” per lo studio e la comprensione dei pianeti giganti a corto periodo.

Le misurazioni sono state ottenute con lo spettrografo Harps-N al Telescopio nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf, alle Canarie, nell’ambito della collaborazione nazionale Gaps (Global Architecture of Planetary Systems). In questo studio, è stato inoltre fondamentale l’utilizzo di dati spaziali del Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa, e del coordinamento di numerosi ricercatori ed osservatori astronomici sparsi in tutto il mondo.

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Il Telescopio nazionale Galileo (Tng) di Inaf, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell’isola di San Miguel de La Palma. Il Tng è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan

Toi-5398 è di gran lunga il più giovane tra i cosiddetti sistemi “compatti”: 650 milioni di anni contro i 3-10 miliardi di anni degli altri sistemi. Un infante, si potrebbe dire. Inoltre, il pianeta maggiore nel sistema risulta il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica tramite il telescopio spaziale James Webb della Nasa tra tutti i giganti caldi conosciuti. Per “giganti caldi” (in inglese, warm giants) si intende pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale, da non confondere con gli “hot giants”, che possiedono periodi orbitali sotto i 10 giorni”. Toi-5398 è costituito da un “sub-Nettuno” caldo (Toi-5398 c) orbitante internamente rispetto al suo compagno di massa simile a Saturno a corto periodo orbitale (Toi-5398 b).

«Il nostro studio supporta una delle teorie di formazione dei pianeti giganti a corto periodo», spiega Valerio Nascimbeni, ricercatore all’Inaf di Padova, «la quale vede questi ultimi formarsi nelle regioni esterne del sistema e farsi spazio (in un sistema multi-planetario) tramite migrazioni “tranquille”, che prevengono la sovrapposizione delle orbite planetarie e la conseguente distruzione del sistema. Tale teoria risale al 1996, frutto di uno studio teorico guidato da Douglas Lin della University of California, Santa Cruz, ma è da pochissimi anni che abbiamo un riscontro osservativo di simili sistemi (solo 5 su più di 500 sistemi con pianeti giganti a corto periodo mostra tale configurazione/architettura orbitale)».

Gli altri cinque sistemi planetari con queste caratteristiche, ossia un’origine non violenta e la compresenza di piccoli pianeti assieme al pianeta gigante a corto periodo, sono Wasp-47, Kepler-730, Wasp-132, Toi-1130 e Toi-2000, ovvero pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (in inglese, warm Jupiters), da non confondere con gli hot Jupiters, i quali possiedono periodi orbitali inferiori a 10 giorni.

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Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato Inaf. Crediti: G. Mantovan

Toi-5398, come detto, è solo il sesto sistema in questa ristrettissima cerchia e mostra una caratteristica molto particolare, perché rispetto agli altri è giovanissimo. «La sua formazione, infatti, anziché datare, come gli altri, fra i 3 e 10 miliardi di anni, viene misurata in circa 650 milioni di anni», aggiunge Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova, nonché associato Inaf. «Questo è l’aspetto eccezionale, perché tale sistema non si trova in una situazione congelata e definitiva come gli altri, ma è appunto giovane e quindi in evoluzione. Può offrire quindi nuove risposte rispetto all’evoluzione dei pianeti e della loro atmosfera».

«Comprendere il processo di formazione e sviluppo dei pianeti giganti a corto periodo», prosegue il ricercatore, «è di estrema importanza anche per la comprensione del Sistema solare, in quanto non esiste un corrispettivo planetario del nostro vicinato planetario. Per comprendere questa mancanza nel nostro sistema e le sue possibili implicazioni – ad esempio sulla presenza della vita – è fondamentale esaminare la storia di formazione di tali pianeti nei sistemi planetari in cui essi sono presenti».

Mantovan analizza gli sviluppi futuri di questa ricerca. «Toi-5398 è un interessante sistema in ottica futura, in quanto entrambi i pianeti del sistema sono candidati ideali per svolgere caratterizzazioni atmosferiche precise, e anche grazie alla loro giovane età. L’unione di queste due proprietà e alla presenza di due pianeti con differenti caratteristiche (raggio, massa, eccetera), offre la rara opportunità di poter studiare i segni distintivi di differenti storie di formazione planetaria sotto l’influenza della stessa stella, solitamente inaccessibili in sistemi planetari più evoluti e vecchi».

«Toi-5398 potrebbe quindi potenzialmente diventare una pietra miliare per comprendere la formazione di sistemi planetari dove sono presenti giganti a breve periodo orbitale», conclude Mantovan, «e potrebbe diventare un punto di riferimento anche all’interno del limitatissimo sottocampione di sistemi ove sono presenti anche piccoli compagni planetari tra il gigante a corto periodo e la stella».

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Con Laniakea la tensione di Hubble sale


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Il Superammasso Laniakea. Crediti: Andrew Z. Colvin

Uno dei più grandi misteri della cosmologia moderna è la cosiddetta tensione di Hubble, che deriva dalla nostra apparente incapacità di determinare con precisione e in modo univoco la velocità di espansione cosmica. Esistono diversi modi per calcolare tale velocità, dall’osservazione delle supernove lontane alla misurazione delle anisotropie della radiazione cosmica di fondo a microonde. Sarebbe ovviamente auspicabile ottenere lo stesso risultato, con i diversi metodi, ma purtroppo non è così: le varie misure danno risultati leggermente diversi. Forse non comprendiamo appieno la struttura dell’universo, o forse la nostra visione del cielo è distorta, ad esempio dal fatto che ci troviamo in un superammasso di galassie, conosciuto come Laniakea. Uno studio appena pubblicato su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, provando a far luce sull’effettiva influenza di Laniakea, conclude che in realtà il problema potrebbe essere ancora più grave. Il primo autore dello studio in questione è Leonardo Giani dell’Università del Queensland, in Australia, che abbiamo raggiunto per farci raccontare i dettagli di questa interessante ricerca.

Giani, che cos’è il superammasso di Laniakea?

«Laniakea è quella che tecnicamente viene definita large-scale structure o struttura cosmica di grande scala. Il nome ha origine hawaiana, e può essere tradotto con “paradiso immenso”. Dato che questa struttura contiene la Via Lattea, è spesso chiamata “la nostra casa nel cosmo” o “la nostra casa superammasso”. La densità media di materia oscura in questa regione è circa l’un per cento maggiore che nel resto dell’universo, e di conseguenza contiene un grande numero di galassie intrappolate dal suo campo gravitazionale (circa 100mila). Per avere un’idea della dimensione, occupa lo stesso volume di una sfera di raggio tra i 100 e i 150 megaparsec (Mpc, ovvero centinaia di milioni di anni luce). Il numero esatto dipende dal valore della costante di Hubble, il cui valore preciso è uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna».

Come si fa per identificarla? A riconoscerne i confini?

«Per identificarla, un team di scienziati nell’ambito del progetto “Cosmic Flows” ha misurato migliaia di velocità peculiari di galassie, e costruito una mappa della loro distribuzione nell’universo locale. Il nome velocità peculiari deriva dal fatto che queste sono le velocità ottenute dopo aver sottratto quelle dovute all’espansione dell’universo. A titolo di esempio, se vedessimo un individuo correre in una barca che si allontana da noi, la sua velocità peculiare sarebbe la velocità a cui corre nella barca, non la velocità totale della barca sommata a quella della sua corsa. In poche parole, queste velocità possono essere negative, ovvero l’individuo potrebbe correre verso di noi, anche se la barca si allontana. Collezionando queste velocità è possibile distinguere regioni dell’universo dove la gravità trattiene le galassie, in gergo tecnico gravitational basins. Laniakea è appunto il gravitational basin che contiene la Via Lattea».

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Nato a Ragusa, Leonardo Giani ha studiato fisica all’Università di Bologna dove nel 2016 ha ottenuto la laurea magistrale in Fisica Teorica. Successivamente, ha conseguito un dottorato in Astrofisica e Cosmologia a Vitoria, in Brasile. Attualmente è Postdoctoral fellow all’Università del Queensland, a Brisbane (Australia), dove studia la natura dell’energia e della materia oscura. Crediti: L. Giani

In che modo Laniakea può influenzare la velocità di espansione dell’universo?

«Per misurare la velocità di espansione dell’universo utilizziamo delle sorgenti di luce di cui conosciamo la luminosità intrinseca, in gergo candele standard, per esempio le supernove di tipo Ia. Per via dell’espansione dell’universo, queste candele si allontanano da noi e la loro luce subisce un effetto doppler che rende il loro colore apparente più rosso. L’idea alla base del nostro lavoro è che il tasso di espansione dell’universo dentro Laniakea è leggermente differente da quello all’esterno a causa della differente distribuzione di materia oscura. In relatività generale la curvatura dello spaziotempo (che causa l’espansione dell’universo) dipende dalla quantità di materia ed energia al suo interno, ed è dunque naturale che un superammasso delle dimensioni di Laniakea possa influenzarla (localmente). Non tenendo conto di questo differente tasso di espansione all’interno di Laniakea, il tasso di espansione misurato con una supernova al suo esterno diventa una media pesata dei due. Il nostro lavoro fornisce una prescrizione per calcolare opportunamente questa media pesata».

E cosa avete scoperto?

«La forma di Laniakea è estremamente complicata, e dunque in principio non è facile ottenere “correzioni” per le luminosità di tutte le candele standard. Nel nostro studio suggeriamo che in prima approssimazione Laniakea possa essere descritta come un ellissoide omogeneo (da cui il termine effective model) il cui tasso di espansione lungo due assi principali è leggermente più piccolo di quello del resto dell’universo, e leggermente più grande nel terzo. Nonostante la semplicità, l’approssimazione descrive notevolmente bene la distribuzione statistica delle velocità all’interno di Laniakea. Data la semplicità del modello ellissoidale, è facile calcolare per ogni sorgente (per esempio ogni supernova) la correzione per le loro luminosità, che sarà differente a seconda della direzione del cielo in cui si trovano (per esempio positiva lungo l’asse che espande più velocemente che il resto dell’universo). Quando applicate al più importante catalogo di supernove utilizzate per la misura del tasso di espansione, troviamo che queste correzioni inducono una variazione della costante di Hubble dell’ordine di 0.5 km/s/Mpc. Applicate a un altro catalogo di candele standard, in gergo Sbf (acronimo di surface brightness fluctuations), la correzione della costante di Hubble è di 1.1 km/s/Mpc».

Vi aspettavate questo risultato?

«Personalmente no. La nostra motivazione principale dietro l’analisi è la cosiddetta tensione di Hubble, uno dei più importanti enigmi della cosmologia moderna. In breve, le misure della costante di Hubble ottenute analizzando supernove (e altre sorgenti locali) e quelle ottenute tramite le fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo (e altre sorgenti dell’universo primordiale) discordano significativamente. Dato che le prime non sono distribuite omogeneamente nel cielo, la nostra speranza era che l’anisotropia (termine tecnico per identificare asimmetria spaziale) di Laniakea potesse essere responsabile, almeno in parte. In parole povere, se le supernove fossero distribuite per lo più nelle direzioni in cui Laniakea espande più velocemente del resto dell’universo, le correzioni indotte tenderebbero ad alleviare la tensione di Hubble. Tuttavia, la maggioranza di queste si trova in direzioni in cui Laniakea espande più lentamente, e il risultato ottenuto è esattamente l’opposto. Riassumendo, il nostro studio peggiora (leggermente) la tensione di Hubble».


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Trovata in Calabria una “micrometeorite proibita”


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Ingrandimento al microscopio elettronico della micrometeorite recuperata sul Monte Gariglione. Crediti: G. Agrosì et al., Communications Earth & Environment, 2024

Una nuova e importante scoperta nell’ambito delle scienze planetarie è stata messa a segno da un gruppo di ricerca tutto italiano. Si tratta del rinvenimento di una meteorite estremamente rara, in quanto contiene rarissime leghe metalliche di alluminio e rame e che presenta al suo interno materiali con una simmetria proibita, i quasicristalli. La scoperta è descritta in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Communications Earth & Environment appartenente al gruppo editoriale di Nature-Portfolio.

La strana meteorite è stata studiata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Bari (Giovanna Agrosì, Daniela Mele, Gioacchino Tempesta e Floriana Rizzo del Dipartimento di scienze della terra e geoambientali), in collaborazione con l’Università di Firenze (Luca Bindi e Tiziano Catelani del Dipartimento di Scienze della Terra) e l’Agenzia spaziale italiana (Paola Manzari).

Il ritrovamento si è rivelato immediatamente eccezionale: si tratta del terzo caso al mondo di materiale extraterrestre contenente leghe metalliche di questo tipo e il secondo rinvenimento di una micrometeorite contenente un quasicristallo di origine naturale, dopo il ritrovamento della meteorite di Khatyrka, avvenuto nel 2011, grazie ad una costosissima e avventurosa spedizione internazionale che si era spinta fino ai confini dell’estremo Oriente russo, in Chukotka, luogo del ritrovamento della meteorite che le ha dato il nome.

La scoperta fatta rappresenta un tipico caso di citizen science; infatti, la micrometeorite, avente la forma di una piccola sferula, è stata trovata sul Monte Gariglione, in Calabria, da un collezionista che, notando una strana e inusuale lucentezza metallica, ha deciso di spedirla agli studiosi dell’Università di Bari per indagare sulla natura di questo oggetto apparentemente inspiegabile. Le analisi effettuate hanno prontamente messo in luce un’incredibile scoperta: la sferula era extraterrestre. La sua singolare lucentezza metallica, dovuta alla presenza di una lega metallica di rame e alluminio, conta rarissimi ritrovamenti precedenti. Gli studiosi sono rimasti impressionati nel constatare di avere tra le mani un elemento mai trovato in natura: un nuovo e rarissimo quasicristallo presente nella meteorite.

«I quasicristalli sono materiali in cui gli atomi sono disposti come in un mosaico, in modelli regolari ma che non si ripetono mai nello stesso modo, diversamente da quello che succede nei cristalli ordinari», racconta Luca Bindi, ordinario di mineralogia e direttore del Dipartimento di scienze della Terra dell’ateneo fiorentino. «Fu Dan Shechtman, poi premiato nel 2011 con un Nobel per le sue scoperte, a studiarne negli anni ’80 la struttura, che li rende preziosi anche per applicazioni in vari settori industriali. Quindici anni fa, fui proprio io a scoprire che tale materiale esisteva anche in natura, grazie all’individuazione del primo quasicristallo in un campione appartenente alla meteorite Khatyrka, conservato nel Museo di storia naturale dell’Università di Firenze».

La scoperta è decisamente eccezionale per il fatto che si tratta del secondo rinvenimento di una micrometeorite contenete quasicristalli, ma anche per il fatto che la piccola sferula è stata scoperta in Italia meridionale, a migliaia di chilometri dal primo ritrovamento, ed è stata studiata da un gruppo di ricerca interamente italiano con capofila l’Università di Bari.

«Lo sviluppo delle scienze planetarie in Italia meridionale è un punto su cui abbiamo sempre creduto e questa scoperta dimostra come il contributo degli studi geologico-mineralogici siano essenziali per il progresso delle conoscenze sul nostro Sistema solare», dice Giovanna Agrosì, docente di mineralogia dell’Università di Bari e coordinatrice dello studio.

«I risultati di questa ricerca», commenta Paola Manzari dell’Unità di coordinamento ricerca e alta formazione (Ucr) del Centro spaziale di Matera dell’Asi, «mostrano che esiste un universo ancora ignoto di fasi mineralogiche alla nanoscala nei materiali di origine extraterrestre, che riesce ancora a sorprenderci. La scoperta di questa lega anomala in una matrice condritica, insieme alla presenza dei quasicristalli, apre nuovi scenari sulle origini del materiale originario da cui si è staccato il frammentino e fornisce nuovi elementi per comprendere i meccanismi di formazione del Sistema solare».

La preziosissima micrometeorite è attualmente custodita nel Museo di scienze della terra dell’Università di Bari, luogo nel quale si è in procinto di allestire una sezione dedicata a campioni extraterrestri.

«La scoperta», conclude Giuseppe Mastronuzzi, direttore del Dipartimento di scienze della Terra e geoambientali dell’Università di Bari, «è importantissima non solo per le scienze mineralogiche e planetarie ma anche per la fisica e la chimica dello stato solido; essa dimostra ancora una volta che i quasicristalli possono formarsi spontaneamente in natura e, soprattutto, rimanere stabili per tempi geologici».

Per saperne di più:

  • Leggi su Communications Earth & Environment l’articolo “A naturally occurring Al-Cu-Fe-Si quasicrystal in a micrometeorite from southern Italy”, di Giovanna Agrosì, Paola Manzari, Daniela Mele, Gioacchino Tempesta, Floriana Rizzo, Tiziano Catelani e Luca Bindi


Supernove termonucleari, fonti di polvere cosmica


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Rappresentazione artistica di una supernova. Crediti: Nasa/Cxc/M.Weiss

L’universo è pieno di polvere. Polvere cosmica. Polvere che, se da una parte può sembrarci fastidiosa, oscurando la visuale dei telescopi ottici e traendo di tanto in tanto in inganno i cosmologi, dall’altra gioca un ruolo fondamentale in numerosi processi fisici – non ultimo la formazione dei mondi come quello nel quale viviamo. Proprio come la polvere che troviamo ovunque qui sulla Terra, la polvere cosmica è costituita da grumi di molecole che si sono condensate e unite a formare granelli. Ma da dove arriva, tutta questa polvere? Chi la produce? La sua origine ha rappresentato a lungo un mistero. Un mistero che ora – grazie a un’osservazione durata oltre mille giorni di Sn 2018evt, una supernova vista esplodere nell’agosto 2018 a oltre 300 milioni di anni luce da noi – inizia a dissiparsi.

A dire il vero, esistono fabbriche di polvere straordinarie conosciute da tempo: le supernove. Ma finora la polvere che generano era stata osservata solo per una famiglia particolare di supernove: quelle a collasso nucleare, prodotte appunto dal collasso del nucleo – e dalla conseguente esplosione – di stelle molto massicce, almeno nove volte la massa del Sole. Sono le cosiddette supernove di tipo II. Il problema è che le supernove di tipo II difficilmente avvengono nelle galassie ellittiche – enormi agglomerati di stelle d’aspetto sferoidale e senza strutture definite quali, per esempio, i bracci a spirale della nostra Via Lattea.

Da dove arriva, dunque, la polvere presente nelle galassie ellittiche? I dati raccolti dallo spazio e da terra – con satelliti come Spitzer e NeoWise della Nasa, con la rete globale di telescopi dell’Osservatorio di Las Cumbres e altri in Cina, Sud America e Australia – nei tre anni di osservazione di Sn 2018evt, pubblicati la settimana scorsa su Nature Astronomy da un team guidato da Lingzhi Wang dell’Accademia cinese delle scienze, offrono una risposta proprio a questa domanda: la polvere può essere prodotta anche dalle supernove di tipo Ia.

Sn 2018evt, infatti, non è una un supernova a collasso nucleare, bensì appartiene alla famiglia delle supernove termonucleari, quelle di tipo Ia, prodotte dall’esplosione di nane bianche in sistemi binari con stelle compagne, alle quali sottraggono man mano massa fino a raggiungere il cosiddetto limite di Chandrasekhar. E, diversamente dagli altri tipi di supernove, quelle di tipo Ia – studiatissime dagli astronomi perché possono essere usate come candele standard per stimare le distanze cosmiche – si trovano in qualunque tipo di galassia, ellittiche comprese.

A fornire la prova della formazione di polvere a seguito dell’esplosione di Sn 2018evt è stato il repentino diminuire della sua luminosità in banda ottica, oscurata appunto dalla polvere, accompagnato da un aumento della luminosità in banda infrarossa, dovuto al fatto che il gas circumstellare, dopo il passaggio dell’onda d’urto della supernova, stava tornando a raffreddarsi. «La polvere si forma quando il gas si raffredda al punto da condensare», spiega infatti uno dei coautori dello studio, Andy Howell, dell’Osservatorio di Las Cumbres e dell’Università della California a Santa Barbara.

«Le origini della polvere cosmica sono state a lungo un mistero. Il nostro studio», conclude Wang, primo autore dell’articolo pubblicato su Nature Astronomy, «rappresenta il primo rilevamento di un processo di formazione di polvere significativo e rapido in una supernova termonucleare che interagisce con il gas circumstellare».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Newly Formed Dust within the Circumstellar Environment of SNIa-CSM 2018evt”, di Lingzhi Wang, Maokai Hu, Lifan Wang, Yi Yang, Jiawen Yang, Haley Gomez, Sijie Chen, Lei Hu, Ting-Wan Chen, Jun Mo, Xiaofeng Wang, Dietrich Baade, Peter Hoeflich, J. Craig Wheeler, Giuliano Pignata, Jamison Burke, Daichi Hiramatsu, D. Andrew Howell, Curtis McCully, Craig Pellegrino, Lluís Galbany, Eric Y. Hsiao, David J. Sand, Jujia Zhang, Syed A Uddin, J. P. Anderson, Chris Ashall, Cheng Cheng, Mariusz Gromadzki, Cosimo Inserra, Han Lin, N. Morrell, Antonia Morales-Garoffolo, T. E. M üller-Bravo, Matt Nicholl, Estefania Padilla Gonzalez, M. M. Phillips, J. Pineda-García, Hanna Sai, Mathew Smith, M. Shahbandeh, Shubham Srivastav, M. D. Stritzinger, Sheng Yang, D. R. Young, Lixin Yu e Xinghan Zhang


Cieli bui, dove trovarli?


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L’immagine che vedete qui sotto è una rappresentazione della cosiddetta scala di Bortle, e mostra come cambia la visione del cielo a seconda del grado di inquinamento luminoso del luogo in cui vi trovate. Se vivete in città o nella prima periferia, vi sarete probabilmente accorti di quanto sia diventato difficile vedere le stelle di sera, o nel corso della notte: il cielo sopra le vostre teste somiglierà molto a uno dei primi due riquadri da sinistra. Se siete un po’ più fortunati, vi troverete forse in una condizione più simile al terzo. Solo una piccola parte di voi potrà dire di avere la fortuna di vedere, sopra la propria casa, un cielo come quello del quarto riquadro o oltre. I dati indicano, infatti, che oggi l’inquinamento luminoso impedisce a un terzo degli abitanti a livello globale di vedere la Via Lattea, e fra questi quasi l’80 per cento dei nordamericani e il 60 per cento degli europei; e che meno dell’1 per cento dei residenti in Nord America e in Europa gode di cieli notturni incontaminati.

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Questa immagine illustra la scala di Bortle, che misura l’impatto dell’inquinamento luminoso sul cielo buio in una determinata località. Mostra, da sinistra a destra, l’aumento del numero di stelle e di oggetti notturni visibili in condizioni di cielo più o meno inquinato da sorgenti artificiali. L’illustrazione è una modifica di una fotografia originale scattata all’Osservatorio del Paranal dell’Eso in Cile, un luogo con eccellenti condizioni di cielo buio, perfetto per l’astronomia. Crediti: Eso/P. Horálek, M. Wallner

Si tratta di un problema che riguarda l’intera società e che ha un impatto diretto su chi, con il cielo, ci lavora. Gli astronomi, ad esempio, che negli ultimi cinquant’anni sono passati da registrazioni a occhio nudo delle condizioni del cielo notturno – negli anni ’70 e ’80 – a veri e propri studi strumentali e sistematici del peggioramento dell’inquinamento luminoso nei siti di osservazione da terra. Il mese scorso, su The Astronomical Journal, è stato pubblicato uno studio condotto da astronomi che lavorano in osservatori cileni che valuta, con una copertura e una risoluzione senza precedenti, il grado di inquinamento luminoso in quattro siti della regione cilena di Coquimbo: il Parco Nazionale di Fray Jorge, una riserva stellare certificata; l’Osservatorio di Las Campanas, un osservatorio astronomico professionale in cima a una montagna nel deserto di Atacama; l’Osservatorio Astroturistico di Collowara, situato vicino a una città di 11mila abitanti; e La Serena, una città di 450mila abitanti. Il primo autore dello studio è Rodolfo Angeloni, astronomo classe 1979 originario di Amelia, una piccola cittadina umbra al confine con il Lazio e che, dopo il dottorato a Padova, ha seguito le stelle in Cile al Gemini Observatory.

«L’inquinamento luminoso sta avanzando molto più rapidamente (il 7-10 per cento all’anno) di quanto stessimo precedentemente immaginando», spiega a Media Inaf Angeloni. «Stanno aumentando rapidamente sia i livelli di intensità specifica che le aree illuminate. Un problema particolarmente insidioso poi è l’avanzata delle luci led, soprattutto di quelle bianco-azzurre che sono più inquinanti per vari motivi legati sia alla fisica di per sé (i.e., scattering) che all’impatto su svariati processi biologici, con pesanti influenze negative a livello ecologico e medioambientale, oltre che sociale, economico e culturale».

In particolare, nell’articolo si riporta che le misurazioni hanno confermato che il Parco nazionale Fray Jorge – già noto per essere uno dei luoghi più bui al mondo – rimane un sito di cielo buio eccezionale, con appena il 4 per cento della luminosità del cielo notturno proveniente da luci artificiali, e va pertanto preservato e protetto dall’inquinamento luminoso.

All’Osservatorio di Las Campanas, futura sede del Giant Magellan Telescope di 25 metri, invece, le luci artificiali hanno aggiunto circa un 11 per cento alla luminosità del cielo, con i maggiori contributi provenienti dalle città di La Serena e Vallenar, città che si trovano rispettivamente a 117 e 49 chilometri di distanza. Fortunatamente, l’impatto dell’inquinamento luminoso sull’osservatorio è ancora ridotto, ma la crescita delle città vicine e il progetto in corso dell’autostrada Panamericana potrebbero peggiorare la situazione. Infine, i cieli che circondano La Serena sono illuminati in modo preponderante da fonti artificiali e l’impatto delle luci della città è stato avvertito a grande distanza. La Serena, infatti, è risultata anche la maggiore fonte di luminosità artificiale del cielo negli altri tre siti monitorati. E pensare che solo negli anni ’80 dalla città era ancora visibile la Via Lattea.

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Rodolfo Angeloni, astronomo all’osservatorio Gemini, in Cile, e primo autore dello studio sull’inquinamento luminoso in Cile pubblicato su The astronomical Journal

Gli autori dello studio intendono proseguire gli sforzi nella regione monitorando continuamente la luminosità del cielo di La Serena e installando altri 40 sensori nei siti di cielo buio. Angeloni ci anticipa anche che sta lavorando a un nuovo studio in cui presenta l’evoluzione della brillanza e della cosiddetta spectral energy distribution – o Sed, ovvero la distribuzione di energia della luce a diverse lunghezze d’onda – del cielo notturno dal 2019 ad oggi nei principali osservatori professionali del Cile (Ctio, Gemini, La Silla, Paranal, Las Campanas, etc), attraverso dati che provengono da un monitoraggio che per alcuni di questi siti ha una risoluzione addirittura trimestrale. I risultati, purtroppo, non sembrano essere incoraggianti.

E se in Cile la situazione è piuttosto preoccupante, dal momento che il territorio ospita moltissimi telescopi internazionali ed europei, in Europa e in Italia il cielo versa in condizioni anche peggiori. In Europa sembra che i luoghi davvero scuri, i cosiddetti dark skies, si contino sulle dita di una mano. Lo scorso anno è stato pubblicato uno studio in cui ne veniva individuato uno nelle alpi austriache, dove si trova il Sölktäl Naturpark.

«In Italia non ci sono indicazioni quantitative precise e prolungate nel tempo, che io sappia: a parte pochi esempi virtuosi come quello dell’Arpav in Veneto, non ci sono network dedicati», racconta Angeloni, «anche se le cose si stanno un po’ muovendo, anche grazie agli astrofili». Nella riserva naturale del Monte Rufeno, al confine tra Umbria Lazio e Toscana, ad esempio, si trova un osservatorio amatoriale gestito dall’associazione Nuova Pegasus che da circa un anno sta monitorando la qualità del cielo notturno attraverso un fotometro: i dati sono disponibili pubblicamente.

E non è tutto. Le condizioni di osservabilità del cielo non dipendono solo dalla brillanza di questo – anche se in grande misura è così – ma devono tenere in considerazione anche il disturbo arrecato dal sempre crescente numero di satelliti artificiali in orbita attorno al nostro pianeta, che disturbano il puntamento dei telescopi lasciando, al loro passaggio, strisciate luminose nelle immagini. Ha davvero senso continuare a investire nell’astronomia da terra?

«Personalmente credo che abbia senso continuare a investire nell’astronomia da Terra, anche se le sfide sono molteplici», commenta Angeloni. «Forse la strategia vincente per almeno arginare il problema dell’inquinamento luminoso è, paradossalmente, non centrare il discorso sulla perdita del cielo stellato (come se fosse un problema della sola comunità scientifica astronomica) ma spiegare al grande pubblico che, in realtà: primo, l’inquinamento luminoso è un problema trasversale che ci riguarda tutti direttamente, a causa delle comprovate conseguenze economiche e di salute che un mal uso dell’illuminazione tanto pubblica come privata comporta; e che, secondo, nessuno vuole spegnere le città in una utopica “decrescita felice”: non parliamo necessariamente di illuminare meno, ma semplicemente di illuminare meglio. Sfatando anche alcuni miti urbani che vedrebbero il livello della sicurezza delle nostre strade direttamente legato al loro livello di illuminazione. Anche in questo caso, la chiave del discorso è illuminare meglio, ad esempio garantendo un’illuminazione uniforme e costante lungo una via, piuttosto che illuminare più intensamente – creando paradossalmente delle zone di ombra dove la sensazione di insicurezza cresce. È un discorso multifattoriale piuttosto complesso, che per essere compreso, affrontato, e combattuto ha bisogno della collaborazione di molti attori: agli scienziati il compito di fornire il punto quantitativo della situazione, per poter poi permettere ai decision makers di prendere decisioni “informate” basate su dati oggettivi e non su sensazioni distorte o, peggio ancora, tornaconti politici elettorali a breve termine».

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Girotondo da capogiro per la binaria J0526


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Il sistema stellare binario TMmts J0526 raffigurato da un artista. La stella più grande a sinistra rappresenta la stella subnana calda, mentre quella più piccola a destra rappresenta la stella nana bianca. Crediti: Jingchuan Yu, Planetario di Pechino

È un girotondo da record quello giocato dal sistema binario Tmts J0526, composto da una nana bianca di ossigeno e carbonio e una stella subnana calda. Il periodo dell’orbita è infatti di appena venti minuti, talmente breve che il sistema è stato individuato come la variabile più rapida dal telescopio cinese Ma Huateng Telescope for Survey (Tmts) e potrebbe diventare un’importante fonte di onde gravitazionali osservabili da interferometri come Lisa, TianQin e Taiji. La scoperta, guidata da Jie Lin, Chengyuan Wu e Heran Xiong della Tsinghua University (Cina), è stata pubblicata oggi su Nature Astronomy.

Delle due stelle, però, solo una è visibile. Si tratta della subnana calda, una stella che ha perso il proprio involucro esterno di idrogeno prima di raggiungere questa fase ed è composta principalmente da elio, ha una massa appena di 0.33 la massa del Sole e un raggio 0.66 volte quello della nostra stella. Caratteristiche, le ultime due, che ne fanno la subnana non degenere più densa mai scoperta, e che, assieme alla brevità del periodo orbitale, aprono la strada a un’ipotesi precisa riguardo la sua formazione: il cosiddetto canale di doppia espulsione dell’inviluppo comune. Uno scenario complesso che confermerebbe uno degli scenari proposti per la formazione delle subnane calde, la cui origine è ancora controversa. Ce lo spiega Nancy Elias-Rosa, ricercatrice dell’Inaf di Padova e coautrice dello studio assieme a Irene Salmaso, dottoranda dell’Inaf di Padova.

«Questo studio conferma una delle teorie di formazione di queste subnane calde, la cosiddetta doppia eiezione dell’inviluppo comune. In generale», ricorda Elias-Rosa, «si ritiene che queste stelle siano un prodotto dell’evoluzione di un sistema binario. In particolare, quando il trasferimento di massa da una delle due componenti del sistema binario all’altra è instabile, si può formare un inviluppo comune. Il sistema binario al suo interno si avvicina e accorcia il suo periodo orbitale. Alla fine, questo inviluppo potrebbe essere espulso lasciando un sistema binario compatto composto da una subnana e da una stella di sequenza principale. Se ciò avvenisse alla fine dell’evoluzione della stella compagna, potrebbe verificarsi un’altra espulsione dell’involucro comune, lasciando un sistema composto da una subnana e una nana bianca. In entrambi i casi, il periodo orbitale sarebbe breve, dell’ordine di ore o giorni».

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Nancy Elias-Rosa, ricercatrice dell’Inaf di Padova e coautrice dello studio

La seconda stella, nel caso di J0526, sembrerebbe essere una nana bianca con una massa di circa 0,74 masse solari, e quindi un po’ più grande ma meno luminosa e calda della subnana. Anch’essa, dunque, è il prodotto finale dell’evoluzione di una stella e ha già consumato tutto il suo combustibile nucleare. Per raggiungere un periodo orbitale così breve, secondo la teoria, il sistema sta perdendo energia emettendo onde gravitazionali. D’altra parte, comunque, una condizione necessaria affinché un sistema binario emetta onde gravitazionali è proprio che le due stelle che lo compongono siano in una configurazione estremamente compatta, come quella proposta dall’esplosione dell’inviluppo comune.

Dopo aver individuato, usando il telescopio Tmts, J0526 come una delle sorgenti variabili con periodo più breve, gli autori hanno condotto nuove osservazioni spettroscopiche utilizzando il telescopio Keck I di 10 m, alle Hawaii, e il Gran Telescopio Canarias (Gtc) da 10,4 m situato a La Palma, in Spagna, e infine alcune osservazioni fotometriche in serie temporale con il telescopio da 2,4 m di Lijiang. Hanno così potuto calcolare con precisione il periodo di 20.5 minuti, e stabilire la composizione del sistema. Hanno notato, in particolare, che la componente più luminosa – la stella visibile, ovvero la subnana – subisce una deformazione a causa delle forze gravitazionali mareali esercitate dall’altra compagna più debole – la stella invisibile, cioè la nana bianca.

«Finora sono stati trovati solo quattro sistemi binari contenenti questo tipo di subnane e con periodi inferiori a un’ora», continua Elias-Rosa, «ma solo quello scoperto in questo studio ha il periodo più vicino al limite fissato dalla teoria per avere radiazione di onde gravitazionali. Nei sistemi binari ultracompatti, come quello di questo studio, formato da una stella subnana calda di tipo B e da una stella nana bianca, con periodi orbitali molto brevi (circa 20 minuti), si ritiene che le onde gravitazionali aiutino le due stelle a entrare in contatto e che la massa venga trasferita dalla subnana alla nana bianca prima che la subnana cessi la combustione nucleare e si contragga per diventare una nana bianca. Queste onde gravitazionali sono deboli per gli interferometri a terra come Ligo o Virgo, ma potrebbero essere rilevate da osservatori spaziali come Lisa».

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  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A seven-Earth-radius helium-burning star inside a 20.5-min detached binary“, di Jie Lin, Chengyuan Wu, Heran Xiong, Xiaofeng Wang, Péter Németh, Zhanwen Han, Jiangdan Li, Nancy Elias-Rosa, Irene Salmaso, Alexei V. Filippenko, Thomas G. Brink, Yi Yang, Xuefei Chen, Shengyu Yan, Jujia Zhang, Sufen Guo, Yongzhi Cai, Jun Mo, Gaobo Xi, Jialian Liu, Jincheng Guo, Qiqi Xia, Danfeng Xiang, Gaici Li, Zhenwei Li, WeiKang Zheng, Jicheng Zhang, Qichun Liu, Fangzhou Guo, Liyang Chen e Wenxiong Li


Cosa è nato prima: i buchi neri o le galassie?


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Illustrazione di un buco nero supermassiccio nell’universo primordiale, il cui campo magnetico genera flussi di plasma turbolento che aiutano a trasformare le nubi di gas vicine in stelle. Nuove scoperte suggeriscono che questo processo potrebbe essere responsabile dell’accelerazione della formazione di stelle nei primi 50 milioni di anni dell’universo. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

Una nuova analisi dei dati del James Webb Space Telescope suggerisce che i buchi neri supermassicci non solo esistevano già all’alba dei tempi, ma potrebbero aver accelerato drasticamente la nascita di nuove stelle durante i primi 50 milioni di anni dell’universo.

«Sappiamo che questi buchi neri mostruosi esistono al centro delle galassie vicine alla Via Lattea, ma la grande sorpresa è che erano presenti anche all’inizio dell’universo e che sono stati quasi dei mattoni o dei semi per le prime galassie», spiega Joseph Silk, professore di fisica e astronomia alla Johns Hopkins University e all’Istituto di Astrofisica dell’Università Sorbona di Parigi, primo autore dello studio appena pubblicato su Astrophysical Journal Letters. «Hanno davvero intensificato tutto, come giganteschi amplificatori della formazione stellare, e questo rappresenta un’inversione di tendenza rispetto a quanto pensavamo fosse possibile, tanto che potrebbe sconvolgere completamente la nostra comprensione di come si formano le galassie».

Gli scienziati hanno riscontrato che le galassie dell’universo primordiale, osservate dal telescopio Webb, appaiono molto più luminose di quanto previsto e rivelano un numero insolitamente elevato di stelle giovani e buchi neri supermassicci. I buchi neri sono regioni dello spazio in cui la gravità è così forte che nulla può sfuggire alla loro attrazione, nemmeno la luce. A causa di questa forza, danno origine a potenti campi magnetici che generano violente tempeste, espellendo plasma turbolento e agendo in ultima analisi come enormi acceleratori di particelle. Questo processo è probabilmente il motivo per cui i rivelatori di Webb hanno individuato un numero maggiore di buchi neri e galassie luminose rispetto a quanto previsto dagli scienziati.

Secondo Silk e il suo team, l‘universo giovane potrebbe aver attraversato due fasi. Durante la prima fase, i flussi di gas ad alta velocità provenienti dai buchi neri hanno accelerato la formazione stellare. Nella seconda fase, i flussi sono rallentati. In particolare, alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, le nubi di gas sono collassate a causa delle tempeste magnetiche dei buchi neri supermassicci e sono nate nuove stelle a un ritmo di gran lunga superiore a quello osservato miliardi di anni dopo nelle galassie normali. Con il tempo la creazione di stelle è rallentata perché questi potenti flussi di plasma hanno ridotto il gas disponibile.

«Pensavamo che all’inizio le galassie si formassero quando una gigantesca nube di gas collassava», conclude Silk. «La grande sorpresa è che al centro di quella nube c’era un seme, un grande buco nero, che ha contribuito a trasformare rapidamente la parte interna della nube in stelle, a una velocità molto superiore a quella che ci saremmo mai aspettati. E così le prime galassie sono incredibilmente luminose».

Il team prevede che le future osservazioni del telescopio Webb, con un conteggio più preciso delle stelle e dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, contribuiranno a confermare i loro calcoli. Silk si aspetta anche che queste osservazioni aiuteranno gli scienziati a mettere insieme altri indizi sull’evoluzione dell’universo.

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