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L’enigmatica attività di Phaethon


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Com’è ben noto l’asteroide near-Earth (3200) Phaethon ricade nella categoria degli asteroidi attivi, una classe eterogenea di asteroidi che non sono comete “classiche”, ma da cui viene emessa materia nello spazio in modo episodico. Phaethon è un asteroide di circa 5 km di diametro che percorre un’orbita inclinata di 22° sul piano dell’eclittica con perielio a 0,14 au e afelio a 2,4 au (dove au sta per unità astronomiche). Come hanno dimostrato le immagini del Solar Terrestrial Relations Observatory (Stereo) riprese nel 2009, l’asteroide è attivo solo quando si trova in prossimità del perielio, a circa 21 milioni di km dal Sole: in questa circostanza aumenta la propria luminosità in modo anomalo per un paio di giorni. Successivamente fu scoperta anche la presenza di una tenue coda. Dopo la scoperta della coda si pensava che fosse composta da polveri, ma analizzando le osservazioni di Stereo del 2022 si è scoperto essere composta per lo più di sodio. In ogni caso, per via della similitudine orbitale, Phaethon era ritenuto già da Wipple fin dal 1983 il corpo progenitore della corrente di meteoroidi responsabile dello sciame delle Geminidi, che ha il suo massimo il 14 dicembre di ogni anno. La scoperta diretta dell’attività superficiale dell’asteroide non ha fatto altro che rafforzare questa connessione.

Una rappresentazione artistica dell'attività alla superficie di Phaethon (Crediti: NASA).
Rappresentazione artistica dell’attività alla superficie di Phaethon. Crediti: Nasa

Ci sono diversi meccanismi fisici che possono essere invocati per spiegare l’attività di Phaethon. In passato sono stati esaminati gli effetti delle temperature estreme che l’asteroide sperimenta al perielio, con valori che possono raggiungere i 1000 K. Questi studi avevano mostrato che il ciclo dell’escursione termica può frammentare i massi superficiali dell’asteroide che diventerebbero così una sorgente di polvere e detriti che potrebbero essere espulsi dalla superficie alimentando il flusso di meteoroidi associato. Per via di questa attività peculiare si considerava Phaethon come una “cometa di roccia”. Tuttavia, è improbabile che la sola fratturazione termica produca un’accelerazione sufficiente per consentire a polvere e frammenti di superare la velocità di fuga e abbandonare Phaethon. Nel 2021 fu pubblicato un paper che considerava il sodio come l’elemento responsabile dell’attività di Phaethon. L’idea di base è che la sublimazione del sodio presente nella matrice rocciosa del corpo faccia un po’ le veci del vapore d’acqua in una cometa tradizionale. Questo meccanismo spiegherebbe anche il motivo della scarsità di sodio nelle meteore delle Geminidi: il sodio verrebbe perso nello spazio permettendo a polvere e frammenti di lasciare la superficie dell’asteroide. La scoperta che la coda sviluppata da Phaethon al perielio è composta per lo più di sodio neutro avvalora questa ipotesi.

Per cercare di capire meglio quali meccanismi possano essere all’opera su Phaethon per giustificare l’espulsione di meteoroidi nello spazio, ricercatori dell’Università di Helsinki hanno cercato di determinarne la composizione della superficie, confrontandone lo spettro con quello di meteoriti note. Phaethon ha un’albedo geometrica piuttosto bassa e appartiene al tipo tassonomico B, compatibile con quello delle meteoriti del tipo condrite carbonacea: si tratta di meteoriti che non hanno subito processi di metamorfosi importanti a partire dalla loro formazione, contengono una miscela di condrule e sono chimicamente primitive. Le condriti carbonacee costituiscono meno del 5 per cento di tutti le meteoriti conosciute e sono classificate in almeno otto gruppi petrologici, in base alle loro proprietà mineralogiche, di composizione elementare e isotopiche. Purtroppo non ci sono bande di assorbimento notevoli nello spettro di riflettanza nell’ottico o nel vicino infrarosso di Phaethon che possano essere associati a dei composti, e questo è un ostacolo per l’identificazione della mineralogia superficiale. La situazione cambia se si considera lo spettro di emissione nel medio infrarosso: per questo i ricercatori hanno utilizzato i dati raccolti nel passato dallo Spitzer Space Telescope.

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Lo spettro di emissione di Phaethon nel medio infrarosso confrontato con quello di alcune meteoriti. Il best match si ha con le CY. Crediti: MacLennan e Granvik, Nature, 2023

Fra le meteoriti del tipo condrite carbonacea confrontate con Phaethon, quelle che hanno la maggiore somiglianza con lo spettro di emissione nel medio infrarosso dell’asteroide sono le CY. Si tratta di meteoriti che hanno subito un’alterazione a causa della presenza di acqua. Oltre all’alterazione acquosa, queste meteoriti registrano anche uno o più eventi metamorfici termici con temperature elevate che hanno disidratato i fillosilicati, causato la ricristallizzazione dell’olivina e fuso i solfuri di ferro. Nel caso di Phaethon il best match si ha con meteoriti CY che hanno subito un metamorfismo con temperature comprese fra 770 K e 1020 K: la temperatura d’alterazione di queste meteoriti appare compatibile con quelle che sperimenta Phaethon durante il passaggio al perielio. Questa stretta somiglianza con le CY ha eliminato altri meteoriti candidate a “parenti”, come le CK e le CV che erano state proposte in lavori precedenti da altri ricercatori. Con queste informazioni è stato possibile modellare lo spettro di best-fit in emissione nel medio infrarosso di Phaethon usando una miscela di olivina ricca di magnesio per il 36,5 per cento, troilite (solfuro di ferro) per il 41,8 per cento, calcite (carbonato di calcio) e magnesite (carbonato di magnesio) per un complessivo 7 per cento, infine alcuni idrossidi. Usando un modello termofisico sviluppato dagli stessi autori in una ricerca precedente e tenendo conto del periodo di rotazione di Phaethon (circa 3,60 ore), è stato possibile calcolare le temperature sia in superficie, sia sotto di essa, per stimare i tassi delle reazioni di decomposizione dei minerali di Phaethon, precursori delle CY. Tutto questo al variare della latitudine sull’asteroide.

Alle temperature simili a quelle che sperimenta Phaethon quando passa al perielio, i carbonati producono anidride carbonica, i fillosilicati rilasciano vapore acqueo e i solfuri gas di zolfo. Dato che le reazioni di decomposizione avvengono a temperature leggermente diverse, il sottosuolo di Phethon potrebbe essere costituito da diversi strati fatti di materiale che ha subito vari stadi di riscaldamento. Il gas prodotto dalle varie reazioni di decomposizione può interagire con il materiale solido e formare minerali esotici. Facendosi strada fino in superficie attraverso crepe nelle rocce, questi getti di gas sarebbero in grado di espellere piccoli meteoroidi nello spazio, aiutati anche dalla fratturazione termica, creando così la corrente di meteoroidi delle Geminidi.

E il sodio che ruolo ha in tutto questo? Secondo gli autori dello studio, ipotizzando che la polvere non sia davvero responsabile dell’attività di Phaethon, l’aumento della luminosità e la formazione della coda al perielio sarebbero dovute all’emissione delle righe proibite a 630 nm e a 636 nm dell’ossigeno causato dalla fotodissociazione del vapore acqueo e dell’anidride carbonica emessi dalla superficie. In pratica, secondo gli autori, al perielio l’emissione a 589 nm del sodio neutro sarebbe secondaria, mentre prevarrebbe l’emissione di due righe proibite dell’ossigeno con lunghezza d’onda molto simile. In base alle stime del modello termofisico, su tutta la superficie di Phaethon, il tasso di produzione di gas arriverebbe a 1032 – 1034 mol/s, ossia diversi ordini di grandezza maggiori del tasso di produzione del sodio.

Gli autori ritengono che l’unico meccanismo in grado di spiegare la presenza di un flusso di meteoroidi associati a Phaethon sia l’espulsione della polvere attraverso la produzione di gas da decomposizione termica. In questo scenario il ruolo del sodio verrebbe parecchio ridimensionato, tornando quindi ad uno schema più “classico”. Come stanno realmente le cose? Probabilmente ce lo dirà la missione spaziale Destiny+ (Demonstration and Experiment of Space Technology for INterplanetary voYage with Phaethon fLyby and dUst Science), che verrà lanciata dalla Jaxa (l’agenzia spaziale giapponese) nel 2025 con lo scopo principale di scoprire il meccanismo di emissione di meteoroidi di Phaethon.

Per saperne di più:


Un fiume di stelle nell’Ammasso della Chioma


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L’Ammasso della Chioma visto da Hubble. Crediti: Nasa, Esa, and the Hubble Heritage Team (Stsci/Aura)

Sono le strutture legate gravitazionalmente più grandi dell’universo: stiamo parlando degli ammassi (o clusters) di galassie, ovvero enormi raggruppamenti di galassie che possono contare fino a migliaia di membri. Era il 1933 quando l’astronomo svizzero Fritz Zwicky studiando proprio un ammasso di galassie – il Coma Cluster (o Ammasso della Chioma) – si accorse di alcune anomalie gravitazionali non imputabili alla materia ordinaria. Questa fu la prima evidenza osservativa a favore dell’esistenza di un tipo di materia rivelabile unicamente grazie ai suoi effetti gravitazionali: la materia oscura. Da allora il Coma Cluster è uno degli ammassi meglio studiati in virtù della sua relativa vicinanza alla Via Lattea (si trova a circa trecento milioni di anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Chioma di Berenice), che ne consente una caratterizzazione dettagliata.

Ora, a distanza di novant’anni, l’Ammasso della Chioma torna a far parlare di sé. Alcuni astronomi, guidati da Javier Román del Kapteyn Astronomical Institute di Groningen (Paesi Bassi) e dell’Università di La Laguna a Tenerife (Spagna), hanno infatti scoperto un lunghissimo “flusso” di stelle (stream, in inglese) all’interno dell’ammasso, dieci volte più esteso della Via Lattea. Si tratta di una gigantesca ma sottile struttura costituita da stelle che non appartengono alle galassie dell’ammasso ma sono situate tra una galassia e l’altra.

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Una porzione del Coma Cluster. Le galassie dell’ammasso sono colorate di giallo. La banda scura indica la struttura di stelle appena scoperta. Crediti: Javier Romàn/William Herschel Telescope

In generale, flussi di stelle di lunghezza inferiore sono comuni in corrispondenza delle galassie negli ammassi. Le frequenti interazioni gravitazionali possono infatti alterarne la morfologia, generando questi veri e propri fiumi di stelle “strappati” dalle galassie a cui una volta appartenevano. Quello che non si era mai visto era un flusso di stelle situato tra una galassia e l’altra.

«Ci siamo imbattuti in questa sorta di “corrente stellare” per puro caso», afferma Román. «Stavamo studiando gli aloni di stelle che si trovano attorno alle galassie più estese», che a differenza di questi flussi stellari hanno una forma pressoché sferica (con le dovute eccezioni). Episodi di questo genere non sono rari in astronomia, dove le scoperte avvenute per serendipità rivelano spesso fenomeni più accattivanti di quelli che si stavano indagando.

Lo studio è stato appena pubblicato su Astronomy & Astrophysics. La scoperta risulta particolarmente intrigante in quanto strutture stellari di questo tipo sono piuttosto fragili a causa delle mutue interazioni fra le galassie in un ammasso, che costituiscono una minaccia per la sopravvivenza di flussi stellari così estesi. Tale caratteristica rende queste strutture particolarmente difficili da osservare. L’ipotesi avanzata dagli autori è che queste stelle si trovassero inizialmente all’interno di una galassia nana, letteralmente smembrata dall’interazione con gli altri membri dell’ammasso.

Per quanto rari, questi flussi di stelle sono previsti dalle simulazioni numeriche, come spiegato da Reynier Peletier, coautore dell’articolo. «Ci aspettiamo di trovarne ancora. Per esempio, utilizzando il futuro Extremely Large Telescope (Elt) da 39 metri e con i dati raccolti dal telescopio Euclid». Con strumenti di questo tipo, aggiunge Peletier, «saremo capaci di risolvere le singole stelle sia dentro che in prossimità delle correnti stellari».

Soprattutto, l’utilizzo di questi telescopi potrà fornire nuove informazioni sulla materia oscura presente in queste strutture, la cui natura rimane ancora avvolta nel mistero.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A giant thin stellar stream in the Coma Galaxy Cluster”, di Javier Román, R. Michael Rich, Niusha Ahvazi, Laura Sales, Chester Li, Giulia Golini, Ignacio Trujillo, Johan H. Knapen, Reynier F. Peletier e Pablo M. Sánchez-Alarcón


Lancio avvenuto, il cubesat Spirit è in volo


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Il nanosatellite Spirit è decollato dalla base spaziale di Vandenberg in California, negli Stati Uniti, a bordo di un razzo Falcon 9, alle 19:19 ora italiana di venerdì 1° dicembre 2023

L’Università di Melbourne e l’Agenzia spaziale italiana (Asi) annunciano il successo del lancio di Spirit, una storica missione supportata dall’Agenzia spaziale australiana e che vede il contributo dell’Agenzia spaziale italiana. Il nanosatellite Spirit (Space Industry Responsive Intelligent Thermal) è stato lanciato dalla base di Vandenberg in California, negli Stati Uniti, utilizzando un vettore Falcon 9 della società americana SpaceX. Il decollo è avvenuto il primo dicembre 2023 quando in Italia erano le 19:19 ed ora il nanosatellite si trova su di un’orbita polare a circa 510 km sopra la Terra.

A dimostrazione della crescente reputazione dell’Australia nel settore spaziale mondiale, Spirit è il primo satellite australiano a portare uno strumento scientifico fornito da una agenzia straniera; si tratta di Hermes, un rilevatore di raggi X dell’Agenzia spaziale italiana che avrà il compito di cercare lampi di raggi gamma che si creano quando le stelle muoiono o si scontrano e per un momento emettono più energia di un’intera galassia. Spirit è di fatto quindi il primo di una costellazione di sette nanosatelliti chiamata Hermes Scientific Pathfinder Constellation che, quando completata dagli elementi in sviluppo da parte dell’Agenzia spaziale italiana, sarà alla ricerca di questi “fuochi d’artificio” cosmici.

Il nanosatellite è stato sviluppato da un consorzio guidato dall’Università di Melbourne e dall’Agenzia spaziale italiana, composto da Inovor Technologies, Neumann Space, Sitael Australia e Nova Systems in Australia, nonché dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), Fondazione Bruno Kessler, Università di Tubinga e i loro partner per lo sviluppo del carico utile Hermes. L’Agenzia spaziale australiana ha sostenuto il progetto con finanziamenti di quasi 7 milioni di dollari australiani.

Dopo i controlli iniziali e la comunicazione con la stazione terrestre di Nova Systems a Peterborough, nell’Australia meridionale, nelle prossime settimane il nanosatellite pesante 11,5 kg, che utilizza il popolare standard CubeSat, dispiegherà i pannelli solari e i radiatori termici lunghi quasi un metro. I pannelli solari alimenteranno gli strumenti scientifici, le fotocamere (incluso un selfie stick), i sistemi di guida, le antenne di comunicazione, il computer di bordo con capacità di intelligenza artificiale e un sistema di propulsione elettrica.

The SpIRIT nanosatellite has launched with @SpaceX!

Congrats @unimelb, @ASI_spazio, @inovortech, @NeumannSpace, @Nova_Systems & @SITAEL Australia. We’re proud to support SpIRIT, which will showcase new Aussie tech and hunt gamma ray bursts.

Read more: t.co/AG4RM9uPJ3 pic.twitter.com/ApOR0QQBJU

— Australian Space Agency (@AusSpaceAgency) December 1, 2023

Spirit testerà inoltre anche un sistema di controllo termico realizzato dall’Università di Melbourne che consente ai nanosatelliti di ospitare strumenti sensibili che richiedono un controllo preciso della temperatura che altrimenti potrebbero volare solo su satelliti dieci volte più pesanti. Spirit trasporta anche il propulsore Neumann Drive, un nuovo sistema di propulsione elettrica basato su propellenti metallici solidi ed è anche una delle prime piattaforme spaziali sviluppata da Inovor Technologies.

Spirit è progettato per volare in orbita terrestre bassa per due anni in un’orbita polare sincrona con il Sole, lungo cui il satellite viaggia da nord a sud sopra i poli ed è orientato in modo da essere sempre rivolto verso la nostra stella con un angolo quasi costante. Dopo il lancio, il team trascorrerà circa quattro mesi testando e mettendo in funzione il nanosatellite nelle condizioni estreme dello spazio prima di iniziare le operazioni scientifiche. Spirit passerà quindi a una fase operativa completa per indagare i misteri del cosmo attraverso la cooperazione scientifica internazionale e per misurare le prestazioni a lungo termine della tecnologia spaziale di fabbricazione australiana.

Una volta completata la sua missione, Spirit verrà messo in “modalità sicura” bruciando al rientro nell’atmosfera.

«Questo lancio rappresenta una pietra miliare incredibile per l’industria spaziale australiana», dice Michele Trenti dell’Università di Melbourne, principal investigator della missione Spirit. «Spirit è uno dei nanosatelliti più sofisticati al mondo, con il potenziale per fornire informazioni entusiasmanti sull’universo e coprire aree di indagine tradizionalmente svolte da satelliti molto più grandi».

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Payload demonstration model di Hermes. Fonte: hermes-sp.eu

«Il recente lancio del nanosatellite Spirit è stato un momento di gioia e di festa in Italia», aggiunge Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, «poiché rappresenta una collaborazione di successo tra Asi e i nostri partner in Australia, dall’altra parte del mondo. Collaborazione che presto si arricchirà di nuove iniziative legate anche al tema del rilevamento e monitoraggio di oggetti spaziali near-Earth. Siamo grati per questa opportunità di collaborazione che ha permesso al primo dei nostri rilevatori Hermes di volare. Raccoglierà dati scientifici utili e ci aspettiamo di imparare molto durante il suo funzionamento in orbita. Forza Spirit! Presto arriverà anche la costellazione Hermes dell’Asi».

«Spirit esemplifica la crescente capacità del settore spaziale australiano nella progettazione e produzione di veicoli spaziali intelligenti e la sua maturità nel collaborare con partner internazionali. La missione Spirit, in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana (Asi), dimostra la capacità dell’Australia di supportare missioni spaziali scientifiche che migliorano la comprensione del nostro universo», sottolienea il capo dell’Agenzia spaziale australiana Enrico Palermo:, «facendo avanzare al contempo le competenze tecnologiche critiche in settori quali la produzione avanzata e l’intelligenza artificiale. L’Agenzia spaziale australiana è orgogliosa di supportare Spirit attraverso le sue iniziative International Space Investment e Moon to Mars, e attendiamo con impazienza il prossimo passo del viaggio di Spirit nello spazio. Congratulazioni ai principali partner australiani del progetto Inovor Technologies, Neumann Space, Nova Systems e Sitael Australia».

«Lo strumento scientifico altamente innovativo e compatto per le osservazioni di raggi X e gamma a bordo di Spirit è identico a quelli sviluppati per la costellazione Hermes Pathfinder da un grande team guidato dall’Inaf con il finanziamento dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). Spirit è il primo satellite a ospitare lo strumento, con gli altri elementi della costellazione in fasi avanzate di integrazione e test. Portare tale strumento dalla progettazione al volo in poco più di quattro anni», conclude Fabrizio Fiore dell’Inaf, coordinatore scientifico della Costellazione scientifica Hermes Pathfinder, «è emozionante e non vediamo l’ora di osservare i primi fotoni dall’orbita, grazie alla cooperazione con l’Australia».

Guarda l’intervista a Fabrizio Fiore (in italiano) su Hermes:

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Il mese in cui Betelgeuse sparirà


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Traiettoria dell’asteroide 319 Leona nella costellazione di Orione. Il giorno 12 dicembre alle ore 2:13 circa di tempo locale occulterà la stella Betelgeuse

319 Leona è un asteroide della fascia principale e appartiene alla famiglia di asteroidi Cibele. Ha un diametro medio di circa 68,16 km. La magnitudine apparente oltre la 14, praticamente invisibile se non con grandi telescopi, e la distanza attualmente 410 milioni di km dal Sole. Betelgeuse è la stella principale della costellazione di Orione, la spalla del grande cacciatore, la seconda in luminosità della costellazione dietro a Rigel, il ginocchio. È una supergigante rossa con un diametro di circa 750 volte il diametro del nostro Sole ed è situata a circa 500 anni luce da noi.

La traiettoria dell’asteroide 319 Leona è tale per cui il giorno 12 dicembre passerà esattamente di fronte alla linea di vista di Betelgeuse, occultandola o, meglio, eclissandola come la Luna con la nostra stella. Occultazioni di questo tipo accadono frequentemente ma con stelle deboli. Con stelle visibili a occhio nudo sono molto rare e praticamente uniche, se le stelle sono delle icone come Betelgeuse. La supergigante rossa, quindi, si affievolirà fino a sparire quasi per magia per qualche secondo intorno alle 2 e 13 della mattina del 12 dicembre, ora locale.

Purtroppo, l’occultazione non è visibile ovunque ma da una zona ristretta. Per quanto riguarda il territorio italiano, essa è visibile da alcune zone della Puglia, della Calabria e della Sardegna. La zona di osservabilità può essere leggermente diversa e anche il tempo esatto di inizio a causa delle incertezze sulle orbite e sulla forma dell’asteroide. È possibile reperire le informazioni dettagliate, anche della zona di osservabilità dell’occultazione, al seguente sito: astrocampania.it.

Rammentiamo che, soprattutto per le località ai confini della zona di osservabilità, c’è un’incertezza sulla previsione dovuta all’incertezza sulla conoscenza della forma dell’asteroide. Il consiglio è quindi di spostarsi a ridosso della zona centrale. Proprio lo studio dettagliato delle occultazioni permette di aumentare la conoscenza della forma e dimensione degli asteroidi.

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Zona di visibilità dell’occultazione di Betelgeuse da parte dell’asteroide 319 Leona. La linea verde rappresenta la linea centrade dell’occultazione. Le due linee blu sono i limiti di osservabilità mentre le linee rosse sono i limiti ad una deviazione standard (incertezza). Mappa creata con Google Earth e informazioni dal sito astrocampania.it

Siamo in dicembre e la Luna lo sa bene, visto che il 2 fa visita all’ammasso M44 o del Presepe, nella costellazione del Cancro. Sebbene il massimo avvicinamento sarà alle prime ore del 2, L’evento è visibile già dalla sera del 1° dopo le 22, con la Luna che si avvicinerà lentamente sempre di più a contemplare il presepe celeste.

Nel giorno di Natale la cometa 62P/Tsuchinshan si troverà nel punto più vicino al Sole, alla distanza di 1.27 unità astronomiche. Anche se le comete sono imprevedibili, sarà comunque purtroppo invisibile a occhio nudo.

Questo è anche il mese dello sciame meteorico delle Geminidi. Sciame piuttosto intenso, quest’anno la sua osservazione può essere favorevole perché non disturbata dalla Luna. Per cui, ben coperti e testa in alto nelle notti intorno al 14 dicembre, giorno del picco meteorico. Abituatevi ad alzare spesso lo sguardo verso il cielo già dai primi giorni del mese: aumenterete di molto la probabilità di vedere qualche stella cadente.

Anche in questo mese i pianeti più luminosi sono ancora ben visibili. Giove è ancora ben osservabile per tutto il mese. A inizio mese, transiterà al meridiano verso le 22 brillando con una magnitudine di -2,7 e a fine mese transiterà verso le 20 con una magnitudine di circa -2,5. Il 21 e il 22 sarà prospetticamente vicino alla Luna appena dopo il primo quarto.

Venere è ancora l’astro più dominante del mattino, sorgendo circa 4 ore prima del Sole. Cercatelo a partire dalle 5 del mattino in direzione est sud-est. Il 9 dicembre, aspettando l’alba, si avrà una bella possibilità di vederlo insieme a una splendida falce sottile di Luna.

Mercurio è sempre difficile da osservare, perché non si discosta angolarmente mai dal Sole. Tuttavia il giorno 9 sarà alla massima altezza sull’orizzonte ovest, mentre il giorno 14 sarà anche lui vicino alla Luna. Tutto molto complicato da osservare, compresa la Luna, che a un giorno dalla luna nuova sarà un’impercettibile falce. Cercate la sottilissima Luna bassa sull’orizzonte sud-ovest, appena dopo il tramonto del Sole.

Dicembre è il mese perfetto per osservare il cielo stellato, perché ci sono le costellazioni più appariscenti e belle, e le ore di buio sono tante. Il 22 è il solstizio di inverno, ed è il giorno più corto dell’anno: il Sole culmina alla declinazione più bassa nella costellazione del Sagittario.

Ecco qui alcune idee per una serata all’insegna del cielo stellato: dominano verso sud ancora le costellazioni di Pegaso e Andromeda, galassia di Andromeda M31, ben visibile anche a occhio nudo o, meglio, con un binocolo. Un’osservazione alle Pleiadi è sempre uno spettacolo. In particolare il 23 sera e la vigilia di Natale la Luna sarà nei pressi, rischiarando questa zona di cielo ma creando un bel contrasto tra il nostro satellite e l’ammasso aperto. A far compagnia alle Pleiadi è sempre ben visibile la costellazione del Toro, con l’occhio rosso Aldebaran e la tipica forma a V della testa dell’animale. Vicino a una delle sue corna c’è M1, il più noto resto di supernova, chiamata nebulosa Granchio, e sede della pulsar più studiata al mondo.

Al passare delle ore prende sempre più visibilità la costellazione di Orione, che con la sua bellezza e maestosità risplende nel cielo invernale. Con un binocolo, ma anche a occhio nudo, è facile riconoscere la grande nebulosa di Orione al centro della spada del cacciatore. Al telescopio è splendida, ed è l’oggetto di profondo cielo più facile da osservare e più osservato.

E per finire, verso nord, la W della costellazione di Cassiopea è ben identificabile così pure, verso lo zenith, la costellazione di Perseo.

Buon cielo stellato, buone festività e se proprio non riuscite a essere nelle zone giuste per osservare la magia della sparizione di una stella come Betelgeuse, non preoccupatevi: l’importante è continuare ad avere magnifici desideri per il 2024!

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo di dicembre a cura di Fabrizio Villa:

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Scoperto un pianeta troppo grande per la sua stella


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Una rappresentazione artistica del confronto di massa tra il sistema Lhs 3154 e la Terra e il Sole. Crediti: Penn State University

Immaginate una stellina piccola e fredda, nove volte meno massiccia del Sole. E un pianeta, in orbita attorno a quella stella, tredici volte più massiccio della Terra. Troppo strano e sicuramente mai visto… fino a ieri, quando sulla rivista Science un gruppo di ricercatori ha riportato la scoperta di un tale sistema. La stella “ultrafredda” si chiama Lhs 3154 e il rapporto di massa tra il pianeta appena scoperto e la sua stella ospite è più di 100 volte superiore a quello tra la Terra e il Sole.

Secondo questo studio, quello che di fatto sembra essere il pianeta più massiccio conosciuto è in orbita stretta attorno a una stella nana ultrafredda, la meno massiccia e la più fredda dell’universo. La scoperta è in contrasto con le attuali teorie che prevedono la formazione di pianeti attorno a stelle piccole e rappresenta la prima volta che un pianeta con una massa così elevata viene avvistato in orbita attorno a una stella di massa così bassa. «Questa scoperta mette in evidenza quanto poco sappiamo dell’universo», dice Suvrath Mahadevan della Penn State University e coautore dell’articolo. «Non ci saremmo mai aspettati l’esistenza di un pianeta così pesante attorno a una stella di massa così bassa».

Le stelle si formano da grandi nubi di gas e polvere. Dopo la formazione della stella, il gas e la polvere rimangono come dischi di materiale in orbita attorno alla stella neonata, che alla fine possono trasformarsi in pianeti. «Il disco di formazione del pianeta attorno alla stella di bassa massa Lhs 3154 non dovrebbe avere abbastanza massa solida per formare questo pianeta», spiega Mahadevan. «Ma è là, quindi ora dobbiamo rivedere la nostra visione di come si formano i pianeti e le stelle».

I ricercatori hanno individuato il pianeta “sovradimensionato”, denominato Lhs 3154b, utilizzando uno spettrografo astronomico costruito alla Penn State da un team di scienziati guidati da Mahadevan. Lo strumento, chiamato Habitable Zone Planet Finder o Hpf, è stato progettato per individuare i pianeti in orbita attorno alle stelle più fredde, che potenzialmente potrebbero avere acqua liquida – un ingrediente chiave per la vita – sulla loro superficie.

Sebbene sia molto difficile individuare tali pianeti attorno a stelle come il Sole, la bassa temperatura delle stelle ultrafredde fa sì che i pianeti in grado di avere acqua liquida sulla loro superficie siano molto più vicini alla loro stella rispetto alla Terra e al Sole. La minore distanza tra questi pianeti e le loro stelle, unita alla bassa massa delle stelle ultrafredde, si traduce in un segnale rilevabile che annuncia la presenza del pianeta, ha spiegato Mahadevan.

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Rappresentazione artistica della possibile vista da Lhs 3154b verso la sua stella ospite di bassa massa. Data la sua grande massa, Lhs 3154b ha probabilmente una composizione simile a quella di Nettuno. Crediti: Penn State University

«Pensate a questo sistema come se la stella fosse un falò. Più il fuoco si raffredda, più ci si deve avvicinare a quel fuoco per stare al caldo», spiega Mahadevan. «Lo stesso vale per i pianeti. Se la stella è più fredda, un pianeta dovrà essere più vicino a quella stella se vuole essere abbastanza caldo da contenere acqua liquida. Se un pianeta ha un’orbita sufficientemente vicina alla sua stella ultrafredda, possiamo rilevarlo osservando un cambiamento molto sottile nel colore dello spettro o della luce della stella quando questa viene sollecitata da un pianeta in orbita».

Situato presso il telescopio Hobby-Eberly del McDonald Observatory in Texas, Hpf fornisce alcune delle misurazioni di massima precisione finora effettuate di questi segnali infrarossi provenienti da stelle vicine. «Fare questa scoperta con Hpf è stata una cosa speciale, perché si tratta di un nuovo strumento che abbiamo progettato, sviluppato e costruito da zero con l’obiettivo di osservare la popolazione inesplorata di pianeti intorno alle stelle di massa più bassa», dice Guðmundur Stefánsson, Nasa Sagan Fellow in astrofisica all’Università di Princeton e autore principale dell’articolo, che ha contribuito allo sviluppo di Hpf. «Ora stiamo raccogliendo i frutti, imparando aspetti nuovi e inaspettati di questa entusiasmante popolazione di pianeti in orbita attorno ad alcune delle stelle più vicine».

Lo strumento ha già fornito informazioni cruciali nella scoperta e la conferma di nuovi pianeti, spiega Stefánsson, ma la scoperta del pianeta Lhs 3154b ha superato ogni aspettativa. Secondo gli autori, il nucleo planetario pesante dedotto dalle misurazioni del team richiederebbe una quantità maggiore di materiale solido nel disco di formazione del pianeta rispetto a quanto previsto dai modelli attuali. La scoperta solleva anche interrogativi sulle precedenti interpretazioni della formazione delle stelle, in quanto il rapporto massa-polvere e polvere-gas del disco che circondava stelle come Lhs 3154 – quando erano giovani e appena formate – avrebbe dovuto essere 10 volte superiore a quello osservato per formare un pianeta così massiccio come quello scoperto dal team.

«Ciò che abbiamo scoperto costituisce un banco di prova estremo per tutte le teorie esistenti sulla formazione dei pianeti», conclude Mahadevan. «Questo è esattamente lo scopo per cui abbiamo costruito Hpf: scoprire come le stelle più comuni della nostra galassia formano i pianeti e trovare questi pianeti».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “A Neptune-mass exoplanet in close orbit around a very low-mass star challenges formation models” di Guðmundur Stefánsson, Suvrath Mahadevan, Yamila Miguel, Paul Robertson, Megan Delamer, Shubham Kanodia, Caleb I. Cañas, Joshua N. Winn, Joe P. Ninan, Ryan C. Terrien, Rae Holcomb, Eric B. Ford, Brianna Zawadzki, Brendan P. Bowler, Chad F. Bender, William D. Cochran, Scott Diddams, Michael Endl, Connor Fredrick, Samuel Halverson, Fred Hearty, Gary J. Hill, Andrea S. J. Lin, Andrew J. Metcalf, Andrew Monson, Lawrence Ramsey, Arpita Roy, Christian Schwab, Jason T. Wright e Gregory Zeimann


Nel 1872, la tempesta geomagnetica perfetta


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Mappa con le località (indicate dai punti rossi) nelle quali sono state registrate osservazioni di aurore polari nei giorni 4-6 febbraio 1872. Crediti: Hayakawa et al., 2023

Nei primi giorni di novembre sono stati osservati fenomeni atmosferici associati all’aurora boreale a latitudini sorprendentemente basse, anche nelle regioni meridionali dell’Italia e del Texas. I fenomeni osservati manifestano le relazioni Sole-Terra che si stabiliscono quando un’espulsione di massa coronale del Sole produce effetti sul campo magnetico e l’atmosfera della Terra. I fenomeni osservati lo scorso novembre, seppur spettacolari, sono stati di piccola entità rispetto a quelli prodotti da una tempesta geomagnetica che si è verificata nel febbraio 1872. Gli effetti di quella tempesta riguardarono l’intero globo terrestre, con aurore osservate anche in località prossime all’equatore, quali Bombay e Khartoum. Un gruppo di ricerca internazionale composto da 22 ricercatori di 16 istituti in 9 nazioni e a cui ha partecipato anche Ilaria Ermolli dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), ha analizzato osservazioni e documenti dell’epoca per ricostruire l’origine nell’atmosfera solare e gli effetti a terra della tempesta del febbraio 1872.

Quella tempesta danneggiò le reti telegrafiche e disturbò le comunicazioni per molte ore, ad esempio tra Bombay (Mumbai) e Aden, tramite il cavo sottomarino posizionato nell’Oceano Indiano, e nelle linee a terra tra Il Cairo e Khartum. Oggi tempeste simili produrrebbero danni e malfunzionamenti alle infrastrutture tecnologiche della società moderna, in particolare alle reti di distribuzione elettrica a terra, ai sistemi di comunicazione e navigazione, ai satelliti nello spazio, arrecando ingenti perdite economiche e notevoli disagi.

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Disegni prodotti dalle osservazioni del Sole effettuate da Padre Angelo Secchi all’Osservatorio del Collegio Romano il 3 febbraio 1872 (pannello in alto) e dettagli del gruppo di macchie #29 osservato dal 1 al 5 febbraio 1872 (pannelli in basso) e individuato come origine della tempesta estrema del febbraio 1872

Alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, i ricercatori hanno analizzato dati di macchie solari provenienti da archivi di osservazioni storiche del Sole, effettuate in Italia da Angelo Secchi, Francesco Denza e Pietro Tacchini e in Belgio da Gustave Bernaerts, al fine di ricostruire l’origine solare della tempesta. Per valutare l’evoluzione e l’intensità degli effetti a terra della tempesta hanno inoltre analizzato misure del campo magnetico terrestre registrate in varie località, tra le quali Bombay (Mumbai), Tiflis (Tbilisi) e Greenwich. Hanno infine esaminato anche centinaia di resoconti di aurore osservate durante la tempesta, conservati nelle biblioteche, negli archivi e negli osservatori di tutto il mondo.

Uno degli aspetti più interessanti emerso dallo studio riguarda l’origine solare della tempesta, individuata nell’evoluzione di un gruppo di macchie di modeste dimensioni osservato vicino al centro del disco solare. Per quanto modesto, quel gruppo di macchie è stato in grado di innescare una delle tempeste geomagnetiche più estreme della storia.

«I risultati ottenuti mostrano che la tempesta del febbraio 1872 è tra le più estreme avvenute nella storia recente. Le sue caratteristiche sono paragonabili a quelle della tempesta Carrington del settembre 1859 e della tempesta della New York Railroad nel maggio 1921», dice Hisashi Hayakawa, assistente professore designato della Nagoya University e primo autore dello studio. «Ora sappiamo che negli ultimi due secoli si sono verificate tre tempeste geomagnetiche estreme e queste sono avvenute nell’arco di soli sei decenni: la minaccia per la società moderna legata a queste tempeste è reale».

«L’Inaf, con strumentazione dedicata in funzione presso vari osservatori a terra e in orbita, è molto attivo nel monitoraggio continuo del Sole, dell’eliosfera, della magnetosfera e della ionosfera terrestre», ricorda Ilaria Ermolli, ricercatrice dell’Inaf a Roma e parte del team che ha condotto lo studio, «con l’obiettivo di migliorare le conoscenze dei processi che determinano lo space weather, cioè le caratteristiche di quegli ambienti, e sviluppare competenze e modelli utili a mitigare gli effetti di eventi simili alla tempesta del febbraio 1872. L’Inaf, che coordinerà l’attività relativa allo space weather nel programma Pnrr Space It Up, conserva inoltre nei suoi archivi osservazioni storiche uniche per avanzare la conoscenza degli eventi estremi di space weather».

Il Sole si sta avvicinando al massimo del Ciclo solare 25, previsto nel 2024-2025. A seguito della maggiore attività solare nei prossimi anni sarà possibile osservare più facilmente regioni instabili nell’atmosfera del Sole e fenomeni aurorali nell’atmosfera terrestre.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Extreme Space Weather Event of 1872 February: Sunspots, Magnetic Disturbance, and Auroral Displays”, di Hisashi Hayakawa, Edward W. Cliver, Frédéric Clette, Yusuke Ebihara, Shin Toriumi, Ilaria Ermolli, Theodosios Chatzistergos, Kentaro Hattori, Delores J. Knipp, Séan P. Blake, Gianna Cauzzi, Kevin Reardon, Philippe-A. Bourdin, Dorothea Just15, Mikhail Vokhmyanin, Keitaro Matsumoto, Yoshizumi Miyoshi, José R. Ribeiro, Ana P. Correia, David M. Willis, Matthew N. Wild, e Sam M. Silverman
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Scoperto il primo disco stellare extragalattico


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Al centro di questa composizione, un’immagine reale del giovane sistema stellare Hh 1177, nella Grande Nube di Magellano, una galassia vicina alla Via Lattea. L’immagine è stata ottenuta con il Multi Unit Spectroscopic Explorer (Muse) del Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso e mostra i getti lanciati dalla stella. I ricercatori hanno poi utilizzato l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma), di cui l’Eso è partner, per trovare prove della presenza di un disco che circonda la giovane stella. Una rappresentazione artistica del sistema, che mostra sia i getti che il disco, è mostrata nel pannello di destra. Crediti: Eso/A. McLeod et al./M. Kornmesser

Con una scoperta straordinaria, alcuni astronomi hanno trovato un disco che circonda una giovane stella nella Grande Nube di Magellano, una galassia vicina alla nostra. È la prima volta che un disco del genere, identico a quelli che formano pianeti nella Via Lattea, viene trovato al di fuori della nostra galassia. Le nuove osservazioni rivelano una stella giovane e massiccia che cresce e accumula materia dall’ambiente circostante formando un disco in rotazione. La scoperta è stata realizzata grazie ad Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile, di cui l’Eso (Osservatorio Europeo Australe) è partner.

«Quando per la prima volta ho visto la prova di una struttura in rotazione nei dati di Alma, non potevo credere che avessimo trovato il primo disco di accrescimento extragalattico. È stato un momento speciale», dice Anna McLeod, professoressa associata alla Durham University nel Regno Unito e autrice principale dello studio pubblicato ieri su Nature. «Sappiamo che i dischi sono vitali per la formazione di stelle e pianeti nella nostra galassia, e qui, per la prima volta, ne vediamo la prova diretta dell’esistenza in un’altra galassia».

Lo studio fa seguito alle osservazioni effettuate con lo strumento Muse (Multi Unit Spectroscopic Explorer) installato sul Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso, che ha individuato un getto proveniente da una stella in formazione – il sistema è stato chiamato Hh 1177 – nelle profondità di una nube di gas nella Grande Nube di Magellano. «Abbiamo scoperto un getto lanciato da questa giovane stella massiccia: la sua presenza è un’indicazione che l’accrescimento sul disco è in corso», aggiunge McLeod. Ma per confermare che un disco di questo tipo fosse effettivamente presente, il gruppo doveva misurare il movimento del gas denso intorno alla stella.

Quando la materia viene attratta verso una stella che sta crescendo, non può cadervi direttamente, ma va a formare un disco piatto in rotazione intorno alla stella. Il disco ruota più velocemente andando verso il centro e questa differenza di velocità è la prova inconfutabile che mostra agli astronomi la presenza di un disco di accrescimento.

«La frequenza della luce cambia a seconda della velocità con cui il gas che emette la luce si muove avvicinandosi o allontanandosi da noi», spiega Jonathan Henshaw, ricercatore presso la Liverpool John Moores University, nel Regno Unito, e coautore dello studio. «Questo è esattamente lo stesso fenomeno che si verifica quando il tono della sirena di un’ambulanza cambia mentre ti passa accanto e la frequenza del suono passa da più alta a più bassa».

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Le osservazioni del Multi Unit Spectroscopic Explorer (Muse) sul Vlt, a sinistra, mostrano la nube madre Lha 120-N 180B in cui è stato osservato per la prima volta questo sistema, denominato Hh 1177. L’immagine al centro mostra i getti che lo accompagnano. La parte superiore del getto è rivolta leggermente verso di noi e quindi spostata in blu; quella inferiore si allontana da noi e quindi spostata in rosso. Le osservazioni di Alma, a destra, hanno poi rivelato il disco rotante attorno alla stella, con lati che si muovono verso e lontano da noi. Crediti: Eso/Alma (Eso/Naoj/Nrao)/A. McLeod et al.

Le misure dettagliate della frequenza effettuate da Alma hanno permesso agli autori di distinguere la rotazione caratteristica di un disco, confermando la scoperta del primo disco intorno a una giovane stella extragalattica.

Le stelle massicce, come quella osservata in questo caso, si formano molto più rapidamente e vivono una vita molto più breve rispetto alle stelle di piccola massa come il Sole. Nella nostra galassia, queste stelle massicce sono notoriamente difficili da osservare e spesso sono oscurate alla vista dal materiale polveroso da cui nascono, nel momento in cui si sta formando il disco intorno a esse. Tuttavia, nella Grande Nube di Magellano, una galassia a circa 160mila anni luce dalla nostra, il materiale da cui nascono le nuove stelle è molto diverso da quello della Via Lattea. Grazie al minor contenuto di polvere, Hh 1177 non è più avvolto nel bozzolo natale, offrendo agli astronomi una visione senza ostacoli, anche se da molto lontano, della formazione di stelle e pianeti.

«Siamo in un’era di rapido progresso tecnologico per quanto riguarda gli strumenti astronomici», conclude McLeod. «Essere in grado di studiare come si formano le stelle a distanze così incredibili e in una galassia diversa dalla nostra è veramente emozionante».

Fonte: comunicato stampa Eso

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Tutti in gita alla mostra Macchine del Tempo


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CodyTrip a Roma per i 100 anni del CNR. Crediti: https://codemooc.org

Se non avete la possibilità di visitare la mostra Macchine del Tempo di Inaf a Roma, o se volete un’anticipazione in preparazione di una futura visita, non fatevi sfuggire il CodyTrip che Alessandro Bogliolo – professore ordinario di sistemi per l’elaborazione dell’informazione all’Università di Urbino e partner di Inaf in molte iniziative di public engagement – ha organizzato insieme a Digit, Giunti Scuola e CampuStore.

Già lo scorso anno Inaf ha partecipato all’organizzazione del CodyTrip a Matera e in quell’occasione abbiamo avuto modo di toccare con mano quanto questa iniziativa sia un’avventura davvero coinvolgente: un’esperienza formativa da vivere con la propria classe e la propria famiglia alla scoperta di luoghi, tradizioni, persone e saperi.

Il CodyTrip è nato nel 2020 in seguito alla pandemia, ma visto il successo riscontrato l’iniziativa è proseguita negli anni, coinvolgendo centinaia di migliaia di partecipanti da tutta Italia. È rivolta principalmente alle scuole ma in realtà chiunque può partecipare, registrandosi gratuitamente su EventBrite. CodyTrip usa in modo originale e molto semplice le tecnologie digitali e l’immaginazione per colmare le distanze e permettere a tutti di partecipare attivamente, interagendo in diretta con i propri compagni di viaggio e con Bogliolo, che guida le attività e la gita stessa.

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Alessandro Bogliolo, professore ordinario di sistemi per l’elaborazione dell’informazione all’Università di Urbino, durante il CodyTrip a Matera, nel 2022. Crediti: A. Bogliolo

Il CodyTrip che si svolgerà a Roma il 6 e 7 dicembre è dedicato al centenario del Consiglio nazionale delle ricerche e permetterà ai partecipanti di entrare nella sede centrale di Roma per conoscere questa grande istituzione di ricerca e la sua biblioteca, visitando anche le mostre Antropocene e La scienza si fa in 100, allestite per le celebrazioni del centenario. I partecipanti visiteranno inoltre alcuni dei principali luoghi simbolo di Roma: il Quirinale, il Campidoglio, i Fori Imperiali e il Colosseo. Inoltre, mercoledì 6 dicembre alle 17:30, Claudia Mignone di Inaf, coordinatrice scientifica della mostra Macchine del Tempo, accompagnerà Bogliolo e le classi in gita online attraverso le sale della mostra.

«La mostra propone un viaggio straordinario, sia nello spazio che nel tempo, attraverso l’universo e la sua storia di quasi 14 miliardi di anni, attraverso le “macchine del tempo” dell’astrofisica contemporanea», racconta Mignone. «Dov’è il trucco? È la luce, che grazie alla sua velocità – molto grande, ma finita – impiega del tempo per viaggiare attraverso il cosmo e così ci mostra come apparivano pianeti, stelle e galassie nel passato. Incontreremo per esempio un esopianeta com’era ai tempi in cui sulla Terra stava iniziando la rivoluzione industriale, e galassia che vediamo com’erano quando sul nostro pianeta c’erano i primi umani, quando stavano per comparire le prime forme di vita, o addirittura quando il Sole e il Sistema solare ancora non esistevano».

«Questa particolare edizione di CodyTrip è concepita per coinvolgere le scuole di ogni ordine e grado, utilizzando linguaggi accessibili fin dalla scuola primaria, ma approfondendo temi di forte interesse anche per la secondaria di secondo grado, molti dei quali legati alla scienza. In particolare, la mostra Macchine del Tempo di Inaf ci offe l’opportunità di viaggiare nello spazio e nel tempo grazie alla ricerca scientifica, a cui è dedicato il CodyTrip a Roma per i 100 anni del Cnr», conclude Bogliolo.

Alla pagina del Codytrip è disponibile il programma della gita e le registrazioni degli incontri preparatori, che possono essere utili alle insegnanti e agli insegnanti per stabilire come rendere pienamente fruibile le fasi della gita alle proprie classi. Le registrazioni su EventBrite restano aperte fino ai giorni stessi della gita quindi, se non l’avete ancora fatto e siete interessati a partecipare, non esitate a iscrivervi.

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In difesa del cielo radio


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L’aumento dell’interferenza causata dalle costellazioni satellitari è un fattore di grave preoccupazione per la comunità radioastronomica internazionale, a causa della rapida proliferazione di satelliti in orbita terrestre bassa, che potrebbero essere oltre 50mila entro il 2030. Senza dubbio le costellazioni satellitari portano benefici alla connettività globale e a una serie di altri settori come il monitoraggio della superficie terrestre e i sistemi di navigazione, ma in compenso il prezzo da pagare è costituito da un impatto molto significativo nelle frequenze radio. Gli attuali regolamenti non sono infatti stati in grado di tenere il passo con il crescente affollamento dell’orbita terrestre bassa, rendendo ormai urgente un aggiornamento.

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Il radiotelescopio Meerkat in Sudafrica. Crediti: South African Radio Astronomy Observatory / ‘Sarel van Staden & Maryna Cotton.

In occasione della conferenza mondiale sulle radiofrequenze – la World Radio Communication Conference (Wrc) – in corso a Dubai fino al 15 dicembre, sono state avanzate alcune proposte per definire un quadro normativo adeguato, da mettere in agenda per la prossima edizione della Wrc nel 2027. Questo appuntamento, organizzato dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu) delle Nazioni Unite, è una piattaforma chiave per definire le regole sull’uso dello spettro radio.

Le proposte sono arrivate congiuntamente dagli enti deputati alle telecomunicazioni dell’Africa (Atu) e dell’Europa (Cept) e sono state promosse dall’Unione astronomica internazionale, in particolare dal Centro per la protezione del cielo dall’interferenza delle costellazioni satellitari (Cps), che coordina gli sforzi globali della comunità astronomica per studiare l’impatto dei satelliti e cercare contromisure con le amministrazioni e l’industria.

Questa iniziativa rappresenta uno sforzo coordinato della comunità radioastronomica per affrontare la questione a livello internazionale. In particolare, il Sudafrica, sede del radiotelescopio MeerKat, e l’Europa sono i promotori di uno dei punti all’ordine del giorno per la Wrc-27 focalizzato sulla protezione internazionale delle zone di silenzio radio, ritenute aree critiche per i grandi osservatori astronomici. Non sono ancora previste invece norme di tutela analoghe per i satelliti, che potenzialmente possono disturbare le osservazioni anche nello spazio aereo circostante.

«Per decenni, il Regolamento delle radiocomunicazioni ha protetto la radioastronomia riservando specifici intervalli di frequenza per il suo utilizzo», ricorda Waleed Madkour, responsabile delle frequenze all’interno del Craf, il Comitato per le frequenze di radioastronomia della European Science Foundation.

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Fabio Giovanardi, ricercatore all’Inaf di Arcetri, a Dubai per World Radio Communication Conference

Gli astronomi nutrono ora la speranza che le amministrazioni di tutto il mondo possano riconoscere l’importanza della protezione degli osservatori radioastronomici dalle interferenze satellitari.

«Le nostre misurazioni non solo contribuiscono alla comprensione dell’universo e della fisica fondamentale, ma sono anche essenziali per molte applicazioni nella vita quotidiana», dice Fabio Giovanardi dell’Inaf di Firenze, impegnato sul fronte della regolamentazione dello spettro per la radioastronomia nel Craf. «Le osservazioni geodetiche di oggetti lontani nel cielo non solo arricchiscono la nostra comprensione cosmologica, ma sono anche fondamentali per guidare i sistemi di navigazione globale, i veicoli spaziali e molte altre tecnologie».

In cerca di un supporto più ampio, la comunità astronomica e molti paesi sostenitori della proposta sono impegnati a partecipare attivamente alle discussioni in corso nell’ambito della Commissione delle nazioni unite sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico (Copuos).


Nove astrofisiche italiane nella Top-1000


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Le prime tre astrofisiche dell’Inaf nella Top-1000 di Research.com per il 2023

È online la Top-1000 delle scienziate 2023, una delle classifiche pubblicate annualmente dal sito Research.com, piattaforma specializzata in “best of” a tema scientifico: migliori conferenze, migliori riviste, migliori università e – appunto – migliori scienziati e scienziate. Dove per “migliori” si intende quelli con H-index più elevato, un indice bibliometrico basato sul numero di pubblicazioni e citazioni (qui qualche dettaglio sulla metodologia usata).

È una classifica cumulativa, ma si può consultare anche paese per paese. Gli Stati Uniti la fanno da padroni, con ben 609 scienziate afferenti a istituzioni Usa fra le mille elencate. L’Italia, con 26, è all’ottavo posto, dietro a Usa, Regno Unito, Germania, Canada, Australia, Francia e Olanda. E fra le 26 scienziate italiane entrate nella Top-1000 – la prima è Silvia Franceschi del Centro di riferimento oncologico di Aviano, che con un H-index di 187 risulta anche 20esima nel mondo – ben nove sono astrofisiche: Patrizia Caraveo (in quinta posizione, con 144 di H-index), Lucia Pozzetti (nona, 118), Marcella Brusa (decima, 117), Elena Pian (undicesima, 116), Elena Zucca (dodicesima, 113), Angela Iovino (quattordicesima, 110), Laura Pentericci (ventesima, 104), Giulia Rodighiero (ventunesima, 103) e Angela Bongiorno (ventitreesima, 102).

«Quando ho ricevuto la mail con oggetto “P. A. Caraveo is ranked 5 in Italy among Top Female Scientists for 2023” ho cercato di capire se fosse una cosa seria», racconta Patrizia Caraveo a Media Inaf. «Dopo essermi convinta che non proveniva dalla galassia delle organizzazioni predatorie, ho guardato la classifica e ho pensato che, nel mio caso, si tratta di un riconoscimento alla carriera, perché il mio H-index è dovuto in gran parte alle fortunate collaborazioni delle quali faccio parte. Ogni volta che vengono utilizzati dati Fermi, Swift o Agile vengono citati i lavori di descrizione degli strumenti. Anche i cataloghi sono una continua sorgente di citazioni. In un certo senso, nel mondo delle citazioni, io vivo di rendita».

La classifica stilata da Research.com – “basata su un esame dettagliato di 166880 fra ricercatrici e ricercatori presenti su Google Scholar and Microsoft Academic Graph”, si legge nel sito – presenta studiose di spicco in tutte le aree scientifiche principali. Fra le 26 nella Top-1000, 14 appartengono all’area medica, 10 – fra le quali le nove astronome – a quella fisica e 2 a quella chimica.

«Siamo dolorosamente consapevoli del fatto che la ricerca scientifica continua a essere un settore di lavoro prevalentemente maschile», scrive Research.com, «e crediamo che le scienziate meritino pari opportunità di essere rappresentate e riconosciute per i loro risultati. La nostra speranza è quella di ispirare le ricercatrici, le donne che stanno pensando di intraprendere una carriera accademica e i decisori politici di tutto il mondo con l’esempio di donne di successo nella comunità della ricerca. Ci auguriamo che ciò contribuisca a fornire maggiori possibilità e pari opportunità alle donne nella scienza».


Webb a caccia di protostelle nella nube di Perseo


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Protagonista di questa immagine pubblicata ieri dall’Agenzia spaziale europea è l’oggetto Herbig-Haro 797, o Hh 797. Gli oggetti Herbig-Haro sono regioni luminose che circondano stelle appena nate e che si formano quando venti stellari o getti di gas emessi da queste protostelle vanno a formare onde d’urto che collidono, ad alta velocità, con gas e polvere vicini. Hh 797, che domina la metà inferiore dell’immagine, si trova vicino al giovane ammasso aperto Ic 348, vicino al bordo orientale del complesso delle nubi scure di Perseo. Si ritiene che gli oggetti luminosi nell’infrarosso nella parte superiore dell’immagine ospitino altre due protostelle.

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Nella metà inferiore dell’immagine è evidente una nebulosa lunga e stretta, disposta in orizzontale, che si estende da un bordo all’altro. Nella metà superiore si trova un punto luminoso da cui si irradia luce multicolore in tutte le direzioni. Sul bordo destro dell’immagine, si nota una luminosa stella con picchi di diffrazione estesi e alcune stelle più piccole sono sparse tutt’intorno. Lo sfondo è coperto da una sottile foschia. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, T. Ray (Dublin Institute for Advanced Studies)

Questa immagine è stata catturata con la Near-InfraRed Camera (NirCam) di Jwst. L’imaging a infrarossi è molto potente nello studio delle stelle appena nate e dei loro deflussi (generalmente si usa il termine inglese, outflows) perché le stelle più giovani sono ancora immerse nel gas e nella polvere da cui si sono formate. L’emissione infrarossa degli outflows penetra nel gas e nella polvere circostante, rendendo gli oggetti Herbig-Haro ideali per l’osservazione con i sensibili strumenti a infrarossi di Webb. Le molecole eccitate dalle condizioni turbolente che si verificano all’interno della nube, tra cui l’idrogeno molecolare e il monossido di carbonio, emettono luce infrarossa che Webb può raccogliere per visualizzare la struttura degli outflows. In particolare, NirCam risulta essere molto efficace nell’osservazione delle molecole calde (migliaia di gradi Celsius) che vengono eccitate a seguito degli shock.

Utilizzando osservazioni da terra, i ricercatori avevano già scoperto che, per questo oggetto, la maggior parte del gas spostato verso il rosso (che si allontana da noi) si trova a sud (in basso a destra), mentre il gas spostato verso il blu (che si avvicina a noi) è a nord (in basso a sinistra). È stato trovato anche un gradiente attraverso il flusso in uscita tale che, a una data distanza dalla giovane stella centrale, la velocità del gas vicino al bordo orientale del getto è maggiormente spostata verso il rosso rispetto a quella del gas sul bordo occidentale. In passato gli astronomi pensavano che ciò fosse dovuto alla rotazione dell’outflow. Tuttavia, in questa immagine a risoluzione più elevata, possiamo notare che quello che si pensava fosse un deflusso è in realtà costituito da due deflussi quasi paralleli con le rispettive serie separate di shock (il che spiega le asimmetrie nella velocità). La sorgente, situata nella piccola regione scura (in basso, leggermente a destra rispetto al centro), già nota da precedenti osservazioni, non è quindi una stella singola bensì doppia: ogni stella sta producendo il proprio deflusso. In questa immagine si vedono anche altri outflows, incluso quello proveniente da una protostella in alto, leggermente a destra rispetto al centro, con quelle che sembrano cavità illuminate, dai colori caldi.


Cheops svela un sistema planetario con sei mondi


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Una rara famiglia di sei esopianeti è stata scoperta grazie alla missione Cheops dell’Esa (cliccare per ingrandire). I pianeti di questa famiglia sono tutti più piccoli di Nettuno e ruotano intorno alla loro stella Hd 110067 in un valzer molto preciso. Quando il pianeta più vicino alla stella compie tre giri completi intorno ad essa, il secondo ne compie esattamente due nello stesso tempo. Questo fenomeno si chiama risonanza 3:2. I sei pianeti formano una catena di risonanza a coppie di 3:2, 3:2, 3:2, 4:3 e 4:3, per cui il pianeta più vicino compie sei orbite quando quello più esterno ne compie una. Cheops ha confermato il periodo orbitale del terzo pianeta del sistema, che è stato la chiave per svelare il ritmo dell’intero sistema. Crediti: Esa

Il satellite dell’Esa Cheops è riuscito a risolvere il mistero di un sistema di esopianeti che da anni lasciava perplessi gli astronomi. Un sistema con al centro la stella Hd 110067, a circa cento anni luce di distanza da noi, nella costellazione della Chioma di Berenice, situata nell’emisfero boreale.

Già nel 2020 il telescopio spaziale Tess della Nasa aveva registrato dei cali di luminosità della stella, indicando il passaggio di pianeti davanti alla sua superficie. Da un’analisi preliminare, i possibili pianeti erano risultati due: uno con un periodo orbitale – il tempo necessario per completare un’orbita intorno alla stella – di 5,642 giorni, e l’altro con un periodo che non era stato possibile determinare. Due anni più tardi, Tess ha osservato nuovamente la stessa stella. L’analisi dei dati combinati ha portato all’esclusione della prima interpretazione, proponendo due nuovi possibili pianeti. Tuttavia, nonostante la nuova analisi fosse molto più attendibile di quella originale, i dati di Tess continuavano a non avere senso.

È per questo motivo che Rafael Luque dell’Università di Chicago e i suoi colleghi si sono incuriositi. «È stato allora che abbiamo deciso di usare Cheops», ricorda Luque. «Siamo andati a pescare segnali tra tutti i potenziali periodi orbitali che quei pianeti potevano avere».

I loro sforzi sono stati ripagati. Grazie ai dati Cheops, Luque e colleghi non solo hanno confermato la presenza di un terzo pianeta ma hanno anche trovato la chiave per svelare l’intero sistema planetario, visto che i tre pianeti erano in risonanza orbitale tra di loro. Il pianeta più esterno, per compiere una rivoluzione, impiega 20,519 giorni: un valore che si avvicina molto a 1,5 volte il periodo orbitale del pianeta accanto, 13,673 giorni. A sua volta, questo periodo è quasi esattamente 1,5 volte il periodo orbitale del pianeta più interno, pari a 9,114 giorni.

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Moto orbitale dei sei pianeti rispetto a una singola rivoluzione del pianeta ‘c’. A causa delle risonanza orbitale, le orbite dei sei pianeti sono strettamente collegate l’un l’altra. Per ogni rotazione di 360 gradi intorno a Hd 110067 dal pianeta ‘c’, il pianeta ‘b’ si sposta di 540 gradi, il pianeta ‘d’ di 240, il pianeta ‘e’ di 160 gradi, il pianeta ‘f’ di 120 gradi e il pianeta ‘g’ di 90 gradi. Crediti: Dr. Hugh Osborn (University of Bern)

La previsione delle altre risonanze orbitali e la loro corrispondenza con i dati rimanenti non ancora spiegati ha permesso al team di scoprire gli altri tre pianeti del sistema. «Cheops ha fatto emergere questa configurazione di risonanza», spiega Luque, «che ci ha permesso di prevedere tutti gli altri periodi. Senza questo risultato da parte di Cheops, sarebbe stato impossibile».

I sistemi in risonanza orbitale sono estremamente importanti, perché forniscono agli astronomi informazioni sulla nascita e sulla successiva evoluzione di un sistema planetario. I pianeti intorno alle stelle tendono infatti a formarsi in condizioni di risonanza. Tuttavia, la loro orbita può essere facilmente perturbata, per esempio a causa di un pianeta molto massiccio, o di un incontro ravvicinato con una stella di passaggio, o ancora di un gigantesco evento di impatto. Di conseguenza, molti dei sistemi planetari multipli oggi conosciuti non sono in perfetta risonanza, ma sono talmente vicini a questa condizione da far pensare di esserlo stato in passato. A ogni modo, i sistemi planetari multipli che conservano intatta la loro risonanza sono davvero rari. «Riteniamo che solo l’un per cento di tutti i sistemi rimanga in risonanza», dice Loque, osservando come proprio per questo motivo Hd 110067 è speciale e merita ulteriori studi. «Ci mostra la configurazione originaria di un sistema planetario che è rimasto intatto».

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Geometria delle orbite. Crediti: Thibaut Roger, Nccr Planets

Non è la prima volta che Cheops gioca un ruolo primario nello studio di sistemi planetari in risonanza: già era stato determinante nella scoperta di Toi-178. «La scoperta di questo secondo sistema di sei pianeti in risonanza», commenta il direttore dell’Inaf di Padova Roberto Ragazzoni, instrument scientist del telescopio di Cheops nonché membro del team scientifico della missione, «dimostra come la precisione fotometrica di Cheops rimanga superba a distanza di 4 anni dal lancio e della bontà della scelta da parte di Esa di estendere la durata della missione. Nel giro di poco più di un mese, 19 osservazioni di questo satellite, mirate in periodi scelti con accortezza, hanno consentito di contribuire in modo determinante alla soluzione di questo sistema planetario. Il rebus (si è potuto capire a posteriori) era anche dovuto al fatto che Tess non era riuscito a raccogliere alcuni transiti a causa dell’effetto della diffusione dovuto alla luce della Terra. In Cheops, questo effetto è mitigato grazie al lunghissimo paraluce che ha costretto a realizzare un disegno ottico particolarmente compatto. Una scelta tecnica che ancora una volta ripaga degli sforzi fatti».

Tra i sistemi planetari che ospitano quattro o più pianeti, Hd 110067 è quello più luminoso. E poiché i suoi pianeti sono tutti di dimensioni sub-nettuniane con atmosfere probabilmente estese, sono i candidati ideali per studiare la composizione delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb e con i futuri telescopi dell’Esa Ariel e Plato.

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Mondi d’acqua e caligine, in laboratorio


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Rappresentazione artistica di due esopianeti ricchi d’acqua, e con spessi strati di foschia, in orbita attorno alla loro stella ospite. Crediti: Roberto Molar Candanosa / Johns Hopkins University

Haze. Un termine inglese che viene spesso reso con foschia, o nebbia. Ma sarebbe più appropriato tradurlo come caligine: “uno stato particolare dell’atmosfera – si legge sulla Treccani – la cui trasparenza è fortemente ridotta dalla presenza di finissimo pulviscolo (polvere desertica, ceneri vulcaniche, eccetera)”. Foschia prodotta da particelle solide in sospensione in atmosfera, dunque.

Una foschia che si ritrova non solo nell’atmosfera terrestre ma anche attorno a mondi lontani, a pianeti al di fuori del Sistema solare. Una foschia che ne altera proprietà ottiche. E in particolare gli spettri: vale a dire, i “codici a barre” fatti di righe d’assorbimento ed emissione usati dagli astronomi per ricostruire a distanza – anche a migliaia di anni luce – la composizione chimica delle atmosfere planetarie.

Ecco dunque che la presenza di haze rischia di falsare i dati, facendoci magari credere che una certa molecola non sia presente quando invece c’è – o viceversa. Un bel problema, anche per un gioiello della tecnologia qual è il telescopio spaziale James Webb: alcuni dei primi esopianeti che ha osservato hanno temperature di equilibrio inferiori a mille gradi kelvin, un regime in cui si prevede la formazione – appunto – di foschie fotochimiche.

Un problema soprattutto per la ricerca di mondi potenzialmente abitabili. Ed è proprio per chiarire e quantificare l’impatto della caligine nelle misure degli spettri di pianeti nei quali l’acqua è abbondante che un team guidato da Chao He della Johns Hopkins University ha deciso di ricreare le loro fosche atmosfere in laboratorio.

«L’acqua è la prima cosa che cerchiamo, quando vogliamo capire se un pianeta è abitabile, e già abbiamo raccolto osservazioni interessanti che testimoniano la presenza di acqua nelle atmosfere degli esopianeti», ricorda He. «Ma i nostri esperimenti e i nostri modelli suggeriscono che, molto probabilmente, questi pianeti contengono anche foschia. E questa foschia complica le nostre osservazioni, poiché confonde la nostra visione della chimica atmosferica e delle caratteristiche molecolari degli esopianeti».

I ricercatori hanno dunque progettato una camera ad hoc all’interno del laboratorio di scienze planetarie di Sarah Hörst, coautrice dello studio, sempre alla Johns Hopkins, nella quale hanno miscelato gas contenenti vapore acqueo e altri composti che si ipotizza siano comuni negli esopianeti. Hanno poi irradiato queste miscele con luce ultravioletta, per simulare il modo in cui la luce di una stella avvierebbe le reazioni chimiche che producono le particelle di caligine. Infine hanno misurato la quantità di luce assorbita e riflessa dalle particelle, per capire come interagirebbero con la luce nell’atmosfera.

I risultati ottenuti, pubblicati ieri su Nature Astronomy, sono i primi – dice Hörst – a consentire di quantificare la quantità di caligine che può formarsi nei pianeti d’acqua al di là del Sistema solare. Un po’ come i simulanti di terriccio marziano, che consentono di condurre in laboratorio esperimenti altrimenti impossibili. In questo caso, però, a essere simulate sono le esoatmosfere. Quella descritta nello studio, in particolare, è molto simile all’atmosfera che si suppone avvolga Gj 1214 b, un sub-nettuniano acquatico – avvolto da una foschia insolitamente brillante – osservato anche di recente da Webb. E le firme spettrali ottenute in laboratorio corrispondono a quelle di Gj 1214 b in modo molto più accurato rispetto a precedenti ricerche, dimostrando così che foschie con proprietà ottiche diverse possono portare a interpretazioni errate dell’atmosfera di un pianeta.

Il team sta ora lavorando per creare in laboratorio analoghi di altre foschie, con miscele di gas che rappresentino più accuratamente ciò che si vede con i telescopi. «Si potranno così usare questi dati, quando si modelleranno le atmosfere di esopianeti, per cercare di ricostruire, per esempio, quale sia la loro temperatura in atmosfera e al suolo, se ci sono nuvole, quanto sono alte e di cosa sono fatte, o la velocità dei venti», spiega Hörst. «Tutte informazioni che possono aiutarci a concentrare la nostra attenzione su pianeti specifici e ad approntare esperimenti ad hoc, invece di limitarci a test generalizzati, quando cerchiamo di ricostruire il quadro generale».

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Verso telescopi più sostenibili


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Il centro nazionale statunitense per i telescopi ottici ground-based, il NoirLab, ha messo in atto un piano di sostenibilità ambientale volto a ridurre considerevolmente le proprie emissioni nei prossimi anni. Fra le strutture coinvolte non manca l’osservatorio Vera Rubin, attualmente in costruzione a Cerro Pachón, in Cile, e la cui entrata in funzione è prevista al più tardi nel 2026. Obiettivi concreti e vicini nel tempo, quelli previsti dal piano di sostenibilità. Perché – si legge nel sito – “essere un buon amministratore della Terra e del cielo è un principio fondamentale per il NoirLab”.

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Ripresa con drone dell’Osservatorio Gemini Sud, nella quale si vede l’impianto di pannelli solari installato dal NoirLab nell’ambito del nuovo programma di sostenibilità ambientale ed energetica. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura

La gestione di telescopi e delle infrastrutture per l’osservazione del cielo, specialmente in luoghi isolati che devono essere resi autosufficienti per il personale coinvolto, comporta un notevole e costante dispendio energetico. Dispendio che, considerando l’urgenza della crisi climatica, non ci possiamo più permettere. Ed è con questa presa di coscienza che il NoirLab ha deciso di mettere in atto una serie di misure volte a ridurre il proprio fabbisogno di energia e, più in generale, a renderlo più sostenibile. I telescopi che fanno capo all’organizzazione si trovano in Arizona, alle Hawaii e in Cile, e l’impegno in ognuno di questi luoghi comprende azioni che riguardano la riduzione dell’utilizzo dell’energia elettrica da parte delle strutture, l’ottimizzazione dei viaggi aerei per il personale (soprattutto gli astronomi che devono osservare) e il miglioramento delle attrezzature e delle infrastrutture di base.

Un modo concreto, questo, per mettere in atto anche le raccomandazioni del rapporto Astro2020 (Pathways to Discovery in Astronomy and Astrophysics for the 2020s), un documento di validità decennale che identifica le sfide e gli obiettivi scientifici principali ai quali la comunità astronomica è chiamata a rispondere negli anni 2020, e presenta un programma di attività terrestri e spaziali per i futuri investimenti. Nel quale, appunto, non manca una menzione all’emergenza climatica: “La comunità astronomica dovrebbe aumentare l’uso di osservazioni a distanza, conferenze ibride e conferenze a distanza, per ridurre l’impatto dei viaggi sulle emissioni di carbonio e sui cambiamenti climatici”.

L’attuale impronta di carbonio del NoirLab è stimata circa 12500 tonnellate di CO2 equivalente all’anno. L’obiettivo è di raggiungere 6200 tonnellate di CO2 equivalente entro la fine del 2027, una riduzione paragonabile all’impronta del consumo annuale di elettricità di 1250 abitazioni medie degli Stati Uniti. Grazie a un generoso finanziamento della National Science Foundation, il NoirLab installerà un grande sistema di pannelli fotovoltaici e batterie di accumulo dell’energia per alimentare le strutture situate a Cerro Pachón in Cile. Questo sistema coprirà il 100 per cento del consumo di elettricità del telescopio Gemini South, e circa il 60 per cento del fabbisogno di elettricità dell’Osservatorio Vera C. Rubin. Più in dettaglio, il sistema comprenderà un impianto fotovoltaico da 2860 kilowatt abbinato a un sistema di stoccaggio a batteria da 11 megawattora (MWh), in grado di produrre circa 5300 MWh di elettricità all’anno e ridurre l’impronta di carbonio annuale del NoirLab di 2900 tonnellate equivalenti di CO2 – paragonabile al consumo annuale di elettricità di circa 500 case tipiche degli Stati Uniti. Solo per queste due strutture.

Si parla poi di installare pannelli solari in tutte le infrastrutture e, come dicevamo, di ridurre del 50 per cento i viaggi aerei per il personale entro il 2026, il NoirLab prevede di sbloccare ulteriori finanziamenti per migliorare l’impronta energetica delle strutture più datate. Prevede, ad esempio, la sostituzione del vecchissimo sistema di riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’edificio della sede centrale del NoirLab a Tucson. Conti alla mano, questo aggiornamento ridurrà il consumo di elettricità di 690 MWh all’anno e l’impronta di carbonio derivante dall’uso di elettricità della struttura di circa 300 tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Il finanziamento coprirà anche la sostituzione di otto veicoli a benzina/diesel con veicoli elettrici – un primo passo verso il passaggio ai veicoli elettrici in tutti i siti. Altri finanziamenti dovrebbero coprire poi l’installazione di trasformatori ad alta efficienza, illuminazione a Led e centri dati ad alta efficienza energetica presso le strutture in Arizona e in Cile (cambiamenti simili sono già stati implementati presso le strutture delle Hawaii). Misure, forse, che possono sembrare minori ma che contribuiscono in maniera fondamentale al cambio di prospettiva generale che serve per affrontare l’emergenza climatica. E, soprattutto, che offrono spunti concreti.

Accanto agli obiettivi dichiarati, infatti, la speranza del NoirLab è di essere d’ispirazione alla comunità astronomica affinché molte altre strutture prendano l’iniziativa di applicare contromisure concrete verso una maggiore sostenibilità. Per farlo, e per incoraggiare la partecipazione di altre strutture e centri di ricerca, il centro sta lavorando al miglioramento di uno strumento già esistente per il calcolo diretto dell’impronta di carbonio di tutte le strutture di ricerca negli Stati Uniti.

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Amaterasu e il mistero cosmico


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Immagine artistica del raggio cosmico estremamente energetico “Amaterasu” osservato da un array di rivelatori di superficie dell’esperimento Telescope Array. Crediti: Osaka Metropolitan University/L-INSIGHT, Kyoto University/Ryuunosuke Takeshige

Chi sei? Da dove vieni? Senza rispondere a nessuna di queste domande, una misteriosa particella ad altissima energia è caduta dallo spazio sulla superficie terrestre. Può sembrare fantascienza, ma è realtà. I sensori del Telescope Array hanno, infatti, registrato l’arrivo sulla Terra di un raggio cosmico ad altissima energia, il più potente degli ultimi 30 anni, di provenienza sconosciuta e battezzato “Amaterasu” dagli scienziati.

La ricerca, guidata da Toshihiro Fujii della Osaka Metropolitan University e pubblicata la settimana scorsa su Science, ha come protagonisti i raggi cosmici, particelle subatomiche cariche di energia che viaggiano nello spazio quasi alla velocità della luce e che colpiscono in modo costante il nostro pianeta. I raggi cosmici hanno origini extraterrestri – galattiche (ad esempio, dal Sole) o extragalattiche – e quelli ad altissima energia (Utra-High Energy Cosmic Rays – Uhecr) possono raggiungere valori energetici di miliardi di miliardi di elettronvolt (exa-elettronvolt, o EeV): un’energia circa un milione di volte superiore a quella raggiunta dai più potenti acceleratori mai realizzati dall’uomo.

I raggi cosmici ad altissima energia sono eccezionalmente rari e per rilevarli occorrono strumenti estesi su grandi “aree di raccolta”. A caccia di raggi cosmici dallo spazio sin dal lontano 2008, il gruppo del professor Fujii ha utilizzato il Telescope Array, il rivelatore di raggi cosmici composto da 507 stazioni di superficie a scintillatore, su un’area di 700 chilometri quadrati nel deserto dello Utah, negli Stati Uniti. E il 27 maggio 2021 i ricercatori hanno finalmente rilevato una particella di particolare interesse, con un’energia mozzafiato: 244 EeV. «Quando ho visto per la prima volta questo raggio cosmico ad altissima energia», ricorda Fujii, «ho pensato che ci fosse un errore, poiché mostrava un livello di energia senza precedenti, mai registrato negli ultimi tre decenni».

Nel corso della storia, infatti, raggi cosmici così energetici sono stati intercettati pochissime volte: quello con più energia in assoluto, stimata attorno ai 320 EeV, è stato rilevato nel 1991 e fu chiamato “Oh-My-God” – oh mio Dio! Con un livello di energia paragonabile a quello di “Oh-My-God“, la particella raccolta da Fujii e colleghi è stata chiamata “Amaterasu”, come la divinità del Sole che, secondo le credenze scintoiste, avrebbe contribuito alla creazione del Giappone e sarebbe l’antenata diretta della famiglia imperiale giapponese. E proprio come nella mitologia giapponese, la particella Amaterasu è molto misteriosa. L’eccezionale livello energetico del raggio cosmico, secondo gli autori dello studio, ha fatto sì che la deviazione apportata alla sua traiettoria dai campi magnetici di foreground – come quello terrestre – sia stata minima. In altre parole, la direzione di arrivo della particella è strettamente correlata alla posizione della sorgente.

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Amaterasu mentre esce dalla caverna e torna ad illuminare la Terra, come riportata in una stampa giapponese. Crediti: Shunsai Toshimasa 1889/MAK – Museum of Applied Arts, Vienna (Austria)

Tuttavia, gli scienziati non sono riusciti ancora a capire la provenienza e l’esatta natura di Amaterasu: osservando verso la direzione di provenienza non si è vista alcuna galassia che possa essere considerata un’ovvia candidata sorgente, né altri oggetti astronomici noti e ritenuti potenziali fonti di Uhecr. Anzi, la direzione di arrivo sembrerebbe puntare verso il vuoto, all’interno di una regione dell’universo in cui risiedono pochissime galassie: nessun buco nero, nessuna esplosione stellare, niente di che, insomma. «Non è stato identificato alcun oggetto astronomico promettente che corrisponda alla direzione di arrivo del raggio cosmico, il che suggerisce la possibilità di fenomeni astronomici sconosciuti e di nuove origini fisiche al di là del modello standard», osserva Fujii. I dati raccolti finora suggerirebbero agli autori tre possibili soluzioni: una deviazione magnetica molto più ampia di quella prevista dai modelli galattici; l’esistenza di una sorgente non identificata nel vicino spazio extragalattico; o, infine, una comprensione ancora incompleta della fisica delle particelle ad alta energia.

«In futuro, continueremo a lavorare all’esperimento Telescope Array», conclude Fujii. «Nel frattempo, inizieremo un’indagine più dettagliata sulla sorgente di questa particella estremamente energetica, grazie all’aggiornamento dello strumento TAx4, dotato di una sensibilità quadrupla, e ai rilevatori di nuova generazione». Chissà che prima o poi Amaterasu, come narra la leggenda, non esca dalla caverna e illumini la strada per la comprensione delle origini dei raggi cosmici.

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Squilibrate galassie nane, satelliti della Via Lattea


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Galassie nane attorno alla Via Lattea. Crediti: Esa/Gaia/Dpac

Da tempo si presume che le galassie nane vicine alla Via Lattea siano antiche galassie satelliti in orbita attorno alla nostra galassia da quasi 10 miliardi di anni. Questo scenario richiede che in esse siano presenti enormi quantità di materia oscura, per proteggerle dagli effetti mareali dovuti all’attrazione gravitazionale della nostra galassia. Materia oscura che si è ipotizzato essere la causa delle grandi differenze osservate nella velocità delle stelle all’interno di queste galassie nane.

Tuttavia, gli ultimi dati Gaia hanno rivelato una visione completamente diversa. Gli astronomi dell’Osservatorio di Parigi (Psl), del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) e dell’Istituto Leibniz per l’astrofisica di Potsdam (Aip) sono riusciti a datare la storia della Via Lattea, grazie alla relazione che lega l’energia orbitale di un oggetto alla sua epoca di ingresso nell’alone, il momento in cui è stato catturato per la prima volta dal campo gravitazionale della Via Lattea. Secondo i ricercatori, gli oggetti “arrivati” prima, quando la Via Lattea era meno massiccia, hanno energie orbitali più basse rispetto a quelli arrivati di recente.

Siccome le energie orbitali della maggior parte delle galassie nane sono sorprendentemente più grandi di quelle della galassia nana del Sagittario, entrata nell’alone 5-6 miliardi di anni fa, la maggior parte delle galassie nane deve essere arrivata molto più recentemente, meno di tre miliardi di anni fa.

Un arrivo così recente implica che le nane vicine provengano dall’alone esterno, dove si osserva che quasi tutte le galassie nane contengono enormi riserve di gas neutro. Le galassie ricche di gas devono quindi aver perso il loro gas quando si sono scontrate con il gas caldo dell’alone galattico. Mentre originariamente erano dominate dalla rotazione del gas e delle stelle, quando vengono trasformate in sistemi privi di gas, la loro gravità viene bilanciata dai movimenti casuali delle stelle rimanenti.

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Immagine di una simulazione della trasformazione di una galassia ricca di gas e dominata dalla rotazione in una galassia nana sferica. Qui è mostrata una parte della galassia nana Sculptor. Crediti: Jianling Wang, François Hammer

La violenza degli shock e delle turbolenze coinvolte nel processo ha fatto loro perdere l’equilibrio, cambiandole completamente. Gli effetti combinati della perdita di gas e degli shock gravitazionali dovuti all’immersione nella nostra galassia spiegano bene la grande dispersione delle velocità delle stelle all’interno del resto della galassia nana.

Una delle curiosità di questo studio è il ruolo della materia oscura. Innanzitutto, l’assenza di un equilibrio impedisce qualsiasi stima della massa dinamica delle nane della Via Lattea e del loro contenuto di materia oscura. In secondo luogo, mentre nello scenario precedente la materia oscura proteggeva la presunta stabilità delle galassie nane, per oggetti fuori equilibrio diventa piuttosto imbarazzante invocare la materia oscura. Infatti, se la nana contenesse già molta materia oscura, avrebbe stabilizzato il suo disco iniziale di stelle rotanti, impedendo la trasformazione della nana in una galassia con movimenti stellari casuali come osservato.

Il recente arrivo delle galassie nane e le loro trasformazioni nell’alone spiegano bene molte proprietà osservate di questi oggetti, in particolare perché hanno stelle a grande distanza dal loro centro. Le loro proprietà sembrano compatibili con l’assenza di materia oscura, contrariamente alla precedente visione in cui le galassie nane sarebbero oggetti dominati dalla materia oscura.

Ma allora, dove sono le numerose galassie nane dominate dalla materia oscura previste dal modello cosmologico standard attorno alla Via Lattea? E come possiamo dedurre il contenuto di materia oscura di una galassia nana se non si può assumere l’equilibrio? Quali altre osservazioni potrebbero discriminare tra le galassie nane fuori equilibrio proposte dagli autori e il quadro classico con le galassie nane dominate dalla materia oscura? Come vedete, le domande che solleva questo studio non sono poche.

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“Macchine del tempo” in mostra a Roma


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Una sala della mostra

Da sabato 25 novembre 2023 al 24 marzo 2024, a Palazzo Esposizioni Roma, “Macchine del tempo”, la nuova mostra dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf): un connubio perfetto tra divulgazione scientifica, gioco e cultura in un percorso espositivo che guarda al futuro strizzando l’occhio ai favolosi anni ‘80.

Promossa dall’Assessorato alla cultura di Roma Capitale e da Azienda speciale Palaexpo, organizzata da Azienda speciale Palaexpo, ideata e realizzata da Inaf in collaborazione con Pleiadi, e prodotta con il contributo di Azienda speciale Palaexpo, “Macchine del tempo” parla di astrofisica e astronomia a tutti, grandi e piccoli, neofiti e appassionati. La mostra ha come obiettivo principale far conoscere l’astrofisica e il coinvolgimento di Inaf nelle grandi scoperte recenti, attraverso un percorso fatto di exhibit interattivi, foto di telescopi e satelliti, suoni coinvolgenti, videogiochi e molto altro.

Cosa sono le macchine del tempo?

Si tratta di strumenti dell’ingegno italiano, frutto della ricerca condotta negli osservatori Inaf, utilizzati dalle donne e dagli uomini che ogni giorno mettono impegno e passione per ampliare la nostra conoscenza del cosmo. La mostra vuole parlare di scienza e astrofisica mostrando proprio questi strumenti ma facendo anche vedere chi c’è “dietro l’oculare”. Un’esperienza immersiva che comincia innanzitutto da noi stessi, dai visitatori, passando poi a Galileo, l’italiano che, posando l’occhio sul cannocchiale, utilizzò la prima “macchina del tempo”.

I telescopi, che gli astrofisici oggi costruiscono nei luoghi più lontani del pianeta, sono in grado di trasportarci in un remoto passato, all’origine dell’universo, all’indomani del Big Bang, quando le prime galassie e le stelle hanno preso forma, ma anche di immergerci nel nostro passato più recente, sviscerando la storia del nostro pianeta e del sistema solare attraverso la ricerca e l’osservazione di esopianeti, di mondi lontani che stanno nascendo o che già orbitano attorno ad altre stelle.

La mostra

Il percorso espositivo si snoda su tre sale. Si parte da un’ambientazione familiare: un cielo stellato, con l’invito a ripetere l’esperienza che Galileo fece oltre 400 anni fa, puntando verso il firmamento un “occhio potenziato”, il cannocchiale. Da qui inizia un viaggio attraverso i pianeti del nostro vicinato cosmico, il Sistema solare, ricreato sulla scala della città di Roma e riproposto in versione ludica con una vera e propria sala giochi in stile anni Ottanta.

Il viaggio prosegue tra pianeti, stelle, galassie e giganteschi ammassi di galassie, abbracciando le immense scale cosmiche che le “macchine del tempo” dell’astrofisica contemporanea cercano di afferrare, fino agli albori dell’universo. Attraverso una combinazione di immagini iconiche, exhibit interattivi e tecnologie innovative come la realtà virtuale, chi visita la mostra verrà in contatto diretto con le sfide di una ricerca che, giorno dopo giorno, spinge sempre più avanti i limiti della nostra conoscenza.

I visitatori della mostra intraprenderanno un vero e proprio “viaggio nel tempo” il cui tema centrale è la luce che con la sua velocità non ci permette di vedere il presente bensì il passato. Grazie alla luce è possibile viaggiare nel tempo guardando il cielo: più distante osserviamo e più indietro nel tempo riusciamo a vedere. Un percorso che farà conoscere al pubblico il principale Ente di Ricerca italiano per lo studio dell’universo e che vuole giocare tra il vecchio e il nuovo, ma con contenuti che parlano di oggi e del futuro.

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Una sala della mostra

Doppia lingua e inclusività

La mostra è realizzata in doppia lingua (italiana e inglese) e ha molti elementi di inclusività per persone sorde, cieche e ipovedenti: software di sonificazione che permettono di “sentire” le immagini, rappresentazioni tattili che rendono tangibile l’informazione sulle diverse aree di un’immagine, video in Lis. Nel corso dei mesi della mostra, verranno implementati altri percorsi attenti all’universalità ed equità della conoscenza.

Laboratori

La mostra si rivolge a tutti, con particolare attenzione alle famiglie e alle scolaresche. “Macchine del tempo” offre, per le scuole dell’infanzia, le scuole primarie e le famiglie, una serie di laboratori didattici per esplorare e scoprire insieme le meraviglie del cosmo. Tutte le attività didattiche e inclusive della mostra sono realizzate in collaborazione con Oae – Italia. Sono previste inoltre visite guidate ad hoc per le scuole secondarie di primo e secondo grado.

Eventi

Durante i quattro mesi saranno previsti vari incontri scientifici di alto livello, con nomi importanti della Ricerca astrofisica e spaziale mondiale, ma anche aperitivi scientifici, incontri di poetry slam e dibattiti che vedranno come protagonisti intellettuali e politici attivi nel campo della cultura. Sarà l’astronauta Roberto Vittori a inaugurare il programma di conferenze della mostra “Macchine del Tempo”, giovedì 30 novembre alle ore 18:30 con un talk dal titolo “L’uomo che è stato tre volte nello Spazio”. Tra gli ospiti, mercoledì 6 dicembre alle ore 18:30, il Premio Nobel per la fisica Michel Mayor, con una conferenza dal titolo “Altre terre nell’Universo? La ricerca della vita nello Spazio”. Giovedì 8 febbraio alle ore 18:30, ospiteremo Marica Branchesi, Gran Sasso Science Institute (Gssi), e Viviana Fafone, Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), con una conferenza dal titolo “Otto anni di onde gravitazionali – l’astronomia multimessagera, da Ligo-Virgo all’Einstein Telescope”. Da non perdere poi, domenica 11 febbraio alle ore 20:00, lo spettacolo di e con La Scienza Coatta, progetto di divulgazione scientifica, e Ludovica Di Donato, autrice e attrice, dal titolo “STEMmano ponno esse donne o ponno esse scienziate”, in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza (iniziativa Unesco). E tanto altro.

«Noi siamo convinti che la scienza sia cultura. Con questa mostra», spiega Caterina Boccato, curatrice della mostra, «intendiamo dare l’opportunità a tutti, senza che si abbia una particolare preparazione in fisica o astrofisica, di fruire di contenuti scientifici in modo ludico e piacevole. Il nostro obiettivo non è solo fare pura diffusione scientifica, bensì di portare al cittadino un approfondimento culturale unico e accattivante».

«La mostra che vedrete al Palazzo Esposizioni», sottolinea entusiasta Marco Tavani, presidente di Inaf, «è rivolta a tutti i curiosi e agli appassionati dell’esplorazione dell’universo. Un viaggio attraverso la meraviglia e la complessità del cosmo. Vi invito fortemente ad immergervi nelle trame intricate della natura e a lasciarvi affascinare dalla bellezza di multiformi sorgenti. Pianeti vicini e lontani, il Sole e le stelle, la nostra galassia e le galassie lontane, stelle compatte e buchi neri, le sorgenti di onde gravitazionali, gli effetti della materia oscura e della energia oscura, l’evoluzione cosmologica, la ricerca della vita nell’universo: sono questi i grandi temi dell’astrofisica. Come fare tutto questo? Salendo a bordo delle macchine del tempo ideate e create da Inaf e tuffandovi con noi in questa avventura. Mi auguro che con questa mostra Inaf possa essere fonte di ispirazione per il pubblico e soprattutto per le nuove generazioni che un giorno vorranno, chissà, dedicarsi alla scienza e all’astrofisica».

«Sono particolarmente lieto che un progetto così prestigioso sia allestito a Palazzo Esposizioni Roma», aggiunge Marco Delogu, presidente di Azienda speciale Palaexpo, «uno spazio la cui vocazione multidisciplinare consente a questa tipologia di mostre di svilupparsi in tutta la loro ampiezza descrittiva. Macchine del tempo, concepita e realizzata grazie alla proficua collaborazione con Inaf, prosegue la grande tradizione di mostre scientifiche e divulgative già ospitate con successo e rivolte a un vasto pubblico grazie all’utilizzo di un linguaggio moderno, accessibile e inclusivo. Questa straordinaria rassegna – che mostrerà in maniera inedita lo scenario maestoso dell’evoluzione dell’universo attraverso parole, immagini e suoni prodotti e sviluppati dalle migliori tecnologie oggi a disposizione – convive con il programma espositivo autunnale di Palazzo Esposizioni che ospita contestualmente le mostre Don McCullin a Roma, Boris Mikhailov: Ukrainian Diary e L’Avventura della Moneta. Un’offerta ampia e differenziata che ci auguriamo soddisfi i visitatori desiderosi di arte, scienza e cultura».


Informazioni

Palazzo Esposizioni Roma

  • Roma, via Nazionale, 194
  • www.palazzoesposizioni.it
  • Facebook: @PalazzoEsposizioni | Instagram: @palazzoesposizioni | Twitter: @Esposizioni

Sito web della mostra

Orari

  • Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 20.00, lunedì chiuso.
  • L’ingresso è consentito fino a un’ora prima della chiusura.

Biglietti

  • Intero € 12,50 – ridotto € 10,00 – ragazzi dai 7 ai 18 anni € 6,00.
  • Ingresso gratuito per i bambini fino a 6 anni.
  • Il biglietto è valido per visitare anche le mostre Don McCullin a Roma e Boris Mikhailov: Ukrainian Diary.
  • Con un biglietto supplementare di € 1.00 è possibile visitare la mostra L’Avventura della moneta.
  • Primo mercoledì del mese ingresso gratuito per gli under 30 (dalle 14.00 a chiusura).

Accessibilità

  • Palazzo Esposizioni Roma è accessibile alle persone con ridotta capacità motoria o sensoriale da tre ingressi privi di barriere architettoniche.


“Se questo non vi spaventa…”


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“If this doesn’t scare you…”. È questo l’esordio del post dell’Agenzia spaziale europea che introduce il grafico che vedete qui sotto, in cui in rosso è rappresentato l’andamento delle temperature medie globali dell’aria nel corso dei mesi dell’anno corrente. Cosa ci sia di spaventoso nel grafico, non può sfuggire nemmeno allo sguardo più distratto: quella riga rossa raggiunge un picco negli ultimi valori registrati in corrispondenza dei due giorni del 17 e 18 novembre, che misurano rispettivamente +2.07 e +2.06 gradi rispetto ai livelli globali preindustriali. Abbiamo passato – in modo puntuale, sia chiaro – il limite dell’accordo di Parigi. Non solo: se guardiamo la tendenza degli ultimi mesi, ci accorgeremo che tutti – da giugno a novembre – si sono stagliati sopra le medie di tutti gli anni precedentemente monitorati (le curve con tratto più leggero, in secondo piano). In altre parole, la temperatura dell’aria – da giugno in poi – è sempre stata, mediamente, la più alta degli ultimi 120 anni. Se si considera come periodo di riferimento gli ultimi trent’anni, invece, l’anomalia registrata il 17 novembre presenta un eccesso di 1.17 gradi.

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Anomalia giornaliera della temperatura dell’aria superficiale globale per il periodo 1940-2023 con riferimento al periodo preindustriale 1850-1900. I due giorni del 17 e 18 novembre mostrano un’aumento della temperatura media globale che ha superato i due gradi. Crediti: C3s/Ecmwf

I dati che vedete sono stati pubblicati da Era5, la quinta generazione di rianalisi atmosferica del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio (European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, Ecmwf) del clima globale, che copre il periodo da gennaio 1940 a oggi.

Si tratta di un set di dati che combina modelli atmosferici con dati osservazionali da satelliti e sensori terrestri per costruire l’andamento a lungo termine del clima. In particolare, fornisce stime orarie di variabili climatiche atmosferiche come temperatura dell’aria, pressione e vento a diverse altitudini, e variabili di superficie come precipitazioni, umidità del suolo e altezza dell’onda oceanica. I dati coprono la Terra con una griglia di 30 km e l’atmosfera con una divisione in 137 livelli dalla superficie fino a un’altezza di 80 km. I dati sono pubblici e scaricabili da chiunque da gennaio 2019.

«Il record Era5 contiene ora due giorni in cui le temperature globali hanno superato di oltre 2 °C il livello preindustriale», dice Carlo Buontempo, direttore del Servizio cambiamenti climatici di Copernicus (C3S) che ha prodotto Era5. «Il fatto che ciò accada nello stesso mese in cui i leader mondiali si riuniranno per fare il punto sui progressi compiuti verso il rispetto degli impegni dell’accordo di Parigi alla Cop28 invia un messaggio molto chiaro: è giunto il momento di agire in modo definitivo per affrontare il cambiamento climatico. Sebbene il superamento della soglia dei 2 °C per un certo numero di giorni non significhi che abbiamo violato gli obiettivi dell’accordo di Parigi, più spesso superiamo questa soglia, più gravi saranno gli effetti cumulativi di queste violazioni».


Missioni spaziali, si riparte con il plutonio-238


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Pellet di ossido di plutonio-238 incandescente grazie al calore prodotto dal decadimento radioattivo. Crediti: Doe/Wikipedia

È un po’ come nel film Oppenheimer, con le bocce di vetro che si riempiono di biglie per rappresentare l’approvvigionamento di uranio-235 e plutonio-239. Qui però parliamo di plutonio-238, l’isotopo comunemente usato negli Rtg per missioni spaziali, i generatori termoelettrici a radioisotopi. Più precisamente, di mezzo chilo di ossido di plutonio: a tanto ammonta, infatti, la consegna ora effettuata dall’Oak Ridge National Laboratory del Doe – il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti – al Los Alamos National Laboratory.

Mezzo chilo, dicevamo: è la spedizione più grande dal riavvio della produzione nazionale di plutonio-238, avvenuto oltre un decennio fa. Una produzione che negli ultimi sessant’anni, prima di interrompersi, aveva fornito la “materia prima” per dare energia a circa tre dozzine di missioni spaziali. L’obiettivo del riavvio, scrive la Nasa, è di arrivare entro il 2026 a una produzione media continuativa di 1,5 kg all’anno.

I sistemi di alimentazione a radioisotopi, o Rps, consentono ai veicoli spaziali di esplorare alcune delle destinazioni più profonde, oscure e lontane del Sistema solare e oltre. Sono sistemi che sfruttano il decadimento naturale del radioisotopo plutonio-238 per fornire calore – a una sonda spaziale, o a mezzi come lander e rover – sotto forma di unità di riscaldamento a radioisotopi leggera (Lwrhu), oppure calore ed elettricità attraverso sistemi come i cosiddetti Mmrtg, i generatori termoelettrici a radioisotopi multi-missione.

Nell’ambito di una collaborazione di lunga data per garantire il funzionamento delle missioni Nasa che richiedono radioisotopi, il Doe ha già prodotto l’ossido di plutonio necessario ad alimentare il sistema di alimentazione a radioisotopi per missioni come, per esempio, Mars 2020. Il rover Perseverance è stato il primo veicolo spaziale a beneficiare di questo riavvio del programma di produzione di plutonio da parte del Doe: un Mmrtg fornisce continuamente al rover Nasa, grande come un’automobile, sia il calore necessario a sopravvivere al freddo marziano, sia circa 110 watt di elettricità, consentendo così l’esplorazione della superficie di Marte e la raccolta di campioni di terreno per un futuro recupero.


I quindici parsec più interni della Via Lattea


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Sullo sfondo uno spicchio di cielo brulicante di stelle adulte. Al centro, in primo piano, miriadi di astri nascenti in procinto di accendersi per prendere il loro posto nell’universo. È una delle ultime immagini che ci regala il telescopio spaziale James Webb. Il palcoscenico è una porzione della nostra galassia, la Via Lattea. Per essere precisi, una fetta di cielo che si estende per 50 anni luce al centro della nostra galassia, dove emerge maestosa la regione di intensa formazione stellare Sagittarius C (Sgr C).

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L’immagine della regione di formazione stellare Sagittarius C ottenuta dalla Near-Infrared camera di Jwst. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StscI, Samuel Crowe (Uva)

«Su questa regione non sono mai stati ottenuti dati nell’infrarosso con il livello di risoluzione e sensibilità che può darci il telescopio James Webb», dice Samuel Crowe, ricercatore all’Università della Virginia, nel team di astronomi che ha condotto le osservazioni. «Quelle che vediamo nell’immagine sono caratteristiche che osserviamo qui per la prima volta. Il telescopio James Webb ha rivelato un’incredibile quantità di dettagli, permettendoci di studiare la formazione stellare in questo tipo di ambiente in un modo che non era possibile prima».

Il centro galattico è una delle regioni più studiate in astrofisica. Il motivo è semplice: essendo situato a circa 25mila anni luce dalla Terra, è l’ambiente più vicino che abbiamo in cui è possibile studiare simultaneamente molti dei processi che modellano l’universo. Grazie alla sua elevata sensibilità, Jwst può studiare l’enorme inventario di stelle che contiene questa regione, consentendo agli astronomi di raccogliere informazioni senza precedenti su come si formano le stelle e su come questo processo possa dipendere dall’ambiente cosmico, soprattutto rispetto ad altre regioni della galassia.

Nell’immagine in questione, ottenuta dallo strumento NirCam (Near-Infrared Camera), di stelle il telescopio ce ne mostra circa 500mila, di età e dimensioni diverse. Oltre a queste stelle più avanti con l’età, il telescopio ha svelato però anche altro: miriadi di stelle in formazione che stanno ancora guadagnando massa; stelle pronte a emergere dal bozzolo della nube che le ha generate, accendersi e illuminare il cielo insieme alle stelle più mature che le circondano: gli astri nascenti della regione di formazione stellare Sagittarius C. Jwst ne ha colto il vagito, catturando i fotoni energetici emessi dell’idrogeno ionizzato (la vasta regione blu nell’immagine).

Ma non è finita qui. Oltre a strutture aghiformi la cui natura e sconosciuta, l’immagine mostra anche una enorme nube scura a infrarossi (la grande macchia scura in alto a sinistra dell’immagine). Parte della nube molecolare Sagittarius C, si tratta di una regione così densa di polveri da bloccare persino la luce infrarossa delle stelle che si trovano dietro di essa, da cui il nome con cui vengono chiamate queste nubi. Secondo gli astronomi, sono il sito di formazione di stelle massicce.

Situata tra la nube di gas ionizzato e la nube scura a infrarossi si scorge inoltre un ammasso di protostelle al cui centro si trova G359.44-0.102, una stella in fasce già nota la cui massa è oltre trenta volte quella del Sole.

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L’immagine del centro galattico ottenuta da Jwst con indicate le diverse caratteristiche presenti. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StscI, Samuel Crowe (Uva)

«Il centro galattico è un luogo affollato e turbolento. Ci sono nubi di gas tumultuoso e magnetizzato che stanno formando stelle. Stelle che, una volta accese, investiranno il gas circostante con i loro venti, getti e radiazioni in uscita», sottolinea Rubén Fedriani, ricercatore presso l’Instituto Astrofísica de Andalucía (Iaa), in Spagna, anche lui nel team che ha condotto le osservazioni. «Il telescopio James Webb ci ha fornito moltissimi dati su questo ambiente estremo, che stiamo iniziando a studiare più approfonditamente».

Le osservazioni che hanno permesso di ottenere questa immagine fanno parte del programma “A Census of High- and Low-Mass Star Formation in a Galactic Center Molecular Cloud”, un’indagine condotta nell’ambito del secondo ciclo del programma General Observer (Go) di Jwst (Cycle 2 General Observer (Go). L’obiettivo del programma osservativo era quello studiare la nube molecolare Sagittarius C, in particolare la protostella massiccia G359.44-0.102 e le regioni circostanti, al fine di determinare il tasso di formazione stellare e testare i modelli teorici di formazione delle stelle massicce in questo ambiente estremo.

Nonostante l’intenso lavoro di osservazione del centro galattico con questa e altre survey, ci sono tuttavia aspetti fondamentali ancora sconosciuti che riguardano questa regione. Qual è la storia della formazione del centro galattico e la sua relazione con la storia complessiva della formazione della Via Lattea? Quanta massa stellare si è formata negli ultimi 30 milioni di anni nel centro galattico? Perché il tasso di formazione stellare è di uno o due ordini di grandezza inferiore a quanto previsto. E ancora: qual è la struttura tridimensionale del mezzo interstellare (Ism) che alimenta la formazione stellare nel centro galattico?

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I cento parsec più interni della Via Lattea. La regione del centro galattico che intende studiare la campagna osservativa “A large Survey of the Galactic Center”. Crediti: Schodel et al. 2023

Una risposta a queste domande potrebbe arrivare con il ciclo 3 del programma General Observer , il cui inizio è previsto il primo luglio 2024. Tra le proposte presentate come parte di questo nuovo ciclo di osservazioni c’è una survey che mira a studiare in dettaglio i cento parsec più interni della Via Lattea. Il proposal in questione, pubblicato come white paper su arXiv.org, è stato sottoscritto da più di cento astronomi provenienti da oltre ottanta istituzioni in tutto il mondo, tra cui Gabriele Ponti, Konstantina Anastasopoulou, Santi Cassisi e Mario Giuseppe Guarcello dell’Inaf.

«Queste osservazioni NirCam dimostrano come il processo di formazione stellare sia estremo nel centro della Via Lattea», dice a Media Inaf l’astronomo Mario Guarcello, esperto di formazione stellare in servizio presso l’Inaf di Palermo e principal investigator di due programmi osservativi Jwst mirati a studiare la formazione stellare in ambienti molto massicci. «Lo studio del processo di formazione stellare nella regione centrale della nostra galassia è uno degli obiettivi della campagna osservativa “A large Survey of the Galactic Center” proposta nel ciclo 3 di Jwst, che vede un’importante partecipazione di astronomi Inaf». Se i ricercatori otterranno il tempo osservativo richiesto, questa immagine del centro galattico potrebbe essere dunque solo un assaggio.


Misura ultra-precisa della rotazione terrestre


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Il laser ad anello di Wettzell è stato continuamente migliorato sin dalla sua messa in servizio. Crediti: Astrid Eckert / Tum

Vi piacerebbe fare un salto in un seminterrato per vedere quanto velocemente gira la Terra? Ecco, se vi trovaste nei pressi dell’Osservatorio geodetico Wettzell – vicino a Bad Kötzting, su un’ampia sella nella bassa catena montuosa della Foresta Bavarese – potreste effettivamente cogliere l’occasione per andarci, in quel seminterrato, e dare una risposta a questa curiosa domanda. I ricercatori della Technical University of Munich (Tum) hanno apportato migliorie all’interferometro laser ad anello che si trova nel seminterrato dell’Osservatorio, e ora il sistema è in grado di fornire dati giornalieri eccezionalmente precisi, cosa che finora non era assolutamente possibile con livelli di qualità paragonabili.

Cosa misura esattamente questo interferometro? Nel suo viaggio attraverso lo spazio, la Terra ruota attorno al proprio asse a velocità leggermente variabili. Inoltre, l’asse attorno al quale gira il pianeta non è completamente statico, traballa leggermente (il termine tecnico, in inglese, è wobbling). Questo perché il nostro pianeta non è completamente solido, bensì è formato da varie parti, alcune solide, altre liquide. Quindi, l’interno della Terra è costantemente in movimento. Questi spostamenti di massa accelerano o frenano la rotazione del pianeta, e comportano differenze nella velocità di rotazione che possono essere rilevate utilizzando sistemi di misurazione come il laser ad anello.

«Le fluttuazioni nella rotazione non sono importanti solo per l’astronomia, ma ne abbiamo urgentemente bisogno per creare modelli climatici accurati e per comprendere meglio fenomeni meteorologici come El Niño. Più precisi sono i dati, più accurate sono le previsioni», afferma Ulrich Schreiber, alla guida del progetto.

Durante la revisione del sistema, il team ha dato priorità alla ricerca di un buon compromesso tra dimensioni e stabilità meccanica, poiché quanto più è grande un dispositivo di questo tipo, tanto più sensibili sono le misurazioni che può effettuare. Tuttavia, le dimensioni hanno un impatto non trascurabile sulla stabilità, e quindi sulla precisione.

Un’altra sfida è stata la simmetria dei due raggi laser contrapposti, il cuore del sistema Wettzell. Una misurazione esatta è possibile solo se le forme d’onda dei due raggi laser che si propagano in maniera opposta sono quasi identiche. Tuttavia, il design del dispositivo implica che sia sempre presente una certa asimmetria. Negli ultimi quattro anni, coloro che si occupano di geodesia hanno utilizzato un modello teorico per le oscillazioni laser per catturare questi effetti sistematici, nella misura in cui possono essere calcolati con precisione su un lungo periodo di tempo e quindi possono essere eliminati dalle misurazioni.

Il dispositivo può utilizzare questo nuovo algoritmo correttivo per misurare la rotazione terrestre con una precisione fino a 9 cifre decimali, corrispondenti a una frazione di millisecondo al giorno. Per quanto riguarda i raggi laser, equivale a un’incertezza alla 20esima cifra decimale della frequenza della luce, stabile per diversi mesi. Nel complesso, le oscillazioni osservate hanno raggiunto valori fino a 6 millisecondi per periodi di circa due settimane.

I miglioramenti apportati al laser hanno ora reso possibili periodi di misurazione notevolmente più brevi. I programmi correttivi di nuova concezione consentono al team di acquisire i dati ogni tre ore. «Nelle geoscienze, livelli di risoluzione temporale così elevati sono assolutamente nuovi per i laser ad anello autonomi», afferma Urs Hugentobler, professore di geodesia satellitare alla Tum. «A differenza di altri sistemi, il laser funziona in modo completamente indipendente e non richiede punti di riferimento nello spazio. Con i sistemi convenzionali, questi punti di riferimento vengono creati osservando le stelle o utilizzando i dati satellitari. Ma noi siamo indipendenti da questo genere di cose e anche estremamente precisi».

I dati raccolti indipendentemente da osservazioni astronomiche possono aiutare a identificare e compensare errori sistematici in altri metodi di misurazione. L’utilizzo di una varietà di metodi aiuta a rendere il lavoro particolarmente meticoloso, soprattutto quando i requisiti di precisione sono elevati, come nel caso del laser ad anello. In futuro è previsto un ulteriore miglioramento del sistema che consentirà periodi di misurazione ancora più brevi.

Ma come funzionano questi dispositivi? I laser ad anello sono costituiti da un percorso quadrato per il raggio, con quattro specchi completamente racchiusi in un corpo di ceramica, denominato risonatore. Ciò impedisce che la lunghezza del percorso cambi a causa di fluttuazioni di temperatura. Una miscela di gas elio/neon all’interno del risonatore consente l’eccitazione del raggio laser, uno in senso orario e uno in senso antiorario.

Se non ci fosse il movimento della Terra, la luce percorrerebbe la stessa distanza in entrambe le direzioni. Ma poiché l’apparecchio si muove insieme alla Terra, la distanza di uno dei raggi laser risulta essere più breve, poiché la rotazione terrestre ha l’effetto di avvicinare gli specchi al raggio. Nella direzione opposta, la luce percorre una distanza corrispondentemente più lunga. Questo effetto crea una differenza nelle frequenze delle due onde luminose la cui sovrapposizione genera una nota di battimento che può essere misurata in modo molto esatto. Maggiore è la velocità con cui gira la Terra, maggiore è la differenza tra le due frequenze ottiche. All’equatore la Terra ruota di 15 gradi verso est ogni ora. Ciò genera un segnale di 348,5 Hz nel dispositivo Tum. Le fluttuazioni della durata del giorno si manifestano con valori da 1 a 3 milionesimi di Hz (1 – 3 microhertz).

Ciascun lato del laser ad anello nel seminterrato dell’Osservatorio di Wettzell misura quattro metri. Questa costruzione è ancorata a una solida colonna di cemento che poggia sul solido substrato roccioso della crosta terrestre, a una profondità di circa sei metri. Ciò garantisce che la rotazione terrestre sia l’unico fattore che influenza i raggi laser ed esclude altri fattori ambientali. La struttura è protetta da una camera pressurizzata che compensa automaticamente le variazioni della pressione dell’aria o della temperatura desiderata di 12 gradi Celsius. Per ridurre al minimo tali fattori, il laboratorio si trova a una profondità di cinque metri sotto una collina artificiale. Sono stati necessari quasi 20 anni di lavoro di ricerca per sviluppare questo sistema di misurazione e ora si raccolgono i frutti: la misurazione della rotazione terrestre più precisa di sempre.

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Le stelle triple sono le nuove doppie


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Immagine artistica di una stella con un disco intorno, una stella Be (in primo piano) e della sua compagna (sullo sfondo) che è stata spogliata delle sue parti esterne. Crediti: Eso/L. Calçada

Il triangolo, questa volta, i ricercatori dell’università di Leeds l’hanno considerato. Hanno ipotizzato che una particolare classe di stelle, chiamate Be, non abbiano una sola compagna, ma due, e che una di esse ceda la sua massa originando il disco caratteristico che le circonda. L’articolo è pubblicato nella rivista Mnras.

Le stelle Be sono un sottogruppo delle stelle di classe B, di cui costituiscono circa il 20 per cento in numero. Si chiamano così perché il loro spettro contiene delle righe di emissione dell’idrogeno originate dalla presenza di un disco che le circonda, e sulla cui formazione non si era ancora trovata una spiegazione convincente. Si tratta di una fase transitoria più che di una vera e propria classe di stelle: qualunque stella di tipo B a un certo punto della propria vita può diventare una stella Be, e viceversa. Ma come avviene questa transizione?

Un gruppo di astronomi stava studiando di un gruppo di stelle di tipo B usando i dati dei satelliti Gaia e Hipparcos, per calcolare la frazione di binarie a diverse distanze da ciascuna stella. Per farlo, hanno studiato il cosiddetto moto proprio, e in particolare un parametro chiamato “anomalia dei moti propri”. Le stelle, infatti, non sono fisse nel cielo ma si muovono su scale temporali più o meno lunghe. Per tracciarne il moto, si effettuano misure di astrometria che ne definiscono con precisione estrema la posizione e consentono quindi di determinare, in un dato periodo di tempo, quanto si muove una stella in verticale o orizzontale sul piano del cielo. Se una stella è isolata, o singola, il suo moto proprio nel cielo è una linea retta. Se invece si trova in coppia, o in un sistema triplo, il suo moto avrà una componente data dalla rivoluzione attorno al centro di massa del sistema, e mostrerà delle oscillazioni o delle vere e proprie spirali. Gli autori hanno quindi osservato come si muovevano le stelle nell’arco di dieci anni, e di sei mesi. Confrontando la frazione di binarie di tutto il gruppo di stelle B con quelle rilevate nelle sole stelle Be a diverse distanze dal centro, hanno trovato che quest’ultime hanno molte meno compagne a distanze ravvicinate dal corpo stellare principale (ovvero fra 0.02 secondi d’arco, il limite della risoluzione osservativa, e 0.04 secondi d’arco). La frazione di binarie, invece, torna molto simile fra 0.04 e 10 secondi d’arco.

Una delle ipotesi riguardo la formazione del disco nelle stelle di tipo Be è il cosiddetto trasferimento di massa da parte di una compagna, che finisce per sparire esaurendosi nel disco attorno alla stella principale. La distanza attorno alla stella nella quale viene rilevata la penuria di stelle compagne, però, è troppo elevata perché si verifichi questo fenomeno. A meno che – e questa è l’idea principale dell’articolo – queste stelle si trovino in un sistema triplo. Se così fosse, un meccanismo fisico chiamato “binary hardening” agirebbe sulla dinamica del sistema provocando la migrazione di una delle due stelle compagne verso l’interno. Trovandosi vicina alla stella di classe B, la compagna inizierebbe a trasferirle parte della massa generando un disco e perdendo i suoi strati più esterni. Questa stella diventa via via sempre più difficile da osservare perché debole, e oscurata dal disco.

La prova che questi sistemi tripli effettivamente esistano si trova anch’essa nei dati di Gaia, scrivono gli autori dell’articolo, e in particolare nelle misure astrometriche relative a queste stelle. «Nell’ultimo decennio gli astronomi hanno scoperto che la binarietà è un elemento incredibilmente importante nell’evoluzione stellare», dice René Oudmaijer, professore all’università di Leeds e coautore dello studio. «Ora ci stiamo muovendo verso l’idea che sia ancora più complesso di così e che le stelle triple devono essere prese in considerazione. In effetti, le triple sono diventate le nuove binarie».

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Lo strano caso del Piano supergalattico


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Immagine che mostra una galassia ellittica (a sinistra) e una galassia a spirale (a destra). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Rogier Windhorst (Asu), William Keel (University of Alabama), Stuart Wyithe (University of Melbourne), Jwst Pearls Team, Alyssa Pagan (Stsci)

Il Piano supergalattico è un’enorme struttura appiattita che si estende per quasi un miliardo di anni luce nell’universo locale. Utilizzato come piano di riferimento del sistema di coordinate supergalattiche, al suo interno si trovano centinaia di migliaia di galassie organizzate in superammassi, tra le più grandi strutture dell’universo conosciuto. Fanno parte del Piano supergalattico il superammasso della Chioma, il superammasso dei Pesci-Balena, il superammasso di Shapley e il superammasso locale – l’ammasso di ammassi di galassie a cui appartiene il Gruppo Locale, il raggruppamento di galassie che comprende anche casa nostra: la Via Lattea.

Diversi studi hanno mostrato che questa enorme regione di spazio contiene principalmente galassie ellittiche e poche, anzi pochissime, galassie a spirale. Il motivo di questa scarsa presenza di galassie dalla forma simile a quella della Via Lattea è una domanda che attende ancora una risposta. Risposta che un team di ricercatori dell’Università di Helsinki e dell’Università di Durham pare ora aver trovato.

Nei densi ammassi di galassie che si trovano sul Piano supergalattico, le galassie sperimentano frequenti interazioni e fusioni con altre galassie. Ciò trasforma le galassie a spirale in galassie ellittiche, cioè galassie senza apparente struttura interna o bracci a spirale. Al contrario, lontano dal Piano supergalattico le galassie possono evolversi in un ambiente relativamente tranquillo, dove la loro struttura a spirale è preservata, spiegano i ricercatori nell’articolo, pubblicato ieri su Nature Astronomy, che riporta i risultati della ricerca.

Per giungere a questa conclusione il team di ricercatori ha utilizzato Sibelius, un sofisticato simulatore in grado di ricostruire l’evoluzione delle galassie utilizzando come input le condizioni che rappresentano lo stato iniziale più probabile dell’universo. Una sorta di macchina del tempo capace di spostare le lancette dell’evoluzione da 13.8 miliardi di anni fa fino ai giorni nostri.

«La nostra simulazione rivela i dettagli più intimi della formazione delle galassie, compresa la trasformazione delle galassie a spirali in ellittiche attraverso le fusioni di galassie», dice Carlos Frenk, professore all’Università di Durham e co-autore della pubblicazione. «La simulazione mostra inoltre che l’attuale modello standard dell’universo, il modello fisico basato sull’idea che la maggior parte della massa dell’universo sia costituita da materia oscura fredda, può riprodurre le più grandi strutture dell’universo, compresa la spettacolare struttura del Piano supergalattico, di cui fa parte la Via Lattea».

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La distribuzione delle galassie più luminose nell’universo locale ottenuta con l’indagine 2Mass (a sinistra) e con il simulatore Sibelius (a destra). Crediti: Dr Till Sawala

L’anomala distribuzione di galassie nell’universo locale è conosciuta fin dagli anni ’60. L’anomalia è talmente nota che Jim Peebles, cosmologo e premio Nobel per la fisica 2019, invitato nel 2022 a una conferenza presso la Durham University, la menziona come una delle cinque domande chiave dell’universo. A quella conferenza c’era anche Till Sawala, ricercatore all’Università di Helsinki e primo autore del nuovo studio.

«Lo scorso dicembre sono stato invitato per caso al simposio del professor Peebles che si è svolto presso la Durham University, dove ha parlato di questa anomalia nel Piano supergalattico», ricorda Sawala. «E mi sono reso conto che avevamo già completato una simulazione che poteva contenere la risposta alla domanda. La nostra ricerca» conclude Sawala, «dimostra che i meccanismi conosciuti dell’evoluzione galattica funzionano anche in questo ambiente cosmico unico».

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L’aurora sopra una macchia solare


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Il titolo sembra fuorviante e l’immagine qui sotto non è che una rappresentazione artistica del fenomeno. Entrambi, però, riportano una descrizione concisa e precisa di quanto hanno visto gli astronomi usando diversi radiotelescopi terrestri: un’emissione con caratteristiche simili a quelle di un’aurora boreale, osservata però circa 40mila chilometri sopra una regione scura e fredda del Sole, una macchia solare. I risultati sono stati pubblicati su Nature Astronomy.

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Rappresentazione artistica delle emissioni radio prolungate sopra una macchia solare, o aurore, simili a quelle precedentemente osservate nelle regioni polari dei pianeti e di alcune stelle. Crediti: Sijie Yu

Siamo abituati a pensare all’aurora come a un fenomeno causato dal Sole, o meglio dalle particelle di vento solare cariche che, una volta catturate dalla magnetosfera terrestre, interagiscono con gli atomi di ossigeno e azoto nell’alta atmosfera. Uno spettacolo che è stato osservato sulla Terra, in altri pianeti del Sistema solare come Giove, Saturno e Urano, ma anche su alcune stelle di piccola massa. Tornando all’immagine qui sopra, bisogna specificare che la componente ottica non è che una parte dell’emissione associata al fenomeno dell’aurora. Contestualmente, infatti, gli elettroni intrappolati nel campo magnetico possono emettere attraverso un fenomeno fisico chiamato electron-cyclotron maser (Ecm). Sarebbe questa l’emissione individuata dagli autori dello studio.

La rilevazione risale ad aprile 2016, mentre gli autori stavano osservando la nostra stella con il Very Large Array in due bande diverse che coprono complessivamente da 1 GHz a 4 GHz. I dati raccolti hanno poi trovato riscontro nelle osservazioni di altri strumenti come i Nobeyama Radio Polarimeters e il Radio Solar Telescope Network. Secondo gli autori, queste emissioni radio si troverebbero in corrispondenza di una vasta regione di macchie solari in formazione, dove i campi magnetici sulla superficie del Sole sono particolarmente forti. L’emissione radio polarizzata (chiamata burst radio), inoltre, è durata per oltre una settimana, mentre i burst radio solari transitori tipicamente durano alcuni minuti o alcune ore.

«Le aree più fredde e intensamente magnetiche delle macchie solari forniscono un ambiente favorevole per l’emissione Ecm, tracciando parallelismi con le calotte polari magnetiche dei pianeti e di altre stelle e fornendo potenzialmente un analogo solare locale per studiare questi fenomeni», spiega Sijie Yu, ricercatore al New Jersey Institute of Technology e primo autore dello studio. «Tuttavia, a differenza delle aurore terrestri, queste emissioni di aurore solari si verificano a frequenze che vanno da centinaia di migliaia di kHz a circa un milione di kHz – un risultato diretto del campo magnetico della macchia solare, che è migliaia di volte più forte di quello terrestre».

Secondo la ricostruzione del fenomeno effettuata dagli autori, quando la macchia solare attraversa il disco solare, crea un fascio rotante di luce radio, simile all’aurora radio che si osserva sulle stelle in rotazione. Le emissioni radio solari, sebbene più deboli, sono simili alle emissioni aurorali stellari osservate in passato e potrebbero suggerire che le macchie stellari su stelle più fredde, proprio come le macchie solari, potrebbero essere le fonti di alcuni radio burst osservati in vari ambienti stellari. A partire da questa scoperta, quindi, gli astrofisici stanno pensando a nuovi modi per studiare l’attività magnetica su altre stelle di piccola massa più o meno distanti.

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C’è persino il nichel nelle galassie adolescenti


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La luce proveniente da 23 galassie lontane – identificate nel panello in alto, un’immagine del telescopio spaziale Hubble, da trattini rossi –è stata combinata per individuare l’emissione incredibilmente debole di otto diversi elementi, elencati nello spettro del Jwst mostrato in basso. Sebbene qui sulla Terra siano tutti assai comuni, gli astronomi raramente, se non mai, osservano alcuni di questi elementi nelle galassie lontane. Crediti: Aaron M. Geller, Northwestern, Ciera + It-Rcds

Idrogeno, elio, azoto, ossigeno, silicio, zolfo, argon e nichel. Sì, persino il nichel: un elemento più pesante del ferro e incredibilmente difficile da rilevare nello spettro di remote galassie. Eppure è proprio lì, fra le righe spettrali di 23 galassie lontane acquisite – nel corso di un’osservazione lunga 30 ore, condotta la scorsa estate – dallo strumento NirSpec di Jwst, che un team di astronomi guidato da Allison Strom, astrofisica alla Northwestern University (Usa), ha individuato le firme degli otto elementi.

«Non avrei mai immaginato che avremmo visto il nichel», dice ora Strom, ancora sorpresa dalla presenza del metallo. «Nemmeno nelle galassie vicine si osservano questi elementi. Per rilevare la presenza di un elemento in una galassia, deve essercene una quantità sufficiente e le condizioni giuste. Di vedere il nichel non ne parla nessuno. Affinché sia possibile osservarli, gli elementi devono ardere incandescenti nel gas. Se riusciamo a vedere il nichel, potrebbe dunque esserci qualcosa di unico nelle stelle presenti in quelle galassie».

Si tratta di galassie che fanno parte di un gruppo – 33 in tutto – osservate con il telescopio spaziale Webb nel corso della survey Cecilia, acronimo per “Chemical Evolution Constrained using Ionized Lines in Interstellar Aurorae” scelto in onore di Cecilia Payne-Gaposchkin, una fra le prime donne a conseguire un dottorato in astronomia, nel 1925. Galassie teenage, adolescenti, le definiscono gli astronomi, nate due o tre miliardi di anni dopo il Big Bang (il loro valore di redshift è z~2-3) e insolitamente calde: un altro risultato sorprendente della survey è stato registrare per queste galassie adolescenti temperature superiori ai 13mila gradi, rispetto ai 9700 gradi delle altre galassie più calde – prova ulteriore delle loro natura particolare.

«Stiamo cercando di capire come le galassie siano cresciute e cambiate nel corso di 14 miliardi di anni di storia cosmica», spiega Strom, prima autrice dell’articolo che riporta il risultato, pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters. «Il nostro programma usa Jwst per osservare le galassie adolescenti mentre attraversano una fase disordinata di crescita tumultuosa e cambiamento. Gli adolescenti hanno spesso esperienze che determinano le traiettorie che seguiranno verso l’età adulta. Per le galassie è lo stesso».

Gli spettri di una galassia sono, secondo Strom, un po’ il suo “Dna chimico”: esaminando questo Dna durante l’adolescenza della galassia, è possono capire meglio com’è cresciuta e come si evolverà in una galassia più matura. «Gli anni dell’adolescenza sono cruciali», conclude la ricercatrice, «perché sono il momento di maggiore crescita. Ecco dunque che studiandoli possiamo iniziare a esplorare la fisica che ha portato la Via Lattea ad avere l’aspetto che ha – e a capire perché potrebbe avere un aspetto diverso da quello delle galassie vicine».

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Starship, la navetta è stata fatta esplodere in volo


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Progettato per raggiungere la Luna e Marte, il razzo di Elon Musk non ha superato il secondo test in volo. Tre minuti dopo il lancio Starship si era separata con successo dal booster. Quindi il booster è esploso; il secondo stadio ha proseguito il volo, ma prima che Starship potesse raggiungere l’orbita, il centro di controllo di SpaceX ha perso i contatti e circa 12 minuti dopo la navetta è stata fatta esplodere.

Congratulations to the entire SpaceX team on an exciting second integrated flight test of Starship!

Starship successfully lifted off under the power of all 33 Raptor engines on the Super Heavy Booster and made it through stage separation pic.twitter.com/JnCvLAJXPi

— SpaceX (@SpaceX) November 18, 2023

«Il test di oggi è un’opportunità per imparare e poi volare di nuovo». Così l’amministratore capo della Nasa, Bill Nelson, ha commentato su X (in precedenza Twitter) il secondo test in volo della Starship, il sistema costituito da un razzo e una navetta che SpaceX sta mettendo a punto per le future missioni su Luna e Marte. «Il volo spaziale è un’avventura audace, che richiede spirito positivo e innovazione. Congratulazioni ai team che hanno fatto progressi nella prova di volo di oggi», conclude, aggiungendo che «insieme, Nasa e SpaceX riporteranno l’umanità sulla Luna, su Marte e oltre».

Tracking camera views of hot-staging separation pic.twitter.com/wcCidOh5K0

— SpaceX (@SpaceX) November 18, 2023

Come era avvenuto dopo il primo test in volo della StarShip, nello scorso aprile, l’Agenzia federale per l’aviazione (Faa) degli Stati Uniti ha aperto un’indagine sul fallimento del secondo test in volo del sistema che comprende il razzo Super Heavy e la navetta StarShip. Lo rende noto la stessa Faa su X. «È avvenuto un incidente durante il secondo test in volo della Starship di SpaceX, lanciata oggi dalla base di Boca Chica, in Texas. L’anomalia ha portato alla perdita del veicolo. Non si sono registrati danni a persone e cose», si legge nel tweet. «L’indagine viene istituita per garantire la sicurezza pubblica, determinare le cause dell’evento, identificare le azioni correttive e per evitare che l’incidente possa verificarsi nuovamente. Il ritorno al volo del razzo StarShip Super Heavy», conclude l’Agenzia, «si basa sul fatto che la Faa assicuri che ogni sistema, ogni processo o procedura relativa all’incidente non sia rischiosa per la sicurezza pubblica».


Le trasparenze di Saturno svelate da Cassini


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In natura la materia non si comporta tutta allo stesso modo. Nei confronti di una radiazione incidente, ad esempio, essa si comporta in maniera diversa a seconda della densità, dello spessore e della composizione degli atomi che la costituiscono, interagendo o meno con la luce. Materiali diversi hanno per cui proprietà ottiche diverse.

Una grandezza fisica che viene utilizzata per esplicitare questo concetto è la profondità ottica tau, una sorta di misura della trasparenza di un materiale, o se preferite del suo esatto opposto: l’opacità. Una profondità ottica bassa, nello specifico inferiore a 1, significa che il materiale è quasi trasparente alla radiazione, cioè interagisce poco o niente con la luce, e si definisce otticamente sottile. Viceversa, una profondità ottica maggiore di 1 indica che il mezzo è opaco alla radiazione, c’è cioè molta interazione luce-materia, e si definisce otticamente spesso. In pratica, più basso è il valore di tau, più il mezzo è trasparente alla radiazione. Viceversa, più alto è il suo valore, più il mezzo diventa opaco alla radiazione.

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Illustrazione artistica della sonda Cassini in orbita attorno a gigante gassoso Saturno. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Ma perché parlare di tutto questo? Per una questione di anelli: gli anelli di Saturno. Utilizzando i dati raccolti dalla sonda Nasa/Esa/Asi Cassini, un team di ricercatori della Lancaster University, in collaborazione con l’Istituto svedese di fisica spaziale (Irf), ha infatti stimato la profondità ottica dei principali anelli del gigante gassoso.

La navicella spaziale Cassini è stata lanciata nel 1997 ed entrata in orbita attorno a Saturno il primo luglio 2004. Durante la sua missione, la sonda ha condotto un’estesa indagine del sistema di Saturno, studiando con un dettaglio senza precedenti il pianeta, i suoi anelli e le sue lune, prima di tuffarsi nell’atmosfera del “Signore degli anelli” e mettere fine alla sua epica missione con quello che è conosciuto come il Gran Finale di Cassini. Georgios Xystouris, ricercatore alla Lancaster University, e colleghi hanno utilizzato parte dei dati raccolti dalla sonda durante la missione per misurare il valore di Tau e determinare così la profondità ottica degli anelli del pianeta.

I dati utilizzati nella ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, sono quelli ottenuti dal Langmuir probe (Lp), una piccola sfera di titanio progettata e costruita per studiare le proprietà del plasma della magnetosfera di Saturno. Non tutti i dati registrati dallo strumento, bensì solo quelli raccolti durante i periodi in cui, lungo la sua orbita, la sonda era eclissata da Saturno.

Ma che c’entrano il plasma di Saturno e le eclissi di Cassini con la profondità ottica degli anelli? Lo strumento Lp è stato costruito per misurare le correnti elettriche portate da particelle cariche incidenti. Queste particelle potevano provenire dal plasma in cui era immersa la sonda, ma anche dall’eventuale fotoemissione della superficie della sonda quando irradiata da parte del Sole. Poiché la fotoemissione rilascia elettroni nello spazio circostante la sonda, questi possono essere raccolti come un’ulteriore popolazione di particelle rispetto a quelle di plasma e misurati come corrente di fotoemissione. Analizzando questa corrente, i ricercatori hanno notato che, a ogni eclissi di Cassini da parte di Saturno, vi erano variazioni nei dati: variazioni che diventavano particolarmente marcate quando Cassini era all’ombra degli anelli principali. L’unica spiegazione plausibile di questa variazione è l’effetto della differente trasparenza degli anelli. I ricercatori hanno quindi utilizzato i dati in questione per calcolare la profondità ottica degli anelli di Saturno.

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Una copia dello strumento Langmuir probe che si trovava a bordo della sonda Cassini. Crediti: Irf

«Poiché Lp era una sonda metallica, ogni volta che è stata illuminata dal Sole la sua luce ha fornito allo strumento energia sufficiente per rilasciare elettroni. Questo è l’effetto fotoelettrico», spiega Xystouris, primo autore della pubblicazione, «e gli elettroni che vengono rilasciati nel processo sono i cosiddetti “fotoelettroni”. Concentrandoci sui dati di questa corrente, ci siamo resi conto che le variazioni osservate durante le eclissi erano collegate alla quantità di luce solare che ciascun anello ha lasciato passare. Alla fine, utilizzando le proprietà del materiale di cui era fatta la sonda Langmuir e la luminosità del Sole nelle vicinanze di Saturno, siamo riusciti a calcolare la variazione nel numero di fotoelettroni per ciascun anello e a stimare la profondità ottica degli anelli di Saturno».

Andiamo ora ai risultati dello studio. Prendendo in considerazione la resa fotoelettronica dello strumento Lp e la struttura degli anelli stessi, i ricercatori hanno trovato che l’anello più opaco è l’anello B, seguito dall’anello A, dall’anello C e dall’anello D. Più in dettaglio, per l’anello D -– l’anello più interno di Saturno – i ricercatori hanno calcolato una profondità ottica molto vicino a zero tau, tipica di oggetti quasi trasparenti alla radiazione, mentre per l’anello C il valore è di circa 0.1 tau. In entrambe i casi, sottolineano i ricercatori, si tratta di valori che sono in accordo con quelli ottenuti da studi precedenti. Diversa è invece la situazione per l’anello A, la cui profondità ottica è maggiore del valore ottenuto negli studi precedenti: da 0.5 tau si passa a 1 tau. Per quanto riguarda l’anello B, i ricercatori hanno calcolato i valori di tau relativi alle cinque regioni in cui è suddiviso l’anello. In questo caso, le misure della profondità ottica della regione B2 (2) e B3 (1.5) sono in accordo con le misure precedenti. Per B1, B4 e B5, i valori sono invece diversi: per B1 si passa da 1 a circa 2 tau; per B4 si passa da un valore maggiore o uguale a 2 a un valore compreso tra 1 e 2 tau; per B5, infine, si passa da 1.75 a un valore compreso tra 2 e 3 tau.

«In nostro è un lavoro nuovo ed entusiasmante», conclude Xystouris. «Abbiamo utilizzato uno strumento costruito per studiare il plasma per ottenere informazioni su una caratteristica planetaria. Questo è un uso unico della sonda Langmuir».

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube della Royal Astronomical Society:

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Nuovo record personale di risoluzione per Alma


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Questa immagine di R Leporis, una stella nelle fasi finali della sua evoluzione, è quella a più alta risoluzione mai ottenuta con Alma. Ha una risoluzione angolare di 5 milliisecondi d’arco. L’emissione di onde submillimetriche dalla superficie stellare è mostrata in arancione e le emissioni di maser di acido cianidrico a 891 GHz sono mostrate in blu. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/Y. Asaki et al.

Puntando nel corso di un’osservazione dimostrativa verso R Leporis, una stella nella fase finale del suo percorso evolutivo situata a circa 1535 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Lepre, l’interferometro per onde millimetrice e submillimetriche Alma è riuscito a ottenere la risoluzione più elevata mai raggiunta dal suo array di antenne: cinque millisecondi d’arco. Una risoluzione pari a quella necessaria a vedere un singolo capello umano a quattro km di distanza. Le immagini ottenute mostrano che la stella è circondata da una struttura di gas ad anello, e che il gas della stella fuoriesce nello spazio circostante.

Alma è un telescopio radiointerferometrico ad array, in cui le singole antenne – in tutto sono 66 – lavorano all’unisono per osservare un oggetto celeste. La risoluzione di Alma, cioè la capacità di distinguere piccoli dettagli, è determinata dalla massima separazione tra le antenne e dalla frequenza delle onde radio osservate. In questa dimostrazione, i cui risultati sono stati pubblicati questa settimana su The Astrophysical Journal, un team internazionale composto principalmente da astronomi di Alma in Cile, dell’Naoj giapponese, dell’Nrao statunitense e dell’Eso, lo European Southern Observatory, ha utilizzato la massima separazione consentita tra le antenne di Alma, pari a 16 km, e i ricevitori a più alta frequenza (nota come banda 10, in grado di arrivare fino a 950 GHz) per ottenere la migliore risoluzione possibile. Spingere la risoluzione di Alma verso nuovi limiti ha richiesto anche una nuova tecnica di calibrazione per correggere le fluttuazioni dell’atmosfera terrestre sopra le antenne.

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Per arrivare alla risoluzione record di 5 millisecondi d’arco, i ricercatori hanno dovuto sviluppare un nuovo metodo di calibrazione. Nel cosiddetto metodo “band-to-band”, le fluttuazioni dell’atmosfera vengono compensate osservando un calibratore, posto vicino alle antenne, con onde radio a bassa frequenza, mentre il bersaglio viene osservato con onde radio ad alta frequenza. Nell’infografica, in alto a destra, è riportata l’immagine a risoluzione record di Alma della stella R Leporis. In alto a sinistra, per confronto, c’è invece una precedente osservazione della stessa stella utilizzando una diversa configurazione dell’array, con una minore distanza tra le antenne e senza il metodo “band-to-band”: la risoluzione è di 75 millisecondi d’arco. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/Y. Asaki et al.

La capacità di raggiungere una risoluzione così elevata, come quella appena dimostrata, può ora essere applicata a stelle giovani con dischi protoplanetari in cui stanno prendendo forma pianeti. Le future osservazioni ad alta risoluzione potranno dunque non solo aiutare a chiarire le ultime fine della vita di una stella, com’è avvenuto nel caso di R Leporis, ma anche fornire nuove conoscenze su come si formano i pianeti, in particolare quelli simili alla Terra.

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Brillamenti di stelle zombie


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Rappresentazione artistica di un Luminous Fast Blue Optical Transient (Lfbot), una delle esplosioni più luminose mai viste nello spazio. Crediti: Nasa, Esa, Nsf’s NoirLab, Mark Garlick, Mahdi Zamani.

L’alba delle stelle morte viventi: se fosse stato un astronomo, Dylan Dog avrebbe commentato così quanto è accaduto. Dopo essere esploso in supernova, un corpo stellare inattivo ha ricominciato a brillare, più volte, per diversi mesi. Lasciando di stucco chi stava osservando la “morte esplosiva” della stella. Qualcosa, insomma, che gli astronomi non avevano mai visto prima d’ora.

In generale, quando una stella di grande massa, giunta alla fine della sua esistenza, esplode come supernova, per qualche giorno supera in luminosità tutte le altre stelle della propria galassia, poi però si oscura rapidamente dissolvendosi in cielo, e tutto ciò che rimane è un piccolo oggetto di elevata densità, circondato da una nube di gas bollenti in espansione – una stella di neutroni o, se la stella di partenza aveva una massa almeno 25 volte superiore a quella del Sole, un buco nero.

Nel caso di cui stiamo parlando, invece, lampi brevi e luminosi, della durata di pochi minuti ma potenti come l’esplosione originale, hanno continuato a fare la loro comparsa – a circa un miliardo di anni luce dalla Terra, sotto gli occhi di un team internazionale di ricerca guidato dalla Cornell University (Stati Uniti) – all’indomani di un raro tipo di cataclisma stellare: un cosiddetto transiente ottico blu veloce (dall’inglese luminous fast and blue optical transient, in breve Lfbot). Si tratta di un particolare tipo di evento astronomico transiente del quale i ricercatori stanno tentando di capire la natura, e che può portare a esplosioni estreme, anche più luminose delle supernove. Flares che raggiungono rapidamente anche i 40mila gradi, emettendo appunto una “luce blu”, ma che svaniscono altrettanto rapidamente. Questi Lfbot si “accendono”, infatti, in soli tre o quattro giorni, e svaniscono molto più velocemente delle supernove, impiegando giorni invece che settimane.

Il primo Lfbot, scoperto nel 2018, è stato At 2018cow (At come Astronomical Transient, soprannominato “The Cow”, la mucca, dalla sequenza di lettere e numeri assegnata automaticamente): una potentissima esplosione stellare, da 10 a 100 volte più luminosa di una normale supernova, avvenuta nella galassia Cgcg 137-068 della costellazione di Ercole, distante circa 200 milioni di anni luce da noi. “La mucca” non è l’unico animale, tra la mezza dozzina di transienti ottici blu scoperti finora. A fargli compagnia c’è anche Ztf 18abvkwla, detto “il Koala”. E anche il protagonista dello studio condotto dalla Cornell University, pubblicato ieri su Nature, al nome ufficiale – At 2022tsd – affianca un soprannome zoologico: the Tasmanian devil, “il diavolo della Tasmania”.

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Confronto tra supernova (Sn), gamma-ray burst (Grb) e fast blue optical transient (Fbot). Crediti: Bill Saxton, Nrao/Aui/Nsf

«La scoperta di questa nuova classe di fenomeni extragalattici è abbastanza recente», dice a Media Inaf Francesca Onori, assegnista di ricerca all’Inaf d’Abruzzo e co-autrice dello studio. «Sono stati pochissimi gli eventi scoperti in tempo per poterli monitorare accuratamente e ottenere maggiori informazioni sulla loro natura. AT 2022tsd è soltanto il terzo Lfbot per il quale è stato possibile eseguire un’intensa campagna di monitoraggio in multibanda entro il primo mese dalla scoperta. Il risultato eccezionale ottenuto sottolinea ancora di più l’importanza di un’efficiente strategia osservativa».

Secondo i ricercatori, i “resti” stellari sarebbero stati fonte di ripetuti brillamenti energetici, osservati nei mesi successivi, cento giorni dopo la morte della stella originale. Diversi transienti, simili tra loro, hanno mostrato indizi della presenza di una fonte di energia incorporata, con emissione ultravioletta prolungata, una timida oscillazione quasi periodica di raggi X e grandi energie accoppiate a ejecta veloci ma sub-relativistici di onde radio. Il team di ricerca ritiene che l’attività di brillamento precedentemente sconosciuta e, per la prima volta, osservata in contemporanea da 15 telescopi in tutto il mondo, abbia avuto come “motore” d’innesco dello spettacolare brillamento, un “cadavere stellare” come un buco nero o una stella di neutroni.

«Non crediamo ci sia qualcos’altro in grado di produrre questo tipo di bagliori», spiega la prima autrice dello studio, Anna Y. Q. Ho, astronoma alla Cornell University. «Questa ipotesi risolverebbe anni di dibattiti su ciò che alimenta questo tipo di esplosioni e rivelerebbe un metodo insolitamente diretto per studiare l’attività dei corpi stellari».

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Schema illustrativo di un Lfbot e delle emissioni di onde radio, raggi X e nell’ottico. Crediti: Bill Saxton, Nrao/Aui/Nsf

Ho è anche l’autrice del software che ha segnalato l’evento AT 2022tsd. Da settembre dell’anno scorso il suo programma ha iniziato ad analizzare circa mezzo milione di transienti, nell’ambito di una survey a tutto campo condotta dalla Zwicky Transient Facility che, dalla California, perlustra ogni giorno la volta celeste, nelle lunghezze d’onda visibili e infrarosse, alla ricerca di oggetti transitori che cambiano rapidamente di luminosità. Qualche mese dopo l’avvio del monitoraggio di routine dell’esplosione stellare, Ho e i suoi collaboratori Daniel Perley (Liverpool John Moores University, Regno Unito) e Ping Chen (Weizmann Institute of Science, Israele) si sono incontrati per esaminare i nuovi dati: una serie di cinque immagini, ognuna delle quali della durata di diversi minuti. La prima non mostrava nulla, come ci si aspettava, ma la seconda ha rilevato la luce, seguita da un picco intensamente luminoso nel fotogramma centrale, picco poi rapidamente scomparso. «Eravamo senza parole», ricordato Ho. «Non avevamo mai visto nulla di simile. Nessuna supernova o Fbot che fossero così veloci e luminosi tanto quanto l’esplosione originale avvenuta mesi prima».

Per indagare ulteriormente sulla brusca “riaccensione della stella cadavere”, 70 ricercatori in vari paesi hanno esaminato i dati e lavorato per escludere altre possibili fonti d’energia. La loro analisi, alla fine, ha confermato almeno 14 impulsi di luce irregolari in un periodo di 120 giorni; probabilmente solo una frazione del numero totale, secondo Ho. «Sorprendentemente, invece di affievolirsi in modo graduale e costante, come ci si aspetterebbe, la sorgente si è illuminata rapidamente di nuovo, e ancora, e poi ancora», dice Ho. «I Lfbot sono già un evento strano ed esotico di per sé, ma quanto avvenuto è ancora più strano».

Quali siano esattamente i processi in atto – forse un buco nero che incanala getti di materiale stellare verso l’esterno a una velocità prossima a quella della luce – è ancora da stabilire, ma gli autori sperano che le future ricerche possano aiutare a comprendere le proprietà delle stelle in vita per poi prevedere anche il modo in cui moriranno e il tipo di “cadavere” che lasceranno.

«Diversi scenari sono stati proposti per spiegare l’origine e i meccanismi fisici alla base di queste emissioni così luminose e, allo stesso tempo, così brevi», dice Onori. «Potrebbero derivare dal collasso stellare di una stella supergigante, dalla fusione e la distruzione mareale di una stella da parte di un oggetto compatto o di una nana bianca da parte di un buco nero di massa intermedia».

«Nel caso dei Lfbot, una rapida rotazione o un forte campo magnetico sono probabilmente componenti chiave dei loro meccanismi di emissione del raggio luminoso», aggiunge Ho, secondo la quale è anche possibile che non si tratti di supernove convenzionali, ma di supernove innescate dalla fusione di una stella con un buco nero.

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Rappresentazione artistica di At 2022tsd, un’esplosione in una galassia lontana. L’immagine mostra una possibile spiegazione: un buco nero che accresce materia da un disco e alimenta un getto. La variazione della direzione del getto potrebbe produrre i rapidi lampi osservati. Crediti: Robert L. Hurt/Caltech/Ipac

Gli autori dello studio sono arrivati alla conclusione che tali brillamenti possano essere stati originati dall’emissione di un getto quasi relativistico generato nel disco di accrescimento attorno a un oggetto compatto, ad esempio, una stella di neutroni appena nata, un buco nero stellare appena formatosi oppure un buco nero di massa intermedia.

«Un possibile scenario, intrigante ma anche compatibile con tutte le nostre osservazioni», spiega Onori, «è quello che vede il collasso di una stella supergigante rossa rotante seguita dalla formazione di un oggetto compatto – un buco nero – e del disco di accrescimento tutt’intorno».

L’identificazione di questo tipo di sistemi è di fondamentale importanza per comprendere quali sono le condizioni che portano all’esplosione di una stella e quali sono i meccanismi alla base della formazione dei buchi neri.

«Il corpo stellare morto non è semplicemente seduto lì, immobile, ma è attivo e sta facendo cose che possiamo rilevare», conclude Ho.«Pensiamo che questi bagliori provengano dai cadaveri stellari appena formati e, se così fosse, avremmo la possibilità di studiarne le proprietà nello stesso momento in cui si formano».

Queste insolite esplosioni promettono, quindi, di fornire nuovi spunti di riflessione sui cicli vitali delle stelle, tipicamente osservati mettendo insieme le istantanee, scattate singolarmente nelle diverse fasi stellari – vita, esplosione, morte, resti – e non come parte di un unico sistema. Potrebbe essere come guardare un nuovo canale tv che manda in onda un intero filmato dedicato ai cataclismi cosmici. Magari un canale in cui le stelle zombie sono protagoniste della nuova stagione di The Walking Dead, questa volta, però, girata tra le galassie.

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Cieli e terre d’altri mondi


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La vita sulla Terra dipende dal sottile strato di gas che inviluppa e protegge il nostro pianeta. L’atmosfera ha permesso lo sviluppo della vita, ma la vita ha modificato la composizione dell’atmosfera arricchendola di composti che gli astrobiologi chiamano firme biologiche. Parliamo di ossigeno, metano, acqua. Tutti possono avere origine geologica, ma sulla Terra metano e ossigeno sono presenti in straordinaria abbondanza perché sono prodotti dal metabolismo di animali e piante.

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Giovanni Covone, “Altre terre. Viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari”, HarperCollins, 2023, 336 pagine, 18,50 euro

Per questo, quando cerchiamo una nuova terra, è imperativo capire se il pianeta in questione abbia un qualche tipo di atmosfera e, in caso affermativo, quali gas la compongano. Jwst è una macchina straordinariamente potente e le notizie che più frequentemente vengono riprese dai giornali riguardano lo studio delle atmosfere di alcuni esopianeti. Non sono osservazioni facili, perché le misure non sono mai dirette, ma piuttosto in negativo. Bisogna cogliere il pianeta quando passa davanti alla sua stella per cercare di capire quali parti della luce della stella siano state assorbite dall’atmosfera del pianeta.

Niente assorbimenti niente atmosfera, quindi pianeta da cancellare. Assorbimenti in zone sensibili, invece, portano la notizia in evidenza con l’annuncio della presenza di anidride carbonica, metano o acqua. Non è stata ancora scoperta la nuova terra ma Jwst è attivo da solo un anno e non bisogna avere fretta, come descrive in modo molto efficace Giovanni Covone nel suo Altre Terre, un libro che mi ha colpito per la completezza della trattazione unita alla facilità di lettura. L’autore realizza un ottimo connubio tra il racconto dell’evolversi di un problema astronomico e la sua carriera da ricercatore. Ci racconta con franchezza che lui a studiare gli esopianeti non ci pensava proprio. Era andato dal suo professore per chiedere una tesi di cosmologia ed era rimasto un po’ male quando si era sentito dire che doveva invece occuparsi di esopianeti. Colto di sorpresa, si è messo a studiare e ha tracciato la storia della ricerca di pianeti intorno ad altre stelle fino dai suoi albori scoprendo, e ora raccontando, un’incredibile serie di tentativi falliti basati su decenni di osservazioni sfociati in scoperte non confermate, semplicemente perché basate su dati imprecisi. Una volta che un risultato viene confutato c’è chi si rifiuta di ascoltare e chi ammette l’errore. La più spettacolare ritrattazione risale al 1992, quando il mondo dell’astrofisica era stupefatto dalla scoperta di un pianeta in orbita intorno a una pulsar, una stella morta formatesi a seguito dell’esplosione di una supernova. Tutti si chiedevano come fosse possibile che dei pianeti potessero sopravvivere ai convulsi momenti dell’esplosione di una stella di grande massa. Le osservazioni erano state fatte da un gruppo tra i più prestigiosi, attivi nella ricerca radioastronomica, e nessuno sospettava che il pianeta fosse la conseguenza di un’imprecisione nella posizione usata nel corso della complessa analisi temporale dei dati. Il racconto della ritrattazione della scoperta mi ha portato indietro nel tempo, perché io ero presente e non avevo potuto fare a meno di immedesimarmi nel collega che era stato invitato a un prestigiosa conferenza per ricevere il plauso delle comunità ma che invece, con grande onestà intellettuale, si era presentato per assumersi la responsabilità di un errore che evidentemente non era stato fatto da lui. Ma tant’è. Alla fine, il primo vero pianeta extrasolare è stato una assoluta sorpresa, incredibilmente diverso da quello che si stava cercando, e questo spiega perché, fatto salvo il non pianeta visto dai radioastronomi, ci fossero stati così numerosi fallimenti delle ricerche in ottico. Generazioni di astronomi si erano incaponiti a cercare una copia del Sistema solare, dimostrando di avere tanti preconcetti e poca fantasia.

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Philip Plait, “Sotto cieli alieni. Una guida turistica dell’universo”, Bollati Boringhieri, 2023, 290 pagine, 29 euro

Ora abbiamo le idee moto più chiare, tanto che possiamo persino cercare di immaginare come sarebbe vivere su un pianeta che ruota intorno a due soli, oppure su uno dei pianeti che orbitano intorno Trappist, una piccola stella con un sistema planetario composto da 5 pianeti di dimensioni grossomodo terrestri. È quello che scopriamo leggendo Sotto cieli alieni di Philip Plait, un noto divulgatore americano, che, per mantenere viva l’attenzione di chi legge, usa la prospettiva personale. Non descrive un pianeta, ma piuttosto ci invita a immaginare cosa proveremmo a visitarlo, che effetto ci farebbe passeggiare, che panorami potremmo vedere, di che colore sarebbe il cielo. Non per niente il sottotitolo ci informa che si tratta di una guida turistica dell’universo. Si comincia dalla Luna e poi, via via si va sempre più lontano. Immaginando viaggi interplanetari che forse saranno realtà nei prossimi decenni, si fa una visita a Marte, agli asteroidi, a Saturno per spingersi fino a Plutone. Poi si sale direttamente sulle ali della fantasia astronomica, perché si vanno a esplorare i pianeti intorno alle nane rosse ma anche le fabbriche delle stelle nelle nebulose, per arrivare fino al sacro Graal del turista astronomico: i buchi neri.

Visto che la Nasa ha appena riportato a casa campioni dell’asteroide Bennu, non ho resistito e sono andata a leggere la visita agli asteroidi che inizia con la disavventura del turista sprovveduto che si avvicina a un asteroide molto poco solido, come Bennu, e affonda di diversi metri nel terreno sabbioso e morbidissimo. Lo devono venire a salvare e, dalla descrizione della manovra, si intuisce che non è la prima volta che un turista sprofonda in questi agglomerati di detriti che sono stati testimoni dell’inizio del Sistema solare.

Ma la disavventura è solo un modo per entrare in sintonia con un ambiente alieno dove il peso di un essere umano sarebbe di pochi grammi. Non ve ne siete quasi accorti, ma la visita immaginaria vi ha fatto imparare molto sugli asteroidi. Tutto sommato, avreste potuto leggere un capitolo di un testo di astronomia, ma una prospettiva personale è molto più coinvolgente.


Paracadutati 200 GB di dati sulla materia oscura


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La prima autrice dell’articolo, e progettista del sistema di recupero dati Drs, Ellen Sirks, che impacchetta la capsula di recupero dati assieme al dottorando Ajai Gill, coautore dell’articolo. Crediti: Steve Benton

Il 16 aprile 2023 il Superpressure Balloon-borne Imaging Telescope (SuperBit) della Nasa è stato sollevato fino a 33 km di altitudine, nella stratosfera terrestre, da un pallone aerostatico a superpressione riempito di elio. Partito da Wanaka, in Nuova Zelanda, è stato poi trasportato verso est dai venti stagionali del vortice polare, ha circumnavigato la Terra circa 5,5 volte in una quarantina di giorni ed è atterrato in Argentina il 25 maggio 2023, a una latitudine compresa tra i 40 e i 50 gradi sud. Durante il volo, il telescopio ha acquisito immagini ottiche e nel vicino ultravioletto di ammassi di galassie e altri oggetti, godendo del vantaggio – rispetto ai telescopi di terra – di avere sotto di sé il 99.5 per cento dell’atmosfera e delle sue turbolenze ottiche. Atterrando, il telescopio è andato distrutto. Fortunatamente, però, nulla è andato perduto: i dati raccolti erano stati archiviati in quattro capsule contenenti 5 TB di memoria dati allo stato solido chiamate Data ricovery systems (Drs), due delle quali sono state rilasciate dal telescopio in volo e recuperate con successo. Lo racconta il team di SuperBit in un articolo pubblicato nella rivista Aerospace.

Il sistema di recupero, progettato dagli scienziati delle università di Sydney e Durham, era al suo primo utilizzo durante una missione scientifica, ed è stato un successo. Non solo ha funzionato, archiviando circa 200 Gb di dati sulla materia oscura che circonda gli ammassi di galassie, ma – considerando il triste epilogo della missione e l’interruzione delle comunicazioni satellitari – senza la sua presenza l’esito della missione scientifica sarebbe forse compromesso. Il tutto, scrivono gli autori nell’articolo che fornisce tutte le indicazioni per costruirlo, con il vantaggio di una spesa contenuta.

Il pacchetto contenente il Drs lo vedete nell’immagine in alto a destra, mentre veniva assemblato dalla prima autrice dell’articolo – la ricercatrice che l’ha progettato, Ellen Sirks della Scuola di fisica dell’Università di Sydney – e Ajai Gill, uno studente di dottorato dell’Università di Toronto. Oltre alla memoria stessa per l’archiviazione dei dati, che vedete invece in dettaglio nell’altra immagine qui sotto, la capsula conteneva un ricevitore Gnss per rilevarne posizione, un trasmettitore per comunicare la posizione alla squadra di recupero e un paracadute. Il tutto alloggiato in involucri in schiuma e sacchetti commerciali impermeabili. «Quelli del pollo arrosto», rivela la prima autrice.

La storia del recupero dei pacchetti – una vera e propria missione – è rocambolesca. I pacchetti, infatti, sono caduti in un territorio accidentato e il recupero ha avuto bisogno del sostegno della polizia locale. «All’inizio non riuscivamo a trovarne uno e, quando l’abbiamo trovato, c’erano lì vicino, nella neve, tracce di puma. E abbiamo pensato che forse il sacchetto di pollo arrosto non fosse stata l’idea migliore», racconta Sirks. «È stato piuttosto divertente. Ma li abbiamo recuperati abbastanza facilmente».

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Struttura interna del Data ricovery system. Crediti: Sirks et al. 2023

La posizione in cui sono caduti i due Drs era nota abbastanza precisamente, grazie al sistema tipo “trova il mio telefono” incluso nel device. Dopo il rilascio dal telescopio sopra l’Argentina, le capsule sono andate alla deriva per 61 km in orizzontale mentre scendevano per 32 km circa. A causa dell’elevata velocità di caduta, delle raffiche di vento e della topografia locale, il team è riuscito a prevedere i loro vettori di discesa entro 2,4 km. Grazie al sistema di geolocalizzazione posto all’interno delle capsule stesse, però, una volta atterrate è stato possibile conoscere la loro posizione con un’approssimazione di pochi metri.

«Questo pacchetto di lancio è stato sviluppato per circa cinque anni, ma solo ora siamo riusciti a testarlo nella sua configurazione finale», dice Sirks. «Siamo arrivati al punto che la Nasa vuole iniziare a produrre questi pacchetti anche per altre missioni scientifiche, quindi questo era davvero il nostro test finale per dimostrare che questo sistema funziona».

Le osservazioni con palloni aerostatici, spiegano infatti gli autori, offrono la qualità dei telescopi spaziali con il vantaggio di costare molto meno: milioni di dollari, contro i miliardi di una missione spaziale come Jwst o Euclid. Riportare i dati a terra attraverso sistemi come quello testato su SuperBit, inoltre, consente di superare il problema dell’inefficienza di scaricare i dati dal satellite, e gli eventuali guasti che possono verificarsi come accaduto durante questa missione. Copiare i dati su un disco a stato solido e scaricarli fisicamente a terra con un paracadute, secondo gli autori, per quanto possa sembrare un’idea un po’ folle, si è dimostrato il metodo più efficiente e sicuro.

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Astronomi contro Magellano


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Magellano in un ritratto postumo (anonimo del XVI o XVII secolo). Crediti: Wikimedia Commons

Cambiare nome a galassie, telescopi e veicoli spaziali dedicati al navigatore ed esploratore portoghese Magellano, in considerazione del suo ruolo di “colonizzatore, schiavista e assassino” durante le spedizioni che nel XVI secolo lo portarono a diventare il fautore della prima circumnavigazione del globo: a chiederlo è un gruppo di astronomi guidato da Mia de los Reyes, dell’Amherst College in Massachusetts, in un articolo pubblicato sulla rivista Physics. Gli astronomi rivolgono in particolare un appello all’Unione astronomica internazionale (Iau) affinché cambi il nome delle Nubi di Magellano, le due galassie satelliti più luminose della Via Lattea.

Nell’articolo, Mia de los Reyes ricorda come Magellano non sia stato un astronomo né tanto meno il primo a documentare la presenza delle due galassie nel cielo. Di contro, Magellano “ha commesso atti orribili”, scrive l’astronoma: “ridusse in schiavitù i nativi Tehuelche” in quella che è l’attuale Argentina, mentre a Guam e nelle Filippine “Magellano e i suoi uomini bruciarono villaggi e ne uccisero gli abitanti”.

“Nonostante le sue azioni”, continua l’astronoma, “Magellano è stato, e continua a essere, ampiamente onorato nel campo dell’astronomia. Il nome di Magellano appare attualmente in oltre 17mila articoli accademici sottoposti a revisione paritaria. Il suo nome è legato a oggetti astronomici, come un cratere lunare e un cratere marziano; il veicolo spaziale Magellan della Nasa; i telescopi gemelli Magellano da 6,5 metri; e, più recentemente, un telescopio di prossima generazione in costruzione chiamato Giant Magellan Telescope. I telescopi Magellano sono tutti situati in Cile, un paese con una storia di violenta conquista spagnola. Proprio la ‘scoperta’ dello Stretto di Magellano permise ai conquistadores spagnoli di esplorare la costa del Cile e portò a
campagne di genocidio contro i nativi Mapuche”.

Magellano non è il primo a finire nel mirino della cancel culture in campo astronomico: nel 2021 simili polemiche avevano investito la Nasa per l’intitolazione del nuovo telescopio spaziale a James Webb, storico amministratore dell’agenzia spaziale statunitense accusato di episodi di discriminazione omofoba durante la Guerra Fredda.

Fonte: Ansa

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Giovani galassie illuminano l’universo primordiale


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Una caratteristica delle prime galassie formatesi nell’universo è la loro elevata luminosità. Queste galassie primordiali erano talmente brillanti da oscurare qualsiasi cosa si trovasse nei dintorni. Una peculiarità, questa, associata all’onnipresenza nei loro spettri di emissione di righe molto intense che gli astronomi chiamano ‘righe di emissione estrema’ (extreme emission lines, in inglese). Le galassie con queste caratteristiche sono dunque chiamate extreme emission line galaxies (Eelg), cioè galassie a linee di emissione estrema, a sottolineare, appunto, la presenza di simili righe negli spettri di queste sorgenti. Ma a che cosa sono dovute, queste righe di emissione? Un team di astronomi guidati dalla Curtin University, in Australia, ha cercato di rispondere a questa domanda.

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Le galassie Eelg osservate dal telescopio spaziale James Webb (a sinistra) e le stesse osservate dal telescopio spaziale Hubble (a destra). La risoluzione e la chiarezza senza precedenti delle immagini di Jsst ha permesso agli autori dello studio l’identificazione di galassie compagne (cerchi blu) che potrebbero essere responsabili delle caratteristiche righe di emissione estrema negli spettri delle prime. Crediti: Arc Centre of Excellence for All Sky Astrophysics in 3 Dimensions (Astro3D)

Per farlo, i ricercatori hanno studiato alcune giovani galassie a linee di emissione estrema e i loro ambienti circostanti, utilizzando i dati fotometrici ottenuti dallo strumento NirCam del telescopio spaziale James Webb. In particolare, hanno focalizzato la loro attenzione su un campione di 19 giovani galassie con un redshift di circa 3, cioè galassie risalenti a quando l’universo aveva più o meno 2 miliardi di anni, circa 12 miliardi di anni fa.

Il primo risultato della ricerca, condotta nell’ambito della Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades) – un’indagine che sta esplorando l’universo primordiale attraverso l’imaging nell’infrarosso e la spettroscopia multi-oggetto – è che circa il 90 per cento delle galassie esaminate contiene enormi quantità di gas incandescente. Lo studio suggerisce, inoltre, che ciascuna galassia ha almeno una compagna: una galassia vicina con la quale interagisce o è in procinto di fondersi.

Secondo i ricercatori, la forte interazione o la fusione con queste galassie compagne sarebbe all’origine dell’accumulo nelle Eelg delle grandi quantità di gas osservate e del successivo surriscaldamento di questo gas, da cui dipenderebbe la formazione delle righe di emissione estrema negli spettri di queste galassie.

«Fino ad ora è stato difficile capire come queste galassie fossero in grado di accumulare così tanto gas», osserva Anshu Gupta, ricercatrice all’International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar) della Curtin University e prima autrice dello studio in pubblicazione su Astrophysical Journal Letters. «I nostri risultati suggeriscono che ciascuna delle galassie in esame aveva almeno una galassia vicina. L’interazione tra queste galassie potrebbe causare il raffreddamento del gas e innescare un intenso evento di formazione stellare che potrebbe essere responsabile della caratteristica riga di emissione estrema».

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Immagini di una galassia lontana con linee di emissione estrema ottenute dal telescopio spaziale James Webb (a sinistra) e dal telescopio spaziale Hubble (a destra). Il confronto evidenzia la chiarezza delle immagini di Jwst. Crediti: Arc Centre of Excellence for All Sky Astrophysics in 3 Dimensions (Astro3D)

«Sospettavamo che queste galassie fossero segnate da intense interazioni nell’universo primordiale», aggiunge Kim-Vy Tran, scienziata dell’Astro3D center e co-autrice dello studio, «ma solo con gli occhi acuti di Jwst abbiamo avuto la possibilità di confermare la nostra intuizione».

Più in dettaglio, l’ipotesi degli astronomi è che i processi di interazioni o fusione tra galassie Eelg e galassie compagne possano aver causato nelle prime un accumulo di gas, seguito da una fase di raffrenamento dello stesso. Questo evento potrebbe aver innescato intensi burst di formazione stellare in grado di eccitare gli atomi del gas circostante che, nel ritornare al loro stato fondamentale, hanno emesso grandi quantità di radiazione elettromagnetica: la stessa che gli astronomi vedono negli spettri di emissione sotto forma di righe molto intense.

Un altro aspetto interessante di questa ricerca è che sono emerse somiglianze nelle linee di emissione tra le primissime galassie e le galassie che si sono formate più recentemente, il cui studio è più semplice, concludono i ricercatori. Ciò significa che ora abbiamo più modi per rispondere alle domande aperte che riguardano l’universo primordiale, un periodo che è tecnicamente molto difficile da studiare.

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Un Grb così potente da perturbare l’alta ionosfera


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Illustrazione del lampo di raggi gamma che ha colpito la Terra il 9 ottobre 2022, è stato rivelato dal satellite Esa Integral e ha prodotto una forte perturbazione della parte più alta della ionosfera terrestre, registrata dal satellite Cses (Cnsa-Asi). Crediti: Esa/Atg Europe; Cc By-Sa 3.0 Igo

Il 9 ottobre 2022, alle 15:21 ora italiana, molti satelliti in orbita attorno alla Terra e nello spazio interplanetario hanno registrato il più forte lampo di raggi gamma (in inglese gamma-ray burst, o Grb) mai osservato. Tra questi, anche il satellite Integral (International Gamma-Ray Astrophysics Laboratory) dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha rivelato un flusso di raggi gamma estremamente intenso e di lunga durata. Contemporaneamente, il satellite Cses-01 (China Seismo-Electromagnetic Satellite), una collaborazione tra l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e quella cinese (Cnsa), ha registrato una perturbazione macroscopica del campo elettrico nella parte superiore della ionosfera, lo strato più alto e tenue dell’atmosfera terrestre, dovuta a un’improvvisa, forte corrente. Un effetto del genere non era mai stato osservato in questo strato dell’atmosfera.

Simili perturbazioni nella ionosfera sono solitamente associate a eventi energetici legati all’attività del Sole, ma in questo caso la coincidenza con l’arrivo del lampo gamma indica che l’origine è da ricercarsi molto più lontano, nell’esplosione di una stella a quasi due miliardi di anni luce di distanza. I risultati dell’analisi, condotta da un team multidisciplinare a guida italiana che è riuscito a sintetizzare dati da due discipline molto diverse – l’astronomia a raggi gamma e la ricerca delle interazioni tra Sole, Terra e cosmo – sono pubblicati su Nature Communications.

«Siamo stati fortunati perché, al momento dell’arrivo del lampo, il satellite Cses si trovava dalla parte del pianeta colpita dall’enorme flusso di raggi gamma», dice Mirko Piersanti, ricercatore dell’Università dell’Aquila e associato all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), primo autore dell’articolo, che ha lavorato alla ricerca insieme a Pietro Ubertini dell’Inaf, principal investigator dello strumento Ibis a bordo di Integral. «È stato eccitante scoprire l’effetto registrato a bordo di Cses pochi istanti dopo l’arrivo del Grb registrato da Integral. Era la prova che la ionosfera terrestre era stata ionizzata in modo così intenso da raggi gamma di alta energia, da generare una variazione della conducibilità tale da produrre variazioni del campo elettrico ionosferico».

Il lampo gamma del 9 ottobre 2022 è stato il più luminoso mai rivelato sinora: il secondo in ordine di intensità è dieci volte meno luminoso. Lo studio indica come eventi cosmici dovuti a raggi gamma di estrema intensità possano avere una forte influenza nell’equilibrio della composizione della ionosfera. Il lampo gamma, generato in una galassia lontana, una volta arrivato sulla Terra aveva ancora abbastanza energia da perturbare la nostra atmosfera in modo molto marcato, “spostando” sostanzialmente la ionosfera verso il basso per tutta la sua durata. Un effetto simile si registra durante brillamenti solari di forte intensità che provocano veri e propri black-out radio.

«È sorprendente come fenomeni che avvengono nello spazio profondo riescano a produrre conseguenze così significative sul nostro pianeta», nota Piergiorgio Picozza dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), responsabile della collaborazione Cses-Limadou.

Statisticamente, un lampo di raggi gamma così intenso colpisce la Terra ogni diecimila anni. Se fosse stato generato da un’esplosione simile nella nostra galassia, anziché – come in questo caso – in una galassia a quasi due miliardi di anni luce, avrebbe potuto avere conseguenze molto serie per il nostro pianeta, mettendo in pericolo la sopravvivenza della biosfera terrestre. Il dibattito scientifico sulle possibili conseguenze di un ipotetico Grb proveniente dalla Via Lattea, potenzialmente miliardi di volte più intenso di questo, prevede, nel peggiore dei casi, un’alterazione dello strato di ozono atmosferico che protegge la biosfera dalle radiazioni ultraviolette prodotte dal Sole. È stata anche avanzata l’ipotesi che un simile effetto possa aver causato alcune delle estinzioni di massa avvenute in passato sulla Terra.

L’interazione del Grb con la ionosfera è durata più di 800 secondi (quasi un quarto d’ora) ed è stata così intensa da attivare i rivelatori di fulmini in India. In Germania, strumenti a terra hanno registrato per ore disturbi della trasmissione radio ionosferica. Conoscendo bene gli effetti che lampi di luce solare provocano nella ionosfera, i ricercatori italiani della collaborazione Cses hanno subito capito che un Grb straordinariamente intenso come quello del 9 ottobre 2022 poteva avere avuto un impatto profondo sulla parte alta dell’atmosfera. In passato, tuttavia, solo alcuni Grb erano stati in grado di generare variazioni significative sulla ionosfera, ma solo a basse quote e di notte, quando il contributo legato all’illuminazione solare non è presente. Non era mai stato osservato l’effetto di un Grb all’altezza dell’alta atmosfera dove orbita Cses-01.

«Questo risultato avvalora la scelta dell’Asi di sostenere fin dal 2016 un team multidisciplinare per l’analisi dei dati Cses, che include astrofisici, geofisici, fisici delle particelle, fisici dell’atmosfera ed esperti di space weather», racconta Simona Zoffoli dell’Unità osservazione della Terra dell’Agenzia spaziale italiana. «La contaminazione tra diverse competenze è preziosa e ha permesso di utilizzare i dati di Cses per obiettivi nuovi inizialmente non previsti».

La ionosfera, tra 50 e 950 km di altitudine, è uno strato fondamentale per la propagazione delle onde radio, senza la quale non si potrebbero effettuare trasmissioni radio di bassa frequenza attorno al pianeta. La sua densità è però così bassa che i satelliti riescono a orbitare al suo interno. Uno di questi satelliti è proprio Cses-01, che monitora l’alta ionosfera (oltre 350 km di altitudine) e la magnetosfera per rivelare perturbazioni collegabili a fenomeni naturali sia di origine terrestre, come terremoti, tsunami o eruzioni vulcaniche, sia di origine esterna come le perturbazioni dovute a tempeste solari.

Tra gli strumenti a bordo del satellite Cses-01, un rivelatore di particelle (High Energetic Particle Detector) è stato realizzato in collaborazione tra Asi e Infn, e un rivelatore di campo elettrico (Electric Field Detector) è stato sviluppato in collaborazione tra Asi, Inaf e Infn. Completano l’equipaggiamento scientifico una serie di rivelatori, tra cui quelli di campo magnetico e delle proprietà del plasma, realizzati da ricercatori cinesi. I dati di tutti gli strumenti sono archiviati e messi a disposizione della comunità scientifica presso il centro Asi Ssdc. È stata proprio la straordinaria sensibilità dello strumento di campo elettrico che ha permesso di osservare per la prima volta questo effetto. Dopo questa scoperta, il team della collaborazione Cses ha iniziato ad analizzare sistematicamente tutti i dati del rivelatore di campo elettrico registrati in coincidenza con i Grb a partire dal lancio del satellite, nel 2018.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications l’articolo “First Evidence of Earth’s top-side ionospheric electric field variation triggered by impulsive cosmic photons”, di Mirko Piersanti, Pietro Ubertini, Roberto Battiston, Angela Bazzano, Giulia D’Angelo, James G. Rodi, Piero Diego, Roberto Ammendola, Davide Badoni, Simona Bartocci, Stefania Beolè, Igor Bertello, William J. Burger, Donatella Campana, Antonio Cicone, Piero Cipollone, Silvia Coli, Livio Conti, Andrea Contin, Marco Cristoforetti, Fabrizio De Angelis, Cinzia De Donato, Cristian De Santis, Andrea Di Luca, Emiliano Fiorenza, Francesco M. Follega, Giuseppe Gebbia, Roberto Iuppa, Alessandro Lega, Marco Lolli, Bruno Martino, Matteo Martucci, Giuseppe Masciantonio, Matteo Mergè, Marco Mese, Alfredo Morbidini, Coralie Neubüser, Francesco Nozzoli, Fabrizio Nuccilli, Alberto Oliva, Giuseppe Osteria, Francesco Palma, Federico Palmonari, Beatrice Panico, Emanuele Papini, Alexandra Parmentier, Stefania Perciballi, Francesco Perfetto, Alessio Perinelli, Piergiorgio Picozza, Michele Pozzato, Gianmaria Rebustini, Dario Recchiuti, Ester Ricci, Marco Ricci, Sergio B. Ricciarini, Andrea Russi, Zuleika Sahnoun, Umberto Savino, Valentina Scotti, Alessandro Sotgiu, Roberta Sparvoli, Silvia Tofani, Nello Vertolli, Veronica Vilona, Vincenzo Vitale, Ugo Zannoni, Simona Zoffoli e Paolo Zuccon


Anche i quasar giocano a nascondino


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Rappresentazione artistica di un nucleo galattico attivo (Agn). Il gas alimenta il buco nero centrale tramite un disco di accrescimento, circondato da una struttura toroidale che può assorbire la radiazione emessa, impedendone la vista. Crediti: Esa / V. Beckmann (Nasa-Gsfc)

Benché si tratti di oggetti dalle luminosità prodigiose, i quasar, ovvero buchi neri in accrescimento che sprigionano un’immensa quantità di energia e rientrano nella più vasta famiglia dei nuclei galattici attivi (Agn), possono talvolta eludere le osservazioni dei più potenti telescopi. Stando alle teorie più accreditate, il disco di materiale che alimenta il buco nero è circondato da una struttura toroidale, denominata “toro oscurante”, che può esercitare un ruolo cruciale nell’occultare la radiazione emessa dal disco di accrescimento. I fotoni prodotti dal disco che intercettano il toro possono essere infatti assorbiti da questa struttura, che talvolta raggiunge densità talmente elevate che solo i fotoni più energetici – che emettono tipicamente nella banda X – riescono a trapassare tali muri polverosi e a essere rivelati dai nostri strumenti.

Un nuovo studio ritiene però che questa sia solo una parte della storia. Pare infatti che un contributo sostanziale all’oscuramento dei quasar sia fornito dai gas e dalle polveri delle galassie che li ospitano. Si tratterebbe dunque di un oscuramento che avviene su scale spaziali decisamente più elevate rispetto a quella del toro oscurante.

Lo studio è stato guidato da Carolina Andonie, studentessa di dottorato presso l’Università di Durham (Regno Unito), ed è stato pubblicato il mese scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Gli autori si sono avvalsi dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) e hanno esaminato i dati di oltre cinquecento quasar particolarmente brillanti nell’infrarosso, regione dello spettro elettromagnetico particolarmente sensibile all’emissione della polvere. In particolare, i ricercatori si sono concentrati sulle cosiddette galassie starburst, ovvero galassie compatte che stanno sperimentando episodi di formazione stellare particolarmente intensi, generando circa mille stelle l’anno di massa confrontabile a quella del Sole – per fare un confronto, la Via Lattea genera circa una o due stelle l’anno di questa stazza. Per produrre un numero di stelle così elevato, è necessario che tali rocambolesche galassie letteralmente trabocchino di gas e polveri, i quali costituiscono gli ingredienti primari per la formazione stellare. Il gas e le polveri smossi dalle stelle in formazione si addenserebbero, costituendo di fatto delle barriere invalicabili anche per la luce emessa dai quasar più brillanti.

«È come se il quasar fosse sepolto nella galassia che lo ospita», afferma Andonie. «In alcuni casi, la galassia è così ricolma di gas e polveri che neppure i raggi X riescono a fuoriuscire».

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In questa infografica, a sinistra un Agn oscurato dal solo toro di polvere vicino al buco nero, e a destra un Agn oscurato anche dai gas e dalle polveri delle stelle in formazione presenti nella galassia che lo ospita. Crediti: C. Andonie/Durham Univ.

Fra gli autori dello studio figura anche Iván E. López, studente di dottorato presso l’Università di Bologna e associato Inaf. «I modelli elaborati negli anni ‘90», dice López a Media Inaf, «ritengono che l’orientazione degli Agn rispetto a noi giochi un ruolo fondamentale nell’oscuramento della radiazione da parte del toro. Tuttavia, per alcuni oggetti queste teorie stanno incontrando delle grosse difficoltà interpretative. Sembra infatti che sia il mezzo interstellare che l’attività di formazione stellare in una galassia possano giocare un ruolo decisivo nell’oscuramento.»

Il team stima che nel 10-30 per cento dei quasar ospitati da galassie starburst le fitte nubi di gas e polvere, presenti in questi sistemi, siano le responsabili esclusive dell’oscuramento. Si pensa che tutto ciò accada in un periodo transitorio dell’evoluzione dei quasar e delle galassie ospitanti. In particolare, si tratterebbe di una delle prime fasi evolutive di questi oggetti, in cui enormi quantità di gas vengono convertite in stelle e allo stesso tempo alimentano la crescita del buco nero centrale.

«Alla fine di questo processo», aggiunge López, «il buco nero centrale, tramite un meccanismo di feedback, “ripulisce” l’ambiente circostante, espellendo nubi di gas e polvere, e il quasar diventa visibile. È un puzzle affascinante, e ora abbiamo una pista in più sulla fase più giovane dei quasar».

Lo studio di questi quasar così elusivi sarà molto utile ai ricercatori per chiarire ulteriormente le connessioni fra le galassie e i buchi neri supermassicci che dimorano nelle loro regioni nucleari.

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Obscuration beyond the nucleus: infrared quasars can be buried in extreme compact starbursts” di Carolina Andonie, David M. Alexander, Claire Greenwell, Annagrazia Puglisi, Brivael Laloux, Alba V. Alonso-Tetilla, Gabriela Calistro Rivera, Chris Harrison, Ryan C. Hickox, Melanie Kaasinen, Andrea Lapi, Iván E. López, Grayson Petter, Cristina Ramos Almeida, David J. Rosario, Francesco Shankar e Carolin Villforth


Ossigeno su Marte? Ci pensa il robot “AI-chimista”


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Un team di ricerca della Unversity of Science and Technology of China ha sviluppato un robot dotato di intelligenza artificiale capace di creare catalizzatori per la produzione di ossigeno su Marte. Crediti: AI-Chemist Group, Unversity of Science and Technology of China

Colonizzare Marte e stabilire una presenza umana permanente sul pianeta è un obiettivo di molte nazioni e agenzie spaziali pubbliche e private. Affinché ciò sia possibile, però, ci sono diversi ostacoli da superare. Uno su tutti, la mancanza di ossigeno molecolare.

Un modo per produrre la preziosa sostanza direttamente su Marte tuttavia ci sarebbe. È un processo che gli addetti ai lavori chiamano evoluzione elettrocatalitica dell’ossigeno e prevede la decomposizione dell’acqua, disponibile sul Pianeta rosso in forma di ghiaccio e forse anche allo stato liquido, attraverso una reazione chimica guidata dall’energia solare in presenza di catalizzatori, sostanze in grado di promuovere e accelerare una reazione altrimenti sfavorita.

L’acqua sul pianeta c’è, la radiazione solare è abbondante: dunque possiamo colonizzare Marte, direte voi. E invece no. Il problema sono proprio i catalizzatori. Per garantire la produzione costante di ossigeno su Marte, dovremmo infatti trasportare continuamente queste sostanze dalla Terra, il che, come potete immaginare, avrebbe costi elevatissimi. La sfida è dunque trovare un modo per sintetizzare questi potenziatori della reazione, soprattutto idrossidi, direttamente in situ, utilizzando materie prime già presenti su Marte. Una sfida che un team di ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze pare ora aver vinto. Come? Grazie allo sviluppo di un robot dotato di intelligenza artificiale in grado di sintetizzare queste molecole. Non ha le sembianze umane della rappresentazione artistica dell’immagine qui sopra, sia chiaro. Ma è comunque in grado di fare quello per cui è stato costruito. La ricerca, condotta in collaborazione con il Deep Space Exploration Laboratory, è stata pubblicata oggi su Nature Synthesis.

AI-chemist – questo il nome del robot, dal gioco di parole fra “alchimista” e le iniziali di artificial intelligence – ha le dimensioni di una piccola fotocopiatrice, adatte dunque per essere trasportato a bordo di un eventuale lander o rover. Al suo interno, tuttavia, avvengono esperimenti che sulla Terra richiederebbero strumenti e laboratori ben più grandi, nonché anni di lavoro umano. Il sistema è in grado di generare catalizzatori per la produzione di ossigeno senza l’intervento dell’uomo. Il pre-trattamento del minerale marziano, la sintesi chimica della molecola, la sua caratterizzazione e i test di prestazione sono fasi che all’interno di AI-chemist avvengono tutte in maniera completamente automatizzata.

Ma il suo punto di forza è un altro: la capacità, una volta analizzata la composizione dei minerali grezzi di Marte, di definire la migliore formula possibile per sintetizzare il catalizzatore più performante: un processo, questo, che utilizza un potente modulo computazionale che combina algoritmi di apprendimento automatico e modelli teorici, che permettono al robot di analizzare sia i dati sperimentali acquisiti che i dati di simulazione.

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Schema di funzionamento del robot AI-chemist. Crediti: Qing Zhu et al., Nature Synthesis, 2023

«Il robot AI-chemist sintetizza in modo innovativo il catalizzatore della reazione di evoluzione dell’ossigeno utilizzando il materiale marziano», osserva Luo Yi, scienziato dell’Università della Scienza e della Tecnologia della Cina, tra gli autori dell’articolo che descrivono la ricerca.

Ma vediamo in dettaglio come lavora AI-chemist. Per facilitare il lavoro del robot, i ricercatori hanno pensato a un flusso di lavoro a doppio ciclo. Il primo ciclo, comprendente 12 fasi automatizzate, viene eseguito dagli strumenti di chimica analitica all’interno del robot. Il secondo, comprendente in totale 9 operazioni consecutive, viene eseguito invece dal “cervello” computazionale del robot.

In ogni ciclo sperimentale, il primo step è il pretrattamento del campione, una fase che prevede tutta una serie di operazioni preliminari, tra cui la pesatura del campione. A questo punto, utilizzando la Laser Induced Breakdown Spectroscopy (Libs) – un tipo di spettroscopia di emissione atomica – viene analizzata l’esatta composizione del campione.

La fase successiva è la sintesi chimica simulata delle molecole catalizzatrici e coinvolge il “cervello” del robot: mediante simulazioni di chimica quantistica e dinamica molecolare, AI-chemist genera le strutture di tutti i catalizzatori che è possibile creare partendo dagli elementi presenti nel campione, misurandone inoltre l’attività catalizzatrice. I dati così ottenuti vengono utilizzati per addestrare un modello di rete neurale che prevede rapidamente le attività dei catalizzatori con diverse composizioni elementari. Infine, attraverso l’ottimizzazione bayesiana – una tecnica utilizzata nell’apprendimento automatico per trovare i parametri di un modello – il robot prevede la migliore combinazione di minerali marziani disponibili per sintetizzare il più performante catalizzatore della produzione di ossigeno.

Andiamo adesso ai risultati dei test di funzionamento del robot, condotti dai ricercatori in laboratorio utilizzando in sostituzione del terreno di Marte cinque diverse meteoriti marziane. Come anticipato, le molecole che nelle reazioni elettro-catalitiche di produzione dell’ossigeno hanno funzione catalizzatrice sono principalmente gli idrossidi, molecole costituite da un metallo, ossigeno e idrogeno, con formula chimica generale M(OH)n, dove M è l’atomo di metallo. Lo studio, spiegano i ricercatori, dimostra che AI-chemist può sintetizzare questi catalizzatori a partire da minerali di Marte senza alcun intervento umano. Il sistema, aggiungono gli scienziati, ha eseguito tutte le fasi sperimentali richieste, tra cui l’analisi delle materie prime, il pre-trattamento, la sintesi, la caratterizzazione e i test di attività dei catalizzatori con un’elevata precisione, come pure l’identificazione della migliore struttura catalizzatrice tra milioni di combinazioni possibili.

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A sinistra (a), la struttura chimica simulata di un catalizzatore generata dal robot AI-chemist. A destra (b), la reazione che utilizza questi catalizzatori per produrre ossigeno. Crediti: Qing Zhu et al. Nature Synthesis, 2023

In sole sei settimane di test, il robot intelligente ha costruito un modello predittivo apprendendo da quasi 30mila set di dati teorici e 243 set di dati sperimentali utilizzando algoritmi di ottimizzazione che, alla fine, hanno fornito la più performante struttura di un catalizzatore abbinata alle condizioni sintetiche più adatte. Un processo, questo, che avrebbe richiesto oltre 1500 anni di lavoro da parte di un chimico in carne ed ossa. Il robot è stato testato per oltre 150 ore di funzionamento, anche a temperature di esercizio estreme come quelle marziane, producendo costantemente ossigeno senza alcuna apparente degradazione.

«Con l’aiuto di AI-chemist, in futuro gli esseri umani potranno creare una fabbrica di ossigeno su Marte», promette Jiang Jun, ricercatore all’Università di scienza e tecnologia della Cina (Ustc), tra gli autori dello studio. «Questa tecnologia innovativa ci porta un passo più vicino alla realizzazione del nostro sogno di vivere su Marte».

Il protocollo e il sistema di funzionamento di AI-chemist sono generici e adattabili, concludono i ricercatori. Con questo robot ci aspettiamo di far progredire la scoperta automatizzata di materiali e la sintesi di sostanze chimiche per l’occupazione e l’esplorazione di pianeti extraterrestri.

Per spaerne di più:

  • Leggi su Nature Synthesis l’articolo “Automated synthesis of oxygen-producing catalysts from Martian meteorites by a robotic AI chemist”, di Qing Zhu, Yan Huang, Donglai Zhou, Luyuan Zhao, Lulu Guo, Ruyu Yang, Zixu Sun, Man Luo, Fei Zhang, Hengyu Xiao, Xinsheng Tang, Xuchun Zhang, Tao Song, Xiang Li, Baochen Chong, Junyi Zhou, Yihan Zhang, Baicheng Zhang, Jiaqi Cao, Guozhen Zhang, Song Wang, Guilin Ye, Wanjun Zhang, Haitao Zhao, Shuang Cong, Huirong Li, Li-Li Ling, Zhe Zhang, Weiwei Shang, Jun Jiang e Yi Luo


Boccata d’ossigeno per il Seti


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Ripresa notturna delle antenne dell’Allen Telescope Array. Crediti: Seti Institute

Tutti gli appassionati di scienza conoscono la sigla Seti, acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence (Ricerca di intelligenza extraterrestre). I moderni progetti di Seti sono iniziati nel 1959 con un famoso articolo pubblicato su Nature scritto dai fisici Giuseppe Cocconi e Philip Morrison: Searching for Interstellar Communications. In questo paper Cocconi e Morrison sostenevano che le frequenze di trasmissione radio più adatte alle comunicazioni interstellari fossero quelle tra 1 e 10 GHz. Nel 1960 l’astronomo statunitense Frank Drake (Cornell University) diede vita alla prima ricerca strumentale in campo Seti, il Progetto Ozma. Drake utilizzò un radiotelescopio di 25 metri di diametro sito a Green Bank, per scandagliare le stelle Tau Ceti ed Epsilon Eridani a frequenze vicine a 1,420 GHz. Non furono ricevuti segnali di origine artificiale, ma è stato l’inizio di una grande avventura che continua tuttora. Meno noto è che, attualmente, tutta la ricerca in ambito Seti viene portata avanti dal Seti Institute tramite finanziamenti esclusivamente da privati.

Fondato nel 1984, il Seti Institute è un’organizzazione senza fini di lucro la cui missione principale è la ricerca delle origini della vita e dell’intelligenza nell’universo a beneficio di tutta l’umanità. La ricerca portata avanti dal Seti Institute, che ha la propria sede a Mountain View (California), abbraccia sia le scienze fisiche, sia quelle biologiche avvalendosi di tecniche di machine learning e di tecnologie avanzate per il rilevamento dei segnali. Non mancano collaborazioni con l’industria, il mondo accademico e le agenzie governative statunitensi, tra cui la Nasa, il Dipartimento dell’energia e la National Science Foundation. Fiore all’occhiello del Seti Institute è l’Allen Telescope Array, un radiotelescopio costituito da 42 antenne paraboliche di circa 6 metri di diametro dedicato sia alle osservazioni astronomiche, sia alla ricerca simultanea di segnali radio da intelligenze extraterrestri. Il sistema di antenne è situato presso il radio osservatorio di Hat Creek, 470 km a nord-est di San Francisco e la sua costruzione è iniziata nel 2001 grazie a un finanziamento complessivo di 25 milioni di dollari da parte di Paul Allen (co-fondatore della Microsoft), da cui il radiotelescopio prende il nome.

Come si sarà capito, una ricerca di punta come quella del Seti si può fare solo con adeguati finanziamenti e, in effetti, il Seti Institute ha più di cento ricercatori che lavorano a decine di programmi nel campo dell’astronomia e dell’astrofisica, che si dedicano agli esopianeti, all’esplorazione planetaria, all’astrobiologia e – naturalmente – alla ricerca di intelligenze extraterrestri. Recentemente è stata fatta una donazione filantropica di 200 milioni di dollari da parte di Franklin Antonio, sostenitore e catalizzatore del lavoro del Seti Institute da oltre 12 anni e co-fondatore della Qualcomm, una società statunitense di ricerca e sviluppo nel campo delle telecomunicazioni senza fili con sede a San Diego. Antonio è venuto a mancare il 13 maggio 2022 e ha lasciato questa eredità per consentire il proseguimento della ricerca della vita intelligente extraterrestre.

Come verranno usati questi fondi? Con le classiche attività che ogni centro per la ricerca scientifica deve perseguire: 1) istituire borse di studio post-dottorato e sovvenzioni per i programmi scientifici ed educativi del Seti Institute; 2) consentire alla ricerca di base portata avanti dal Seti Institute di espandersi ed estendere la sua portata a livello globale attraverso nuove collaborazioni internazionali; 3) sviluppare nuovi programmi educativi e iniziative didattiche, specialmente dedicate alle comunità svantaggiate; 4) sostenere lo sviluppo di tecnologie osservative innovative e nuovi strumenti analitici.

In sintesi, questa donazione consentirà al Seti Institute di ampliare i confini della conoscenza umana nell’esplorazione della vita oltre il nostro pianeta e sulle origini della vita qui sulla Terra e dobbiamo esserne lieti, per questa ulteriore possibilità che viene data all’intelligenza umana.


Olimpiadi di astronomia, 5 medaglie per l’Italia


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Medagliere (in ordine alfabetico)

Con la cerimonia di chiusura di oggi, lunedì 13 novembre, si è conclusa la 27esima edizione delle Olimpiadi internazionali di astronomia, svoltesi a Pechino, capitale della Repubblica Popolare Cinese.

I sei ragazzi della squadra italiana tornano a casa con due argenti, conquistati da Francesco Leccese (liceo “G. Banzi Bazoli”, Lecce) e Matteo Tivan (liceo “Pellico – Peano”, Cuneo), e tre bronzi, conquistati da Francesco Cioffi (liceo “E. Fermi”, Bari), Chiara Luppino (liceo “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria) e Raffaele Stoppa (liceo “F. Ribezzo”, Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi). Matteo Tivan ha conquistato anche il premio per la miglior prova osservativa.

I ragazzi concordano nell’affermare che gli esercizi delle prove teorica e pratica non hanno presentato particolari difficoltà, anche se erano differenti dalle aspettative. Al contrario, per quanto riguarda la prova osservativa, «è stata il mio più grande trauma», confessa Francesco Cioffi. «La parte con i telescopi consisteva nel puntare il telescopio verso alcuni schermi distanti e leggere cosa c’era scritto: il nome di una costellazione era in rosso, su una specie di insegna, difficile da individuare. Personalmente l’ho inquadrata un sacco di volte scambiandola per l’insegna dell’uscita di sicurezza (delle stesse dimensioni, forma e colore), perdendo 4 minuti su 6 totali a disposizione».

I ragazzi, entusiasti e soddisfatti di questa esperienza, la raccontano come stimolante e affascinante, in particolare per aver trascorso del tempo con ragazzi stranieri che condividono la loro stessa passione per l’astronomia: hanno potuto apprezzare la cultura, il cibo (la zuppa di pere e funghi era ottima, un po’ meno le zampe di gallina…) e i divertimenti locali con alcune sfide al salto della corda e a key kicking (un volano da lanciare con i piedi). Indimenticabili anche la visita alla Grande Muraglia e all’Osservatorio imperiale di Pechino, uno dei più antichi osservatori astronomici del mondo, eretto nel 1442 sotto la dinastia dei Ming.

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La squadra italiana sul palco al momento della premiazione. Da sinistra: Gaetano Valentini, Matteo Tivan, Francesco Leccese, Francesco Cioffi, Chiara Luppino, Raffaele Stoppa, Francesco Manetti, Anna Brancaccio e Giulia Iafrate. Crediti: Giulia Iafrate/Inaf

Ecco le cifre: 53 partecipanti da 9 nazioni, divisi in tre categorie: 20 alpha, 24 beta e 9 gamma. Totale medaglie di bronzo, argento e oro assegnate, rispettivamente: 19, 12 e 5. «Il sistema di premiazione è particolare», spiega Gaetano Valentini (Inaf Abruzzo), jury member, che ha avuto il compito di tradurre e correggere gli elaborati dei partecipanti. «Il numero di medaglie è più o meno sempre lo stesso, ma la loro assegnazione si basa su un lavoro di comparazione generale degli elaborati e richiede moltissimo lavoro».

La squadra italiana è stata accompagnata anche da Anna Brancaccio, rappresentante del Ministero dell’istruzione e del merito, che sottolinea la correttezza e la serietà con cui i nostri ragazzi hanno affrontato le prove, alquanto impegnative, ma soprattutto la gioia e l’entusiasmo che hanno dimostrato nei confronti delle altre squadre e nei confronti degli studenti di altri paesi e nazionalità. «Vederli ridere, discutere senza barriere di alcun genere, è stato per me, nel ruolo di osservatore, la conferma che queste olimpiadi siano il mezzo migliore per unire gente di diversa origine e diverse culture. L’Italia è stata rappresentata in tutta la sua bellezza, cultura e tradizioni, anche culinarie! Un’ultima considerazione sugli accompagnatori – Giulia Iafrate e Gaetano Valentini – che nel loro ruolo, rispettivamente, di team leader e jury member hanno dimostrato la professionalità e l’umanità necessaria nel guidare questi giovani talenti nel loro percorso formativo».

Ora con la pubblicazione del bando per il 2024 prende il via la 22esima edizione dei Campionati italiani di astronomia, a cui possono partecipare studentesse e studenti delle scuole italiane frequentanti il terzo anno della scuola secondaria di primo grado e i cinque anni della scuola secondaria di secondo grado. Le scuole possono registrarsi fino al 29 novembre. Le gare iniziano il 6 dicembre con la fase di preselezione per culminare con la finale a metà aprile, che si svolgerà nella città metropolitana di Reggio Calabria.


Quando su Venere c’era la tettonica a placche


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Vista prospettica tridimensionale generata al computer della superficie di Venere. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

In un articolo pubblicato su Nature Astronomy, un team di scienziati guidato da ricercatori della Brown University descrive l’utilizzo dei dati atmosferici di Venere e della modellazione computerizzata per dimostrare che la composizione dell’attuale atmosfera del pianeta e la pressione superficiale sarebbero state possibili solo come risultato di una primitiva forma di tettonica a placche, un processo fondamentale per la vita che coinvolge più placche continentali che si spingono, si tirano e scivolano l’una sotto l’altra.

Sulla Terra, questo processo si è intensificato nel corso di miliardi di anni, formando nuovi continenti e montagne e portando a reazioni chimiche che hanno stabilizzato la temperatura superficiale del pianeta, creando un ambiente più favorevole allo sviluppo della vita.

Venere, d’altra parte – il mondo più vicino alla Terra, nonché pianeta gemello – è andato nella direzione opposta e oggi ha temperature superficiali abbastanza calde da sciogliere il piombo. Una spiegazione è che si è sempre pensato che il pianeta avesse quello che è noto come un “coperchio stagnante”, una singola placca tettonica soggetta a un minimo di cedimento, movimento e gas rilasciati nell’atmosfera.

Il nuovo studio presuppone che non sia sempre stato così. Per tenere conto dell’abbondanza d’azoto e anidride carbonica presenti nella sua atmosfera, i ricercatori concludono che qualche tempo dopo la formazione del pianeta – circa 4,5-3,5 miliardi di anni fa – Venere deve aver avuto una tettonica a placche. L’articolo suggerisce che questo primo movimento tettonico, come sulla Terra, sarebbe stato limitato in termini di numero di placche in movimento e suggerisce anche di quanto si sarebbero spostate. Insomma, la stessa cosa che è successa sulla Terra, secondo gli autori, sarebbe accaduta anche su Venere. Contemporaneamente.

Questo rafforza la possibilità della vita microbica sull’antico Venere e mostra che a un certo punto i due pianeti – che si trovano nello stesso “quartiere” solare, hanno all’incirca le stesse dimensioni e hanno la stessa massa, densità e volume – erano più simili di quanto si pensasse in precedenza. Prima di prendere strade molto diverse.

Il lavoro evidenzia anche la possibilità che la tettonica a placche sui pianeti possa semplicemente dipendere dai tempi – e quindi, anche la vita stessa. «Finora abbiamo pensato allo stato tettonico in termini binari: o è vero o è falso, ed è vero o falso per tutta la durata del pianeta», spiega il coautore Alexander Evans. «Il nuovo studio suggerisce che i pianeti possano entrare e uscire da diversi stati tettonici e che questo potrebbe effettivamente essere abbastanza comune. La Terra potrebbe essere l’anomalia. Ciò significa anche che potremmo avere pianeti che entrano ed escono dall’abitabilità anziché essere semplicemente abitabili».

Secondo lo studio, questo concetto sarà di fondamentale importanza per comprendere le lune vicine – come Europa, che ha dimostrato di avere una tettonica a placche simile a quella terrestre – e gli esopianeti distanti.

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Nonostante Venere sia una terra desolata e rovente, il pianeta viene spesso definito gemello della Terra a causa delle somiglianze in termini di dimensioni, massa, densità e volume. Crediti: Nasa/Jpl

Inizialmente, l’obiettivo dei ricercatori era quello di trovare un modo per dimostrare che le atmosfere di esopianeti lontani possono essere potenti indicatori della loro storia, dall’inizio. In seguito, hanno deciso di indagare rimanendo molto più vicino a casa. Hanno utilizzato i dati attuali sull’atmosfera di Venere come punto finale dei loro modelli e hanno iniziato supponendo che Venere abbia avuto quel cosiddetto coperchio stagnante durante tutta la sua esistenza. Rapidamente, sono stati in grado di notare che le simulazioni che ricreavano l’attuale atmosfera del pianeta non corrispondevano alla realtà, in termini di quantità di azoto e anidride carbonica presenti nell’atmosfera del pianeta e della conseguente pressione superficiale.

I ricercatori hanno poi simulato cosa sarebbe dovuto accadere sul pianeta per arrivare alla situazione odierna. Alla fine i numeri corrispondevano quasi esattamente quando tenevano conto di un movimento tettonico limitato all’inizio della storia di Venere, seguito dal modello di coperchio stagnante che esiste oggi. «Siamo ancora in questo paradigma in cui utilizziamo le superfici dei pianeti per comprendere la loro storia», afferma Evans. «Noi mostriamo per la prima volta che l’atmosfera potrebbe effettivamente essere il modo migliore per comprendere parte dell’antichissima storia dei pianeti, che spesso non è conservata in superficie».

La prossima missione DaVinci della Nasa, che misurerà i gas nell’atmosfera venusiana, potrebbe aiutare a consolidare i risultati dello studio. Nel frattempo, i ricercatori intendono approfondire una domanda chiave sollevata dallo studio: cosa è successo alla tettonica a placche su Venere? La teoria degli autori suggerisce che il pianeta alla fine sia diventato troppo caldo e la sua atmosfera troppo densa, prosciugando gli ingredienti necessari per il movimento tettonico. «Venere sostanzialmente ha esaurito la sua energia in una certa misura, e questo ha frenato il processo», dice Daniel Ibarra, coautore dell’articolo.

I ricercatori affermano che i dettagli di come ciò sia accaduto potrebbero avere importanti implicazioni per la Terra. «Questo sarà il prossimo passo fondamentale nella comprensione di Venere, della sua evoluzione e, in definitiva, del destino della Terra», conclude Matt Weller, primo autore dello studio. «Quali condizioni ci costringeranno a muoverci lungo una traiettoria simile a quella di Venere, e quali condizioni potrebbero consentire alla Terra di rimanere abitabile?». Un giorno, forse, lo sapremo.

Per saperne di più:


Tesoro, mi si sono ristrette le galassie nane


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Rappresentazione artistica di una galassia nana (a sinistra) in fase di transizione verso una galassia nana ultracompatta, mentre viene spogliata dei suoi strati esterni di stelle e gas da una galassia vicina più grande (a destra). Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/M. Zamani

Così come le nane brune si trovano in bilico sulla soglia tra piccole stelle e grandi pianeti, le galassie nane ultracompatte (Ucd, dall’inglese ultra-compact dwarf) sono oggetti di confine tra normali galassie nane e ammassi stellari. Oggetti ad altissima densità: in una sfera relativamente ridotta – parliamo di un raggio compreso fra 30 e 300 anni luce – le nane ultracompatte arrivano infatti a contenere fino 200 milioni di stelle. Ma qual è la loro origine? Uno studio condotto con il telescopio Gemini North, individuando nell’ammasso della Vergine un centinaio di “anelli mancanti” – vale a dire, galassie in transizione dallo stadio di nane a quello di ultracompatte – è riuscito ora a ricostruire il percorso evolutivo di questi oggetti di difficile classificazione. Confermando così un’ipotesi avanzata già una ventina d’anni fa, quando le prime Ucd vennero scoperte, ma finora mai dimostrata: le nane ultracompatte sono, probabilmente, i resti fossili di normali galassie nane private dei loro strati più esterni.

«I nostri risultati forniscono il quadro più completo dell’origine di questa misteriosa classe di galassie, scoperta quasi 25 anni fa», dice Eric Peng, astronomo del NoirLab e coautore dell’articolo che descrive questi risultati, pubblicato questa settimana su Nature. «Quelle che presentiamo sono 106 piccole galassie nell’ammasso della Vergine con dimensioni comprese tra le normali galassie nane e le Ucd, mostrando così un continuum che colma il “gap dimensionale” tra gli ammassi stellari e le galassie».

A rendere complesse le osservazioni è stata soprattutto la difficoltà nel distinguere i candidati progenitori di Ucd – individuati nelle immagini della Next Generation Virgo Cluster Survey, guidata dall’astronoma italiana Laura Ferrarese, coautrice dello studio, e condotta con il Canada-France-Hawaii Telescope – dalle galassie presenti sullo sfondo. Per riuscirci è stato necessario ricorrere a misure spettroscopiche realizzate, appunto, con il Gemini North – misure che hanno permesso di stimare la distanza delle singole galassie ed eliminare dal campione quelle di background, non appartenenti all’ammasso della Vergine.

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Un continuum di galassie immortalate a diversi stadi del processo di trasformazione da galassia nana a galassia nana ultracompatta (Ucd). Questi oggetti si trovano vicino alla galassia ellittica supergigante M87, l’oggetto dominante del vicino ammasso della Vergine. Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/Nasa/R. Gendler/K. Wang/M. Zamani

Aver individuato così tante galassie a diversi stadi evolutivi ha consentito non solo di confermare la “direzione” del processo di formazione – da galassia nana a nana ultracompatta, come dicevamo – ma anche di intuire in che modo avvenga il “rimpicciolimento”: tutti gli indizi di colpevolezza fanno puntare il dito verso le galassie massicce che si trovano nei dintorni. Massicce al punto da “sbucciare” poco per volta le galassie nane, strappando loro – per attrazione gravitazionale – gli strati più esterni di gas, stelle e materia oscura.

«Una volta analizzate le osservazioni condotte con Gemini ed eliminata tutta la contaminazione di fondo», spiega infatti il primo autore dello studio, Kaixiang Wang, dottorando all’Università di Pechino, «abbiamo potuto constatare che queste galassie di transizione si trovavano quasi esclusivamente vicino a galassie più grandi. Abbiamo così capito subito l’importanza rivestita dall’ambiente circostante».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “An evolutionary continuum from nucleated dwarf galaxies to star clusters”, di Kaixiang Wang, Eric W. Peng, Chengze Liu, J. Christopher Mihos, Patrick Côté, Laura Ferrarese, Matthew A. Taylor, John P. Blakeslee, Jean-Charles Cuillandre, Pierre-Alain Duc, Puragra Guhathakurta, Stephen Gwyn, Youkyung Ko, Ariane Lançon, Sungsoon Lim, Lauren A. MacArthur, Thomas Puzia, Joel Roediger, Laura V. Sales, Rubén Sánchez-Janssen, Chelsea Spengler, Elisa Toloba, Hongxin Zhang e Mingcheng Zhu