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We Love Science: arte e scienza alle Canarie


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Fotografia di “The Other” (L’Altra), 2022, tratta dalla pagina Instagram dell’artista, Ruth Beraha, con il suo consenso. Crediti: Carlo Favero

Giulio Bensasson, Ruth Beraha, Antonio Della Guardia, Irene Fenara, Margherita Raso, Davide Stucchi, Serena Vestrucci e Jonathan Vivacqua: sono gli otto giovani artisti riuniti dal progetto “We Love Science“, nato come punto di incontro tra scienza ed arte. Sponsorizzato dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci) e curato da Ludovico Pratesi e Marco Bassan di Spazio Taverna, ha chiesto agli otto artisti di creare opere ispirate alle attività di altrettanti centri scientifici italiani di eccellenza, identificati dal Ministero, con lo scopo di allestire un’esposizione itinerante di arte contemporanea.

Fra i centri selezionati c’è anche il Telescopio nazionale Galileo (Tng), il più grande telescopio interamente italiano, situato sull’isola di La Palma, alle Canarie. Il Tng ha contribuito attivamente alla creazione di una delle opere d’arte contemporanea, intitolata “L’Altra”, nata dalla visita dell’artista Ruth Beraha all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos durante l’estate del 2022. In quell’occasione Beraha ha avuto la possibilità di visitare i laboratori e gli uffici del telescopio, nonché di vivere l’esperienza del cielo stellato del Roque de Los Muchachos e partecipare alle osservazioni direttamente dalla sala di controllo del Tng.

Il risultato di questa esperienza è stata l’opera d’arte, accompagnata da un video in cui l’artista descrive le sensazioni vissute durante il suo soggiorno a La Palma. Nell’opera il volto dell’artista è impresso sul fondo di una massa di vetro scuro, che lo distorce e lo rende intuibile solo da certe angolazioni. E per Beraha è proprio qui il punto d’incontro tra arte e astronomia: è come se lo sguardo del Tng, lanciato lontano alla ricerca di un’altra Terra, fosse in realtà uno sguardo rivolto verso se stessi.

Grazie a una collaborazione con l’Inaf e il Vice Consolato d’Italia ad Arona (Tenerife), il Tng è ora riuscito a portare l’esposizione delle otto opere sull’isola, presso l’Osservatorio del Roque de Los Muchachos. La cerimonia di inaugurazione, presieduta dal vice console d’Italia alle Isole Canarie, Gianluca Cappelli Bigazzi, e dal direttore del Tng, Adriano Ghedina, si è tenuta sabato 3 febbraio al Centro de Visitantes dell’Osservatorio, e si è conclusa con una visita al telescopio.

La visita dell’esposizione è gratuita ed è aperta tutti i giorni, dal 3 febbraio al 15 marzo 2024, dalle 10:00 alle 16:30, presso il Centro de Visitante del Roque de Los Muchachos.

Guarda il video con Ruth Beraha sul canale YouTube della Farnesina:

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Tondi da grandi, piatti alla nascita


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La forma dei giganti gassosi alla nascita non è sferica come si potrebbe immaginare, bensì appiatta. È quanto emerge da una nuova ricerca condotta da due scienziati della University of Central Lancashire (Uclan), nel Regno Unito. Secondo quanto riportato nello studio, pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics Letters, l’espetto di questi mondi allo stadio di protopianeti sarebbe quello di uno sferoide oblato, cioè una sfera schiacciata ai poli.

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Immagine che mostra un embrione planetario simulato visto dall’alto, a sinistra, e visto di lato, a destra. Crediti: Adam Fenton e Dimitris Stamatellos, A&AL, 2024

Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno condotto sofisticate simulazioni sfruttando la potenza di calcolo dei computer della Dirac High Performance Computing Facility. Facendo girare sulle macchine di questa struttura di ricerca il codice Sph Phantom, hanno poi seguito l’evoluzione dei protopianeti da cui i giganti gassosi si formano.

L’obiettivo dei ricercatori era quello di determinare la struttura tridimensionale degli embrioni planetari. Non di qualsiasi embrione planetario, però: solo di quegli embrioni il cui processo di formazione avviene attraverso la cosiddetta instabilità del disco – il modello utilizzato per spiegare la formazione dei pianeti che hanno orbite ampie, cioè pianeti che si trovano molto distanti dalla loro stella madre, tipicamente giganti gassosi.

«Si ritiene che i pianeti si formino o per accrescimento del nucleo, cioè a partire da particelle di polvere che si uniscono per formare corpi via via più grandi, su tempi scala lunghi, o per instabilità del disco, cioè per rottura dei grandi dischi protostellari attorno alle giovani stelle, su tempi scala brevi», spiega Adam Fenton, ricercatore al Jeremiah Horrocks Institute for Mathematics, Physics and Astronomy di Uclan e coautore della pubblicazione.

«Quest’ultima teoria», aggiunge Fenton, «è interessante perché i pianeti di grandi dimensioni possono formarsi molto rapidamente e a grandi distanze dalla loro stella ospite, il che spiega alcune osservazioni».

Secondo il modello della instabilità del disco, i giganti gassosi si formano dunque per frammentazione del disco protoplanetario della stella, frammentazione dovuta a instabilità gravitazionali. Gli aggregati di gas e polvere risultanti dal processo evolvono poi in pianeti per condensazione del gas.

Per modellare l’evoluzione dei protopianeti che si formano attraverso questo meccanismo, i ricercatori hanno imposto al codice di simulazione specifiche condizioni iniziali. Una di queste ha riguardato la massa del disco della stella, regolata al valore di 0.6 masse terrestri, in modo che l’instabilità della struttura producesse molti frammenti. Il team ha quindi avviato le simulazioni e seguito l’evoluzione di ogni singolo frammento, esaminando poi le proprietà degli embrioni planetari prodotti in varie condizioni di temperatura e densità.

Al termine delle simulazioni, i risultati hanno dipinto tutti lo stesso quadro, sottolineano i ricercatori. Un quadro in cui la forma degli embrioni planetari non è quella di una sfera perfetta, come precedentemente ipotizzato, bensì quella di uno sferoide appiattito, cioè un’ellisse schiacciata ai poli. I ricercatori, inoltre, hanno scoperto che i giovani pianeti in formazione accrescono materia prevalentemente dai poli piuttosto che dall’equatore. Si tratta di risultati con importanti implicazioni per le osservazioni dirette di questi “semi” planetari, poiché suggeriscono che il modo in cui essi appaiono al telescopio dipende dall’angolo di visione.

«Studiamo la formazione dei pianeti da molto tempo, ma mai prima d’ora avevamo pensato di determinare la forma dei protopianeti attraverso le simulazioni», dice a questo proposito l’altro autore della pubblicazione, il ricercatore, anche lui dell’Uclan, Dimitris Stamatellos. «Abbiamo sempre pensato che fossero sferici. Rilevare che sono degli sferoidi oblati simili agli smarties, ci ha lasciati molto sorpresi».

I ricercatori stanno ora dando seguito alla ricerca utilizzando modelli computazionali migliorati, per esaminare come la forma di questi pianeti è influenzata dall’ambiente in cui si formano e per determinarne la composizione chimica, che sarà poi confrontata con le future osservazioni del James Webb Space Telescope.

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Cascata di molecole eruttata da un quasar


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Infografica che rappresenta l’espulsione delle molecole di OH dal quasar (in alto). La freccia (in basso) indica l’assorbimento dovuto alle molecole di OH che fuoriescono dalla galassia che ospita il quasar. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao) modificato da D. Salak et al.; D. Salak et al., ApJ, 2024

Che certe galassie un po’ irrequiete eruttassero nubi di gas dalle regioni nucleari non è una novità. Nel corso degli anni si sono susseguite numerose osservazioni che hanno rivelato, in galassie più e meno lontane dalla nostra, ingenti espulsioni di materiale utilizzando i traccianti chimici più svariati. Questi eventi sono stati registrati in galassie contraddistinte da una poderosa attività di formazione stellare (galassie starburst) e in quelle ospitanti buchi neri supermassici alimentati dalla caduta di gas (galassie attive). Le enormi quantità di energia sprigionate in queste fasi generano infatti espulsioni rapidissime di materiale, con il gas che viene scagliato via anche a diverse migliaia di chilometri al secondo.

Tuttavia, se proviamo a riavvolgere il nastro, ben poco si sa in questo senso di ciò che accadde nel primo miliardo di anni di vita dell’universo, epoca ardua da investigare anche con le tecnologie attuali. Ad oggi, di questo periodo remoto della storia del cosmo, si registrano infatti solo poche evidenze di espulsioni di gas, alcune delle quali ancora controverse.

Adesso un team internazionale di astronomi sembra aver rivelato per la prima volta un’eruzione di gas molecolare in un quasar lontanissimo dalla Terra. J2054-0005 è il nome del protagonista di questa vicenda uscita la scorsa settimana su The Astrophysical Journal. La scelta di tale oggetto non è stata casuale. Come affermato da Takuya Hashimoto, uno dei coautori del lavoro, «J2054-0005 è uno dei quasar più brillanti dell’universo lontano, così abbiamo deciso di osservarlo in quanto rappresenta un candidato eccellente per studiare poderose espulsioni di gas». Le sorgenti estremamente energetiche sono infatti gli oggetti ideali per ospitare tali fenomeni.

La scoperta è stata compiuta studiando la molecola di idrossile (OH). In particolare, il gas espulso si sta muovendo a una velocità di oltre 600 km/s. «L’espulsione di gas molecolare è stata scoperta in assorbimento», dice Dragan Salak dell’Università di Hokkaido (Giappone) e primo autore dello studio. «Questo significa che le molecole di OH hanno assorbito parte della radiazione emessa dal quasar. Così è stato come rivelare la presenza del gas vedendo l’ “ombra” che genera davanti alla sorgente luminosa». Una tecnica analoga viene utilizzata per individuare le galassie situate per caso davanti ai quasar.

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Alcune antenne dell’interferometro Alma in Cile. Ciascuna delle antenne con cui è stato compiuto lo studio ha un diametro di 12 metri. Crediti: Eso/Y. Beletsky

Le osservazioni sono state realizzate con l’interferometro Alma, localizzato nel nord del deserto di Atacama, in Cile. Questo strumento è attualmente l’unico in grado di raggiungere la sensibilità necessaria per rivelare le espulsioni di gas molecolare in oggetti remoti come il quasar al centro di questa scoperta. Per raccogliere i dati sono state utilizzate dalle 41 alle 46 antenne, puntate sul quasar per oltre sette ore.

Fenomeni di questo tipo potrebbero avere un’importanza cruciale nell’evoluzione delle galassie. Un vero e proprio rompicapo per gli astronomi è senza dubbio l’interruzione della formazione stellare nelle galassie sferoidali. Per ragioni che ancora non si comprendono sembra che questi oggetti abbiano cessato di produrre nuovi astri già svariati miliardi di anni fa. Alcuni modelli teorici prevedono che le eruzioni di gas, come quella osservata in J2054-0005, possano avere un ruolo determinante nell’inibire il processo di formazione stellare. Il gas molecolare costituisce infatti la materia prima da cui si formano le stelle. Le espulsioni di questo ingrediente finirebbero dunque per ripulire le galassie del combustibile per alimentare la nascita di nuovi astri, spiegando perché certe galassie massicce sono state di colpo “sterilizzate”. In particolare, gli astronomi hanno stimato che la galassia che ospita J2054-0005 potrebbe venire svuotata della sua riserva di gas molecolare in dieci milioni di anni, un’inezia per le tempistiche astronomiche.

Tuttavia le cose non sono così semplici. Così come espellono il gas, le galassie possono rifornirsi di nuovo materiale dal mezzo circumgalattico. Le galassie non sono infatti oggetti sospesi nello spazio vuoto, ma sono circondate da estesi aloni di gas. È dunque fondamentale trovare dei meccanismi che inibiscano l’accrescimento di nuovo materiale, che potrebbe riaccendere la formazione stellare. Resta il fatto che quella riportata nello studio rappresenterebbe la prima forte evidenza di eruzioni di gas molecolare nell’infanzia dell’universo.

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Mimas cela un inatteso oceano d’acqua liquida


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Che alcuni satelliti dei pianeti esterni del Sistema solare ospitino grandi oceani sotterranei d’acqua liquida, come la luna gioviana Europa, o Encelado attorno a Saturno, lo sappiamo. Così come sappiamo che possono essercene altri. Che uno di questi fosse Mimas, la luna più interna del pianeta con gli anelli, sembrava però poco probabile. Invece, stando a quanto si riporta in uno studio uscito oggi su Nature, sarebbe proprio così: un oceano recente di acqua liquida circonda tutto il corpo del satellite, e ne causa oscillazioni dell’orbita altrimenti non spiegabili.

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Al centro, fra altri mondi con oceani sotterranei, la luna di Saturno Mimas, che secondo quanto presentato in un articolo pubblicato su Nature, sotto la sua spessa crosta di ghiaccio ospiterebbe anch’esso un vasto oceano di acqua liquida. Crediti: Frédéric Durillon, Animea Studio; Observatoire de Paris – Psl, Imcce

Mimas è un piccolo satellite con una forma leggermente a uovo che rivoluziona attorno a Saturno in maniera sincrona, ovvero rivolgendo al pianeta sempre la stessa faccia. Quella che guarda verso l’esterno, invece, è caratterizzata da un enorme cratere da impatto largo 140 km e che si estende per circa un terzo del diametro dell’intero satellite. Lo potete vedere nell’immagine qui sopra, nella quale Mimas è il corpo grigio al centro. La densità di questo satellite è appena 1.17 volte quella dell’acqua, il che significa che è composto prevalentemente da ghiaccio d’acqua e solo in piccola parte da roccia. Un’altra caratteristica del satellite che gli scienziati avevano notato grazie alle osservazioni della sonda Cassini era che il suo moto di rivoluzione attorno a Saturno presentava delle librazioni, ovvero dei movimenti oscillatori causati dall’interazione gravitazionale con il pianeta, molto più pronunciati di quanto ci si aspettasse. Non solo: l’orbita di Mimas ha una precessione retrograda: in altre parole, le posizioni di pericentro e apocentro (rispettivamente i punti più vicini e lontani al pianeta, in un’orbita ellittica) si spostano in direzione opposta al moto di rivoluzione della luna.

Dal momento che le variazioni nell’orbita di un corpo in moto attorno a un centro gravitazionale sono influenzate dalla forma del corpo stesso e anche dalla sua composizione interna, per spiegare queste anomalie le ipotesi al vaglio degli scienziati erano due: la prima, che il nucleo roccioso del satellite avesse una forma molto allungata, che influenzasse la distribuzione interna della materia al punto da causare differenze nei momenti di inerzia lungo l’orbita; la seconda, che sotto la superficie ci fosse un vasto oceano liquido che consentisse alla crosta di muoversi e di oscillare in maniera indipendente dal nucleo interno del pianeta.

La presenza di oceani sotterranei, nei satelliti finora noti, è solitamente tradita da alterazioni superficiali causate dalla dinamica interna di queste enormi masse d’acqua. Non sempre, però, e non nel caso di Mimas, motivo per cui gli scienziati avevano sempre pensato che l’ipotesi più plausibile fosse quella del nucleo allungato.

Nel nuovo studio gli autori hanno fatto una ricostruzione dettagliata del moto di Mimas, combinando informazioni sulla precessione retrograda dell’orbita con misure dettagliate delle sue librazioni; hanno visto però che il loro modello non funziona se si assume che il pianeta sia un mondo ghiacciato con un nucleo roccioso allungato. Funzionerebbe, invece, se si assumesse la presenza di un vasto oceano di acqua liquida. Come mai, allora, in superficie non si vedono le tracce tipiche indotte da questa enorme distesa d’acqua? Perché non c’è stato il tempo di formarle, sostengono gli autori. Non ancora: l’oceano sarebbe infatti troppo recente per aver apportato modifiche visibili sulla crosta di ghiaccio della luna. Sarebbe comparso fra i 25 e i 2 milioni di anni fa, e si troverebbe sotto uno spessore di 25-30 km di ghiaccio. E, fra l’altro, secondo gli autori non è escluso che anche Europa ed Encelado inizialmente mostrassero un comportamento simile a quello di Mimas. Di certo questo studio apre molte possibilità su altri corpi finora esclusi come potenziali detentori di acqua liquida e, con essa, di attività biologica presente o passata.

«Le scoperte di Lainey e dei suoi colleghi», pronosticano sempre su Nature Matija Ćuk e Alyssa Rose Rhoden nella loro “News and views”,un articolo di accompagnamento alla pubblicazione scientifica, «stimoleranno un esame approfondito delle lune ghiacciate di medie dimensioni in tutto il Sistema solare. Il Sistema solare riserverà ancora delle sorprese e i ricercatori devono essere abbastanza aperti a nuove idee e a possibilità inaspettate per riconoscerle».

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Giornata delle donne e delle ragazze nella scienza


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Anche per la nona edizione, l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) partecipa alla Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, promossa dall’Onu e celebrata in contemporanea in tutto il mondo, con una serie di eventi in numerose sedi in Italia e, quest’anno, anche all’estero. Tutte le iniziative intendono promuovere la partecipazione nella ricerca scientifica senza distinzione di genere e cercano di sensibilizzare la società sulle sfide e le opportunità che le donne affrontano nel campo della scienza. Di seguito, vi proponiamo una panoramica degli eventi che, a partire dal 9 febbraio, vedranno coinvolti in prima linea ricercatori e ricercatrici di diversi osservatori astronomici Inaf.

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Cinque fra le scienziate italiane nella top-500 di Research.com. Da sinistra: l’epidemiologa Eva Negri e le astronome Elena Pian, Marcella Brusa, Lucia Pozzetti ed Elena Zucca. Crediti: Federica Loiacono/Inaf

Genova, venerdì 9 febbraio – Partendo dalla riviera ligure, vi segnaliamo la proiezione del film Il diritto di contare, seguita dal dibattito sul ruolo delle donne e delle minoranze nella ricerca scientifica. L’appuntamento sarà al Cinema Ariston e nasce all’interno della collaborazione dell’Inaf con “Circuito Cinema Scuole” e il Dipartimento di fisica dell’Università di Genova. Partecipano all’evento, per il gruppo Univers@ll dell’Inaf, che si occupa di equità nell’accesso alla cultura scientifica, Eleonora Fiorellino e Claudia Mignone, qui in veste di moderatrice, oltre a studentesse e ricercatrici di fisica dell’Università di Genova.

Bologna, lunedì 12 febbraio – Un’altra proiezione è al centro dell’evento organizzato dall’Inaf Oas presso la Cineteca del capoluogo emiliano. Questa volta si tratta del documentario Picture a scientist e a intervenire sarà Stefania Varano a capo del gruppo inclusione Univers@ll dell’Inaf.

Roma, dal 9 al 12 Febbraio – La capitale ospiterà diversi eventi sul tema, a partire da “Creatività femminile e metodologia scientifica”, un convegno al Cnr per evidenziare – attraverso testimonianze personali, professionali, accademiche – quanto sia importante l’attitudine femminile, creativa ed emozionale, per l’avanzamento della ricerca scientifica. Organizzato da “Rete per la parità” il 9 febbraio, l’incontro vedrà interventi di Martina Cardillo, Enrico Costa e Stefano Orsini dell’Inaf Iaps di Roma. Martina Cardillo, terrà anche un seminario scientifico e una serie di letture di poesie in romanesco presso l’Istituto comprensivo “E. Montale”, in Via Casal Bianco, lunedì 12 febbraio nell’iniziativa “Space Science Club”. Sempre la mattina del 12 febbraio il Comitato unico di garanzia dell’Inaf, insieme a quelli di altri enti e istituzioni di ricerca (Asi, Infn, Cnr, Enea, Università di Roma Tor Vergata), organizzeranno “Scienza e Tecnologia? Giochi da ragazze!”, una giornata ricca di incontri e testimonianze in collaborazione con l’associazione Women in Aerospace (Wia) e con il patrocinio dell’Unione astronomica internazionale (Iau). L’evento, dedicato alle scuole superiori di II grado dell’area di Frascati, ma disponibile anche online su Teams, vede la partecipazione de “La scienza coatta” e di “GenerazioneStem”, la testimonianza della ricercatrice Inaf Francesca Panessa e Silvia Piranomonte e Chiara Badia del Cug Inaf tra gli organizzatori. Ospite d’eccezione, l’astrofisica Marica Branchesi, presidente del Consiglio scientifico dell’Inaf.

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Locandina di “STEMano ponno esse donne e ponno esse scienziate”, di e con “La Scienza Coatta”, progetto di divulgazione scientifica, e Ludovica Di Donato, autrice e attrice

Nella stessa giornata, il Cug Inaf ha concesso il patrocinio all’evento “She rocks science”, presso il Dipartimento di fisica dell’Università La Sapienza, che ospiterà una tavola rotonda e un’esposizione di poster sul progetto “Did this really happen?” e sulle ricerche svolte dalle giovani ricercatrici in astrofisica e astronomia rivolta a studenti e studentesse dei primi anni dell’università. Nella stessa giornata, anche l’Osservatorio astronomico di Roma dell’Inaf accoglierà studenti e studentesse per un incontro tutto al femminile, durante il quale le scuole secondarie di primo e secondo grado avranno l’opportunità di conoscere più da vicino alcune delle ricercatrici dell’Osservatorio grazie ai contributi di Ilaria Ermolli, Mariarita Murabito, Silvia Tosi, Flavia Dell’Agli, Chiara Ventura, Giuliana Fiorentino e Maria Teresa Menna. Infine, per chi ha voglia di affrontare il tema della parità di genere nella scienza con il sorriso sulle labbra, vi suggeriamo lo spettacolo “STEMano ponno esse donne e ponno esse scienziate” de “La Scienza Coatta” programmato per l’11 febbraio alle 20.00 e ospitato all’interno della mostra Inaf “Macchine del Tempo” al Palazzo delle Esposizioni.

Napoli, 15, 16 febbraio e 22 marzo – Nel capoluogo campano, l’Università Parthenope ospiterà, nei giorni 15 e 16 febbraio, “La vita e lo spazio”, un evento in cui docenti, studenti e studentesse rappresenteranno potenziali role-models per le generazioni più giovani. Per Inaf parteciperà Rosaria Sara Bonito dell’Osservatorio astronomico di Palermo. Il 22 marzo a Napoli ci sarà la presentazione dei risultati di “The fight against Gender Stereotypes begins in the classroom”, il progetto – seguito da Clementina Sasso dell’Inaf di Napoli – che ha proposto un corso di formazione per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado sul tema degli stereotipi di genere e di come essi agiscono in ambito scolastico e sullo sviluppo di attività didattiche ad hoc. Le attività didattiche sviluppate e testate in alcune classi campione in forma di gioco e di storytelling saranno poi messe a disposizione di tutti i docenti interessati a includerle nella propria pratica didattica. L’iniziativa, realizzata con il supporto dell’Inaf di Napoli, è interamente finanziata dall’U.S. Department of State Bureau of Education and Cultural Affairs attraverso il Meridian International Center, partner esecutivo, grazie al Piano lauree scientifiche del Dipartimento di fisica “E. Pancini” dell’Università di Napoli Federico II, all’Inner Wheel Club Torre del Greco e Comuni Vesuviani e con il patrocinio della missione diplomatica degli Stati Uniti in Italia.

Palermo, venerdì 9 febbraio – L’Osservatorio astronomico di Palermo, come negli scorsi anni, rinnova il suo impegno nella “Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza” organizzando un evento in collaborazione con l’Iss “Mario Rutelli” e con interventi da parte di colleghe e colleghi dell’Inaf, dell’Università di Palermo, dei Cug dell’Inaf (con Fabio D’Anna) e della Regione Sicilia, del gruppo inclusione Univers@ll dell’Inaf (con Silvia Pietroni), dell’associazione “Spazio Donna Zen”. In tale occasione si svolgerà la premiazione e l’esposizione degli elaborati sul tema “Donne e scienza” prodotti dalle studentesse e dagli studenti partecipanti selezionati dalla commissione nazionale. I progetti saranno tradotti nella lingua dei segni italiana durante l’evento che si terrà in presenza e in diretta nazionale sul canale YouTube dell’Inaf di Palermo.

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Tracy Caldwell Dyson, chimica e astronauta della Nasa, osserva la Terra dalla Stazione spaziale internazionale. Crediti: Tracy Caldwell Dyson/Nasa

Catania, domenica 11 febbraio –Rimaniamo in Sicilia, dove anche le ricercatrici catanesi effettueranno esperimenti e dimostrazioni pratiche su varie tematiche scientifiche in occasione dell’evento “Meet LE Researchers”, che si terrà l’11 febbraio mattina presso Città della Scienza, a Catania. L’evento prevede anche alcuni stand in cui, tra le altre cose, il pubblico sarà invitato a osservare la cromosfera del Sole al telescopio insieme alle ricercatrici dell’Inaf. L’evento è organizzato dal Csfnsm, il Centro siciliano di fisica nucleare e struttura della materia, in collaborazione con l’Università di Catania, l’Osservatorio astrofisico di Catania dell’Inaf e la Sezione di Catania dell’Infn.

Cagliari, venerdì 9 febbraio – Saltiamo da un’isola all’altra. Durante la masterclass “A caccia di Frb!”, organizzata nell’ambito del Piano lauree scientifiche dal Dipartimento di fisica dell’Università di Cagliari, studenti e studentesse saranno coinvolti in laboratori e attività di analisi su alcuni set di dati radio – realmente acquisiti con il Sardinia Radio Telescope o simulati – per capire le problematiche della rivelazione di Fast Radio Burst. Gli studenti e le studentesse partecipanti alla masterclass, ospitata nella Cittadella universitaria dalle ore 9.00 alle 17.00, presenteranno gli elaborati sulle attività svolte agli altri gruppi coinvolti nell’evento che, per Inaf, vedrà la partecipazione di Silvia Casu e Maura Pilia dell’Osservatorio astronomico di Cagliari.

Isole Canarie (Spagna), venerdì 9 febbraio – Un’altra isola, questa volta in Spagna, partecipa alla Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza: presso la sede del Tng, il Telescopio nazionale Galileo, a La Palma, l’appuntamento “El Universo como laboratorio” del 9 febbraio, alle 12.45, organizzato dall’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac), avrà in programma una conferenza online di scienziate per la scuola di Tenerife “IES Los Cristianos” nell’ambito del programma “Habla con Ellas”. Tra le relatrici, Gloria Andreuzzi, astronoma dell’Inaf.

Padova, giovedì 15 febbraio– In concomitanza con la serie di eventi per la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza segnaliamo “Dai fiocchi rosa ai femminicidi”, un incontro sulla costruzione sociale dei ruoli di genere promosso dall’Università di Padova – e in particolare dai dipartimenti di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione e di Fisica e astronomia – con il patrocinio dell’Inaf.

Torino, domenica 11 febbraio – Aderisce alla giornata internazionale, con la tavola rotonda in programma alle 16.00 “Le donne della fisica”, anche il planetario Infini.to, a Pino Torinese, con cui l’Inaf collabora.

Concludiamo con una novità: quest’anno, il Ministero dell’università e della ricerca ha istituito, per la prima volta, la Settimana nazionale delle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche nei giorni dal 4 all’11 febbraio 2024. Per tale ricorrenza, annunciata con un messaggio ai giovani dalla scienziata Amalia Ercoli Finzi, è stato realizzato un video che ha visto la partecipazione di ricercatrici dell’Inaf e che sarà trasmesso l’11 febbraio sui canali del Mur.

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Probabilmente roccioso, potenzialmente abitabile


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Un nuovo pianeta extrasolare, la prima super-Terra scoperta nella zona abitabile conservativa della propria stella: è questa la notizia con cui il cacciatore di esopianeti della Nasa, Tess, inaugura il 2024.

Il pianeta in questione si chiama Toi-715 b. È tre volte più massiccio e una volta e mezza più grande della Terra. E orbita attorno alla sua stella madre in una regione in cui ci sono le condizioni adatte affinché sul pianeta possa esistere acqua liquida, elemento essenziale per la vita come la conosciamo. Il periodo orbitale del pianeta e la temperatura effettiva della stella suggeriscono infatti un flusso di insolazione pari a 0.62 volte quello che riceve la Terra dal Sole, il che posiziona Toi-715 b all’interno della zona abitabile conservativa della sua stella.

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Illustrazione artistica che mostra il pianeta Toi-715 b in orbita alla sua stella madre, la nana rossa Toi-715. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Scoperto con il metodo dei transiti da un team di scienziati guidato dall’Università di Birmingham, nel Regno Unito, Toi-715 bè un pianeta con un periodo di rivoluzione molto breve: se vivessimo su questo mondo, festeggeremmo capodanno ogni 19 giorni. Il pianeta si trova dunque vicino alla sua stella, dalla quale dista poco più di 12 milioni di chilometri: circa 13 volte meno della distanza Terra-Sole, pari a 150 milioni di chilometri.

La stella madre di Toi-715 b è Toi-715. Si tratta di una nana rossa di circa 6.6 miliardi di anni, situata a 137 anni luce dalla Terra nella costellazione del Pesce Volante. Le nane rosse come Toi-715 sono stelle più piccole e più fredde del Sole. Le loro temperature superficiali fanno sì che la zona di abitabilità di questi astri sia più interna rispetto ad altre stelle, consentendo ai pianeti in orbita ravvicinata come Toi-715 b di mantenere comunque temperature adatte a sostenere, eventualmente, la vita. Rispetto ad altre nane rosse Toi-715 ha però un’ulteriore peculiarità. Una caratteristica che riguarda il suo tasso di emissione di brillamenti. Secondo i ricercatori, l’attività di flaring di Toi-715 è rara e comunque non abbastanza forte da influenzare ipotetici processi di chimica prebiotica su Toi-715 b. Ciò, spiegano i ricercatori, suggerisce che se mai su Toi-715 b fosse comparsa una qualche forma di vita, questa potrebbe ancora esistere. Naturalmente a patto che vi siano tutte le altre condizioni necessarie a sostenerla, come la presenza di acqua liquida e di un’atmosfera.

La scoperta di Toi-715 b è descritta in dettaglio in un articolo pubblicato l’anno scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. I ricercatori hanno validato e confermato la presenza del pianeta utilizzando diversi strumenti. Tra questi, oltre il telescopio Gemini-South, i telescopi della rete del Las Cumbres Observatory, quelli del progetto ExTrA, i telescopi Speculoos e il telescopio Trappist south, c’è anche il Campo Catino Austral Observatory, un telescopio situato all’Osservatorio El Sauce, in Cile, gestito da remoto dallo staff dell’Osservatorio di Campo Catino, in provincia di Frosinone – staff che comprende Giovanni Isopi, Franco Mallia e Aldo Zapparata, tutt’e tre fra i coautori dello studio.

Oltre che di Toi-715 b, nella pubblicazione gli scienziati parlano anche di un secondo pianeta, anch’esso roccioso e anch’esso situato nella zona abitabile conservativa della stella, ma al bordo più esterno della regione. Al momento soltanto un candidato pianeta, Tic 271971130.02 – questo il suo attuale nome in codice – avrebbe un periodo orbitale di circa 25 giorni e, cosa ancor più interessante, un raggio quasi uguale a quello della Terra. Una caratteristica che, qualora fosse confermato il suo status di pianeta, ne farebbe il più piccolo mondo scoperto da Tess all’interno della zona abitabile conservativa della sua stella.

Toi-715 b si aggiunge all’elenco dei pianeti che potrebbero essere esaminati in dettaglio dal telescopio spaziale James Webb. Il telescopio della Nasa è infatti progettato non solo per rilevare questi mondi lontani, ma anche per studiarne le caratteristiche peculiari. Ciò include anche lo studio della composizione dell’eventuale atmosfera, la cui caratterizzazione è fondamentale per avere indicazioni sul potenziale dei pianeti di sostenere la vita.

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A 1.55 R⊕ habitable-zone planet hosted by TOI-715, an M4 star near the ecliptic South Pole” di Georgina Dransfield, Matilde Timmermans, Amaury HMJ Triaud, Martin Dévora-Pajares, Cristiano Aganze, Khalid Barkaoui, Adam J Burgasser, Karen A Collins, Marion Cointepas, Elsa Ducrot, Massimiliano N. Günther, Steve B Howell, Catriona A Murray, Prajwal Niraula, Benjamin V. Rackham, Daniele Sebastiano, Keivan G Stassun, Sebastián Zúñiga-Fernández, Josè Manuel Almenara, Saverio Bonfils, Francois Bouchy, Christopher J. Burke, David Charbonneau, Jessie L Christiansen, Laetitia Delrez, Tianjun Gan, Lionel J. Garcia, Michele Gillon, Yilen Gómez Maqueo Chew, Katharine M. Hesse, Matthew J. Hooton, Giovanni Isopi, Emanuele Jehin, Jon M. Jenkins, David W. Latham, Franco Mallia, Filippo Murgas, Peter P. Pedersen, Francisco J. Pozuelos, Didier Queloz, David R. Rodriguez, Nicole Schanche, Sara Seager, Gregor Srdoc, Chris Stockdale, Joseph D. Twicken, Roland Vanderspek, Roberto Pozzi, Joshua N. Winn, Julien de Wit e Aldo Zapparata


Le aubriti dell’asteroide 2024 BX1


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Una aubrite proveniente dall’asteroide 2024 BX1, fotografata al Museo di storia naturale di Berlino da Laura Kranich, una studentessa che ha partecipato alla ricerca e ha trovato questa meteorite vicino al villaggio di Ribbeck. Il cubo serve per dare un’idea delle dimensioni, il lato misura 1 cm. Crediti: Laura Kranich/Museum für Naturkunde Berlin

In una precedente news, vi avevamo raccontato la storia della caduta del piccolo asteroide 2024 BX1, di circa 1 metro di diametro, scoperto la sera del 20 gennaio ad appena tre ore dalla collisione con la Terra, avvenuta il 21 gennaio alle 00:32:43 Utc. Nella stessa news vi avevamo informati che il 26 gennaio alcuni ricercatori del Museo di storia naturale di Berlino, della Libera Università di Berlino e del Centro aerospaziale tedesco avevano recuperato anche le prime probabili meteoriti appartenenti all’asteroide. Ora la nostra vicenda si arricchisce di ulteriori dettagli.

La ricerca di queste meteoriti non è stata facile, perché appartengono al raro gruppo delle aubriti. Il nome di queste meteoriti deriva dal villaggio di Aubrés, in Francia, dove il 14 settembre 1836 cadde il primo meteorite noto di questo tipo. In generale le aubriti sono acondriti composte principalmente da grandi cristalli bianchi di ortopirosseno, poveri di ferro e ricchi di magnesio, con fasi minori di olivina, ferro-nichel e troilite che indicano una formazione di tipo magmatico. La struttura a breccia della maggior parte delle aubriti testimonia la violenta storia collisionale del corpo genitore, probabilmente il Nea (3103) Eger oppure l’asteroide main belt (44) Nysa, un raro asteroide di tipo E.

Come si vede dall’immagine in apertura di questa news, che mostra una delle meteoriti raccolte, le aubriti di 2024 BX1 mancano della tipica crosta di fusione scura che caratterizza quasi tutti i tipi di meteoriti. Questa crosta si forma durante la caduta in atmosfera, quando la crosta del meteoroide in caduta raggiunge temperature dell’ordine di 2500-3000 K. Di solito anche le aubriti mostrano una crosta di fusione brunastra, in questo caso però la crosta di fusione era costituita da una sottile patina vetrificata e translucida che ne lascia vedere l’interno. Le meteoriti di 2024 BX1 assomigliano così a normali sassi terrestri: da qui la difficoltà del riconoscimento lungo lo strewn field e l’incertezza sulla natura dei primi frammenti ritrovati. Le analisi condotte su uno dei frammenti raccolti dai ricercatori del Museo di storia naturale di Berlino, usando una microsonda elettronica, hanno dimostrato che la mineralogia e la composizione chimica sono quelle tipiche di un’acondrite del tipo aubrite. L’uso della microsonda elettronica permette un’analisi non-distruttiva del campione: in effetti bombardando il materiale con un fascio di elettroni si possono analizzare le radiazioni X emesse dal materiale e identificarne così la composizione (ogni elemento chimico emette a ben definite frequenze). Questo risultato è stato sottoposto all’International Nomenclature Commission della Meteoritical Society il 2 febbraio, per il riconoscimento ufficiale della meteorite.

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Lo strewn field ottenuto da un modello a “pancake” per la caduta dell’asteroide 2024 BX1 con strength di 1 MPa visualizzato in Google Earth, senza ricorrere alla triangolazione del fireball. Crediti: A. Carbognani/Inaf-Oas

La velocità di ritrovamento delle meteoriti avvenuta a pochi giorni dalla caduta è dovuta alla precisa triangolazione del fireball generato da 2024 BX1 durante la caduta in atmosfera fatta dai ricercatori cechi Pavel Spurný, Jiří Borovička e Lukáš Shrbený (Astronomical Institute of the Academy of Sciences of the Czech Republic), che gestiscono la European Fireball Network. Tuttavia, nel caso di piccoli asteroidi che colpiscono la Terra poche ore dopo la scoperta, si possono usare i dati di posizione e velocità del punto di ingresso in atmosfera a 100 km di quota per propagare il moto dell’asteroide verso il suolo. Infatti questi dati sono noti dall’orbita eliocentrica determinata prima della caduta dalle osservazioni astrometriche al telescopio. Ipotizzando il valore della coesione del corpo si può avere un modello sia della frammentazione, sia del termine della fase di fireball e inizio del volo buio. Tutto questo permette di determinare l’istante della collisione al suolo dei frammenti, la cui posizione determina lo strewn field. Per curiosità, seguendo questa procedura, impiegando il modello a pancake per la caduta asteroidale con una coesione di 1 MPa e il profilo dell’atmosfera calcolato per l’inizio del volo buio (così da tenere conto di velocità e direzione del vento), quello che si trova è uno strewn field quasi coincidente con quello ottenuto dalla European Fireball Network. Se il prossimo piccolo asteroide che colpirà la Terra cadrà in una landa desolata, priva di camere all-sky per la triangolazione del fireball, c’è sempre il piano B per andare comunque alla ricerca delle meteoriti, rare testimonianze della storia del Sistema solare.

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El Gordo: ecco le linee del suo campo magnetico


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Immagine dell’ammasso “El Gordo” osservato dal Chandra X-ray Observatory e da telescopi ottici a terra. Il campo magnetico visualizzato dalle linee di flusso è sovrapposto all’immagine. Crediti: Nasa/Esa/Csa; Hu et al., 2023

Un gruppo internazionale di ricerca è riuscito a tracciare per la prima volta il più esteso campo magnetico all’interno di un ammasso di galassie. L’ammasso in questione è quello di “El Gordo”, il più massiccio mai osservato a grandi distanze, risalente a quando l’universo aveva circa 6,2 miliardi di anni, poco meno di metà della sua età attuale. I risultati – pubblicati su Nature Communications – offrono nuove fondamentali indicazioni per la comprensione della composizione e del processo di evoluzione degli ammassi di galassie.

«I risultati che abbiamo ottenuto pongono le basi per nuove importanti esplorazioni, su scale che fino ad ora erano inaccessibili», dice Annalisa Bonafede, professoressa al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. «Riuscire ad approfondire i misteri del magnetismo ci può aiutare a comprendere meglio i suoi effetti sull’evoluzione della struttura a grande scala dell’universo».

Formati da enormi quantità di galassie, di gas e di misteriosa materia oscura, gli ammassi di galassie sono gli elementi centrali che compongono la più grande struttura del nostro universo: la ragnatela cosmica. Questi ammassi non sono però solo ancore gravitazionali attorno a cui si raccolgono grandi quantità di materia, ma anche spazi dinamici profondamente influenzati dal magnetismo. I campi magnetici che si trovano all’interno degli ammassi di galassie sono infatti cruciali per modellare l’evoluzione del gas contenuto in questi giganti cosmici: dirigono i flussi termici e di accrescimento e sono fondamentali sia per accelerare che per confinare le particelle cariche ad alta energia e i raggi cosmici.

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Chiara Stuardi, ricercatrice all’Inaf Ira di Bologna e seconda autrice dello studio pubblicato oggi su Nature Communications, accanto a un’immagine dell’ammasso “El Gordo”. Crediti: Media Inaf

Le grandi distanze a cui si trovano gli ammassi di galassie e le complesse interazioni tra flussi di gas che avvengono al loro interno rendono però estremamente difficile riuscire a mappare i campi magnetici su scale così vaste.

Per riuscirci, gli studiosi hanno applicato una tecnica innovativa – nota come Synchrotron Intensity Gradients (Sig) – sviluppata dal gruppo di ricerca dell’Università del Wisconsin-Madsion, guidato da Alexandre Lazarian. In questo modo, grazie a osservazioni realizzate con i radiotelescopi Very Large Array (Vla) e MeerKat, gli studiosi sono riusciti a tracciare i campi magnetici rivelati dall’emissione radio proveniente da cinque ammassi di galassie, compreso El Gordo.

«L’utilizzo di questo approccio innovativo ci offre un modo nuovo per osservare e comprendere la distribuzione del campo magnetico in regioni che erano inaccessibili ai metodi tradizionali», commenta Chiara Stuardi, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna, secondo nome dello studio. «Dopo questi risultati straordinari possiamo pensare di applicare il metodo Sig per analizzare strutture cosmiche ancora più grandi, come i filamenti che mettono in connessione gli ammassi di galassie. Queste enormi strutture potranno essere osservate solo con radiotelescopi di ultimissima generazione come Ska, lo Square Kilometre Array».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications l’articolo “Synchrotron Intensity Gradient Revealing Magnetic Fields in Galaxy Clusters”, di Yue Hu, C. Stuardi, A. Lazarian, G. Brunetti, A. Bonafede e Ka Wai Ho


Radiazione X dal frammento d’una stella esplosa


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Quattro osservazioni ai raggi X del nodo oggetto dello studio guidato da Roberta Giuffrida. Nel pannello in alto a sinistra è mostrata un’osservazione del satellite Chandra realizzata nel 2003, con la linea bianca a indicare la direzione del resto di supernova. Nel pannello in alto a destra, invece, è mostrata un’immagine Chandra del 2012, con evidenziata la posizione del 2003. Nei pannelli in basso sono mostrate le osservazioni ottenute dal satellite Xmm/Newton nel 2004 e nel 2010. Crediti: R. Giuffrida et al., A&A, 2024

I resti di supernova, ovvero le nebulose in rapida espansione create dalle esplosioni di supernova, possono costituire intense sorgenti di radiazione ad alta energia, in particolare raggi X. Tale radiazione può manifestarsi in due forme: termica e non termica. La radiazione termica deriva da materiale denso ed è strettamente correlata alla temperatura del materiale. Per emettere radiazione termica ai raggi X, il materiale deve raggiungere temperature dell’ordine dei milioni di gradi. L’emissione non termica, al contrario, è il risultato di processi fisici che coinvolgono particelle ad altissima energia, o causata da transizioni atomiche in atomi altamente ionizzati.

Un meccanismo alternativo per la generazione di emissione non termica di raggi X nei resti delle supernove è associato al movimento ad altissima velocità all’interno del denso mezzo interstellare dei frammenti stellari espulsi durante la supernova. Tali frammenti possono infatti generare un’onda d’urto capace di accelerare particelle a energie elevate. Queste particelle, a loro volta, possono ionizzare gli atomi presenti nel frammento, dando luogo all’emissione di raggi X.

Diversi resti di supernova sono stati oggetto di studio nel corso degli anni, incluse alcune ricerche guidate da astronomi dell’Inaf di Palermo, allo scopo di analizzarne l’emissione non termica di raggi X. Tra questi spicca sicuramente Sn 1006. Si tratta di un resto di supernova di tipo Ia, ossia la cui progenitrice era una nana bianca in un sistema binario. Sn 1006 è un resto giovane (la supernova da cui si è formato è avvenuta nel 1006) che occupa una posizione peculiare, trovandosi a soli 7200 anni luce da noi e a una distanza di circa 1800 anni luce dal piano galattico. Nel caso di Sn 1006, l’emissione di raggi X non termica è concentrata in due lobi che si trovano in due posizioni, speculari rispetto al centro del residuo di supernova, dove l’onda d’urto accelera elettroni in maniera più efficiente.

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Roberta Giuffrida, ricercatrice all’Università di Palermo e all’Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo, prima autrice dello studio su Sn 1006 pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Crediti: Inaf

Date le sue caratteristiche peculiari, non sorprende che Sn 1006 sia stato oggetto di osservazioni da parte dei più importanti osservatori ai raggi X a nostra disposizione. Osservazioni come quelle – ottenute dai satelliti Chandra e NuStar della Nasa e da Xmm/Newton dell’Esa – recentemente analizzate da un team di ricercatori guidato dall’astrofisica Roberta Giuffrida (Università di Palermo e Inaf) al fine di comprendere l’origine dell’emissione non termica di raggi X in Sn 1006. In particolare, il loro studio – in uscita su Astronomy & Astrophysics – ha focalizzato l’attenzione su una regione luminosa e compatta nelle immagini ai raggi X, e visibile anche nell’infrarosso, situata a sud-ovest e distante circa sei anni luce dall’onda d’urto del resto di supernova. L’analisi delle immagini ai raggi X ha permesso di identificare un’intensa emissione dovuta ad atomi di neon, silicio e ferro altamente ionizzati. Tale emissione non termica non è compatibile con quella prodotta da particelle relativistiche, che, fuggite dallo shock, diffondono nella nube con cui il resto di supernova sta interagendo, bensì da un frammento della stella esplosa, con una massa totale di circa un millesimo della massa solare, che si sposta a velocità estremamente elevate (migliaia di km/s) all’interno della nube.

«I resti di supernova sono il prodotto finale di esplosioni stellari come supernove. L’emissione in banda X di Sn 1006 è stata largamente di studiata», ricorda Giuffrida, «e ha permesso di identificare la sua emissione termica dovuta all’espansione dei frammenti stellari, e la sua emissione non termica localizzata nei suoi lobi a nord-est e sud-ovest. Nonostante Sn 1006 stia evolvendo in un mezzo tenue e uniforme, nei suoi lobi a nord-ovest e sud-ovest interagisce con una nube atomica. L’emissione X di resti di supernova interagenti con nubi interstellari è interessante per lo studio di emissione non termica. Le righe di emissione in questi sistemi possono essere prodotte da raggi cosmici a bassa energia interagenti con la nube o frammenti della stella esplosa che viaggiano ad altissima velocità all’interno della nube. L’analisi combinata di tre telescopi X, un telescopio infrarosso e il confronto con modelli teorici ha permesso l’identificazione di un frammento stellare ricco di ferro che si è spinto ben oltre l’onda d’urto prodotta dall’esplosione. La scoperta di questo frammento stellare è importante per lo studio della natura dell’esplosione di supernove di tipo Ia, come Sn 1006».

L’emissione non termica ai raggi X da frammenti ad alta velocità è stata precedentemente osservata in altri resti di supernova, come Ic 443, ma questa rappresenta la prima volta in cui tale emissione è osservata provenire da frammenti ricchi di ferro, silicio e neon in supernove di tipo Ia.

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Settecentomila buchi neri nel cielo di eRosita


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In questa immagine, metà del cielo visto a raggi X proiettato su un cerchio, con il centro della Via Lattea a sinistra e il piano galattico in orizzontale. I fotoni sono stati codificati in base alla loro energia: rosso per l’intervallo 0,3-0,6 keV, verde per 0,6-1 keV, blu per 1-2,3 keV. Crediti: Mpe, J. Sanders for the eRosita consortium

È stato reso pubblico mercoledì scorso, ed è il più grande catalogo di sorgenti cosmiche a raggi X mai prodotto. Contiene oltre 900mila sorgenti individuali così suddivise: 710mila buchi neri supermassicci, 180mila stelle della nostra galassia, 12mila ammassi di galassie e, infine, un piccolo numero di altre classi di sorgenti esotiche – come stelle binarie che emettono raggi X, resti di supernove, pulsar e altri oggetti.

A mettere insieme questo tesoro senza precedenti per l’astrofisica delle alte energie è stato il consorzio tedesco del telescopio per raggi X eRosita, lanciato il 13 luglio 2019 a bordo del satellite russo-tedesco Spektr-RG. Ed è proprio alla natura di questo consorzio che è dovuta una particolarità di questo catalogo: presenta solo metà del cielo. Un’immagine a raggi X di metà dell’universo, è infatti il titolo dell’annuncio sul sito del Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik tedesco. Questo perché, sin dall’inizio, era previsto che lo sfruttamento scientifico dei dati della survey all-sky di eRosita fosse condiviso equamente tra il consorzio tedesco e quello russo. Sono dunque stati definiti due emisferi del cielo, sui quali ogni team ha diritti unici di sfruttamento dei dati scientifici. La cooperazione con la Russia ha però subito una pesante battuta d’arresto a seguito della guerra con l’Ucraina, al punto che nel febbraio 2022 eRosita è stato messo in safe-mode e da allora la campagna scientifica è interrotta.

Un’interruzione le cui ricadute non riguardano, però, questa prima release di dati (chiamata eRass1, acronimo per first eRosita All-Sky Survey Catalogue), essendo relativa allo scan del cielo eseguito dal 12 dicembre 2019 all’11 giugno 2020. Sei mesi – tanto dura ciascuno degli all-sky scan di eRosita – durante i quali il telescopio ha rilevato, nell’intervallo di energia al quale è più sensibile (0.2-2 keV), ben 170 milioni di fotoni X: una cifra record.

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Andrea Merloni (Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik), principal investigator di eRosita

«Per l’astronomia a raggi X si tratta di numeri da capogiro», dice riferendosi alle oltre 900mila sorgenti il principal investigator di eRosita, l’italiano Andrea Merloni del Max Planck, primo autore del paper – pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics – sul catalogo di eRass1. «Abbiamo rilevato più sorgenti noi in sei mesi di quanto abbiano fatto le grandi missioni Xmm-Newton e Chandra in quasi 25 anni di attività». E non esagera: nei soli primi sei mesi di osservazione eRosita ha scoperto più sorgenti di raggi X di quante ne fossero state individuate nei precedenti 60 anni di storia dell’astronomia X. Tutti dati ora disposizione della comunità scientifica mondiale.

In concomitanza con il rilascio dei dati, il consorzio tedesco eRosita ha presentato anche una cinquantina di nuovi articoli scientifici a riviste specializzate, che si aggiungono agli oltre 200 già pubblicati dal team prima del rilascio dei dati. La maggior parte dei nuovi articoli è stata pubblicata questa settimana. Articoli che riportano scoperte rese possibili dal nuovo catalogo, fra le quali quella di oltre mille superammassi di galassie, quella di un gigantesco filamento di gas warm-hot incontaminato che si estende tra due ammassi di galassie e, infine, quella di due nuovi buchi neri a emissione quasi-periodica. E ancora, studi sul modo in cui l’irraggiamento X da una stella può influenzare l’atmosfera e la capacità di trattenere acqua nei pianeti che le orbitano attorno, nonché analisi statistiche sui buchi neri supermassicci “tremolanti”.

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Le sorgenti puntiformi di eRass1. Crediti: Mpe, J. Sanders for the eRosita consortium

«La portata e l’impatto scientifico di questa survey sono davvero travolgenti, è difficile descriverlo in poche parole. Ma gli articoli pubblicati dal nostro team parleranno da soli», conclude un’altra scienziata italiana del team, Mara Salvato del Max Planck, inserita da Forbes fra le 100 donne di successo del 2023, e che in qualità di portavoce del consorzio tedesco eRosita coordina gli sforzi di circa 250 scienziati, fra i quali anche Gabriele Ponti dell’Inaf di Brera e gli associati Inaf Marcella Brusa, Blessing Musiimenta e Thomas Pasini.

Terminata la survey eRass1, eRosita ha continuato a scansionare il cielo fino a quando non è stato messo in safe-mode, completando così altri all-sky scan i cui dati saranno resi pubblici nei prossimi anni.

Per saperne di più:

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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La chimica di Winchcombe, senza trattamenti


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Un frammento della meteorite recuperata a Winchcombe. Crediti: Museo di storia naturale di Londra

Le origini della vita sul nostro pianeta sono ancora oggi avvolte nel mistero. Decenni di studi di chimica prebiotica hanno portato tuttavia gli scienziati a formulare varie teorie. Tra queste, ce n’è una, la teoria della pseudo-pansmermia, che prevede che la materia prima per lo sviluppo della vita si sia formata sui ghiacci interstellari e sia poi giunta sulla Terra primordiale – oltre quattro miliardi di anni fa – con le meteoriti. Secondo questa ipotesi, le meteoriti – frammenti di asteroidi e comete provenienti dallo spazio profondo – potrebbero dunque aver recapitato sulla Terra tutti o parte dei “semi” necessari per la nascita dei sistemi autoreplicanti e autosufficienti che chiamiamo esseri viventi. I “semi” in questione sono le molecole prebiotiche, in particolare quelle sostanze che gli addetti ai lavori chiamano materia organica solubile (soluble organic matter, Som, in inglese): aminoacidi e idrocarburi policiclici aromatici, molecole essenziali per la costruzione di Rna, Dna e proteine.

Ricercare questi mattoncini della vita all’interno delle meteoriti che ci sono giunte dallo spazio è un lavoro tutt’altro che semplice. L’approccio che gli scienziati utilizzano per individuarli prevede diverse fasi, la prima delle quali è la preparazione del campione, consistente generalmente nell’estrazione della materia organica dal frammento meteorico con solventi o acidi. Si tratta di una separazione chimica delle molecole dalla roccia che, sebbene minimamente, può modificare la composizione elementare dei campioni.

Negli studi di caratterizzazione chimica di queste pietre extraterrestri, l’ideale sarebbe dunque indagare la presenza di molecole prebiotiche in un contesto petrografico che sia il meno alterato possibile, magari non prevedendo alcuna estrazione chimica preliminare. Un team di ricercatori guidato dall’Università di Münster (Germania) è ora riuscito a farlo: utilizzando un nuovo approccio metodologico, ha dimostrato – ed è la prima volta che accade – che è possibile rilevare la presenza di aminoacidi e idrocarburi in un frammento di meteorite praticamente intonso, cioè non sottoposto ad alcun trattamento chimico preliminare.

La meteorite oggetto dello studio è la meteorite di Winchcombe, un pezzo di roccia caduto nella contea di Gloucestershire, in Inghilterra, il 28 febbraio 2021 e recuperato poche ore dopo il suo avvistamento da parte della telecamere coordinate dalla UK fireball alliance.

«Le meteoriti raccolte immediatamente dopo l’avvistamento del bolide, come ne caso della meteorite di Winchcombe, sono importanti “testimoni” della nascita del nostro Sistema solare. E ciò li rende particolarmente interessanti per scopi di ricerca», spiega Christian Vollmer, ricercatore all’Università di Münster e primo autore dello studio, pubblicato su Nature Communications, che riporta i risultati della ricerca.

Nel lavoro di ricerca, Vollmer e colleghi di questo meteorite ne hanno analizzato la composizione mediante tecniche di spettroscopia di sincrotrone e microscopia elettronica ad alta risoluzione.

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Composizione che mostra un frammento di meteorite a sinistra), il nanomanipolatore e la minuscola lamella attaccata a un porta campione al centro e una micrografia che mostra grani di materia organica. Crediti: SuperStem laboratory, Daresbury, UK

Il microscopio utilizzato è quello del laboratorio SuperStem di Daresbury, in Inghilterra: uno strumento che non solo permette di visualizzare i composti del carbonio con risoluzione atomica, ma può anche analizzare chimicamente i campioni per mezzo di un nuovo tipo di rilevatore. La novità dell’approccio metodologico però sta anche a monte di queste analisi. I ricercatori, infatti, non sono partiti da campioni di materia organica estratta dal meteorite, bensì da una minuscola fettina di cinque per dieci micrometri tagliata utilizzando un nano-manipolatore e un fascio ionico focalizzato. Dopo aver ottenuto le sottilissime lamelle, gli scienziati le hanno analizzate, trovando la firma sia di amminoacidi come l’alanina, la treonina e la glutammina, sia di nucleobasi come l’imidazolo, la pirimidina e l’adenina.

«Dimostrare l’esistenza di questi composti organici biologicamente rilevanti in un meteorite non trattato è un risultato significativo per la ricerca», conclude Vollmer. «Ciò significa che gli elementi costitutivi della vita possono essere caratterizzati in questi sedimenti cosmici anche senza un loro estrazione chimica». I ricercatori sono fiduciosi che le indagini e la combinazione di tecniche implementate nel loro studio saranno direttamente applicabili alla possibile rilevazione e analisi di molecole prebiotiche nei campioni Osiris-Rex recentemente restituiti dall’asteroide Bennu.

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Feeling good, sulla Luna a testa in giù


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Il lander giapponese Slim appoggiato “di muso” sul suolo lunare, fotografato dal rover ausiliario Lev2. Crediti: Jaxa

Li avevamo lasciati la sera di venerdì 20 gennaio reduci da un successo storico: aver portato il Giappone nella ristretta cerchia di paesi, appena cinque, che sono riusciti a compiere un atterraggio morbido sulla Luna. Eppure apparivano tutt’altro che felici, i responsabili della missione Slim della Jaxa: a rubar loro il sorriso, avevano spiegato, era un problema sorto con l’orientamento dei pannelli solari, che li aveva costretti a spegnere temporaneamente il lander dopo nemmeno tre ore dall’approdo. Se tutto andrà bene, avevano detto, dovremmo riuscire a riattivare il lander nell’arco di qualche giorno, quando il Sole si troverà in una posizione utile a illuminare le celle fotovoltaiche.

La natura esatta del problema è diventata immediatamente chiara a chiunque giovedì scorso, il 25 gennaio, quando è stata resa pubblica la foto scattata al lander da uno dei due piccoli rover ausiliari sganciati prima di toccare il suolo – il minuscolo Lev2, una sfera rotolante grande quanto una palla da baseball. Lo scatto, diffuso attraverso X dalla stessa Jaxa, mostrava infatti una scena – quella che vedete qui sopra – dalla quale, anche a un occhio non esperto, era subito evidente che c’era qualcosa di molto sbagliato: Slim era sì almeno apparentemente intatto, ma adagiato sul suolo lunare “di muso”. Insomma, a essere orientati male non erano solo i pannelli – era l’intero lander.

Nonostante questo sconcertante imprevisto, l’eroico Slim non s’è perso d’animo ed è riuscito a non deludere, anzi: degno concittadino dell’Hirayama protagonista di Perfect Days di Wim Wenders, ha portato a termine in silenzio i suoi compiti con dedizione e ammirabile perizia. Domenica scorsa, il 28 gennaio, non appena la luce del Sole gli ha restituito energia a sufficienza per caricare le batterie, non solo si è riattivato – riprendendo le comunicazioni con la Terra come promesso – ma ha pure acquisito e inviato immagini. Immagini scientifiche. Immagini come queste che vedete qui sotto.

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Crediti: Jaxa, Ritsumeikan University, The University of Aizu

Il pannello a sinistra è un mosaico di foto acquisite dalla Multi-Band Camera montata su Slim, e mostra una porzione di superficie lunare nella quale sono evidenziate alcune rocce di particolare interesse. A ciascuna di esse è stato assegnato il nome di una razza di cane scelto in modo da suggerire le dimensioni della roccia stessa. Una di queste – il sasso “Barboncino” (Toy Poodle) – è mostrata in dettaglio nel pannello sulla destra. A prima vista, grigia e sfocata com’è, non si può dire che sia uno scatto entusiasmante. Ma per chi la sa interpretare è un’immagine straordinaria: la Multi-Band Camera, infatti, è una fotocamera funzionante nel visibile e nel vicino infrarosso in grado di rispondere in modo differente a seconda del tipo di minerale di cui è fatta la roccia osservata. Grazie ai suoi dieci filtri consente, per esempio, di distinguere fino a 30 metri di distanza fra pirosseni, olivine, plagioclasi, spinelli e altri tipi di rocce. Fornendo così informazioni utili anche in vista di future missioni di colonizzazione del nostro satellite, per le quali sarà cruciale conoscere in anticipo le sostanze disponibili sul posto.

Ma l’immagine più bella è quella del tweet di oggi, riportato qui sotto: mostra l’intero team, nella sala di controllo della missione, con i volti finalmente distesi e sorridenti. Una soddisfazione che più meritata non si potrebbe.

After completing operation from 1/30 ~ 1/31, #SLIM entered a two week dormancy period during the long lunar night . Although SLIM was not designed for the harsh lunar nights, we plan to try to operate again from mid-February, when the Sun will shine again on SLIM’s solar cells. pic.twitter.com/JO4ZgDaOxo

— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) February 1, 2024


Mostri marini in agguato


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Costellazione dell’idra, la più estesa costellazione del cielo. Immagine ottenuta con stellarium-web.org

I primi giorni di questo mese sono ottimi per osservare il cielo. A inizio febbraio la Luna non disturberà le osservazioni, soprattutto nella prima parte della notte. Allontanandosi dalle luci cittadine si può andare alla ricerca delle belle costellazioni che questo periodo ci offre: la costellazione di Orione con la grande nebulosa M42, visibile anche a occhio nudo in cieli bui e splendida con un binocolo o un piccolo telescopio. Sempre nella prima parte della notte potremmo ancora farci stregare dalla costellazione del Toro, con le Pleiadi e la nebulosa Granchio, il più studiato e conosciuto resto di supernova vista esplodere nel 1054. Più alte sull’orizzonte si possono ammirare le costellazione dei Gemelli, con l’ammasso M35, dell’Auriga con gli ammassi M36, M37 ed M38 e di Perseo con il Doppio Ammasso. Con il passare delle ore, il Toro e Orione volgeranno verso il tramonto a Ovest mentre ad Est sarà sempre più visibile la costellazione del Leone che attraverserà il meridiano verso l’una del mattino.

C’è una costellazione, trascurata da quasi tutti, che a partire da questo periodo si rende sempre più visibile. È la costellazione dell’Idra: la più grande costellazione del cielo in termini di estensione. Da sola si estende per ben 1303 gradi quadrati coprendo poco più del 3% dell’intera volta celeste. Man mano che passano i giorni esce dall’orizzonte quasi minacciosa, se non fosse che è costituita da stelle poco brillanti praticamente invisibili in cieli cittadini. La sua testa è sotto la costellazione del Cancro, tipica costellazione di febbraio con il suo ammasso M44, visibile anche a occhio nudo. Mentre la sua coda risiede tra le tipiche costellazioni del cielo australe quali il Cratere, la Macchina Pneumatica e il Centauro. Se avete occasione di frequentare cieli bui, provate a cercarla con una buona mappa stellare e a immaginare con molta fantasia il mostro marino che si cela dietro a una manciata di stelle deboli!

In questo periodo Sirio, la stella più luminosa del cielo, a inizio mese solcherà il meridiano sud verso le dieci di sera e con Giove saranno gli astri serali più brillanti del cielo, ovviamente dopo la Luna. Giove infatti, attualmente nella costellazione dell’Ariete, spicca ancora brillante nel cielo, a partire da dopo il tramonto. A inizio del mese transita al meridiano poco prima delle sei di sera e tramonta poco prima dell’una di notte. Sarà quindi ben visibile per tutta la prima parte della notte splendendo di magnitudine –2. Con il passare dei giorni anticiperà gradualmente il suo tramonto che a fine mese avverrà poco dopo le 23. Congiungendo con una linea immaginaria Giove e le Pleiadi è possibile, circa a metà strada, trovare un punto luminoso che non esiste nelle mappe. È Urano! Di magnitudine di poco inferiore alla sesta, sarebbe visibile anche a occhio nudo in cieli bui e con una buona vista, ma è sicuramente visibile con un binocolo e con un telescopio, anche nelle periferie delle città. Venere sarà sempre più immerso nelle luci dell’alba e visibile per poco tempo al mattino a inizio mese, sopra l’orizzonte Sud-Est.

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Il cielo stellato come appare il 14 febbraio 2024 dopo il tramonto. Giove e la Luna vicini, quest’ultima con la luce cinerea. Orione sulla sinistra e Sirio più in basso.

Per San Valentino, il 14 febbraio, la Luna si troverà vicina a Giove. Se siamo alla ricerca di una serata romantica, in questa sera, a soli quattro giorni dalla Luna nuova possiamo cercare di vedere la luce cinerea e quindi la parte in ombra della luna che, rischiarata dal riflesso della terra, è perfettamente visibile nel cielo, completando la sfera della falce lunare. Orione a sinistra e Sirio più in basso completeranno il bel panorama celeste.

Segnaliamo, osservabile solo con un telescopio e sotto cieli bui, il passaggio della cometa 144P / Kushida che attraverserà prospetticamente, nei primi giorni del mese, l’ammasso delle Iadi nella costellazione del Toro. Gli osservatori e astrofotografi più accaniti potranno avvantaggiarsi della mancanza della Luna ma la magnitudine della cometa, poco oltre la nona, renderanno le osservazioni piuttosto difficili anche ai più esperti.

Infine, siamo lieti di annunciare che è attivo il canale Telegram del nostro “Cielo del mese”. Lo trovate su Telegram come Notturno Inaf ed è basato su un bot sviluppato da Luca Benassi. Tramite il canale vi terremo informati su quello che è possibile osservare in cielo. Vi aspettiamo numerosi!

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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A tavola con diciotto buchi neri


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Gli scienziati del Mit hanno identificato 18 nuovi eventi di distruzione mareale (Tde), casi estremi in cui una stella vicina viene attratta da un buco nero e fatta a pezzi. I rilevamenti hanno più che raddoppiato il numero di Tde conosciuti nell’universo vicino. Crediti: Megan Masterson, Erin Kara, et al.

Un nuovo studio condotto da scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e pubblicato su The Astrophysical Journal riporta la scoperta di 18 nuovi eventi di distruzione marealetidal disruption events, o Tde. Tali eventi si verificano quando sfortunate stelle si avventurano troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e vengono distrutte. Mentre il buco nero banchetta, viene emessa un’enorme esplosione di energia a tutte le frequenze dello spettro elettromagnetico. Un bump, come lo chiamano gli astronomi.

I Tde conosciuti sono stati individuati cercando proprio questi bump caratteristici, nella banda ottica e nei raggi X. Finora, queste ricerche hanno rivelato circa una dozzina di eventi di distruzione stellare nell’universo vicino, e quindi i nuovi Tde del team del Mit raddoppiano il catalogo dei Tde conosciuti nell’universo.

I ricercatori hanno individuato questi eventi, precedentemente passati inosservati, utilizzando una banda non convenzionale: l’infrarosso. Oltre a emettere esplosioni ottiche e di raggi X, i Tde possono generare radiazione infrarossa, in particolare nelle galassie “polverose”, dove un buco nero centrale è avvolto da detriti galattici. La polvere in queste galassie normalmente assorbe e oscura la luce ottica e i raggi X e qualsiasi segno della presenza di un Tde in queste bande. Nel processo tuttavia la polvere si riscalda, producendo radiazioni infrarosse rilevabili. Il team ha scoperto che le emissioni infrarosse possono essere un forte indizio della presenza di eventi di distruzione mareale.

I 18 nuovi eventi si sono verificati in diversi tipi di galassie, sparse in tutto il cielo. «La maggior parte di queste sorgenti non appare nelle bande ottiche», spiega la prima autrice Megan Masterson, del Kavli Institute for Astrophysics and Space Research. «Se si vogliono comprendere i Tde nel loro complesso e utilizzarli per sondare la demografia dei buchi neri supermassicci, è necessario guardare nella banda dell’infrarosso».

Per il nuovo studio, i ricercatori hanno cercato tra le osservazioni d’archivio effettuate da Neowise, la versione rinnovata del Wide-field Infrared Survey Explorer della Nasa. Questo telescopio spaziale è stato lanciato nel 2009 e, dopo una breve pausa, ha continuato a scansionare l’intero cielo alla ricerca di “transienti” infrarossi, o brevi esplosioni. Il team ha esaminato tali osservazioni utilizzando un algoritmo sviluppato dal co-autore Kishalay De, che individua gli schemi delle emissioni infrarosse che sono probabilmente indicativi di un’esplosione transitoria. Il team ha poi incrociato i transienti segnalati con un catalogo di tutte le galassie vicine nel raggio di 600 milioni di anni luce. Hanno scoperto che i transienti infrarossi potevano essere ricondotti a circa mille galassie.

Hanno quindi zoomato il segnale del burst infrarosso di ogni galassia per determinare se provenisse da una sorgente diversa da un Tde, come un nucleo galattico attivo o una supernova. Dopo aver escluso queste possibilità, il team ha analizzato i segnali rimanenti, alla ricerca dello schema infrarosso caratteristico di un Tde: un ripido picco seguito da un graduale calo, che riflette il processo attraverso il quale un buco nero, facendo a pezzi una stella, riscalda improvvisamente la polvere circostante a circa mille kelvin, prima di raffreddarsi gradualmente.

Questa analisi ha rivelato 18 segnali “puliti” di eventi di perturbazione mareale. I ricercatori hanno effettuato un’analisi delle galassie in cui è stato trovato ognuno di questi e hanno visto che si sono verificati in una serie di sistemi, comprese le galassie polverose, distribuiti su tutto il cielo. «Se si guardasse in cielo e si vedesse un gruppo di galassie, i Tde si verificherebbero in modo rappresentativo in tutte», dice Masteron. «Non si verifichino solo in un tipo di galassia, come si pensava basandosi solo sulle ricerche ottiche e ai raggi X».

Le scoperte del team aiutano a risolvere alcune questioni importanti nello studio degli eventi di distruzione mareale. Prima di questo lavoro, ad esempio, gli astronomi avevano osservato i Tde soprattutto in un tipo di galassia: un sistema “post-stellare” che in precedenza era stato una fabbrica di stelle, ma che poi si era stabilizzato. Questo tipo di galassie è raro e gli astronomi erano perplessi sul perché i Tde sembrassero apparire solo in questi sistemi più rari. Di fatto questi sistemi sono relativamente privi di polvere, rendendo le emissioni ottiche o di raggi X di un Tde naturalmente più facili da rilevare.

Ora, guardando nella banda dell’infrarosso, gli astronomi sono in grado di vedere i Tde in molte più galassie. I nuovi risultati del team dimostrano che i buchi neri possono divorare le stelle in una grande varietà di galassie, non solo nei sistemi post-stellari.

I risultati risolvono anche un problema legato alla presunta “energia mancante”. I fisici hanno previsto teoricamente che i Tde dovrebbero irradiare più energia di quella effettivamente osservata. Ma il team del Mit sostiene che la polvere potrebbe spiegare la discrepanza: se un Tde si verifica in una galassia polverosa, la polvere stessa potrebbe assorbire non solo le emissioni ottiche e di raggi X, ma anche la radiazione ultravioletta estrema, in una quantità equivalente alla presunta energia mancante.

Inoltre, i 18 nuovi rilevamenti aiutano gli astronomi a stimare la velocità con cui si verificano questi eventi in una determinata galassia. Sommando i nuovi Tde con i rilevamenti precedenti, si stima che una galassia subisca un evento di distruzione mareale una volta ogni 50mila anni. Questo tasso si avvicina alle previsioni teoriche dei fisici. Con ulteriori osservazioni nell’infrarosso, il team spera di risolvere il tasso dei Tde e le proprietà dei buchi neri che li alimentano.

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Antico lago marziano, la conferma da Perseverance


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Da circa tre anni il rover Perseverance passeggia sul suolo marziano. Sono 1048 Sol, o giorni marziani, durante i quali ha percorso quasi 25 km zigzagando nel cratere Jezero, sede di un antico lago marziano, e raccogliendo 23 campioni di suolo marziano da riportare sulla Terra. Fra il 10 maggio e l’8 dicembre 2022 Perseverance ha attraversato la zona di contatto fra il fondo del cratere e il delta di un antico fiume che lo alimentava, analizzando il sottosuolo con il suo strumento radar. I risultati sono stati pubblicati la scorsa settimana in un articolo su Science Advances.

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Secondo le ricostruzioni storiche e geologiche più accreditate, il cratere Jezero, la cui origine è da attribuirsi a un grosso impatto con un meteorite, è stato un grande lago di acqua liquida alimentato da un fiume che, nel tempo, ha depositato strati di sedimenti sul pavimento del cratere. Il lago si è poi ridotto e i sedimenti trasportati dal fiume hanno formato un enorme delta. Quando il lago si è prosciugato, i sedimenti del cratere sono stati erosi, formando alcune caratteristiche geologiche particolari visibili oggi in superficie.

Nella parte posteriore del rover Perseverance si trova uno strumento, il Radar Imager for Mars’ Subsurface Experiment, o Rimfax, che è in grado di “vedere” sotto la superficie di Marte fino ad almeno 10 metri (o più, in base al materiale che incontra) di profondità, con una risoluzione verticale da 15 a 30 centimetri. Rimfax ha campionato, misurando il sottosuolo ogni 10 centimetri lungo il suo percorso, tutta la regione di contatto fra il cratere e il delta del fiume, riuscendo a scavare con gli occhi fino alla base dei sedimenti, dove si trova la superficie sepolta del pavimento del cratere. Per capire come il rover ha campionato il sottosuolo potete guardare l’animazione qui sopra.

Le misure radar hanno confermato che laggiù, un tempo, vi era davvero un lago coperto d’acqua, e hanno permesso anche di ricostruire una sequenza di erosioni e successivi depositi lacustri che lasciano ben sperare gli astrobiologi che sperano di trovare tracce di vita passata nei campioni raccolti da Perseverance. In particolare, la ricostruzione del sottosuolo ha evidenziato, più in profondità, uno strato di sedimenti orizzontali depositati su una superficie già precedentemente erosa e craterizzata. Questa prima successione di sedimenti orizzontali, secondo le misurazioni, è stata depositata in un ambiente acquoso che probabilmente si estendeva ben oltre l’attuale posizione del delta. Su questi sedimenti basali si sono poi depositati strati successivi di sedimenti in intervalli di tempo variabili, tutti caratterizzati anche da un periodo di erosione intermedio. Gli autori dell’articolo attribuiscono questa sequenza di eventi e stratificazioni a due distinti periodi di deposizione di sedimenti e altrettanti periodi di erosione, concludendo che la storia geologica di questa regione potrebbe essere stata guidata da cambiamenti su larga scala – con tempi scala geologici – nell’ambiente marziano.

Insomma, tutto lascia pensare che la scelta del luogo di atterraggio di Perseverance sia stata oculata. «È bello poter vedere così tante evidenze di cambiamento in un’area geografica così piccola, e questo ci permette di estendere le nostre scoperte alla scala dell’intero cratere», dice il primo autore dello studio, David Paige, dell’Università della California – Los Angeles. Nel video qui sotto – di Lior Rubanenko, Emily Cardarelli, Justin Maki e dello stesso Paige (Ucla, Jpl/Nasa) – possiamo ammirare anche noi il suolo del cratere Jezero in soggettiva mentre Perseverance lo percorre. Per sapere che cosa si cela all’interno dei sedimenti, invece, dovremo attendere le missioni che riporteranno i campioni sulla Terra, con il programma Mars Sample Return.

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Nei dati di Lro, l’inquietudine sismica della Luna


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Mosaico della regione del polo sud lunare ottenuto dalla Wide Angle Camera (Wac) montate sul Lunar Reconnaissance Orbiter. Crediti: Nasa/Gsfc/Arizona State University

Il nostro satellite naturale all’apparenza sembra un luogo tranquillo. Tuttavia, nonostante l’immagine di quiete e serenità che trasmette, la sua superficie è soggetta a stress di compressione globale che lo rendono un corpo dinamico e inquieto: sollecitazioni dovute al raffreddamento interno e stress mareali causati dal suo lento allontanamento dalla Terra – la cosiddetta recessione lunare – hanno prodotto e continuano a produrre una riduzione della sua circonferenza. L’effetto più evidente di questo raggrinzimento è la formazione, nei punti in cui le sezioni della crosta lunare si spingono l’una contro l’altra, di faglie tettoniche, ovvero creste rugose, formate per contrazione, e avvallamenti, formati per espansione, che sono spesso associate ad attività sismica.

Di questi squarci della superficie a oggi ne sono stati individuati diversi in diverse aree della Luna. Un team di scienziati guidati dallo Smithsonian Institution ha ora scoperto prove di simili deformazioni anche al polo sud lunare, alcune delle quali si trovano molto vicine a uno dei tredici siti proposti dalla Nasa per la missione con equipaggio Artemis III, rappresentando un pericolo per i futuri sforzi di esplorazione umana.

Le faglie in questione sono state individuate analizzando i dati raccolti dalla Narrow Angle Cameras (Nac) a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro), la sonda della Nasa che dal 2009 ci restituisce le immagini della Luna con la più alta risoluzione mai ottenuta dall’orbita del satellite. L’indagine, condotta dallo scienziato dello Smithsonian Institution Thomas Watters e colleghi, ha permesso di rilevare la presenza di 15 faglie già note, chiamate dagli addetti ai lavori scarpate lobate. Si tratta di lunghe strutture curvilinee di natura tettonica, risultanti dalla formazione di faglie inverse, il processo in cui una sezione di crosta (detta tetto) viene spinta sopra una sezione di crosta adiacente (detto letto). Insieme a queste strutture note, il team ha però individuato anche faglie precedentemente sconosciute. Una di queste, o meglio, un insieme di queste faglie, chiamato dai ricercatori de Gerlache cluster, ha catturato l’attenzione dei ricercatori. Il motivo? Si trova all’interno dell’area de Gerlache Rim 2, il sito proposto dalla Nasa per l’atterraggio dell’equipaggio di Artemis III, la missione che riporterà l’essere umano sulla Luna.

Il cluster de Gerlache, spiegano i ricercatori, è un insieme di faglie che si trovano entro i 60 chilometri dal polo sud lunare. All’interno del cluster, la scarpata più grande è lunga circa 4 chilometri e mostra un recente movimento di regolite verso il basso a livello di due depressioni, interpretate dai ricercatori come crateri da impatto di circa 160 m e 70 m di diametro rispettivamente.

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L’immagine mostra le aree di instabilità delle scarpate superficiali nella regione del polo sud lunare. I punti blu indicano le aree meno instabili, i punti verdi quelle moderatamente instabili e i punti rossi le aree più instabili. Le posizioni dei siti di sbarco proposte per la missione Artemis III sono mostrate dai quadrati blu.. Crediti: Nasa/Lroc/Asu/Smithsonian Institution

Vista la vicinanza di queste faglie al sito di atterraggio di Artemis III, il team ha indagato la possibilità che queste deformazioni possano essere la diretta conseguenza di lunamoti, in particolare di uno dei più potenti mai registrati dai sismometri delle missioni dell’Apollo: il lunamoto superficiale conosciuto col nome in codice Smq n9.

Smq n9 sta per Shallow moonquake number 9, cioè lunamoto superficiale numero 9. I lunamoti superficiali sono sismi che si verificano vicino alla superficie della Luna, a circa centosessanta chilometri di profondità. Similmente ai terremoti, questi eventi sono causati da faglie all’interno della crosta. Ma a differenza delle scosse terrestri, che tendono a durare solo pochi secondi o minuti, i lunamoti superficiali possono durare ore, e possono essere molto più forti. Smq n9, in particolare, si è verificato il 13 marzo 1973 vicino al polo sud, con epicentro localizzato alle coordinate 84 gradi sud e 134 gradi est. Analizzando le mappe degli epicentri di tutti i 28 terremoti lunari registrati dal 1969 al 1977 dalle missioni Apollo, riviste utilizzando un nuovo algoritmo per reti sismiche, i ricercatori hanno scoperto che l’epicentro di Smq n9 si trova entro 24 chilometri dal cluster de Gerlache. È quindi plausibile, sottolineano i ricercatori, che le faglie di de Gerlache siano state la fonte del lunamoto Smq n9.

A questo punto i ricercatori si sono chiesti che cosa accadrebbe se si verificasse adesso un terremoto della potenza di Smq n9, paria circa 6 di magnitudo. E quale fosse il potenziale pericolo rappresentato da un simile evento.

Per rispondere a queste domande, hanno modellato la propagazione di onde sismiche lungo la serie di faglie in questione. Le simulazioni, una delle quali è mostrata nel filmato in basso, hanno generato lunamoti da moderati a forti, tutti in grado di estendersi fino a circa 50 chilometri di distanza. Ma non è finita. Le simulazioni hanno mostrato inoltre che alcune faglie sono particolarmente suscettibili a frane e instabilità, soprattutto là dove la regolite ha una bassa coesione. Ciò, secondo Nicholas Schmerr, professore presso l’Università del Maryland e coautore dello studio, significa chiaramente che un ipotetico terremoto superficiale al polo sud lunare potrebbe devastare ipotetici insediamenti umani sulla Luna.

«I nostri modelli suggeriscono che i lunamoti superficiali sono capaci di produrre forti scosse del terreno nella regione del polo sud lunare. Questi eventi possono essere prodotti da fenomeni di scivolamento di faglie tettoniche esistenti o di nuova formazione», spiega Thomas R. Watters, primo autore dello studio pubblicato su Planetary Science Journal. «La distribuzione globale delle giovani faglie inverse, il loro potenziale di essere attive e il potenziale di formarne nuove a causa della contrazione lunare in atto dovrebbero essere prese in considerazione quando si scelgono i siti degli avamposti permanenti sulla Luna», aggiunge lo scienziato.

L’obiettivo dei ricercatori è di continuare a mappare l’attività sismica del nostro satellite naturale, sperando di identificare più luoghi da inserire nella lista nera dei siti per l’esplorazione umana.

«Man mano che ci si avvicina alla data di lancio della missione Artemis con equipaggio, è importante mantenere i nostri astronauti, le attrezzature e le infrastrutture il più sicuri possibile», conclude Schmerr. «Questo lavoro ci sta aiutando a prepararci per ciò che ci aspetta sulla Luna, sia che si tratti di progettare strutture in grado di resistere meglio all’attività sismica della Luna o di proteggere le persone da zone potenzialmente pericolose».

Per saperne di più:

Guarda la simulazione di Nicholas Schmerr (Università del Maryland) di un lunamoto superficiale al polo sud lunare:

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La decadenza del falso vuoto


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Impressione artistica di ciò che i ricercatori sono riusciti a fare: gli atomi si trovano in una configurazione in cui sono allineati tutti verso l’alto, il “falso vuoto” (frecce nell’immagine). Grazie al controllo estremamente preciso dei parametri sperimentali (campo magnetico, etc) è stato possibile modificarne le proprietà e renderlo più o meno metastabile. Il decadimento avviene quando in una porzione spaziale della nuvola cambia l’orientamento di parecchi atomi e una bolla nasce (vedi frecce rosse nell’immagine). Crediti: A. Zenesini (Pitaevskii Bec Center)

Un esperimento condotto in Italia, al Pitaevskii Center for Bose-Einstein Condensation di Trento, ha prodotto la prima prova sperimentale del decadimento del falso vuoto. Questo processo avviene attraverso la creazione di piccole bolle localizzate che, sebbene previste dalla teoria, fino a oggi non erano mai state “viste”. Ora, un gruppo di ricerca internazionale che coinvolge scienziati dell’Università di Trento e dell’Università di Newcastle (Regno Unito) ha osservato per la prima volta la formazione di queste bolle in sistemi atomici attentamente controllati. Pubblicati sulla rivista Nature Physics, i risultati offrono una prova sperimentale della formazione di bolle attraverso il decadimento del falso vuoto in un sistema quantistico.

Per capire cosa sia il falso vuoto e come siano riusciti a rivelarne il decadimento, Media Inaf ha raggiunto e intervistato il primo autore, Alessandro Zenesini, primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica del Cnr, specializzato nella fisica sperimentale degli atomi ultrafreddi. Attualmente Zenesini lavora presso il Pitaevskii Bec Center, dopo un dottorato a Pisa e undici anni passati tra Austria e Germania.

Zenesini, ci può spiegare cosa si intende per decadimento del vuoto?

«Nella fisica moderna il vuoto è qualcosa di più complicato di quello che il senso comune ci dice. Il vuoto è popolato di particelle che nascono e scompaiono in tempi brevissimi e il vuoto può essere visto come una particolare configurazione in cui le particelle elementari e i loro campi del Modello standard si sono “organizzate” dopo il Big Bang. È quindi lecito aspettarsi che questa configurazione possa non essere quella con energia più bassa e possa esserci un’altra configurazione con minore energia, il vero vuoto. Nella terminologia comune, il falso vuoto è una configurazione metastabile di alta energia e il vero vuoto è quella stabile di energia complessiva minima. La possibilità che il falso vuoto decada nel vero vuoto è stata studiata per anni, in similitudine al fenomeno del tunneling quantistico della singola particella, ma con la notevole complicazione che il vuoto non è un oggetto singolo che attraversa una barriera imposta, ma una configurazione composta da molte particelle e campi estesi spazialmente».

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Particolare del set-up strumentale al Pitaevskii Bec Center di Trento. Crediti: A. Zenesini (Pitaevskii Bec Center)

Lo studio riporta che il decadimento del falso vuoto avviene attraverso la creazione di piccole bolle localizzate. Cosa sono queste bolle?

«Il decadimento del falso vuoto non può avvenire con una riconfigurazione simultanea di tutto l’universo, perché violerebbe la conservazione dell’energia. Il decadimento avviene quindi in una regione limitata di spazio, almeno in una prima fase. La bolla appunto. Nella bolla, l’energia che si guadagna all’interno avendo creato il vero vuoto, viene controbilanciata dalla tensione superficiale della bolla che dipende dall’energia cinetica. Si ha quindi una configurazione con bolla che ha la stessa energia del sistema totalmente di falso vuoto. Questo permette un decadimento con conservazione dell’energia. Una volta nata la bolla, può espandersi senza barriere e occupare tutto il sistema. Una caratteristica interessante è che la bolla può nascere in un punto qualsiasi dello spazio e la nascita della bolla è un processo stocastico. Non si sa né quando né dove. Questo processo ha notevoli similitudini con quello che può essere osservato nell’acqua sopraffusa, cioè acqua purissima raffreddata sotto la temperatura di congelamento pur rimanendo liquida».

Come avete fatto a “vedere” le bolle? In cosa consiste il vostro esperimento?

«Nel nostro esperimento utilizziamo nuvole di atomi di sodio, circa un milione, raffreddati allo stato di condensazione di Bose Einstein. In questo stato si comportano all’unisono come piccoli magneti e l’equazione che regola la loro dinamica è analoga a quella di un campo quantistico, come il campo di Higgs per esempio. Abbiamo preparato gli atomi in una configurazione in cui erano allineati tutti verso l’alto, il nostro “falso vuoto” (vedi frecce nell’immagine d’apertura). Grazie al controllo estremamente preciso dei parametri sperimentali (campo magnetico, eccetera) possiamo modificarne le proprietà e renderlo più o meno metastabile. Il decadimento avviene quando, come detto, in una porzione spaziale della nuvola cambia l’orientamento di parecchi atomi e una bolla nasce (vedi frecce rosse nell’immagine). Bisogna considerare che il nostro processo di imaging distrugge la nuvola di atomi. Si tratta pur sempre di un oggetto quantistico che viene fortemente influenzato dall’osservatore. Dobbiamo ricreare una nuova nuvola ogni volta, con le stesse proprietà. Anche se non possiamo osservare la nascita e la dinamica della bolla come in un film, possiamo raccogliere tante immagini in cui una bolla è nata da poco o tanto tempo, può esserci o non esserci. Abbiamo misurato questa probabilità di apparizione al variare dei parametri sperimentali e corroborata dalle simulazioni numeriche del nostro sistema».

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Alessandro Zenesini è primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica del Cnr ed è specializzato nella fisica sperimentale degli atomi ultrafreddi. Dopo il dottorato a Pisa e undici anni passati tra Austria e Germania, è tornato in Italia e lavora presso il Pitaevskii Bec Center

Quali ripercussioni può avere il fatto di aver validato l’esistenza del decadimento del vuoto?

«La teoria del decadimento di falso vuoto è nata con in mente processi cosmologici e la fisica delle alte energie, ma lì le energie in gioco sono ben lontane dalle capacità sperimentali attuali. Nel campo degli atomi ultrafreddi si ha invece un controllo così preciso e stabile dei parametri sperimentali che negli ultimi anni vari esperimenti sono stati in grado di studiare il Modello standard in situazioni dove non è importante quanto forte fai scontrare le particelle, ma quanto precisamente sai misurarne le proprietà. Nel nostro esperimento non osserviamo il decadimento di vuoto dell’universo, ma riusciamo a ricreare e studiare un processo analogo nel nostro emulatore atomico. Uno degli aspetti più spettacolari è che usiamo le stesse formule ed equazioni sviluppate in campo cosmologico, grazie alla collaborazione con Ian Moss dell’Università di Newcastle, noto cosmologo che in passato ha collaborato anche con Stephen Hawking».

Il comunicato stampa riporta che, secondo Moss, il decadimento del vuoto del bosone di Higgs altererebbe le leggi della fisica, producendo quella che è stata descritta come la catastrofe ecologica finale. C’è da preoccuparsi?

«Per questo possiamo stare tranquilli. Il nostro universo non collasserà a causa del nostro esperimento. I nostri risultati possono essere usati per raffinare le teorie esistenti o per svilupparne di nuove. In primis possono servire a capire meglio la dinamica degli atomi ultrafreddi e successivamente a migliorare le teorie cosmologiche attuali».


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Una fornace di stelle dietro casa


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Una pallida nuvoletta sfilacciata. All’osservatore che si trovi nell’emisfero australe tale è la parvenza con cui si mostra a occhio nudo la Grande Nube di Magellano, galassia satellite della Via Lattea, probabilmente ignota agli europei prima delle grandi esplorazioni geografiche iniziate nel XV secolo. Denominata “grande” per distinguerla dalla sua omonima più piccola, in realtà viene spesso indicata come una galassia nana, situata a circa centosessantamila anni luce dalla Via Lattea, presenza pacifica delle notti del sud.

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La Grande (a sinistra) e la Piccola nube di Magellano fotografate dall’Osservatorio di La Silla in Cile. La striscia che solca l’immagine è un satellite. Crediti: F. Loiacono

Eppure, se andiamo ad esaminarla con un telescopio, questa nuvoletta appare tutt’altro che placida. Una tumultuosa attività di formazione stellare agita infatti diverse aree di questa galassia, molto più piccola della Via Lattea, e che eppure detiene il record di ospitare la più vasta e brillante regione di formazione stellare di tutto il Gruppo Locale (30 Dorado, anche nota come Nebulosa Tarantola). Di recente, il telescopio spaziale James Webb ha osservato un’altra regione di formazione stellare all’interno di questa galassia. Situata in una zona a sud-ovest della Grande Nube di Magellano, località pressoché inesplorata della nostra vicina di casa, la nebulosa N79 è una regione ricchissima di idrogeno ionizzato che si estende per oltre mille e seicento anni luce. Pare che questo oggetto sia stato addirittura due volte più efficiente rispetto alla più nota 30 Dorado, pure osservata di recente con Webb, nel convertire il gas in stelle nell’ultimo mezzo milione di anni.

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Immagine della regione di formazione stellare N79 realizzata con MIRI, lo strumento del Telescopio Spaziale James Webb che osserva nel medio infrarosso. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, M. Meixner

Anche all’occhio più distratto non saranno sfuggiti i raggi che si diramano dalla stella che domina la parte alta dell’immagine. Sono la “firma” di Webb, dovuta alla geometria esagonale dello specchio del telescopio spaziale, e visibile attorno a tutti gli oggetti compatti, che siano stelle oppure quasar remoti, che vengano intercettati dallo sguardo acutissimo di questo strumento. L’immagine è stata realizzata da Miri, uno strumento di Webb che scruta l’universo nel medio infrarosso. A queste lunghezze d’onda l’emissione di molecole di carbonio e idrogeno e quella della polvere scaldata dalle stelle appena nate dominano la scena. Astri in formazione avviluppati dalla polvere sono infatti alcune dei “pallini” luminosi che si scorgono in questa immagine.

Le regioni di formazione stellare della Via Lattea e delle galassie limitrofe sono luoghi di particolare interesse poiché, in virtù della loro vicinanza, consentono agli astronomi di studiare nel dettaglio i processi fisici e chimici che si verificano nelle prime, nebulose fasi della vita delle stelle. In particolare, la Grande Nube di Magellano offre un ambiente unico per studiare i meccanismi di formazione stellare che agitavano l’universo nella sua gioventù. La composizione chimica che si misura nella nostra vicina è infatti non dissimile da quella che caratterizzava le galassie in quello che è probabilmente stato il momento di formazione stellare più rocambolesco nella storia del cosmo. L’universo ha infatti sperimentato fasi variabili nella generazione di nuovi astri. Gli astronomi pensano che il culmine di questo processo si sia verificato poco più di dieci miliardi di anni fa.

A N79 l’Agenzia spaziale europea ha dedicato l’immagine del mese di gennaio sulla pagina del telescopio Webb.


Grovigli di polvere dopo la fusione fra galassie


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In questa immagine catturata dal telescopio Gemini South, sono evidenti le intricate corsie di polvere della galassia Ngc 4753. Uno studio del 1992 ha scoperto che la complessa rete di corsie che la caratterizza è probabilmente il risultato di una fusione con una vicina galassia nana compagna circa 1,3 miliardi di anni fa. Crediti: International Gemini Observatory/ NOIRLab/ NSF/ AURA; J. Miller (International Gemini Observatory/ NSF’s NOIRLab), M. Rodriguez (International Gemini Observatory/ NSF’s NOIRLab), M. Zamani (NSF’s NOIRLab)

L’universo osservabile è popolato da un numero sorprendente di galassie, che secondo stime recenti si aggira tra i 100 miliardi e i 2mila miliardi. Come fiocchi di neve, non ce ne sono due esattamente uguali. In base al loro aspetto e alle loro caratteristiche fisiche, possono essere suddivise in quattro grandi classi: ellittiche, lenticolari, irregolari e a spirale, con molte sottoclassi intermedie. Tuttavia, le galassie sono oggetti dinamici che si evolvono nel tempo interagendo con l’ambiente circostante, il che significa che nel corso della sua vita una singola galassia può rientrare in più classificazioni.

Si pensa che questo sia il caso di Ngc 4753, che gli astronomi ipotizzano sia nata come una normale galassia lenticolare, ma che si sia trasformata in una galassia peculiare dopo una fusione con una vicina galassia nana, più di un miliardo di anni fa. Le galassie peculiari sono galassie la cui dimensione, forma o composizione sono insolite, fuori dal comune. Si stima che tra il cinque e il dieci per cento delle galassie conosciute sia classificato come peculiare ed esiste un bellissimo catalogo compilato da Halton Arp nel 1966 – l’Atlante delle galassie peculiari – che raccoglie 338 galassie di questo tipo.

Ma torniamo a Ngc 4753. Scoperta dall’astronomo William Herschel nel 1784, la galassia presenta alcune caratteristiche davvero affascinanti. Nell’immagine che vi proponiamo, catturata dal telescopio Gemini South, si possono notare intricate corsie di polvere che sembrano girare intorno al nucleo della galassia.

Ngc 4753 si trova a circa 60 milioni di anni luce di distanza nella costellazione della Vergine. Fa parte del gruppo di galassie Ngc 4753 all’interno della nube Virgo II, una serie di almeno 100 ammassi di galassie e galassie singole che si estendono al margine meridionale del superammasso della Vergine.

Da tempo le distinte corsie di polvere di Ngc 4753 incuriosiscono gli astronomi e sono le caratteristiche irregolari che le conferiscono la classificazione di galassia peculiare. Effettivamente, vista quasi di profilo dalla Terra, questa galassia può apparire piuttosto misteriosa ma nel 1992 un gruppo di astronomi guidati da Tom Steiman-Cameron, oggi ricercatore presso l’Università dell’Indiana, ha pubblicato uno studio dettagliato di Ngc 4753 in cui ha scoperto che la sua forma complicata è probabilmente il risultato di una fusione con una piccola galassia compagna.

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Un modello di Ngc 4753 visto da diversi punti di osservazione, che corrispondono a orientazioni diverse. Da sinistra a destra e dall’alto in basso, l’angolo della linea di vista rispetto al piano equatoriale della galassia varia da 10° a 90° con incrementi di 10°. Sebbene galassie simili a Ngc 4753 non siano rare, solo alcuni orientamenti di osservazione permettono di identificare facilmente un disco molto contorto. Crediti: NOIRLab/ NSF/ AURA/ Steiman-Cameron et al./ P. Marenfeld

Le fusioni galattiche si verificano quando due (o più) galassie si “scontrano”, causando il rimescolamento del loro materiale e alterando in modo significativo la forma e il comportamento di ciascuna galassia coinvolta. Nel caso di Ngc 4753, si pensa che circa 1,3 miliardi di anni fa la galassia lenticolare originale si sia fusa con una vicina galassia nana ricca di gas. Il gas della galassia nana, insieme alle esplosioni di formazione stellare innescate da questa collisione galattica, ha iniettato nel sistema grandi quantità di polvere. La spirale verso l’interno della galassia, dovuta alla gravità, ha poi fatto sì che la polvere accumulata si distribuisse a forma di disco. Ed è qui che la storia si fa interessante.

Steiman-Cameron e il suo team hanno scoperto che un fenomeno noto come precessione differenziale è responsabile delle corsie di polvere aggrovigliate di Ngc 4753. La precessione si verifica quando l’asse di rotazione di un oggetto cambia orientamento, come una trottola quando sta rallentando. La velocità di precessione varia a seconda del raggio. Nel caso di un disco di accrescimento polveroso in orbita attorno a un nucleo galattico, il tasso di precessione è più veloce verso il centro e più lento vicino ai bordi. Questo moto variabile, simile a un’oscillazione, deriva dall’angolo di collisione tra Ngc 4753 e la sua precedente compagna nana ed è la causa delle corsie di polvere aggrovigliate che vediamo oggi, avvolte attorno al nucleo luminoso della galassia.

«Per molto tempo nessuno sapeva cosa fare di questa galassia particolare», conclude Steiman-Cameron. «Ma partendo dall’idea di materiale accumulato spalmato in un disco e analizzando la geometria tridimensionale, il mistero è stato risolto. Ora è incredibilmente emozionante vedere questa immagine così dettagliata del Gemini South, 30 anni dopo».

Anche se Ngc 4753 sembra essere unica nel suo genere, potrebbe non essere così. Secondo Steiman-Cameron, se si osservasse il disco polveroso contorto dall’alto, probabilmente non sarebbe diverso da una normale galassia a spirale. È solo grazie al nostro punto di vista, grazie al quale la vediamo quasi di taglio, che siamo in grado di vedere l’intera portata delle sue intricate corsie di polvere. Questo significa che tali caratteristiche peculiari potrebbero non essere così rare come sembrano.

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Così Marte pompa il metano nell’atmosfera


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Il rover Curiosity della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss

Uno degli obiettivi primari delle attuali missioni su Marte è rilevare segni di vita presente o passata sul pianeta. Uno di questi segni, che gli addetti ai lavori chiamano biofirme, è rappresentato dal metano. Costituito da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno, questo gas riveste particolare interesse astrobiologico per la sua potenziale associazione con la vita microbica.

Sul Pianeta rosso la molecola è stata rilevata più volte dal rover Curiosity della missione Mars Science Laboratory. In particolare, poco sopra la superficie del cratere Gale, nella porzione di atmosfera posta a diretto contatto con il suolo – il cosiddetto strato limite planetario, o Planetary Boundary Layer (Pbl) – la sonda della Nasa ha registrato concentrazioni del gas che sembrano fluttuare stagionalmente e su scala temporale giornaliera. Queste osservazioni hanno generato un dibattito nella comunità scientifica, dovuto al mancato rilevamento di metano a quote medio-alte da parte dell’orbiter dell’Esa ExoMars Trace Gas Orbiter (Tgo). Secondo i ricercatori, questa discrepanza tra le misurazioni può essere spiegata dall’esistenza di processi di migrazione ed emissione del metano verso la superficie di natura episodica, simili a quelli conosciuti sulla Terra come “trasudamenti di gas naturale” (gas seepage, in inglese), seguiti da un processo di distruzione rapida del gas.

Sorgono a questo punto diverse domande: a cosa è dovuta la natura episodica delle emissioni? E ancora: dato che la fonte di metano su Marte molto probabilmente si trova nel sottosuolo, come conciliare le variazioni atmosferiche del gas con un eventuale meccanismo di trasporto?

A rispondere a queste domande ci ha provato un team di ricercatori del Los Alamos National Laboratory (Lanl) che, utilizzando potenti supercalcolatori, ha simulato il trasporto di metano dal sottosuolo verso l’atmosfera guidato da un meccanismo che prevede il rilascio di gas sotto la spinta di fluttuazioni della pressione atmosferica. Un meccanismo noto come pompaggio barometrico.

«I sistemi meteorologici sono associati a cambiamenti nella pressione atmosferica» spiega a questo proposito John P. Ortiz, ricercatore al Los Alamos National Laboratory e primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Journal of Geophysical Research – Planets, che riporta i risultati della ricerca. «I sistemi temporaleschi, ad esempio, portano bassa pressione. Condizioni di cielo sereno sono associate invece ad alta pressione. Questi cambiamenti di pressione si impongono anche sui terreni e sulle rocce sotto i nostri piedi. Se i terreni e le rocce hanno fratture ben collegate, i cambiamenti della pressione atmosferica possono spingere o estrarre gas da questi materiali geologici. Questo fenomeno è noto come pompaggio barometrico».

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Illustrazione che mostra come il meccanismo del pompaggio barometrico possa essere responsabile del trasporto di metano dal sottosuolo alla superficie di Marte. Crediti: John P. Ortiz et al., JGR Planets, 2024

Nello studio i ricercatori non solo hanno simulato il trasporto di metano attraverso questo meccanismo, ma hanno anche modellano l’adsorbimento delle molecole del gas sulla superficie delle fratture della roccia marziana al variare della temperatura, valutando infine la quantità della molecola che si mescola in uno strato limite planetario simulato.

Le abbondanze di metano modellate in questo lavoro sono controllate da due fattori, spiegano i ricercatori: il trasporto sotterraneo guidato dal pompaggio barometrico e la dinamica dello strato limite planetario.

I risultati delle simulazioni, aggiungono gli scienziati, sono compatibili con emissioni di metano nell’atmosfera che si verificano nella stagione estiva all’emisfero Nord del pianeta appena prima dell’alba, confermando i dati ottenuti dal rover Curiosity, secondo cui i livelli del gas variano non solo stagionalmente, ma anche giornalmente.

L’emissione di metano nei modelli è cambiata inoltre in modo significativo con la dimensione delle fratture del sottosuolo, dalle quali dipende l’effetto della pressione atmosferica sul trasporto di gas, suggerendo che le variazioni di metano nel cratere Gale siano influenzate anche dall’interazione tra la geologia del sottosuolo e le condizioni atmosferiche.

Per testare il meccanismo di trasporto proposto in questo studio ed estendere l’attuale caratterizzazione della variazione diurna del metano su Marte, i ricercatori propongono una serie di misurazioni con lo strumento Tunable Laser Spectrometer (Tls) a bordo di Curiosity, da condurre a metà della prossima estate nell’emisfero Nord di Marte. I ricercatori suggeriscono due opzioni di misurazione, una a metà/tarda mattinata e una in prima serata, ciascuna delle quali permetterebbe di vincolare meglio l’apparente calo mattutino del metano e l’evoluzione dell’aumento notturno. Inoltre, entrambe le misurazioni possono supportare o confutare l’influenza di un meccanismo di trasporto come il pompaggio atmosferico.

«Il nostro lavoro suggerisce diverse finestre temporali chiave in cui Curiosity può raccogliere dati» concludono i ricercatori. «Riteniamo che queste finestre temporali offrano le migliori possibilità di vincolare la tempistica delle fluttuazioni del metano e si spera di avvicinarci alla comprensione della sua provenienza su Marte».

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Diciannove galassie a spirale prêt-à-porter


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Crediti: Nasa, ESsa, Csa, STScI, Janice Lee (STScI), Thomas Williams (Oxford), Phangs Team.

Sono appena state rese pubbliche le immagini mozzafiato di diciannove galassie a spirale immortalate dagli occhi potenti del James Webb Space Telescope (Jwst), il telescopio spaziale della Nasa lanciato alla fine del 2021. Le galassie ritratte da Jwst fanno parte nell’universo vicino – che astronomicamente vuol dire nel raggio di circa 65 milioni di anni luce da noi – e le loro immagini sono ricche di dettagli inediti di stelle, gas e polveri che forniranno informazioni nuove sulla struttura delle galassie e sui processi di formazione ed evoluzione stellare.

«Le nuove immagini di Webb sono straordinarie», dichiara Janice Lee, project scientist per le iniziative strategiche presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora. «Sono sorprendenti anche per gli stessi ricercatori che studiano galassie da decenni. Le strutture delle bolle e dei filamenti sono risolte fino alle scale più piccole mai osservate finora e sono in grado di raccontarci un’intera storia sul ciclo di formazione stellare».

I dettagli presenti nelle immagini sono frutto della combinazione di dati ottenuti nel vicino e medio infrarosso grazie a diversi strumenti a bordo del James Webb tra cui NirCam (o Near-Infrared Camera), che ha immortalato milioni di stelle visibili nelle immagini nei toni del blu, alcune delle quali sparse nei bracci di spirale delle galassie o raggruppate in ammassi stellari. I dati dello strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) evidenziano invece la polvere incandescente, mostrandoci le zone in cui questa si localizza intorno e tra le stelle. A queste lunghezze d’onda inoltre sono visibili – nei toni del rosso – le stelle che non si sono ancora formate completamente e sono ancora avvolte nel gas e nella polvere che ne alimentano la crescita. Tra le strutture riconoscibili nelle immagini sono presenti inoltre ampi gusci sferici nel gas e nella polvere che potrebbero essere il residuo di esplosioni di una o più stelle che hanno causato zone di minore densità nel materiale interstellare. Seguendo la traccia dei bracci delle spirali galattiche, si trovano estese regioni di gas caratterizzate dai colori rosso e arancione. Proprio perché le strutture di una galassia sono ricche di informazioni sulla distribuzione del gas e della polvere al suo interno, poterle studiare in dettaglio è fondamentale per capire come i processi di formazione stellare si inneschino, si mantengono e infine si interrompano.

La collezione di immagini prodotte da Jwst fa parte del progetto Phangs (Physics at High Angular resolution in Nearby GalaxieS) a cui partecipano oltre centocinquanta astronomi di ogni parte del mondo e comprende osservazioni fatte su tutto lo spettro elettromagnetico con i più grandi osservatori sia da terra che dallo spazio, tra cui Alma, Vlt e Hst.

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Francesco Belfiore. Crediti: Inaf Arcetri

«L’obiettivo del progetto è studiare il processo di formazione stellare, come questo venga influenzato dall’ambiente circostante e viceversa come la formazione stellare a sua volta lo influenzi attraverso processi cosiddetti di feedback», spiega Francesco Belfiore dell’Inaf di Arcetri, unico ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica a partecipare al progetto Phangs. «Il ciclo della materia all’interno dell’ecosistema galattico, cioè il collasso del gas per formare le stelle e la successiva iniezione di energia nel mezzo interstellare, è un processo intrinsecamente multiscala e multifase. Le galassie vicine offrono, quindi, un punto di vista unico per collegare la scala cosmologica e quella Galattica» specifica Belfiore. «Con Phangs vorremmo ottenere per la prima volta una visione complessiva su questi processi e questi dati che ci consentono di vedere attraverso la polvere, ci aiutano a determinare l’efficienza del processo di formazione stellare e, in ultima analisi, il futuro evolutivo delle galassie».

Grazie ai dati combinati di Phangs esistono molte linee di ricerca possibili che gli scienziati possono iniziare a percorrere, e certamente il numero senza precedenti di stelle risolte dal telescopio spaziale James Webb rappresenta un ottimo punto di partenza. Oltre a queste immagini, la collaborazione Phangs ha reso pubblico anche un catalogo di circa 100mila ammassi, il più grande mai realizzato. Si tratta di una mole di dati enorme da gestire che ora è a disposizione di tutta la comunità scientifica che vorrà contribuire alle nuove scoperte in questo campo.

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Lattuga killer nello spazio


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Noah Totsline ha lavorato nel laboratorio del College of Agriculture and Natural Resources di Harsh Bais a un progetto sponsorizzato dalla Nasa che studia come le piante coltivate nello spazio siano più soggette a infezioni da Salmonella rispetto a quelle terrestri. Crediti: University of Delaware

Oltre alle solite tortillas di farina e al caffè in polvere, da circa tre anni la Nasa ha introdotto nell’alimentazione degli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) anche l’insalata. Gli astronauti possono, infatti, gustare lattuga, rucola e altre piante a foglia verde coltivate direttamente nello spazio, in apposite camere di controllo che riproducono le condizioni ideali di temperatura, quantità di acqua e luce necessarie per la maturazione delle piante.

Ma c’è un problema. Sulla Iss sono presenti molti batteri e funghi patogeni – alcuni dei quali molto aggressivi – che possono facilmente colonizzare i tessuti vegetali. Di conseguenza, se gli astronauti mangiassero lattuga infettata da batteri quali Escherichia colio Salmonella, potrebbero ammalarsi, manifestando sintomi anche gravi. Il rischio che un’epidemia di malattie alimentari a bordo della Iss possa far deragliare una missione spaziale, ha suscitato una particolare attenzione nella comunità scientifica e nelle agenzie spaziali, soprattutto considerando i miliardi di dollari che la Nasa e le aziende private come SpaceX investono ogni anno nell’esplorazione dello spazio.

In una nuova ricerca pubblicata su Scientific Reports e su npj Microgravity, i ricercatori dell’Università del Delaware (Ud) hanno coltivato lattuga in condizioni che imitano l’ambiente all’interno della Stazione spaziale. Le piante, capaci di percepire la gravità attraverso le radici, sono state esposte a una microgravità simulata mediante rotazione grazie a un clinostato, un dispositivo per far ruotare le piante simile a quello utilizzato per i polli nelle rosticcerie. «Non si è trattato di una vera e propria simulazione in microgravità», spiega Noah Totsline, primo autore di entrambe le ricerche pubblicate, recentemente laureatosi al Dipartimento di Scienze delle Piante e del Suolo della Ud, «ma ha aiutato le piante a perdere il senso della direzione. Abbiamo confuso la loro risposta alla gravità e, in questo modo, la pianta non sapeva da che parte fosse l’alto o il basso». Il team di ricerca ha così scoperto che le piante sottoposte alla microgravità simulata erano in realtà più inclini a contrarre infezioni da agenti patogeni umani, in particolare, dalla Salmonella.

Gli stomi, i minuscoli pori delle foglie e degli steli che le piante usano per respirare, normalmente si chiudono per difendere la pianta quando percepisce nelle vicinanze un fattore di stress o un corpo estraneo. Durante la simulazione di microgravità, gli stomi della lattuga si aprivano e rimanevano aperti anziché chiudersi come risposta allo stress causato dalla presenza di batteri. «Il fatto che gli stomi siano rimasti aperti quando abbiamo aggiunto batteri durante la simulazione è stato davvero inaspettato», dice Totsline che insieme ai docenti di biologia vegetale, Harsh Bais, e di sicurezza alimentare microbica, Kali Kniel, e con Chandran Sabanayagam del Delaware Biotechnology Institute ha cercato delle possibili soluzioni al problema.

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Immagini al microscopio degli stomi delle foglie di lattuga acquisite tre ore dopo la rotazione o il trattamento con i batteri a forma di bastoncino di Salmonella enterica serovar. A: stomi di una pianta non ruotata senza trattamento con batteri. Gli stomi sono completamente aperti. B: stomi di una pianta non ruotata, i batteri hanno impedito la completa chiusura e hanno iniziato a entrare nella pianta. C: stomi di una pianta ruotata senza batteri, più aperti rispetto a quelli non ruotati. D: stomi di una pianta ruotata con applicazione di batteri. La chiusura difensiva dello stoma appare minore e sono visibili più batteri che entrano nell’apertura e navigano a una profondità maggiore all’interno della pianta. Crediti: npj Microgravity

In alcuni studi precedenti, Bais e altri ricercatori dell’Ud hanno dimostrato che l’uso di un batterio ausiliario chiamato Bacillus subtilis Ud1022 riesce a promuovere la crescita e la forma fisica delle piante, aiutandole contro gli agenti patogeni o altri fattori di stress come la siccità. Ipotizzando che Ud1022 potesse aiutare le piante a difendersi dalla Salmonella anche in condizioni simili a quelle spaziali, lo hanno aggiunto alla simulazione di microgravità, constatando, con sorpresa, che il batterio non è riuscito a proteggere le piante che – in assenza dell’innesco di una risposta biochimica – non hanno chiuso i propri stomi. «Quanto riscontrato in condizioni di microgravità simulata è sorprendente e interessante e apre un’altra questione», riferisce Bais. «Sospetto che il batterio Ud1022, annullando la chiusura degli stomi in microgravità, possa sopraffare la pianta stessa aprendo la strada per l’invasione della Salmonella».

I microbi e i batteri sono ovunque: sono su di noi, sugli animali, sul cibo che mangiamo e nell’ambiente che ci circonda: ovunque si trovino gli esseri umani, c’è possibile coesistenza con gli agenti patogeni batterici. Secondo le informazioni della Nasa, circa sette persone per volta convivono e lavorano sulla Stazione Spaziale Internazionale nello stesso momento, occupando un ambiente grande quanto una casa con sei camere da letto. Non è l’ambiente più stretto che esista nello spazio, ma è comunque il tipo di luogo in cui i germi possono creare scompiglio. «Dobbiamo essere preparati e ridurre i rischi nello spazio per coloro che vivono ora sulla Iss e per coloro che potrebbero viverci in futuro», afferma Kniel, esperto di sicurezza alimentare microbica dell’Ud. «È importante capire meglio come i patogeni batterici reagiscono alla microgravità per sviluppare strategie di mitigazione adeguate».

Kniel e Bais collaborano da anni per studiare gli agenti patogeni umani presenti sulle piante. «Per ridurre i rischi associati alla contaminazione delle verdure a foglia e di altri prodotti di base, dobbiamo comprendere meglio le interazioni tra agenti patogeni umani e le piante coltivate nello spazio», spiega Kniel. «Il modo migliore per farlo è un approccio multidisciplinare».

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L’astronauta Peggy Whitson con alcune foglie di insalata cresciute sulla Iss nella sua terza e ultima missione, nel 2017. Crediti: Nasa

Forse ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che gli esseri umani possano vivere sulla Luna o su Marte, ma la ricerca della Ud ha un grande impatto potenziale sulla convivenza umana nello spazio; argomento ancor più interessante se si considerano aspetti come la popolazione in continua crescita sulla Terra e la maggiore necessità di cibo sicuro ed equilibrato per gli astronauti delle numerose missioni future programmate. Da un rapporto delle Nazioni Unite, la Terra potrebbe ospitare 9,7 miliardi di persone nel 2050 e 10,4 miliardi nel 2100. «Le misure di sicurezza alimentare sono già al limite in tutto il mondo e, con la perdita di terreni agricoli per la coltivazione del cibo, le persone penseranno presto a spazi abitativi alternativi», afferma Bais. «Non si tratta più di finzione». Inoltre, sempre più spesso i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie o la Food and Drug Administration degli Stati Uniti certificano e fermano le produzioni di insalata in varie parti sulla Terra, intimando alle persone di non mangiarla a causa del rischio di Escherichia coli o Salmonella. Poiché le verdure a foglia sono l’alimento preferito da molti astronauti e sono facili da coltivare in ambienti chiusi come l’ambiente idroponico della Iss, è importante assicurarsi che queste verdure siano sempre sicure da mangiare e cercare delle soluzioni al problema della “lattuga killer”.

Cosa si può fare per contrastare l’azione delle piante che aprono i loro stomi in un ambiente di microgravità permettendo ai batteri di entrare facilmente? La risposta non è così semplice ma potrebbe essere nell’uso di semi sterilizzati o nel miglioramento genetico. «Iniziare con usare dei semi sterilizzati è un modo per ridurre i rischi di avere microbi sulle piante», afferma Kniel. «Ma ciò comunque non escluderebbe quei microbi già presenti nell’ambiente spaziale». Gli scienziati potrebbero dover modificare la genetica delle piante per impedire loro di aprire gli stomi nello spazio. Il laboratorio guidato da Bais sta già prendendo in considerazione diverse varietà di lattuga con genetiche differenti e le sta valutando in condizioni di microgravità simulata. «Se, per esempio, ne troviamo una che chiude gli stomi rispetto a un’altra che abbiamo già testato e che li apre, possiamo provare a confrontare la genetica di queste due diverse cultivar, cercando le differenze o i meccanismi in atto», conclude Bais. «Non vogliamo che un’intera missione spaziale fallisca solo per colpa di un’epidemia di sicurezza alimentare».

Diciamo, per colpa di qualche foglia di lattuga.

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Ritrovate le meteoriti di 2024 BX1


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I lettori di Media Inaf si ricorderanno del piccolo asteroide 2022 EB5 caduto nel Mare di Norvegia il 22 marzo 2022 e di 2023 CX1, caduto in Normandia il 13 febbraio 2023. La cosa che accomuna 2024 BX1 con i primi due, a parte le piccole dimensioni, è lo scopritore: l’astronomo ungherese Krisztián Sárneczky (Konkoly Observatory). Sárneczky per le sue scoperte di asteroidi near-Earth utilizza il telescopio Schmidt da 60 cm della Piszkéstető Mountain Station, situato circa 80 km a nord-est di Budapest. L’asteroide della nostra news è stato scoperto da Sárneczky alle 21:48 Utc del 20 gennaio quando era di magnitudine apparente +18,0 ed è stato subito inserito nella NeoCp (la near-Earth object confirmation page) con la sigla Sar2736. Come per tutti i NeoCp brillanti sono immediatamente partite le osservazioni di conferma da parte degli altri osservatori europei. Il primo a confermare Sar2736 è stato T. Felber dell’osservatorio Oberfrauendorf (Iau G34) alle 22:56 Utc, a cui sono seguiti diversi osservatori italiani, come San Marcello Pistoiese (Iau 104) e lo Schiaparelli Observatory di Varese (Iau 204).

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Immagine di 2024 BX1 ottenuta dall’Osservatorio astronomico G. V. Schiaparelli (Iau 204) di Varese, circa 1h23m dopo la scoperta, quando l’asteroide era di magnitudine apparente +16,5. Crediti: Luca Buzzi

Sulla Mpml (Minor planet mailing list), alle 23 UT un’email di Peter Birtwhistle avvisava che Sar2736 avrebbe colpito l’atmosfera da lì a 90 minuti. La previsione di Birtwhistle è stata fatta usando Find Orb, il software per la determinazione orbitale scritto da Bill Gray, che i lettori ricorderanno per la previsione dell’impatto sulla luna di un razzo cinese Lunga Marcia 3C il 4 marzo 2022. Allo stesso risultato di Birtwhistle erano già arrivati i software per l’allerta rapida degli impatti, Scout per il Jpl, MeerKat per l’Esa e NeoScan system della SpaceDys di Pisa. NeoScan è in grado di fornire una probabilità d’impatto per tutti gli oggetti presenti nella NeoCp, e già con 7 osservazioni astrometriche, alle 22:48 Utc del 20 gennaio, aveva indicato una probabilità d’impatto del 100 per cento per Sar2736.

Come previsto, l’asteroide è caduto alle 00:32 Utc del 21 gennaio 2024 entrando in atmosfera (quota di 50 km), circa 60 km a ovest di Berlino, alle coordinate 52,6° N, 12,5° E, nei pressi della cittadina di Nennhausen. Il bolide generato dall’asteroide è stato ripreso da diversi osservatori allertati dai messaggi comparsi sulla Mpml, ma non è stato triangolato dalle camere all-sky della rete Fripon. In effetti alle 00:32:43 Utc del 21 gennaio 2024 c’è stata una detection singola da parte della stazione di Ketzur (collocata poco a ovest di Berlino), ma ne servono almeno due per la triangolazione di un fireball. Alle 01:41 Utc del 21 gennaio l’asteroide appena caduto, con la Mpec 2024-B76, ha ricevuto la designazione 2024 BX1 da parte del Minor Planet Center. L’orbita è risultata quella tipica di un oggetto Apollo, con semiasse maggiore di 1,34 unità astronomiche, inclinazione di circa 7,3°, perielio fra le orbite di Terra e Venere e afelio poco oltre l’orbita di Marte.

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Immagine di una delle meteoriti recuperate dai ricercatori tedeschi. Crediti: Cevin Dettlaff

Grazie ai calcoli fatti dai ricercatori cechi Pavel Spurný, Jiří Borovička e Lukáš Shrbený (Astronomical Institute of the Academy of Sciences of the Czech Republic), che gestiscono la European Fireball Network, è stato possibile triangolare la traiettoria del fireball e avviare la ricerca delle meteoriti al suolo. Lo strewn field risulta qualche chilometro a ovest della cittadina tedesca di Nauen, attorno alle coordinate 52,629° N, 12,713° E. Per fortuna il bolide è caduto con un’elevata inclinazione rispetto alla superficie terrestre, quindi lo strewn field è relativamente compatto e lungo circa 3 km. Nella zona il suolo si presenta pianeggiante e non è stato difficile recuperare delle meteoriti. Infatti, pochi giorni dopo la caduta, il 26 gennaio, ricercatori del Museo di scienze naturali di Berlino, della Libera Università di Berlino e del Centro aerospaziale tedesco hanno recuperato frammenti che, con molta probabilità, sono meteoriti dell’asteroide 2024 BX1, entrambi delle dimensioni di una noce.

There it is! A team of researchers from the museum and its cooperation partners, among them @FU_Berlin and @DLR_de, have discovered suspected fragments of the astroid #2024BX1 today, both of them almost the size of a walnut: t.co/TvZSpG6RnM ☄️ #Sar2736 #Havelland pic.twitter.com/5i29vY5YZM

— Museum für Naturkunde Berlin (@mfnberlin) January 26, 2024

Nei prossimi giorni le sospette meteoriti verranno esaminate nei laboratori del Museo per verificarne la composizione chimica e l’origine, mentre proseguiranno le ricerche sul campo. Grazie all’orbita eliocentrica determinata con le osservazioni telescopiche appena prima che l’asteroide si disintegrasse in atmosfera, queste saranno meteoriti con il “pedigree”, perché se ne potrà indagare anche l’origine dinamica. In tutto il mondo sono solo 50 le meteoriti con queste caratteristiche, su ben 70mila meteoriti raccolte.


Ingenuity non volerà più, missione terminata


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Oltre 17 chilometri percorsi in 72 voli in più di mille giorni: sono i numeri di Ingenuity, il primo drone ad aver mai volato su un altro pianeta. Dopo quasi tre anni l’incredibile drone della Nasa, andato oltre ogni aspettativa, deve fermarsi per sempre a causa di un danno a una delle eliche. “I Sol (i giorni marziani) non saranno piu gli stessi”, è il tweet di ringraziamento postato da Perseverance, il rover che per tutto questo tempo ha fatto coppia con Ingenuity nell’esplorazione di Marte.

The sols won’t be the same without the #MarsHelicopter.#ThanksIngenuity, for being my partner in exploration from the very beginning. t.co/mFAg7Lwxnp pic.twitter.com/uoi4bXXa9Y

— NASA’s Perseverance Mars Rover (@NASAPersevere) January 25, 2024

Ideato per verificare la possibilità di poter volare su Marte, Ingenuity avrebbe dovuto farlo almeno cinque volte, ma la sua tenuta è andata ben oltre le aspettative: ben 72 volte, comprendo complessivamente 17 chilometri. Ad annunciare ufficialmente la fine della missione è stato l’amministratore della Nasa Bill Nelson. La decisione è stata presa in seguito alle immagini giunte a Terra dopo il 72esimo volo, durante il quale ci sono stati dei problemi di comunicazione tra l’elicottero e il rover Perseverance.

Le immagini hanno mostrato che almeno una pala di uno dei rotori è stata danneggiata durante l’ultimo atterraggio e ora il drone non è più in grado di volare. Una missione che rimarrà nella storia dell’esplorazione spaziale e che ha aperto alla possibilità di nuove più ambiziose missioni come il futuro aereo solare che la Nasa sta lavorando a portare in futuro sempre su Marte.

Guarda l’annuncio di Bill Nelson sul canale YouTube della Nasa:

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I segreti di Ss 433 svelati dai raggi gamma


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Impressione d’artista del sistema Ss 433, che mostra i getti su larga scala (blu) e la circostante Nebulosa Manatee (rossa). I getti sono inizialmente osservabili solo per una breve distanza dalla microquasar dopo il lancio, troppo piccola per essere visibile in questa immagine. I getti viaggiano poi inosservati per una distanza di circa 75 anni luce (25 parsec) prima di subire una trasformazione, riapparendo bruscamente come sorgenti luminose di emissione non termica (raggi X e gamma). Le particelle sono accelerate in modo efficiente in questa posizione, il che indica probabilmente la presenza di un forte shock: una discontinuità nel mezzo in grado di accelerare le particelle. Crediti: Science Communication Lab for Mpik/H.E.S.S.

Era il 1997 quando, nella seconda puntata di una serie televisiva uscita sulla Bbc, l’autore di fantascienza Arthur C. Clarke presentò quelle che per lui erano le sette meraviglie del mondo: il Saturn V, la fortezza rocciosa di Sigiriya (nello Sri Lanka, dove viveva), i microchip, il frattale di Mandelbrot, la toccata e fuga in Re minore di Bach, il calamaro gigante e – udite udite – l’unico oggetto astronomico di questo elenco: Ss 433. Il nome è piuttosto anonimo ma in realtà questa “creatura” celeste già alla fine degli anni ’70 aveva attirato parecchia attenzione per la sua emissione di raggi X. In seguito si scoprì che si trovava al centro di una nebulosa, soprannominata Nebulosa Lamantino, per la sua particolare forma che ricorda questi mammiferi acquatici. Certo è che qualcosa di molto particolare, per essere finita nell’elenco di Clarke, Ss 433 lo deve avere.

Ss 433 è un sistema binario in cui un buco nero, con una massa circa dieci volte quella del Sole, e una stella con una massa simile ma che occupa un volume molto più grande, orbitano l’uno intorno all’altra con un periodo di 13 giorni. L’intenso campo gravitazionale del buco nero strappa materiale dalla superficie della stella, che si accumula in un disco di gas caldo che alimenta il buco nero. Quando la materia cade verso il buco nero, due getti collimati di particelle cariche (plasma) vengono lanciati verso l’esterno, perpendicolarmente al piano del disco, a un quarto della velocità della luce.

I getti di Ss433 possono essere rilevati nella banda radio e nei raggi X fino a una distanza inferiore a un anno luce, da entrambi i lati della stella binaria centrale, prima di diventare troppo deboli per essere visti. Tuttavia, sorprendentemente, a circa 75 anni luce di distanza dal loro “punto di partenza”, i getti riappaiono bruscamente come sorgenti luminose di raggi X. Le ragioni di questa ricomparsa sono state per molto tempo un mistero.

Getti relativistici simili sono stati osservati anche a partire dai centri delle galassie attive (ad esempio le quasar), anche se di dimensioni molto più grandi rispetto ai getti galattici di Ss 433. Per questa analogia, oggetti come Ss 433 sono classificati come microquasar.

Fino a poco tempo fa, non era mai stata rilevata alcuna emissione di raggi gamma da una microquasar. Ma le cose sono cambiate nel 2018, quando l’High Altitude Water Cherenkov Gamma-ray Observatory (Hawc), per la prima volta, è riuscito a rilevare raggi gamma ad altissima energia dai getti di Ss 433. Ciò significa che da qualche parte, nei getti, le particelle sono accelerate a energie estreme. Nonostante decenni di ricerche, non è ancora chiaro come e dove le particelle vengano accelerate nei getti astrofisici.

Lo studio dell’emissione di raggi gamma dalle microquasar offre un vantaggio cruciale: anche se i getti di Ss 433 sono 50 volte più piccoli di quelli della galassia attiva più vicina (Centaurus A), Ss 433 si trova all’interno della Via Lattea, mille volte più vicino alla Terra. Di conseguenza, la dimensione apparente dei getti di Ss 433 nel cielo è molto più grande, e quindi le loro proprietà sono più facili da studiare con l’attuale generazione di telescopi a raggi gamma.

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Immagini composite di Ss 433 che mostrano tre diversi intervalli di energia dei raggi gamma. In verde, le osservazioni radio mostrano la Nebulosa Lamantino con la microquasar visibile come un punto luminoso vicino al centro dell’immagine. Le linee mostrano i contorni dell’emissione X dalle regioni centrali e dai getti su larga scala, dopo la loro ricomparsa. Il colore rosso rappresenta l’emissione di raggi gamma rilevata da H.E.S.S. a) a bassa energia (0,8-2,5 TeV, a sinistra), b) energia intermedia (2,5-10 TeV, al centro) e c) alta energia (>10 TeV, a destra). La posizione dell’emissione di raggi gamma si sposta ulteriormente dal sito di lancio centrale al diminuire dell’energia. Crediti: Nrao/Aui/Nsf, K. Golap, M. Goss; Nasa’s Wide Field Survey Ex-plorer (Wise); X-Ray (contorni verdi): Rosat/M. Brinkmann; TeV (contorni rossi): H.E.S.S. collaboration

In seguito alla rilevazione di Hawc, l’Osservatorio H.E.S.S., in Namibia, ha avviato una campagna osservativa del sistema Ss 433. Questa campagna ha portato a circa 200 ore di osservazione, che hanno permesso di ottenere altrettante ore di dati e di rilevare chiaramente l’emissione di raggi gamma dai getti di Ss 433.

La migliore risoluzione angolare dei telescopi H.E.S.S. rispetto alle misurazioni precedenti ha permesso ai ricercatori di individuare per la prima volta l’origine dell’emissione di raggi gamma all’interno dei getti, ottenendo risultati interessanti. Mentre non viene rilevata alcuna emissione di raggi gamma dalla regione centrale del sistema binario, l’emissione appare bruscamente nella parte esterna dei getti, a una distanza di circa 75 anni luce, da entrambi i lati della stella binaria, in accordo con le precedenti osservazioni a raggi X.

Tuttavia, ciò che ha sorpreso maggiormente gli astronomi è stato lo spostamento della posizione dell’emissione di raggi gamma in funzione delle diverse energie. I fotoni gamma con le energie più elevate, superiori a 10 teraelettronvolt, vengono rilevati solo nel punto in cui i getti ricompaiono bruscamente. Al contrario, le regioni che emettono raggi gamma con energie più basse appaiono più avanti, lungo ciascun getto.

«Questa è la prima osservazione in assoluto di una morfologia dipendente dall’energia nell’emissione di raggi gamma di un getto astrofisico», osserva Laura Olivera-Nieto, del Max Planck Institute for Nuclear Physics (Mpik) di Heidelberg, che ha guidato lo studio con H.E.S.S. di Ss 433 come parte della sua tesi di dottorato. «Inizialmente siamo rimasti perplessi da questi risultati. La concentrazione di fotoni di così alta energia nei siti di ricomparsa dei getti X significa che lì deve avvenire un’accelerazione efficiente delle particelle, cosa che non ci si aspettava».

Gli scienziati hanno effettuato una simulazione della dipendenza energetica osservata dell’emissione di raggi gamma e sono riusciti a ottenere la prima stima in assoluto della velocità dei getti esterni. La differenza tra questa velocità e quella con cui vengono lanciati i getti suggerisce che il meccanismo che ha accelerato le particelle più lontano sia un forte shock, una brusca transizione nelle proprietà del mezzo. La presenza di uno shock fornirebbe quindi anche una spiegazione naturale per la ricomparsa dei getti X, in quanto gli elettroni accelerati producono anche radiazione a raggi X. «Quando queste particelle veloci collidono con una particella di luce (fotone), trasferiscono parte della loro energia, producendo così i fotoni gamma ad alta energia osservati con H.E.S.S. Questo processo è chiamato effetto Compton inverso», spiega Brian Reville, capogruppo del gruppo Astrophysical Plasma Theory presso Mpik.

«Ci sono state molte speculazioni sul verificarsi dell’accelerazione delle particelle in questo sistema unico nel suo genere, ma ora non più: il risultato di H.E.S.S. stabilisce davvero il luogo dell’accelerazione, la natura delle particelle accelerate e ci permette di sondare il moto dei getti su larga scala lanciati dal buco nero», sottolinea Jim Hinton, direttore dell’Istituto Max Planck per la Fisica Nucleare di Heidelberg e capo del Dipartimento di Astrofisica Non Termica.

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L’osservatorio H.E.S.S., situato negli altopiani di Khomas in Namibia, a un’altitudine di 1835 metri sotto il cielo del sud, è stato progettato per essere utilizzato come centro di osservazione. Crediti: Sabine Gloaguen

«Solo pochi anni fa, era impensabile che le misurazioni a terra dei raggi gamma potessero fornire informazioni sulla dinamica interna di un tale sistema», aggiunge la coautrice Michelle Tsirou, ricercatrice post-dottorato presso il Desy Zeuthen.

Tuttavia, non si sa nulla sull’origine degli shock nei punti in cui il getto ricompare. «Non abbiamo ancora un modello in grado di spiegare uniformemente tutte le proprietà del getto, poiché nessun modello ha ancora previsto questa caratteristica», conclude Olivera-Nieto. L’autrice intende dedicarsi a questo compito: un obiettivo meritevole, poiché la relativa vicinanza di Ss 433 alla Terra offre un’opportunità unica per studiare il verificarsi dell’accelerazione delle particelle nei getti relativistici. Si spera che i risultati possano essere trasferiti ai getti mille volte più grandi delle galassie attive e delle quasar, il che aiuterebbe a risolvere i molti enigmi sull’origine dei raggi cosmici più energetici.

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Lisa e il futuro delle onde gravitazionali


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Illustrazione artistica ispirata alla missione spaziale Lisa. Crediti: Esa, Cc By-Sa 3.0 Igo

Il 25 gennaio 2024, il Science Programme Committee dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha approvato la missione Laser Interferometer Space Antenna (Lisa), il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali. Questo passo importante, formalmente chiamato “adozione”, riconosce che l’idea e la tecnologia della missione sono sufficientemente avanzate e dà il via libera alla costruzione, che inizierà a gennaio 2025 una volta affidato l’appalto industriale.

Il lancio di Lisa è previsto per il 2035 a bordo di un razzo Ariane 6. La missione sarà formata da tre sonde, disposte nello spazio in un triangolo equilatero estremamente preciso che seguirà la Terra nella sua orbita attorno al Sole. Le tre sonde si scambieranno raggi laser su distanze pari a 2,5 milioni di chilometri, ovvero più di sei volte la distanza Terra-Luna.

Tra gli obiettivi scientifici di Lisa, rilevare le fluttuazioni nel tessuto spaziotemporale causate, in tutto l’Universo, dalla fusione dei buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie, per comprendere meglio l’origine di questi misteriosi corpi celesti e il loro ruolo nell’evoluzione delle galassie. Grazie all’osservazione di onde gravitazionali a frequenze più basse di quanto possibile da terra, la missione permetterà di esplorare una gran varietà di sorgenti lungo tutta la storia del cosmo, fino all’alba dei tempi.

Per saperne di più su questo ambizioso progetto, sulle sue differenze e possibili sinergie con rivelatori di onde gravitazionali a terra, in particolare con il futuro Einstein Telescope, Media Inaf ha intervistato Oliver Jennrich, Lisa project scientist presso lo European Space Research and Technology Centre dell’Esa a Noordwijk, nei Paesi Bassi.

Dottor Jennrich, qual è la differenza tra Lisa e gli osservatori di onde gravitazionali a terra come Ligo, Virgo e il futuro Einstein Telescope?

«Principalmente l’intervallo di frequenza. I rivelatori a terra hanno il limite di 1 hertz (Hz), la loro sensibilità va da 1 Hz alla banda dei kiloHz [migliaia di Hz, ndr], mentre Lisa è sensibile a onde gravitazionali con frequenze tra 0.1 milliHz [millesimo di Hz, ndr] fino a 1 Hz. Quindi hanno intervalli di frequenza completamente diversi».

Perché questa differenza?

«La vera domanda è: perché non possiamo costruire sulla terra apparati in grado di rilevare onde gravitazionali nella banda dei millihertz? Fondamentalmente perché il suolo è troppo rumoroso. C’è il rumore sismico, tutto ciò che si muove, le onde oceaniche che sbattono sulla costa e scuotono la regione. Sono cose per cui non c’è molto da fare, come per esempio il meteo. Se pensiamo alla frequenza in termini di tempo, un millihertz equivale a circa venti minuti. Immagina una grande nube piena d’acqua, che esercita una sua attrazione gravitazionale sulle cose, e si sposta nel corso di venti minuti. Queste fonti di rumore sono molto più intense del segnale di onde gravitazionali che stiamo cercando, quindi bisogna andare dove queste fonti di rumore non esistono. Ovvero nello spazio».

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Lo spettro delle onde gravitazionali. Un osservatorio spaziale come Lisa sarà in grado di registrare anche quella a bassa frequenza prodotte dalla fusione fra buchi neri supermassicci. Crediti: Esa

Quindi la necessità di andare nello spazio è determinata principalmente dal dover evitare questo rumore intrinseco del suolo. Non serve anche per raggiungere grandi dimensioni che non sono disponibili a terra?

«Le onde gravitazionali causano una deformazione [in inglese, strain, ndr], cioè una variazione relativa di lunghezza. Maggiore è la lunghezza, maggiore è il cambiamento che le onde gravitazionali imprimono su di essa. Una volta che si è nello spazio, si può provare ad aumentare le dimensioni dei rilevatori, il che aiuta a catturare segnali più grandi. Ma se il rivelatore è troppo grande, intervengonodegli effetti di cancellazione: se l’intero periodo di un’onda gravitazionale rientra due volte nella lunghezza del rilevatore, l’effetto si annulla, quindi si perde sensibilità alle frequenze più alte. Cerchiamo quindi di massimizzare la lunghezza per ottenere la massima sensibilità possibile, ma senza renderla troppo lunga, perché altrimenti si perderebbero i sistemi ad alta frequenza».

Che cosa significa questo in termini osservativi?

«Significa che Lisa rivela sistemi più pesanti rispetto ai rivelatori a terra. Le sorgenti osservate da Ligo finora sono tutte nell’intervallo tra dieci e cento masse solari. Lisa rivelerà la coalescenza di buchi neri supermassicci, da centomila a un milione di volte la massa del Sole. Questi sono sistemi molto più pesanti che vivono al centro delle galassie, mentre i buchi neri di massa stellare [come quelli osservati da Ligo, ndr] possono trovarsi dappertutto, non devono essere per forza al centro di una galassia».

Lisa è appena stata “adottata” dall’Esa. Che cosa rappresenta questo passo?

«L’adozione significa che diventa ufficialmente parte del programma scientifico dell’Esa. Diventa un progetto vero e proprio, con un team di progetto a pieno titolo. Finora Lisa era in fase di studio, con una piccola squadra di poche persone, mentre nel team di progetto ci saranno venti, trenta persone che lavorano su diversi aspetti della missione. Ed è anche la fase in cui la comunità di Lisa inizia finalmente a costruire qualcosa anziché fare soltanto progetti».

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L’orbita e struttura di Lisa. Crediti: Esa / Atg Medialab, Cc By-Sa 3.0 Igo

Torniamo alla scienza: rispetto ai rivelatori attuali di onde gravitazionali a terra, Lisa sarà sensibile a sorgenti molto distanti, permettendo di indagare l’Universo primordiale. Recentemente si parla molto di Einstein Telescope, il futuro rivelatore terrestre, che esplorerà anch’esso un volume di cosmo molto più esteso rispetto agli esperimenti attuali, raggiungendo distanze molto più grandi. Chi vedrà più lontano tra Lisa e Einstein Telescope?

«I rivelatori di onde gravitazionali misurano l’ampiezza del segnale, che diminuisce solo con l’inverso della distanza, a differenza delle misure di potenza o intensità della radiazione, che invece diminuiscono con l’inverso della distanza al quadrato. Per questo, con le onde gravitazionali possiamo esplorare distanze che i telescopi astronomici non possono raggiungere. Quanto lontano un rivelatore può spingersi, questo poi è determinato a tutti gli effetti dalla sua soglia di rumore. Ed è il motivo per cui Einstein Telescope cercherà di raggiungere una sensibilità migliore degli attuali rivelatori terrestri. Le sorgenti producono un certo segnale, a quel punto la domanda è: riusciamo a vederle? E, in tal caso, fino a quali distanze possiamo vederle? Per esempio, prendiamo una sorgente standard: la coalescenza di due stelle di neutroni oppure di due buchi neri di massa stellare. La capacità di osservarli fino a un miliardo oppure dieci, quindici miliardi di anni luce, diciamo, dipende dalla sensibilità del rivelatore. La forza intrinseca della sorgente è essenzialmente la stessa, quindi se vogliamo osservare a distanze maggiori bisogna scegliere sistemi con un segnale più grande, quindi sistemi più massicci. Una massa più grande, però, corrisponde a frequenze più basse: è direttamente proporzionale, la relatività generale è estremamente semplice, tutto scala con la massa. Quindi se vogliamo osservare sistemi a distanza maggiore con un certo rivelatore, dobbiamo scegliere sistemi più massicci, ma non troppo, per evitare di scendere al di sotto della sensibilità limite di quel rivelatore».

Dunque per raggiungere distanze più grandi, serve osservare sistemi più massicci, ma non troppo. Proviamo a spiegarlo con un esempio pratico?

«Possiamo calcolarlo: se vogliamo osservare a una certa distanza, abbiamo bisogno di vedere oggetti che hanno una massa, diciamo, di mille masse solari per avere un segnale sufficiente. Pensiamo a un sistema in coalescenza, con frequenza di qualche Hz, laddove Einstein Telescope sarà più sensibile: possiamo osservarlo fino a un redshift di 10-11 [quando l’Universo aveva circa 400-500 milioni di anni, ndr]. Con Lisa, sistemi in coalescenza con masse tra centomila e dieci milioni di masse solari non potranno nascondersi, li vedremo dovunque essi siano nell’Universo. Gli astrofisici non pensano che non esista nulla a redshift pari a 25 o 30 [quando l’Universo aveva circa 100 milioni di anni, ndr], semplicemente perché non c’è stato tempo a sufficienza per far sì che questi sistemi si formassero. Ma se esistessero, Lisa li vedrebbe, perché il loro segnale sarebbe così forte e la sensibilità e l’intervallo di frequenza sarebbero quelli giusti».

Ripensando alla storia dell’Universo, Lisa riuscirebbe a vedere anche sistemi meno massicci – come quelli a cui l’Einstein Telescope sarà specialmente sensibile – ma più lontano, perché si sono formati prima?

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La timeline mostra le prime galassie candidate e la storia dell’universo. Crediti: Harikane et al., Nasa, Est and P. Oesch/Yale

«Una delle domande scientifiche che ci possiamo porre riguarda proprio la formazione di questi sistemi. È ragionevole supporre che sistemi più piccoli si siano formati prima, semplicemente perché i sistemi più grandi si formano da quelli più piccoli, quindi è logico che i più piccoli vengano prima. Ma è una supposizione e la possiamo mettere alla prova. Possiamo cercare quanti segnali provenienti da sistemi di questi tipi vengono osservati a distanze sempre più grandi e se questa osservazione è d’accordo con i modelli attuali che descrivono la formazione delle strutture, come galassie e buchi neri. Lo scenario attuale prevede che i buchi neri grandi, da milioni a miliardi di masse solari, si siano formati attraverso la coalescenza di buchi neri più piccoli, da migliaia a decine di migliaia di masse solari. Probabilmente i buchi neri più piccoli vivevano in protogalassie o ammassi globulari, e quando questi si sono fusi, i loro buchi neri centrali sono caduti verso il centro del nuovo sistema, iniziando a orbitare uno intorno all’altro fino a fondersi, formando infine un buco nero più grande. Chiaramente, se si parte da masse più piccole si vedrà un numero maggiore di segnali, perché per andare da mille a dieci milioni di masse solari servono diecimila eventi di fusione, mentre se si parte da centomila masse solari servono solo cento fusioni per arrivare a dieci milioni di masse solari. Il tasso di coalescenze osservato con questi strumenti fornirà informazioni sugli scenari di formazione delle strutture. Esistono tantissimi studi su questi scenari teorici, ma al momento ci sono pochissime prove osservative e le onde gravitazionali sono probabilmente il canale migliore per osservare questi processi. Einstein Telescope avrà una sensibilità importante intorno ai 10 Hz, quindi individuerà gli oggetti più piccoli che Lisa potrebbe non vedere, quindi è sicuramente un ottimo rilevatore complementare».

Servirà ancora qualcosa come Lisa, una volta che Einstein Telescope diventa realtà?

«Certamente. Ci sarà sempre qualcuno che potrebbe dire il contrario, ma penso che non sia un’affermazione giusta. Sarebbe come dire: ora che c’è Jwst, abbiamo ancora bisogno dei radiotelescopi? Non penso poi che ci siano problemi di concorrenza distruttiva, perché la comunità sta crescendo rapidamente e le industrie coinvolte sono diverse».

In che senso?

«Non sarà l’industria aerospaziale a costruire Einstein Telescope e viceversa, quindi non c’è competizione per le risorse esterne, cosa che può succedere quando i fornitori sono limitati. In tal caso bisognerebbe aspettare, ma non è così. Potrebbero esserci problemi per l’analisi dati se dovessimo lavorare a entrambi i progetti adesso: se Lisa fosse in orbita e Einstein Telescope fosse già in funzione, allora penso che bisognerebbe aumentare il numero di persone che lavorano nell’analisi dei dati in modo abbastanza significativo, ma la crescita è organica. Quando entrambi i progetti saranno avviati, un numero sufficiente di studenti di dottorato saranno diventati postdoc e professori con i propri gruppi, sempre più persone saranno diventate competenti in questo tipo di analisi dati e penso che tutti ne trarranno beneficio. Se la comunità cresce e saranno disponibili più rilevatori, ci sarà un maggiore scambio di idee».

Lisa e Einstein Telescope saranno in grado di operare allo stesso tempo?

«Non sono sicuro di quali siano le tempistiche esatte di Einstein Telescope. Lisa ha una vita nominale di circa cinque anni ma in realtà le cose tendono a durare più a lungo. Quindi, se verrà lanciato a metà degli anni 2030, probabilmente farà ancora misure a metà degli anni 2040».

Se le fasi operative dei due rivelatori dovessero coincidere, almeno in parte, come potrebbero complementarsi a vicenda?

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Rappresentazione artistica della fusione di due buchi neri. Crediti: Nasa/Cxc/A.Hobart

«Quando Ligo ha fatto le sue prime scoperte, era abbastanza chiaro che Lisa sarebbe stata in grado di vedere le stesse identiche sorgenti alcune settimane o mesi prima, nella fase in cui spiraleggiano una intorno all’altra, prima della fusione osservata nella banda di Ligo e di Einstein Telescope. Le simulazioni mostrano che esiste un numero significativo di sorgenti osservabili nella parte alta dell’intervallo di frequenze di Lisa che uscirebbero da tale intervallo e riapparirebbero, un paio di settimane o mesi dopo, nell’intervallo di frequenza Ligo per poi fondersi. Lo stesso vale per Einstein Telescope: Lisa potrebbe dire loro in anticipo che qualcosa sta per accadere e quando. Inoltre, entrambe le misurazioni insieme forniranno una migliore localizzazione nel cielo. Gli attuali grafici di localizzazione di Ligo e Virgo non sono così buoni per gli standard astronomici: non è possibile puntare un telescopio in quella direzione perché le barre di errore sono cento volte più grandi del campo di vista».

Potrebbero collaborare anche su qualche altro tipo di sorgente?

«Se riusciremo a vedere altri tipi di sorgenti con entrambi i rilevatori, beh, questo dipende da ciò che la natura metterà a disposizione. Esistono sorgenti in cui piccoli buchi neri o stelle di neutroni cadono verso buchi neri parecchio più grandi, le cosiddette extreme mass ratio inspiral, tipicamente nella gamma di frequenze dei millihertz. Il loro segnale non è una bella sinusoide, c’è un contenuto di armoniche relativamente alto. Quindi, se parliamo di un segnale intorno ai 5 milliHz, allora si potrebbe vedere contemporaneamente, 20 armoniche più su, nella banda di Einstein Telescope. Lisa non vedrà queste sorgenti singolarmente – la larghezza di banda non è sufficiente, farà solo una media di tutti questi sistemi – ma un rilevatore a terra può farlo. Sono sicuro che i nostri amici teorici proporranno tanti altri esempi per osservare un segnale con entrambi i rivelatori contemporaneamente, o anche un segnale multi-messaggero con osservazioni elettromagnetiche. Questa sarebbe la ciliegina sulla torta».

Che tipo di collaborazioni di astrofisica multi-messaggera sono previste con Lisa?

«L’astrofisica multi-messaggera è davvero agli inizi. Penso che anche la nostra comprensione di come il regime delle onde gravitazionali si relazioni con il regime elettromagnetico non sia molto ben sviluppata al momento. Ci sono tante idee ma tutte piuttosto vaghe, dopotutto l’unica sorgente multi-messaggera finora è stata la kilonova nel 2017. Con Lisa, ci sarà un sistema di “allerta”, per far sapere alla comunità che qualcosa sarà osservabile ad una certa data e ora nel futuro: se poi vorranno osservarlo, sono benvenuti. La strategia scientifica del progetto però non dipende da questo, perché renderebbe le cose troppo complicate, ma ci sono sicuramente delle sinergie che sfrutteremo».

Prima ha menzionato che la comunità delle onde gravitazionali è cresciuta molto negli ultimi anni. Com’è cambiata dai tempi precedenti le prime osservazioni di Ligo?

«Se leggo proposte di finanziamento o faccio da referee per un paper, tendo a vedere sempre più spesso nomi che non avevo mai visto prima. Per me, questo indica che molte persone giovani si stanno unendo alla comunità e si stanno costruendo una reputazione. Si vedono annunci di lavoro per analisi dati di onde gravitazionali molto più spesso rispetto a dieci anni fa. La prima osservazione di Ligo ha sicuramente aiutato molto, da un momento all’altro tutti sapevano che c’era qualcosa su cui poter investire. Ci sono molti professori associati o ordinari in tanti posti che si dedicano a questi studi, ed è bello vedere che non si tratta sempre degli stessi attori. Ci sono molte più università e istituti di ricerca interessati rispetto a prima, persino centri di calcolo che si offrono di aiutare l’analisi dati delle onde gravitazionali con le loro Cpu».

Cosa direbbe a studentesse e studenti di fisica o astronomia potenzialmente interessati in una carriera nel campo delle onde gravitazionali?

«Per chi è interessato alla relatività generale numerica o al lavoro teorico, questo è un tema piuttosto caldo al momento perché c’è la promessa che tutto ciò sarà utilizzato nell’arco del prossimo decennio. Il mio sospetto è che, quando Lisa e Einstein Telescope saranno operativi, vedremo anche astronomi generici, chi è interessato a un certo argomento o a una sorgente specifica per esempio, che vorranno sapere se questa sorgente è stata osservata anche nelle onde gravitazionali. La comunità si sta rapidamente spostando da chi osserva le onde gravitazionali perché è interessato alle onde gravitazionali, verso una logica in cui le onde gravitazionali sono solo un altro strumento osservativo per testare una particolare idea. Quindi, a chi sta facendo oggi un dottorato in astronomia, direi sicuramente, anche se non avete un interesse particolare per le onde gravitazionali, anche se non siete interessati alle equazioni di Einstein, di tener presente questa finestra di osservazione che potrete utilizzare tra dieci anni, quindi tenetevi ragionevolmente informati a riguardo. Siate abbastanza competenti da usare questo set di strumenti, questo nuovo canale di informazione per scoprire cosa stava facendo l’universo».


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Dall’Esa semaforo verde per Lisa ed EnVision


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Rappresentazione artistica di Lisa. Crediti: Wikimedia Commons

Il Comitato del programma scientifico (Spc) dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha adottato oggi le missioni Lisa e EnVision. Essere adottati significa che la fase di studio è completata e l’Esa si impegna ora ad attuare le missioni. Lisa verrà lanciata a metà degli anni ’30 mentre la partenza verso Venere di EnVision è al momento prevista per il 2031.

Missione Lisa

Lisa sarà il primo osservatorio spaziale per le onde gravitazionali che rileverà increspature dello spaziotempo con frequenze basse, nella banda 0.1 mHz – 1 Hz, che non possono essere catturate dai rilevatori a terra. Si tratta di un concetto di missione molto innovativo che prevede tre satelliti in configurazione triangolare con bracci di 2,5 milioni di chilometri, che si muovono in un’orbita simile a quella terrestre attorno al Sole: le onde gravitazionali provenienti da sorgenti sparse nell’universo produrranno lievi oscillazioni nelle lunghezze dei bracci (più piccole del diametro di un atomo) che Lisa misurerà con interferometria laser per monitorare il moto relativo fra masse di prova in caduta libera all’interno di satelliti distanti.

La decisione di oggi significa che Lisa ha superato a pieni voti la revisione totale del progetto – dalla definizione della missione complessiva e delle operazioni all’hardware spaziale da costruire – portata avanti nei passati tre anni degli ingegneri dell’Esa. Un contributo fondamentale è stato dato del Consorzio Lisa, una grande collaborazione internazionale che unisce le risorse e le competenze di scienziati di molti paesi in tutto il mondo e che, insieme all’Esa, alle agenzie spaziali europee e alla Nasa, porterà a compimento la missione Lisa.

«Questa missione pionieristica permetterà la crescita delle conoscenze in un’area davvero entusiasmante della scienza spaziale e manterrà gli scienziati europei in prima linea nella ricerca sulle onde gravitazionali», dice il direttore scientifico dell’Esa Carole Mundell.

La tecnologia di misurazione alla base di Lisa è stata provata con successo nello spazio con la missione Lisa Pathfinder dell’Esa, che ha dimostrato che è possibile posizionare masse di prova in caduta libera con una precisione sorprendente, che soddisfa i requisiti necessari per il successo di Lisa.

Le onde gravitazionali con frequenze nella finestra ancora inesplorata compresa tra 0,1 mHz e 1 Hz che Lisa potrà rivelare sono create dalla collisione e dalla fusione di due enormi buchi neri, un milione o più di volte più pesanti del nostro Sole, che si trovano al centro di galassie lontane ancora in formazione. Lisa sarà inoltre l’unico strumento a “vedere” le onde gravitazionali provenienti dai buchi neri stellari che ruotano attorno a quelli massicci nei nuclei galattici, per sondare la geometria dello spaziotempo e testare la gravità nelle sue fondamenta, e rivelerà anche un gran numero di oggetti binari e multipli compatti nella nostra galassia, la Via Lattea, compresi molti oggetti invisibili a tutti gli altri strumenti astronomici.

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Infografica sullo spettro delle onde gravitazionali. Crediti: Esa

Lisa misurerà la radiazione gravitazionale nella finestra ancora inesplorata compresa tra 0,1 mHz e 1 Hz, onde non rivelabili dagli osservatori a terra. Le onde in questa gamma di frequenze vengono create dalla collisione e dalla fusione di coppie di enormi buchi neri, un milione o più di volte più pesanti del nostro Sole, in agguato al centro di tutte le galassie. Lisa traccerà la storia di questi enormi buchi neri dalla loro nascita nell’evoluzione dell’universo con misure distanti e precise. Inoltre Lisa consentirà lo studio di “piccoli” buchi neri di massa stellare che sono catturati dai buchi neri più grandi ai centri di galassie distanti e, più vicino a casa, della popolazione di oggetti compatti in sistemi binari nella nostra Via Lattea. Con la sola gravità, Lisa integra la nostra comprensione dell’universo ben oltre quello che osserviamo con l’astronomia elettromagnetica, aiutando a dar risposta alle domande più fondamentali: “Quali sono le leggi fondamentali dell’universo?” e “Com’è evoluto l’universo che osserviamo e di cosa è fatto?”

«Il contributo italiano a Lisa è fondamentale, in quanto sarà realizzato nel nostro Paese il cuore di ognuno dei tre satelliti, cioè i due Gravitation Reference System (Grs) contenenti le masse in caduta libera la cui posizione risente degli effetti dell’onda gravitazionale e viene misurata dai laser», dice Barbara Negri, responsabile dell’Unità volo umano e strumentazione scientifica di Asi. «L’Università di Trento guida scientificamente il progetto, mentre l’industria italiana realizzerà i sette Grs (sei di volo e uno spare) in tre anni, oltre ai precedenti modelli di sviluppo, un impegno davvero notevole. L’Italia partecipa anche allo sforzo comune del consorzio nel preparare le procedure di analisi dei dati, sfruttando le competenze dell’Università di Milano Bicocca e con il contributo dello Space Science Data Center di Asi».

«Esprimiamo grande soddisfazione per l’adozione da parte dell’Esa della missione Lisa, una decisione determinante per il futuro dell’Europa nella ricerca delle onde gravitazionali: con la realizzazione della missione Lisa nello spazio e dell’interferometro di terza generazione Einstein Telescope sulla Terra, due straordinari strumenti complementari che auspicabilmente raccoglieranno dati contemporaneamente, si apriranno possibilità scientifiche uniche e senza precedenti, consegnando all’Europa una leadership mondiale in un settore di ricerca di punta, sia per la scienza sia per le tecnologie che ne deriveranno», commenta Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Infn.

«L’adozione di Lisa è il frutto di oltre due decenni di sviluppo in Italia sul sistema di masse in caduta libera, resi possibili dalla collaborazione fra Asi, industria, università e l’Infn», dice William Joseph Weber del Laboratorio di gravitazione sperimentale all’Università di Trento e Tifpa/Infn, responsabile scientifico del contributo italiano all’hardware della missione. «Punto di partenza è stato soprattutto il successo della missione Lisa Pathfinder, che ha dimostrato la fattibilità del Grs e di gran parte della metrologia per Lisa e che è stata guidata dall’ateneo trentino con Stefano Vitale come principal investigator».

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Rappresentazione artistica di EnVision. Crediti: Esa

Missione EnVision

È la prossima missione dell’Esa con destinazione Venere che è stata ufficialmente “adottata” oggi dal comitato del programma scientifico dell’Agenzia. La sonda EnVision, alla quale collabora anche la Nasa, studierà Venere dal suo nucleo interno fino alla sua atmosfera esterna, fornendo importanti nuove informazioni sulla storia, l’attività geologica e il clima del pianeta.

Si prevede che EnVision verrà lanciato su un razzo Ariane 6 nel 2031. La missione risponderà a molte domande aperte da tempo su Venere, probabilmente il meno compreso tra i pianeti terrestri del Sistema solare. Venere è il pianeta più vicino alla Terra – e molto simile a essa per massa e dimensioni ma con alcune differenze sostanziali. Tra i corpi rocciosi del Sistema solare, ha l’atmosfera più densa ed è completamente ricoperto da strati di spesse nubi costituite principalmente da acido solforico. La superficie di Venere ha una temperatura media di 464 °C, con una pressione atmosferica 92 volte più grande di quella che sperimentiamo sulla superficie terrestre. Questo porta a chiederci: come e quando il gemello della Terra è diventato così inospitale?

Le misurazioni effettuate da EnVision aiuteranno a svelare i misteri chiave del nostro vicino tutt’altro che ospitale. Ad esempio, EnVision rivelerà come i vulcani, la tettonica a placche e gli impatti degli asteroidi hanno modellato la superficie venusiana e quanto geologicamente attivo è oggi il pianeta. La missione indagherà anche l’interno del pianeta, raccogliendo dati sulla struttura e sullo spessore del nucleo, del mantello e della crosta di Venere. Infine, studierà il tempo e il clima su Venere, compreso il modo in cui sono influenzati dall’attività geologica sulla terra.

EnVision studierà l’intero pianeta come sistema. Per consentire questa indagine olistica, la sonda trasporterà un’ampia suite di strumenti scientifici. Sarà la prima missione a esplorare direttamente sotto la superficie di Venere, utilizzando il suo radar sounder sotto-superficiale. Un secondo strumento radar mapperà e determinerà la struttura della superficie con una risoluzione fino a dieci metri. Tre diversi spettrometri studieranno la composizione della superficie e dell’atmosfera. Un esperimento di radioscienza utilizzerà le onde radio per studiare la struttura interna del pianeta e le proprietà dell’atmosfera. Il contributo italiano è particolarmente rilevante visto che riguarda uno degli strumenti principali, il radar sounder sotto-superficiale, che per la prima volta verrà utilizzato in una missione su Venere.

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Infografica sulla scienza di EnVision. Crediti: Esa

«Il radar sounder penetrerà la crosta venusiana per andare a svelare i misteri che si nascondono nelle prime centinaia di metri al di sotto della superficie», spiega Lorenzo Bruzzone dell’Università di Trento, principal investigator del radar. «Le misure del radar avranno un ruolo cruciale per comprendere i processi legati all’evoluzione del pianeta fornendo informazioni fondamentali per interpretare la geologia venusiana. Tali misure permetteranno analisi dettagliate della tettonica, della stratigrafia, dei crateri sepolti e dei principali elementi connessi all’attività vulcanica. Ciò contribuirà a capire i motivi che hanno portato il nostro pianeta gemello ad avere un’evoluzione così diversa da quella terrestre, diventando un ambiente ostile alla vita».

Questa volta EnVision non sarà solo nel suo viaggio su Venere. Nella speranza di una fruttuosa collaborazione, la Nasa ha anche selezionato due nuove missioni su Venere come parte del suo programma Discovery, il cui lancio è previsto nel periodo 2028-2030: DaVinci (Deep Atmosphere Venus Investigation of Noble gas, Chemistry, and Imaging) e Veritas (Venus Emissività, Radioscienza, InSas, Topografia e Spettroscopia). Insieme, EnVision, DaVinci e Veritas forniranno lo studio più completo di Venere mai realizzato. «L’Asi partecipa attivamente anche alla missione Veritas fornendo un contributo scientifico e tecnologico di altissimo livello», ricorda Angelo Olivieri, project manager dell’Asi. «Gli studi e le tecnologie, su cui Asi continua a fare sostanziali investimenti non solo per quanto attiene i radar sotto-superficiali e i radar ad apertura sintetica ma anche per quanto attiene alla strumentazione per lo studio della gravità dei pianeti, faranno in modo che l’Italia sia in prima linea nell’esplorazione del pianeta Venere».


D’amore e ombra – e Luna e montagna


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«Vedo la Grivola da casa e spesso la fotografo, la trovo molto bella ed elegante, anche senza Luna», dice a Media Inaf il 54enne Enzo Massa Micon, nato a Corio (TO) e oggi a Saint-Pierre, in Valle d’Aosta, dove lavora come funzionario del Parco nazionale Gran Paradiso, guida naturalistica e – appunto – fotografo. «Prediligo il paesaggio, la fotografia aerea dalla mongolfiera e la fotografia astratta. E quando ho visto la Grivola con la Luna allineata non mi sono lasciato scappare l’occasione».

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Shadows of Mountain and Moon (Ombre di montagna con Luna), Apod Nasa del 22 gennaio 2024. Crediti & Copyright: Enzo Massa Micon

Il risultato lo vedete nello scatto qui sopra: un suggestivo incastro di luci e ombre immortalato oltre un anno fa, all’inizio di ottobre del 2022, e da lunedì scorso entrato a far parte della prestigiosa galleria di immagini astronomiche del giorno, le cosiddette Apod, ospitate sul sito della Nasa.

La Grivola è una montagna del gruppo del Gran Paradiso, è alta 3.969 metri e si trova sullo spartiacque tra la Valle di Cogne e la Valsavarenche. Nello scatto di Massa Micon il Sole la illumina da destra, mentre qualche centinaia di migliaia di km più su sta illuminando il lato destro della Luna, delineando il cosiddetto terminatore: il confine fra notte e giorno, qui allineato in modo suggestivo con la cresta pressoché verticale della montagna.

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Enzo Massa Micon. Crediti: Laura Jorioz

Cogliere l’attimo, dice Massa Micon, non è stato poi così difficile. «Sinceramente questo scatto non ha richiesto alcuna preparazione, se non una grande passione per la fotografia di paesaggio e la reflex sempre pronta. La preparazione e la programmazione sono arrivate dopo, per gli scatti successivi, che ritengo anche in alcuni casi migliori – ma Apod ha scelto questa, in quanto si vedono meglio le ombre». E proprio le ombre sono all’origine della scelta del bianco e nero, adottato, spiega Massa Micon, «per enfatizzare la simmetria e il contrasto tra luci e ombre».

Per la pianificazione degli scatti successivi, Massa Micon ha contattato gli astronomi dell’Osservatorio astronomico della Valle d’Aosta, a Saint-Barthelemy, chiedendo consigli sul metodo migliore per capire quando ci sarebbero stati i prossimi allineamenti. «Sono stati molto disponibili e mi hanno consigliato alcune app», dice il fotografo. «All’osservatorio ci sono andato solo come visitatore. Mi piacerebbe collaborare con loro, ma io sono un fotografo di paesaggio, non sono un astrofotografo. Mi piace fotografare di giorno – se poi ci sono anche il Sole e la Luna ancora meglio».


Echi di luce – e l’universo bussò alle porte dell’aria


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Gli attori di “Echi di Luce”. Crediti: Fulvio Michelazzi

Venerdì 26 gennaio debutta a Milano lo spettacolo Echi di luce – e l’Universo bussò alle porte dell’Aria, realizzato da Pacta dei Teatri, nell’ambito del festival di teatro ScienzaInScena – Atto Sette su commissione del gruppo Indaco (Inaf per la divulgazione di Astri e Ctao). In scena presso il Pacta Salone fino al 4 febbraio, questo spettacolo teatrale è parte delle attività di divulgazione scientifica del progetto Pnrr Cta+, a guida dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e finanziato dall’Unione Europea – NextGenerationEU.

La collaborazione tra l’Inaf e Pacta dei Teatri è ormai consolidata, ma questa è la prima volta che viene commissionato uno spettacolo. L’Inaf ha chiesto di portare in scena la costruzione stessa del processo scientifico, dalle idee originali all’innovazione tecnologica, passando per lo sguardo di alcuni degli scienziati coinvolti per raccontare la luce Cherenkov e l’universo al TeV. La sfida è stata rappresentare qualcosa che non vediamo e che non è facile raccontare. Il risultato è uno spettacolo coinvolgente, che per la prima volta porta l’astrofisica delle altissime energie a teatro.

Indaco si occupa della divulgazione dei due progetti di telescopi Cherenkov Astri, a guida Inaf, e Ctao, di cui Inaf è uno dei principali contribuenti. Cta+ ha il compito principale di fornire un completamento alla più grande infrastruttura di ricerca dedicata allo studio del cielo ad altissime energie e tra le infrastrutture di ricerca a più alta priorità nazionale: il Cherenkov Telescope Array Observatory (Ctao). Per dare maggior visibilità al progetto, alla scienza che lo guida, e raccontare l’eccellenza italiana raggiungendo una platea più ampia di pubblico si sono cercate idee alternative come il teatro.

«La mia intuizione di coinvolgere la compagnia Pacta, già nota per precedenti collaborazioni con Inaf», spiega la responsabile del gruppo Indaco, Anna Wolter, «nasce dall’idea di perseguire una strada diversa per la diffusione verso il pubblico dei grandi progetti Inaf, di cui il gruppo Indaco si occupa. L’occasione è arrivata grazie al progetto Pnrr Cta+, permettendoci di raccontare, attraverso il teatro, l’eccellenza del lavoro di ricerca scientifica e tecnologica in cui l’Italia e Inaf sono fortemente coinvolti. Speriamo, con la nostra consulenza scientifica e l’appoggio dato alla compagnia, di essere riusciti a raccontare a un pubblico più ampio le meraviglie dell’universo “che va di fretta”, quello delle sorgenti più potenti del cielo».

La realizzazione del progetto ha richiesto il coinvolgimento di buona parte dei membri del gruppo, specialmente ma non solo i milanesi, per raccontare alla compagnia il progetto, la fisica dell’effetto Cherenkov e gli scopi primari che ci prefiggevamo. Il racconto, corredato di immagini, è stato lasciato poi nelle mani sapienti della compagnia teatrale, che ha fuso drammaturgia, coreografica, scenografia, luministica, composizione musicale e interpretazione per realizzare Echi di Luce.

«L’intersezione tra arte e scienza e la sua rivelazione sulla scena, che da oltre vent’anni contraddistinguono uno dei filoni delle nostre programmazioni, quest’anno si arricchisce di collaborazioni con le maggiori istituzioni scientifiche nazionali e di esplorazioni dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo e ritorno, attraverso i secoli», dice Maria Eugenia D’Aquino, ideatrice e curatrice del Festival. «Il debutto del Festival, il 26 gennaio, è dedicato a una grande occasione che ci è stata commissionata dall’Istituto nazionale di astrofisica: una produzione teatrale per raccontare un’importante conquista nell’osservazione dell’universo».

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Slim: per il lander giapponese il Sole sorgerà a ovest


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Rappresentazione artistica del lander giapponese Slim sul suolo lunare. A fianco i due piccoli rover ausiliari, dispiegati entrambi con successo: Lev1, che è stato in grado di comunicare direttamente con la Terra, e Lev2, che ha comunicato usando Lev1 come ponte radio. Crediti: Jaxa

Dalle 16:20 ora italiana di venerdì scorso il Giappone è ufficialmente entrato nel ristretto circolo delle nazioni che sono riuscite ad approdare sulla Luna senza schiantarsi. Quinto dopo Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India. E primo per understatement: mai dopo un’impresa spaziale di successo si era vista una conferenza stampa così lugubre come la live andata in onda sul canale YouTube della Jaxa subito dopo l’allunaggio. Conferenza nella quale i responsabili dell’agenzia spaziale giapponese hanno annunciato che il lander Slim è riuscito a compiere un atterraggio morbido, come confermato dall’invio della telemetria ad approdo avvenuto. È anche riuscito a sganciare i due piccoli rover ausiliari – uno “saltellante”, l’altro “rotolante” – e ad acquisire immagini. E tutto lascia supporre – anche se per averne certezza occorrerà circa un mese – che abbia toccato il suolo esattamente dove previsto, realizzando dunque quel 100 meters pinpoint landing che era l’obiettivo principale della missione.

Insomma, un risultato che spettacolare è dir poco: ci fossimo riusciti noi europei, per dire, si sarebbero stappate le migliori bottiglie, fra abbracci e scrosciare d’applausi. Lì alla Jaxa, invece, l’atmosfera sembrava talmente tetra che un giornalista in giacca arancione non ha potuto fare a meno di chiedere come mai avessero tutti un’espressione così cupa, riuscendo almeno a strappare un mezzo sorriso al direttore generale dell’Institute of Space and Astronautical Science (Isas) giapponese Hitoshi Kuninaka. Il quale ha ribadito il perché di tanta apprensione: i pannelli solari.

Da subito è stato evidente che i pannelli solari non stavano funzionando. Come ha ricapitolato anche ieri su X la stessa Jaxa, dopo l’atterraggio non è stato possibile avere conferma dell’alimentazione dalle celle solari. Scesa a un livello di carica del 12 per cento, la batteria è stata scollegata (come previsto) per evitare che si scaricasse del tutto, precludendo così un’eventuale operazione di recupero che, invece, è ancora possibile.

Slim si è quindi spento alle 18:57, oltre due ore e mezza dopo l’approdo. Due ore e mezza durante le quali è riuscito a inviare a terra dati e immagini, la cui analisi è tutt’ora in corso, comprese informazioni di telemetria stando alle quali i pannelli solari di Slim risulterebbero rivolti verso ovest. Dunque non è escluso che al prossimo “tramonto” la batteria possa finalmente ricaricarsi, consentendo la ripresa di quelle attività che sancirebbero l’extra success della missione.

According to the telemetry data, SLIM’s solar cells are facing west. So if sunlight begins to shine on the lunar surface from the west, there is a possibility of generating power, and we are preparing for recovery. #SLIM can operate with power only from the solar cells. #JAXA

— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) January 22, 2024

Già, perché nella scala di possibili esiti positivi illustrata dalla Jaxa si parte dal minimum success, ovvero la riuscita dell’atterraggio soft, e questo è sicuramente avvenuto. Per il full success – il successo pieno – era richiesto che l’atterraggio fosse non solo morbido ma pure preciso, entro un raggio di cento metri dal sito programmato, e come dicevamo le probabilità che anche questo difficile obiettivo sia stato conseguito sono elevate. Per l’extra success, invece, era richiesta la prosecuzione delle attività dopo l’approdo, e per questo il giudizio è appunto sospeso almeno fino a quando il Sole non si troverà a ovest, dunque fra circa due settimane, sempre che l’elettronica di Slim resista alle rigide temperature lunari.

Maggiori informazioni sono comunque attese per la fine di questa settimana, ha twittato la Jaxa, concedendosi finalmente il lusso di dichiarare “siamo contenti di aver ottenuto così tanto e siamo felici di essere atterrati con successo”. Chapeau.

Rivedi la conferenza stampa di venerdì sera sul canale YouTube della Jaxa:

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Scoperta una sorgente radio al centro di 47 Tuc


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Il team ha identificato una nuova sorgente radio (quadrato bianco) al centro dell’ammasso (cerchio rosso). Crediti: Paduano et al.

L’immagine che vi proponiamo è del secondo ammasso globulare più luminoso del cielo notturno, 47 Tucanae, ed è stata prodotta da un team guidato dalla Curtin University, uno dei nodi della International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar) dell’Australia occidentale. La cosa particolarmente interessante dello studio che la riguarda, pubblicato su The Astrophysical Journal, è che gli scienziati hanno rilevato un segnale radio inedito provenire dal centro dell’ammasso.

«Gli ammassi globulari sono sfere giganti di stelle molto vecchie che vediamo intorno alla Via Lattea», spiega Arash Bahramian, astronomo della Curtin University. «Sono incredibilmente densi, con decine di migliaia o milioni di stelle ammassate in una sfera. La nostra immagine è quella di 47 Tucanae, uno degli ammassi globulari più massicci della galassia. Ha più di un milione di stelle e un nucleo molto luminoso e molto denso».

Questo ammasso è visibile anche a occhio nudo ed è stato catalogato (erroneamente come una stella) per la prima volta nel 1751. L’immagine che vedete qui è stata creata grazie a oltre 450 ore di osservazioni all’Australia Telescope Compact Array (Atca) del Csiro. Si tratta dell’immagine radio più profonda e sensibile mai realizzata da un radiotelescopio australiano. Ed è stato proprio l’incredibile livello di dettaglio raggiunto che ha permesso agli astronomi di scoprire un segnale radio incredibilmente debole al centro dell’ammasso, che non era mai stato rilevato prima.

Secondo Alessandro Paduano della Curtin University, il rilevamento del segnale è una scoperta entusiasmante e potrebbe essere attribuito a una delle seguenti due possibilità. «La prima è che 47 Tucanae potrebbe contenere un buco nero con una massa intermedia tra i buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie e i buchi neri stellari creati dal collasso delle stelle. Si pensa che i buchi neri di massa intermedia esistano negli ammassi globulari, ma non ne è ancora stato individuato uno. Se questo segnale si rivelasse provenire da un buco nero, sarebbe una scoperta estremamente significativa e la prima rilevazione radio di un buco nero all’interno di un ammasso».

La seconda possibile fonte del segnale è una pulsar, una stella di neutroni rotante che emette onde radio. «Una pulsar così vicina al centro di un ammasso è una scoperta interessante anche dal punto di vista scientifico, perché potrebbe essere usata per cercare un buco nero centrale che non è ancora stato individuato», afferma Paduano.

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La scoperta è stata fatta utilizzando l’Australia Telescope Compact Array del Csiro. Crediti: Alex Cherney/Csiro

«Questo progetto ha portato il nostro software ai suoi limiti, sia in termini di gestione che di elaborazione dei dati, ed è stato davvero entusiasmante vedere la ricchezza scientifica che queste tecniche hanno permesso di ottenere», dichiara Tim Galvin, ricercatore del Csiro. «La ricerca di Alessandro rappresenta il culmine di anni di ricerca e di progressi tecnologici, e l’immagine ultra-profonda di 47 Tucanae di Atca è solo l’inizio delle scoperte che devono ancora arrivare».

L’immagine ultrasensibile prodotta è simile a ciò che i ricercatori possono aspettarsi dai radiotelescopi Ska, attualmente in costruzione in Australia e Sudafrica dall’Osservatorio Ska (Skao). Una volta completati, i telescopi Ska saranno i due più grandi array di radiotelescopi al mondo, e aumenteranno notevolmente la nostra comprensione dell’universo, affrontando alcune delle domande scientifiche più fondamentali del nostro tempo.

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Mai s’era visto un buco nero così antico e lontano


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Illustrazione artistica della regione attorno a un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa, Esa, N. Bartmann

Il buco nero più antico finora mai osservato è stato individuato grazie al telescopio spaziale James Webb (Jwst) nella galassia Gn-z11: risalirebbe a 13,2 miliardi di anni fa, ovvero appena 400 milioni di anni dopo il Big Bang. Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Nature e guidato dall’italiano Roberto Maiolino, oggi nel Regno Unito al Cavendish Laboratory e al Kavli Institute for Cosmology dell’Università di Cambridge, il fatto che questo buco nero attivo, di massa pari a qualche milione di volte quella del Sole, esista già così “presto” nell’universo mette in discussione le nostre ipotesi su come si formano e crescono i buchi neri.

Prima di oggi, gli astronomi ritenevano che i buchi neri supermassicci al centro di galassie come la Via Lattea impiegassero miliardi di anni per raggiungere le dimensioni attuali. Ma le caratteristiche di questo buco nero appena scoperto suggeriscono che potrebbero essersi formati in altri modi. Forse potrebbero essere nati già “grandi”, o potrebbero essere più “voraci” e mangiare la materia a una velocità cinque volte superiore a quella considerata possibile.

Questo buco nero, invece, già esisteva e aveva una massa considerevole in un’epoca in cui l’universo era agli albori, il che solleva interrogativi sulle teorie tradizionali sullo sviluppo di questi oggetti. Seguendo i modelli standard, infatti, i buchi neri supermassicci si formerebbero a partire dai resti di stelle morte che, collassando, possono dare origine a buchi neri di qualche centinaia di masse solari. Se si fosse sviluppato nel modo previsto, per arrivare alle dimensioni osservate – qualche milione di masse solari, appunto – il buco nero nel cuore di Gn-z11 avrebbe dovuto impiegare almeno un miliardo di anni. Eppure l’universo aveva meno di un miliardo di anni, all’epoca in cui Jwst lo ha visto: una scoperta che suggerisce la possibilità che questo antico buco nero possa aver seguito una via evolutiva unica nel suo genere. «È troppo presto nell’universo per vedere un buco nero così massiccio», dice Maiolino. «Dobbiamo considerare altri modi in cui questi oggetti possono formarsi. Le primissime galassie erano estremamente ricche di gas, dunque potrebbero aver rappresentato un ricco buffet per i buchi neri».

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Questa immagine mostra un “primo piano” della galassia Gn-z11 che ospita il buco nero più antico osservato dagli autori della ricerca.. La galassia è stata fotografata dal telescopio spaziale Hubble e sovrapposta a un’altra immagine che segna la posizione della galassia nel cielo. Crediti: Nasa, Esa, and P. Oesch (Yale University)

Gn-z11, la giovane galassia ospite, è circa cento volte più piccola della Via Lattea e brilla grazie al buco nero così energetico al suo centro. I buchi neri, infatti, non possono essere osservati direttamente, ma vengono rilevati dal bagliore di un disco di accrescimento vorticoso, che si forma vicino al loro bordo. Il gas nel disco di accrescimento diventa estremamente caldo e inizia a brillare e a irradiare energia nell’ultravioletto. Questo forte bagliore è il segno con cui gli astronomi sono in grado di individuare i buchi neri.

Come tutti i suoi simili, il buco nero attivo di Gn-z11 sta divorando materiale dalla galassia che lo ospita per alimentare la sua crescita. Ma lo sta facendo con molta più voracità dei suoi fratelli formatisi in epoche successive. Forse troppa. Quando i buchi neri consumano troppo gas, infatti, lo spingono via sotto forma di “vento ultra veloce” capace di bloccare il processo di formazione delle stelle. In altre parole, attraverso il suo vigoroso consumo di materia il buco nero sta “uccidendo” lentamente la galassia che lo ospita, privandosi così della sua fonte di “cibo” e mettendo a rischio la sua stessa esistenza.

L’attuale susseguirsi di enormi passi avanti consentiti da Jwst rappresenta per Maiolino, che prima di arrivare nel Regno Unito ha lavorato per molti anni all’Inaf di Roma, il momento più emozionante della sua carriera. «È una nuova era. Il gigantesco salto di sensibilità compiuto con Jwst, soprattutto nell’infrarosso, è stato come passare dal telescopio di Galileo a un telescopio moderno in una notte», dice il ricercatore, secondo cui la sensibilità di Jwst potrebbe, nei prossimi mesi e anni, mostrarci buchi neri ancora più antichi.

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Il telescopio spaziale Jwst della Nasa. Crediti: Nasa

L’intenzione del team di ricerca è, infatti, quella di continuare a sfruttare il telescopio spaziale per cercare “semi” più piccoli di buchi neri, che potrebbero aiutare a ricostruire i processi attraverso i quali si formano: sono già grandi dalla nascita o diventano rapidamente dei giganti?

«Prima che il telescopio James Webb entrasse in funzione e dopo aver già osservato con Hubble, pensavo che l’universo non fosse più così interessante da studiare», ricorda Maiolino. «Ma non è andata affatto così: l’universo si sta rivelando molto generoso nel mostrarci ciò che è accaduto. E questo è solo l’inizio».

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Lofar, ora più forte grazie a Eric


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Veduta aerea di una parte del radiotelescopio Lofar. Crediti: Astron

Il radiotelescopio europeo Lofar (Low frequency Array) acquisisce la nuova configurazione di European research infrastructure consortium (Eric). L’avvio di questa entità legale pensata per ottimizzare la gestione dell’infrastruttura e consolidare la leadership mondiale dell’Europa nel campo è stato ufficialmente dato nel corso della prima riunione del Consiglio di Lofar Eric svoltasi oggi.

L’infrastruttura di ricerca di Lofar, composta da 70mila antenne distribuite su ben dieci Paesi europei a cui anche l’Italia partecipa con la guida dell’Istituto nazionale di astrofisica, forma il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta ed è il più grande precursore del futuro radiotelescopio Ska alle basse frequenze. Lofar ha già rivoluzionato la ricerca sulla radioastronomia, dando luogo a una valanga di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio. In particolare, la comunità Italiana sta giocando un ruolo fondamentale nell’utilizzo scientifico dei dati Lofar e ha dato un contributo tecnologico importante nella progettazione e realizzazione dei sistemi che saranno utilizzati nell’aggiornamento della infrastruttura (Lofar 2.0) prevista per il 2025.

Lofar Eric governerà proprio la sfida tecnologica alla base di Lofar 2.0, che porterà a un grande potenziamento di Lofar mettendo a disposizione della comunità astronomica una capacità di osservazione ed elaborazione dei dati ancora più all’avanguardia, producendo un ulteriore balzo in avanti nella sensibilità e risoluzione delle immagini prodotte da Lofar.

«Siamo fieri di contribuire in modo decisivo al progetto Lofar» commenta Marco Tavani, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. «L’Italia è infatti uno dei Paesi fondatori di questo Eric che oggi rafforza la leadership mondiale dell’Europa nel campo della radioastronomia. Il lavoro incessante per migliorare a livello tecnologico e organizzativo questa infrastruttura di ricerca sarà fondamentale per entrare in una nuova era dello studio dell’universo nelle onde radio, quando sarà operativo anche lo Square kilometre array observatory».

Mappa dei Paesi europei che partecipano a Lofar. Crediti: AstronLofar Eric fornirà un accesso trasparente a un’ampia gamma di servizi di ricerca scientifica per la comunità europea e globale, promuovendo collaborazioni e consentendo ai ricercatori di portare avanti progetti innovativi su larga scala in tutti i settori scientifici, tra cui lo studio dell’universo primordiale, la formazione e l’evoluzione delle galassie, la fisica delle pulsar e dei fenomeni radio transitori, la natura delle particelle cosmiche ad altissima energia e la struttura dei campi magnetici cosmici. Lofar Eric garantirà l’accesso a una mole di dati senza precedenti attraverso un archivio distribuito su scala Europea e aperto alla comunità.

I membri fondatori di Lofar Eric sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborazioni con istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito garantiscono un’ulteriore partecipazione all’infrastruttura distribuita Lofar e al programma di ricerca. La sede statutaria di Lofar Eric è a Dwingeloo, nei Paesi Bassi, ospitata dal Nwo-I/Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy, che ha guidato la progettazione di Lofar).

«L’istituzione di Lofar Eric consolida l’eccellenza a livello mondiale per l’Europa in un importante settore di ricerca», dice René Vermeulen, direttore fondatore di Lofar Eric. «Con la sua impareggiabile infrastruttura di ricerca distribuita e il suo solido partenariato paneuropeo, Lofar Eric entra nello Spazio europeo della ricerca come una potenza all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dell’astronomia, con il potenziale per contribuire a sfide complesse più ampie».

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Libri di astronomia per bambini e ragazzi 2023


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David Duff, “Il giorno in cui la Luna e la Terra litigarono” (Corraini, 2023, 36 pp., 19.50 euro)

Come di consueto tra la fine di dicembre e di gennaio il portale Polvere di stelle: i beni culturali dell’astronomia italiana pubblica Libri di astronomia per bambini e ragazzi: l’annuale bibliografia delle pubblicazioni di astronomia per bambini e ragazzi edite nel nostro Paese, un pratico strumento di reference destinato a chi desidera avere a portata di mano il meglio della produzione editoriale in commercio in questo settore.

Libri di astronomia per bambini e ragazzi propone quest’anno ben 80 pubblicazioni suddivise in quattro fasce di età: 3-5, 6-8, 8-10 e 11-14 anni, che corrispondono approssimativamente ai destinatari dei libri. Completa la selezione una sezione dedicata agli atlanti, alle mappe del cielo e alle enciclopedie.

Il numero dei libri identificati in questa edizione è in decisa crescita rispetto a quelle degli anni passati. Un incremento numerico dovuto all’espansione di questo segmento editoriale, cui non sempre corrispondono elevati standard di qualità. La bibliografia ha selezionato opere diverse: libri di divulgazione scientifica, biografie di scienziati, libri gioco a tema divulgativo, accomunati dal fatto di essere strumenti pensati per far avvicinare i più piccoli alla scienza del cielo. Tra questa pluralità di proposte spiccano gli albi illustrati a tema astronomico, un genere in ascesa. Ne segnaliamo due meritevoli di attenzione.

Ne Il giorno in cui la Luna e la Terra litigarono (Corraini, 2023) le parole di David Duff e le illustrazioni coloratissime di Noemi Vola raccontano una lite tra la Terra e la Luna, all’origine di un viaggio avventuroso del nostro satellite nel Sistema solare. Dopo un lungo girovagare tra pianeti e corpi celesti, la Luna decide di tornare al punto di partenza, di riprendere a orbitare attorno al nostro pianeta. Un modo molto fantasioso, giocoso, quello del racconto di un litigio, per introdurre ai bambini il Sistema solare.

Alle costellazioni è dedicato Nascosti nel cielo (Camelozampa, 2022). Qui l’autrice e illustratrice, Aina Bestard, propone una lettura immersiva alla scoperta di abitazioni situate in luoghi diversi del mondo, disegnate a tutta pagina. Una volta varcata la soglia di casa, una tipica dimora giapponese come una yurta, un indovinello posto sulla pagina sinistra del libro introduce l’animale di una costellazione. La risposta all’indovinello viene rivelata dall’apertura di una finestra della casa, un pop up sulla pagina destra, che, illuminata da dietro con una torcia o con un cellulare, mostra l’animale oggetto del quiz e protagonista della costellazione. Il gioco dell’indovinello, da noi sperimentato in tanti percorsi di lettura dedicati ai più piccoli, manda in solluchero i bambini.

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Da in alto a sinistra in senso orario: Aina Bestard, “Nascosti nel cielo” (Camelozampa, 2022, 26 pp. 19 euro); Isabel Minhos Martins e di Bernardo P. Carvalho , “Prendere aria, prendere il Sole” (Hopi, 2022, 180 pp); Claudia Martin, “Costruisci il tuo museo dello Spazio” (Editoriale Scienza, 2023, 30 pp., 21,90 euro); Aina Bestard, “Paesaggi ignoti del Sistema solare” (L’ippocampo, 2022, 90 pp., 19,90 euro)

Il gioco riveste un ruolo di primo piano in tante altre proposte, rivolte anche ai bambini più grandi. Prendere Aria, prendere il Sole (Hopi, 2022) ad esempio. La pubblicazione bifronte di Isabel Minhos Martins e di Bernardo P. Carvalho in un tono scanzonato alterna spiegazioni scientifiche a storie di miti celesti, detti, osservazioni tratte dalla vita quotidiana e invita a scoprire la nostra stella attraverso il disegno, la risoluzione di quesiti e anche proponendo semplici attività pratiche.

L’invito al fare, a usare le mani, prezioso in tempi dominati dal mondo virtuale, lo ritroviamo anche in Costruisci il tuo museo dello Spazio (Editoriale Scienza, 2023). “Benvenuti al Museo dello Spazio. Serve il vostro aiuto perché tutto sia pronto per l’inaugurazione. Aprite la scatola delle meraviglie spaziali”, si legge all’inizio del libro. Cinque pop up da montare allegati alla pubblicazione sono pronti per essere utilizzati dai giovani lettori per l’allestimento di un piccolo museo spaziale di carta dove si possono toccare con mano il rover Perseverance, il modulo lunare della missione Apollo III come Giove o Saturno.

Ma i fenomeni del mondo naturale suscitano stupore e meraviglia anche e soprattutto attraverso la vista, basta sfogliare le pagine di Paesaggi ignoti del Sistema solare (L’ippocampo, 2022) per rendersene conto. Pianeti rossi, verdi, azzurri, suoli aridi, superfici ghiacciate o terre infuocate, vulcani in eruzione, riempiono le tavole panoramiche di questo libro adatto ai lettori di tutte le età con il quale concludiamo la nostra breve rassegna.

La bibliografia, che quest’anno si è avvalsa del contributo della biblioteca “Margherita Hack” dell’Inaf di Trieste, è frutto della consolidata collaborazione avviata tra la biblioteca dell’Inaf di Arcetri e Liber – trimestrale di informazione bibliografica e di orientamento critico promosso dalla biblioteca “Tiziano Terzani” di Campi Bisenzio (Fi), curatore di Liber Database, archivio di tutti i libri per ragazzi editi in Italia dal 1987.


L’Orione che si può quasi vedere


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Astronomy Picture of the Day della Nasa del 16 gennaio 2024: l’Orione che si può quasi vedere. Crediti: M. Guzzini

Protagonista della Astronomy Picture of the Day (Apod) della Nasa del 16 gennaio 2024 è Orione, il Cacciatore. La gigante rossa Betelgeuse, in alto a sinistra, svetta in una forte tonalità arancione. Numerose le stelle blu della costellazione, con la supergigante Rigel in basso a destra e Bellatrix in alto a destra. Nella cintura di Orione, si distinguono allineate le sue tre stelle, tutte distanti circa 1500 anni luce, nate dalle nubi interstellari. Appena sotto la cintura di Orione si trova una macchia luminosa e sfuocata, nota come Nebulosa di Orione. Infine, appena visibile a occhio nudo, l’Anello di Barnard, un’enorme nebulosa a emissione gassosa che circonda la cintura e la Nebulosa di Orione.

Autore di questo suggestivo scatto è un ingegnere italiano, Michele Guzzini, nato nel 1987 a Recanati, dove risiede. Media Inaf lo ha raggiunto, per conoscerlo, carpire i segreti che hanno permesso di ottenere questa impressionante vista e ascoltare il racconto della sua esperienza.

Orione, una delle più belle e brillanti costellazioni del cielo invernale. Da quanto tempo ha maturato la scelta di riprendere proprio il Cacciatore?

«La costellazione di Orione, alle nostre latitudini, è probabilmente l’area di cielo più interessante da fotografare durante la stagione invernale. È ricca di zone di formazione stellare, nebulose ad emissione e a riflessione, nebulose scure e regioni di idrogeno ionizzato. Le più celebri e riconoscibili sono sicuramente la grande nebulosa di Orione (M42) e la nebulosa Testa di Cavallo. Questo complesso nebuloso, nelle sue formazioni principali, ha una dimensione apparente in cielo di circa 30°x20°, ideale per essere ripreso con una macchina fotografica full frame e obbiettivo da 85mm. Con questo campo inquadrato, l’anello di Barnard sembra abbracciare le altre nebulose in un disegno perfetto. Quando vidi l’Apod del 23 ottobre 2010 ne rimasi stregato, da allora ho sempre sognato di riprendere questa zona di cielo».

Come ha fatto a fotografarla così magnificamente?

«Per farlo, occorre necessariamente un sensore dedicato all’astrofotografia oppure una macchina fotografica modificata, dato che l’idrogeno emette in lunghezze d’onda che vengono filtrate dalle classiche fotocamere. Insieme – e grazie – al mio caro amico Lorenzo Cappella, anche lui astrofilo, abbiamo modificato la mia Nikon Z6 per aumentarne la sensibilità nella lunghezza d’onda dell’h-alpha. Durante una sessione di astrofotografia lo scorso novembre, sempre sui Sibillini, avevo già fatto alcuni scatti di prova su Orione. Era ancora troppo basso sull’orizzonte e non ero riuscito a fare l’inquadratura perfetta, ma avevo capito che c’era un grande potenziale».

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Michele Guzzini, ingegnere meccanico, nato nel 1987 a Recanati. Autore della Apod Nasa del 16 gennaio 2024. Crediti: M. Guzzini

Quando e da dove ha scattato questa fotografia?

«Dal mio terrazzo di casa ho la vista su tutto il gruppo dei Sibillini, quindi riesco a valutare le condizioni atmosferiche, in particolare al tramonto, e capire se sarà la serata ideale. Così, domenica 17 dicembre, con meteo e Luna a favore, all’ultimo minuto decido di partire. Setup minimale, Nikon Z6 modificata, Nikon Z 85mm F/1.8 e inseguitore Star Adventurer. Arrivo sul posto, in località Sassotetto, a circa 1500m s.l.m.. Non è il punto più buio dei Sibillini, ma ha il vantaggio di avere, in direzione sud, per alcuni chilometri, soltanto montagne. C’era più neve e ghiaccio di quanto pensassi, nonostante ciò sono riuscito senza troppi problemi ad allineare la montatura e iniziare subito le riprese. Il freddo sicuramente non aiutava me, ma aiutava la macchina fotografica. La bassa temperatura, sotto gli 0°, permette di ottenere immagini ancora più pulite limitando gli effetti del riscaldamento sul sensore di ripresa. Col passare del tempo le condizioni del cielo sembravano migliorare, quindi ho scattato quante più foto possibili, ma sinceramente temevo che non sarebbero state sufficienti per ottenere il risultato sperato».

Operativamente, come si fa a ottenere un’immagine così?

«I giorni successivi mi sono dedicato all’elaborazione, ero impaziente di vedere i risultati, ma questa fase richiede in realtà molto tempo. Inizialmente vanno calibrate ed integrate tutte le riprese fatte, in questo modo si ottiene una singola immagine che contenga quanto più segnale possibile, poi si passa alla vera e propria fase di processing. In totale ho utilizzato 56 foto da 120 secondi a F/2.5. Dopo alcune prove, mi sono accorto che avrei dovuto cambiare qualcosa nel mio workflow. In particolare, ho sviluppato un metodo più efficace per la rimozione del gradiente proveniente dall’inquinamento luminoso, purtroppo anche qui presente e ancora più evidente nelle immagini a campo largo. Sono riuscito a modellare in maniera molto precisa la luce artificiale presente nelle riprese; una volta rimossa, tutte le nebulose, anche le più deboli, si sono rivelate. Un’altra fase importante è quella di riduzione stellare: con la fotografia a lunga esposizione si catturano così tante stelle che vanno quasi a confondere l’occhio e nascondere le nebulose. Completato anche questo passaggio avevo capito di essere riuscito a realizzare la foto che speravo».

Quando è nata la sua passione per il cielo stellato?

«Sin da giovane, ho coltivato la passione per l’astronomia. Mi sono avvicinato alla fotografia astronomica nel 2008, grazie al mio caro amico di lunga data, Lorenzo. Con il suo telescopio e la sua macchina fotografica, abbiamo catturato le prime foto e iniziato a studiare le tecniche di astrofotografia. Insieme abbiamo conosciuto Gianclaudio e gli altri amici dell’associazione Crab Nebula: Angelo, Fabiano, Francesco e Giuseppe. Con loro attualmente gestiamo il Centro Astronomico Gianclaudio Ciampechini, costruito con le nostre mani. Negli anni più recenti, grazie anche agli avanzamenti tecnologici con le nuove fotocamere e obiettivi sempre più performanti, mi sono dedicato in particolare alla fotografia notturna paesaggistica e alla fotografia astronomica a largo campo, cercando luoghi suggestivi e lontani dall’inquinamento luminoso. I monti Sibillini sono diventati il mio rifugio per questo genere di fotografia, poiché sono a breve distanza da casa e posso contare su un comodo punto logistico nella zona. Tuttavia, anche qui, l’inquinamento luminoso è in costante aumento. La mia speranza è che, attraverso il mio lavoro, possa sensibilizzare un numero sempre maggiore di persone su questo problema ambientale».

Per fare astrofotografia immagino occorra pazienza e grande sopportazione, soprattutto quando è freddo. C’è un messaggio vuole lasciare ai nostri lettori, oltre a questa meravigliosa foto?

«Gli astrofotografi sono sempre alla ricerca dell’ultimo sensore, dell’ultimo ausilio tecnologico o software che possa portare ad un risultato migliore, ma c’è molto di più: l’astrofotografia ti arricchisce insegnandoti dedizione, pazienza e un profondo rispetto per la bellezza del cielo stellato. Attraverso la tecnica e la passione, cerco di condividere con gli altri le meraviglie dell’universo, invitandoli a sollevare lo sguardo e a porsi domande. Quando stiamo sotto un cielo stellato, con il telescopio, la macchina fotografica o semplicemente con gli occhi all’insù, ci rendiamo conto di essere parte di qualcosa di unico e apparentemente senza tempo, che accumuna tutti gli esseri che abbiano mai vissuto sul pianeta terra, il nostro “tenue puntino blu“».


Se le galassie vanno a banane


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Adriano Fontana. Crediti: Inaf

Se vi siete mai chiesti che forma avessero le galassie all’inizio dei tempi e vi sono venute in mente le immagini di maestose galassie a spirale e imponenti galassie ellittiche, molto probabilmente vi state sbagliando. Uno studio guidato da Viraj Pandya della Columbia University e del Flatiron Institute di New York ha infatti rivelato che una vasta frazione (dal 50 fino all’80 per cento) di un campione di circa quattromila galassie osservate nell’universo lontano ha una forma allungata e schiacciata, che ricorda niente meno che quella di una banana. Le galassie appena nate risultano dunque nettamente diverse da quelle che popolano l’universo attuale, caratterizzato per lo più da galassie a disco e, in minor parte, da galassie sferoidali. La ricerca è stata condotta nell’ambito del programma Ceers (the Cosmic Evolution Early Release Science Survey), che utilizza il telescopio spaziale James Webb per esplorare le galassie distanti. La scoperta risulta di particolare rilevanza, tanto che ieri le è stata dedicata una press releasedella Nasa e un articolo apparso recentemente sul New York Times. Abbiamo chiesto ad Adriano Fontana dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Roma, co-autore dello studio, di commentare questi risultati.

Se l’aspettava che le galassie appena nate fossero fatte così o è stata una sorpresa?

«In parte è una sorpresa, in quanto sapevamo già da prima che le galassie hanno un’evoluzione che porta a modificare nel tempo la loro forma, e che la storia è diversa a seconda delle dimensioni. Però si tendeva a ritenere che l’evoluzione favorisse degli oggetti dalla forma a disco o comunque una componente importante di disco in rotazione. Questo lavoro invece indica che c’è una percentuale elevata di oggetti che non ha una forma regolare prodotta dalla rotazione bensì una forma più allungata, che il primo autore dell’articolo ha scherzosamente definito “a banana”, che è un gioco di parole».

Cosa sono queste galassie “a banana”? In cosa si distinguono rispetto a quelle che popolano l’universo attuale?

«Dire in inglese che una cosa “va a banana” vuol dire che è impazzita. Tecnicamente la banana ha la forma prolata, cioè una forma allungata, ed è quella che sembra caratterizzare parecchie galassie, soprattutto quelle piccole e quelle osservate all’inizio dei tempi. Quello che è sorprendente e che non ci aspettavamo è che questi oggetti siano abbastanza diffusi e non rari, come pensavamo all’inizio».

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Alcune delle galassie dello studio osservate con il telescopio spaziale James Webb. Le galassie “a banana” sono quelle nei riquadri superiori. Crediti: Nasa, Esa, Csa, S. Finkelstein, M. Bagley, R. Larson

La forma tridimensionale delle galassie è stata determinata a partire dalla forma bidimensionale delle stesse osservata nelle immagini. Ci spiega come ciò viene reso possibile?

«È un argomento statistico. La forma che vediamo è dovuta alla forma intrinseca orientata in tutti i possibili modi casuali. Noi abbiamo trovato che gli oggetti con la forma molto allungata sono troppi per essere spiegati semplicemente da un orientamento casuale di un disco. Quindi questo vuol dire che è invece la loro forma intrinseca che è prolata, ovvero allungata in quella maniera».

Quali sono le maggiori incertezze associate alla tecnica utilizzata in questo studio?

«Per esempio, in questo lavoro assumiamo che le galassie siano orientate in maniera casuale e che la distribuzione delle loro forme sia di un certo tipo. Ci potrebbero essere delle combinazioni diverse che non abbiamo considerato e che danno lo stesso risultato apparente. Un secondo aspetto è che, anche se Webb è uno strumento così straordinario, perdiamo una parte della luce nelle zone meno brillanti delle galassie. È quindi possibile che le nostre osservazioni, soprattutto di oggetti deboli e lontani, non siano definitive».

Una delle questioni più intriganti indagate dall’astrofisica riguarda la natura della materia oscura. Può questo studio fornirci qualche indicazione rispetto a una delle componenti più misteriose dell’universo?

«Le stelle all’interno di una galassia si muovono seguendo la forza di gravità e la forza di gravità è determinata proprio dalla materia oscura che le tiene insieme. È possibile che questo risultato ci indichi che anche gli aloni di materia oscura abbiano una forma a banana, e che quindi le stelle tendano a seguire questa forma. È interessante notare che le simulazioni fatte al computer in alcuni casi prevedono dei risultati di questo tipo mentre in altri ne prevedono diversi. Quindi questo risultato può indicare che anche i nostri modelli teorici vanno compresi meglio per riprodurre quello che vediamo».

Anche la Via Lattea, che sappiamo essere ora una galassia a disco, era una galassia a banana nella sua “infanzia”?

«La nostra galassia fa parte delle galassie più grandi e per questo tipo di oggetti anche il nostro studio dimostra che la percentuale di dischi tende a essere più elevata e che si sono formati prima. È dunque possibile che la nostra galassia sia nata o che sia da molto tempo un oggetto in rotazione. Come fosse l’antico progenitore nelle prime fasi ormai è andato perso ed è anche possibile che fosse una piccola “banana”. Poi, negli eventi di fusione tra galassie, molto spesso la morfologia viene completamente rivoluzionata e dunque è possibile che questi eventi abbiano ridistribuito tutto e che si sia formato il disco che vediamo oggi».

Quali sono i prossimi passi da compiere per sapere qualcosa in più sulle galassie appena nate?

«Sicuramente sarebbe interessante studiare la velocità delle stelle all’interno delle galassie, almeno per gli oggetti più brillanti e grandi. Questa sarà una delle cose che potremo fare fra alcuni anni con l’Extremely Large Telescope, il futuro telescopio da quasi quaranta metri in costruzione in Cile, che essendo molto più grande e sensibile di Webb permetterà di fare queste misure. Quindi non solo vedere la forma ma vedere come si muovono le stelle nel loro insieme».


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Così i buchi neri distruggono le stelle


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Una stella sta per essere distrutta da un buco nero supermassiccio: quando passa accanto al buco nero, l’enorme attrazione gravitazionale la fa a pezzi. Metà della stella viene scagliata via e metà ricade verso il buco nero. L’immagine mostra il risultato della simulazione effettuata da Steinberg e Stone, ed evidenzia la densità della metà in caduta (colore verde-blu) e il calore generato dagli urti (bianco-rosso). Crediti: Elad Steinberg

Un nuovo studio condotto da Elad Steinberg e da Nicholas C. Stone dell’Istituto di Fisica Racah della Hebrew University di Gerusalemme getta nuova luce sui buchi neri supermassicci. Queste enigmatiche entità cosmiche, la cui massa varia da milioni a miliardi di volte quella del Sole, sono ancora inafferrabili nonostante il loro ruolo centrale nel modellare le galassie. La loro estrema attrazione gravitazionale deforma lo spaziotempo, creando un ambiente che sfida la nostra comprensione e costituisce una sfida anche per gli astronomi osservativi.

È in questi ambienti estremi che entrano in gioco i tidal disruption events (Tde, in italiano eventi di distruzione mareale) un fenomeno che si verifica quando stelle sfortunate si avventurano troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e vengono fatte a pezzi in sottili flussi di plasma. Quando questo plasma ritorna verso il buco nero, una serie di onde d’urto lo riscalda, dando luogo a uno straordinario spettacolo: un brillamento che supera la luminosità di un’intera galassia per settimane o addirittura mesi.

Lo studio condotto da Steinberg e Stone rappresenta un significativo passo avanti nella comprensione di questi eventi cosmici. Per la prima volta, le loro simulazioni hanno ricreato un evento Tde realistico, catturando l’intera sequenza della distruzione stellare, dalla perturbazione iniziale al picco di luminosità del brillamento che ne consegue; il tutto reso possibile dal pionieristico software di simulazione sviluppato da Steinberg.

Questo studio ha svelato un tipo di onda d’urto finora sconosciuto all’interno dei Tde, risolvendo un dibattito di lunga data su quale sia la sorgente di energia delle fasi più luminose di questi eventi. Conferma, cioè, che sia la dissipazione dell’onda d’urto ad alimentare le settimane più luminose di un brillamento Tde, e apre le porte a studi futuri per utilizzare le osservazioni Tde come mezzo per misurare le proprietà fondamentali dei buchi neri e per testare le previsioni di Einstein in ambienti gravitazionali estremi.

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Sara Lucatello sarà presidente della Eas


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Sara Lucatello, astronoma dell’Inaf di Padova e prossima presidente ad interim della Società astronomica europea

Astrofisica all’Inaf di Padova e già vicepresidente della European Astronomical Society (Eas) dal 2018, Sara Lucatello ricoprirà la massima carica dell’organizzazione a partire dal prossimo luglio e per due anni. Sarà la prima donna nella storia dell’Eas a ricoprire questo ruolo e sarà anche la prima volta che un presidente proviene da un paese mediterraneo. A darne l’annuncio ufficiale, oggi, un comunicato pubblicato nella newsletter dell’Eas.

Lo scorso luglio, in occasione dell’assemblea generale dell’Eas che si è tenuta a Cracovia, il presidente uscente Roger Davies aveva annunciato che avrebbe lasciato il proprio ruolo alla riunione dell’anno successivo, con due anni di anticipo.

«È stato un enorme onore ricoprire il ruolo di presidente per sette anni», ha dichiarato Davies, «ma è giunto il momento di una nuova leadership e auguro a Sara un grande successo in questo ruolo, sperando che le porti altrettante soddisfazioni».

Il Consiglio ha quindi scelto come presidente ad interim fino al 2026 Sara Lucatello, che verrà investita del ruolo ufficialmente il prossimo luglio, in occasione dell’assemblea generale dell’Eas che si terrà proprio a Padova. Al termine di questo periodo si terranno le regolari elezioni per il nuovo presidente del Consiglio, come previsto dallo statuto dell’Eas.

«È un grande onore per me essere stata scelta dai colleghi del Council per guidare la società fino al 2026», dice Lucatello a Media Inaf. «È un importante riconoscimento del mio impegno nelle attività della Società: la promozione e lo sviluppo dell’astronomia in Europa. In questi sette anni, il presidente uscente, Roger Davies, ha guidato la Società con straordinaria competenza e dedizione attraverso cambiamenti significativi. Eas oggi conta più di 5000 membri individuali, astronomi professionisti, 32 società astronomiche nazionali affiliate (inclusa la Società astronomica italiana) e oltre 30 membri organizzativi (incluso l’Istituto nazionale di astrofisica): fondazioni, istituti di ricerca ed entità che sostengono le attività della Società. Sarà un compito impegnativo succedere a Roger, ma sono determinata a portare avanti la sua eredità e a impegnarmi per continuare a sostenere gli interessi della comunità astronomica, a livello europeo con la Commissione, il Parlamento e il Research council e globale, tramite Un Copuos – la Commissione delle Nazioni Unite sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico. La mia nomina è un passo significativo per la società: sarò la prima donna e la prima persona proveniente dal Sud Europa a ricoprire la carica di presidente».


Partita la missione Ax-3 con l’italiano Villadei


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Da sinistra: Michael López-Alegría, Alper Gezeravci, Marcus Wandt e Walter Villadei. Crediti: Axiom Space

La missione Axiom-3 è in volo verso la Stazione spaziale internazionale. A bordo il pilota Walter Villadei, colonnello dell’Aeronautica militare e ottavo italiano ad arrivare in orbita. Con lui volano lo svedese Marcus Wandt, della nuova classe di astronauti dell’Agenzia spaziale europea, e il primo astronauta turco Alper Gezeravci. Al comando c’è il veterano Michael Lopez-Alegria, che dopo una lunga carriera nella Nasa adesso lavora per la Axiom Space. La loro è una missione di privati all’insegna della space economy, che per 14 giorni porterà nello spazio 30 esperimenti frutto di tante aziende, molte delle quali italiane. Inizialmente prevista il 18 gennaio, la capsula Crew Dragon Freedom diretta alla Stazione spaziale è stata lanciata dal Kennedy Space Center a Cape Canaveral con un razzo Falcon 9 della SpaceX. L’aggancio alla Iss è previsto alle 11.15 italiane di sabato 20 gennaio.

Sarà la terza volta che una missione privata raggiungerà la stazione orbitale, dopo le missioni Ax-1 dell’aprile 2022 e Ax-2 del maggio 2023. Comincia così la missione ‘Voluntas’’, che per l’Italia ha anche una forte componente istituzionale. È infatti il risultato di uno sforzo congiunto tra la Presidenza del consiglio, i ministeri della Difesa, delle Imprese e del Made in Italy, dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Agenzia spaziale italiana e Aeronautica militare, accanto a centri di ricerca, università e industrie.

Per il ministro della Difesa, Guido Crosetto, la missione Ax-3 segna «un nuovo capitolo di storia dello spazio, che vede l’Italia indiscussa protagonista grazie alle proprie competenze» e «rappresenta un consolidamento delle competenze nazionali nel campo del volo umano spaziale e un contributo allo sviluppo della new space economy». Entra nel vivo la nuova era dei privati, che l’amministratore capo della Nasa, Bill Nelson, ha definito «una nuova epoca d’oro dello spazio». Secondo Walter Villadei la missione è anche la conferma del ruolo di protagonista che l’Italia ha avuto fin dall’inizio dell’era spaziale con il lancio del satellite San Marco 1, il 15 dicembre 1964. «A distanza di 60 anni», ha detto, «lo spazio è diventato una dimensione strategica, un crocevia di interessi geopolitici, economici, industriali, scientifici, militari. È quindi con la partecipazione alla missione Axiom-3 che l’Italia dimostra ancora una volta di avere la capacità e la visione di essere un apripista».

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Crediti: SpaceX

Sono 30 gli esperimenti previsti nella missione, 13 dei quali italiani. Accesso sicuro allo spazio e i risvolti fisiologici della permanenza in orbita sono i temi dei sei esperimenti dell’Aeronautica militare, che svolge anche un ruolo di coordinamento per le attività promosse da aziende e startup italiane. Quattro i test coordinati dall’Asi, che arriva così a 83 esperimenti realizzati in orbita a partire dal 1997, anno della firma del Memorandum of Understanding con la Nasa. Il contributo delle aziende va dalla telemedicina all’abbigliamento aerospaziale, passando per la misura in tempo reale del flusso di particelle cosmiche e i materiali speciali sviluppati dall’azienda costruttrice di automobili Dallara, fino all’utilizzo di un nuovo protocollo messo a punto dalla Mental Economy di Lucca con il supporto di Pwc Italia, per migliorare l’efficienza neuronale di chi svolge attività stressanti. È dedicato alla telemedicina il progetto della Gvm Assistance di Ravenna, all’abbigliamento aerospaziale quello della startup marchigiana Spacewear. L’industria italiana guarda anche alla futura stazione spaziale privata che l’Aiom si prepara a realizzare. Nel sito torinese della Thales Alenia Space, joint venture tra Thales (67 per cento) e Leonardo (33 per cento), sono infatti in fase di realizzazione i moduli della stazione spaziale commerciale di Axiom, destinati a essere lanciati nei prossimi anni e inizialmente attraccati alla Iss. Quando quest’ultima avrà completato la sua vita operativa, i moduli Axiom si separeranno e opereranno come una stazione spaziale commerciale a volo libero.

Guarda la live del lancio sul canale YouTube di Axiom Space:

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Gn-z11, l’azoto e il buco nero extralarge


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Questa immagine mostra Gn-Z11 (nell’inserto): la galassia più distante scoperta fino ad ora. Crediti: Nasa, Esa, e P. Oesch (Yale University)

Scoperta nel 2015 grazie al telescopio spaziale Hubble, Gn-z11 ha catturato subito l’attenzione degli scienziati attestandosi come la galassia più lontana – e quindi giovane – a noi nota: alla sua distanza l’universo ha circa 430 milioni di anni. L’attenzione su di lei si è riaccesa poi lo scorso anno, quando il James Webb Space Telescope ha permesso di scoprire che Gn-z11 ospita una grande quantità di azoto, cosa piuttosto insolita in epoche così lontane da noi, in cui le galassie hanno avuto poco tempo per “arricchirsi” di elementi chimici così pesanti.

Negli ultimi mesi sono molti i gruppi di ricerca che sono andati a caccia di una spiegazione per questa insolita composizione chimica, chiamando in causa ammassi globulari, prime e seconde generazioni di stelle e addirittura un buco nero molto massiccio (oltre un milione di volte la massa del Sole) al centro della galassia. Qui entra in gioco Francesca D’Antona, ricercatrice associata all’Inaf di Roma, e il suo team tutto italiano, che in un lavoro pubblicato recentemente sulla rivista Astronomy & Astrophysics propone un modello in grado di spiegare sia l’abbondanza di azoto, sia la formazione di un buco nero massiccio in un’epoca così giovane per l’universo. Abbiamo raggiunto D’Antona e le abbiamo fatto un po’ di domande per capire meglio cosa sappiamo di questa galassia.

Come è nata l’idea del vostro studio? Se non ho capito male c’è di mezzo una conferenza scientifica…

«È vero: molti di noi si sono trovati assieme a Sesto, alla conferenza “A multiwavelength view on Globular Clusters near and far”, organizzata da Francesco Calura, Antonino Milone (due dei coautori del nostro studio) e Anita Zanella. L’attenzione era puntata soprattutto sugli ammassi globulari a grandi distanze da noi, per i quali il telescopio spaziale James Webb ha recentemente cominciato a mostrare affascinanti risultati».

Ora veniamo alla scienza. Come si spiega, secondo il vostro modello, la formazione stellare di questa galassia così peculiare?

«Il problema principale dal punto di vista “stellare”, che è la nostra specializzazione di ricerca, sembrava quello di capire come mai ci fosse una così alta presenza di azoto nello spettro, venti volte o più maggiore di quello delle stelle povere di metalli come in questo caso, e comunque anche ben più alta dell’azoto solare. D’altro canto, certe abbondanze così alte sono tipiche delle stelle di cosiddetta “seconda generazione”, che si è scoperto costituire la maggioranza delle stelle negli ammassi globulari della nostra galassia. Quindi molti hanno cominciato a ragionare sulla possibilità che ci si trovi in presenza del gas che negli ammassi è presente all’atto della nascita di questa seconda generazione, concentrandosi soprattutto sui modelli che ne prevedono la formazione entro pochi milioni di anni da quando è nato l’ammasso, e quindi compatibili con l’intensa formazione stellare ottenuta interpretando con i modelli le caratteristiche dello spettro di Gn-z11.

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Francesca D’Antona ed Enrico Vesperini alla conferenza “A multiwavelength view on Globular Clusters near and far” a Sesto, nel luglio 2023

D’altro canto noi abbiamo lavorato per moltissimi anni su un modello di formazione della “seconda generazione” molto complesso, basato sull’evoluzione delle stelle cosiddette di “ramo asintotico” (Asymptotic giant branch, Agb), giganti nelle quali la base dell’inviluppo convettivo raggiunge temperature così alte da dar luogo a reazioni nucleari di cattura dell’idrogeno, così che la materia processata viene distribuita su tutta la stella. Queste stelle perdono tutta la loro massa esterna per vento stellare, lasciando solo un nucleo inerte di “nana bianca”, e questo materiale ha le segnature caratteristiche delle ”seconde generazioni” degli ammassi globulari, delle quali la più banale è l’alta abbondanza di azoto. La seconda generazione si formerebbe nel gas che si concentra al centro dell’ammasso globulare e contiene anche il gas processato negli inviluppi delle stelle Agb. Questo modello opera su tempi scala lunghi (decine di milioni di anni), in contrasto con alcune interpretazioni dello spettro di Gn-z11 secondo le quali il tempo scala di formazione sarebbe di qualche milione di anni; siccome un’alta abbondanza di azoto può essere ottenuta con molti sistemi nell’ambito delle stelle massicce, sono stati inizialmente proposti vari modelli basati su tali stelle».

Una possibile svolta arriva proprio lo scorso anno, giusto?

«Esatto, a metà del 2023, nella fioritura di analisi delle caratteristiche di Gn-z11, è stata pubblicata come preprint un’importante analisi di Roberto Maiolino e colleghi che elaborava la proposta che l’emissione centrale di Gn-z11 sia, in realtà, quella di un nucleo galattico attivo (Agn), cioè sia dovuta ad accrescimento su un buco nero, al quale i dati permettono di assegnare una massa un po’ superiore al milione di masse solari. Malgrado questa massa sia ben inferiore a quella dei buchi neri al centro di molte galassie ben conosciute, anche mille volte superiori, è comunque una massa molto alta per un oggetto di soli 430 milioni di anni, per cui c’è da chiedersi come esso possa essersi formato o evoluto così velocemente.

E qui torna in ballo il nostro modello, che lavora su tempi “lunghi” e successivi alla formazione di un primo ammasso globulare (la “prima generazione”). Nel lavoro mostriamo che questo tempo di un centinaio di milioni di anni può essere proprio quello che ha permesso a buchi neri “normali” nati dalla prima generazione di accrescere gas fino a raggiungere oggi la massa richiesta».

Ma quindi il buco nero al centro della galassia è un vantaggio, per Gn-z11?

«Insomma… se c’è il buco nero cambia completamente l’interpretazione dello spettro dell’oggetto. Infatti spettri molto simili possono risultare sia dall’emissione di un Agn che dall’emissione delle stelle in una regione di formazione stellare. Se in Gn-z11 lo spettro include il contributo di accrescimento su un buco nero (l’Agn, appunto), sia la sua giovanissima età che i tassi enormi di formazione stellare trovati con le analisi che non includono il buco nero sono da rivedere completamente: un problema ben noto alle persone che lavorano nel campo».

Mi diceva che rimangono aperti vari problemi rispetto a questa sorgente: quali sono? Che approfondimenti farete in futuro?

«I problemi aperti sono tantissimi, tra cui quello di capire se lo spettro è dovuto alla sola componente Agn oppure a una combinazione di emissione dall’Agn e formazione stellare. Tantissimi ricercatori specializzati lavorano su questo e noi siamo nella fortunata condizione di aspettare i loro risultati. Per quello che ci riguarda invece, è molto chiaro per noi che alla fine Gn-z11 non rappresenta la formazione di un tipico ammasso globulare, anche se sosteniamo che stiamo osservando la fase dei venti Agb, e che l’alto azoto nello spettro è dovuto a questo gas. E anche se è possibile che si stiano formando stelle di seconda generazione nelle zone dell’Agn “protette” dal disco di accrescimento intorno al buco nero, gli ammassi non contengono buchi neri massicci. Questo pertanto può essere un tipico nuclear star cluster, gli ammassi che si trovano intorno ai buchi neri massicci al centro delle galassie. Se fosse vera la nostra ipotesi sulla crescita del buco nero di Gn-z11, allora ci chiediamo che cosa discrimina tra la formazione di un ammasso globulare, nel quale restano solo alcuni buchi neri stellari, dall’evoluzione tipo Gn-z11 in cui i buchi neri centrali invece evolvono verso un buco nero supermassiccio?»


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