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Un oggetto del mistero per MeerKat


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Un articolo pubblicato oggi su Science svela la presenza di un oggetto dalla natura misteriosa all’interno dell’ammasso globulare Ngc 1851, visibile nella costellazione della Colomba a oltre 39mila anni luce dalla Terra. Di cosa si tratta? Un team internazionale di astronomi, guidato da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la radioastronomia di Bonn, e a cui partecipano anche ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Bologna, ha sfruttato la sensibilità delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKat per scoprire un oggetto massiccio dalle caratteristiche uniche: è più pesante delle stelle di neutroni più pesanti conosciute e allo stesso tempo è più leggero dei buchi neri più leggeri trovati finora. Altro particolare non di poca rilevanza: l’indagato speciale è in orbita attorno a una pulsar al millisecondo in rapida rotazione. Questa potrebbe essere la prima scoperta del tanto ambito sistema binario radio pulsar-buco nero: una coppia stellare che consentirebbe nuovi test della teoria della relatività generale di Einstein.

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Rappresentazione artistica del sistema Ngc 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar Ngc 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)

Luminose e intermittenti come potenti fari cosmici puntati verso la Terra, le pulsar sono stelle di neutroni, ossia i resti compatti (una ventina di chilometri di diametro) ed estremamente densi di potenti esplosioni di supernova. La teoria mostra che deve esistere una massa massima per una stella di neutroni. Il valore di tale massa massima non è noto con precisione, ma esistono indicazioni sperimentali del fatto che almeno fino a una massa totale pari a circa 2,2 volte la massa del Sole la stella continua, comunque, a essere una stella di neutroni. D’altro canto, molteplici evidenze osservative indicano che i buchi neri (oggetti densi e compatti al punto che nemmeno la luce può allontanarsi da essi) si formano dal collasso che ha luogo alla fine dell’evoluzione di stelle molto più massicce di quelle che producono le stelle di neutroni. In questo caso, la massa minima osservata finora per il nascente buco nero è circa 5 volte la massa del Sole. Bisogna allora domandarsi quale tipo di oggetto compatto si formi nell’intervallo di masse fra 2,2 e 5 volte la massa del Sole, in quello che i ricercatori chiamano “gap di massa per i buchi neri”: una stella di neutroni estremamente massiccia, un buco nero estremamente leggero o altro? A oggi non esiste una risposta chiara.

Nell’ambito delle due collaborazioni internazionali Trapum (Transients and Pulsars with MeerKat) e MeerTime, gli astronomi sono stati in grado prima di rilevare e poi di studiare ripetutamente i deboli impulsi provenienti da una delle stelle dell’ammasso, identificandola come una pulsar radio: un tipo di stella di neutroni che gira molto rapidamente ed emette onde radio nell’universo, come un faro cosmico. Questa pulsar, denominata Ngc 1851E (ossia la quinta pulsar nell’ammasso globulare Ngc 1851), ruota su se stessa più di 170 volte al secondo, e ogni rotazione produce un impulso ritmico, come il ticchettio di un orologio.

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Potenziale storia della formazione della radiopulsar Ngc 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)

«Il ticchettio di questi impulsi è incredibilmente regolare. Osservando come cambiano i tempi dei ticchettii, tramite una tecnica chiamata pulsar timing, siamo stati in grado di effettuare misurazioni estremamente precise del moto orbitale di questo oggetto», spiega Ewan Barr dell’Istituto Max Planck per la radioastronomia di Bonn, primo autore dello studio insieme alla dottoranda dello stesso istituto Arunima Dutta.

L’estrema regolarità degli impulsi osservati ha permesso anche una misurazione molto precisa della posizione del sistema, dimostrando – tramite osservazioni col telescopio spaziale Hubble – che l’oggetto in orbita attorno alla pulsar non è una normale stella, bensì un residuo estremamente denso di una stella collassata. Inoltre, il fatto che l’orbita stia progressivamente cambiando l’orientamento rispetto a noi (un effetto chiamato tecnicamente “precessione del periastro” e previsto dalla relatività generale) ha mostrato che la compagna ha una massa che è contemporaneamente più grande di quella di qualsiasi stella di neutroni conosciuta e tuttavia più piccola di quella di qualsiasi buco nero conosciuto, posizionandola esattamente nel gap di massa dei buchi neri.

«Sin dalle prime osservazioni successive alla scoperta, questo sistema binario mostrava caratteristiche peculiari, in particolare per quanto riguarda l’elevata massa della stella compagna», sottolinea uno dei coautori dello studio, Alessandro Ridolfi, ricercatore postdoc all’Inaf di Cagliari e primo autore, nel 2022, della scoperta di Ngc 1851E (conosciuta anche col nome alternativo Psr J0514-4002E). «Ulteriori osservazioni hanno evidenziato che si trattava addirittura di un sistema unico, con una stella compagna avente una massa in quella che per ora è la “terra di nessuno” per gli oggetti compatti, ovverosia quell’intervallo di masse per le quali la teoria non è oggi in grado di stabilire se si abbia a che fare con un buco nero leggero o una stella di neutroni pesante».

«Se si rivelerà essere un buco nero», prosegue Cristina Pallanca, ricercatrice al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Bologna, «avremo individuato il primo sistema binario composto da una pulsar e un buco nero, una sorta di Santo Graal dell’astronomia. Grazie a esso avremo un’opportunità senza precedenti per testare con altissima precisione la teoria della relatività generale di Albert Einstein e, di conseguenza, per comprendere meglio le proprietà fisiche dei buchi neri».

«Se invece si trattasse di una stella di neutroni», aggiunge Marta Burgay, un’altra ricercatrice di Inaf di Cagliari coinvolta nel progetto, «la sua massa elevata imporrà nuovi vincoli alla natura delle forze nucleari, vincoli che non si possono ottenere con nessun esperimento di laboratorio».

Il sistema si trova nell’ammasso globulare Ngc 1851, un denso insieme di vecchie stelle molto più fitte rispetto alle stelle del resto della nostra galassia. «Un sistema binario così non poteva che crearsi in un ambiente altrettanto straordinario: l’ammasso globulare Ngc 1851», dice Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Bologna, «è un insieme di centinaia di migliaia di stelle mantenute unite dalla loro stessa forza di gravità, formatosi circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 800mila anni e la nostra galassia stava attraversando le prime fasi di formazione. All’interno degli ammassi globulari, le stelle interagiscono continuamente durante il corso della loro vita: si scambiano energia, collidono, si uniscono in nuovi sistemi binari e così via. Il nucleo di Ngc 1851 è dinamicamente molto attivo, anche più rispetto a quello di altri ammassi globulari, e questo ha favorito la formazione del sistema binario unico nel suo genere che abbiamo scoperto».

Le regioni centrali di Ngc 1851 sono così affollate che le stelle possono interagire tra loro, sconvolgendo le loro orbite e nei casi più estremi scontrandosi. Si ritiene che sia stata una di queste collisioni tra due stelle di neutroni a creare l’oggetto massiccio che ora orbita attorno alla radio pulsar. Tuttavia, prima che venisse creata l’attuale binaria, la radio pulsar deve aver acquisito materiale da un’altra stella in una cosiddetta binaria a raggi X di piccola massa. Un tale processo di “riciclaggio” è necessario per riportare la pulsar alla velocità di rotazione attuale.

La scoperta di questo oggetto misterioso mette in luce le potenzialità degli strumenti utilizzati in questa survey e delle antenne che arriveranno nel futuro. «Questa scoperta è l’apice degli studi finora condotti, grazie al sensibilissimo telescopio MeerKat, sulle pulsar negli ammassi globulari, un campo di ricerca dove Inaf, tramite il gruppo di Cagliari, ricopre dall’inizio un ruolo primario», sottolinea Andrea Possenti, ricercatore anch’egli presso la sede sarda dell’Inaf. «Ruolo importante sia sul fronte della ricerca di nuove pulsar – 87 quelle scoperte fino ad oggi con il solo radiotelescopio sudafricano – sia ai fini dello studio di quelle note. Il bello è che c’è ancora tanto da scoprire in questi densi sistemi stellari, sia con le osservazioni a MeerKat, sia, ancor più, con l’avvento del rivoluzionario radiotelescopio Ska. Senza contare che collisioni fra stelle di neutroni come quella ipotizzata per spiegare l’origine di questo sistema potrebbero costituire ulteriori eventi, rari ma di grande interesse, per telescopi per onde gravitazionali, come Virgo, Ligo e il futuro Einstein Telescope».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “A pulsar in a binary with a compact object in the mass gap between neutron stars and black holes”, di E. Barr, Arunima Dutta, Paulo C. C. Freire, Mario Cadelano, Tasha Gautam, Michael Kramer, Cristina Pallanca, Scott M. Ransom, Alessandro Ridolfi, Benjamin W. Stappers, Thomas M. Tauris, Vivek Venkatraman Krishnan, Norbert Wex, Matthew Bailes, Jan Behrend, Sarah Buchner, Marta Burgay, Weiwei Chen, David J. Champion, C. -H. Rosie Chen, Alessandro Corongiu, Marisa Geyer, Y. P. Men, Prajwal V. Padmanabh e Andrea Possenti

Guarda l’animazione sul canale YouTube di OzGrav ARC Centre of Excellence:

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C’è del ghiaccio sepolto all’equatore di Marte?


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Medusae Fossae è una vasta regione geologica che si estende per migliaia di chilometri lungo l’equatore di Marte. Più di quindici anni fa, la sonda Mars Express dell’Agenzia spaziale europea (Esa) aveva identificato in quest’area del pianeta dei misteriosi depositi di materiale fino a 2,5 chilometri sotto la superficie. Secondo un nuovo studio, potrebbe trattarsi di un enorme accumulo di ghiaccio.

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Mappa dei depositi di materiale scolpiti dal vento nella regione marziana di Medusae Fossae. La scala di colore indica il potenziale spessore del ghiaccio, assumendo che la polvere abbia uno spessore di 300 metri. Crediti: Planetary Science Institute/Smithsonian Institution

Il lavoro si basa su nuovi dati raccolti con il radar Marsis, uno dei due strumenti a bordo di Mars Express forniti dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), progettato da Sapienza Università di Roma con la partecipazione del Jet Propulsion Laboratory della Nasa e dell’Università dell’Iowa, negli Stati Uniti, e gestito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). I dati mostrano che i depositi nella regione di Medusae Fossae si estendono fino a 3,7 chilometri nel sottosuolo del Pianeta rosso, una profondità ancora maggiore di quanto stimato dalle osservazioni precedenti. Il segnale è consistente con quanto ci si aspetta dal ghiaccio stratificato ed è simile a quello rilevato nei pressi delle calotte polari di Marte, che sono ricche di ghiaccio.

Si tratta del più grande deposito di acqua mai rilevato in questa porzione del pianeta: se si sciogliesse, potrebbe coprire la superficie di Marte con uno strato d’acqua profondo da 1,5 a 2,7 metri. Sulla Terra, una simile massa di acqua sarebbe sufficiente a riempire il Mar Rosso. I risultati della ricerca, guidata da Thomas Watters della Smithsonian Institution, sono stati pubblicati sulla rivista Geophysical Research Letters.

La regione di Medusae Fossae si trova al confine tra le pianure e gli altopiani che caratterizzano la geologia di Marte. Comprende formazioni scolpite dal vento, alte diversi chilometri, che si estendono per centinaia di chilometri e rappresentano uno dei depositi di polvere più vasti del pianeta. Per questo, dalle prime osservazioni di Mars Express, non era stato possibile confermare con certezza la presenza di ghiaccio: poteva infatti trattarsi di grandi accumuli di polvere spinta dal vento, oppure di cenere vulcanica o sedimento.

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Mappa topografica di Marte, che mostra la posizione della regione Medusae Fossae, in prossimità dell’equatore. Le regioni di colore rosso corrispondono ad altitudini più elevate. Crediti: Esa

«È qui che entrano in gioco i nuovi dati del radar Marsis», spiega Andrea Cicchetti, ricercatore Inaf e co-autore del nuovo studio. «Data la sua profondità, se la formazione di Medusae Fossae fosse semplicemente un gigantesco mucchio di polvere, ci aspetteremmo che si compattasse sotto il suo stesso peso. Ciò creerebbe qualcosa di molto più denso rispetto a quello che effettivamente vediamo con Marsis. Abbiamo provato a modellare il comportamento dei diversi materiali privi di ghiaccio, ma nessuno di essi riproduce le proprietà osservate: c’è bisogno del ghiaccio».

«Lo studio appena pubblicato sarà di cruciale importanza per pianificare le prossime missioni spaziali dirette verso Marte», commenta Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Agenzia spaziale italiana. «È sempre più evidente, infatti, la necessità di fare uno studio di dettaglio di tutta l’immediata sotto-superficie di Marte per verificare se il caso del deposito di ghiaccio sotto le Medusae Fossae sia isolato oppure se sia uno scenario che si verifica anche in altri punti del pianeta. Proprio per questo motivo l’Asi, insieme alla Csa, la Nasa e la Jaxa stanno studiano un concetto di missione ‘Ice Mapper’ che ha l’unico obiettivo di fare una mappatura del ghiaccio sotto-superficiale. Queste informazioni serviranno sia per una rivisitazione dei modelli evolutivi attualmente esistenti sia per supportare lo sviluppo delle missioni umane sulla superficie di Marte che dovranno necessariamente fare affidamento su depositi di ghiaccio in zona equatoriale».

Secondo il nuovo studio, il deposito consiste di strati di polvere e ghiaccio, il tutto sormontato da uno strato protettivo di polvere secca o cenere spesso diverse centinaia di metri. Oggi Marte è un pianeta dall’aspetto arido, ma la sua superficie è ricca di segni dell’acqua che un tempo era abbondante. Presenta inoltre notevoli riserve di ghiaccio d’acqua, come le calotte polari. Eppure una riserva di ghiaccio estesa come quella appena scoperta non avrebbe potuto formarsi nel clima attuale del pianeta, ma deve risalire a un’epoca climatica precedente. Se i risultati di questo studio saranno confermati, bisognerà aggiornare la nostra comprensione della storia del clima di Marte.

L’estensione e la posizione dei depositi ghiacciati nell’area di Medusae Fosse li renderebbero molto interessanti per l’esplorazione umana di Marte in futuro. Le missioni spaziali dovranno atterrare vicino all’equatore del pianeta, lontano dalle calotte polari ricche di ghiaccio o dai ghiacciai ad alta latitudine, e avranno bisogno dell’acqua come risorsa, quindi trovare ghiaccio in questa regione è praticamente essenziale per eventuali future missioni umane sul Pianeta rosso. Purtroppo i depositi identificati in questo studio sono coperti da centinaia di metri di polvere, dunque inaccessibili almeno per i prossimi decenni. Tuttavia conoscere la distribuzione del ghiaccio sulla superficie odierna di Marte aiuta i ricercatori a comprendere sempre meglio dove scorreva l’acqua in passato e dove può essere trovata oggi.

Per saperne di più:

  • Leggi su Geophysical Research Lettersl’articolo “Evidence of Ice-Rich Layered Deposits in the Medusae Fossae Formation of Mars” di T. R. Watters et al.


Eht: le immagini aggiornate del buco nero in M87


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La nuova immagine del buco nero al centro della galassia M87 (sulla destra) confrontata con quella ottenuta dalle prime osservazioni della stessa sorgente (sulla sinistra). Crediti: collaborazione Eht

La collaborazione scientifica Eht Event horizon telescope, che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, ha pubblicato nuove immagini di M87*, il buco nero supermassiccio al centro della galassia Messier 87: questa volta le immagini sono state realizzate a partire dai dati delle osservazioni effettuate nell’aprile 2018, un anno dopo rispetto ai dati che hanno portato all’immagine rilasciata nel 2019. Grazie alla partecipazione di un nuovo telescopio, il Greenland Telescope, e a un tasso di acquisizione dati nettamente migliorato in tutti i telescopi della rete di Eht, le osservazioni del 2018 ci offrono una visione della sorgente indipendente dalle prime osservazioni del 2017. Le nuove immagini sono state realizzate da un gruppo internazionale di ricerca della collaborazione Eht, di cui fanno parte anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dell’Università di Cagliari e sono state pubblicate di recente sulla rivista Astronomy & Astrophysics. Le immagini rivelano un anello luminoso, delle stesse dimensioni di quello osservato nel 2017, che circonda una profonda depressione centrale, “l’ombra del buco nero”, come previsto dalla relatività generale. Quello che differisce è la posizione del picco di luminosità dell’anello, che si è spostato di circa 30o rispetto alle immagini del 2017. Questo è coerente con la nostra comprensione teorica della variabilità del materiale turbolento intorno ai buchi neri.

«Un requisito fondamentale della scienza è la possibilità di riprodurre i risultati», afferma il dottor Keiichi Asada, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan e coordinatore del gruppo di lavoro che ha redatto l’articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics. «La conferma dell’anello in una serie di dati completamente nuova è un’enorme pietra miliare per la nostra collaborazione e una forte indicazione che stiamo osservando l’ombra di un buco nero e il materiale che orbita intorno a esso».

Il buco nero M87* è il cuore pulsante della galassia ellittica gigante Messier 87 e si trova a 55 milioni di anni luce dalla Terra. La prima immagine di questo buco nero ha rivelato un anello circolare luminoso, più brillante nella parte meridionale dell’anello. Un’ulteriore analisi dei dati ha anche rivelato la struttura di M87* in luce polarizzata, dandoci maggiori informazioni sulla geometria del campo magnetico e sulla natura del plasma intorno al buco nero.

La nuova era della produzione diretta di immagini dei buchi neri, guidata dall’analisi approfondita delle osservazioni del 2017 di M87*, ha aperto una nuova finestra che ci permette di indagare l’astrofisica dei buchi neri e di testare la teoria della relatività generale a un livello fondamentale. I modelli teorici predicono che non ci dovrebbero essere correlazioni tra il 2017 e il 2018 nello stato del materiale intorno a M87*. Pertanto, osservazioni multiple di M87* ci aiuteranno a porre vincoli indipendenti sulla struttura del plasma e del campo magnetico intorno al buco nero e ci aiuteranno a districare la complicata astrofisica dagli effetti della relatività generale.

Per contribuire alla realizzazione di nuove ed entusiasmanti ricerche scientifiche, l’Eht è in continuo sviluppo. Il Greenland Telescope si è unito a Eht per la prima volta nel 2018, appena cinque mesi dopo il completamento della sua costruzione al di sopra del circolo polare artico. Questo nuovo telescopio ha migliorato in modo significativo la qualità delle nuove immagini ottenute con Eht, migliorando la copertura della rete, in particolare nella direzione nord-sud. Inoltre, il Large millimeter telescope (Lmt), grande telescopio operativo in Messico, ha partecipato per la prima volta alla presa dati con l’intera superficie di 50 metri, migliorando notevolmente la sua sensibilità. L’array di Eht è stato inoltre aggiornato per osservare in quattro bande di frequenza intorno ai 230 GHz, rispetto alle sole due bande del 2017.

«Anche in questo caso abbiamo utilizzato diversi algoritmi di imaging e tecniche di modellizzazione per ottenere questa nuova ricostruzione indipendente di M87*», spiega Rocco Lico, ricercatore Inaf e affiliato all’Instituto de astrofísica de Andalucía (Iaa-Csic), che nella collaborazione Eht ricopre diversi ruoli, tra cui quello di coordinatore del gruppo di lavoro sui nuclei galattici attivi. «Questo approccio richiede l’utilizzo di molte risorse di calcolo e l’analisi di una mole enorme di dati, ma è un requisito fondamentale per poter ottenere risultati robusti ed evitare potenziali bias nel processo di ricostruzione dell’immagine».

L’analisi dei dati del 2018 presenta otto tecniche indipendenti di imaging e modellazione, tra cui i metodi utilizzati nella precedente analisi del 2017 di M87* e quelli nuovi sviluppati dall’esperienza della collaborazione nell’analisi di Sgr A*, il buco nero al centro della nostra galassia. L’immagine di M87* ripresa nel 2018 è notevolmente simile a quella che abbiamo visto nel 2017. Vediamo un anello luminoso delle stesse dimensioni, con una regione centrale scura e un lato dell’anello più luminoso dell’altro. La massa e la distanza di M87* non aumenteranno in modo apprezzabile nel corso della vita umana, quindi la relatività generale prevede che il diametro dell’anello rimanga invariato di anno in anno. La stabilità del diametro misurato nelle immagini dal 2017 al 2018 supporta con forza la conclusione che M87* è ben descritto dalla relatività generale.

«Il cambiamento più grande, ovvero lo spostamento del picco di luminosità intorno all’anello, è in realtà qualcosa che avevamo previsto quando abbiamo pubblicato i primi risultati nel 2019», spiega Britt Jeter, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan. «Mentre la relatività generale dice che le dimensioni dell’anello dovrebbero rimanere pressoché fisse, le emissioni provenienti dal disco di accrescimento attorno al buco nero fanno sì che la parte più luminosa dell’anello oscilli attorno a un centro comune. La quantità di oscillazioni che osserviamo nel tempo è qualcosa che possiamo usare per testare le nostre teorie sul campo magnetico e sull’ambiente del plasma intorno al buco nero».

«A differenza di tutti i lavori di Eht pubblicati finora che hanno presentato un’analisi delle prime osservazioni del 2017, questo risultato rappresenta il primo sforzo per esplorare i molti anni di dati aggiuntivi che abbiamo raccolto», racconta Mariafelicia De Laurentis, deputy project scientist della collaborazione Eht, professoressa all’Università degli Studi di Napoli Federico II e ricercatrice Infn. «Oltre al 2017 e al 2018, l’Eht ha condotto osservazioni di successo nel 2021 e nel 2022 e ha in programma osservazioni nella prima metà del 2024. Ogni anno, l’array di Eht è stato migliorato attraverso l’aggiunta di nuovi telescopi, perfezionamenti nell’hardware e l’inclusione di nuove frequenze di osservazione. Grazie a questi progressi, Eht sarà in grado di continuare a fornirci nuove informazioni sui buchi neri, come M87* o Sgr A*».

Per saperne di più:


Niente di nuovo all’orizzonte degli eventi di M87*


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La Event Horizon Telescope Collaboration ha pubblicato nuove immagini di M87* provenienti da osservazioni effettuate nell’aprile 2018, un anno dopo le prime osservazioni. Le nuove osservazioni del 2018, che vedono la partecipazione del Greenland Telescope, confermano il familiare anello di emissione delle stesse dimensioni di quello trovato nel 2017. Questo anello luminoso circonda un’ombra centrale scura, e la parte più luminosa dell’anello nel 2018 si è spostata di circa 30 gradi rispetto al 2017. Crediti: Collaborazione Eht

Sono appena uscite le nuove immagini del buco nero supermassiccio al centro della galassia M87, distante 55 milioni di anni luce da noi. Come riportato nel comunicato stampa, non ci sono grosse differenze tra l’immagine pubblicata nel 2019 e le nuove. Se da un certo punto di vista questo potrebbe rendere l’aggiornamento abbastanza noioso, in realtà per gli scienziati significa un grosso sospiro di sollievo. Immaginate se la nuova immagine di M87 non avesse mostrato una ciambella o se la ciambella fosse stata più luminosa in alto. Avrebbe voluto dire che gli scienziati non stanno capendo un granché di come ottenere l’immagine di un buco nero e che forse non c’è nessun buco nero in M87. Cerchiamo di capire il perché con Luciano Rezzolla, astrofisico della Goethe University di Francoforte e principal investigator di BlackHoleCam, che ci spiega l’importanza di questo risultato e cosa si potrebbe ancora fare, soprattutto con un altro buco nero supermassiccio di nostro interesse.

Questa nuova immagine sembra del tutto simile alla precedente: è cosa buona e giusta?

«La nuova immagine, appena pubblicata, ha tutte le caratteristiche che ci aspettiamo da M87*: lo stesso ring con questa asimmetria nord-sud legata all’inclinazione del disco. Le dimensioni dell’ombra sono esattamente le stesse dell’immagine precedente, entro l’ordine degli errori rilevati. La cosa più rilevante è che in questa immagine il massimo della luminosità è decisamente più chiaro e intenso, e spostato leggermente in basso a destra rispetto a quella che abbiamo visto nel 2017. Il fatto che la nuova immagine sia molto simile può apparire come noioso ma è invece da vedere come un grosso successo perché questo è proprio quello che ci aspettiamo. I tempi scala di variazione dell’emissione su scale dell’orizzonte di M87 sono dell’ordine di giorni, 24 o 48 ore, e non c’è nessuna ragione di credere che l’immagine del 2018 sia correlata in qualche modo con quella del 2017, se non per quegli aspetti che cambiano su tempi scala molto più lunghi, vale a dire, la massa del buco nero (che cambia su tempi scala di milioni di anni) e l’orientazione dello spin (che può cambiare per accrescimento o precessione). Quindi ci aspettiamo sempre una “ciambella”, asimmetrica, più luminosa in basso e, laddove la luminosità in basso è presente, la sua posizione dipende dalle condizioni in cui è stata fatta l’immagine nel 2018. Il fatto che le nostre aspettative siano state rispettate è una grossa conferma che la nostra analisi era corretta e che la teoria torna perfettamente con le osservazioni».

Quindi la novità di questa immagine, che in realtà sembra non portare con sé nulla di nuovo, risiede solo nell’utilizzo di nuovi dati?

«Ci sono due importanti novità, sia dal punto di vista dell’acquisizione dei dati, sia dal punto di vista della loro analisi. L’acquisizione dei dati beneficia dell’impiego di due nuovi telescopi, uno in particolare è il Greenland Telescope, che è entrato in funzione nel 2018 e queste immagini sono state tra le prime che ha fatto. Si tratta di un telescopio gestito da un gruppo di scienziati dell’Academia Sinica in Taiwan e di Harvard, situato in Groenlandia, ed è la controparte del South Pole Telescope (quindi su zone caratterizzate da una latitudine estremamente alta o bassa, rispettivamente, che hanno la possibilità di vedere la sorgente per molto tempo). L’altro telescopio è Lmt (il Large Millimeter Telescope, in Messico) che ha fatto osservazioni con un disco di 50 metri e quindi ci ha aiutato ad aumentare la sensibilità. L’impiego di questi due telescopi aggiuntivi ci ha permesso di migliorare la risoluzione angolare poiché nell’interferometria, più linee di base si hanno, maggiori sono le possibilità di vedere i dettagli. Dal punto di vista dell’analisi dei dati, abbiamo utilizzato le stesse pipeline usate sui dati del 2017, più tutta una serie di altre pipeline che sono state create nel frattempo. Alla fine, abbiamo otto diverse pipeline che gestiscono l’analisi dei dati e tutte queste sono state confrontate, validate e calibrate tra di loro. Quindi possiamo dire che è cresciuta la qualità dei dati e anche la confidenza con cui li analizziamo».

Insomma, M87* sembra essere un buco nero abbastanza noioso…

«Proprio perché M87* è un buco nero che cambia lentamente, non ci aspettiamo di vedere grandi cambiamenti. Cambia troppo lentamente – almeno per le nostre scale temporali umane – per vedere cose che abbiano a che fare con le proprietà di un buco nero come predetto dalla relatività generale, ossia la massa e lo spin. Inoltre, le nostre osservazioni non sono abbastanza frequenti per poter osservare delle caratteristiche che potrebbero cambiare a distanza di pochi giorni, come ad esempio un’emissione concentrata da uno spot che si sposti nel disco di accrescimento. Sarebbe interessante poter fare delle osservazioni su periodi di tempo un po’ più lunghi e ravvicinati in tempo (le osservazioni di Eht sono fatte annualmente in primavera) ma purtroppo non sono in programma, perché già riuscire ad avere una settimana di fila non è assolutamente facile, visto che significa vincere una serie di proposal e la competizione per questi telescopi è agguerrita».

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Luciano Rezzolla, astrofisico della Goethe University di Francoforte e principal investigator di BlackHoleCam. Crediti: L. Rezzolla

Questa nuova campagna osservativa ha riguardato anche l’osservazione di SgrA*?

«Sì, queste nuove osservazioni le abbiamo anche per SgrA* ma non le abbiamo ancora pubblicate… lo faremo presto. SgrA* ha le solite complicazioni, perché è molto più variabile ed è molto più difficile fare un’analisi. Il problema delle osservazioni di SgrA è che la sua distribuzione di luminosità delle immagini statiche non ci dice necessariamente qualcosa di fisico. Ad esempio, le tre macchie più luminose evidenti nell’immagine del buco nero al centro della nostra galassia pubblicate nel 2022 non sono il risultato di concentrazioni di emissione particolare, poiché quell’immagine è la media di quattro immagini rappresentative delle quattro categorie nelle quali abbiamo distinto le migliaia di immagini che sono compatibili con le osservazioni. In questo senso, quello che potrebbe succedere con una nuova immagine di SgrA* è che si otterrà qualcosa di completamente diverso. Per quanto poco intuitivo, questo sarebbe un’altra forte conferma della robustezza delle nostre conclusioni. Detto questo, il vero progresso per SgrA* arriverà quando avremo “domato” la tecnica che chiamiamo di “immagine dinamica” (dynamical imaging) e che ci consentirebbe di fare dei brevi filmati di SgrA*».

Quindi riuscire a fare queste immagini non una volta ogni due o tre anni bensì più volte nello stesso anno?

«Attualmente, facciamo l’osservazione interferometrica di circa otto-dieci ore e solo alla fine di questo tempo abbiamo ottenuto informazioni sufficienti per fare un’immagine statica. Fare imaging dinamico significa provare a ottenere un’immagine anche quando non si ha l’intera informazione (ossia la traccia nel piano uv), bensì soltanto una parte. Questo ci consente di avere un’immagine parziale che è meno dettagliata ma, con il software, è possibile compensare questa mancanza di informazioni estrapolando quello che ci si aspetta di ottenere. Chiaramente, le estrapolazioni comportano delle assunzioni su emissioni che avverranno in un futuro prossimo, e questo ha delle implicazioni su quello che si ottiene, e sulla sua robustezza. Per queste ragioni ci sono ancora molti aspetti di questa tecnica che dobbiamo comprendere a fondo».

Quindi, riassumendo, utilizzando due radiotelescopi e una nuova campagna osservativa avete confermato i risultati precedenti.

«Sì, e questo è importante per una serie di ragioni. Quello che abbiamo visto è esattamente quello che ci aspettavamo. Ad esempio, se avessimo visto che nella ciambella l’emissione fosse stata nella zona in alto, questo sarebbe stato in contraddizione con quello che abbiamo concluso in passato, perché abbiamo associato l’asimmetria dell’immagine all’inclinazione del disco. L’inclinazione del disco non può variare se non sui tempi scala di variazione dello spin, e i tempi di variazione dello spin non possono cambiare da un anno all’altro perché, o tramite accrescimento o tramite precessione, comunque i tempi scala sono molto più lunghi di quelli dal 2017 al 2018. Quindi, questo risultato è importante perché va a confermare la robustezza dell’interpretazione. Secondo la relatività generale e la fisica dei plasmi, ciò che vediamo è esattamente quello che ci aspettavamo, in accordo con un flusso di accrescimento turbolento e qui la asimmetria globale è nord sud. Ma dove siano posizionate le concentrazioni di luce dipende dal momento in cui stiamo guardando. Confermare un risultato non è mai tanto entusiasmante quanto trovare il risultato la prima volta, ma per gli scienziati significa anche un grosso sospiro di sollievo».


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Mistero sotto il mantello


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Gli autori dello studio hanno utilizzato campioni di roccia provenienti dalla missione Apollo 17, del 1972. Durante l’ultima passeggiata spaziale, Harrison Schmitt è stato fotografato in piedi accanto a un enorme masso lunare da Eugene Cernan, ultima persona a camminare sulla Luna. Nasa/Jsc

La storia vulcanica della Luna è il racconto intrigante di un’attività basaltica che si è protratta per almeno 2 miliardi di anni. Tuttavia, rispetto alle rocce terrestri, la diversità nella composizione mineralogica dei campioni lunari restituiti dalle missioni Apollo della Nasa ha continuato a sfidare la comprensione scientifica. Noti come high-Ti basalts per la quantità insolitamente elevata di titanio, i basalti lunari da sempre hanno incuriosito gli studiosi del nostro satellite naturale.

Una ricerca pubblicata questa settimana su Nature Geoscience, guidata dalle università di Bristol nel Regno Unito e di Münster in Germania, sembra ora aver risolto questo rompicapo della geologia lunare, individuando un passaggio fondamentale nella genesi di magmi speciali alla base del processo di formazione delle rocce lunari.

Grazie alla combinazione di esperimenti in laboratorio – con rocce fuse ad alta temperatura – e di sofisticate analisi isotopiche sui campioni lunari, i ricercatori hanno identificato la reazione critica e sono riusciti, per la prima volta, a “imitare” in laboratorio il processo di formazione dei basalti ad alto contenuto di titanio. Il meccanismo chiave consisterebbe in un processo reattivo avvenuto all’interno della Luna, nel profondo del suo mantello, miliardi di anni fa, durante il quale si sarebbe verificato uno scambio degli elementi chimici ferro (Fe) e magnesio (Mg) tra il magma e le rocce circostanti, modellando e modificando così la composizione chimica e le proprietà fisiche della fusione.

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Campione di roccia lunare “high-Ti basalt” raccolto dall’Apollo 17 nel cratere Camelot. Ha massa di 1 kg ed è costituito principalmente dai pirosseno, plagioclasio e ilmenite. Presenta grani minerali grossolani che riflettono il raffreddamento e la solidificazione sotto la superficie lunare. Crediti: Nasa

«L’origine delle rocce vulcaniche lunari è una storia affascinante», dice Tim Elliott dell’Università di Bristol, coautore della ricerca. «È come studiare una “valanga”, instabile e di dimensioni planetarie, piena di cristalli creati dal raffreddamento di un oceano di magma primordiale». Secondo la teoria dell’oceano magmatico lunare (Lmo), infatti, l’interno della Luna sarebbe stato modellato dalla progressiva cristallizzazione di un oceano magmatico che, solidificandosi, avrebbe prodotto un mantello a strati, dominato da rocce ricche di minerali di olivina e ortopirosseno, e una crosta lunare di anortosite. Le concentrazioni sorprendentemente elevate di titanio in alcune parti della superficie lunare sono note fin dagli anni ’60 e ’70, quando le prime missioni lunari hanno restituito campioni di lava antica solidificata prelevati dalla crosta lunare. Inoltre, una mappatura più recente, effettuata da un satellite in orbita, ha confermato che questi magmi high-Ti basalts sono molto diffusi sulla Luna. Affinché si formino, considerando la geologia lunare, è necessaria una grande sorgente di titanio, e un’ipotetica fonte potrebbe essere quella nei “serbatoi” di ilmenite – un minerale ricco di ferro e titanio – presenti nel mantello lunare.

La reazione di fusione-interazione individuata dal team di ricerca spiegherebbe non solo l’alto contenuto di titanio nelle rocce lunari ma anche la bassa densità di questi basalti rispetto a rocce simili sul nostro pianeta, caratteristica che sicuramente ha dato origine a numerose eruzioni diffusive prima che la Luna cessasse la sua attività vulcanica.

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Mappa che mostra l’abbondanza di titanio sulla superficie della Luna, ottenuta dalla sonda Clementine della Nasa. Le parti rosse indicano concentrazioni estremamente elevate rispetto alle rocce terrestri. Crediti: Lunar and Planetary Institute

«Finora i modelli non erano stati in grado di creare composizioni magmatiche che corrispondessero alle caratteristiche chimiche e fisiche essenziali dei basalti ad alto tenore di titanio», spiega il primo autore dello studio, Martijn Klaver, ricercatore all’Istituto di mineralogia dell’Università di Münster. «È stato particolarmente difficile capire il perché di una densità così bassa da consentire la fuoriuscita di magma fino a circa tre miliardi e mezzo di anni fa». Le successive misurazioni effettuate sui campioni di roccia riprodotti in laboratorio hanno rivelato una composizione isotopica distintiva: in pratica, un’impronta digitale delle reazioni riprodotte dagli esperimenti. «Se la presenza di un tipo di magma unico per la Luna si sospettava da tempo», conclude Elliott, «spiegare come questi magmi siano arrivati in superficie, tanto da essere campionati dalle missioni spaziali, è stato un problema spinoso. È fantastico aver risolto un tale dilemma».

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Le ultime ore di Peregrine


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Il lander Peregrine prima del lancio, alloggiato all’interno dell’ogiva del Vulcan della United Launch Alliance. Crediti: Astrobotic

Le cronache spaziali di questi giorni seguono con attenzione le sofferte vicende della missione alla Luna Peregrine, della compagnia privata americana Astrobotic, con base a Pittsburgh in Pennsylvania. Dopo mezzo secolo dalla conclusione delle missioni Apollo (l’ultima, la numero 17, conclusasi nel dicembre 1972), Peregrine avrebbe dovuto inaugurare – così erano i piani – il ritorno degli Stati Uniti sulla superficie lunare, sia pure con una sonda automatica senza uomini a bordo.

Come da sempre, nell’avventurosa corsa alla Luna, si affiancano alle motivazioni scientifiche anche – e soprattutto – motivazioni “politiche”, dato l’indubbio prestigio e il marchio di leadership strategica che riveste la capacità tecnologica di navigare e posarsi su un altro corpo celeste. Impresa, per la verità, riuscita ad assai pochi attori internazionali, dopo la fortunata serie degli allunaggi americani degli anni ’70 – ancor più strabilianti, a questo punto, visti in questa prospettiva storica.

Se l’approdo alla Luna è riuscito al momento solo a quattro Paesi (Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India), forse a breve cinque se la missione giapponese Slim avrà successo, per quanto riguarda le compagnie private siamo ancora a zero. Oltre alla missione Peregrine, infatti, solo gli israeliani con la sonda Beresheet e i giapponesi con la Hakuto-R hanno tentato, in anni recenti, il “colpo grosso” di un allunaggio morbido. In ambedue i casi però le difficoltà tecniche dell’operazione hanno portato allo schianto delle sonde, rispettivamente l’11 aprile 2019 e il 25 aprile 2023.

Questa poteva essere anche la sorte di Peregrine, purtroppo sfuggita di mano al controllo da terra appena sette ore dopo il lancio per un problema al sistema propulsivo di bordo (forse la rottura di un serbatoio), che ha ostacolato la corretta orientazione verso il Sole dei pannelli fotovoltaici indispensabili per l’alimentazione dei sistemi di bordo. La situazione è stata parzialmente recuperata dalla Astrobotic e, in accordo con la Nasa, è stato deciso che la Peregrine avrebbe fatto una fine forse meno gloriosa e violenta, ma più “ecologica”. Domenica 14 gennaio la sonda infatti è riuscita a modificare il suo cammino puntando di nuovo verso la Terra, dove arriverà nella tarda serata di domani, giovedì 18 gennaio, bruciando in atmosfera sopra l’Oceano Pacifico.

Partita da Cape Canaveral lo scorso 8 gennaio, spinta da un lanciatore Vulcan-Atlas bistadio della United Launch Alliance (Ula, altra compagnia privata statunitense, a supporto delle attività di lancio Nasa) alla missione è stato attribuito il codice Cospar 2024-006 e Norad 58751.

Dopo il lancio, il secondo stadio del Vulcan ha dato l’impulso finale all’astronave in modo da alzarne progressivamente la quota orbitale terrestre fino ad intercettare ed entrare nella regione di influenza gravitazionale della Luna (la cosiddetta “sfera di Hill” lunare). Alla fine del suo impulso, l’ultimo stadio del missile si è staccato dall’astronave e ha continuato la sua corsa lasciando il nostro pianeta ed entrando in orbita attorno al Sole. L’atterraggio della sonda sulla superficie lunare era previsto per il 23 febbraio 2024.

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L’astronave Peregrine, osservata il 12 gennaio 2024 alle 21:30 Ut dal team Inaf Oas di Sst da Loiano (BO) con lo strumento Tandem dell’Inaf, dedicato alle attività di Sorveglianza spaziale. Al momento dell’osservazione l’oggetto si trovava ad una distanza di 389mila km dalla Terra, ormai in prossimità della Luna, appena prima dei problemi tecnici che hanno poi abortito la missione riprogrammandone il ritorno verso la Terra. L’immagine è una animazione di quattro esposizioni da 120 secondi ciascuna. Il campo è uno zoom di 20 x 16 minuti d’arco (circa 1/40 del reale campo di vista di Tandem). Peregrine è il debole oggetto (di magnitudine V~18) indicato dalla freccia, in movimento verso destra. Crediti: A. Carbognani e R. Gualandi/Team Sst Inaf Oas Bologna

A valle di queste manovre, il 12 gennaio alle 21:30 Ut, l’astronave Peregrine è stata intercettata con i telescopi dello strumento Tandem per la sorveglianza spaziale e tracking (Sst), presso la Stazione osservativa di Loiano (BO) dell’Osservatorio Inaf di astrofisica e scienze dello spazio (Oas) di Bologna (Figura 1). Immediatamente dopo, in preparazione alle ulteriori delicatissime manovre di “sgancio” orbitale e avvicinamento alla superficie, sono sopraggiunti i problemi al sistema propulsivo portando domenica scorsa alla definitiva decisione di abortire la missione e fare rientro a Terra.

«La disintegrazione in atmosfera avverrà circa alle 23 (ora di Greenwich) del 18 gennaio», dice Albino Carbognani, astronomo all’Inaf di Bologna, sulla base delle osservazioni Tandem insieme a quelle di altri osservatori. «Considerando le osservazioni astrometriche delle ultime ore, la Peregrine probabilmente brucerà il 18 gennaio alle 21 ora di Greenwich nel cielo sopra l’Oceano Pacifico». La stima del luogo di impatto con l’atmosfera va presa comunque con cautela, perché potrebbero esserci cambiamenti di rotta dell’ultimo momento a vanificare le previsioni. Va inoltre sottolineato che durante il rientro la navicella verrà completamente polverizzata.

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L’ultimo stadio del vettore Vulcan-Atlas, che ha portato l’astronave Peregrine in orbita lunare, osservato il 15 gennaio 2024 alle 18:20 Ut da Loiano (BO) con il telescopio “G.D. Cassini” di 152 cm dell’Inaf Oas, equipaggiato con la camera BFosc. Al momento dell’osservazione l’oggetto, separatosi dalla sonda principale, si trovava ad una distanza di 1,61 milioni di km dalla Terra, ormai in orbita attorno al Sole. Crediti: A. Carbognani e R. Gualandi/Team Sst Inaf Oas Bologna

Qualche giorno dopo le osservazioni Tandem, il 15 gennaio, sempre da Loiano, questa volta l’occhio più potente del telescopio Cassini di 152 cm di diametro, equipaggiato con la camera BFosc, ha intercettato anche l’ultimo stadio del Vulcan, ormai “perso” nello spazio interplanetario. «Sulla base alle posizioni astrometriche ottenute da Loiano», continua Carbognani, «sembra che l’ultimo stadio del Vulcan attualmente si muova su un’orbita eliocentrica con semiasse maggiore di 1.1 unità astronomiche, a bassissima inclinazione sull’eclittica e a moderata eccentricità».

Sarà dunque quella di una luminosa meteora sul cielo australiano o nell’Oceano Pacifico la fine prevista per la piccola astronave Peregrine (delle dimensioni di circa due metri e del peso di una tonnellata, con circa 100 kg di carico utile).

A bordo, oltre agli esperimenti scientifici, si trovano anche campioni di ceneri del creatore di Star Trek Gene Roddenberry e del famosissimo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke: non riposeranno sulla Luna quindi, ma il destino ha voluto che facciano ritorno a casa, per disperdersi nella nostra atmosfera.

Chi volesse seguire la vicenda della Peregrine può leggere le press releaseche la Astrobotics emette quotidianamente sul suo sito.


L’Etna svela i segreti del vulcanismo su Venere


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Il vulcano venusiano Idunn Mons mostrato nei dati radar della sonda Magellano (aree marroni) con una sovrapposizione dei modelli di calore osservati dalla sonda Venus Express. La scala verticale è aumentata di un fattore 30. Crediti: Esa/Nasa/Jpl

Una soluzione per studiare il vulcanismo di Venere proprio dietro l’angolo? A risolvere il problema viene in aiuto un team internazionale di ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) in collaborazione con i vulcanologi dell’Osservatorio etneo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv-Oe), i quali hanno proposto l’Etna come un possibile analogo terrestre per lo studio di Idunn Mons, un vulcano venusiano forse tutt’ora attivo e che in base ai dati attualmente disponibili si ritiene abbia eruttato in tempi geologici recenti.

Venere e i suoi vulcani (attivi e non) sono tra gli obiettivi principali delle future missioni – quelle della Nasa Veritas e Davinci, la missione Esa EnVision e la missione Isro Shukrayaan-1 – che studieranno il gemello della Terra, il secondo pianeta più vicino al Sole. Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Icarus riaccende i riflettori sull’Etna, uno tra i vulcani attivi più monitorati al mondo. Gli studi sul vulcano siciliano permetteranno ai geologi di testare tecniche di analisi dei dati radar per l’individuazione di attività vulcanica in corso su Venere. Allo studio hanno partecipato Nasa, Università di Londra, Accademia delle scienze di Mosca, Indian Space Research Organisation, Università degli Studi di Catania, Università Sapienza di Roma, Università degli Studi di Pavia, Coventry University e Universidad Rey Juan Carlos di Madrid.

«La comparazione ha evidenziato che entrambi i vulcani interagiscono con una zona di rift», spiega Piero D’Incecco, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf d’Abruzzo, «e ha messo in luce la presenza sui fianchi di Idunn Mons di strutture vulcaniche di piccole dimensioni, morfologicamente simili ai coni di scorie presenti sui fianchi dell’Etna».

L’Etna è un vero e proprio laboratorio naturale a cielo aperto per i geologi che si occupano di vulcanismo, perché facile da raggiungere e perché è possibile effettuare osservazioni in-situ prelevando campioni di lava che saranno poi comparati con quelli prodotti dalle future missioni su Venere. I dati aiuteranno a definire il livello di similarità con le lave dei vulcani venusiani.

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Ripresa aerea del Monte Etna e dei crateri sommitali nel 2004. Crediti: S. Branca/Ingv

«La facilità di accesso permetterà anche di utilizzare l’Etna come possibile area di test per operazioni di perforazione del suolo da parte dei lander che atterreranno sulla superficie di Venere grazie a future missioni come la Roscosmos Venera-D», continua D’Incecco, di recente nominato nel Comitato direttivo del Venus Exploration Analysis Group (Vexag) della Nasa, per un mandato di tre anni.

La comunità scientifica concorda sul fatto che il vulcanismo su Venere sia comparabile al vulcanismo di tipo hot-spot terrestre. Un esempio lampante sono i vulcani hawaiani, effusivi e caratterizzati da lave molto fluide. La presenza su Venere di strutture vulcaniche morfologicamente simili ai coni di cenere terrestri, che invece sono tipici di un vulcanismo esplosivo, apre una serie di interrogativi sulla possibilità che anche su Venere – seppur localmente – possano verificarsi episodi di vulcanismo esplosivo. «Le future missioni su Venere ci aiuteranno a far luce anche su questa possibilità, che se confermata rivoluzionerebbe la visione attuale che abbiamo del vulcanismo venusiano», aggiunge il ricercatore Inaf.

«Il vulcano Etna a partire dal XIX secolo in poi è stato, e continua a essere, un laboratorio di ricerca per tutta la comunità scientifica italiana e internazionale riguardo gli studi di tipo geologico, vulcanologico, geofisico e geochimico», dice Stefano Branca, direttore dell’Osservatorio etneo dell’Ingv e coautore dell’articolo, «e, grazie al sistema di monitoraggio multiparametrico dell’Osservatorio etneo dell’Ingv, è uno dei vulcani meglio studiati al mondo. Questo lavoro evidenzia ancora di più questo aspetto anche per quanto riguarda lo studio del vulcanismo planetario, come nel caso di Venere. Infatti le notevoli conoscenze sulla storia eruttiva del vulcano siciliano, acquisite durante gli studi realizzati per la pubblicazione della carta geologica dell’Etna alla scala 1:50.000, unitamente alla conoscenze sull’attività recente hanno permesso di fare una comparazione morfostrutturale con il vulcano Idunn al fine di individuare possibile evidenza di vulcanismo attivo su Venere».

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Raccolta di campioni di lava sull’Etna, Sicilia, per studiarli e compararli ai campioni di lava che verranno raccolti in futuro dai vulcani di Venere. Crediti: P. D’Incecco/Inaf

L’analisi delle differenze e delle analogie tra strutture vulcaniche di pianeti diversi come Venere e Terra ci ricorda che non esiste un analogo “perfetto” e che, quindi, è fondamentale studiare quanti più analoghi possibile, giacché ogni vulcano terrestre può aiutarci ad approfondire e comprendere meglio un aspetto specifico del vulcanismo venusiano.

«Questo studio rappresenta il primo tassello di un’importante collaborazione multidisciplinare tra astrofisici e vulcanologi dell’Osservatorio etneo dell’Ingv. Una sinergia che apre affascinanti capitoli di ricerca e getta nuova luce sui misteri del vulcanismo di Venere», conclude Branca.

L’articolo pubblicato su Icarus è il primo tassello del progetto Avengers (Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), a guida Inaf, ed è stato presentato alla Lunar and Planetary Science Conference, a Houston, a marzo del 2023. Questo progetto, durante i prossimi anni, si occuperà proprio di selezionare e studiare una serie di vulcani attivi sulla Terra che possano fungere da analoghi per Venere.

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“I neuroni di Dio”, di Marco Salvati


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“I neuroni di Dio” di Marco Salvati, Castelvecchi editore, 2023 (120 pagine, 15 euro)

Chi siamo, Dove andiamo? Dio esiste? Niente di meno che queste sono le domande a cui l’astrofisico Marco Salvati vuole rispondere nel suo libro d’esordio: I neuroni di Dio (Castelvecchi Editore, 2023).

Al lettore Salvati dichiara subito le sue intenzioni – voler rispondere alle grandi domande “dopo mezzo secolo di lavoro in fisica” – senza ricorrere ad alcun escamotage. Le premesse metodologiche sono solide: tutto ciò che esiste può essere indagato e capito solo tramite la ragione. Il presupposto è che tutto sia fisico, e la visione della realtà proposta da Salvati è totalmente materialista, senza alcun dualismo tra spirito e materia: è tutto materia. La realtà si presenta stratificata ed è possibile afferrarla solo con il metodo razionale, capace di spiegare tutto, incluso i sentimenti. “È sempre una catena di cause ed effetti che conduce a un grande onore o a un grande litigio”, scrive l’autore nelle prime pagine.

Se queste sono le premesse chiare di chi scrive, deve essere altrettanto chiaro a chi legge che si tratta di un libro impegnativo, pensato per chi padroneggia almeno le basi della fisica e soprattutto non si fa scoraggiare dall’arrampicata logica che capitolo dopo capitolo lo porterà alla vetta delle (grandi) risposte. Una vetta raggiungibile dopo cento pagine di ragionamenti, articolate in ventisei capitoli brevi ma densissimi.

La figura del fisico e in generale dello scienziato è caratterizzata da alcuni tratti molto chiari tra cui la superbia, il coraggio e l’onestà. “Il più grande difetto del fisico”, scrive Salvati., “è la superbia, la convinzione di potere affrontare qualunque problema. Il suo più grande merito è quello di correre il rischio, e andare all’assalto di qualunque problema sapendo di non potere barare: una certezza è una certezza, una ipotesi è una ipotesi, ed è obbligatorio comunicare entrambe a tutti senza barare”.

Il fisico è quasi una guida razionale sul funzionamento del mondo, senza traccia di trascendenza: “Noi siamo i veri filosofi, eredi dei primi filosofi di perí physeos, de rerum natura”. Il sistema di affermazioni con cui viene descritta la realtà – una realtà non necessariamente del tutto comprensibile – è caratterizzato da diversi gradi di certezza. Ci sono affermazioni condivise e generalmente accettate, altre controverse e a volte rifiutate, altre ancora solo possibili e ancora non prevalenti nel sistema di conoscenza acquisite. L’autore sorvola senza troppe spiegazioni quando si tratta delle prime due categorie di affermazioni (il libro non ha una bibliografia di riferimento), esponendosi però in modo originale in alcuni meandri della fisica quasi del tutto astratti, almeno apparentemente.

Il viaggio del lettore parte da un assunto di fondo condiviso da tutti, almeno a livello intuitivo: che il tempo scorra ininterrottamente sempre nella stessa direzione. Anche che nel tempo presente restiamo confinati senza possibilità di fuga in avanti o all’indietro, diventa chiaro fin dai primi capitoli: il miraggio dei viaggi nel tempo resta un sogno impossibile. Salvati esamina e discute in modo originale il paradosso “del nonno morto”, che non riguarda tanto la possibilità di ritornare nel passato, quanto piuttosto la possibilità di alterare il passato dall’istante futuro da cui siamo partiti.

Punto nodale su cui Salvati centra la sua attenzione è il problema della misura e dei fenomeni superluminali nel cosiddetto entanglement (intreccio, sovrapposizione di diversi stati), fino a discutere di un’ipotetica teoria del tutto come punto di arrivo unitario del sapere fisico a cui nessuno è ancora arrivato. Questa ipotetica teoria globale definirebbe il contatto fra il mondo macroscopico e quello microscopico, unendo in modo coerente e razionale il tutto.

Senza scendere qui nel dettaglio dei vari argomenti trattati, quella proposta da Salvati è anche una propria personale visione del mondo e della sua interpretazione, soggettiva pur senza perdere mai il rigore del metodo razionale, e frutto dell’approfondimento di temi estremamente complessi della fisica fondamentale durato per tutta la vita dell’autore.

È in questo punto di contatto l’entità che chiamiamo Dio? Noi che ruolo abbiamo? Evitare lo spoiler è impossibile, perché la risposta è contenuta già nel titolo del libro – I neuroni di Dio – e Salvati conclude chiudendo mirabilmente la sua parabola logica: “Noi autocoscienze individuali possiamo trovare conforto nella contemplazione del sistema cosmico di cui facciamo parte, e nella consapevolezza dell’opera di conoscenza e di creazione a cui partecipiamo senza limiti di tempo e di spazio: la nostra parabola è una tessera del fiat lux eterno, noi siamo i neuroni di dio”.

Buona lettura.

Per incontrare l’autore:


La difesa planetaria in realtà aumentata


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Immagine tratta dal trailer ufficiale. Crediti: Inaf

Aurore boreali, meteore e meteoriti, comete e rifiuti spaziali: queste le esperienze in realtà aumentata che è possibile sperimentare con la nuova applicazione di Sorvegliati spaziali, progetto di divulgazione dell’Inaf dedicato alla difesa planetaria. Se avete sempre sognato di poter osservare – a distanza di sicurezza – l’impatto di un asteroide, o di poter ammirare l’aurora boreale in qualsiasi periodo dell’anno, la nuova applicazione targata Inaf fa al caso vostro.

Sorvegliati spaziali è un progetto che nasce da un’idea di Daria Guidetti dell’Inaf di Bologna nel 2021, sviluppato insieme a ricercatrici e ricercatori dell’Inaf in collaborazione con l’azienda Demarka. A oggi, il progetto si avvale di un sito web costantemente aggiornato e costellato di video, infografiche notizie, recensioni che riguardano lo studio di eventi celesti che potrebbero avere effetti sulla Terra, come possibili impatti di asteroidi e passaggi ravvicinati di comete, meteore e meteoriti, nonché di uno spettacolo teatrale per raccontare il lavoro delle donne e degli uomini pionieri delle ricerche sulla difesa planetaria.

L’app è stata presentata in anteprima alla Iaa Planetary Defense Conference, a Vienna, lo scorso aprile e poi proposta come laboratorio per il pubblico in occasione dell’Asteroid Day 2023 durante l’evento “Sorvegliati spaziali – Asteroidi fastidiosi e come affrontarli” presso la Biblioteca Salaborsa a Bologna (26 giugno – 2 luglio 2023). Da oggi è possibile scaricare l’app da App Store e Google Play per dispositivi iOS e Android, in maniera totalmente gratuita.

Attraverso l’uso di nuove tecnologie come la realtà aumentata è possibile accedere a contenuti aggiuntivi e approfondire le tematiche delle macro aree che compongono il progetto, in maniera coinvolgente e interattiva. «L’esperienza più divertente che si può fare con questa app», spiega Guidetti, «è quella di simulare l’arrivo di un asteroide nel proprio ambiente, con tanto di luce, esplosione, boato e ricerca delle meteoriti a terra. Ma anche quella della sezione meteorologia spaziale è molto bella: crea un’aurora colorata e cangiante e si può anche sentirne il suono grazie alla trasformazione in onde sonore di segnali radio emessi da un’aurora reale».

Per attivare l’esperienza, occorre installare l’applicazione “Sorvegliati spaziali” sul proprio dispositivo mobile e selezionare dal menù la voce “Esplora in Ar”. Se si possiede la brochure ufficiale del progetto, selezionare la voce “con brochure”, altrimenti proseguire cliccando su “senza brochure”. «Consiglio di provare tutte le esperienze», conclude Guidetti, «e di farsi scattare delle fotografie mentre si è immersi nel fenomeno astronomico per condividerle con gli amici, magari usando l’hashtag #sorvegliatispaziali. E rimanere aggiornati sul progetto: infatti, l’esperienza dell’app non finisce così, c’è l’intenzione di migliorare ed espandere alcune delle esperienze»

Guarda il trailer del lancio dell’app di Sorvegliati spaziali:

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A caccia del dipolo del fondo di raggi gamma


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Questa rappresentazione artistica mostra l’intero cielo dei raggi gamma con cerchi magenta che illustrano l’incertezza nella direzione da cui sembrano arrivare più raggi gamma ad alta energia della media. In questa vista, il piano della nostra galassia attraversa il centro della mappa. I cerchi racchiudono regioni con una probabilità del 68% (all’interno) e del 95% di contenere l’origine di questi raggi gamma. Crediti: Goddard Space Flight Center della Nasa

Analizzando 13 anni di dati del telescopio spaziale a raggi gamma Fermi della Nasa, gli astronomi hanno scoperto qualcosa di inaspettato e ancora inspiegabile, al di fuori della Galassia: un segnale in una direzione simile e con una ampiezza quasi identica a un’altra caratteristica attualmente inspiegabile, quella prodotta da alcune delle particelle cosmiche più energetiche mai rilevate.

«Abbiamo trovato un segnale molto più forte di quello che stavamo cercando, e in una parte diversa del cielo», dichiara Alexander Kashlinsky, cosmologo dell’Università del Maryland e del Goddard Space Flight Center, che ha presentato la scoperta al 243° meeting dell’American Astronomical Society a New Orleans. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal Letters il 10 gennaio.

La scoperta, come sottolinea Kashlinsky, è stata del tutto fortuita. Il team era alla ricerca di una caratteristica dei raggi gamma analoga a quella rilevata nel fondo cosmico a microonde (Cmb), la luce più antica dell’universo. Si ritiene che il Cmb si sia originato quando l’universo in espansione si è raffreddato abbastanza da formare i primi atomi, un evento questo che ha permesso alla luce di “svincolarsi” dalla materia e partire per il suo lungo viaggio, permeando il cosmo. Stirata dalla successiva espansione dello spazio negli ultimi 13 miliardi di anni, questa luce è stata rilevata per la prima volta nel 1965, sotto forma di una debole radiazione a microonde distribuita su tutto il cielo.

Negli anni ’70 gli astronomi si resero conto che il Cmb aveva una struttura a dipolo, che fu successivamente misurata con alta precisione dalla missione Cobe (Cosmic Background Explorer) della Nasa. Il Cmb è circa lo 0,12% più caldo della media verso la costellazione del Leone, e più freddo della stessa quantità nella direzione opposta. È ovvio che, per studiare le minuscole variazioni di temperatura del Cmb, dell’ordine del milionesimo di grado, questo segnale dipolare deve essere rimosso.

Gli astronomi ritengono che il pattern dipolare sia il risultato del movimento del Sistema solare rispetto al Cmb a circa 370 chilometri al secondo. Questo movimento dovrebbe dare origine a un segnale di dipolo nella luce proveniente da qualsiasi sorgente astrofisica, ma finora il Cmb è l’unico a essere stato misurato con precisione. «Una misurazione di questo tipo è importante perché un disaccordo con l’ampiezza e la direzione del dipolo Cmb potrebbe fornirci uno sguardo sui processi fisici che operano nell’universo primordiale», spiega il coautore Fernando Atrio-Barandela, professore di fisica teorica presso l’Università di Salamanca in Spagna.

Il team ha pensato che sommando molti anni di dati provenienti dallo strumento Lat (Large Area Telescope) di Fermi, che scansiona l’intero cielo molte volte al giorno, si sarebbe potuto rilevare un modello di emissione di dipolo correlato nei raggi gamma. Grazie agli effetti della relatività, il dipolo dei raggi gamma dovrebbe essere amplificato di ben cinque volte rispetto al Cmb attualmente rilevato.

Così, gli scienziati hanno combinato 13 anni di osservazioni del Fermi Lat di raggi gamma superiori a circa 3 miliardi di elettronvolt (GeV); per confronto, la luce visibile ha energie comprese tra circa 2 e 3 elettronvolt. Hanno rimosso tutte le sorgenti risolte e identificate e hanno eliminato il piano centrale della Via Lattea per analizzare il fondo extragalattico di raggi gamma.

«Abbiamo trovato un dipolo di raggi gamma, ma il suo picco si trova nel cielo meridionale, lontano dal Cmb, e la sua magnitudine è 10 volte superiore a quella che ci aspetteremmo dal nostro moto», riferisce il coautore Chris Shrader, astrofisico dell’Università Cattolica d’America a Washington e di Goddard. «Anche se non è quello che stavamo cercando, sospettiamo che possa essere collegato a una caratteristica simile segnalata per i raggi cosmici di più alta energia».

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In alto: una mappa all-sky dei raggi gamma extragalattici in cui il piano della Galassia, mostrato in blu scuro dove i dati sono stati rimossi, attraversa il centro. Il punto e i cerchi rossi indicano la direzione approssimativa da cui sembrano arrivare più raggi gamma della media. In basso: un’analoga mappa all-sky che mostra la distribuzione dei raggi cosmici ad altissima energia rilevati dall’Osservatorio Pierre Auger in Argentina. Il rosso indica le direzioni da cui arriva un numero di particelle superiore alla media, il blu quelle con un numero di particelle inferiore alla media. Crediti: Kashlinsky et al. 2024 e Collaborazione Pierre Auger

I raggi cosmici sono particelle cariche accelerate, per lo più protoni e nuclei atomici. Le particelle più rare ed energetiche, chiamate Uhecr (ultrahigh-energy cosmic rays), trasportano più di un miliardo di volte l’energia dei raggi gamma a 3 GeV e la loro origine rimane uno dei più grandi misteri dell’astrofisica.

Dal 2017, l’Osservatorio Pierre Auger in Argentina ha segnalato un dipolo nella direzione di arrivo degli Uhecr. Essendo carichi elettricamente, i raggi cosmici vengono deviati dal campo magnetico della galassia in misura diversa a seconda della loro energia, ma il dipolo degli Uhecr raggiunge un picco in una posizione del cielo simile a quello che il team di Kashlinsky trova nei raggi gamma. Entrambi hanno grandezze sorprendentemente simili: circa il 7% in più di raggi gamma o particelle rispetto alla media che provengono da una direzione e quantità corrispondentemente minori che arrivano dalla direzione opposta.

Gli scienziati ritengono probabile che i due fenomeni siano collegati: forse, sorgenti non ancora identificate stanno producendo sia i raggi gamma, sia le particelle ad altissima energia. Per risolvere questo enigma cosmico, occorre individuare queste misteriose sorgenti oppure proporre spiegazioni alternative per entrambe le caratteristiche.

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Il salto dei Centauri


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Oggetti dall’aspetto di asteroidi possono comunque diventare attivi per numerose ragioni. Questi oggetti sono noti come Centauri e possono presentare regioni di attività e generare code come le comete. Crediti: Pamela L.Gay/Psi

Se per la mitologia antica erano esseri ibridi – metà umani, metà animale – in astronomia i Centauri sono piccoli corpi simili agli asteroidi per dimensioni, ma alle comete per composizione. Sono ghiacciati per natura, provengono dalla fascia di Kuiper – là dove orbitano i piccoli corpi al di là di Nettuno – e trascorrono la maggior parte della loro vita nelle regioni lontane del Sistema solare, dove l’ambiente è troppo freddo perché l’acqua e gli altri ghiacci possano sublimare. In pratica, sono dei corpi celesti in congelatore. Ma, allora, come fanno alcuni di loro ad assumere l’aspetto di brillanti comete?

Questa è la domanda a cui ha provato a rispondere il gruppo di ricerca internazionale guidato dal Planetary Science Institute con uno studio pubblicato dieci giorni fa su The Astrophysical Journal Letters. «Abbiamo trovato alcune risposte all’annoso mistero del perché alcuni Centauri sono diventati attivi come comete mentre gli altri appaiono tranquilli, come normali asteroidi», dice Eva Lilly del Planetary Science Institute, autrice principale della ricerca. «Nessuno sapeva perché si comportassero così. Non aveva alcun senso. Non c£era alcuna correlazione con le dimensioni, il colore e nemmeno con i tipi di orbite descritte».

Lo studio condotto su 39 Centauri attivi e 17 comete della famiglia di Giove (Jupiter Family Comets, Jfc) ha rivelato caratteristiche sorprendenti. Concentrandosi sugli ultimi cambiamenti orbitali come possibili “inneschi” di attività cometaria, il team di ricerca ha identificato un elemento comune ricorrente nelle passate dinamiche di tutti i corpi celesti analizzati. «Nel nostro lavoro abbiamo studiato la storia dinamica di tutti i Centauri conosciuti, sia attivi che inattivi, e abbiamo abbinato le nostre scoperte alla modellazione termica», hanno spiegato gli autori. «Eravamo interessati a trovare un qualche tipo di schema comune ai Centauri attivi che, però, mancasse ai corpi inattivi della popolazione».

Mappare la storia dinamica dei Centauri è un’impresa complessa, poiché questi asteroidi orbitano nel regno dei pianeti giganti e la loro evoluzione orbitale è governata dall’influenza caotica dell’attrazione gravitazionale di tali pianeti. «Abbiamo utilizzato un integratore numerico, un codice che ci consente di prevedere l’evoluzione dell’orbita di un corpo celeste», spiega Lilly. «Per i Centauri, possiamo conoscere l’orbita solo per un breve periodo di tempo – in genere, diverse centinaia di anni – dopo il quale il caos rende le previsioni imprecise».

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Rappresentazione grafica del Sistema solare esterno (cliccare per ingrandire). Il Sole è il punto giallo al centro; sono rappresentate le orbite di Giove, Saturno, Urano e Nettuno. I triangoli arancioni sono gli asteroidi Centauri, i cerchi bianchi sono i Plutini, quelli rossi sono oggetti della Fascia di Kuiper e i quadrati rappresentano le comete. Crediti: Minor Planet Center

Grazie a questo modello, il team di ricerca ha scoperto che tutti i Centauri attivi hanno, nel tempo, subito un incontro ravvicinato con Giove o Saturno e che questo incontro ha causato un grande e repentino cambiamento orbitale, caratterizzato da una brusca diminuzione della lunghezza del semiasse maggiore dell’orbita ellittica. «Abbiamo chiamato questa variazione orbitale a-jump. In pratica», continua Lily, «sarebbe una diminuzione del semiasse maggiore dell’orbita del Centauro, che allo stesso tempo si rimodella passando da un’orbita ellittica a un’orbita più circolare, con un perielio minore. Questo cambiamento è molto rapido, dell’ordine di diversi mesi, e il semiasse maggiore può diminuire di diverse unità astronomiche».

Con un “saltino”, quindi, i Centauri si pongono su orbite in cui le loro superfici possono riscaldarsi più a lungo; sulle nuove orbite, l’onda termica può raggiungere i ghiacci all’interno che sublimano e rendono il Centauro attivo. Un po’ come se questi asteroidi uscissero da uno stato di “ibernazione” per intraprendere una seconda vita – questa volta però da cometa. «Gli a-jump non fanno altro che spostare rapidamente alcuni di questi asteroidi più vicino al Sole», spiega Lilly, «dove l’ambiente è sufficientemente caldo perché i ghiacci subiscano transizioni di fase come la sublimazione e trasformino i Centauri in comete».

«Il nostro modello termico lo conferma», continua l’astronoma, «e i risultati suggeriscono che ogni Centauro, per natura, abbia la capacità di diventare attivo, e che tutto dipenda da come si evolve la sua orbita». Restano, dunque, aperte alcune domande. Tutte le Jfc – le comete della famiglia di Giove – sono periodicamente attive e si comportano per lo più come comete normali, ma l’attività più “calorosa” degli asteroidi è stata osservata, invece, solo in circa il 10 per cento dei Centauri.

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L’orbita della cometa 167P/Cineos e la sua posizione nel sistema solare. Identificata nel 2004, nell’ambito del programma Cineos, come un asteroide del gruppo dei Centauri, 167P è uno dei corpi celesti analizzati dal team di ricerca. Crediti: California Institute of Technology/Jpl Small-Body Database

L’analisi degli a-jump – tra i principali fattori scatenanti l’attività cometaria – nelle storie dinamiche recenti dei Centauri e delle Jfc potrebbe essere utilizzata per identificare gli asteroidi che sono attualmente attivi o che potrebbero diventarlo a breve. «Abbiamo già identificato tre Centauri con recenti a-jump. Saranno considerati obiettivi ad alta priorità per il successivo monitoraggio della loro trasformazione in nuove comete», concludono gli autori dello studio.

Tra i corpi celesti analizzati dal gruppo di Lilly, c’è anche 167P/Cineos, una cometa periodica del nostro Sistema solare, scoperta e avvistata nel 2004 dal telescopio Schmidt di 60 centimetri della stazione di Campo Imperatore dell’Inaf d’Abruzzo, dove è stata inizialmente identificata come un asteroide del gruppo dei Centauri. L’orbita della cometa è compresa tra quelle dei pianeti Saturno e Urano: con un periodo orbitale attorno al Sole di circa 65 anni, la cometa ha avuto un incontro ravvicinato con Saturno nel gennaio 1873 e ne avrà uno con Urano nell’estate del 2038.

Per saperne di più:


AAA… cacciatori di lampi gamma cercansi


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Cari lettori e lettrici di Media Inaf, se la vostra passione è l’astrofisica, se conservate il sogno nel cassetto di far parte di un team di ricerca e se volete contribuire alla comprensione di alcuni dei fenomeni astrofisici più affascinanti del cosmo… sappiate che c’è una nuova occasione che fa al caso vostro.

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Immagine d’anteprima del progetto “Burst Chaser: Unveiling the Mysterious Origin of Gamma-ray Bursts with Citizen Science”. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center/Zooniverse

Stiamo parlando di “Burst Chaser: Unveiling the mystery origin of gamma-ray burst with citizen science“. È uno degli ultimi progetti pubblicati sulla piattaforma online Zooniverse e, come suggerisce il nome, richiede il vostro aiuto per svelare uno dei misteri ancora irrisolti nel campo dell’astrofisica delle alte e altissime energie: l’origine dei lampi di raggi gamma. Alla guida del progetto c’è la scienziata dell’Università di Tampa Amy Lien, che la settimana scorsa ha presentato l’iniziativa al 243mo meeting dell’American Astronomical Society durante la press conference dedicata a “High-Energy Phenomena and Their Origins”.

I lampi di raggi gamma (gamma ray burst, in inglese) sono intense emissioni di radiazione gamma. Rilevabili anche a distanze di miliardi di anni luce, ciò che rende questi eventi cosmici eccezionali è l’energia che rilasciano durante la loro breve vita: a fronte di una durata che va da poche decine di millisecondi a qualche minuto, i Grb sono infatti in grado di sprigionare più energia di quanta ne produca il Sole in tutta la sua vita.

Une delle curve di luce
Una tipica curva di luce dell’evoluzione temporale di un gamma ray burst. Le curve di luce dei Grb mostrano picchi di forma e durata differente che formano una struttura di impulsi (in celeste nell’immagine). I volontari che parteciperanno al progetto dovranno classificare le forme degli impulsi e riconoscere schemi di comportamento. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center/Zooniverse

Secondo i modelli più accreditati, i processi che producono questi flash cosmici sono due: la fusione di due stelle di neutroni o di una stella di neutroni con un buco nero e l’esplosione di una stella massiccia sotto forma di ipernova. I lampi di raggi gamma prodotti dal primo processo durano generalmente da poche decine di millisecondi fino a qualche secondo e sono chiamati Grb corti. I lampi gamma che si palesano nel secondo caso durano invece da due secondi fino a qualche minuto e sono chiamati Grb lunghi.

Uno degli strumenti che hanno a disposizione gli astronomi per dare la caccia ai Grb è l’osservatorio Swift Neil Gehrels della Nasa. Spesso chiamato semplicemente Swift, il satellite scandaglia da 19 anni il cielo alla ricerca di questi flash attraverso osservazioni tempestive alle lunghezze d’onda dei raggi gamma, ma anche nei raggi X, Uv e nelle lunghezze d’onda ottiche per rilevare il cosiddetto afterglow – l’emissione residua che si verifica dopo l’esplosione iniziale. È proprio dal team di Swift arriva la richiesta di aiuto.

Quando il satellite, e in particolare lo strumento Burst Alert Telescope (Bat) rileva un lampo di raggi gamma, i suoi dati vengono trasmessi a terra e immediatamente diffusi a tutti gli interessati attraverso il Network delle Coordinate dei Grb (Gcn). Ciò che gli astronomi vedono sui loro computer è una curva di luce, un grafico in cui il Grb è identificato da una struttura costituita da picchi, chiamati impulsi, di forme e durata diversa. È qui che entrano in gioco i cittadini scienziati, a cui viene chiesto di visualizzare le curve di luce dei Grb e identificare al loro interno schemi comuni nella struttura e nella forma degli impulsi di lampi gamma, fornendo così un sistema di classificazione.

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Eleonora Troja, tra gli autori del progetto di Citizen science “Burst Chaser“. Dopo il dottorato di ricerca in fisica presso l’Università di Palermo, Troja ha proseguito gli studi sui lampi gamma al Nasa Goddard Space Flight Center. Dal 2022 è professoressa all’Università di Roma Tor Vergata e associata Inaf

«I volontari dovranno aiutarci a trovare i lampi gamma e a distinguere i loro diversi tipi», spiega a Media Inaf Eleonora Troja, professoressa all’Università di Roma Tor Vergata e associata Inaf, tra i firmatari della proposta progettuale. «Questo sarà fatto attraverso due attività che si chiamano “Dove sono gli impulsi?” e “Le forme degli impulsi”. Abbiamo messo a disposizione tutte le osservazione del satellite Swift, i volontari dovranno dare un’occhiata ai grafici che abbiamo preparato ed evidenziare col mouse la presenza di picchi di luce, che noi chiamiamo impulsi. I più esperti potranno anche cimentarsi nella classificazione di questi impulsi descrivendo la loro forma: singolo, doppio, a corona, o con emissione prolungata».

Nella fase beta del progetto diverse decine di cittadini scienziati hanno già cominciato a classificare numerosi lampi di raggi gamma, iniziando a produrre una statistica che mostra una notevole coerenza nella classificazione degli impulsi Grb. Questi risultati, spiegano gli autori, indicano che l’approccio può essere un metodo fattibile per condurre il primo ampio studio sulla popolazione delle strutture degli impulsi.

«Un programma pilota è stato portato avanti negli Stati Uniti con una ventina di volontari», aggiunge Troja. «Questo ha aiutato molto a semplificare il materiale fornito per renderlo di facile comprensione anche ai non esperti. Nell’ultimo ciclo di test, l’80 per cento delle risposte fornite dai volontari coincideva con quelle degli esperti».

Le statistiche ottenute serviranno per istruire sofisticati algoritmi di apprendimento automatico che potranno facilmente individuare impulsi e modelli ricorrenti di Grb.

«Il problema che abbiamo riscontrato è che i nostri algoritmi non riescono a classificare i lampi gamma tanto bene quanto l’occhio umano», sottolinea a questo proposito la ricercatrice. «Negli ultimi anni in particolare abbiamo trovato sempre più casi di lampi gamma con classificazioni imprecise, notando che i nostri studenti, pur avendo minima esperienza, riuscivano meglio del computer a capire che tipo di esplosione avesse generato quel lampo. Ecco allora che abbiamo pensato di creare un grande campione di lampi gamma classificati dai volontari per poi allenare gli algoritmi di intelligenza artificiale. Vogliamo insegnare al computer a riconoscere quelle forme e schemi di comportamento evidenti all’occhio umano, ma che finora sono sfuggiti ai nostri codici».

Se volete anche voi diventare “cittadini scienziati” e contribuire alla conoscenza della fisica dei Grb, non vi resta che partecipare all’iniziativa accedendo alla pagina web del progetto Burst Chaser (disponibile anche nella sua versione italiana, a cura di Eleonora Troja). Dopo una prima fase di esercitazione, volta a riconoscere la differenza tra un impulso e il rumore, entrerete nel vivo della ricerca. Che la caccia abbia inizio!


Un giovane esopianeta terrestre ricoperto di lava


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Come Kepler-10 b, illustrato qui, l’esopianeta Hd 63433 d è un piccolo pianeta roccioso in orbita stretta attorno alla sua stella. È il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni, ed è anche il più vicino di dimensioni terrestri così giovane, con un’età di circa 400 milioni di anni. Crediti: Nasa/Ames/JPL-Caltech/T. Pyle

In un sistema planetario a circa 65 anni luce da noi, gli astronomi hanno individuato qualcosa di nuovo: un piccolo corpo celeste in transito davanti alla sua stella. Si tratta di un pianeta, il terzo del sistema, molto caldo e di dimensioni terrestri. Si chiama Hd 63433 d e orbita intorno alla stella Hd 63433 (o Toi 1726, simile al Sole), con una faccia sempre rivolta verso di lei e l’altra costantemente al buio. Questo mondo rovente è il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni. È anche il più vicino pianeta a oggi scoperto di dimensioni terrestri così giovane. Tra gli autori della pubblicazione che riporta la scoperta ci sono Giovanni Covone, professore associato di astronomia e astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli Federico II e Christian Magliano, dottorando in astrofisica all’Università di Napoli Federico II, entrambi associati all’Istituto nazionale di astrofisica. Abbiamo intervistato Covone, autore anche del libro Altre Terre, che ci ha raccontato alcuni aspetti interessanti del corpo celeste appena scoperto e di come si è svolta la ricerca.

Parliamo di Hd 63433 d: dove si trova e come l’avete scoperto?

«Hd 63433 d è il terzo pianeta scoperto intorno alla stella Hd 63433, molto simile al Sole e lontana “appena” 65 anni luce dalla Terra, nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Come i precedenti due pianeti nel sistema di Hd 63433, è stato scoperto attraverso la tecnica dei transiti fotometrici grazie alle osservazioni con il telescopio spaziale Tess della Nasa. Tess è stato appositamente progettato per monitorare decine di migliaia di stelle contemporaneamente e scoprire pianeti extrasolari attraverso le piccole diminuzioni di luminosità della stella madre causate dai pianeti quando le passano davanti lungo la nostra linea di vista. Queste osservazioni permettono di determinare le orbite e i raggi dei pianeti, ma ancora molte domande sono senza risposta. Ad esempio, ancora non conosciamo la massa del pianeta e se possiede un’atmosfera».

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Giovanni Covone, professore associato di astronomia e astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli Federico II e associato Inaf. Si interessa dello studio di pianeti di tipo terrestre e di cosmologia. È membro della collaborazione Plato. Crediti: G. Covone

Si trova nella fascia di abitabilità della sua stella?

«Hd 63433 d ruota intorno alla sua stella madre in poco più di quattro giorni (4.2 giorni), quindi è molto vicino a essa. Per confronto, è venti volte più vicino alla sua stella di quanto lo sia la Terra rispetto al Sole. Quindi si trova purtroppo ben al di fuori della cosiddetta regione di abitabilità, dove un pianeta con un’atmosfera simile a quella terrestre potrebbe avere sulla superficie acqua allo stato liquido. È così vicino alla stella madre che (a causa delle forze mareali gravitazionali) le rivolge sempre lo stesso emisfero, come fa la Luna con la Terra. Inoltre, la vicinanza della stella probabilmente ha causato anche la scomparsa della sua atmosfera, a causa dei forti venti stellari».

Ha dimensioni terrestri e orbita attorno a una stella simile al Sole. Non c’è proprio speranza che sia un “mondo” simile al nostro?

«Il suo raggio è davvero simile a quello della Terra (circa 1.1 raggi terrestri), ma se potessimo osservarlo da vicino capiremmo subito che è molto diverso dalla Terra. Prima di tutto, si tratta di un pianeta molto giovane in un sistema planetario molto giovane. Infatti, abbiamo potuto determinare che la stella madre ha un’età di circa 400 milioni di anni, dieci volte più giovane del Sole. Ma soprattutto, non è sicuramente un mondo abitabile. La stella Hd 63433 è meno luminosa del Sole (25% meno luminosa del Sole), ma il nuovo pianeta orbita così vicino che secondo i nostri modelli la temperatura media superficiale sull’emisfero sempre illuminato è superiore ai 1500 gradi Kelvin. A questa temperatura le rocce fondono: quindi, da vicino vedremmo un oceano di magma coprire l’intero emisfero. Tuttavia è un mondo molto interessante, perché il più giovane pianeta roccioso trovato a così breve distanza da noi. Ed è il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni. Abbiamo quindi un’occasione unica per studiare le prime fasi di vita di un sistema planetario, in cui avvengono fenomeni fisici complessi ancora non ben compresi».

Hd 63433 è una stella di cui in realtà esistono svariati dati d’archivio: di quali dati si tratta e come vi hanno aiutato nell’analisi dei dati di Tess?

«Hd 63433 è una stella ben studiata perché relativamente brillante e vicina. È una stella di dimensioni simili a quelle del Sole (il raggio è circa 0,9 volte il raggio del Sole e la massa quasi la stessa). La stella è di tipo spettrale G, lo stesso tipo del Sole. Fa parte di un gruppo stellare noto come Associazione dell’Orsa Maggiore, un gruppo di giovani stelle coese, che si muovono in modo coordinato nella Galassia. È possibile stimare con buona precisione l’età delle associazioni di stelle come queste».

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Christian Magliano, laureato presso l’Università di Salerno, è attualmente dottorando in astrofisica all’Università di Napoli, Federico II e associato Inaf. I suoi principali interessi riguardano l’astrofisica, l’astrobiologia e la cosmologia. È attualmente coinvolto nella preparazione della missione scientifica Plato. Crediti: C. Magliano

Anche Gaia è stata utile per caratterizzare il sistema planetario di Hd 63433, e in particolare il suo terzo pianeta da voi scoperto?

«I dati più recenti di Gaia (Dr3) sono stati molto utili nel nostro lavoro per molti aspetti. Prima di tutto, ci hanno permesso di aggiornare la misura della distanza della stella (ottenuta con il metodo della parallasse). Inoltre, la sua velocità nella Galassia è stata calcolata usando ancora i dati di Gaia. Proprio queste misure sono state fondamentali per confermare l’appartenenza della stella all’Associazione dell’Orsa Maggiore, e da questo fatto determinare l’età della stella stessa. Non solo: un risultato importante del nostro lavoro è che abbiamo identificato molte nuove stelle appartenenti al gruppo dell’Orsa Maggiore utilizzando le nuove misure di velocità radiale di Gaia DR3. Infine, le osservazioni di Gaia permettono di ricavare anche importanti parametri stellari, come la temperatura superficiale e il raggio della stella, fondamentali per ricavare i parametri dei pianeti a partire dalle osservazioni dei transiti fatte da Tess».

Pensate di dedicare altro tempo a questo pianeta e, nel caso, con quali strumenti?

«Sicuramente! È un candidato interessante per ulteriori osservazioni. Sarebbe interessante ottenere ulteriori informazioni sul “lato oscuro” del pianeta e sullo stato della sua eventuale atmosfera. Grazie alla sua vicinanza alla Terra, potremmo utilizzare il telescopio spaziale James Webb per rilevare la sua emissione termica con lo strumento Miri. È un target ideale tra i pianeti rocciosi per questo tipo di osservazioni, data la sua giovane età ed elevata temperatura. Inoltre, nelle ultime settimane, Tess ha accumulato altre osservazioni che attendono di essere analizzate, sia per migliorare la precisione dei parametri misurati sia per scovare eventuali altri pianeti nel sistema. Giovani sistemi planetari con pianeti di tipo terrestre sono un banco di prova fondamentale per verificare le nostre teorie sulla formazione e l’evoluzione dei sistemi planetari».


Per saperne di più:

  • Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “TESS Hunt for Young and Maturing Exoplanets (THYME) XI: An Earth-sized Planet Orbiting a Nearby, Solar-like Host in the 400 Myr Ursa Major Moving Group” di Benjamin K. Capistrant, Melinda Soares-Furtado, Andrew Vanderburg, Alyssa Jankowski, Andrew W. Mann, Gabrielle Ross, Gregor Srdoc, Natalie R. Hinkel, Juliette Becker, Christian Magliano, Mary Anne Limbach, Alexander P. Stephan, Andrew C. Nine, Benjamin M. Tofflemire, Adam L. Kraus, Steven Giacalone, Joshua N. Winn, Allyson Bieryla, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Karen A. Collins, Giovanni Covone, Zoë L. de Beurs, Chelsea X. Huang, Jon M. Jenkins, Laura Kreidberg, David W. Latham, Samuel N. Quinn, Sara Seager, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Bill Wohler, Roland K. Vanderspek, Ricardo Yarza e Ziegler


Quel vento che forgia i cerchi radio anomali


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Quando nel 2019 sono stati rilevati dall’array di radiotelescopi Askap (Australian Square Kilometre Array Pathfinder), mai nessuno prima di allora aveva visto qualcosa di simile. Hanno una forma circolare. Sono enormi, talmente grandi da poter contenere al loro interno intere galassie. E luminosi, luminosi nel radio. Sono sorgenti astronomiche extragalattiche diverse da qualsiasi oggetto celeste precedentemente riportato in letteratura, tant’è che gli astronomi che li hanno scoperti li hanno chiamati Orc, acronimo di odd radio circle: cerchi radio anomali.

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Immagine che mostra il cerchio radio anomalo denominato Orc 1. Crediti: Jayanne Inglese/University di Manitoba

A oggi di questi anelli di emissione radio continua ne sono stati individuati quasi una dozzina. I primi tre cerchi radio sono stati scoperti durante la survey Evolutionary Map of the Universe utilizzando l’Askap. Un quarto Orc (Orc 4) è stato individuato nei dati d’archivio acquisiti dal Giant Meterwave Radio Telescope. Ulteriori Orc sono stati scoperti più recentemente nei dati ottenuti dell’array di telescopi MeerKat.

La domanda che si sono posti all’epoca della loro identificazione e che si pongono tutt’ora gli astronomi è: come si formano queste strutture? Per spiegare la loro origine sono state proposte diverse teorie. Alcune chiamano in causa le nebulose planetarie. Altre le fusioni di buchi neri. Altre ancora i wormhole. Nessuna di queste teorie, tuttavia, sembra fornire una spiegazione convincente. Ora un team di ricercatori guidato dall’Università della California a San Diego ritiene di averla trovata, questa spiegazione: a forgiare i cerchi radio sarebbero i venti provenienti dalla galassia situata al centro dei cerchi stessi. Venti prodotti dall’esplosione di stelle massicce che vengono lanciati ad alta velocità nello spazio circostante. La ricerca è pubblicata su Nature.

Per giungere a questa conclusione, Alison Coil, scienziata dell’Università della California a San Diego, e colleghi hanno osservato uno dei pochi cerchi radio osservabili dal nostro emisfero, Orc 4, e la galassia al centro di questa sorgente radio, Wise J155524. L’obiettivo dei ricercatori era identificare un’eventuale controparte ottica della sorgente che permettesse di dare indicazioni circa l’origine di queste strutture. E ci sono riusciti: utilizzando il Keck Cosmic Web Imager (Kcwi), lo spettrografo montato sul telescopio Keck I del W.M. Keck Observatory di Maunakea, nelle Hawaii, hanno rilevato una riga di emissione dell’ossigeno ionizzato (O II) sufficientemente luminosa da permette di studiare le caratteristiche di Orc 4 e della galassia al suo interno, sondando la morfologia, l’estensione e la cinematica del gas.

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Una simulazione che mostra l’evoluzione dei venti galattici lanciati a tempi diversi dall’inizio dell’attività starburst. Nell’ipotesi dei ricercatori, l’origine di Orc 4 sarebbe dovuta all’onda di shock prodotta dal vento galattico, indicata nelle mappe come forward shock. Crediti: Alison Coil et al., Nature, 2024

Con più domande che risposte, il team ha portato avanti il lavoro investigativo, determinando la massa della galassia e l’età delle stelle al suo interno e creando mappe di distribuzione e velocità del gas nella regione Orc 4. I risultati delle analisi hanno mostrato la presenza di grandi quantità di gas che coprono una regione di circa 40 kiloparsec di diametro – circa 130mila anni luce. Il gas, inoltre, aveva una velocità pari a circa 200 chilometri al secondo ed è risultato essere molto più luminoso del previsto.

«Il segnale dell’ossigeno ionizzato (OII) di Orc 4 copriva quasi tutta la galassia ed era dieci volte più luminoso del normale», dice Coil. «C’era una quantità pazzesca di OII, molto più di quella normale. Il gas mostrava anche una gamma di velocità molto più ampia di quanto ci si aspettasse, il che suggerisce che si stava muovendo vigorosamente».

Considerate tutte queste proprietà, la conclusione dei ricercatori è che all’origine di Orc 4 vi sia il vento prodotto dall’attività della galassia ospite. La domanda a questo punto è: come si forma questo vento? E in che modo è coinvolto nella formazione di Orc 4?

La galassia ospite di Orc 4 è una galassia starburst. Come suggerisce il nome, si tratta di galassie caratterizzate da un alto tasso di formazione stellare. Le stelle che si formano al loro interno sono per lo più stelle massicce, che dopo una vita relativamente breve esplodono come supernove, espellendo i loro strati esterni nello spazio interstellare sotto forma di venti. Se un numero sufficiente di queste stelle esplode contemporaneamente, la forza delle esplosioni può produrre un potente vento galattico che, colpendo il gas fuori dalla galassia, crea un’enorme onda d’urto. Nell’ipotesi formulata dai ricercatori, sarebbe quest’onda d’urto a produrre Orc 4.

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Serena Perrotta, coautrice dello studio pubblicato su Nature, è un’astronoma osservativa. Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Trieste si è trasferita negli Stati Uniti, dove attualmente lavora come ricercatrice presso l’Università della California a San Diego

«Lo scenario che meglio si adatta ai dati è che 1 miliardo di anni prima la galassia al centro di Orc 4 ha subito un breve ma intenso periodo di formazione stellare», spiega a Media Inaf Serena Perrotta, ricercatrice presso l’Università della California San Diego e co-autrice dello studio. «Tali esplosioni stellari tendono a produrre grandi stelle che bruciano intensamente e che esauriscono rapidamente il loro combustibile, per cui dopo qualche milione di anni le stelle esplodono come supernove. Questa raffica di esplosioni in rapida successione produce un potente vento galattico che spinge il gas fuori dalla galassia. Quando questo vento colpisce il gas sottile all’esterno della galassia, crea un’onda d’urto. Nel caso di Orc 4, le antenne dei radiotelescopi stanno osservando quell’onda d’urto dopo che è cresciuta fino a raggiungere dimensioni enormi e ha rallentato, 1 miliardo di anni dopo. All’interno dell’onda d’urto, gli elettroni in rapido movimento si muovono a spirale attorno alle linee del campo magnetico e generano una radiazione nota come luce di sincrotrone. Nell’onda d’urto di Orc 4, che sta invecchiando, queste oscillazioni producono le onde radio osservate. Il modello prevede anche che, in un’esplosione stellare così breve e forte, la coda del vento galattico possa bloccarsi e iniziare a ricadere verso la galassia, producendo una seconda onda d’urto che, riversandosi nella galassia, potrebbe ionizzare altri atomi di ossigeno e spiegare l’insolita produzione di luce OII. Sebbene la portata dell’emissione OII sia un decimo di quella del cerchio radio, è quasi certo che esista una connessione tra le due».

Per testare questa ipotesi i ricercatori hanno condotto una serie di simulazioni in cui forti venti sono stati lanciati da una galassia isolata. In tutti i casi il risultato delle simulazioni è stato la formazione di enormi cerchi radio, rafforzando l’ipotesi formulata dai ricercatori secondo cui a produrre Orc 4 sia un’onda di shock causata dal vento galattico in uscita dalla galassia ospite.

«Abbiamo eseguito una serie di simulazioni numeriche al computer per replicare le dimensioni e le proprietà dell’anello radio su larga scala, compresa la grande quantità di gas freddo nella galassia centrale», aggiunge Perrotta. «Le simulazioni hanno mostrato venti galattici in uscita che soffiano per 200 milioni di anni prima di spegnersi. Quando il vento si è fermato, un’onda di shock in avanti ha continuato a spingere il gas ad alta temperatura fuori dalla galassia e ha creato un anello radio, mentre un’onda di shock inversa ha fatto ricadere il gas più freddo sulla galassia. La simulazione si è svolta nell’arco di 750 milioni di anni, un periodo che corrisponde all’età stellare di Orc 4, stimata in un miliardo di anni».

«Gli Orc ci forniscono un modo per “vedere” i venti galattici attraverso i dati radio e la spettroscopia», dice Coil. «Il loro studio può aiutarci a capire quanto siano comuni questi venti estremi in uscita e quale sia il loro ciclo di vita». Inoltre, conclude la ricercatrice, «i venti possono aiutarci a saperne di più sull’evoluzione delle galassie. Penso che ci sia molto da imparare sugli e dagli Orc».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Ionized gas extends over 40 kpc in an odd radio circle host galaxy” di Alison L. Coil, Serena Perrotta, David S. N. Rupke, Cassandra Lochhaas, Christy A. Tremonti, Aleks Diamond-Stanic, Drummond Fielding, James E. Geach, Ryan C. Hickox, John Moustakas, Gregory H. Rudnick, Paul Sell e Kelly E. Whalen


Aurore sui poli d’una nana bruna


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Rappresentazione artistica della nana bruna W1935, che si trova a 47 anni luce dalla Terra. Gli astronomi che utilizzano il telescopio spaziale James Webb hanno trovato emissioni infrarosse di metano provenienti dai poli di W1935. Si tratta di una scoperta inaspettata perché la nana bruna è fredda e non ha una stella ospite; pertanto, non c’è una fonte evidente di energia per riscaldare l’atmosfera superiore e far brillare il metano. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano le aurore, qui evidenziate in rosso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)

Grazie al telescopio spaziale James Webb, gli astronomi hanno scovato una nana bruna (un oggetto celeste più massiccio di un pianeta come Giove ma meno massiccio di una stella come il Sole, con una massa vicina al limite necessario perché si verifichi il processo di fusione nucleare dell’idrogeno tipico delle stelle) con emissioni infrarosse caratteristiche del metano.

Si tratta di una scoperta inaspettata perché la nana bruna in questione, W1935, è fredda e non ha una stella ospite. Pertanto, non sembra esserci una fonte ovvia per l’energia che si suppone essere presente nella sua atmosfera superiore. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano aurore.

Lo studio e i suoi risultati sono stati presentati in una conferenza stampa tenutasi il 9 gennaio al 243° meeting dell’American Astronomical Society, a New Orleans.

Per spiegare il mistero dell’emissione infrarossa del metano, il team ha preso spunto dal Sistema solare, dove l’emissione di metano è una caratteristica comune ai giganti gassosi come Giove e Saturno. Il riscaldamento dell’atmosfera che alimenta questa emissione potrebbe essere legato alle aurore.

Sulla Terra, le aurore si formano quando le particelle energetiche “soffiate” nello spazio dal Sole vengono catturate dal campo magnetico terrestre, scendono a cascata nella nostra atmosfera lungo le linee di forza del campo magnetico vicino ai poli terrestri e, scontrandosi con le molecole di gas, creano impressionanti cortine di luce sfavillante. Giove e Saturno hanno processi aurorali simili che implicano l’interazione con il vento solare, ma ricevono anche contributi aurorali da lune attive vicine come Io (per Giove) ed Encelado (per Saturno).

Per le nane brune isolate come W1935, l’assenza di un vento stellare che contribuisca al processo aurorale capace di giustificare l’energia nell’atmosfera superiore necessaria per l’emissione di metano è però un mistero. Il team ipotizza che l’emissione possa essere dovuta a processi interni non considerati, come i fenomeni atmosferici di Giove e Saturno, oppure a interazioni esterne con il plasma interstellare o con una luna attiva vicina.

Ma veniamo alla storia di questa scoperta, che assomiglia a un giallo. Un team guidato da Jackie Faherty, astronoma dell’American Museum of Natural History di New York, ha ottenuto tempo di osservazione al telescopio Webb per studiare 12 nane brune fredde. Tra queste c’erano W1935 – un oggetto scoperto dal citizen scientist Dan Caselden, che ha lavorato con il progetto Backyard Worlds di Zooniverse – e W2220, un oggetto scoperto grazie al Wide Field Infrared Survey Explorer della Nasa. Webb ha rivelato in modo estremamente dettagliato che le due nane brune – W1935 e W2220 – sembrano essere cloni l’una dell’altra per composizione. Condividono anche luminosità, temperature e caratteristiche spettrali simili di acqua, ammoniaca, monossido di carbonio e anidride carbonica. L’eccezione più evidente è che W1935 ha mostrato un’emissione di metano, contrariamente alle caratteristiche di assorbimento rilevate in W2220. L’emissione è stata osservata a una distinta lunghezza d’onda dell’infrarosso, alla quale Webb è particolarmente sensibile.

«Ci aspettavamo di vedere del metano, perché il metano è presente in tutte queste nane brune. Ma invece di assorbire la luce, abbiamo visto esattamente il contrario: il metano brillava. Il mio primo pensiero è stato: che diavolo è? Perché questo oggetto emette metano?», racconta Faherty.

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Gli astronomi hanno utilizzato il telescopio spaziale James Webb per studiare 12 nane brune fredde. Due di queste – W1935 e W2220 – sembravano essere quasi gemelle per composizione, luminosità e temperatura. Tuttavia, W1935 ha mostrato un’emissione di metano, contrariamente alla caratteristica di assorbimento prevista per W2220. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano le aurore. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)

Il team ha impiegato simulazioni numeriche per dedurre cosa potesse esserci dietro tale emissione. Il loro lavoro ha mostrato che W2220 è effettivamente caratterizzata dalla distribuzione di energia prevista in tutta l’atmosfera, diventando più fredda con l’aumentare dell’altitudine. Invece W1935, no. Il risultato, per questa nana bruna, è stato sorprendente. Il modello migliore predilige infatti un’inversione di temperatura, in cui l’atmosfera si riscalda con l’aumentare dell’altitudine. «Questa inversione di temperatura è davvero sconcertante», afferma Ben Burningham dell’Università di Hertfordshire in Inghilterra. «Abbiamo riscontrato questo tipo di fenomeno nei pianeti con una stella vicina che può riscaldare la stratosfera, ma vederlo in un oggetto senza un’evidente fonte di calore esterna è sorprendente».

Per trovare indizi, il team ha guardato nel nostro “cortile”, ai pianeti del Sistema solare. In particolare, i pianeti giganti gassosi possono servire come proxy di ciò che si vede accadere a più di 40 anni luce di distanza, nell’atmosfera di W1935. Il team si è reso conto che in pianeti come Giove e Saturno le inversioni di temperatura sono importanti. Si sta ancora lavorando per capire le cause del loro riscaldamento stratosferico, ma le principali teorie per il Sistema solare riguardano il riscaldamento esterno da parte delle aurore e il trasporto interno di energia dalle profondità dell’atmosfera.

Non è la prima volta che un’aurora viene utilizzata per spiegare le osservazioni di una nana bruna. Gli astronomi hanno rilevato emissioni radio provenienti da diverse nane brune più calde e hanno invocato le aurore come spiegazione più probabile. Per caratterizzare ulteriormente il fenomeno, sono state condotte ricerche con telescopi a terra, come l’Osservatorio Keck per individuare le firme infrarosse di queste nane brune che emettono radio, ma non hanno dato risultati.

W1935 è la prima candidata al di fuori del Sistema solare con la firma di emissione di metano. È anche il candidato aurorale più freddo al di fuori del nostro sistema solare, con una temperatura effettiva di circa 200 gradi Celsius, circa 300 gradi più caldo di Giove.

Riassumendo, nel Sistema solare, il vento solare è il principale responsabile dei processi aurorali, con lune attive come Io ed Encelado che svolgono un ruolo per pianeti come Giove e Saturno, rispettivamente. W1935 non ha una stella compagna, quindi il vento stellare non può contribuire al fenomeno. È ancora da verificare se una luna attiva possa giocare un ruolo nell’emissione di metano su W1935.

«Con W1935, ora abbiamo un’estensione spettacolare di un fenomeno del Sistema solare senza alcuna irradiazione stellare che possa aiutare nella spiegazione», conclude Faherty. «Con Webb, possiamo davvero “aprire il coperchio” della chimica e capire quanto simile o diverso possa essere il processo aurorale al di fuori del nostro sistema solare».

Se volete contribuire alla scoperta di un nuovo mondo, potete partecipare al progetto di citizen science Backyard Worlds: Planet 9 e cercare nuove nane brune e pianeti oltre Nettuno. Oppure potreste provate il nuovo progetto di citizen science Burst Chaser della Nasa, lanciato il 9 gennaio, per aiutare gli scienziati a classificare le curve di luce dei lampi gamma.

Per saperne di più:

  • Guarda il video della conferenza stampa tenutasi il 9 gennaio al 243° meeting dell’American Astronomical Society (dal minuto 24:35)


Va a Sofia Contarini il premio “Livio Gratton” 2023


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L’astrofisica Sofia Contarini, vincitrice del premio “Livio Gratton” 2023 per la sua tesi di dottorato “Towards a full cosmological exploitation of cosmic voids”

«Ho saputo di aver ricevuto questo premio», dice Sofia Contarini a Media Inaf, «mentre stavo andando a pranzo con il mio fidanzato, Simon, in occasione del suo compleanno. Ovviamente abbiamo avuto un doppio motivo per festeggiare quel giorno!»

Il premio è il “Livio Gratton”, assegnato ogni due anni alla più meritevole tesi di dottorato di ricerca in astronomia o astrofisica dell’ultimo biennio in un istituto di ricerca italiano. A questa edizione, la sedicesima, hanno partecipato 21 giovani ricercatori. E la tesi scelta dalla giuria internazionale – formata da Cesare Chiosi (Università di Padova), Bozena Jadwiga Czerni (Copernicus Astronomical Center, Polonia) e Guy Monnet (European Southern Observatory, Germania) – è risultata Towards a full cosmological exploitation of cosmic voids, con la quale Contarini ha ottenuto il suo dottorato all’Università di Bologna. La giuria ha anche attribuito una menzione speciale a Matteo Braglia per la tesi Scalar-tensor theories in light of cosmological tensions (Inaf – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna).

Istituito per onorare la memoria di Livio Gratton, vicepresidente della Iau, accademico Linceo e professore ordinario di astrofisica alla Sapienza di Roma scomparso nel 1991, il premio di cinquemila euro viene conferito dall’Associazione Eta Carinae in collaborazione con l’Associazione tuscolana di astronomia “Livio Gratton”, con il patrocinio del Comune di Frascati e dell’Istituto nazionale di astrofisica e con il contributo della famiglia Gratton.

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Locandina della cerimonia di premiazione

La cerimonia di consegna, aperta al pubblico, si terrà a Frascati domani, sabato 13 gennaio 2024, a partire dalle ore 17.00, all’Auditorium delle Scuderie Aldobrandini. L’evento potrà essere seguito online sul canale YouTube dell’Associazione tuscolana di astronomia. Durante la cerimonia Raffaele Gratton (Inaf Padova) ricorderà Italo Mazzitelli, astronomo allievo di Livio Gratton, recentemente scomparso e la premiazione sarà seguita dalla conferenza pubblica tenuta da Maria Francesca Matteucci (Università di Trieste) sul tema “Archeologia galattica nell’era dei grandi telescopi”. Com’è tradizione fin dalla prima edizione, verrà consegnata alla vincitrice una pergamena del Maestro Gianfranco Cresciani.

«Ricevere questo premio», dice Sofia Contarini, «è un grandissimo onore per me, è sempre bello vedere riconosciuti i propri sforzi. Inoltre mi è stata comunicata questa vittoria poco prima di partire per Monaco di Baviera, dove attualmente sto continuando le mie ricerche, e questo ha aumentato ulteriormente la mia volontà di tornare in Italia, dopo il periodo in Germania. In particolare, spero che grazie al prestigio di questo premio risulterà più facile ottenere, in futuro, una posizione a Bologna, la città che mi ha formata a livello scientifico e che porterò sempre nel cuore».


Una galassia di nome Nube sfida la materia oscura


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Immagine della galassia Nube attraverso diversi telescopi. Crediti: Sdss/Gtc/Iac

Solitamente gli oggetti celesti hanno nomi strani, che assomigliano più a targhe automobilistiche che a qualcosa di romantico. Ma non è questo il caso. L’oggetto della scoperta che vi andiamo a presentare si chiama Nube ed è una galassia nana quasi invisibile scoperta da un team internazionale di ricercatori guidato dall’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac) in collaborazione con l’Università di La Laguna (Ull) e altre istituzioni. Il nome è stato suggerito dalla figlia di 5 anni di uno dei ricercatori del gruppo ed è dovuto all’aspetto diffuso dell’oggetto. La sua luminosità superficiale è così debole che era passata inosservata nelle varie indagini precedenti di questa parte del cielo, come se fosse una specie di fantasma. Questo perché le sue stelle sono distribuite in un volume tanto ampio da rendere la “nube” quasi impercettibile.

Questa galassia appena scoperta presenta una serie di proprietà specifiche che la distinguono dagli oggetti precedentemente conosciuti. Il team di ricercatori stima che Nube sia una galassia nana dieci volte più debole di altre dello stesso tipo, ma anche dieci volte più estesa di altri oggetti con un numero di stelle paragonabile. Per capirci, questa galassia è grande un terzo della Via Lattea, ma ha una massa simile a quella della Piccola Nube di Magellano. «Con le nostre attuali conoscenze non riusciamo a capire come possa esistere una galassia con caratteristiche così estreme», spiega Mireia Montes, ricercatrice dell’Iac e prima autrice dell’articolo.

Da alcuni anni Ignacio Trujillo, secondo autore dell’articolo, sulla base delle immagini della Sloan Digital Sky Survey, sta analizzando una specifica striscia di cielo nell’ambito del progetto Legado del Iac Stripe 82. In una delle revisioni, ha notato una debole macchia che sembrava sufficientemente interessante per avviare un progetto di ricerca.

Il passo successivo è stato quello di utilizzare le immagini multicolori ultra-profonde del Gran Telescopio Canarias (Gtc) per confermare che questa macchia non fosse un errore, bensì un oggetto estremamente diffuso. A causa della sua debolezza, è difficile determinare l’esatta distanza di Nube. Utilizzando un’osservazione ottenuta con il Green Bank Telescope (Gbt), negli Stati Uniti, gli autori hanno stimato la distanza di Nube in 300 milioni di anni luce, anche se le prossime osservazioni con il radiotelescopio Very Large Array (Vla) e il telescopio ottico William Herschel Telescope (Wht) presso l’Osservatorio Roque de los Muchachos, a La Palma, dovrebbero aiutarli a verificare se questa distanza è corretta. «Se la galassia dovesse risultare più vicina, sarebbe comunque un oggetto molto strano e rappresenterebbe una sfida importante per l’astrofisica», commenta Trujillo.

La regola generale è che le galassie hanno una densità di stelle molto maggiore nelle loro regioni interne e che questa densità diminuisce rapidamente con l’aumentare della distanza dal centro. Tuttavia, Montes afferma che in Nube «la densità di stelle varia pochissimo in tutto l’oggetto, ed è per questo che è così debole e non siamo stati in grado di osservarla bene fino a quando non abbiamo avuto le immagini ultra-profonde del Gtc».

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La galassia Nube. La figura è una composizione di un’immagine a colori e di un’immagine in bianco e nero, per evidenziare lo sfondo. Crediti: Gtc/Mireia Montes

Insomma, Nube ha lasciato parecchio perplessi gli astronomi. Le simulazioni cosmologiche non sono in grado di riprodurre le sue caratteristiche “estreme”, nemmeno sulla base di diversi scenari. «Siamo rimasti senza una spiegazione valida all’interno del Modello cosmologico attualmente accettato, quello della materia oscura fredda», spiega Montes.

Il modello standard è in grado di riprodurre le strutture su larga scala dell’universo, ma ci sono scenari su piccola scala, come il caso di Nube, per i quali non riesce a dare una buona risposta. Gli autori hanno dimostrato come i diversi modelli teorici non siano in grado di riprodurla, il che la rende uno dei casi più estremi finora conosciuti. «È possibile che con questa galassia, e con altre simili che potremmo trovare, possiamo trovare ulteriori indizi che apriranno una nuova finestra sulla comprensione dell’universo», commenta Montes.

«Una possibilità interessante è che le insolite proprietà di Nube ci mostrino che le particelle che compongono la materia oscura hanno una massa estremamente piccola», dice Trujillo. Se così fosse, le insolite proprietà di questa galassia sarebbero una dimostrazione delle proprietà della fisica quantistica, su scala galattica. «Se questa ipotesi fosse confermata, sarebbe una delle più belle dimostrazioni della natura che unifica il mondo del più piccolo con quello del più grande», conclude il ricercatore.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “An almost dark galaxy with the mass of the Small Magellanic Cloud” di Mireia Montes, Ignacio Trujillo, Ananthan Karunakaran, Raúl Infante-Sainz, Kristine Spekkens, Giulia Golini, Michael Beasley, Maria Cebrián, Nushkia Chamba, Mauro D’Onofrio, Lee Kelvin e Javier Román


Stella vecchia fa buon brodo primordiale


media.inaf.it/2024/01/11/stell…
La capacità di una stella di creare un ambiente favorevole alla vita sembra essere inevitabilmente legata al suo campo magnetico. Un tempo si riteneva che man mano che una stella invecchiava, il suo campo magnetico si affievolisse e la stella cominciasse a rallentare la propria rotazione, in un processo inesorabile e senza fine. Oggi si è sempre più convinti che non sia proprio così, e che ci sia un momento preciso nel quale l’accoppiamento fra campo magnetico e rotazione viene meno. Da questo momento in poi, secondo un nuovo studio pubblicato su ApJ Letters, per un pianeta in orbita attorno alla stella sarebbe più facile trovarsi nelle condizioni giuste per sviluppare e sostenere nel tempo forme di vita.

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Immagine che illustra il sistema 51 Pegasi e il suo campo magnetico misurato. Il “Weak Magnetic Braking” rilevato su 51 Peg rappresenta un cambiamento relativamente improvviso che rende l’ambiente magnetico più stabile. Lo studio attuale suggerisce che il Sole abbia già compiuto questa transizione, favorendo lo sviluppo di una vita più complessa. Crediti: AipJ. Fohlmeister

Stelle come il Sole e come 51 Pegasi – una stella di massa simile al Sole attorno alla quale è stato scoperto il primo pianeta extrasolare, dai premi Nobel Michel Mayor e Didier Queloz, nel 1995 – nascono in rapida rotazione, creando un forte campo magnetico che può innescare emissioni violente, che bombardano i loro sistemi planetari con particelle cariche e radiazioni energetiche. Nel corso di miliardi di anni, la rotazione della stella rallenta gradualmente e il campo magnetico viene trascinato attraverso un vento che scorre lungo la sua superficie, in un processo noto come “frenata magnetica”. Dal momento che rotazione e campo magnetico sono due proprietà interconnesse, la rotazione più lenta produce un campo magnetico più debole, in un processo di mutua influenza continua. Fino a quando?

Alcune osservazioni del telescopio spaziale Kepler della Nasa avevano già suggerito che il freno magnetico potrebbe indebolirsi sostanzialmente oltre l’età del Sole, ovvero a metà della vita di una stella di massa simile al Sole, interrompendo la stretta relazione tra rotazione e magnetismo nelle stelle più vecchie. Ma si trattava di misure indirette.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno osservato 51 Pegasi, confermando che essa ha già attraversato la fase di indebolimento del freno magnetico, transitando in un regime chiamato weak magnetic braking. Il livello di attività della stella 51 Pegasi era infatti monitorato già da molti anni prima che avvenisse la scoperta del pianeta 51 Pegasi b che vi orbita intorno, e le osservazioni avevano mostrato un’attività stellare pressoché costante nel tempo.

Ai dati già disponibili, gli autori hanno aggiunto le osservazioni del satellite Tess sulla variazione di luminosità della stella e le osservazioni polarimetriche dello spettrografo Pepsi al telescopio Lbt, ricavando non solo massa, raggio ed età della stella, ma anche riuscendo a mapparne in maniera precisa il campo magnetico. Dati alla mano, le proprietà misurate da 51 Pegasi mostrano che, proprio come il Sole, la stella ha già attraversato la fase di transizione di weak magnetic braking. Se così non fosse, secondo gli autori la stella avrebbe avuto un tasso di perdita di massa più elevato e un campo magnetico più forte, con un maggior numero di linee di campo aperte su larga scala da cui potevano fuoriuscire le eruzioni energetiche, creando un ambiente meteorologico più rigido di quello osservato.

La conclusione dello studio, per 51 Pegasi ma non solo, è che il freno magnetico cambia improvvisamente nelle stelle leggermente più giovani del Sole, diventando oltre dieci volte più debole e diminuendo ulteriormente quando le stelle continuano a invecchiare. Di conseguenza, le stelle più vecchie, dopo l’inizio di questa fase, potrebbero fornire un ambiente più stabile per lo sviluppo e il mantenimento della vita. Le stelle giovani, invece, bombardano i loro pianeti con radiazioni e particelle cariche che sono ostili allo sviluppo della vita complessa.

A questo punto, la domanda nasce spontanea: in che fase si trovava allora, il Sole, quando è nata la vita? Nel Sistema solare, il passaggio della vita dagli oceani alla terraferma è avvenuto diverse centinaia di milioni di anni fa, proprio in coincidenza con il momento in cui il freno magnetico ha iniziato a indebolirsi nel Sole. Insomma, l’orologio biologico delle stelle, se intendiamo la loro capacità di creare un ambiente favorevole alla nascita della vita, non sarebbe quando esse sono giovani e attive, ma dalla mezza età in poi.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Weakened Magnetic Braking in the Exoplanet Host Star 51 Peg“, di Travis S. Metcalf , Klaus G. Strassmeier, Ilya V. Ilyin, Derek Buzasi, Oleg Kochukhov, Thomas R. Ayres, Sarbani Basu, Ashley Chontos, Adam J. Finley, Victor See, Keivan G. Stassun, Jennifer L. van Saders, Aldo G. Sepulveda e George R. Ricker


Al team di Ixpe il premio “Bruno Rossi” 2024


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Rappresentazione artistica dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer. Crediti: Nasa/Msfc

Il prestigioso premio Bruno Rossi 2024 dell’High Energy Astrophysics Division (Head) dell’American Astronomical Society è stato conferito a Martin Weisskopf, Paolo Soffitta e alla Collaborazione scientifica della missione Ixpe “per lo sviluppo dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer, le cui nuove misure migliorano la nostra comprensione dell’accelerazione e dell’emissione delle particelle da shock astrofisici, buchi neri e stelle di neutroni”.

Ixpe, lanciato nel dicembre 2021, grazie alle sue nuove, ricche e dettagliate misure sta contribuendo in modo stupefacente alla comprensione dei meccanismi di funzionamento di molti processi che avvengono nel nostro universo. In particolare Ixpe ha aggiunto due osservabili, l’intensità e l’angolo di polarizzazione simultaneamente alla più usuale coordinata spaziale, temporale e all’energia. Questo è alla base del successo di Ixpe che ha svolto ricerche importantissime nell’ambito dei fenomeni di accelerazione nelle Pulsar Wind Nebulae più brillanti e nei Blazars. Ha permesso di studiare fenomeni di turbolenza e shocks nei resti di supernovae, mappandone il campo magnetico nelle immediate vicinanze dei siti di accelerazione. L’analisi della polarizzazione risolta in energia ha permesso di studiare il plasma in vicinanza dei più brillanti buchi neri galattici e del centro galattico e in vicinanza di quelli super-massici delle galassie attive. L’analisi della polarizzazione risolta in fase ha poi, per la prima volta, reso possibile la misura diretta della geometria delle pulsar binarie e di stelle di neutroni magnetizzate quali le magnetars, parametri talvolta degeneri delle usuali analisi spettroscopiche e di variabilità temporale. Tutti questi straordinari risultati che Ixpe è già riuscito a ottenere nei pochi mesi da cui è entrato in attività sono alla base del prestigioso riconoscimento appena attribuito dall’American Astronomical Society.

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Paolo Soffitta (Inaf Iaps di Roma), coordinatore della Collaborazione scientifica dell’esperimento Ixpe. Crediti: Inaf/V. Muscella

«Ixpe è la dimostrazione di come una idea perseguita da più di trent’anni», dice Paolo Soffitta, ricercatore dell’Inaf, che coordina la Collaborazione scientifica dell’esperimento assieme a Martin Weisskopf, «si sia stata trasformata in una missione di successo grazie alla collaborazione tra Stati Uniti e Italia. Il team internazionale ha visto in Italia la sinergia tra Inaf, Infn e il partner industriale Ohb-Italia coordinati dall’ Agenzia spaziale italiana e le università di Roma Tre e Università di Padova. Il sistema di rivelazione sensibile alla polarizzazione è stato interamente concepito, sviluppato, assemblato testato e calibrato in Italia».

«Ixpe è l’ennesima dimostrazione della straordinaria cooperazione tra Nasa e Asi in missioni scientifiche di grande prestigio. Asi ha coordinato tutte la attività di sviluppo dei rivelatori innovativi a bordo di Ixpe», sottolinea Barbara Negri, responsabile dell’Unità volo umano e sperimentazione scientifica di Asi, «dalla fase di prototipizzazione a quella realizzativa, sulle cui tecnologie aveva già investito da diversi anni e ha contributo al software per l’analisi dei dati scientifici grazie allo Space Science Data Center. Inoltre, Asi partecipa alle attività di ground-segment, avendo messo a disposizione la base di Malindi, come stazione TT&C [telemetry, tracking, and sommand, ndr] primaria».

«Il premio Bruno Rossi rappresenta un importante riconoscimento internazionale del valore della ricerca italiana», conclude Luca Baldini, responsabile nazionale per l’Infn della missione Ixpe, «che dimostra ancora una volta la capacità di estendere gli orizzonti della conoscenza creando tecnologie fortemente innovative, in particolare, come Infn fornendo ad Ixpe i suoi occhi sensibili alla polarizzazione dei raggi X, i Gas Pixel Detector. Decisive per il successo della missione sono state non solo la visione della nuova tecnica impiegata per la cattura e la ricostruzione dei fotoni, ma anche l’esperienza e la determinazione di tutto il gruppo scientifico nella costruzione di telescopi per lo spazio altamente performanti e affidabili. Ixpe e i suoi straordinari risultati testimoniano l’eccellenza della scienza e delle tecnologie che l’Italia è in grado di realizzare».


Einstein Probe in volo per fare i raggi X al cosmo


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Infografica riassuntiva della missione Einstein Probe, partita il 9 gennaio dalla base spaziale cinese di Xichang, nella provincia di Sichuan. Crediti: Esa

È partita ieri, martedì 9 gennaio 2024, dal centro spaziale di Xichang, nella provincia di Sichuan, alle 08:03 del mattino ora italiana (le 15:03 ora locale), la missione Einstein Probe, una collaborazione fra l’accademia cinese delle scienze (Cas), L’Esa e il Max Planck Institute für Extraterrestrische Physik (Mpe) di Monaco di Baviera. Dopo il lancio, la sonda ha raggiunto la sua orbita a un’altitudine di circa 600 km, dalla quale compie una rivoluzione intorno alla Terra ogni 96 minuti con un’inclinazione orbitale di 29 gradi. Si tratta di un telescopio che osserva alle frequenze dei raggi X e questa configurazione orbitale gli consente di monitorare quasi l’intero cielo notturno in sole tre orbite.

L’universo ai raggi X è quello dei fenomeni più energetici, delle esplosioni di supernove, dei jet emessi dai buchi neri quando la materia cade al loro interno, e delle collisioni fra stelle di neutroni che generano onde gravitazionali. È anche il cielo delle esplosioni improvvise, dei cosiddetti eventi transienti, imprevedibili. Per questo è importante continuare a scandagliarlo, a guardare come evolve l’emissione associata a questi fenomeni e scoprire che succede quando nuove sorgenti di raggi X cominciano a brillare.

Per farlo, Einstein Probe è dotato di due strumenti: un telescopio a grande campo, il Wide-field X-ray telescope (Wxt), il cui scopo è proprio quello di monitorare il cielo alla ricerca di nuovi eventi e nuove sorgenti; e il Follow-up X-ray telescope (Fxt), che come dice il nome stesso si occuperà di prendere in carico le segnalazioni del primo strumento guardando con più attenzione, più alta risoluzione e maggior potere collettore, tutti gli oggetti celesti che varrà la pena approfondire.

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Crediti: Chinese Academy of Sciences

Wxt ha un design ottico modulare che sfrutta la tecnologia Lobster Eye (occhio di aragosta). L’ispirazione all’anatomia del crostaceo non è casuale, ed è particolarmente indicata per le osservazioni alle alte frequenze dei raggi X: per le aragoste, infatti, la visione non avviene tramite rifrazione da un cristallino, ma tramite riflessione della luce da migliaia di piccoli quadratini disposti su una superficie quasi sferica, verso la retina. Analogamente, il processo di focalizzazione nella banda dei raggi X avviene per riflessione replicando la visione a largo campo di questi crostacei. Questo consente allo strumento di osservare 3600 gradi quadrati (quasi un decimo della sfera celeste) in un solo puntamento e, come dicevamo all’inizio, scandagliare l’intero cielo notturno in tre orbite intorno alla Terra, in poco più di quattro ore e mezzo.

La sonda Einstein Probe, infine, trasmetterà un segnale di allarme per attivare altri telescopi sulla Terra e nello spazio che operano ad altre lunghezze d’onda (dalla radio ai raggi gamma). Questi punteranno rapidamente verso la nuova sorgente per raccogliere preziosi dati a più lunghezze d’onda, consentendo così uno studio più approfondito dell’evento. Si tratta di una pratica ormai consolidata in quella che viene definita “astronomia multimessaggera”, fondamentale per studiare quali processi fisici innescano l’emissione di energia e radiazione da parte di oggetti transienti e altamente energetici.

Nei prossimi sei mesi, il team di Einstein Probe sarà impegnato nei test e nella calibrazione degli strumenti. Dopo questa fase di preparazione, comincerà la fase scientifica in cui la sonda trascorrerà almeno tre anni osservando attentamente l’intero cielo a raggi X. L’Esa, come partner del progetto, ha partecipato ai test e alla calibrazione dei due telescopi a bordo, e ha sviluppato il gruppo di specchi di uno dei due telescopi di Fxt in collaborazione con Mpe e Media Lario (un’azienda italiana), e ha anche fornito il sistema per deviare gli elettroni indesiderati dai rivelatori (il deviatore di elettroni). Per tutta la durata della missione, poi, le stazioni di terra dell’Esa saranno utilizzate per aiutare a scaricare i dati dal veicolo spaziale. La ricompensa scientifica, per Esa, sarà l’accesso al 10% dei dati generati dalle osservazioni di Einstein Probe.


Buchi neri e stelle di neutroni dalle supernove


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Rappresentazione artistica di un oggetto compatto e della sua stella compagna. Crediti: Eso/L. Calçada

Scoperto un legame diretto tra la morte esplosiva delle stelle massicce e la formazione degli oggetti più compatti ed enigmatici dell’universo: i buchi neri e le stelle di neutroni. Con l’aiuto del Vlt (Very Large Telescope) e dell’Ntt (New Technology Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), due gruppi di ricerca hanno potuto osservare le conseguenze dell’esplosione di supernova in una galassia del nostro vicinato, trovando testimonianze del misterioso oggetto compatto lasciato dall’evento.

Quando le stelle massicce arrivano alla fine della propria vita, collassano sotto la loro stessa gravità così rapidamente che ne consegue una violenta esplosione, nota come supernova. Gli astronomi ritengono che, terminata l’agitazione conseguente all’esplosione, ciò che resta sia il nucleo ultradenso – o resto compatto – della stella. A seconda della massa della stella, il resto compatto sarà una stella di neutroni – un oggetto così denso che un cucchiaino del suo materiale peserebbe circa mille miliardi di chilogrammi, qui sulla Terra – o un buco nero – un oggetto da cui nulla, neppure la luce, può sfuggire.

Gli astronomi avevano già trovato nel passato molti indizi che suggeriscono questa catena di eventi, come la scoperta di una stella di neutroni all’interno della Nebulosa del Granchio, la nube di gas rimasta dopo l’esplosione di una stella quasi mille anni fa, ma non avevano mai visto prima d’ora questo processo in tempo reale, il che implica la mancanza di una prova diretta di una supernova che lascia dietro di sé un resto compatto. «Nel nostro lavoro stabiliamo questo collegamento diretto», dice Ping Chen, ricercatore presso il Weizmann Institute of Science, Israele, e autore principale di un articolo pubblicato oggi su Nature e presentato al 243° incontro dell’American Astronomical Society a New Orleans (Usa).

Il colpo di fortuna dei ricercatori è arrivato nel maggio 2022, quando l’astronomo dilettante sudafricano Berto Monard ha scoperto la supernova Sn 2022jli nel braccio a spirale della galassia del nostro vicinato Ngc 157, situata a 75 milioni di anni luce di distanza da noi. Due gruppi separati hanno rivolto la loro attenzione alle conseguenze di questa esplosione e ne hanno scoperto il comportamento singolare.

Dopo l’esplosione, la luminosità della maggior parte delle supernova si affievolisce con il tempo; gli astronomi vedono un declino graduale e continuo nella “curva di luce” dell’esplosione. Ma il comportamento di Sn 2022jli è molto peculiare: quando la luminosità complessiva diminuisce, non lo fa in modo continuo, ma oscilla invece su e giù ogni 12 giorni circa. «Vediamo nei dati di Sn 2022jli una sequenza ripetuta di aumento e diminuzione della luminosità», dice Thomas Moore, dottorando presso la Queen’s University di Belfast, Irlanda del Nord, che ha condotto uno studio sulla supernova pubblicato alla fine dello scorso anno sulla rivista The Astrophysical Journal. «È la prima volta che troviamo oscillazioni periodiche ripetute, su molti cicli, nella curva di luce di una supernova», nota Moore nel suo articolo.

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Questa rappresentazione artistica mostra il processo attraverso il quale una stella massiccia all’interno di un sistema binario diventa una supernova. La serie di eventi si è verificata nella supernova Sn 2022jli ed è stata rivelata per mezzo di osservazioni con on il Vlt (Very Large Telescope) e con l’Ntt (New Technology Telescope) dell’Eso. Dopo che una stella massiccia è esplosa come una supernova, ha lasciato dietro di sé un oggetto compatto: una stella di neutroni o un buco nero. La stella compagna è sopravvissuta all’esplosione, ma di conseguenza la sua atmosfera è diventata più gonfia del solito. L’oggetto compatto e la sua compagna hanno continuato a orbitare l’uno intorno all’altra, con l’oggetto compatto che rubava regolarmente materia dall’atmosfera rigonfia dell’altra. Questo accumulo di materia è stato visto nei dati ottenuti dai ricercatori come fluttuazioni regolari di luminosità e moti periodici di idrogeno gassoso. Crediti: Eso/L. Calçada

Sia il gruppo di Moore che quello di Chen ritengono che questo comportamento potrebbe essere spiegato dalla presenza di più di una stella nel sistema Sn 2022jli. In effetti, non è insolito che le stelle massicce siano in orbita insieme con una stella compagna in quello che è noto come sistema binario, e la stella che ha provocato Sn 2022jli non fa eccezione. Ciò che è notevole in questo sistema, tuttavia, è che sembra che la stella compagna sia sopravvissuta alla morte violenta dell’altra e che i due oggetti, il resto compatto e la compagna, abbiano continuato a orbitare l’uno intorno all’altro.

I dati raccolti dal gruppo di Moore, che includevano osservazioni con l’Ntt dell’Eso nel deserto di Atacama in Cile, non hanno permesso loro di definire esattamente come l’interazione tra i due oggetti abbia causato le variazioni nella curva di luce. Ma il gruppo di Chen ha realizzato ulteriori osservazioni. Hanno trovato nella luminosità in banda visibile del sistema le stesse fluttuazioni regolari che il team di Moore aveva rilevato e hanno anche individuato moti periodici di idrogeno gassoso ed esplosioni di raggi gamma nel sistema. Le loro osservazioni sono state possibili grazie a una flotta di strumenti a terra e nello spazio, incluso lo strumento X-shooter installato sul Vlt dell’Eso, anch’esso situato in Cile.

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Rappresentazione artistica di una stella in un sistema binario mentre esplode in supernova. Crediti:
Eso/L. Calçada

Mettendo insieme tutti gli indizi, i due gruppi in generale concordano sul fatto che quando la stella compagna ha interagito con il materiale espulso durante l’esplosione della supernova, la sua atmosfera ricca di idrogeno è diventata più gonfia del solito. Di conseguenza, l’oggetto compatto rimasto dopo l’esplosione sfrecciando attraverso l’atmosfera della compagna durante l’orbita le ruberebbe gas idrogeno, formando intorno a sé un disco caldo di materia. Questo furto periodico di materia, o accrescimento, produrrebbe molta energia, rilevata come cambiamenti regolari di luminosità nelle osservazioni.

Anche se i due gruppi non hanno potuto osservare la luce proveniente direttamente dall’oggetto compatto, hanno concluso che questo furto di energia può essere dovuto solo a una stella di neutroni invisibile, o forse a un buco nero, che risucchia materia dall’atmosfera gonfia della stella compagna. «La nostra ricerca è come risolvere un puzzle raccogliendo tutte le prove possibili», conclude Chen. «Tutti questi pezzi messi in ordine portano alla verità».

Nonostante la conferma della presenza di un buco nero o di una stella di neutroni, c’è ancora molto da svelare su questo sistema enigmatico, tra cui l’esatta natura dell’oggetto compatto o a quale fine potrebbe tendere questo sistema binario. I telescopi di prossima generazione come l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, la cui entrata in funzione è prevista per la fine di questo decennio, aiuteranno in questo senso, consentendo agli astronomi di rivelare dettagli senza precedenti di questo sistema unico.

Fonte: comunicato stampa Eso

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A 12.4-day periodicity in a close binary system after a supernova”, di Ping Chen, Avishay Gal-Yam, Jesper Sollerman, Steve Schulze, Richard S. Post, Chang Liu, Eran O. Ofek, Kaustav K. Das, Christoffer Fremling, Assaf Horesh, Boaz Katz, Doron Kushnir, Mansi M. Kasliwal, Shri R. Kulkarni, Dezi Liu, Xiangkun Liu, Adam A. Miller, Kovi Rose, Eli Waxman, Sheng Yang, Yuhan Yao, Barak Zackay, Eric C. Bellm, Richard Dekany, Andrew J. Drake, Yuan Fang, Johan P. U. Fynbo, Steven L. Groom, George Helou, Ido Irani, Theophile Jegou du Laz, Xiaowei Liu, Paolo A. Mazzali, James D. Neill, Yu-Jing Qin, Reed L. Riddle, Amir Sharon, Nora L. Strotjohann, Avery Wold e Lin Yan


Una Vela pulsar di nitidezza stratosferica


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Il pallone aerostatico al momento del decollo nei pressi di Alice Springs, in Australia. Crediti: Graine Collaboration

Una serie di pellicole a emulsione sensibile alla luce sono state impilate a strati e fatte volare a bordo di un pallone aerostatico a circa quaranta chilometri di quota sopra l’Australia, con lo scopo di rilevare e “fotografare” sorgenti di raggi gamma. La tecnica ingegnosa messa a punto da un team di ricercatori dell’università giapponese di Kobe ha combinato insieme il più classico metodo di cattura delle immagini – le pellicole fotografiche – con le più recenti tecniche di acquisizione dei dati e un dispositivo di registrazione del tempo. Il progetto si chiama Graine (Gamma-Ray Astro-Imager with Nuclear Emulsion) ed è stato pensato per l’osservazione ad alta risoluzione angolare di raggi γ cosmici di energia compresa tra i 10 MeV e i 100 GeV.

Lo scorso dicembre è stata pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal la prima immagine risultante dai dati degli esperimenti fatti con questo dispositivo: a confermare le sue prestazioni complessive di rilevazione e di imaging di una sorgente di raggi gamma è stata la pulsar delle Vele, immortalata con una precisione senza precedenti nella banda di frequenza a cui il rilevatore è sensibile.

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L’immagine della pulsar della Vela ottenuta grazie al dispositivo dell’università di Kobe. Il cerchio in basso a sinistra indica la dispersione dell’immagine della pulsar ottenuta con il nuovo sistema mentre il cerchio grande tratteggiato rappresenta la dispersione della migliore immagine a raggi gamma precedente di un oggetto stellare diverso. Crediti: Graine Collaboration

«Abbiamo catturato un totale di diverse migliaia di miliardi di tracce con una precisione di 0,0001 millimetri. Aggiungendo le informazioni temporali e combinandole con le informazioni di monitoraggio dell’assetto, siamo stati in grado di determinare quando e dove gli eventi hanno avuto origine con una tale precisione che la risoluzione risultante è stata più di quaranta volte superiore a quella dei telescopi di raggi gamma convenzionali», dice per riassumere i risultati ottenuti Shigeki Aoki dell’università di Kobe, autore dello studio.

Basandosi sull’elevata sensibilità delle pellicole usate e su un processo innovativo automatizzato ad alta velocità di estrazione dei dati da esse, l’idea dei ricercatori è stata quella di impilare una serie di pellicole così da poter ricostruire con precisione la traiettoria delle particelle prodotte dal raggio gamma al momento dell’impatto. Per ridurre le interferenze atmosferiche, la pila di pellicole è stata poi montata a bordo di un pallone aerostatico adatto alle misurazioni scientifiche fatto volare nella stratosfera, a una quota compresa tra i trentacinque e i quaranta chilometri.

Per poi stabilizzare le oscillazioni del dispositivo causate dal vento, è stata aggiunta una serie di telecamere per registrare l’orientamento rispetto alle stelle momento per momento. Quanto all’informazione temporale sugli eventi che impressionavano la pellicola, gli autori dell’esperimento hanno adottato una soluzione geniale: i tre strati inferiori della pellicola sono stati fatti muovere avanti e indietro a velocità regolari ma diverse tra loro, come le tre lancette di un orologio, in modo da ricostruire – dalla dislocazione relativa delle tracce in queste lastre inferiori – l’ora precisa dell’impatto e correlarla con le riprese delle telecamere.

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Una sezione della pellicola dopo lo sviluppo. Le tracce delle particelle prodotte dagli impatti dei raggi gamma sono visibili come piccoli punti grigiastri su tutto il piano. Crediti: Graine Collaboration

I dati da cui è stata ricavata l’immagine risalgono all’esperimento condotto nel 2018 ottenuti con tempi di esposizione di oltre diciassette ore, di cui quasi sette dedicate solo alla Vela. Un esperimento analogo era stato già fatto dallo stesso gruppo nel 2015, e rispetto alla volta precedente sono stati ottenuti miglioramenti significativi di un fattore 5 in termini di qualità dell’immagine, se si considerano l’aumento dell’area efficace per unità di tempo e la riduzione del contributo di fondo.

La nuova tecnica osservativa aprirebbe la possibilità di catturare molti più dettagli in questa banda di frequenza della luce rispetto al passato. «Con questo metodo possiamo tentare di contribuire a molte aree dell’astrofisica», conclude Aoki, «e in particolare di sviluppare le possibilità del nostro telescopio a raggi gamma all’astronomia multi-messaggera, dove sono necessarie misure simultanee dello stesso evento catturato con tecniche diverse».

Per saperne di più:


  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo First Emulsion γ-Ray Telescope Imaging of the Vela Pulsar by the GRAINE 2018 Balloon-borne Experiment” di S. Takahashi, S. Aoki, A. Iyono, A. Karasuno, K. Kodama, R. Komatani, M. Komatsu, M. Komiyama, K. Kuretsubo, T. Marushima, S. Matsuda, K. Morishima, M. Morishita, N. Naganawa, M. Nakamura, M. Nakamura, T. Nakamura, Y. Nakamura, N. Nakano, T. Nakano, K. Nakazawa, A. Nishio, M. Oda, H. Rokuj, O. Sato, K. Sugimura, A. Suzuki, M. Torii, S. Yamamoto e M. Yoshimoto


Al via le analisi dei frammenti dell’asteroide Ryugu


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Ernesto Palomba (Inaf Iaps Roma) al laboratorio di luce di sincrotrone Dafne con la scatola contenente i grani dell’asteroide. Crediti: Infn Lnf

I due grani a disposizione del gruppo di ricerca sono denominati C0242 (del peso di 0,7 milligrammi e lunghezza di 1,712 millimetri) e A0226 (pesante 1,9 milligrammi e lunghezza di 2,288 millimetri). Ciascun grano è posto all’interno di un particolare recipiente di acciaio riempito di azoto, il cui scopo è sia di preservare il grano evitando contaminazioni dovute alle polveri e al vapore d’acqua presenti nell’ambiente, sia di permettere un trasporto sicuro. Per rendere onore alla cultura giapponese, il team italiano ha deciso di assegnare un nome ai due grani attingendo alla tradizione degli Anime, in particolare le opere dello studio Ghibli con il suo creatore Hayao Miyazaki. I nomi sono stati scelti guardando sia alla forma (A0226-Totoro) dal film Il mio vicino Totoro, sia al compito di Hayabusa-2 di spedire a Terra campioni extraterrestri (C0242-Kiki) dal film Kiki – Consegne a domicilio.

Le prime indagini di spettroscopia nell’infrarosso prendono il via presso il laboratorio di luce di sincrotrone Dafne Luce dei Laboratori nazionali di Frascati dell’Infn, sfruttando così la luce prodotta dall’acceleratore di particelle dei laboratori, Dafne. E, per preservare al meglio i due frammenti di asteroide, i ricercatori hanno ideato e realizzato delle attrezzature speciali. «Per la prima volta apriremo i contenitori dove sono contenuti in atmosfera protetta per poter fare le prime analisi spettroscopiche nell’infrarosso. In questi mesi abbiamo messo a punto dei portacampioni “universali” in grado di poter tener fermo ciascuno dei due frammenti per tutta la durata delle analisi, che durerà alcuni mesi», spiega Ernesto Palomba, ricercatore Inaf e professore presso l’Università “Federico II” di Napoli, che coordina le operazioni di analisi. «Le tecniche e gli strumenti che abbiamo progettato e realizzato permetteranno di analizzare i campioni preservandoli dalla contaminazione dell’atmosfera terrestre che li danneggerebbe irreversibilmente, cancellando informazioni preziose per capire i meccanismi di formazione ed evoluzione del nostro Sistema solare e dei corpi che lo abitano, compresa la nostra Terra».

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Il portacampioni (a destra) con all’interno i due grani sotto al microscopio infrarosso. Crediti: Infn Lnf

Con le prime analisi il gruppo di ricerca si focalizzerà sullo studio della mineralogia, della materia organica e dell’acqua presente in questi campioni per ottenere le prime informazioni da questi veri e propri fossili del Sistema solare, che risalirebbero proprio alle primissime fasi di formazione del nostro sistema planetario, ovvero circa quattro miliardi di anni fa.

«La luce di sincrotrone di Dafne consentirà di analizzare in modo totalmente non distruttivo i micro-frammenti dei minerali contenuti nei grani dell’asteroide Ryugu. Le analisi verranno svolte utilizzando un rivelatore per imaging nel medio infrarosso e consentiranno di evidenziare una eventuale presenza di tracce di materiale organico, fornendo importanti informazioni sulle interazioni fisico-chimiche tra molecole organiche e minerali che potrebbero aver avuto un ruolo nell’origine della vita sulla Terra o in altri corpi del Sistema solare», spiega Mariangela Cestelli Guidi, ricercatrice Infn, responsabile della linea di luce di sincrotrone nell’infrarosso del Laboratorio Dafne Luce.

Le analisi dei campioni a Frascati si protrarranno per circa due settimane. Poi i grani di Ryugu verranno trasportati all’Università di Firenze per ulteriori indagini volte ad ottenere maggiori informazioni sulla storia di questi campioni.

«I grani di Ryugu arriveranno a Firenze entro un mese e vi rimarranno per circa sei settimane», sottolinea Giovanni Pratesi, docente di mineralogia planetaria all’Università di Firenze e leader del gruppo di ricerca Unifi. «L’obiettivo di queste ulteriori indagini è quello di caratterizzare la morfologia e la composizione chimica della superficie dei frammenti, cosa che ci permetterà di avere informazioni preziose per aiutarci a ricostruire la storia di questo asteroide ma anche del nostro Sistema solare».

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Le millecinquecento supernove Ia di Des


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Un esempio di supernova scoperta dalla Dark Energy Survey nel campo coperto da uno dei singoli rivelatori della Dark Energy Camera. La supernova è esplosa in una galassia a spirale con redshift 0,04528 che corrisponde a un tempo di viaggio della luce di circa 0,6 miliardi di anni. In confronto, il quasar sulla destra ha un redshift di 3,979 e un tempo di viaggio della luce di 11,5 miliardi di anni. Crediti: Collaborazione Des/NoirLab/Nsf/Aura/M. Zamani

Nel 1998 due gruppi distinti di astrofisici, utilizzando i telescopi dell’Osservatorio di Cerro Tololo (Ctio) e dell’Osservatorio nazionale di Kitt Peak della National Science Foundation (Nsf) degli Stati Uniti, entrambi programmi del NoirLab della Nsf, hanno scoperto che l’universo si sta espandendo a un ritmo accelerato. Questo fenomeno è attribuito a una misteriosa entità chiamata energia oscura che costituisce circa il 70% dell’universo. La scoperta è stata una sorpresa per gli astrofisici che, all’epoca, si aspettavano un rallentamento dell’espansione dell’universo.

Questa scoperta rivoluzionaria è stata ottenuta grazie alle osservazioni di una particolare classe di stelle che esplodono, chiamate supernove di tipo Ia, ed è stata premiata con il Premio Nobel per la Fisica nel 2011.

Ora, 25 anni dopo la scoperta, gli scienziati che lavorano alla Dark Energy Survey (Des) hanno reso noti i risultati di un’analisi senza precedenti che utilizza la stessa tecnica per sondare i misteri dell’energia oscura e porre i vincoli più stringenti di sempre sulla storia dell’espansione dell’universo. In una presentazione al 243° meeting dell’American Astronomical Society tenutasi l’8 gennaio 2024, e in un articolo sottomesso su Astrophysical Journal, gli astrofisici riportano risultati coerenti con il modello cosmologico standard di un universo in espansione accelerata, ma non tali da escludere un modello forse più complesso.

Il Des è una collaborazione internazionale che comprende più di 400 scienziati di oltre 25 istituzioni, guidata dal Fermi National Accelerator Laboratory (Fermilab) del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che per le sue indagini utilizza la Dark Energy Camera (DeCam), una fotocamera digitale da 570 megapixel costruita dal Fermilab e montata sul telescopio Víctor M. Blanco del Ctio, in Cile. Grazie all’acquisizione di dati avvenuta durante 758 notti nell’arco di sei anni, gli scienziati del Des hanno mappato un’area pari a quasi un ottavo dell’intero cielo.

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La storia dell’espansione dell’universo può essere tracciata confrontando le velocità di recessione (redshift) con le distanze determinate per ogni supernova. Il risultato della Dark Energy Survey mostra che l’espansione è stata accelerata con il tempo cosmico, la firma dell’energia oscura. Crediti: Collaborazione Des

Tra le osservazioni di circa due milioni di galassie lontane, gli scienziati hanno trovato diverse migliaia di supernove, rendendo questo campione il più grande e profondo mai ottenuto da un singolo telescopio. I ricercatori del Des hanno poi utilizzato tecniche avanzate di apprendimento automatico per classificare tali supernove e setacciare il campione in un set di dati uniforme di alta qualità con 1499 probabili supernove di tipo Ia, triplicando così il numero di supernove Ia osservate oltre un redshift di 0,2 e quintuplicando il numero oltre un redshift di 0,5. «Si tratta di un aumento davvero imponente rispetto a 25 anni fa, quando per dedurre l’energia oscura si utilizzavano solo 52 supernove», dichiara Tamara Davis, docente presso l’Università del Queensland in Australia. Questo ampio campione di supernove, che copre una vasta gamma di distanze, può essere utilizzato per tracciare la storia dell’espansione cosmica. Per ogni supernova, gli scienziati del Des correlano la sua distanza con la misura del suo redshift, ossia la velocità con cui si allontana dalla Terra a causa dell’espansione dell’universo. Insieme, questi due fattori permettono di capire se la densità di energia oscura nell’universo è rimasta costante o è cambiata nel tempo.

«Quando l’universo si espande, la densità di materia diminuisce», spiega il direttore e portavoce del Des Rich Kron, scienziato del Fermilab e dell’Università di Chicago. «Ma se la densità di energia oscura è costante, significa che la percentuale totale di energia oscura deve aumentare con l’aumentare del volume».

Il Modello cosmologico standard, noto come ΛCDM, descrive l’evoluzione dell’universo utilizzando solo alcune caratteristiche come la densità della materia, il tipo di materia e il comportamento dell’energia oscura. Mentre il ΛCDM presuppone che la densità dell’energia oscura nell’universo sia costante nel tempo e non diminuisca con l’espansione dell’universo, i risultati della Des Supernova Survey suggeriscono che ciò potrebbe non essere vero.

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Redshift è il termine usato per descrivere l’allungamento delle lunghezze d’onda della luce di un oggetto come risultato dell’espansione dell’universo; maggiore è la distanza dell’oggetto, maggiore è il redshift. La storia dettagliata dell’espansione dell’universo è determinata da una relazione precisa tra le distanze delle galassie – o delle supernove – e i loro redshift. Crediti: Collaborazione Des

I risultati sono stati ottenuti combinando i dati Des con quelli complementari del telescopio Planck dell’Agenzia Spaziale Europea. Un risultato intrigante di questa indagine è che per la prima volta è stato misurato un numero sufficiente di supernove lontane per effettuare una misurazione altamente dettagliata della fase di decelerazione dell’universo e per vedere dove l’universo passa dalla decelerazione all’accelerazione. I risultati sono coerenti con l’ipotesi di una energia oscura a densità constante nell’universo, ma lasciano aperta una strada alla sua eventuale variazione nel tempo.

Le tecniche innovative di cui il Des è stato pioniere daranno forma e impulso alle future analisi astrofisiche. Progetti come l’imminente Legacy Survey of Space and Time (Lsst) – che sarà condotto dal Vera C. Rubin Observatory, gestito congiuntamente dal NoirLab della Nsf e dallo Slac National Accelerator Laboratory del Doe – nonché il Nancy Grace Roman Space Telescope della Nasa, riprenderanno da dove il Des ha lasciato. «Stiamo sperimentando tecniche che saranno direttamente utili per la prossima generazione di survey sulle supernove», dichiara Kron.

«Questo risultato dimostra chiaramente il valore dei progetti di survey astronomiche che continuano a produrre scienza eccellente anche dopo la fine della raccolta dei dati», conclude Nigel Sharp, direttore del programma della Divisione Scienze Astronomiche della Nsf. «Abbiamo bisogno del maggior numero possibile di approcci diversi per capire cosa sia e cosa non sia l’energia oscura. Questa è una strada importante per la comprensione».

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Doppia esplosione nella Grande Nube di Magellano


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Il quadro che vedete qui dipinto è una regione di formazione stellare dove da circa 8-10 milioni di anni nuove stelle nascono continuamente. Potreste immaginare di vederla volgendo il vostro sguardo verso la Grande Nube di Magellano, e potendovi spingere fino a circa 160mila anni luce dalla Terra. Non la vedreste proprio così, comunque, perché i colori che compongono questa immagine colgono alcune lunghezze d’onda interdette alla vista umana. La nube color viola che avvolge tutta la regione, ad esempio, è stata vista ai raggi X dal telescopio spaziale Chandra. Si tratta di gas surriscaldato ad altissima energia e temperatura, proveniente da un fenomeno astrofisico molto energetico come l’esplosione di una supernova. Si estende per circa 130 anni luce, un’area considerevole se pensiamo che Proxima Centauri, la stella più vicina al Sole, si trova ad appena 4 anni luce.

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Immagine della regione di formazione stellare 30 Dor B nella Grande Nube di Magellano, ottenuta dalla sovrapposizione dei dati raccolti nei raggi X da Chandra, dei dati ottici del telescopio di 4m Blanco in Cile e di Hubble, e dei dati infrarossi del satellite Spitzer. Crediti: raggi X: Nasa/Cxc/Penn State Univ./L. Townsley et al.; ottico: Nasa/Stsci/Hst; infrarosso: Nasa/Jpl/Caltech/Sst; processing dell’immagine: Nasa/Cxc/Sao/J. Schmidt, N. Wolk, K. Arcand

Per costruire quest’immagine gli autori di un articolo pubblicato su The Astronomical Journal hanno usato oltre due milioni di secondi di osservazione del telescopio spaziale Chandra, puntandolo verso un resto di supernova noto come 30 Doradus B (30 Dor B). Si tratta, più precisamente, di una pulsar, una stella di neutroni rotante che emette radiazione elettromagnetica in un cono ristretto come una sorta di faro. La rilevazione ai raggi X (in viola) è stata poi sovrapposta ai dati ottici del telescopio Blanco di 4 metri in Cile (arancione e azzurro) e ai dati a infrarossi del telescopio spaziale Spitzer della Nasa (in rosso). Infine, sono stati aggiunti anche i dati ottici del telescopio spaziale Hubble della Nasa in bianco e nero per evidenziare più nitidamente alcune caratteristiche dell’immagine.

Non si tratta però di una semplice composizione “artistica”. Grazie alla combinazione di più lunghezze d’onda, gli autori dello studio hanno realizzato che nessuna singola esplosione di supernova potrebbe spiegare quanto osservato. La pulsar 30 Dor B, infatti, risultato dell’esplosione di una supernova dal collasso di una stella massiccia circa 5 mila anni fa, sarebbe responsabile di un’emissione brillante ai raggi X confinata al centro della regione. Il guscio più grande e debole osservato ai raggi X, invece, sarebbe troppo esteso per essere stato generato così recentemente, e potrebbe invece essere stato generato da una seconda esplosione di supernova precedente. L’intervallo di tempo che abbiamo citato all’inizio, 10 milioni di anni, infatti, corrisponde a un tempo di vita sufficiente affinché stelle molto massicce concludano il loro ciclo di vita (molto più breve rispetto alle stelle di media e piccola massa) per generare esplosioni estreme come quelle avvenute in questa regione. Proprio in virtù di questo, gli astronomi usano l’emissione generata dall’esplosione delle supernove in seguito alla morte di stelle massicce per calcolare il tasso di formazione stellare recente delle galassie, ovvero quante nuove stelle stanno formando, in media, anno dopo anno. La nostra galassia, la Via Lattea, ad esempio, forma circa l’equivalente in massa di 3 stelle simili al Sole ogni anno. E non è un caso, infatti, se la regione in cui si trova 30 Dor B, nota anche come Nebulosa della Tarantola, sia considerata la più grande regione di formazione stellare nel Gruppo Locale al quale appartiene anche la Via Lattea.

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Urano e Nettuno senza fotoritocchi


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Confronto tra le prime immagini di Urano e Nettuno ricostruite a partire dalle immagini della sonda Voyager 2, rispettivamente nel 1986 e nel 1989, che mostrano Urano di colore verde-blu pallido e Nettuno blu scuro. Mentre queste prime immagini di Urano erano vicine al colore “vero”, le immagini di Nettuno erano in realtà distorte e migliorate. Sotto, le ricostruzioni più recenti dei colori reali di questi pianeti, che mostrano colori più simili tra loro. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Björn Jónsson.

Le immagini iconiche di Urano colorato di verde pallido e di Nettuno di un profondo color blu hanno catturato la nostra immaginazione per anni. Eppure i colori che abbiamo sempre associato ai due gemelli gassosi del nostro Sistema solare – entrambi freddi, fatti in parte da gas e in parte da ghiaccio e con composizioni chimiche e masse non troppo diverse – sono “sbagliati”. La smentita arriva dall’Università di Oxford, in Inghilterra: i due giganti ghiacciati sono molto più simili nel colore di quanto si credesse comunemente.

«I see your true colors shining through», vedo i tuoi veri colori brillare, avrebbe potuto a questo punto cantare Cindy Lauper. La corretta tonalità dei pianeti è stata confermata da uno studio, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, condotto da Patrick Irwin (Università di Oxford) e il suo team con i dati ottenuti dallo strumento Stis (Space Telescope Imaging Spectrograph) del telescopio spaziale Hubble e dal Multi Unit Spectroscopic Explorer (Muse) del Very Large Telescope dello European Southern Observatory. Gli scienziati, già da tempo consapevoli che la maggior parte delle immagini dei due pianeti non riflettono accuratamente i veri colori, hanno ora scoperto che entrambi i mondi hanno una tonalità simile di blu verdastro, contrariamente alla convinzione comune che Nettuno sia di un azzurro-blu intenso e Urano abbia un aspetto ciano pallido.

L’errore sui colori dei due pianeti deriva dalle immagini acquisite nel corso del XX secolo – comprese quelle della missione Voyager 2 della Nasa, l’unica sonda che abbia sorvolato questi mondi da vicino – registrate con colori separati, e solo in un secondo tempo combinate per produrre immagini composite a colori. Le immagini finali, però, non sempre sono state accuratamente bilanciate per ottenere un’immagine a colori “vera”. Non solo: il contrasto delle prime immagini di Nettuno era stato fortemente potenziato per rivelare meglio le nubi, le bande e i venti e comprendere meglio la struttura del pianeta. «Se le note immagini di Urano dalla sonda Voyager 2 sono state pubblicate in una versione più vicina al colore reale, quelle di Nettuno sono state, di fatto, distorte e migliorate, rendendole artificialmente “troppo blu”», spiega Irwin. «E se la colorazione artificialmente satura era un fatto all’epoca ben noto tra gli scienziati planetari – le immagini furono pubblicate con didascalie apposite –, la distinzione [tra “reale” e “ricostruito”, ndr] si è persa nel tempo».

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Per ottenere una rappresentazione più accurata possibile dei colori dei due pianeti, gli autori del nuovo studio hanno utilizzato i dati di Stis e Muse, strumenti in cui per ogni pixel c’è uno spettro continuo di colori, consentendo dunque un’elaborazione senza ambiguità. Le osservazioni così ottenute hanno consentito di ricalibrare le immagini composite a colori registrate dalla fotocamera del Voyager 2 e dalla Wide Field Camera 3 del telescopio spaziale Hubble. «Applicando il nostro modello ai dati originali», dice Irwin, «siamo stati in grado di ricostituire la rappresentazione più accurata mai ottenuta del colore di Nettuno e di Urano». I due pianeti hanno una tonalità di blu verdastro piuttosto simile, tranne che per un leggero accenno di blu aggiuntivo su Nettuno dovuto, secondo il modello, al suo strato di foschia più sottile.

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Illustrazione della sonda Voyager sovrapposta a un’immagine di Nettuno scattata da Voyager 2 meno di cinque giorni prima dell’avvicinamento della sonda al pianeta, il 25 agosto 1989. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

La ricerca ha anche gettato luce su un antico mistero: perché il colore di Urano cambia, seppur leggermente, durante la sua orbita di 84 anni intorno al Sole? Secondo varie misurazioni, infatti, Urano appare un po’ più verde ai solstizi – cioè in estate e in inverno, quando uno dei poli del pianeta è puntato verso la nostra stella – mentre durante gli equinozi – quando il Sole si trova sopra l’equatore – ha una sfumatura più tendente verso il blu. Sappiamo che ciò è dovuto, in parte, al fatto che Urano ha una rotazione molto insolita: nel corso della sua rivoluzione attorno al Sole, ruota quasi su un fianco, il che significa che durante i solstizi il polo nord o il polo sud del pianeta puntano quasi direttamente verso il Sole e la Terra, e ciò influenza la riflettanza della sua superficie – e quindi il colore a noi visibile.

Gli autori dello studio, dopo aver confrontato le immagini del gigante di ghiaccio con le misurazioni della sua luminosità registrate dall’Osservatorio Lowell, in Arizona, tra il 1950 e il 2016, sono giunti alla conclusione che qualsiasi cambiamento nella riflettanza delle regioni polari può avere un forte impatto sulla luminosità complessiva di Urano quando viene osservato dal nostro pianeta. Il modello sviluppato dagli scienziati ha rivelato, uin particolare, che le regioni polari di Urano sono più riflettenti nelle lunghezze d’onda verde e rossa rispetto a quelle blu, principalmente a causa della diversa abbondanza di metano. Tuttavia, questo non basta per spiegare completamente i motivi del cambiamento di colore. Gli scienziati hanno aggiunto, quindi, al modello di confronto gli spettri delle regioni polari ed equatoriali di Urano un nuovo parametro: una “cappa” di nebbia ghiacciata che si addensa e gradualmente diventa più spessa, osservata in precedenza sul polo estivo illuminato dal Sole mentre il pianeta si sposta dall’equinozio al solstizio. Questa cappa, composta probabilmente da particelle di ghiaccio di metano, aumenterebbe la rilfettanza nelle lunghezze d’onda verdi e rosse, spiegando così il colore più verde di Urano durante i solstizi. «Questo è il primo studio che abbina un modello quantitativo ai dati di imaging per spiegare perché il colore di Urano cambia durante la sua orbita», sottolinaa Irwin. «In questo modo, abbiamo dimostrato che Urano è più verde al solstizio perché le regioni polari hanno una ridotta abbondanza di metano, ma anche un maggiore spessore di particelle di ghiaccio di metano che diffondono la luce».

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Urano visto dallo strumento Wfc3 del telescopio Hubble nel periodo 2015-2022. Durante questa sequenza il polo nord, che ha un colore verde più chiaro, si gira verso il Sole e la Terra. In queste immagini sono evidenziate le linee dell’equatore e le linee di latitudine a 35N e 35S. Crediti: Oxford University Press.

«L’errata percezione del colore di Nettuno e gli insoliti cambiamenti di colore di Urano ci hanno tormentato per decenni. Questo studio dovrebbe finalmente mettere a tacere entrambe le questioni», dice Heidi Hammel, ricercatrice di Aura che ha trascorso decenni a studiare i due i due giganti di ghiaccio, destinazione agognata sin dagli anni Ottanta per missioni di esplorazione robotica.

«Una missione per esplorare il sistema uraniano – dalla sua bizzarra atmosfera stagionale, alla sua variegata collezione di anelli e lune – è una priorità assoluta per le agenzie spaziali nei prossimi decenni», ricorda Leigh Fletcher, scienziato planetario dell’Università di Leicester, coautore dello studio. Tuttavia, anche un esploratore planetario di lunga durata, in orbita intorno a Urano, riuscirebbe a catturare solo una breve istantanea di un anno uraniano. «Studi da Terra come questo, che cercano di spiegare come l’aspetto e il colore del pianeta siano cambiati nel corso dei decenni in risposta alle stagioni più bizzarre del Sistema solare, rimangono quindi di primaria importanza per collocare le scoperte delle future missioni in un contesto più ampio».

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Sn 1987A, un resto di supernova per Xrism


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Spettro sintetico Xrism di Sn 1987A ottenuto nello studio di Speranza et al. Lo spettro bianco comprende tutte le componenti fisiche e dinamiche considerate nello studio. Lo spettro blu, spostato verso l’alto per migliorare la visualizzazione, non include gli effetti derivanti dalla dinamica del materiale e alcuni effetti strumentali. Le curve azzurra e verde più in basso rappresentano rispettivamente lo spettro generato dal mezzo circumstellare investito dall’onda d’urto e il contributo degli ejecta. L’immagine sullo sfondo mostra Sn 1987A vista in raggi X dal telescopio spaziale Chandra della Nasa. Crediti: Speranza et al., ApJL, 2024; Nasa/Cxc/Psu/S.Park e D.Burrows

Sn 1987A è uno degli oggetti più importanti nello studio delle supernove e dei resti di supernova. Si tratta infatti dell’unica esplosione di supernova per collasso del nucleo (core-collapse supernova) avvenuta a distanze relativamente vicine – circa 170mila anni luce, nella Grande Nube di Magellano – in epoca moderna. È l’unico evento nell’universo per il quale disponiamo di osservazioni dirette tramite telescopio della stella progenitrice, della supernova stessa e del resto di supernova. Sn 1987A viene inoltre costantemente monitorato in diverse bande dello spettro elettromagnetico per osservarne e studiarne l’evoluzione.

La produzione di emissione di raggi X risulta particolarmente interessante poiché consente di seguire l’evoluzione dei fenomeni ad alta energia del materiale investito dalle onde d’urto in Sn 1987A. Sei mesi dopo l’esplosione (avvenuta il 23 febbraio 1987), l’emissione di raggi X ad alta energia (10-30 keV) è stata individuata grazie alle osservazioni effettuate con il satellite per osservazioni ai raggi X Ginga. Poco più di quattro anni dopo l’esplosione, osservazioni condotte con il satellite Rosat hanno permesso di individuare emissione di raggi X a energia più bassa (0.1-2.4 keV).

Complessivamente, nel corso degli anni, l’emissione di raggi X da Sn 1987A è sempre aumentata, anche se negli ultimi anni si è notata una diminuzione nell’emissione di raggi X nella banda a energia più bassa. Dettagliate simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali, sviluppate dagli astronomi dell’Inaf di Palermo per riprodurre l’evoluzione complessiva del resto di supernova, hanno dimostrato che l’evoluzione di Sn 1987A si può dividere in tre distinti momenti: in una prima fase, l’emissione di raggi X era dominata dalla nube di gas attorno alla progenitrice, investita dall’onda d’urto generata dalla supernova; in una seconda fase, l’onda d’urto ha raggiunto una densa nube circumstellare, formata dalla stella durante i suoi ultimi stadi evolutivi, caratterizzata da una morfologia ad anello. In una terza fase, ci si aspetta di osservare l’emissione derivante dai frammenti espulsi dalla supernova (gli ejecta), colpiti dall’onda d’urto inversa generata dalla riflessione dell’onda d’urto sul mezzo circumstellare denso.

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Questo spettro del resto di supernova N132D, ottenuto con lo strumento Resolve di Xrism, ben esemplifica le potenzialità del telescopio spaziale X giapponese per l’osservazione spettroscopica di questo tipo di oggetti. Crediti: Jaxa/Nasa/Xrism Resolve and Xtend

Sn 1987A sarà oggetto di osservazioni tramite il satellite Xrism dell’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa) e della Nasa. Grazie al suo spettrografo rivoluzionario ad altissima risoluzione spettrale, Xrism consentirà di risolvere i contributi di emissione legati ai diversi elementi chimici presenti in Sn 1987A e alle sue varie componenti dinamiche con una precisione senza precedenti.

Per preparare la comunità scientifica alle innovative osservazioni di Sn 1987A che compierà Xrism, un team guidato da Vincenzo Sapienza (Università di Palermo e Osservatorio astronomico Inaf di Palermo) ha sintetizzato osservazioni spettroscopiche di circa 28 ore con Xrism (la stessa durata dell’osservazione pianificate come parte della fase di performance verification), basandosi sui modelli esistenti di Sn 1987A. Come previsto, i risultati sono sorprendenti: Xrism sarà in grado di risolvere l’allargamento delle righe spettrali, prodotte da ioni di elementi pesanti come silicio e magnesio altamente ionizzati, a causa dell’effetto Doppler indotto dal movimento degli ejecta all’interno del resto di supernova con velocità superiori ai 3000 km/sec. Inoltre, come previsto dai modelli, sarà possibile per la prima volta osservare l’emissione di raggi X prodotta dagli ejecta.

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Vincenzo Speranza, ricercatore all’Università di Palermo e primo autore dello studio in uscita su ApJL

«La supernova 1987A, è una fonte di studio senza precedenti per comprendere l’evoluzione delle esplosioni di supernova data la sua giovinezza. Il mio lavoro sulla sintesi degli spettri dello strumento Xrism-Resolve rappresenta un importante sforzo propedeutico alle future osservazioni di questo resto di supernova», dice Sapienza a Media Inaf. «Questa ricerca è stata frutto di uno sforzo congiunto tra il nostro gruppo di ricerca – del quale fa parte, oltre agli astronomi dell’Inaf di Palermo, anche un ampio gruppo di ricercatori giapponesi – è all’avanguardia nello sviluppo di simulazioni magneto-idrodinamiche nel campo dei resti di supernova e sulla sintesi, da questi, di spettri che simulano le osservazioni che il telescopio Xrism sta conducendo. D’altro canto sono stato assistito nel lavoro di sintesi dai nostri collaboratori giapponesi, che mi hanno ospitato all’Università di Tokyo per svolgere questo lavoro a contatto con gli scienziati che hanno realizzato il telescopio Xrism. Siamo così riusciti a sintetizzare lo spettro X di Sn 1987A come verrebbe osservato dallo spettrometro ad alta risoluzione Xrism-Resolve nel 2024. Le previsioni mostrano che le linee di emissione saranno fortemente influenzate dagli ejecta, con uno profilo di emissione ampio e articolato dovuto al loro rapido movimento lungo la linea di vista. Il confronto tra questi spettri sintetici e quelli osservati dalle future osservazioni Xrism ci permetterà di rivelare chiaramente la presenza degli ejecta cosiddetti “shockati” e di avere una comprensione più approfondita sulla loro dinamica e composizione chimica».

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La stretta dell’ossigeno sulle tecnovite


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Coniato dagli astrofisici Amedeo Balbi e Adam Frank, il “collo di bottiglia dell’ossigeno” descrive la concentrazione atmosferica della molecola sotto la quale è improbabile che una specie diventi tecnologica. Crediti: University of Rochester / Michael Osadciw

Se oggi il nostro pianeta pullula di forme di vita complesse e intelligenti lo dobbiamo senz’ombra di dubbio all’ossigeno, la molecola della vita per antonomasia. Dai livelli di ossigeno nell’atmosfera terrestre è dipeso infatti l’emergere della multi-cellularità e la comparsa e lo sviluppo della vita animale. C’è, dunque, un legame diretto tra ossigeno e vita.

L’ossigeno sulla Terra è stato fondamentale però anche per un altro motivo, forse meno ovvio ma altrettanto importante, che ha portato all’affermazione stessa della civiltà: la comparsa della tecnologia. L’ossigeno è indispensabile per la combustione. La sua disponibilità ha permesso ai nostri antenati di accendere fuochi e di utilizzarli come fonte di energia, fino alla rivoluzione industriale e oltre, attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie.

Oltre che un legame tra ossigeno e vita, esiste dunque un legame tra ossigeno e sviluppo ed evoluzione di specie tecnologiche. E poiché dalla produzione di tecnologie, come ad esempio i radiotelescopi, dipende anche la nostra capacità di comunicare a distanze interstellari, ne consegue che, per estensione, esiste un legame tra l’ossigeno e la nostra capacità di inviare segnali altrove nell’universo.

Proprio la relazione tra ossigeno, sviluppo di tecnologie avanzate e capacità di produrre tecnofirme è l’oggetto di uno studio pubblicato il 28 dicembre scorso su Nature Astronomy. Gli autori della pubblicazione sono due. Uno è Adam Frank, professore di fisica e astronomia all’Università di Rochester, negli Usa. L’altro è Amedeo Balbi, professore associato all’Università di Roma Tor Vergata, scrittore e divulgatore scientifico. Lo abbiamo intervistato.

Prima di entrare nel merito della pubblicazione, chiariamo il significato di due termini ricorrenti, utili a comprendere l’essenza dello studio: tecnofirme e tecnosfere. Di cosa si tratta?

«Le tecnofirme, come suggerisce il nome, sono tracce prodotte da forme di vita in grado di alterare l’ambiente planetario attraverso la tecnologia. Un esempio ovvio sono i segnali radio usati per le telecomunicazioni, ma l’insieme delle possibilità è molto più ampio e include, ad esempio, l’inquinamento atmosferico, l’illuminazione artificiale nell’emisfero notturno di un pianeta, e così via. L’insieme di tutte queste alterazioni costituisce la tecnosfera, che in pratica è un’estensione del concetto di biosfera».

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Amedeo Balbi, professore associato di astronomia e astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, co-autore dello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: A. Balbi

Il protagonista del vostro studio è l’ossigeno. Nei primi paragrafi della pubblicazione parlate della storia della molecola nell’atmosfera. Successivamente, passate in rassegna i suoi ruoli nella biologia, arrivando a mettere in relazione i livelli di ossigeno atmosferico, le dimensioni degli organismi viventi e l’ascesa di specie tecnologiche. È davvero così importante, l’ossigeno?

«Nel nostro articolo partiamo da un’idea ampiamente condivisa in astrobiologia, ovvero che la disponibilità di ossigeno sia un ingrediente essenziale per lo sviluppo della vita complessa. La respirazione aerobica, cioè basata sull’ossigeno, è stata determinante per apportare l’energia indispensabile all’evoluzione degli organismi multicellulari sul nostro pianeta. La chimica ci dice che questo meccanismo sarebbe il più efficiente anche su altri pianeti, perché nella tavola periodica non esistono elementi altrettanto vantaggiosi dell’ossigeno, in termini energetici, nelle reazioni di interesse biologico. Inoltre, l’aumento della concentrazione di ossigeno nell’atmosfera si è accompagnato allo sviluppo di organismi sempre più grandi. Di fatto, la vita animale così come la conosciamo non sarebbe possibile senza alti livelli di ossigeno atmosferico. L’uso di strumenti tecnologici, inoltre, richiede non solo cervelli sufficientemente grandi ma anche una certa taglia fisica: entrambe le cose necessitano di alte concentrazioni di ossigeno».

Quali sono le concentrazioni d’ossigeno utili a raggiungere le dimensioni minime necessarie allo sviluppo di organismi capaci di produrre tecnologie sofisticate?

«Si possono avere singole cellule anche a concentrazioni inferiori all’1 per cento, ma per avere un sistema circolatorio vascolarizzato bisogna salire al di sopra del 2 per cento. Se poi parliamo di mammiferi, anche i più piccoli esistenti (grandi pochi centimetri), i livelli minimi di ossigeno devono essere almeno del 12 per cento circa».

Nell’ultima parte prendete in esame un aspetto precedentemente inesplorato nella ricerca cosmica della vita intelligente: il ruolo dell’ossigeno nello sviluppo della tecnologia su scala planetaria. Qual è la chiave di lettura per comprendere l’importanza del binomio ossigeno/tecnologia? E cosa s’intende per oxygen bottleneck, ovvero collo di bottiglia dell’ossigeno, termine che avete coniato per l’occasione?

«Naturalmente la capacità tecnologica non è legata semplicemente alla taglia degli organismi. In teoria, potremmo immaginare specie viventi in grado di utilizzare strumenti e di iniziare l’ascesa verso tecnologie via via più sofisticate. Ma c’è una “strettoia” da superare, un “collo di bottiglia” che, di nuovo, ha a che fare semplicemente con la chimica, e in particolare con la combustione. È impossibile accendere e mantenere una fiamma se non c’è sufficiente ossigeno nell’atmosfera. Ed è difficile che una specie intelligente possa fare grandi progressi tecnologici senza poter utilizzare il fuoco, almeno inizialmente, come fonte di energia facilmente accessibile. Proviamo a immaginare la storia dell’umanità senza la conquista e il controllo del fuoco. Praticamente nulla di quello che abbiamo ottenuto come civiltà sarebbe possibile».

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Grafici che mettono in relazione i livelli di ossigeno nell’atmosfera e i principali eventi che hanno portato all’evoluzione della vita. Crediti: A. Balbi e A. Frank, Nature Astronomy, 2023

Anche in questo caso parlate di limiti inferiori di concentrazione d’ossigeno sotto i quali è improbabile che una specie diventi tecnologica. Quali sono?

«Sulla Terra, la concentrazione minima di ossigeno per poter sostenere le reazioni di combustione è attorno al 18 per cento. Noi oggi viviamo in un’atmosfera che ha circa il 21 per cento di ossigeno molecolare, quindi siamo di poco al di sopra di questa soglia».

Dunque i livelli di ossigeno richiesti per sostenere la vita sono diversi da quelli necessari per sviluppare tecnologie?

«Questo è uno dei punti fondamentali che evidenziamo nel nostro studio. I livelli minimi di ossigeno necessari per avere vita complessa sono più bassi di quelli necessari alla combustione. Questo significa che esiste un intervallo di valori entro cui è possibile l’esistenza di specie viventi anche molto sofisticate, ma che non avrebbero accesso al fuoco. In effetti, la ricostruzione dell’evoluzione della concentrazione di ossigeno sulla Terra mostra che ci sono stati periodi anche recenti, successivi alla comparsa della vita complessa e degli animali, in cui i livelli erano più bassi della soglia di combustione, e non sarebbe stato possibile usare il fuoco».

Parliamo adesso della parte secondo me più intrigante dello studio, quella cioè in cui generalizzate le vostre conclusioni alle miriadi di pianeti extrasolari scoperti sino ad oggi nell’universo…

«Se usiamo il nostro pianeta come tipico esemplare di mondo abitabile, possiamo concludere che anche su altri pianeti bisognerebbe superare livelli simili a quelli terrestri per fare sì che un’eventuale specie intelligente possa usare il fuoco come fonte di energia e come mezzo per plasmare il proprio ambiente e la propria civiltà. Se non si supera la strettoia dell’ossigeno, la vita, anche intelligente, non può iniziare a salire i gradini dello sviluppo tecnologico».

Quali implicazioni ha tutto questo per le future ricerche in campo esoplanetario e più nello specifico in campo astrobiologico?

«Le implicazioni sono molte, noi ne sottolineiamo soprattutto due. Intanto, la presenza di alti livelli di ossigeno nell’atmosfera di altri pianeti dovrebbe essere ritenuta un’informazione di contesto per giudicare la plausibilità dell’eventuale rivelazione di tecnofirme. In sostanza, dovremmo essere molto scettici se un’osservazione dovesse suggerire la presenza di tecnologia su un pianeta che non abbia ossigeno sufficiente a garantire la combustione. La seconda implicazione è che questa “strettoia dell’ossigeno” potrebbe rappresentare una sorta di filtro, un fattore in grado di impedire lo sviluppo di specie tecnologiche su altri pianeti».

La frazione dei pianeti extraterrestri in cui specie intelligenti sviluppano tecnologie è uno dei sette fattori dell’equazione di Drake. Il vostro studio può in qualche modo aiutare a comprendere meglio la famosa equazione?

«In effetti, questa è una direzione che suggeriamo nel nostro articolo. L’ascesa della concentrazione di ossigeno in un pianeta simile alla Terra dipende da tanti fattori, sia biologici (pensiamo al ruolo della fotosintesi ossigenica) sia geologici. Non c’è un modello in grado di prevedere in modo completamente affidabile questa evoluzione, ma lavorare su questo problema potrebbe servire a chiarire se la presenza di alte concentrazioni di ossigeno sia qualcosa di comune su altri pianeti, o se sia invece un evento molto raro. In questo secondo caso, il nostro lavoro suggerirebbe che il fattore dell’equazione di Drake che indica la frazione di mondi in cui si sviluppa la vita tecnologica potrebbe essere davvero molto piccolo».

Strettoia dell’ossigeno e paradosso di Fermi… Potremo finalmente dare una risposta alla domanda “dove sono tutti quanti?”

«Se la strettoia dell’ossigeno fosse difficile da superare, scoprire il fuoco sarebbe una fortuna che capita a pochi. In questo caso, la risposta al paradosso di Fermi sarebbe ovvia: forse ci sono altre specie intelligenti su altri pianeti, ma senza poter accendere la prima fiamma non vanno molto lontane, in termini tecnologici».


Per saperne di più:

Guarda il video di Amedeo Balbi:

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Un “mostro verde” fra i detriti di Cassiopea A


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Questa immagine evidenzia diverse caratteristiche interessanti del resto di supernova Cassiopea A visto con la NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb. Un esempio è la “eco di luce” (dettaglio 6) che avviene quando la luce proveniente dall’esplosione di una stella avvenuta molto tempo fa ha raggiunto e sta riscaldando la polvere lontana, che brilla mentre si raffredda. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, D. Milisavljevic

L’astronomia, si sa, è tutta una questione di luce. Occorre rilevarne anche la più piccola quantità, filtrarla e dividerla nelle sue diverse lunghezze d’onda, per svelare le strutture che compongono gli oggetti più sorprendenti dell’universo.

In questo, l’era del telescopio spaziale James Webb si sta dimostrando particolarmente utile, come rivelano le nuove immagini di Cassiopea A mostrate oggi, in anteprima, durante una conferenza stampa della American Astronomical Society (Aas). Il resto di supernova è uno degli oggetti più studiati dell’universo, da quando la luce della sua esplosione giunse per la prima volta sulla Terra, poco più di tre secoli fa. Già Hubble, Spitzer e Chandra avevano osservato e studiato Cas A, rivelando le sue intricate caratteristiche. E proprio combinando i dati di Chandra con il potente occhio di Webb sono stati osservati nuovi dettagli che rivelano dati scientifici, colori, forme e strutture fino ad ora solo teorizzate. A presentarli alla conferenza stampa, Danny Milisavljevic della Purdue University (Stati Uniti), principal investigator della ricerca condotta insieme a un team internazionale che vede anche la partecipazione di Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo.

Le nuove immagini potrebbero aver risolto il mistero che ruota attorno all’origine di una bizzarra struttura trovata tra i detriti della stella esplosa, nota ai ricercatori come Green Monster (Mostro verde) per la sua somiglianza al muro verde del campo da baseball di Fenway Park.

Come avere tra le mani un binocolo e volere individuare tutti i motivi che colorano le ali di una farfalla, così la combinazione dei dati di Webb e Chandra ha permesso un censimento più completo del materiale stellare espulso a seguito della supernova. Chandra ha osservato nei raggi X i detriti della stella riscaldati a decine di milioni di gradi dalle onde d’urto (shock) generate a seguito dell’esplosione, simili ai boom sonici di un aereo supersonico. Le immagini a risoluzione più elevata di Webb, in più lunghezze d’onda (in particolare nell’infrarosso) hanno permesso agli astronomi di osservare i frammenti della stella che non sono stati ancora influenzati da questi shock – definiti frammenti “pristine” (originari, incontaminati) – e che potrebbero riflettere gli effetti di processi fisici avvenuti al tempo dell’esplosione. Gran parte di questo materiale si trova nascosto dietro al “mostro verde”, offrendo uno sguardo più chiaro sulle complessità della struttura di Cas A.

«Grazie alla risoluzione avanzata della NirCam, possiamo ora osservare in dettaglio la completa frammentazione della stella morente durante la sua esplosione», dice Milisavljevic a Media Inaf. «Questo ci permetterà di svelare aspetti completamente nuovi dei frammenti della stella esplosa e della struttura del suo ambiente circumstellare. Un passo avanti straordinario, poiché dopo anni di approfonditi studi su Cas A siamo finalmente in grado di risolvere dettagli che offrono una visione trasformativa sulle dinamiche esplosive di questa stella e sulle fasi finali della sua evoluzione»

Un lavoro interdisciplinare che unisce fisica, astronomia, calcolo numerico, scienza dei dati e computer grafica, spiega Orlando. «Queste osservazioni», sottolinea l’astronomo dell’Inaf di Palermo, «sono fondamentali anche per la validazione dei modelli di esplosione delle supernove e nel fornire informazioni cruciali sulle fasi finali di evoluzione della stella progenitrice. È straordinario pensare che, grazie al confronto tra tali osservazioni e i nostri modelli, saremo in grado di identificare, circa 350 anni dopo l’esplosione, i processi fisici che hanno avuto luogo nei momenti immediatamente successivi al collasso del nucleo stellare».

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La figura illustra il modo in cui si forma la struttura del “Green Monster” osservato da Webb, grazie a un sofisticato modello idrodinamico tridimensionale che descrive l’interazione dinamica tra Cas A e un guscio di materiale circumstellare. Crediti: D.Milisavljevic, S.Orlando (Inaf), A. Wongwathanarat (Mpa), H.T. Janka (Mpa)

Identificato per la prima volta nei dati infrarossi della camera Miri di Webb nel 2023, il Green Monster si presenta come un anello di luce verde che appare nella cavità interna di Cas A, invisibile nell’immagine della NirCam. La presenza di queste strutture erano già state previste nel 2022 in un modello teorico realizzato da un team guidato dallo stesso Orlando e ora confermate. «La struttura del Green Monster potrebbe svelare l’interazione recente tra Cas A e un denso guscio del mezzo circumstellare, residuo di un’eruzione di massa dalla stella progenitrice avvenuta nei millenni precedenti la supernova, come già previsto dal nostro modello», spiega lo scienziato. «I buchi e gli anelli testimoniano frammenti di materiale stellare che hanno perforato il guscio, dando vita a questa affascinante configurazione».

I dati e le immagini di Cassiopea A, rivelate da Webb, hanno avuto una grande risonanza mediatica, soprattutto negli Stati Uniti, dove persino la first lady Jill Biden ha presentato le osservazioni del resto di supernova, utilizzate nel primo calendario dell’avvento 2023 della Casa Bianca, lo scorso dicembre.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters, l’articolo “A JWST Survey of the Supernova Remnant Cassiopeia A” di Dan Milisavljevic, Tea Temim, Ilse De Looze, Danielle Dickinson, J. Martin Laming, Robert Fesen, John C. Raymond, Richard G. Arendt, Jacco Vink, Bettina Posselt, George G. Pavlov, Ori D. Fox, Ethan Pinarski, Bhagya Subrayan, Judy Schmidt, William P. Blair, Armin Rest, Daniel Patnaude, Bon-Chul Koo, Jeonghee Rho, Salvatore Orlando, Hans-Thomas Janka, Moira Andrews, Michael J. Barlow, Adam Burrows, Roger Chevalier, Geoffrey Clayton, Claes Fransson, Christopher Fryer, Haley L. Gomez, Florian Kirchschlager, Jae-Joon Lee, Mikako Matsuura, Maria Niculescu-Duvaz, Justin D. R. Pierel, Paul P. Plucinsky, Felix D. Priestley, Aravind P. Ravi, Nina S. Sartorio, Franziska Schmidt, Melissa Shahbandeh, Patrick Slane, Nathan Smith, Kathryn Weil, Roger Wesson e J. Craig Wheeler


Missione Xrism, ecco il primo sguardo sul cosmo


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Il resto di supernova N132D si trova nella porzione centrale della Grande Nube di Magellano, una galassia nana distante circa 160mila anni luce. Xtend ha catturato il resto nei raggi X, mostrato nell’inserto. Al massimo della sua ampiezza, N132D misura circa 75 anni luce. Sebbene sia luminoso nei raggi X, il relitto stellare è quasi invisibile nella vista sullo sfondo scattata a terra in luce visibile. Crediti: inserto, Jaxa/Nasa/Xrism Xtend; background, C. Smith, S. Points, il team Mcels e NoirLab/Nsf/Aura

La scorsa settimana, il team scientifico della missione Xrism (X-Ray Imaging and Spectroscopy Mission) ha pubblicato le prime immagini e spettri dei suoi due strumenti, Resolve e Xtend. In particolare, uno spettro di un resto di supernova in una galassia vicina e un’istantanea a raggi X di un ammasso di centinaia di galassie.

La missione Xrism, guidata dalla Jaxa in collaborazione con la Nasa e con il contributo dell’Esa, è stata lanciata il 6 settembre 2023 dal Centro spaziale di Tanegashima, in Giappone. Progettata per rilevare i raggi X con energie fino a 12mila elettronvolt (contro i 2 o 3 elettronvolt della luce visibile), Xrism studierà le regioni più calde dell’universo, le strutture più grandi e gli oggetti con la gravità più forte.

«Xrism fornirà alla comunità scientifica internazionale un nuovo scorcio del cielo nascosto dei raggi X», dice Richard Kelley, principal investigator di Xrism presso il Goddard Space Flight Center della Nasa. «Non solo vedremo le immagini a raggi X di queste sorgenti, ma studieremo anche le loro composizioni, i loro movimenti e i loro stati fisici».

Tornando ai due strumenti a bordo di Xrism, Resolve è uno spettrometro microcalorimetrico sviluppato dalla Nasa e dalla Jaxa. Funziona a una frazione di grado sopra lo zero assoluto all’interno di un contenitore di elio liquido delle dimensioni di un frigorifero. Quando un raggio X colpisce il suo rivelatore (di 6 pixel x 6 pixel), riscalda il dispositivo di una quantità correlata alla sua energia. Misurando l’energia di ogni singolo raggio X, lo strumento fornisce informazioni inedite della sorgente.

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Lo strumento Resolve di Xrism ha acquisito i dati del resto di supernova N132D nella Grande Nube di Magellano per creare il più dettagliato spettro a raggi X dell’oggetto mai realizzato. Lo spettro rivela picchi associati a silicio, zolfo, argon, calcio e ferro. A destra, un’immagine di N132D catturata dallo strumento Xtend. Crediti: Jaxa/Nasa/Xrism Resolve e Xtend

Il team della missione ha utilizzato Resolve per studiare N132D, un resto di supernova e una delle sorgenti di raggi X più luminose della Grande Nube di Magellano, una galassia nana distante circa 160mila anni luce nella costellazione meridionale del Dorado. Il resto in espansione ha un’età stimata di circa 3mila anni ed è stato creato quando una stella di circa 15 volte la massa del Sole ha esaurito il combustibile, è collassata ed esplosa. Lo spettro di Resolve mostra picchi associati a silicio, zolfo, calcio, argon e ferro. Si tratta dello spettro a raggi X più dettagliato mai ottenuto per l’oggetto in questione e dimostra l’incredibile scienza che la missione potrà svolgere.

«Questi elementi sono stati forgiati nella stella originale e poi spazzati via quando è esplosa come supernova», spiega Brian Williams, scienziato del progetto Xrism della Nasa. «Resolve ci permette di vedere le forme di queste righe in un modo che prima non era possibile, consentendoci di determinare non solo le abbondanze dei vari elementi presenti, ma anche le loro temperature, densità e direzioni di movimento a livelli di precisione senza precedenti. Da qui, potremo mettere insieme informazioni sulla stella originale e sull’esplosione».

Il secondo strumento di Xrism, Xtend, è un imager a raggi X sviluppato dalla Jaxa, che fornisce a Xrism un ampio campo visivo, consentendogli di osservare un’area di cielo più grande di circa il 60% rispetto alla dimensione apparente media della Luna piena.

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Lo strumento Xtend di Xrism ha catturato l’ammasso di galassie Abell 2319 nei raggi X, qui rappresentato in viola e delineato da un bordo bianco che rappresenta l’estensione del rivelatore. Lo sfondo è un’immagine da terra che mostra l’area in luce visibile. Crediti: Jaxa/Nasa/Xrism Xtend; sfondo, Dss

Xtend ha catturato un’immagine a raggi X di Abell 2319, un ricco ammasso di galassie a circa 770 milioni di anni luce di distanza nella costellazione del Cigno. È il quinto ammasso a raggi X più luminoso del cielo e sta attualmente subendo un importante evento di fusione. L’ammasso ha un’estensione di 3 milioni di anni luce e mette in evidenza l’ampio campo visivo di Xtend.

«Anche prima della fine del processo di messa in funzione, Resolve sta già superando le nostre aspettative», dichiara Lillian Reichenthal, responsabile del progetto Xrism. «Il nostro obiettivo era di raggiungere una risoluzione spettrale di 7 elettronvolt con lo strumento, ma ora che è in orbita ne stiamo raggiungendo 5. Ciò significa che otterremo mappe chimiche ancora più dettagliate con ogni spettro acquisito da Xrism».

Resolve sta dimostrando prestazioni eccezionali e sta già conducendo un’entusiasmante attività scientifica nonostante un problema riscontrato con lo sportello di apertura che copre il suo rivelatore. Lo sportello, progettato per proteggere il rivelatore prima del lancio, non si è aperto come previsto. La sua funzione è quella di bloccare i raggi X a bassa energia: in seguito a questa anomalia, il taglio viene ora effettuato a 1700 elettronvolt rispetto ai 300 previsti. Il team di Xrism sta studiando diversi approcci per risolvere il problema che, peraltro, non inficia il buon funzionamento dello strumento Xtend.


Meteorite Renazzo, due secoli di scienza e misteri


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Una pagina del manoscritto di Francesco Sebastiano Lenzi conservata presso l’archivio storico comunale di Cento. Crediti: Thomas Mazzi

Una sera di duecento anni fa, in un piccolo paese della “Bassa”, a meno di due km in linea d’aria dal fiume Reno, che in quelle terre piatte solca il confine tra la provincia di Ferrara e quella di Bologna, una deflagrazione squarciò la gelida quiete della pianura invernale. Così la mattina successiva ricordava l’evento, nel suo manoscritto in quattro volumi Notizie intorno alla città di Cento dall’anno 1815 al 1879, il cronista locale Francesco Sebastiano Lenzi:

“Li 16 gennaio 1824. Circa le ore nove pomeridiane. Dietro un rumore quasi di esplosione di cannone sentito anche nel Finale e ad Argile ed all’intorno, ed il sibilo per l’aria nelle vicinanze di Renazzo che fu da taluno preso per suono quasi di un caviglione, cadde in Renazzo un aerolito poco sopra la chiesa ed in altro luogo ed un pezzo di questo era del peso di …”

Quella caduta su Renazzo il 15 gennaio 1824 era una meteorite appartenente al gruppo CR delle condriti, dove la ‘C’ sta per carbonacee e la ‘R’, appunto, per Renazzo. Paese natale di Ferruccio Lamborghini, fondatore dell’omonima casa automobilistica, oggi Renazzo è una frazione del comune di Cento, in provincia di Ferrara. E quella ritrovata in più frammenti nei pressi della chiesa e nei terreni circostanti è in un certo senso la “Lamborghini delle meteoriti”: le condriti carbonacee sono infatti fra le più rare (sono meno del 5 per cento di quelle trovate) e le più preziose dal punto di vista scientifico, essendo spesso anche le più primitive. Nella loro pasta granulosa sono stati trovati minerali e gas con abbondanze isotopiche anomale, tali da farne risalire l’origine a epoche antecedenti al Sistema solare. Polveri e gas dunque presenti già nella nube molecolare primordiale nella quale si sono formati il Sole e i pianeti.

Materia assemblata miliardi di anni fa nel cuore di antiche stelle, e che meteoriti come questa di Renazzo hanno portato sin qui sul nostro pianeta, come ricorda il geofisico e planetologo Giordano Cevolani – originario di Pieve di Cento, una località a pochi km da Renazzo, appena al di là del Reno – nella sua opera del 2001 Renazzo: una meteorite racconta la nostra storia. Un volume, dice lo scienziato, «frutto di numerose ore di microanalisi con il microscopio elettronico a scansione del Cnr, a Bologna, eseguite allo scopo di sceverare le particolarità indotte dalla contaminazione ambientale da quelle originarie della pietra celeste».

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Frammento principale della meteorite di Renazzo (307 grammi), conservato presso la collezione di mineralogia del Museo Bombicci dell’Università di Bologna (© Università di Bologna | Sistema Museale di Ateneo| Collezione di Mineralogia “Museo Luigi Bombicci”). Crediti: Nicola Borghi

Il frammento più grande esistente al mondo della meteorite di Renazzo – circa 441 grammi in origine, ora ridotti a 307 – è oggi conservato al Museo mineralogico dell’Università di Bologna, ma verrà trasferito in questi giorni alla Civica Pinacoteca di Cento, dove da mercoledì 10 gennaio sarà esposto al pubblico in occasione delle celebrazioni per il bicentenario della caduta. Celebrazioni che culmineranno nel prossimo fine settimana con una serie d’eventi dedicati alla preziosa meteorite organizzati dal Comune di Cento e dalla Pro Loco di Renazzo, insieme all’Associazione astrofili centesi e all’Istituto comprensivo “Lamborghini” di Renazzo.

Nel pomeriggio di domenica 14 gennaio, in particolare, nella sala Zarri del Palazzo del Governatore di Cento è in programma una conferenza aperta al pubblico, introdotta dallo stesso Cevolani, nel corso della quale verranno discussi vari aspetti scientifici e storici, compresi “I tre misteri irrisolti della meteorite di Renazzo”. È questo infatti il titolo dell’intervento di Sandro Zannarini e Nicola Borghi, dottorando all’Università di Bologna già noto ai lettori di Media Inaf per le sue ricerche sull’espansione dell’universo. Meteoriti e mineralogia non sono il suo campo di studi, dice infatti Borghi a Media Inaf, ma a Renazzo ci vive, le sue prime esperienze di divulgazione le ha fatte a San Giovanni in Persiceto con Romano Serra, un altro esperto di meteoriti… insomma era destino che prima o poi dovesse occuparsi anche della roccia che duecento anni fa le stelle gli hanno recapitato a pochi metri da casa.

Quali sono dunque questi tre misteri, le tre principali domande aperte – tutte potenzialmente risolvibili, osserva Borghi – che rimangono sul caso Renazzo? Il primo grande mistero riguarda la massa complessiva di meteorite raccolta. «Si dice che si aggiri attorno ai 10 kg. Già nel 1897 il mineralogista tedesco Ernst Anton Wülfing, dopo aver censito una vasta gamma di fonti bibliografiche e cataloghi di meteoriti, si accorse che mancava all’appello la maggior parte di materiale, ma non ha fatto seguito alcuna indagine approfondita sulla questione. A oggi, sommando tutti i frammenti conservati nei musei e nelle collezioni private, abbiamo poco più di 1 kg di meteorite Renazzo. Quindi le ipotesi sono due: sono spariti 9 kg di materiale, o non ne sono mai stati raccolti 10 kg. La prima ipotesi è stata per me come una caccia al tesoro: la meteorite Renazzo, essendo stata battezzata come capostipite del gruppo di condriti carbonacee Renazzo-type, è infatti ambitissima tra i collezionisti. Ma scavando fra le carte ho trovato il rendiconto di un accademico bolognese dell’epoca più a sostegno della seconda ipotesi. E ricostruendo le varie fonti mi pare più plausibile che la quantità raccolta sia di poco superiore a 1 kg».

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Gli autori del volume “Meteoriti storiche. Un metodo per indagare il passato: Il caso Renazzo CR2” radunati al Museo del Cielo e della Terra di San Giovanni in Persiceto (BO). Da sinistra a destra: Nicola Borghi, Romano Serra, Thomas Mazzi, Sandro Zannarini, Marco Cacciari e Giordano Cevolani. Sul tavolo, una zolla di terra di Renazzo con moneta ottocentesca, frammenti veri e riproduzioni della meteorite. Crediti: Inaf

Un altro punto interrogativo è la ricostruzione traiettoria, sulla quale sono in corso alcuni studi. «Grazie al lavoro di Thomas Mazzi dell’Associazione astrofili centesi», ricorda a questo proposito Borghi, che insieme a Mazzi, Serra, Zannarini e Marco Cacciari ha scritto il libro Meteoriti storiche. Un metodo per indagare il passato. Il caso Renazzo CR2, «è stato individuato il terreno su cui è caduto il frammento principale. Le nuove fonti trovate ci indicano la traiettoria, che rientra tra i misteri perché si tratta di fonti in disaccordo fra loro. Qui però entrano in gioco Marco Cacciari e Romano Serra, che hanno svolto nuovi studi sui sedimenti nel terreno individuato, trovando un aumento della presenza di micrometeoriti. La scoperta di ciottolame ottocentesco e di una moneta contribuiscono a correlare questo strato al periodo della caduta della meteorite. E proprio le micrometeoriti rappresentano un altro interessante punto di partenza, relativamente nuovo nella letteratura, che potrebbe aiutare a confermare il luogo della caduta e ad avere una stima della reale traiettoria».

Infine c’è l’incertezza sulla data della caduta. Quella comunemente accettata, dicevamo, è 15 gennaio 1824. «Tuttavia, alcuni documenti inediti trovati nell’Archivio comunale di Cento grazie al lavoro del professor Zannarini la mettono in discussione, indicando il primo gennaio», spiega Borghi, sottolineando che «ci sono molte più ragioni per dubitare del 15 piuttosto che dell’1. Può sembrare un tecnicismo, ma dimostrare che la data è sbagliata vorrebbe dire far cambiare i cartellini a decine di musei sparsi per il mondo, compreso l’American Museum of Natural History!».

Per informazioni sulle iniziative del 13 e 14 gennaio:


Nella Città del Sole, delle Api e delle Stelle


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Locandina della mostra

Il 2023 è stato un anno di ricorrenze straordinarie: 550 anni dalla nascita di Copernico, 400 dalla pubblicazione del Saggiatore di Galileo, ma anche dall’inizio del pontificato di Urbano VIII e dalla pubblicazione in latino del celebre testo utopico di Tommaso Campanella La Città del Sole.

Un fil rouge nemmeno troppo nascosto congiunge queste celebrazioni e viene sapientemente intrecciato nella mostra in corso fino all’11 febbraio a Roma, a Palazzo Barberini, curata del Museo Galileo, “La Città del Sole: arte barocca e pensiero scientifico nella Roma di Urbano VII”. La Rivoluzione scientifica irrompe infatti sulla scena della Città eterna proprio negli anni del pontificato di Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, monarca assoluto che – nel suo sogno teocratico e allegoricamente eliocentrico riecheggiato da Campanella – convoca a corte i migliori intellettuali del suo tempo: le cosiddette “Api Urbane”, come da definizione dell’umanista Leone Allacci. Queste Api scienziate, architette ed euclidee edificano e adornano una Roma più moderna, segnata dall’inquietudine e dal vento del cambiamento, una Roma in cui gnomonica, naturalismo e astronomia convivono elegantemente con i fasti dell’arte e della religione.

L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) celebra insieme al Museo Galileo e all’Università La Sapienza la felice nascita del Barocco artistico e scientifico, alla scoperta dei luoghi di questa “città del sole” più intrisi di allusioni astrali e meraviglie matematiche, e lo fa contribuendo alla mostra con alcuni incredibili pezzi del proprio patrimonio artistico e con una serie di incontri e visite guidate che nel corso del prossimo mese toccheranno edifici e oggetti frequentati dagli intellettuali di Urbano. Tra i pezzi messi a disposizione dall’Inaf per la mostra, c’è un cannocchiale in cartone d’autore ignoto ricavato da una mappa dell’Urbe nella quale è possibile vedere la Basilica di San Pietro, ancora senza la famosa cupola, e copia di quattro preziose tavole gnomoniche in ardesia, a tracciare un ritratto della Capitale all’epoca di Galileo e Athanasius Kircher.

L’iniziativa “Nella Città del Sole: Luoghi e Storie della Scienza Romana al Tempo di Urbano VIII” invita i cittadini a vivere l’esperienza della mostra e a seguire le tracce delle Api Urbane dal Collegio Romano a Palazzo Barberini, dal Convento di Trinità dei Monti ai Giardini del Quirinale, dalla Galleria Spada alle collezioni del Museo astronomico e copernicano di Monte Mario dell’Inaf, con una escursione fuori città all’Osservatorio Inaf di Monte Porzio Catone, dove sono conservate – per un felice caso a pochi passi da quella Villa Mondragone che per qualche anno fu residenza estiva dei Barberini – le magnifiche Tavole sciateriche e altri reperti kircheriani.

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Cannocchiale in cartone d’autore ignoto ricavato da una mappa dell’Urbe. Crediti: Inaf

Accompagnati dalla narrazione di alcuni tra i più quotati esperti della commistione tra arte e scienza in età barocca, si potranno esplorare le magie catottriche delle meridiane a riflessione costruite dal Padre Minimo Emmanuel Maignan e le enormi anamorfosi di Jean-François Niceron nel convento di Trinità dei Monti, le attività dei matematici sui tetti del Collegio Romano, i segreti degli astronomi dipinti in due importanti tele della Galleria Spada e il funzionamento e il significato allegorico del grande quadrante solare “Tetracyclo” voluto da Urbano VIII al Quirinale, oltre ai i globi e le incisioni di Matthaus Greuter, raffinato artigiano che collaborò con Galileo e col gesuita Christoph Scheiner, conservati presso il Museo Copernicano.

Storie sorprendenti emergono in luoghi inaspettati e talvolta resi anonimi dalla consuetudine. Negli stessi anni in cui Galileo pubblicava il suo Dialogo e scivolava inesorabilmente verso la fosca vicenda del processo inquisitorio, Tommaso Campanella, sospetto di eresia, frequentava le sale di Palazzo Barberini e operava incantesimi astrali in favore di Urbano, “sole” cittadino astrologicamente minacciato da eclissi e sfavorevoli congiunzioni astrali. Tracce d’eliocentrismo, nascoste agli occhi dei non esperti, sono presenti nella decorazione e nella struttura stessa della “reggia” privata voluta dal Papa; si guarderà con nuovi occhi il Convento che sovrasta Piazza di Spagna, fucina di scienza dove Gaspare Berti e Torricelli innalzarono un tubo pieno d’acqua alto 13 metri lasciandola poi defluire per ottenere il vuoto e azionando magneticamente una campanella al suo interno. Sarà possibile vedere la ricostruzione digitale del progetto della villa Pamphilj ideata da Borromini e Maignan, mai realizzato, un vero e proprio parco giochi scientifico dotato di automi meccanici, giochi di luce e prospettive, bizzarri orologi solari e persino un planetario ante-litteram. Sarà possibile passeggiare tra le collezioni del perduto museo di Kircher, esaminando i modelli degli obelischi romani da lui studiati e fantasiosamente tradotti, rievocando le sue molte meraviglie a metà tra natura e artificio; si svelerà l’indagine meteorologica di Padre Scheiner e del cardinale Francesco Barberini, che studiarono i pareli solari del 1629 e del 1630 sospesi tra analisi fisica e interpretazione profetica, ispirando i lavori di Gassendi e Cartesio.

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Tavole sciateriche di Kircher. Crediti: Inaf

Quello che emergerà è un ritratto a tutto tondo della scienza barocca, con la sua dimensione teatrale che rende il mondo al tempo stesso palcoscenico e spettacolo. L’Apiario Urbano fu in grado infatti di costruire un vasto e portentoso favo a celle esagonali su tutta la città, nel quale si intrecciano la sapiente architettura di Bernini e Borromini, il naturalismo pittorico di Cigoli, la raffinata collezione di antichità e naturalia di Cassiano dal Pozzo, le meraviglie gnomoniche, foturgiche e musurgiche di Kircher e Maignan, le eleganti mappe e incisioni di Blaeu, Greuter e Cornelis Meijer.

Il tutto mentre i Lincei stabiliscono il nuovo modello di Accademia erudita e il metodo concepito da Galileo insieme alla sue avvincenti scoperte si diffondono a macchia d’olio, dalle macchie solari ai cannocchiali, dalle carte lunari alle discussioni sulle comete, dalla struttura del cosmo al conflitto tra scienza e teologia.

Non c’è dubbio: vale la pena imbarcarsi in un viaggio di riscoperta della Città del Sole, delle Api e delle Stelle.

Per il calendario delle visite guidate:


Corsa alla Luna, è l’ora del Giappone


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Crediti: Jaxa

È in calendario per venerdì 19 gennaio, alle 16:20 ora italiana, l’approdo sulla Luna del lander giapponese Slim. Un approdo preceduto da quelli che uno fra i responsabili della missione, Kushiki Kenji della Jaxa, ha definito “venti minuti di terrore”, riecheggiando i celebri sette minuti di terrore della discesa di Curiosity su Marte. Un approdo che, se andrà a buon fine, segnerà l’ingresso del Giappone – quinto dopo Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India – nell’esclusivo club dei paesi capaci di portare a termine con successo un atterraggio morbido sul suolo lunare.

Lanciato il 7 settembre 2023 dal centro spaziale di Tanegashima, ospitato a bordo dello stesso razzo H-2A che ha portato nello spazio il telescopio per raggi X Xrism, il piccolo modulo lunare della Jaxa – è lungo appena due metri – è entrato correttamente in orbita attorno alla Luna il giorno di Natale, dunque dopo ben tre mesi e mezzo di navigazione. Un viaggio lunghissimo – seguendo un tragitto tortuoso, controintuitivo – ma pianificato nei minimi dettagli per sfruttare al meglio la gravità della Terra, della Luna e del Sole così da fare entrare Slim in orbita lunare con l’angolo e la velocità più favorevoli, consentendo al tempo stesso il massimo risparmio di carburante.

La maniacale attenzione ai consumi è dovuta anzitutto alla necessità di contenere al massimo la massa e le dimensioni della navicella, a bordo della quale tutto è miniaturizzato, a partire dai due strumenti scientifici: una fotocamera spettrale multibanda per lo studio della composizione delle rocce circostanti il sito di approdo e una coppia di piccole sonde – i Lunar Excursion Vehicles – che si separeranno dal lander principale poco prima dell’atterraggio per fotografare le condizioni del sito e compiere una dimostrazione ingegneristica di esplorazione autonoma sulla superficie. Sia la telecamera di navigazione che il telemetro laser sono stati resi il più compatti e leggeri possibile. Ed è stato miniaturizzato anche il radar a microonde per la misura dell’altitudine e della velocità durante la discesa.

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Slim è dotato di cinque “piedi” metallici semisferici, formati da un reticolo di alluminio stampato in 3D, che si schiacciano al momento dell’impatto per assorbirne l’energia. La sequenza di allunaggio è in due step: al termine della discesa verticale, sarà anzitutto la “zampa principale”, che si estende sul lato posteriore di Slim, a toccare per prima la superficie lunare. Nella seconda fase, la navicella spaziale si inclinerà in avanti, dondolandosi sui due piedi di supporto anteriori fino a stabilizzarsi sulla superficie lunare. I due piedi posteriori restanti non dovrebbero toccare il suolo, servono solo per impedire al lander di rovesciarsi lateralmente nel caso di un atterraggio più complicato del previsto. Crediti: Jaxa

L’esigenza di contenere i consumi è però dettata anche dalla necessità di arrivare all’appuntamento con la Luna avendo ancora una buona riserva di carburante, requisito essenziale per vincere quella che è la sfida principale di Slim, che non è tanto scientifica quanto ingegneristica: compiere un atterraggio di altissima precisione. Pinpoint landing, lo chiamano i responsabili della missione, che quanto ad atterraggi millimetrici hanno già dato prova – con Hayabusa2 – di saperci fare come pochi altri. Nel caso di Slim, il target è una zona in lieve pendenza nei pressi del piccolo cratere Shioli, situato a ovest del Mare Nectaris, sulla faccia della Luna a noi visibile. Esito di un impatto abbastanza recente, il materiale espulso dal cratere – stando alle osservazioni dell’orbiter Kaguya – potrebbe contenere olivina proveniente dal mantello lunare. L’analisi ravvicinata di questi minerali potrebbe dunque rivelare informazioni sulla struttura interna e sulla formazione della Luna. Ma i siti come questo, contenenti materiale espulso da un cratere, non sono l’ideale per un approdo: un normale lander lunare rischia infatti di ribaltarsi appena tocca il suolo, che in prossimità del cratere è troppo inclinato. La sfida di Slim è proprio questa: posarsi su un terreno con una pendenza media di 6-7 gradi ed entro un raggio di non più di 100 metri dall’obiettivo prefissato.

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Due schermate da “Slim, the pinpoint moonlanding game”

Come ci riuscirà? Grazie anzitutto agli “occhi smart” – non per nulla l’acronimo Slim sta per Smart Lander for Investigating Moon – di cui è dotata la navicella, in grado di stabilire in piena autonomia la posizione esatta in cui si trova grazie a un algoritmo che, in appena cinque secondi, riesce a individuarne la corrispondenza nelle immagini ad alta risoluzione delle mappe archiviate sul computer di bordo. A quel punto entreranno in azione i giroscopi, lo star tracker e il sensore solare per ricostruire l’assetto della navicella, mentre il radar terrà traccia della distanza dal suolo. Aggiornato così in tempo reale e ad altissima precisione sulla posizione, l’orientamento e la velocità di discesa, Slim potrà correggere in autonomia la traiettoria fino a toccare il suolo nel punto previsto.

In attesa del 19 gennaio (o del 16 febbraio, seconda finestra d’opportunità per la discesa), la Jaxa ha messo a disposizione un gioco online per chiunque voglia cimentarsi nell’impresa: Slim, the pinpoint moonlanding game.


Ricetta per un’insalata spaziale


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L’insalata spaziale ideale è composta da sette ingredienti: soia, semi di papavero, orzo, cavolo riccio, arachidi, semi di girasole e patate dolci. Crediti: Shu Liang et al., Acs Food Sci. Technol., 2023; Università di Adelaide

Semi di papavero, semi di girasole, orzo, cavolo riccio, soia, arachidi e patate dolci. No, non stiamo parlando della dieta consigliata dopo le feste natalizie, ma del pasto ideale qualora voleste partire per un viaggio pluriennale verso Marte. Mentre le agenzie spaziali pianificano missioni più lunghe, i ricercatori di tutto il mondo sono alle prese con la sfida di nutrire al meglio gli equipaggi nello spazio cercando alternative nutrienti, gustose e sostenibili ai soliti pasti insipidi e preconfezionati.

Un team di ricerca internazionale ha recentemente pubblicato su Acs Food Science & Technology, la rivista dell’American Chemical Society, la ricetta per il “pasto spaziale” ottimale: una ricca insalata vegetariana. Per progettarlo, gli scienziati hanno scelto ingredienti freschi, coltivabili nello spazio e che rispondano alle esigenze nutrizionali specifiche degli astronauti uomini.

In generale, gli esseri umani bruciano più calorie nello spazio rispetto a quando sono sulla Terra e necessitano di micronutrienti extra, come il calcio, per mantenersi in salute durante la prolungata esposizione alla microgravità. Inoltre, considerando il numero e la durata delle future missioni a lungo termine, le coltivazioni di cibo dovranno necessariamente essere sostenibili e “circolari” all’interno delle navicelle o delle colonie spaziali.
Questi aspetti sono stati già da tempo affrontati dagli scienziati che hanno esplorato e sperimentato diversi metodi di coltivazione del cibo nello spazio. Tuttavia, fino ad oggi, nessuno aveva pensato come fornire i nutrienti necessari agli astronauti attraverso pasti specifici freschi e, per di più, gustosi.

La sfida è stata colta da Volker Hessel dell’Università di Adelaide, in Australia, e dai suoi collaboratori: provare a ottimizzare un pasto che rispondesse ai requisiti specifici di un volo spaziale e avesse un buon sapore. Inizialmente, i ricercatori hanno valutato le differenti combinazioni di ingredienti freschi, utilizzando il metodo della programmazione lineare, per bilanciare computazionalmente più variabili al fine di raggiungere un obiettivo specifico.

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Capire come coltivare in modo efficiente il cibo nello spazio è fondamentale per il futuro successo dei voli spaziali di lunga durata. Ecco perché gli astronauti sulla stazione spaziale stanno già sperimentando la coltivazione di piante nutrienti in un ambiente di microgravità. Crediti: Nasa.

Nello studio in questione, il modello ha analizzato combinazioni di alimenti misurandone la capacità di soddisfare il fabbisogno nutrizionale giornaliero di un astronauta maschio, in relazione alla quantità minima di acqua necessaria per la loro coltivazione. Il team si è anche preoccupato di valutare la sostenibilità degli alimenti utilizzabili nello spazio, selezionando ingredienti che necessitano di fertilizzante, tempo e area di crescita ridotti e con pochi scarti non commestibili, tutt’al più, riciclabili. «Abbiamo adottato l’ottimizzazione numerica per identificare le varie combinazioni, usando come vincoli i contenuti macro e micro nutrizionali dei cibi e ottimizzando il carico d’acqua necessario per la loro coltivazione», spiegano gli autori dello studio. «I vincoli alimentari sono quelli raccomandati dalla Nasa, e abbiamo considerato fino a 36 nutrienti e 102 colture».

Tra i dieci scenari, o “piatti spaziali”, proposti – quattro vegetariani e sei onnivori, ciascuno con un numero di ingredienti compreso tra sei e otto – i ricercatori hanno scoperto che un pasto vegetariano composto da soia, semi di papavero, orzo, cavolo riccio, arachidi, patate dolci e semi di girasole offriva l’equilibrio più efficiente tra il massimo dei nutrienti e il minimo degli input agricoli. Sebbene questa combinazione non sia in grado di fornire tutti i micronutrienti di cui un astronauta ha bisogno, quelli mancanti potrebbero essere aggiunti con un integratore.

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Crediti: Shu Liang et al., Acs Food Sci. Technol., 2023; Università di Adelaide

Inoltre, per assicurarsi che la combinazione identificata fosse gustosa, così da non togliere il piacere al palato degli astronauti, il team ha proposto l’insalata spaziale ideale a quattro assaggiatori, qui sulla Terra. Uno dei tester ha espresso giudizi entusiastici sul piatto proposto dichiarandosi ben disposto a mangiarlo anche per tutta la settimana, una volta nello spazio. Gli altri sono stati più moderati nei loro giudizi, ma non si sono comunque fatti mancare una seconda porzione d’insalata.

Infine, anche l’occhio vuole la sua parte. Le insalate scelte dal computer sono state selezionate anche in base al colore e alla consistenza degli ingredienti, valutando la soddisfazione dei potenziali consumatori: un aspetto psicologico particolarmente importante nei viaggi più lunghi, quando gli astronauti dovranno far ricorso allo stesso cibo, giorno dopo giorno, per svariati anni.

Se il primo spuntino spaziale fu la mousse di mele in tubetto consumata dall’astronauta John Glenn nel 1962 a bordo della navicella Friendship 7, in futuro si potrà sicuramente contare su un menu più variegato. I ricercatori, infatti, proveranno a utilizzare lo stesso modello computerizzato per ampliare la varietà di colture nel database e, soprattutto, per capire quali opzioni potrebbero essere utili per le esigenze fisiologiche delle astronaute. Tutto sommato, parafrasando Virginia Woolf, sappiamo che non si può pensare bene, amare bene, dormire bene – aggiungiamo, esplorare bene – se non si è mangiato bene.

Per saperne di più:

Guarda il servizio video dell’Università di Adelaide:

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Molto ozono e poca CO2, la firma della vita altrove


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Rappresentazione semplificata del ciclo del carbonio sulla Terra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Un pianeta abitabile è un pianeta che orbita alla giusta distanza dalla sua stella, ovvero nella cosiddetta fascia di abitabilità: la zona di spazio attorno a una stella in cui le condizioni sono tali da permettere al pianeta di sostenere la presenza di acqua liquida in superficie. A oggi sono stati scoperti decine di mondi in orbita all’interno delle zone di abitabilità delle loro stelle, dunque non è difficile scovare mondi abitabili. Il problema è, accertate le condizioni di abitabilità, identificare poi su questi mondi l’effettiva presenza di acqua. Un team di ricercatori guidati dall’Università di Birmingham, nel Regno Unito, potrebbe ora aver escogitato un metodo per riuscirci. Come? Individuando una nuova “firma di abitabilità” grazie alle quale sarebbe possibile capire se un pianeta ha realmente oceani di acqua liquida in superficie.

La firma di abitabilità in questione è la scarsa abbondanza di anidride carbonica nell’atmosfera del pianeta rispetto agli altri mondi del sistema planetario cui appartiene: un segno, secondo i ricercatori, della presenza di acqua liquida – e forse di vita – sulla sua superficie. Il motivo per cui quantità relativamente basse di CO2 nell’atmosfera di un esopianeta possono fungere da tracciante della presenza di acqua liquida è da ricercarsi nella capacità che hanno gli oceani di assorbire e sequestrare la molecola.

«Misurare la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera di un pianeta è abbastanza facile», dice Amaury Triaud, ricercatore all’Università di Birmingham e primo autore dello studio, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy. «Questo perché la CO2 è un forte assorbitore nell’infrarosso, caratteristica che qui sulla Terra sta portando all’attuale aumento delle temperature. Confrontando la quantità di CO2 nelle atmosfere di diversi pianeti, possiamo utilizzare questa nuova firma di abitabilità per identificare i pianeti che ospitano oceani e che dunque sono potenzialmente in grado di sostenere la vita».

Al team di ricerca – che comprende scienziati del Mit, del Woods Hole Oceanographic Institution, dell’Ècole Polytechnique e del Laboratoire d’astrofisique de Bordeaux – l’idea di sfruttare i livelli di CO2 atmosferica come indicatore della presenza di oceani d’acqua è venuta prendendo ad esempio la condizione della Terra rispetto ad altri due pianeti rocciosi del Sistema solare, Venere e Marte. Il nostro pianeta è l’unico dei tre che attualmente ospita acqua allo stato liquido. E rispetto a Venere e Marte è anche quello che ha assai meno anidride carbonica nella sua atmosfera. Ciò è dovuto al fatto che, nel corso di centinaia di milioni di anni, gli oceani terrestri hanno assorbito un’enorme quantità di anidride carbonica – una quantità quasi uguale a quella oggi presente nell’atmosfera di Venere. Su scala planetaria, questo effetto ha lasciato l’atmosfera terrestre significativamente impoverita di anidride carbonica rispetto ai suoi vicini planetari.

«Partendo dal presupposto che questi pianeti sono stati creati in modo simile, se in un pianeta rileviamo molto meno carbonio, ciò significa che deve essere andato da qualche parte», osserva a questo proposito Triaud. «L’unico processo in grado di rimuovere così tanto carbonio dall’atmosfera è un robusto ciclo dell’acqua che coinvolga oceani di acqua liquida».

Partendo da queste osservazioni, il team ha dunque concluso che se un simile impoverimento di anidride carbonica viene rilevato in un pianeta lontano, e questa condizione non interessa i pianeti vicini, siamo davanti a un segnale affidabile della presenza di oceani liquidi – e della possibilità di vita – sulla sua superficie.

«Dopo aver esaminato ampiamente la letteratura di molti campi della scienza, dalla biologia alla chimica, compresi i meccanismi di sequestro del carbonio nel contesto dei cambiamenti climatici, riteniamo che la deplezione di carbonio atmosferico sia con buona probabilità un forte segno della presenza di acqua liquida e/o di vita», aggiunge Julien de Wit, professore al Mit e co-autore dello studio.

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Illustrazione della strategia utilizzata dai ricercatori per trovare pianeti abitabili e abitati attraverso la rilevazione della CO2 atmosferica. In alto sono mostrati diversi pianeti con differenti caratteristiche di abitabilità. Il pannello in basso a sinistra riporta una simulazione dello spettro di trasmissione del pianeta roccioso Trappist-1 f. Il pannello in basso a destra mostra invece una versione semplificata del ciclo del carbonio, alla base della riduzione della CO2 atmosferica. Crediti: Amaury H. M. J. Triaud et al., Nature Astronomy, 2023

Per individuare pianeti abitabili utilizzando questa nuova firma chimica, i ricercatori delineano una strategia suddivisa in tre fasi. La prima fase consiste nel confermare che i pianeti d’un sistema planetario abbiano un’atmosfera. Ciò è possibile semplicemente cercando la presenza di anidride carbonica, che dovrebbe dominare la maggior parte delle atmosfere planetarie. Per farlo, spiegano i ricercatori, basterebbe osservare i pianeti per almeno dieci transiti con lo strumento Nirspec di Jwst, e rilevare l’impronta dell’anidride carbonica negli spettri di trasmissione dei pianeti. Gli autori sottolineano che la strategia funziona meglio nei sistemi planetari chiamati “peas in a pod”, letteralmente “piselli in un baccello”: sistemi planetari i cui esopianeti tendono ad avere dimensioni simili e una spaziatura orbitale regolare – come i piselli in un baccello, appunto.

La seconda fase consiste nel misurare l’abbondanza di anidride carbonica osservando circa cento transiti planetari, per verificare se un pianeta ha quantità della sostanza volatile significativamente inferiori rispetto agli altri pianeti del sistema. Se è così, il pianeta è probabilmente abitabile, ospita cioè notevoli quantità di acqua liquida in superficie.

La presenza di acqua liquida non significa tuttavia che un pianeta sia abitato. Abitabile e abitato non sono infatti sinonimi. Per vedere, dunque, se la vita potrebbe effettivamente esistere in un tale mondo il team, nella terza e ultima fase, propone di cercare nell’atmosfera un’altra impronta chimica: la firma della molecola di ozono. Sulla Terra sia le piante che alcuni microbi contribuiscono ad assorbire anidride carbonica, anche se non tanto quanto gli oceani. Come parte di questo processo viene emesso in atmosfera ossigeno, che reagendo con la luce ultravioletta proveniente dal Sole si trasforma in ozono, una molecola molto più facile da rilevare dell’ossigeno stesso. Di conseguenza, se l’atmosfera di un pianeta presenta abbondanza di ozono e ridotte quantità di anidride carbonica, allora è possibile che sia un mondo non solo abitabile ma anche abitato, osservano i ricercatori.

«Se rileviamo l’ozono nell’atmosfera di un pianeta è molto probabile che esso sia collegato all’anidride carbonica consumata dalla vita. E se è vita, è una vita rigogliosa» sottolinea Triaud. «Non si tratterebbe infatti solo di qualche batterio, ma sarebbe una biomassa presente su scala planetaria, in grado di elaborare un’enorme quantità di carbonio e di interagire con esso».

Un elemento importante del nuovo lavoro di ricerca è che sia l’impronta dell’anidride carbonica che quella dell’ozono nell’atmosfera planetaria sono rilevabili con gli attuali telescopi, compreso il nuovo telescopio spaziale James Webb. Nello studio gli scienziati hanno verificato la possibilità di rivelare la CO2 nell’atmosfera di Trappist-1f, uno dei sette pianeti del sistema planetario Trappist-1, situato a circa 40 anni luce dalla Terra. Il risultato dell’indagine è che Jwst è in grado di svelare la presenza della molecola, visibile in uno spettro di trasmissione come banda a 4.3 μm. Sfruttando la firma dell’anidride carbonica e la sensibilità di Jwst, dunque, non solo si può dedurre la presenza di acqua liquida su un pianeta lontano, ma sarà anche possibile seguire un percorso per identificare la vita stessa.

Per saperne di più:


Eros o BluDogs? Così è il colore dei futuri quasar


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Immagine di una galassia “BluDog” scattata con Hyper Suprime-Cam del Subaru Telescope. Crediti: Naoj/Hsc Collaboration

Non tutte le scoperte si rivelano delle vere e proprie nuove scoperte, ma nuove analisi e confronti possono condurre verso strade inesplorate. È il caso di uno studio, pubblicato il 14 dicembre scorso su The Astrophysical Journal Letters e guidato da Akatoki Noboriguchi della Shinshu University in Giappone, dedicato ai cosiddetti transitionary quasars: galassie sul punto di diventare quasar, dunque oggetti di grande importanza per indagare uno fra i più grandi misteri dell’astronomia moderna, qual è appunto l’origine dei quasar.

I quasar, alimentati da buchi neri supermassicci un miliardo di volte più massicci del Sole, sono tra gli oggetti più luminosi dell’universo, ma nonostante siano al centro di molte ricerche, la loro origine rimane poco chiara. La teoria prevalente è che si formino nel cuore di galassie con nubi di gas e polvere che oscurano il buco nero ancora in crescita fin quando non diventa abbastanza energetico e luminoso da spazzare via le nubi che lo circondano.

Per confermare quest’ipotesi, gli astrofisici cercano di catturare quel breve periodo di transizione in cui un oggetto – ancora in condizione di “pre-quasar” – inizia a spazzare via le nubi e le polveri che lo circondano. Ma quali oggetti tenere sott‘occhio? È qui che entrano in gioco le Eros e le BluDogs: le prime sono “oggetti estremamente rossi” (l’acronimo sta per extremely red objects), vale a dire galassie con una dominante “rossa”, mentre le BluDogs – galassie blu oscurate da polvere in eccesso (blue-excess dust-obscured galaxies) mostrano una dominante “blu”.

Analizzando i dati acquisiti dalle Hawaii con il telescopio giapponese Subaru osservando alcune galassie Eros remote – fra i 12 e i 13 miliardi di anni luce – già studiate dal telescopio spaziale Webb, gli autori dello studio hanno notato che, seppur definiti “rosse”, le Eros di Webb possedevano anche una significativa componente blu, simile a quella delle BluDog già trovate dal telescopio Subaru e descritte in un articolo dello scorso anno. Mettendo a confronto gli spettri delle Eros di Webb e delle BluDog del Subaru Telescope, in particolare, si è giunti alla conclusione che appartengono probabilmente alla stessa classe di oggetti, anche se con delle differenze. Sembra che le Eros siano in una fase evolutiva precedente rispetto alle BluDog, che invece si troverebbero nella fase in cui il quasar sta già spazzando via le nubi di polvere.

Se è quindi ormai evidente che la formazione dei quasar è iniziata molto presto nella storia dell’universo, per poter chiarire anche i processi alla loro origine gli autori dello studio puntano ora ad aumentare il numero di transitionary quasars osservati e a condurre misure spettroscopiche più dettagliate.

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Ammassi stellari a volontà nel cielo di gennaio


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La costellazione di Orione e in basso, evidenziata dal cerchio giallo, la stella Sirio

Con la Luna che a inizio mese rischiarerà il cielo solo nella seconda parte della notte, potremmo goderci, a partire dall’imbrunire, le bellissime costellazioni invernali. Verso sud Orione con la grande nebulosa, il Toro con le Pleiadi e poco distante la costellazione dei Gemelli, oltre che ben alte sull’orizzonte – nei pressi dello zenit – la costellazione dell’Auriga e quella di Perseo.

Orione culmina al meridiano poco prima delle 23 a inizio mese e, data la sua facile identificazione, ci servirà da riferimento. Prolungando le tre stelle della cintura del Cacciatore verso in basso a sinistra non potremo che notare la stella più luminosa del cielo: Sirio, conosciuta anche come stella del Cane o Canicola, essendo in effetti la stella principale della costellazione del Cane maggiore. Gli antichi egizi usavano questa stella per scandire l’inizio periodi caldi, la canicola appunto, da luglio ad agosto, quando Sirio sarebbe sorta poco prima del Sole e annunciando l’alluvione del Nilo. La stella Sirio ha una massa doppia rispetto a quella del Sole ma la sua forte luminosità, 25 volte quella della nostra stella, unita alla vicinissima distanza di soli 8,26 anni luce, la rendono la stella più luminosa del cielo sia boreale che australe. La sua temperatura superficiale di poco meno di 10mila gradi la rende di un colore azzurro blu. In realtà Sirio è un sistema binario. Mentre Sirio A, la stella più luminosa, di magnitudine -1.47, è una stella di sequenza principale come il Sole, la compagna, Sirio B, è invece invisibile a occhio nudo, essendo di magnitudine 8.44, ed è una stella nana bianca che ruota intorno a Sirio A con un periodo di 50 anni.

Il cielo di gennaio è piuttosto popolato da ammassi stellari che possono essere facilmente osservati anche con un piccolo telescopio o un binocolo, meglio nelle notti senza Luna.

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Costellazioni del Toro, dell’Auriga e dei Gemelli con indicati gli ammassi aperti che popolano queste costellazioni: le Pleiadi (M45) nel Toro, M36, M37, M38 nell’Auriga e infine M35 nei Gemelli

Oltre alle Pleiadi, ben visibili e spesso scambiate per il Piccolo carro, e le Iadi che circondano l’occhio della costellazione del Toro, nella costellazione dell’Auriga sono facili da osservare M36, di magnitudine 6.3, M37, di magnitudine 5.6, e M38, quest’ultimo di magnitudine 7.4. Più a sinistra, ai piedi della costellazione dei Gemelli, si trova M35, di magnitudine 5.3 e visibile in cieli bui anche a occhio nudo, con a fianco il più piccolo ammasso Ngc 2158. Continuando la ricerca di ammassi aperti facilmente osservabili anche a occhio nudo, a sud di Sirio si può cercare M41 o ammasso del Piccolo alveare, addirittura di magnitudine 4.3, nel Cane Maggiore e poi M44 o ammasso del Presepe, nella costellazione del Cancro. Oltre a questi ammassi, data la posizione ben alta in cielo, non è da dimenticare l’osservazione del doppio ammasso di Perseo.

Giove è ancora brillantissimo nella prima parte della notte tramontando ben dopo la mezzanotte. La sua massima altezza sull’orizzonte sarà di poco meno di 60 gradi e quindi ben alto sull’orizzonte sud quando culmina al meridiano, verso le otto di sera a inizio mese e verso le sei alla fine del mese. Saturno si appresta a essere sempre meno visibile, tramontando verso le nove di sera a inizio mese e alle sette e mezza alla fine. Venere sarà ben visibile all’alba splendendo di magnitudine -4. Tuttavia sarà sempre più vicino al Sole e quindi man mano sempre più difficile da osservare.

Da segnalare per finire lo sciame meteorico delle Quadrantidi, il cui picco è previsto per il 4 gennaio. Il quadrante, ossia la zona di cielo da dove sembrano, per effetto prospettico, provenire le stelle cadenti è situato tra la costellazione di Ercole e l’Orsa maggiore e perciò visibile nella seconda parte della notte fino al mattino. Tuttavia è possibile scorgere le meteore anche in altre ore della notte. La luna disturberà marginalmente le osservazioni dello sciame, e quindi pronti a esprimere qualche desiderio per il 2024.


Guardi il cielo e accendi la “macchina del tempo”


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Crediti: Azienda Speciale PalaExpo/Claudia Gori

Da ragazzina sognavo di diventare archeologa. Avida lettrice di tutto ciò che trovavo nella libreria di casa, avevo sviluppato una vera passione per l’egittologia, ma non disdegnavo gli studi su Troia e sulla civiltà micenea ed ero ugualmente affascinata dalle rovine di Babilonia.

Alla fine, però, ho scelto un diverso percorso universitario e mi sono dedicata alla fisica per poi focalizzarmi sull’astrofisica. Pensavo di avere completamente cambiato registro ma mi sono ben presto accorta che lo studio degli oggetti celesti è una sorta di archeologia glorificata. Infatti, quando guardiamo una stella noi non la vediamo come è adesso ma piuttosto come appariva quando ha emesso la luce che noi percepiamo ora. La differenza tra il tempo della stella e il nostro è tanto più grande quanto maggiore è la distanza che ci divide. Tutto dipende dalla velocità della luce, elevatissima ma finita.

Per questo l’astronomia è una macchina del tempo come recita il titolo della mostra ideata dall’Istituto nazionale di astrofisica, in collaborazione con Pleiadi srl, negli spazi del Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra inizia con una replica del cannocchiale di Galileo Galilei. Per realizzare il suo strumento, Galileo migliorò la combinazione di lenti, inventata da un occhialaio olandese, e costruì il suo cannone con occhiale, coniando anche la nuova parola, cannocchiale. Galileo non sapeva di avere messo a punto una macchina del tempo: all’epoca si pensava che le stelle fossero inchiodate nel Primo Mobile e nessuno si chiedeva a che distanza fossero, tanto più che sulla natura della luce le idee erano ancora confuse. Tuttavia il suo strumento ha dimostrato come il cielo fosse pieno di sorprese che avrebbero scardinato il sapere della sua epoca e aperto la via alla scienza moderna.

Dal cannocchiale di Galileo ai più potenti telescopi moderni, la tecnologia viene usata per potenziare la nostra visione ed andare più lontano, sempre più indietro nel tempo, sempre più vicino all’origine del nostro universo. L’astronomia è una scienza antichissima ma estremamente attuale, iniziata nel visibile si è ora espansa a comprendere emissioni radio, infrarosse, ultraviolette, X e gamma alle quali i nostri occhi non sono sensibili.

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Crediti: Azienda Speciale PalaExpo/Claudia Gori

In un ideale percorso che ci fa esplorare lo spazio viaggiando nel tempo, la prima sala della mostra è dedicata al Sistema solare su scala cittadina. I visitatori sono accolti da un grande pallone a rappresentare il Sole che viene usato come punto di partenza per fare apprezzare le enormi distanze tra i pianeti posizionati su una mappa di Roma. I tempi di transito reali vanno dai pochi secondi per la Luna, alle manciate di minuti per il Sole e i pianeti a noi più vicini, alle ore richieste per arrivare a Nettuno.

Ma è solo l’inizio, la stella più vicina Proxima Cen è a 4,2 anni luce, mentre Sirio, l’astro più brillante, è a 8,6 anni luce e domina il cielo invernale in compagnia di Betelgeuse ,una supergigante rossa della costellazione di Orione che, però, è decisamente più lontana. La sua luce rossastra è partita 530 anni fa, quando Colombo scopriva l’America. Restando nella costellazione di Orione, troviamo la famosa Nebulosa che ha prodotto la luce che vediamo 1500 anni fa, quando cadeva l’impero romano d’occidente.

Collegare un oggetto celeste a un evento storico può aiutare ad apprezzare la scala dei tempi che rappresenta il filo conduttore tra le sale della mostra. Peccato che la storia di tutte le civiltà che conosciamo finisca ben prima di uscire dalla nostra galassia. I tempi cosmici sono incredibilmente più grandi di quelli umani e implicano distanze difficili da immaginare. Questo non ci impedisce di apprezzare le immagini prodotte a partire dai dati del satellite europeo Gaia lanciato 10 anni fa per mappare oltre un miliardo di stelle della Via Lattea. Il modello di Gaia (in scala 1 a 5) è sospeso al soffitto e può essere manovrato dai visitatori. Ma la nostra galassia è solo una di moltissime. I segnali che ci arrivano dalla galassia di Andromeda, la spirale simile alla nostra Via Lattea più vicina, impiegano 2 milioni e mezzo di anni per raggiungerci. Mentre la galassia M87, che ospita il buco nero più fotogenico che conosciamo, è a 56 milioni di anni luce. Le galassie del quintetto di Stephan, immortalate in immagini splendide dai telescopi spaziali Hubble e Jwst, sono tra 200 e 300 milioni di anni luce, e corrispondono ai periodi geologici Permiano e Triassico.

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Crediti: Azienda Speciale PalaExpo/Claudia Gori

Ma la corsa all’indietro nel tempo continua: i buchi neri che si fondono dando origine a onde gravitazionali sono a qualche miliardo di anni luce, quando sulla terra si sviluppavano gli organismi unicellulari. I segnali che sono partiti oltre 5 miliardi di anni fa meritano una ulteriore riflessione perché, all’epoca, il Sole ed i suoi pianeti non si erano ancora formati. L’universo è una realtà in continuo divenire. L’astrofisica ci offre delle istantanee ed è mettendole insieme che ricostruiamo il film dell’evoluzione cosmica. Le immagini possono essere sonificate, diventare un videogioco oppure un percorso di realtà virtuale, dove gli oggetti celesti sono sculture 3D.

Visitando Macchine del tempo ci si rende conto che l’astrofisica sta vivendo un momento straordinario e che l’Italia sta giocando un ruolo da protagonista. Decifrare i messaggi delle stelle non serve solo a fare passi avanti nella comprensione dell’universo: le avveniristiche tecnologie astronomiche hanno anche importanti ricadute sulla vita di tutti.

Per saperne di più:

  • Visita il sito della mostra “Macchine del tempo. Il viaggio nell’Universo inizia da te”, Roma, Palazzo delle Esposizioni, aperta fino al 24 marzo 2024


Webb, bis di supernove con una lente gravitazionale


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Nel novembre del 2023 il telescopio Webb è stato puntato sull’ammasso di galassie Macs J0138.0-2155. Tuttavia, più che le galassie dell’ammasso, ben più interessante si è rivelato ciò che si trova alle sue spalle. In virtù di un fenomeno denominato lensing gravitazionale, la massa degli ammassi funge infatti da “lente”, deviando e amplificando la luce prodotta dalle galassie localizzate dietro di essi, e producendo immagini multiple e distorte di questi sistemi. In questo senso, gli ammassi di galassie costituiscono dei formidabili telescopi cosmici, in quanto consentono di osservare oggetti estremamente distanti, che risulterebbero altrimenti inaccessibili ai nostri strumenti.

Situata a dieci miliardi di anni luce dalla Terra, la galassia Mrg-M0138 è stata scoperta in prossimità dell’ammasso Macs J0138.0-2155 sfruttando il lensing gravitazionale. Questa sorgente remota è visibile in ben cinque immagini multiple dalla caratteristica forma arcuata che contraddistingue gli oggetti affetti dal lensing. Nel 2019, esaminando alcune immagini del telescopio Hubble risalenti a tre anni prima, alcuni ricercatori hanno individuato una supernova all’interno di questa galassia. Esplosioni di supernova nelle galassie situate dietro una lente gravitazionale sono state osservate piuttosto raramente – a oggi si contano meno di una dozzina di eventi.

Tuttavia questa è solo una parte della storia. Esaminando delle nuove immagini recentemente acquisite con il telescopio Webb è stata infatti individuata una seconda supernova in Mrg-M0138. È la prima volta che due supernove vengono scoperte nella stessa galassia grazie al lensing gravitazionale.

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L’ammasso di galassie Macs J0138.0-2155 con uno zoom sulla galassia Mrg-M0138, visibile grazie al lensing gravitazionale. Le frecce indicano due immagini multiple della supernova scoperta recentemente dal telescopio spaziale James Webb, che appare come un “puntino” all’interno della galassia. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, J. Pierel, D. Newman

La scoperta è stata raccontata sul blog della Nasa dedicato al telescopio Webb dai ricercatori Justin Pierel e Andrew Newman, rispettivamente dello Space Telescope Science Institute di Baltimora e dell’Observatories of the Carnegie Institution for Science di Pasadena, entrambi negli Stati Uniti.

«Quando una supernova esplode dietro una lente gravitazionale, la sua luce raggiunge la Terra attraverso diversi percorsi. Potremmo paragonare questi percorsi a dei treni che partono da una stazione alla stessa ora, viaggiando alla stessa velocità e diretti alla stessa meta ma che, a causa delle differenze nella lunghezza del tragitto e nel terreno, non arrivano a destinazione nello stesso momento», spiegano i due autori della scoperta. «Allo stesso modo, le diverse immagini di una supernova dietro una lente gravitazionale appaiono agli astronomi nel corso di giorni, mesi o addirittura anni diversi. Misurando la differenza fra i tempi a cui appaiono le immagini, possiamo stimare come si evolve il tasso di espansione dell’universo, noto come costante di Hubble, misura che rappresenta una sfida cardine per la cosmologia». Attualmente i valori della costante di Hubble stimati con tecniche diverse risultano infatti inconsistenti fra loro, generando quella che viene chiamata tensione di Hubble.

Entrambe le supernove sono del tipo “Ia”. A differenza delle supernove di tipo II, che sopraggiungono nelle ultime fasi di vita delle stelle di grande massa, le supernove Ia sono esplosioni dovute all’accrescimento di materiale su una nana bianca da parte di una stella compagna. Raggiunto il valore limite pari a quasi una volta e mezzo la massa del Sole (massa di Chandrasekhar, dal fisico che per primo calcolò questo valore), la nana bianca collassa producendo una violenta esplosione. La peculiarità di queste esplosioni sta nel fatto che hanno una luminosità caratteristica nota con una certa accuratezza. Misurando di quanto l’emissione osservata appare attenuata rispetto al valore caratteristico, è dunque possibile stimare a quale distanza si trova la supernova.

Non è la prima volta che le supernove visibili grazie al lensing gravitazionale vengono utilizzate per misurare la costante di Hubble. I ricercatori hanno stimato che nuove immagini delle due supernove – ribattezzate rispettivamente Requiem, quella del 2016, ed Encore (‘Bis’, in italiano) – compariranno tra circa dodici anni.

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La supernova Requiem immortalata da Hubble nel 2016 e la supernova Encore scoperta da Webb nel 2023. Le due esplosioni, indicate dai cerchi, sono visibili in diverse immagini multiple della galassia Mrg-M0138. Crediti: Nasa, Esa, Stsci, S. A. Rodney, G. Brammer; Nasa, Esa, Csa, Stsci, J. Pierel, A. Newman

Per studiare la supernova scoperta il mese scorso i ricercatori stanno usufruendo del cosiddetto Director’s Discretionary Time (“tempo a discrezione del direttore”) che viene destinato al monitoraggio di fenomeni astronomici improvvisi e variabili nel tempo. «Le supernove sono normalmente imprevedibili», dicono gli autori, «ma stavolta sappiamo quando e dove guardare per vedere le ultime immagini di Requiem ed Encore. Nuove osservazioni nell’infrarosso intorno al 2035 cattureranno il loro ultimo grido e consentiranno una nuova e precisa misura della costante di Hubble». Non ci resta che sperare che il telescopio Webb funzioni sino ad allora per immortalare delle nuove, straordinarie immagini delle due supernove.


Io e Juno


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Immagine del polo nord della di Io stata scattata il 15 ottobre dalla sonda Juno. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss, Ted Stryk

Il tête-à-tête è in programma per domani, sabato 30 dicembre. Sarà l’incontro più ravvicinato mai avvenuto negli ultimi vent’anni fra una sonda spaziale e la piccola luna di Giove Io, il mondo più vulcanico del Sistema solare. La sonda della Nasa Juno sorvolerà il più interno dei quattro satelliti medicei a una distanza dalla superficie di circa 1500 km, raccogliendo – promettono i responsabili della missione – un’enorme quantità di informazioni.

«Combinando i dati di questo flyby con le nostre osservazioni precedenti, il team scientifico di Juno sta studiando come variano i vulcani di Io», spiega il principal investigatot di Juno, Scott Bolton, del Southwest Research Institute di San Antonio (Usa). «Stiamo verificando la frequenza delle eruzioni, la loro luminosità, il calore, come muta la forma del flusso di lava e la relazione tra l’attività di Io e il flusso di particelle cariche nella magnetosfera di Giove».

Un secondo sorvolo ravvicinato, sempre alla stessa distanza di 1500 km dalla superficie della luna, è in programma per il 3 febbraio 2024. Andrà ad aggiungersi a questo di domani e ai tanti già compiuti in passato: Juno ha infatti già osservato da vicino l’attività vulcanica di Io da distanze comprese fra 11mila e 100mila km, fornendo per la prima volta immagini dei suoi due poli. La sonda inoltre ha al suo attivo passati numerosi sorvoli ravvicinati di Ganimede ed Europa, nonché ben 56 flyby attorno a Giove.

«I due flyby di dicembre e febbraio», continua Bolton, «serviranno a Juno per condurre indagini sull’origine dell’intensa attività vulcanica di Io, sull’esistenza di un oceano di magma sotto la sua crosta e sull’importanza delle forze mareali esercitate da Giove, che deformano senza tregua questa luna martoriata».

Durante il flyby saranno attivate tutt’e tre le fotocamere a bordo della sonda: la Stellar Reference Unit, una camera per la navigazione stellare capace di fornire anche dati scientifici ad alta risoluzione; la JunoCam, che scatterà immagini a colori in luce visibile; e infine lo spettrometro italiano Jiram (è stato finanziato dall’Asi, realizzato da Finmeccanica ed è sotto la responsabilità scientifica di Alessandro Mura dell’Inaf di Roma), in grado di acquisire immagini nell’infrarosso.