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Ricostruita la danza di una coppia di nane brune


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A guardare l’animazione delle loro traiettorie che si incrociano reciprocamente (trovate il video qui sotto), sembra di assistere a una elegante esibizione di valzer. E la coppia di “ballerini” che la interpretano è davvero speciale: non sono stelle e nemmeno pianeti, ma una via di mezzo potremmo dire. Wise J104915.57−531906.1, al secolo noto anche come Luhman 16, è infatti un sistema binario di nane brune.

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Le nane brune sono oggetti che non hanno la massa sufficiente per raggiungere nel loro interno le condizioni di temperature e pressioni necessarie all’innesco del bruciamento dell’idrogeno. Sono in pratica stelle mancate, più grandi in massa di Giove, il cui destino è un lento e inesorabile raffreddamento che le porterà a perdere la loro residua luminosità, con un ritmo che è essenzialmente dettato da quanta della loro energia primordiale riescono a irradiare attraverso la loro fotosfera.

La loro intrinseca debolezza luminosa fa sì che anche le più vicine siano debolissime, decine migliaia di volte più deboli di quello che può vedere l’occhio umano. Caratterizzare bene le poche nane brune che vediamo significa poter dedurre quante ce ne siano nella Galassia, con che frequenza si formino e che caratteristiche abbiano, in particolare se queste ospitino nei loro sistemi dei pianeti.

Le nane brune tuttavia, sono troppo deboli per qualunque survey tradizionale per cercare pianeti basata su variabiltà nella curva di luce o nella curva di velocità radiali, i due metodi principali per la ricerca dei pianeti e grazie ai quali è stata scoperta la quasi totalità dei pianeti extrasolari.

La scelta di osservare in dettaglio Luhman 16 e i moti delle sue componenti nasce dal fatto che questa è la coppia di nane brune in assoluto più vicine alla Terra, distando 6,5 anni luce da noi, e comunque il terzo sistema più prossimo al nostro Sistema solare dopo quello di Alfa Centauri e della Stella di Barnard.

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Rappresentazione artistica del sistema binario di nane brune Luhman 16. Crediti: Pablo Carlos Budassi

Data la sua vicinanza, Luhman 16 è il laboratorio ideale per studiare questi oggetti e la presenza di eventuali pianeti con un metodo alternativo, quello dell’astrometria. La ricerca astrometrica della presenza di pianeti sfrutta il movimento delle componenti di un sistema attorno al loro centro di massa. La misura dello spostamento angolare della componente luminosa osservabile permette così la caratterizzazione del pianeta orbitante, come la sua massa e il suo periodo.

Tuttavia, le nane brune, e fra queste persino anche quelle di Luhman 16, sono così deboli che anche la missione astrometrica Gaia, che ha precisioni quasi insuperabili per sorgenti più brillanti e meno rosse, riesce a malapena a scorgere Luhman 16 e a malapena a fornire misure astrometriche molto mediocri.

Per questa ragione un team di astronomi guidati da Luigi Bedin dell’Inaf di Padova sta conducendo un programma multi-ciclo con il telescopio spaziale Hubble per “monitorare” i movimenti delle due componenti del sistema Luhman 16 con una altissima precisione. E i nuovi risultati sono stati appena pubblicati in un articolo su Astronomical Notes, la rivista astronomica professionale più antica del mondo, dove Einstein e molti altri hanno pubblicato i loro studi, fra cui Bessel con la prima parallasse stellare.

«Il nostro gruppo è leader mondiale nel fare misure astrometriche con Hubble», ricorda Bedin, «arrivando a precisioni e accuratezze di meno di 50 micro secondi d’arco. Una precisione angolare che permetterebbe di percepire dalla Terra spostamenti di 10 cm sulla superficie della Luna. Queste precisioni corrispondono, alla distanza di Luhman 16 (circa 6,5 anni luce, oltre 400mila volte la distanza Terra-Sole), a un movimento di circa 10mila km».

«Questo studio», spiega Mattia Libralato, ricercatore Inaf coinvolto nel lavoro, «ci ha consentito di escludere la presenza di candidati pianeti nel sistema ipotizzati da studi precedenti, e di porre fermi limiti alla massa e periodo di pianeti che possono o non possono essere presenti nel sistema di Luhman16, l’unico per ora accessibile dal pianeta Terra con queste tecniche in questi sistemi. Ora possiamo escludere pianeti con masse circa comparabili a quelle del pianeta Nettuno e periodi fra circa un anno e circa 15 anni».

«Un prodotto fondamentale di questa ricerca è stato di poter raffinare i parametri astrometrici e quelli del sistema, che ora sono noti con accuratezza senza precedenti», aggiunge Massimo Griggio, dottorando dell’Università di Ferrara e associato Inaf, tra gli autori dello studio. «In particolare ora conosciamo le masse di due nane brune con accuratezze migliori dell’1 per cento che avranno importanti implicazioni per i modelli di evoluzione gravo-termica di questi particolarissima classe di oggetti celesti, e di riflesso sulle loro atmosfere. Queste due nane brune saranno caratterizzate per molti decenni a seguire, e saranno probabilmente fra i primi oggetti al di fuori del Sistema solare che verranno esplorati da sonde inviate dal genere umano».

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A Giusi Micela il Premio “Rose Day” per le Stem


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Giusi Micela, dirigente di ricerca all’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Palermo

Fondata nel 1919 a Buffalo, negli Stati Uniti, Zonta International è la più antica organizzazione di donne, ed è oggi un’organizzazione globale di oltre 26mila persone, con più di mille club Zonta in 64 paesi. Ogni anno, in occasione della Giornata internazionale della donna, i club Zonta Palermo Triscele e Zonta Palermo Zyz, che fanno parte del distretto 28 e dell’area 03 dello Zonta International, celebrano il coraggio e la determinazione di donne che contribuiscono alla loro comunità supportando altre donne nella loro formazione e professione.

Protagoniste dell’edizione 2024 sono sei professioniste che si sono distinte nei campi dell’arte, della cultura, dell’imprenditoria, della medicina, della musica e delle Stem – le discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche. La premiazione si svolgerà domani, sabato 9 marzo, a Palermo, al Museo Palazzo Branciforte, e per la categoria Stem il riconoscimento – una rosa gialla, simbolo di Zonta e del premio – andrà all’astrofisica Giusi Micela dell’Inaf di Palermo, per “aver sostenuto le donne e le ragazze nella leadership, nel processo decisionale, negli affari e nelle discipline Stem”.

«Sono profondamente onorata di ricevere questo premio», dice Micela a Media Inaf. «Non solo per il suo significato intrinseco, ma anche per la sua connessione con l’8 marzo. Ho avuto la fortuna di dedicarmi a un lavoro che amo, affiancata da un team eccezionale. Credo fermamente nell’importanza di creare un ambiente che offra a tutte le ragazze l’opportunità di studiare e perseguire i propri sogni».

Tema della campagna per la Giornata internazionale della donna 2024 è Inspire Inclusion (ispirare l’inclusione), argomento che da anni è al centro di iniziative Inaf organizzate in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Tra queste, l’incontro che si è svolto il 9 febbraio scorso proprio a Palermo e che ha permesso all’organizzazione Zonta di conoscere il lavoro e l’impegno dell’Inaf nella promozione della cultura scientifica. Momenti di riflessione come questi permettono di comprendere e sostenere il ruolo cruciale dell’inclusione nel raggiungimento dell’uguaglianza di genere per abbattere le barriere, sfidare gli stereotipi e creare ambienti in cui tutte le donne di ogni ceto sociale, comprese quelle provenienti da comunità emarginate, siano apprezzate e rispettate.

«Mi auguro che questo riconoscimento trasmetta il messaggio che la fisica e, più in generale, le cosiddette scienze “dure”, siano discipline in cui le donne possono apportare un contributo significativo con la loro intelligenza e creatività», conclude Micela. «Spero che questo premio sia di ispirazione per tutte le ragazze e dimostrare che ogni sogno è possibile con impegno e passione».

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Australia, al via l’installazione di Ska-Low


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Le prime antenne Ska-Low sono state installate in Australia Occidentale. Crediti: Skao

Prende forma il telescopio Ska-Low dell’Osservatorio Ska (Skao) in Australia occidentale: è iniziata ieri, mercoledì 6 marzo, l’installazione delle prime antenne a dipolo segnando un grande passo avanti nella costruzione di Skao. Il progetto, una volta terminato, sarà il più grande radiotelescopio al mondo, con antenne a bassa frequenza (50 MHz – 350 MHz) in Australia e antenne paraboliche a media frequenza (Ska-Mid) in Sudafrica.

Le prime, dicevamo, di ben 131.072 antenne dalla curiosa forma ad “albero di Natale”, alte due metri e che comporranno, una volta dispiegate tutte, il radiotelescopio dell’Inyarrimanha Ilgari Bundara, l’Osservatorio radioastronomico Murchison (di Csiro), nel paese della comunità Wajarri. Le antenne verranno distribuite tra 512 stazioni (256 antenne per stazione), attraverso una regione di 74 chilometri e un’area di raccolta di 419mila m², il che significa che anche il segnale più debole potrà essere rilevato, combinato e potenziato in un modo mai stato possibile prima.

Sei i paesi dietro la progettazione del telescopio Ska-Low: Australia, Cina, Italia, Malta, Paesi Bassi e Regno Unito. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha ottimizzato l’ultimo progetto di antenna (Aavs2) in collaborazione con l’Istituto di elettronica e di ingegneria dell’informazione e delle telecomunicazioni (Cnr-Ieiit) e il partner industriale Sirio Antenne, basandosi su progetti precedenti sviluppati all’interno del consorzio internazionale. Sirio si è aggiudicata l’appalto per la produzione delle prime 77mila antenne a dipolo per il telescopio.

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Le antenne prototipo del telescopio Ska-Low, Osservatorio Ska. Crediti: J. Monari/Inaf

«Il viaggio che ha portato alla progettazione, realizzazione e installazione di queste prime antenne», racconta Jader Monari, responsabile della Stazione radioastronomica di Medicina (Bo) dell’Inaf, «è stata un’esperienza fantastica, durata quasi oltre 20 anni. L’Italia è fortemente coinvolta nel progetto Ska, in particolare per le antenne Ska-Low: basti pensare che il modello di antenna installato oggi in Australia è stato creato utilizzando il prototipo ideato e realizzato da Inaf in collaborazione con il Cnr-Ieiit e l’azienda italiana Sirio Antenne – a partire da precedenti generazioni di antenne Skala progettate nel framework del consorzio “Aperture Array Design and Construction” sotto la guida olandese di Astron. Certo le sfide logistiche e pratiche legate alla distribuzione dell’array su un sito remoto dall’altra parte del pianeta sono moltissime, ma queste antenne ripagheranno di ogni fatica una volta messe in funzione».

Ska-Low consentirà agli scienziati di esplorare il primo miliardo di anni dopo la cosiddetta età oscura dell’universo. «Questi telescopi sono gli strumenti del futuro, ci permetteranno di testare le teorie di Einstein e di osservare lo spazio in modo più dettagliato», dice Phil Diamond, direttore generale di Skao. «Con queste antenne in Australia osserveremo la nascita e la morte delle prime stelle e galassie, raccogliendo preziosi indizi su come si è evoluto l’universo».

Dall’altra parte dell’Oceano Indiano, in Sudafrica, un traguardo simile è imminente per il telescopio a medie frequenze, che alla fine comprenderà 197 parabole. I componenti per le prime parabole Ska-Mid sono arrivati a Karoo a febbraio e l’assemblaggio è ora in corso.


Come crescono i buchi neri? La parola all’A.I.


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Una coppia di galassie a disco nelle fasi finali di una fusione. Crediti: Nasa

Quando sono attivi, i buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nell’evoluzione delle galassie. Finora si pensava che la loro crescita – o meglio, il loro accrescimento – fosse innescata dalla violenta collisione di due galassie seguita dalla loro fusione, ma una nuova ricerca condotta dall’Università di Bath suggerisce che le fusioni di galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare un buco nero: è necessaria anche una riserva di gas freddo al centro della galassia ospite.

Il nuovo studio, pubblicato questa settimana sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è il primo a utilizzare l’apprendimento automatico per classificare le fusioni di galassie con l’obiettivo specifico di esplorare la relazione tra fusioni di galassie, accrezione di buchi neri supermassicci e formazione stellare.

Finora, le fusioni venivano classificate (spesso in modo errato) solo attraverso l’osservazione umana. «Quando gli esseri umani cercano le fusioni di galassie, non sempre sanno cosa stanno guardando e usano molto l’intuito per decidere se è avvenuta una fusione», dice Mathilda Avirett-Mackenzie, dottoranda presso il Dipartimento di fisica dell’Università di Bath e prima autrice della ricerca. «Addestrando una macchina a classificare le fusioni, si ottiene una lettura molto più veritiera di ciò che le galassie stanno effettivamente facendo».

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire cosa stanno cercando gli autori e perché.

I buchi neri supermassicci si trovano al centro di tutte le galassie massive (per intenderci, la Via Lattea, con circa 200 miliardi di stelle, è solo una galassia di medie dimensioni). Questi buchi neri “sovradimensionati” pesano in genere da milioni a miliardi di volte la massa del Sole. Per la maggior parte della loro vita sono quiescenti, ossia se ne stanno tranquilli mentre la materia gli orbita intorno, e hanno un impatto minimo sulla galassia nel suo complesso. Ma per brevi fasi della loro vita (brevi solo su scala astronomica e molto probabilmente della durata di milioni o centinaia di milioni di anni), sfruttano la forza gravitazionale per attirare verso di sé grandi quantità di gas (un evento, questo, noto come accrezione), dando origine a un disco luminoso che può oscurare l’intera galassia.

Sono queste brevi fasi di attività le più importanti per l’evoluzione delle galassie, poiché le massicce quantità di energia rilasciate dall’accrezione possono influire sul modo in cui si formano le stelle all’interno delle galassie stesse. È per un valido motivo, quindi, che stabilire che cosa fa muovere una galassia tra i suoi due stati – quiescenza e formazione stellare – è una delle più grandi sfide dell’astrofisica.

Per decenni, i modelli teorici hanno suggerito che i buchi neri supermassicci entrano nella fase di accrezione quando le galassie si fondono. Tuttavia, studiando la connessione tra le fusioni di galassie e la crescita dei buchi neri per molti anni, gli astrofisici hanno messo in discussione questi modelli con una semplice domanda: come possiamo identificare in modo affidabile le fusioni di galassie?

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Situate a circa 65 milioni di anni luce di distanza, le Antenne – note anche come Ngc 4038 e Ngc 4039 – sono chiuse in un abbraccio mortale. Entrambe le galassie un tempo erano tranquille spirali come la Via Lattea, ma la coppia ha trascorso le ultime centinaia di milioni di anni ad avvinghiarsi l’una con l’altra. Nell’immagine è evidente come le stelle, strappate dalle loro galassie ospiti, abbiano formato un arco di flusso tra le due. Crediti: Esa, Nasa

L’ispezione visiva è stato il metodo comunemente più utilizzato. I classificatori umani – esperti o cittadini scienziati – osservano le galassie e identificano asimmetrie elevate o lunghe code mareali (regioni sottili e allungate di stelle e gas interstellare che si estendono nello spazio), entrambe associate a fusioni di galassie. Tuttavia, questo metodo osservativo richiede molto tempo e non è affidabile, poiché è facile che gli esseri umani commettano errori di classificazione. Di conseguenza, gli studi sulle fusioni danno spesso risultati contraddittori. Per il nuovo studio, i ricercatori si sono posti la sfida di migliorare il modo in cui le fusioni vengono classificate, studiando la connessione tra la crescita dei buchi neri e l’evoluzione delle galassie attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale. Hanno addestrato una rete neurale su fusioni di galassie simulate, quindi hanno applicato questo modello alle galassie osservate nel cosmo.

In questo modo sono riusciti a identificare le fusioni senza pregiudizi umani e a studiare la connessione tra le fusioni di galassie e la crescita dei buchi neri. Hanno dimostrato che la rete neurale supera i classificatori umani nell’identificazione delle fusioni, mentre i classificatori umani tendono a confondere galassie regolari con delle fusioni.

Applicando questa nuova metodologia, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che le fusioni non sono fortemente associate alla crescita dei buchi neri. Le firme di fusione sono ugualmente comuni nelle galassie con e senza buchi neri supermassicci in fase di accrescimento.

Utilizzando un campione estremamente ampio di circa 8mila sistemi di buchi neri in accrescimento – che ha permesso al team di studiare la questione in modo estremamente dettagliato – si è scoperto che le fusioni portano alla crescita di buchi neri solo in un tipo molto specifico di galassie: galassie in formazione stellare contenenti quantità significative di gas freddo. Questo dimostra che le fusioni di galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare i buchi neri supermassicci: devono essere presenti anche grandi quantità di gas freddo per consentire la crescita del buco nero.

«Per formare le stelle, le galassie devono contenere nubi di gas freddo in grado di collassare in stelle. Processi altamente energetici come l’accrezione di buchi neri supermassicci riscaldano questo gas, rendendolo troppo energetico per collassare o facendolo uscire dalla galassia», spiega Avirett-Mackenzie, aggiungendo: «In una notte limpida, è possibile individuare questo processo in tempo reale con la Nebulosa di Orione – una grande regione di formazione stellare nella nostra galassia, la più vicina alla Terra – dove si possono vedere alcune stelle che si sono formate di recente e altre che si stanno ancora formando».

«Finora tutti studiavano le fusioni nello stesso modo, attraverso una classificazione visiva. Con questo metodo, utilizzando classificatori esperti in grado di individuare caratteristiche più sottili, eravamo in grado di esaminare solo un paio di centinaia di galassie, non di più», afferma Carolin Villforth. «L’utilizzo dell’apprendimento automatico apre invece un campo completamente nuovo e molto stimolante, in cui è possibile analizzare migliaia di galassie alla volta. Si ottengono risultati coerenti su campioni molto ampi e, in qualsiasi momento, si possono esaminare molte proprietà diverse di un buco nero».

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Nessuno tocchi Apophis


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Il Kitt Peak National Observatory in Arizona, da dove nel 2004 è stato scoperto Apophis. Crediti: Kpno/Noirlab/Nsf/Aura/B. Tafreshi Photo

Il 19 giugno 2004, quasi 20 anni fa, Roy Tucker, David Tholen e Fabrizio Bernardi dall’osservatorio di Kitt Peak (Arizona) scoprirono l’asteroide near-Earth 2004 MN4, ora noto come (99942) Apophis. Questo asteroide, per diversi mesi dopo la scoperta, è stato il corpo minore con la più alta probabilità di impatto con la Terra, che crollò a zero appena fu possibile disporre di un numero sufficiente di osservazioni astrometriche. Dal punto di vista dinamico l’asteroide si muove su un’orbita inclinata di pochi gradi sul piano dell’eclittica con un semiasse maggiore di 0,9227 unità astronomiche (au) e un’eccentricità di 0,1914 che viene percorsa in circa 324 giorni. Questo significa che al perielio l’asteroide arriva fino a 0,746 au dal Sole, mentre all’afelio si porta a 1,099 au. Come si vede si tratta di un asteroide su un’orbita di tipo Aten, come tale trascorre la maggior parte del tempo all’interno dell’orbita terrestre ed è per questo motivo che le osservazioni astrometriche sono difficili: per lo più l’asteroide è troppo vicino al Sole per poter essere osservato agevolmente.

Dalla meccanica celeste sappiamo che non vi è alcun rischio che Apophis possa colpire il nostro pianeta per almeno un secolo, anche se la sera del 13 aprile 2029 alle 21:46 Utc, l’asteroide passerà a circa 37400 km dal centro della Terra. Considerate le dimensioni non indifferenti, circa 350 metri di diametro, e la distanza ridotta Apophis potrà essere visto in cielo, a occhio nudo, brillante come una stella di terza grandezza e in sensibile movimento sulla sfera celeste: sarà il primo asteroide a essere chiaramente visibile a occhio nudo.

In attesa del flyby di Apophis possiamo riflettere sul fatto che la frase “Apophis non colliderà con la Terra per almeno un secolo”, vale solo nell’ipotesi – sottointesa – che non ci siano “interferenze” da parte di altri corpi minori del Sistema solare. Di solito, quando si propaga la posizione di un asteroide avanti nel tempo, si tiene conto sia della gravità del Sole, sia di quella dei pianeti e degli asteroidi maggiori e anche dell’effetto della radiazione solare, ma nelle simulazioni numeriche non si includono tutti i corpi minori noti. In effetti questi ultimi potrebbero anche collidere con il nostro asteroide e cambiarne l’orbita, com’è avvenuto a Dimorphos quando è stato colpito dalla sonda Dart della Nasa. Potrebbe succedere una cosa del genere ad Apophis? Potrebbe, la collisione con un altro asteroide, immettere Apophis su un’orbita di impatto con la Terra? Si tratta di un evento assai improbabile, ma considerate le dimensioni ragguardevoli di Apophis e la ridotta distanza del flyby con la Terra meglio esserne davvero sicuri. Tanto più che non è solo un problema di collisione diretta di Apophis con un altro asteroide: anche i passaggi ravvicinati potrebbero essere rischiosi per l’eventuale presenza di satelliti o massi, dovuti a una precedente collisione o a un’attività di superficie dell’asteroide principale.

Questa è la domanda che si è posto l’astronomo Paul Wiegert del Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università del Western Ontario (Canada) che, insieme al collega Ben Hyatt (Università di Waterloo, Canada), ha cercato di ottenere una risposta. Il problema, in linea di principio, è apparentemente facile: si prendono tutti i corpi minori conosciuti (circa 1,3 milioni fra asteroidi e comete), e se ne propaga in avanti nel tempo l’orbita per vedere se da qui al flyby del 2029 ne esiste qualcuno che possa trovarsi a distanza ravvicinata con Apophis. Dal punto di vista pratico una cosa del genere richiederebbe tantissimo tempo computazionale, quindi bisogna prima di tutto ridurre il numero dei potenziali asteroidi che possono interferire con Apophis. Wiegert e Hyatt hanno preso in considerazione due cataloghi di corpi minori: lo Small-Body Database, mantenuto dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa (con 1,3 milioni di asteroidi e comete) e il NeoDyS-2 database, mantenuto dalla SpaceDyS di Pisa per conto dell’Esa (con circa 32mila oggetti near-Earth). Da questi cataloghi sono stati subito eliminati asteroidi e comete che non possono intersecare l’orbita di Apophis perché hanno il perielio più grande dell’afelio del nostro o viceversa. Questa prima scrematura ha ridotto il catalogo del Jpl a circa 30mila oggetti che sono stati analizzati ulteriormente, insieme a tutti quelli di NeoDyS-2, calcolandone la Moid (Minimum Orbit Intersection Distance) con l’orbita di Apophis. Alla Moid, la distanza minima che possono raggiungere due corpi che si muovono su orbite diverse, è stato posto un limite superiore a 0,001 au: tutti i corpi minori con Moid superiore a questo limite (pari a circa 150mila km), sono stati eliminati. In questo step gli elementi orbitali di ciascun oggetto sono stati mantenuti costanti, ossia sono state trascurate le perturbazioni gravitazionali dei pianeti. Così sono rimasti 376 oggetti del catalogo Jpl e 396 del catalogo NeoDyS-2, con 322 comuni alle due liste. A questo punto sono state propagate numericamente le orbite nel futuro (stavolta tenendo conto delle perturbazioni gravitazionali planetarie, ma senza includere l’effetto Yarkowsky) usando duemila cloni per ogni asteroide generati dalla matrice di covarianza, in modo tale da tenere in dovuto conto le incertezze orbitali intrinseche per ogni asteroide. Dalle simulazioni numeriche sono stati estratti solo gli asteroidi aventi almeno un clone con una Moid inferiore a 10mila km rispetto all’orbita di Apophis e con una differenza di tempo di volo, inferiore a 12 ore. Il tempo di volo è il tempo per andare dalla posizione corrente alla Moid, quando la differenza è zero si ha la collisione.

L’unico asteroide che ha ben mille cloni che rispettano queste condizioni in entrambi i database è risultato il near-Earth (4544) Xanthus per il 25 dicembre 2026, con una Moid di 9600 km e una differenza di tempo di volo di -4 ore: Xanthus, che ha un diametro stimato di 1,3 km, passerà alla Moid 4 ore dopo Apophis e la distanza minima fra i due asteroidi sarà di oltre 500mila km. Non esistono satelliti noti per Xanthus, e anche se ci fossero sarebbero troppo vicini al corpo principale per poter collidere con Apophis. Inoltre si tratta di un asteroide che non si è mai mostrato attivo e anche la perturbazione gravitazionale che eserciterà su Apophis nel passaggio alla minima distanza avrà effetti trascurabili. Dai calcoli sono usciti altri asteroidi che rispettano i criteri di cui sopra, come 2009 JG2, 2016 FB12, 2022 KN3 o 2016 CL18, ma le probabilità di collisione sono in tutti i casi zero. Eventualmente questi asteroidi potranno essere osservati per vedere se si tratta di asteroidi attivi che possano avere disseminato l’orbita con massi di varie dimensioni che possano colpire Apophis, ma la probabilità è estremamente bassa. In sostanza, fino al 2029 possiamo stare tranquilli; Apophis non devierà dalla sua orbita per effetto di collisioni con altri corpi minori noti.

Naturalmente noi non conosciamo tutti i corpi minori del Sistema solare. Ad esempio si stima che i piccoli asteroidi near-Earth di qualche metro di diametro siano circa un paio di miliardi. Si tratta di asteroidi che colpiscono la Terra e si disintegrano in atmosfera in media ogni due settimane e che in qualche caso vengono scoperti poche ora prima di colpire il nostro pianeta, come è successo recentemente per 2023 CX1 e 2024 BX1. In effetti Apophis potrebbe collidere con un asteroide ancora sconosciuto di piccole dimensioni e questo potrebbe cambiare l’orbita quel tanto che basta per collidere con la Terra nel 2029. Quanto è probabile uno scenario del genere? Considerato che il rapporto fra la “sezione d’urto” della Terra e di Apophis è circa un miliardo possiamo aspettarci una collisione di Apophis con i piccoli asteroidi near-Earth circa una volta ogni 10 milioni di anni. Anche l’imprevisto è assai improbabile, per quanto riguarda Apophis si può stare tranquilli.

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Antenne astrometriche per onde gravitazionali


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Mariateresa Crosta, ricercatrice all’Osservatorio astrofisico dell’Inaf di Torino e prima autrice dello studio sulle antenne astrometriche per onde gravitazionali pubblicato su Scientific Reports. Crediti: Federica Santucci/Inaf Torino

La recente conferma sperimentale delle onde gravitazionali con le grandi antenne lineari Ligo e Virgo ha dato grande impulso alla ricerca e caratterizzazione fisica di candidate sorgenti di onde gravitazionali, aggiungendo un tassello fondamentale all’astrofisica multi-messaggera. Nuovi esperimenti da Terra sono in procinto di unirsi agli sforzi di rivelazione e la missione Lisa implementerà modalità simili ma specializzate per lo spazio. L’obiettivo primario di tali imprese – e di quelle a venire, come l’Einstein Telescope – è la completa caratterizzazione delle onde gravitazionali, ovvero la determinazione in ampiezza e frequenza della deformazione spazio-temporale associata, insieme all’individuazione della direzione delle possibili sorgenti, al fine di scoprire la natura fisica delle stesse attraverso campagne osservative multi-lunghezza d’onda e multi-messaggere, nonché l’astrofisica di oggetti compatti e il loro ruolo nella cosmologia.

Un nuovo approccio sperimentale, illustrato in un articolo a guida Inaf pubblicato la settimana scorsa su Scientific Reports, promette ora una rivoluzione nel settore: usare le stelle – e in particolare le variazioni della loro distanza angolare indotte dalla perturbazione dello spaziotempo – come rivelatori di onde gravitazionali. Alternativo alle altre tecniche, unito all’utilizzo di configurazioni ottiche a più linee di vista “convogliate” su un piano focale comune, il rilevamento astrometrico di onde gravitazionali consentirebbe di misurare contemporaneamente all’ampiezza, e con un’accuratezza senza precedenti, anche la direzione di arrivo dei segnali gravitazionali: un’informazione, quest’ultima, fondamentale per le campagne di caratterizzazione fisica multi-frequenza e multi-messaggera. E rappresenterebbe uno strumento ad altissima efficienza: consentirebbe non solo una verifica indipendente e complementare delle altre tecniche, ma anche di rilevare onde gravitazionali a frequenze per le quali non sono attualmente previsti altri rivelatori.

«L’idea nasce da un’intuizione derivata dai modelli di relatività generale per le misure astrometriche al micro-arcosecondo del satellite Gaia», spiega la prima autrice dello studio, Mariateresa Crosta dell’Inaf di Torino. «La sua originalità sta nella sua impostazione tutta differenziale. L’antenna astrometrica da noi proposta utilizza direttamente l’angolo tra una coppia stretta (anche solo prospettica) di due sorgenti puntiformi otticamente risolte. Infatti, come formalizzato nel lavoro pubblicato, la perturbazione angolare indotta da un’onda gravitazionale risulta direttamente proporzionale alla distorsione spaziotemporale a essa associata e inversamente proporzionale all’angolo (risolto) tra la coppia di stelle, pertanto amplificata dalla risoluzione del telescopio, aumentando la quale si risolvono separazioni sempre più strette. In perfetta analogia “duale” con le antenne lineari, l’angolo della coppia di stelle materializza un braccio angolare: così come aumentando la lunghezza ‘L’ del braccio di un’antenna lineare l’effetto della perturbazione diventa più facile da misurare, è risolvendo angoli sempre più piccoli che possiamo aumentare la misurabilità dell’effetto dell’onda gravitazionale indotto su un braccio (angolare)».

Facendo ricorso a sorgenti in cielo, il principio ricorda per alcuni aspetti quello alla base del Pulsar Timing Array (Pta), grazie al quale è stato possibile rivelare per la prima volta un brusio di fondo dovuto a onde gravitazionali a bassissima frequenza. Mentre il Pulsar Timing Array misura i residui degli intervalli di tempo di arrivo del segnale nella rete di pulsar riconducibili a variazioni dello spazio-tempo indotte da un’onda gravitazionale, l’antenna astrometrica misura, in pratica, la parte spaziale del segnale. Il vantaggio della formulazione differenziale, ovvero in termini di angoli tra le sorgenti in cielo, consente di riscrivere una funzione di correlazione, di costruire una “rete” tra i vari punti del cielo, in tutto simile a quella del Pulsar Timing Array. «Difatti stiamo approntando una versione digitale di questo nostro nuovo principio di osservazione astrometrico per le onde gravitazionali in modo da sfruttare le misure astrometriche di Gaia, accumulate in dieci anni e più di osservazioni, per confrontarci, e complementarci, proprio con il Pta e vedere coincidenze per onde gravitazionali con periodi di anni», dice Crosta.

Insomma, l’idea – sostengono gli autori dello studio – promette di essere un punto di svolta nella scienza delle onde gravitazionali, che è appena agli inizi e resterà alla frontiera della ricerca scientifica per molti decenni. Certo, oggigiorno non esiste un telescopio capace di misurare variazioni angolari originate da onde gravitazionali prodotte da oggetti compatti in fase di coalescenza alle distanze extragalattiche. «Tuttavia», osserva Crosta, «una prima simulazione nel caso di buchi neri stellari massicci binari (per esempio, tra 20 e 80 masse solari) in pre-coalescenza che emettono segnali (quasi) periodici con frequenze dai centesimi ai decimi di Hz, ovvero con periodi dai 100 ai 10 secondi, indica che la variazione angolare indotta dall’onda gravitazionale potrebbe essere oltre la soglia delle decine di milionesimi di arcosecondo fino a distanze di cinquemila parsec dal Sole. E una facility come il Very Large Telescope Interferometer (Vlti) dell’Eso ha già una risoluzione angolare dell’ordine del millesimo di arcosecondo, equivalente – come riportato nel sito dell’Eso – a distinguere i due fari di un’automobile alla distanza della Luna. Stiamo di fatto valutando di testare il principio dell’antenna astrometrica gravitazionale. Va stabilito ovviamente un tempo di puntamento sufficiente a garantire la copertura di più periodi dell’onda, auspicando che oggetti così massicci esistano in numero sufficiente nella nostra galassia».

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Mille tonnellate d’ossigeno al giorno per Europa


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Questa vista della luna ghiacciata di Giove, Europa, è stata catturata dalla JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa durante il sorvolo ravvicinato della missione il 29 settembre 2022. Per una vista 3d della luna cliccate qui. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRI/Msss, Kevin M. Gill

Gli scienziati della missione Juno della Nasa hanno calcolato che il tasso di produzione di ossigeno sulla luna gioviana Europa è considerevolmente inferiore rispetto a quanto indicato dalla maggior parte degli studi precedenti. Pubblicati il 4 marzo su Nature Astronomy, i risultati sono stati ottenuti misurando il degassamento dell’idrogeno dalla superficie della luna ghiacciata utilizzando i dati raccolti dallo strumento Jovian Auroral Distributions Experiment (Jade).

Gli autori dell’articolo stimano che la quantità di ossigeno prodotta sia di circa 12 chilogrammi al secondo. Le stime precedenti variavano da pochi chilogrammi a oltre 1.000 chilogrammi al secondo. Quindi, anche se questi nuovi valori sono sensibilmente inferiori di quanto si pensava, la luna gioviana genera circa 1.000 tonnellate di ossigeno ogni 24 ore, sufficienti a far respirare un milione di esseri umani per un giorno.

Con un diametro equatoriale di circa 3.100 chilometri, Europa è la quarta più grande delle 95 lune conosciute di Giove e la più piccola dei quattro satelliti galileiani. Gli scienziati pensano che sotto la sua crosta ghiacciata si nasconda un vasto oceano di acqua salata e sono curiosi di sapere se sotto la superficie esistano condizioni adatte alla vita.

Non è solo l’acqua ad attirare l’attenzione degli astrobiologi: anche la posizione della luna gioviana gioca un ruolo importante in termini di potenzialità biologiche. L’orbita di Europa la colloca proprio al centro della cintura di radiazioni del gigante gassoso. Le particelle cariche, o ionizzate, provenienti da Giove bombardano la sua superficie ghiacciata, scindendo le molecole d’acqua e generando ossigeno che potrebbe finire nell’oceano della luna. Ossigeno che potrebbe costituire una fonte di energia metabolica.

«Europa è come una palla di ghiaccio che perde lentamente acqua in un flusso. Solo che, in questo caso, il flusso è costituito da un fluido di particelle ionizzate trasportate intorno a Giove dal suo straordinario campo magnetico», spiega Jamey Szalay, scienziato di Jade dell’Università di Princeton nel New Jersey. «Quando queste particelle ionizzate impattano con Europa, rompono il ghiaccio d’acqua molecola per molecola sulla superficie per produrre idrogeno e ossigeno. In un certo senso, l’intero guscio di ghiaccio viene continuamente eroso da ondate di particelle cariche che si riversano su di esso».

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Questa illustrazione mostra le particelle cariche provenienti da Giove che impattano sulla superficie di Europa, scindendo le molecole di acqua congelata in molecole di ossigeno e idrogeno. Gli scienziati ritengono che parte di questo ossigeno appena creato potrebbe migrare verso l’oceano sotterraneo della luna, come illustrato nell’immagine a lato. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Pu

Mentre Juno stava orbitando a meno di 354 chilometri da Europa, alle 23:36 del 29 settembre 2022, Jade ha identificato e misurato gli ioni di idrogeno e ossigeno creati dal bombardamento di particelle cariche e poi “raccolti” dal campo magnetico di Giove mentre passava accanto alla luna. «Quando la missione Galileo della Nasa ha sorvolato Europa, ci ha aperto gli occhi sulla complessa e dinamica interazione di Europa con il suo ambiente. Juno ha portato una nuova capacità di misurare direttamente la composizione delle particelle cariche rilasciate dall’atmosfera di Europa e non vedevamo l’ora di sbirciare ulteriormente dietro il sipario di questo emozionante mondo acquatico», racconta Szalay. «Ma non avevamo capito che le osservazioni di Juno ci avrebbero dato un vincolo così stretto sulla quantità di ossigeno prodotta sulla superficie ghiacciata di Europa».

Juno trasporta ben undici strumenti scientifici all’avanguardia progettati per studiare il sistema gioviano, tra cui nove sensori di particelle cariche e di onde elettromagnetiche per studiare la magnetosfera di Giove. «La nostra capacità di volare vicino ai satelliti galileiani durante la missione estesa ci ha permesso di iniziare ad affrontare un’ampia gamma di ricerche scientifiche, tra cui alcune opportunità uniche di contribuire all’indagine sull’abitabilità di Europa», dichiara Scott Bolton del Southwest Research Institute di San Antonio, principal investigator di Juno. «E non abbiamo ancora finito. Ci aspettano altri sorvoli della luna e la prima esplorazione dell’anello vicino di Giove, nonché della sua atmosfera polare».

La produzione di ossigeno è uno dei tanti aspetti che la missione Europa Clipper della Nasa analizzerà quando arriverà su Giove, nel 2030. La missione ha un sofisticato carico utile di nove strumenti scientifici per determinare se Europa presenta condizioni che potrebbero essere adatte alla vita.

Ora Bolton e il resto del team della missione Juno stanno puntando gli occhi su un altro mondo gioviano, la luna Io, ricca di vulcani. Il 9 aprile, la sonda si avvicinerà a circa 16.500 chilometri dalla sua superficie. I dati raccolti da Juno andranno ad aggiungersi ai risultati dei precedenti sorvoli di Io, tra cui due avvicinamenti estremamente ravvicinati di circa 1.500 chilometri il 30 dicembre 2023 e il 3 febbraio 2024.

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Gli Ufo? Si vedono meglio nel West


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Immagine che mostra un Uap. Il fotogramma è stato estratto dal video “Tic Tac Object: Unidentified Anomalous Phenomena“. Crediti: United States Navy

Sono fenomeni avvistati in aria, in mare o nello spazio la cui natura non è immediatamente spiegabile. Vengono descritti come oggetti tipicamente di forma sferica o ovale, che viaggiano ad alte velocità senza apparenti mezzi di propulsione. Sul loro conto ci sono molti punti interrogativi, ma una cosa è certa: a oggi non ci sono prove che siano il prodotto di tecnologie aliene.

Siamo parlando dei fenomeni anomali non identificati, unidentified anomalous phenomena (Uap), in inglese. Chiamati fino al 2020 Ufo, acronimo di unidentified flying objects, cioè oggetti volanti non identificati, nel corso degli anni sono stati segnalati numerosi avvistamenti di questi misteriosi fenomeni. E tra i paesi con il maggior numero di segnalazioni ci sono gli Stati Uniti d’America, che da qualche anno a questa parte ha manifestato maggiore interesse verso la questione, soprattutto in considerazione dei potenziali rischi per la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli Uap potrebbero rappresentare. Prova ne è l’istituzione nel 2022 dell’All-Domain Anomaly Resolution Office (Aaro), un nuovo ufficio incaricato di portare avanti gli sforzi del governo per migliorare la raccolta dei dati, standardizzare i requisiti di segnalazione e mitigare – appunto – le potenziali minacce alla sicurezza. O ancora la conversione in legge, nel 2023, del National Defense Authorization Act 2024, un testo che, tra le altre cose, ridefinisce la politica relativa a questi fenomeni anomali attraverso la costituzione di un registro unico delle segnalazioni (la Unidentified Anomalous Phenomena Records Collection), l’istituzione di un comitato di revisione dei documenti e l’esercizio, da parte del governo federale, dell’esproprio di tutte le tecnologie di origine sconosciuta e le prove biologiche di intelligenza non umana eventualmente recuperate.

Ma torniamo alla questione degli avvistamenti. Uno tra i canali non ufficiali a disposizione dei cittadini statunitensi per inviare segnalazioni relative a Uap è il National Ufo Reporting Center (Nuforc), un’organizzazione non governativa che dal 1974, anno in cui è stata fondata, riceve, registra e documenta gli avvisi di rilevamento di tali oggetti. Avvisi che riportano informazioni sull’avvistamento (data, luogo, descrizione dell’oggetto, eccetera) e che non hanno alcuna pretesa di validità, precisa il team del Reporting Center, sebbene venga fatto un lavoro di scrematura delle segnalazioni palesemente false, riservando una pagina a quelle più credibili. Dal 1994 a oggi, il sito web del Nuforc conta 180.442 segnalazioni.

Ora un team di ricercatori guidati dall’Università dello Utah, negli Usa, ha utilizzato questi rapporti per condurre un interessante lavoro di ricerca. L’obiettivo? Capire se esiste una correlazione tra queste segnalazioni e l’area geografica da cui provengono. E, in caso affermativo, comprendere quali sono i fattori locali dai quali dipende la maggiore o minore propensione all’avvistamento di Uap. I risultati della ricerca sono pubblicati alla fine dello scorso anno su Scientific Reports.

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Fonte: R. M. Medina et al., Scientific Reports, 2023

Le segnalazioni oggetto dello studio sono quelle pubblicate dal Nuforc dal 2001 al 2020, per un totale di circa 98mila report. Analizzando questo set di dati, e utilizzando un indice basato sul numero di rapporti di avvistamenti per 10mila persone per contea, i ricercatori hanno costruito una mappa che mostra la distribuzione geografica degli avvistamenti di Uap. Osservando tale mappa (qualcosa di simile è stata prodotta anche in Italia sulla base di avvistamenti segnalati all’Aeronautica Militare, ne abbiamo parlato qui su Media Inaf), quello che salta immediatamente agli occhi è che esistono aree con un maggior numero di avvistamenti, quelle che gli autori chiamano “punti caldi” (hot spot), e aree dove invece vi è un basso numero di segnalazioni, i cosiddetti “punti freddi” (cold spot). Dunque sì: esiste una correlazione tra le segnalazioni di avvistamenti di Uap e l’area geografica da cui provengono. Sono punti caldi Washington, l’Oregon, il Nevada e l’Arizona, ampie porzioni del New Mexico e dello Utah. Praticamente quasi tutti gli stati occidentali – il cosiddetto West, insomma. Spostandoci nella parte opposta, più precisamente a nord-est, il New England è un altro punto caldo, con il Vermont, il New Hampshire e il Maine, che ha registrato il maggior numero di avvistamenti. Eccetto altri hot spot isolati qua e là, tutte le altre aree degli Stati Uniti sono cold spot.

Quello che si sono chiesti a questo punto i ricercatori è perché in alcune località ci sono più avvistamenti di Uap rispetto ad altre. La risposta a questa domanda è emersa dall’analisi di cinque variabili, utilizzate dai ricercatori come attributi per definire ciascuna area geografica: tre sono variabili associate all’ambiente fisico, in particolare alla copertura del cielo, due sono invece legate all’attività aerea. Le variabili sono: inquinamento luminoso, copertura nuvolosa, copertura da parte della chioma di alberi, vicinanza ad aeroporti e installazioni militari.

I risultati di questa ulteriore indagine suggeriscono che la maggior parte delle segnalazioni di avvistamenti di Uap provengono dalla parte occidentale degli Stati Uniti per via della particolare geografia di queste aree. I punti caldi sono infatti risultati perlopiù essere aree caratterizzate da molti spazi aperti e cieli tersi. In pratica, spiegano i ricercatori, le persone segnalano più avvistamenti dove hanno una visione migliore del cielo. L’analisi ha inoltre mostrato che esiste una stretta relazione tra punti caldi, presenza di traffico aereo e attività militare, il che fa supporre che in questi luoghi le persone vedano meglio il cielo, individuino oggetti reali ma probabilmente non riconoscano cosa siano.

«L’idea è che se hai la possibilità di vedere qualcosa, allora è più probabile che vedrai fenomeni inspiegabili nel cielo», dice a questo proposito Richard Medina, professore di geografia presso l’Università dello Utah e primo autore dello studio. «Il West ha un rapporto storico con gli Uap. L’Area 51 in Nevada, Roswell nel New Mexico e lo Skinwalker Ranch e la struttura militare Dugway Proving Ground dell’esercito statunitense qui nello Utah, sono alcuni esempi che lo testimoniano. Inoltre, c’è una folta comunità di amanti della vita all’aria aperta che si dedica ad attività ricreative tutto l’anno. Essendo all’esterno, le persone guardano verso il cielo».

Come dicevamo in apertura, l’istituzione dell’All-Domain Anomaly Resolution Office e la conversione in legge del National Defense Authorization Act 2024 indicano che il governo statunitense vuole comprendere meglio questi misteriosi fenomeni, soprattutto in considerazione della minaccia che essi possono rappresentare per la sicurezza. E studi come questo dimostrano che gli Uap sono sotto i riflettori anche della comunità scientifica.

«Il governo degli Stati Uniti – l’esercito, l’intelligence e le agenzie civili – deve capire cosa c’è negli ambiti operativi per garantire la sicurezza e la protezione della nazione e del suo popolo», dice a questo proposito Sean Kirkpatrick, direttore dell’All-Domain Anomaly Resolution Office, professore di fisica all’Università della Georgia e co-autore dello studio. «Le incognite sono inaccettabili in questa epoca di sensori onnipresenti e disponibilità di dati. La comunità scientifica ha la responsabilità di indagare ed educare».

«Nel nostro studio», concludono i ricercatori, «non facciamo ipotesi su ciò che le persone vedono, diciamo solo che vedranno di più quando e dove ne avranno l’opportunità. Affrontiamo la questione degli Uap con cautela, sia per la complessità dell’argomento che per la sensibilità dei dati disponibili. La posizione del governo statunitense in questo senso è che “gli Uap pongono chiaramente un problema di sicurezza del volo e possono rappresentare una sfida alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Indipendentemente da ciò che vedono le persone, siano essi piloti militari, piloti civili o semplici cittadini, esiste una potenziale minaccia, che cresce man mano che crescono le nostre incertezze. I nostri risultati ci fanno fare un passo avanti verso la comprensione di queste minacce».

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Jwst osserva la più antica fra le galassie morte


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Immagine Jwst in falsi colori di una piccola frazione del campo Goods South, con Jades-Gs-z7-01-Qu in evidenza. Questo tipo di galassia è estremamente rara. Crediti: Jades Collaboration

Era il 1979 quando Neil Young pubblicò Rust never sleeps, un album che si apre con un brano che ha segnato la storia del rock: My My, Hey Hey (Out Of The Blue). E di quel brano, un verso è diventato leggenda: “It’s better to burn out than to fade away”. Ecco, protagonista dello studio pubblicato oggi su Nature è una galassia che, nelle prime centinaia di milioni di anni di vita dell’universo, ha anticipato il senso del celebre verso: a differenza della maggior parte delle galassie, lei è bruciata subito… invece di spegnersi lentamente.

Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, un team internazionale di astronomi guidato dalla Università di Cambridge ha individuato la galassia “morta” quando l’universo aveva appena 700 milioni di anni. Si tratta della più antica galassia di questo tipo mai osservata. Si chiama Jades-Gs-z7-01-Qu. È vissuta intensamente ed è morta giovane: la formazione stellare al suo interno è avvenuta rapidamente e si è fermata quasi altrettanto rapidamente, il che è inaspettato per una fase così precoce dell’evoluzione dell’universo. Tuttavia, non è chiaro se il suo stato di estinzionequenching, in inglese – sia temporaneo o permanente, e cosa l’abbia portata a smettere di formare nuove stelle.

I risultati pubblicati su Nature potrebbero essere importanti per aiutare gli astronomi a capire come e perché le galassie smettono di formare nuove stelle, e se i fattori che influenzano la formazione stellare sono cambiati nel corso di miliardi di anni.

«Le prime centinaia di milioni di anni dell’universo sono state una fase molto attiva, con molte nubi di gas che collassavano per formare nuove stelle», spiega Tobias Looser del Kavli Institute for Cosmology, primo autore del lavoro. «Le galassie hanno bisogno di una grande quantità di gas per formare nuove stelle e l’universo primordiale era come un buffet a volontà».

«Solo più tardi nell’universo cominciamo a vedere le galassie che smettono di formare stelle, a causa di un buco nero o di qualcos’altro», dice il coautore Francesco D’Eugenio, anche lui del Kavli Institute for Cosmology.

Gli astronomi ritengono che la formazione stellare possa essere rallentata o arrestata da diversi fattori, tutti in grado di privare una galassia del gas di cui ha bisogno per formare nuove stelle. Fattori interni, come un buco nero supermassiccio o il feedback della formazione stellare, possono spingere il gas fuori dalla galassia, causando un rapido arresto della formazione stellare. In alternativa, il gas può essere consumato molto rapidamente dalla formazione stellare stessa, senza essere prontamente reintegrato da gas “fresco” proveniente dai dintorni della galassia, con conseguente inedia della galassia.

«Non siamo sicuri che uno di questi scenari possa spiegare ciò che abbiamo visto con Webb», dichiara Roberto Maiolino. «Finora, per comprendere l’universo primordiale, abbiamo utilizzato modelli basati sull’universo moderno. Ma ora che possiamo vedere molto più indietro nel tempo e osservare che la formazione stellare in questa galassia si è spenta così rapidamente, i modelli basati sull’universo moderno potrebbero dover essere rivisti».

Grazie ai dati di Jades (Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey), gli autori hanno determinato che la galassia ha vissuto un breve e intenso periodo di formazione stellare in un arco di tempo compreso tra 30 e 90 milioni di anni. Ma tra i 10 e i 20 milioni di anni prima del momento in cui è stata osservata con Webb, la formazione stellare si è improvvisamente interrotta.

«Tutto sembra accadere più velocemente e più drammaticamente nell’universo primordiale, e questo potrebbe valere anche per le galassie, che passano da una fase di formazione stellare a una fase di quiescenza o di spegnimento», osserva Looser.

Gli astronomi avevano già osservato galassie morte nell’universo primordiale, ma questa è la più antica: appena 700 milioni di anni dopo il Big Bang, più di 13 miliardi di anni fa. Questa osservazione è una delle più profonde mai effettuate con Webb.

Oltre a essere la più antica, questa galassia ha anche una massa relativamente bassa – circa la stessa della Piccola Nube di Magellano, una galassia nana vicina alla Via Lattea, sebbene quest’ultima stia ancora formando nuove stelle. Altre galassie nell’universo primordiale erano molto più massicce, ma la maggiore sensibilità di Webb permette di osservare e analizzare galassie più piccole e meno luminose.

Sebbene appaia morta al momento dell’osservazione, è possibile che nei circa 13 miliardi di anni successivi sia tornata in vita e abbia ricominciato a formare nuove stelle. «Stiamo cercando altre galassie come questa nell’universo primordiale, che ci aiuteranno a porre alcuni vincoli su come e perché le galassie smettono di formare nuove stelle», conclude D’Eugenio. «Potrebbe darsi che le galassie dell’universo primordiale “muoiano” e poi riprendano vita: avremo bisogno di altre osservazioni per capirlo».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Discovery of a quiescent galaxy at z=7.3” di Tobias J. Looser, Francesco D’Eugenio, Roberto Maiolino, Joris Witstok, Lester Sandles, Emma Curtis-Lake, Jacopo Chevallard, Sandro Tacchella, Benjamin D. Johnson, William M. Baker, Katherine A. Suess, Stefano Carniani, Pierre Ferruit, Santiago Arribas, Nina Bonaventura, Andrew J. Bunker, Alex J. Cameron, Stephane Charlot, Mirko Curti, Anna de Graaff, Michael V. Maseda, Tim Rawle, Hans-Walter Rix, Bruno Rodríguez Del Pino, Renske Smit, Hannah Übler, Chris Willott, Stacey Alberts, Eiichi Egami, Daniel J. Eisenstein, Ryan Endsley, Ryan Hausen, Marcia Rieke, Brant Robertson, Irene Shivaei, Christina C. Williams, Kristan Boyett, Zuyi Chen, Zhiyuan Ji, Gareth C. Jones, Nimisha Kumari, Erica Nelson, Michele Perna, Aayush Saxena and Jan Scholtz


Spolverata di vita sulla Terra primordiale


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Un asteroide che si frantuma produce molta polvere cosmica che raggiunge la Terra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Prima che la vita esistesse sulla Terra, doveva esserci già una chimica in grado di formare molecole organiche complesse partendo da semplici elementi fondamentali come azoto, zolfo, carbonio e fosforo. Non solo: affinché le necessarie reazioni chimiche si inneschino e si mantengano, questi elementi devono essere presenti in abbondanza e con un rifornimento costante. Eppure questi “ingredienti” erano scarsamente presenti sul nostro pianeta – e scarseggiano tuttora: come può quindi essersi formata la vita?

Gli stessi processi geologici, come l’erosione delle rocce causata dagli agenti atmosferici, non sarebbero stati sufficienti a garantire un approvvigionamento adeguato di elementi chimici, scarseggiando anch’essi nella crosta terrestre dell’epoca. Da qui il mistero: come è stato possibile che, nei primi 500 milioni di anni della storia della Terra, si sia sviluppata una chimica prebiotica in grado di portare alle molecole organiche complesse – Rna, Dna, acidi grassi e proteine – alla base di ogni forma di vita? Da dove sono arrivate le quantità necessarie di zolfo, fosforo, azoto e carbonio?

Gli autori di uno studio guidato dal geologo Craig Walton del Politecnico di Zurigo, pubblicato il mese scorso su Nature Astronomy, ritengono che questi elementi chimici siano arrivati sulla Terra principalmente sotto forma di polvere cosmica. Polvere che, agli albori della storia del nostro pianeta, pioveva dallo spazio in quantità pari a milioni di tonnellate all’anno, e che ancora oggi cade sulla Terra al ritmo di circa 30mila tonnellate all’anno. È una polvere ricca di azoto, carbonio, zolfo e fosforo che si produce, per esempio, quando gli asteroidi si scontrano tra loro, per poi disperdersi con grande facilità – tanto che, su larga scala, non esiste luogo del Sistema solare in cui se ne riscontrino concentrazioni più elevate che altrove.

Questi due aspetti – dispersione e scarsa concentrazione – sembrerebbero in contrasto con l’ipotesi dei ricercatori. «Ma se si tiene conto dei processi di trasporto le cose cambiano», osserva Walton. I risultati da lui ottenuti in collaborazione con esperti di sedimentazione e astrofisici dell’Università di Cambridge mostrano, infatti, che sulla Terra primitiva potevano esserci siti con una concentrazione estremamente elevata di polvere cosmica, costantemente rifornita dallo spazio. Per arrivare a queste conclusioni, gli autori dello studio hanno sviluppato un modello computerizzato in grado di simulare la quantità di polvere cosmica caduta sulla Terra nei primi 500 milioni di anni della storia del nostro pianeta e i processi di accumulo al suolo, includendo le possibili interferenze del vento, della pioggia o dei fiumi, che potrebbero aver raccolto la polvere cosmica su una vasta area depositandola in luoghi circoscritti.

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Sedimenti e polvere cosmica si raccolgono nei buchi di fusione dei ghiacciai facilitando lo sviluppo della chimica prebiotica. Crediti: Kertu Liis Krigul

Ma dove andava a depositarsi la polvere cosmica se, come sostiene la maggior parte degli scienziati, la Terra è stata ricoperta da un oceano di magma per milioni di anni? «Ricerche più recenti hanno dimostrato che la superficie terrestre si è raffreddata e solidificata molto rapidamente, formando grandi calotte di ghiaccio», osserva a questo proposito Walton. Ebbene proprio queste calotte di ghiaccio, stando alle simulazioni, potrebbero essere state l’ambiente migliore per l’accumulo di polvere cosmica: i fori di fusione sulla superficie del ghiacciaio – noti come crioconiti, formazioni polverose con una combinazione di piccole particelle di roccia, fuliggine e batteri – avrebbero permesso l’accumulo non solo di sedimenti ma anche di grani di polvere provenienti dallo spazio. Ed è lì che, nel corso del tempo, gli elementi chimici sarebbero stati rilasciati dalle particelle di polvere cosmica, fino a che – raggiunto il valore soglia critico della loro concentrazione nell’acqua glaciale – sarebbero iniziate le reazioni chimiche che hanno portato alla formazione delle molecole organiche più complesse.

«Il freddo non interrompe la chimica organica, anzi: le reazioni sono più selettive e specifiche a basse temperature che ad alte temperature», nota Walton. Altri studi hanno dimostrato in laboratorio che semplici acidi ribonucleici (Rna) a forma di anello si formano spontaneamente in queste “zuppe di acqua di fusione” a temperature prossime al congelamento, e riescono a replicarsi. Rimarrebbe comunque da capire come queste reazioni avvengano, considerando che, a basse temperature, gli elementi necessari per costruire le molecole organiche si dissolvono solo molto lentamente dalle particelle di polvere.

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Schema di deposizione sedimentaria di crioconite ricca di polvere cosmica. a) I depositi a cielo aperto possono esistere al di sopra della falda acquifera locale, mentre i depositi diluiti si trovano al suo interno. b) i depositi di crioconite sono racchiusi su tutti i lati da ghiaccio debolmente poroso e ghiaccio freddo impermeabile. c) i depositi di crioconite sono instabili e la maggior parte di essi sarà drenata in tempi pluriennali. Nei laghi proglaciali potrebbe verificarsi un accumulo a lungo termine di specie derivate dalla polvere. Crediti: Nature Astronomy

Per il team di ricerca, il prossimo passo sarà quello di verificare sperimentalmente la nuova teoria in laboratorio, utilizzando grandi recipienti di reazione per ricreare le condizioni iniziali su quelle che probabilmente esistevano in un buco di crioconite quattro miliardi di anni fa, e osservando se effettivamente si sviluppano reazioni chimiche come quelle che producono molecole biologicamente rilevanti.

Nell’attesa, la tesi avanzata da Walton è destinata ad avviare un dibattito nella comunità scientifica. Già infatti nel 18esimo secolo gli scienziati ritenevano che gli “elementi della vita” – riscontrati in grandi quantità nelle rocce provenienti dallo spazio, ma non in quelle terrestri – potessero arrivati sulla Terra con le meteoriti. «L’idea delle meteoriti sembra convincente, ma c’è un problema», spiega Walton, puntando il dito sul fatto che una singola meteorite fornisce queste sostanze solo in un ambiente limitato: il luogo in cui colpisce il suolo è casuale e non sono garantiti ulteriori “rifornimenti” di materiale. «Ritengo improbabile che l’origine della vita dipenda da pochi pezzi di roccia sparsi in modo casuale. La polvere cosmica arricchita, al contrario, penso sia una fonte plausibile».

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Il tenero abbraccio dei gemelli


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Aspetto della Luna piena del 25 marzo da immagini della sonda Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro) della Nasa

La prima Luna piena di primavera, che quest’anno cade il 25 marzo, scandendo anche la data della Pasqua, ci riserva una sorpresa piuttosto stravagante: un’eclissi parziale di penombra, piuttosto complicata e praticamente impossibile da osservare in Italia. L’eclissi di penombra accade quando la Luna entra nella penombra della nostra Terra. È questa un’eclissi poco scenografica e il calo di luminosità della Luna è piuttosto lieve. Inoltre avviene quando la Luna sta per tramontare, al mattino presto: la Luna entrerà nella penombra alle 5:51 e tramonterà poco dopo. Il massimo dell’eclissi si avrà alle 8:12 con la Luna sotto l’orizzonte, così pure l’uscita dalla penombra alle 10:32. Meglio goder della Luna piena quando è alta nella notte. Sorgerà poco prima delle sette di sera e passerà al meridiano alla mezzanotte. Chi è nottambulo può godere del suo rilassante chiaro di luna.

Facendo un passo indietro, la primavera inizierà il 20 del mese. In questo giorno l’asse di rotazione terrestre giace in un piano perpendicolare alla congiungente Terra-Sole e quindi all’equatore il Sole sarà allo zenith, e in tutto il globo il dì e la notte avranno la stessa durata. Da quel giorno in avanti, nel nostro emisfero boreale, le ore di luce supereranno quelle della notte.

Il giorno 3 e il giorno 20 la Luna sarà poi vicinissima ad Antares. L’allineamento è visibile prima dell’alba in direzione dell’orizzonte sudest a partire dalle due e mezza del mattino, quando Antares sorgerà, e visibile fino all’alba con i due astri prossimi al meridiano sud. Sarà interessante vedere Antares arancione e la Luna argentea. Un’occasione per carpire le differenze cromatiche tra la luce del Sole riflessa dalla Luna e quella della supergigante rossa dello Scorpione.

I giorni vicini alla Luna nuova sono i migliori per osservare deboli galassie e nebulose, chiamate appunto “oggetti di profondo cielo”, generalmente osservabili con l’ausilio di un telescopio e cieli bui. In effetti è il mese ideale per osservare le galassie nella costellazione del Leone e l’ammasso di galassie nella Vergine e nella Chioma di Berenice. Le tre costellazioni culminano al meridiano quando il cielo è già buio. Sono tante le galassie di Messier visibili con telescopi amatoriali. Ad esempio M51 nella costellazione dei Cani da Caccia, appena sotto il timone dell’asterismo del Grande Carro, è un ottimo bersaglio per essere osservata con un telescopio anche piccolo, prossima allo zenith. Tuttavia, chi avesse soltanto un binocolo potrebbe cercare di osservare la stella 55 Cancri, nella costellazione del Cancro. Un sistema in realtà doppio con la stella principale simile al nostro Sole, chiamata anche Copernicus, e la stella secondaria una nana rossa – entrambe distanziate circa 41 anni luce da noi. Il sistema stellare ha cinque pianeti conosciuti orbitanti intorno alla stella principale.

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La costellazione dei gemelli nella notte del 18 marzo, con la luna nel mezzo del loro abbraccio.

Curioso notare che oltre ad avere un pianeta probabilmente costituito da lava (55 Cancri e), nel 2003 è stato mandato, verso questo sistema planetario, un messaggio, denominato Cosmic Call 2. Arriverà nel 2044 e speriamo che chi semmai lo riceverà non sia un vecchio imperatore arrabbiato ma una civiltà che riporti un po’ di umanità nel nostro pianeta.

Segnaliamo due panorami stellari interessanti. Il 13 marzo la Luna, con la sua falce sottile, appena dopo la Luna nuova, tramonterà vicino e in congiunzione con Giove. I due astri saranno visibili dopo il tramonto del Sole in direzione ovest e si avvicineranno sempre più all’orizzonte fino a toccarlo poco dopo le dieci di sera. Il 14 del mese, la Luna si troverà tra l’ammasso aperto delle Pleiadi e Giove. Saranno inizialmente osservabili dopo il tramonto del Sole a circa una cinquantina di gradi sopra l’orizzonte, e, attraversando l’orizzonte ovest, si avvicineranno sempre più al loro tramonto.

E in ultimo, per chi non ha confidenza con le costellazioni e non ha mai visto quella dei Gemelli, il 18 marzo è un’occasione speciale: in questo giorno la Luna sarà in mezzo alla costellazione dei Gemelli, un po’ in basso rispetto alle due stelle principali Castore e Polluce. Con un po’ di immaginazione possiamo pensare il nostro satellite proprio all’altezza del loro tenero abbraccio!

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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Tutti detective di macchie solari con Zooniverse


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Esempio di una pagina del registro delle osservazioni che contiene il disegno realizzato da Angelo Secchi il 22 giugno 1872 alle 8:50 ora locale. Il disegno mostra le macchie, i pori e le facole osservate nella fotosfera, la superficie del Sole, e i getti e le protuberanze cromosferiche osservate in proiezione al lembo solare. Oltre alle regioni osservate, sono presenti annotazioni che indicano la durata e le condizioni meteorologiche durante l’osservazione, etichette identificative assegnate alle regioni osservate, conteggi relativi alle macchie osservate e linee di riferimento che consentono di definire la loro posizione sul disco solare. Il disco solare nel disegno originale ha un diametro di circa 24,3 cm. Crediti: Inaf

Migliaia e migliaia di macchie solari studiate nella seconda metà del XIX secolo, registrate nei disegni prodotti dalle osservazioni del Sole effettuate in quel periodo, sono ancora in attesa di qualcuno che possa analizzarle alla luce delle conoscenze attuali per ottenere nuovi risultati scientifici utili a capire come varia l’attività del Sole nel corso degli anni. Ma ora ciascuno di noi ha la possibilità di farlo e dare il suo prezioso contributo alla ricerca, senza la necessità di avere specifiche competenze in astronomia o astrofisica. Prende il via oggi sulla piattaforma di citizen science zooniverse.org il progetto “Sunspot Detectives” – letteralmente “investigatori delle macchie solari” – promosso dall’Istituto Max Planck per la ricerca sul Sistema solare (Mps), in Germania, e in Italia dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Chiunque voglia cimentarsi può dedicare un p’ del proprio tempo per esaminare i disegni prodotti dalle osservazioni giornaliere del Sole effettuate dal gesuita scienziato Angelo Secchi e dai suoi collaboratori tra il 1853 e il 1878, conservati in una collezione di documenti di archivio di eccezionale valore. La raccolta contiene probabilmente l’insieme più completo di dati delle macchie solari del XIX secolo. Tali dati storici permettono di conoscere quanto è stata attiva nel passato la nostra stella e cosa potrebbe riservarci in futuro.

Nella seconda metà del XIX secolo fu creata a Roma una raccolta unica di dati del Sole. Per più di tre decenni il gesuita, sacerdote, astronomo ed eminente scienziato Angelo Secchi, con l’aiuto di alcuni collaboratori e assistenti, studiò al telescopio ogni giorno l’aspetto della nostra stella, riportando i risultati delle osservazioni in disegni realizzati a matita su fogli di carta. Con linee sottili vennero registrate la dimensione, la forma e la posizione di tutte le macchie solari che riuscivano a distinguere con l’aiuto dei loro telescopi installati all’osservatorio del Collegio Romano, realizzato pochi anni prima sul tetto della chiesa di Sant’Ignazio, nel centro di Roma. Gli oltre 5400 disegni – appartenenti all’Inaf e conservati presso l’Osservatorio astronomico di Roma – sono stati recentemente digitalizzati e possono ora essere analizzati alla luce delle conoscenze attuali per nuovi studi. La digitalizzazione dei disegni è avvenuta nell’ambito di un vasto programma di attività dell’Inaf volto a preservare il suo patrimonio storico, archivistico e culturale, in parte supportato con fondi delle donazioni del 5 per mille. Oltre alla conservazione, le immagini ottenute permettono anche la fruizione sistematica di quelle osservazioni nell’ambito della ricerca moderna. Per analizzare l’enorme quantità di informazioni contenute nelle immagini ottenute dai disegni, i ricercatori del Mps e dell’Inaf chiedono dunque aiuto ai cittadini attraverso il portale Zooniverse. Si tratta infatti di passare al setaccio oltre 15mila immagini – estratte dai disegni delle osservazioni del Sole effettuate da Secchi e dai suoi collaboratori – e contare il numero di macchie presenti, talvolta collocate in regioni ampie e complesse oppure in regioni molto piccole, a gruppi o isolate. Le immagini saranno accessibili sulla piattaforma per un anno.

Il Sole nel passato

«Quando guardiamo il Sole oggi, abbiamo una sua istantanea, una piccola parte della sua vita iniziata 4,6 miliardi di anni fa», spiega Theodosios Chatzistergos, ricercatore Mps e associato Inaf che ha ideato il progetto “Sunspot Detectives” di Zooniverse. «Solo uno sguardo nel passato del Sole può aiutarci a valutare quale comportamento può avere la nostra stella e cosa possiamo aspettarci da lei in futuro».

Il Sole segue cicli di attività della durata di circa 11 anni, alternando fasi di attività più debole e più forte. A tali cicli si sovrappongono variazioni dell’attività solare anche su scale temporali significativamente più lunghe del ciclo undecennale. Durante le sue fasi attive, il Sole è una vera fucina di fenomeni tanto spettacolari quanto energetici: le eruzioni di particelle e radiazioni si fanno frequenti, il vento solare – ovvero il flusso costante di particelle cariche provenienti dal Sole – “soffia” con particolare forza. Ma il segnale più appariscente di questa attività è dato dalla grande presenza di macchie solari, regioni magnetiche scure che appaiono sul disco della nostra stella spesso raccolte in gruppi, che insieme ad altre regioni magnetiche possono occupare una frazione significativa della superficie della stella. Nelle fasi tranquille, al contrario, non si verificano fenomeni eruttivi e le macchie appaiono raramente o sono del tutto assenti.

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Esempi di disegni con viste dettagliate e ingrandite di gruppi di macchie solari realizzati il 28 agosto 1859 (in alto) e il 16 febbraio 1865 (in basso). Il primo è all’interno del disegno del disco intero del Sole osservato quel giorno, mentre il secondo è uno schizzo a sé stante. La regione di interesse nell’immagine in alto è quella che ha dato origine all’evento di Carrington del 1 settembre 1859. Crediti: Inaf

Le macchie solari svolgono un ruolo centrale nella ricerca del Sole del passato. Poiché possono essere osservate anche con telescopi di piccole dimensioni, esistono registrazioni del numero e dell’evoluzione delle macchie solari che sono state studiate regolarmente da più di quattro secoli. «Il numero di macchie solari è la misura storica più importante dell’attività del Sole nell’era moderna, perché è l’unica misura diretta di cui disponiamo dell’attività della nostra stella negli ultimi quattro secoli», dice Chatzistergos. «Questa informazione ci permette di ricostruire il comportamento del Sole nei secoli passati e di confrontarlo con lo stato attuale».

Un Sole, molti osservatori

Per conoscere la storia dell’attività del Sole è fondamentale poter disporre di dati osservativi precisi del numero delle macchie solari apparse nel tempo. A tale scopo, i disegni prodotti al Collegio Romano da Angelo Secchi tra il 1853 e il 1878 promettono di essere particolarmente utili. La maggior parte delle altre serie di osservazioni dello stesso secolo, effettuate ad esempio a Dessau, Palermo, Potsdam o Surrey, coprono periodi più brevi, sono meno dettagliate o contengono solo il numero delle regioni viste riassunto in tabelle.

«I disegni prodotti da Secchi e collaboratori contengono molti dettagli delle macchie solari e delle altre regioni quiete e magnetiche presenti sulla superficie del Sole in quel periodo», spiega Ilaria Ermolli, ricercatrice Inaf. «Infatti, oltre alle informazioni sulla posizione e l’area delle le macchie e dei pori (regioni di macchia senza zone di penombra), molti disegni riportano anche dati delle regioni facolari, dei getti e delle protuberanze osservate insieme alle macchie e ai pori, e informazioni sull’evoluzione delle regioni esaminate. Alcune annotazioni a lato dei disegni documentano inoltre eventi storici e naturali, come ad esempio gli scontri in atto nel giorno della Breccia di Porta Pia che portò alla presa di Roma, e l’osservazione di spettacolari aurore boreali e tempeste geomagnetiche».

Il tesoro di informazioni scientifiche conservato nei disegni è enorme, come enorme è l’impresa necessaria per analizzarli, e non solo per il gran numero di disegni della collezione con migliaia di immagini dell’intero disco solare. I disegni realizzati da Secchi e dai suoi collaboratori mostrano infatti anche i segni del tempo: macchie di inchiostro o altro materiale e annotazioni di vario genere rendono difficile talvolta l’identificazione delle macchie. Inoltre, i vari osservatori che hanno realizzato i disegni – se ne possono riconoscere almeno cinque oltre a Secchi – raffigurarono le macchie in modo diverso. In particolare, Secchi era solito rappresentare le macchie esaminate in modo piuttosto schematico, mentre alcuni dei suoi collaboratori mostrarono maggiore attenzione (e forse anche maggior talento artistico) nel riportare i dettagli delle regioni osservate. Utilizzando sottili tratti di matita, hanno tracciato con grande dettaglio sulla carta la struttura fine di ogni regione.

I tentativi di automatizzare questo riconoscimento con l’applicazione di tecniche avanzate di analisi di immagini e machine learning finora non hanno prodotto risultati soddisfacenti, a causa dell’estrema varietà del contenuto dei disegni della collezione. Per questo motivo è nata l’idea di chiedere aiuto a ciascuno di noi con il progetto “Sunspot Detectives”. «Riconoscere tutte le macchie solari presenti nei disegni della collezione richiede uno sguardo attento e, soprattutto, degli esseri umani», conclude Chatzistergos.


Sull’onda dell’Onda di Radcliffe


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L’Onda di Radcliffe nella Via Lattea. Il punto giallo rappresenta il Sole, i punti blu individuano alcuni ammassi di stelle giovani, le linee magenta e verde mostrano come l’onda si muoverà in futuro. Crediti: Ralf Konietzka, Alyssa Goodman, and WorldWide Telescope

Da alcuni decenni è noto che la distribuzione della materia all’interno delle nubi gassose nella nostra galassia è caratterizzata da un andamento ondulatorio. Nel 2020 un’enorme increspatura estesa circa novemila anni luce lungo uno dei bracci di spirale della nostra galassia è stata presentata su Nature – nell’articolo “A Galactic-scale gas wave in the solar neighbourhood” di João Alves e colleghi – con il nome di Onda di Radcliffe.

L’Onda di Radcliffe si trova in corrispondenza del Braccio Locale, la sezione di spirale della Via Lattea in cui abita anche il Sole, e presenta picchi alti circa cinquecento anni luce sopra e sotto il piano medio del disco galattico. Di quest’onda non sono note né l’età né le cause, ma si tratta certamente della più grande struttura coerente di nubi di gas mai trovata nella Via Lattea, in cui si trovano alcune delle più note zone di formazione stellare della nostra galassia: Orione, Perseo e la Nebulosa Nord America.

Ora da uno studio pubblicato il mese scorso su Nature, guidato dallo stesso Istituto Radcliffe di Harvard che ha scoperto e dato il nome all’onda omonima, emerge non solo che l‘Onda di Radcliffe ha l’aspetto di un’onda, ma anche che si muove come un’onda: oscillando nello spazio-tempo e allontanandosi progressivamente dal centro della Via Lattea.

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Nel 2018 erano state mappate le posizioni tridimensionali delle nursery stellari nel quartiere galattico del Sole, e in seguito, combinando i più recenti dati della missione europea Gaia con la tecnica del 3D dust mapping, è stato notato uno schema ricorrente – un pattern – che ha portato nel 2020 alla scoperta dell’Onda di Radcliffe. Nel 2022 è stato possibile combinare i dati di Gaia aggiornati relativi alle velocità degli ammassi giovani dell’Onda di Radcliffe con le velocità delle nubi molecolari in banda radio. In questo modo si è riusciti a determinare che l’intera Onda di Radcliffe si sta muovendo come una vera e propria “onda viaggiante”: un fenomeno analogo a quello che si osserva quando le persone fanno la òla in uno stadio. Allo stesso modo, gli ammassi stellari lungo l’Onda si muovono su e giù a causa della gravità della Via Lattea, creando un pattern che viaggia attraverso il nostro vicinato galattico.

Il comportamento di questa struttura gargantuesca, distante soli cinquecento anni luce da noi, pone ai ricercatori una serie di domande ancora più impegnative. Per esempio, non è ancora chiaro cosa abbia causato l’Onda di Radcliffe e perché si muova in quel determinato modo.

«Le teorie sulla formazione dell’Onda di Radcliffe vanno dalle esplosioni di stelle massicce [ndr. le supernove] a perturbazioni esterne alla galassia, come una galassia satellite nana che si scontra con la nostra Via Lattea», spiega Ralf Konietzka, dottorando di ricerca a Harvard e primo autore dell’articolo.

Nello studio si indaga anche su quanta materia oscura potrebbe contribuire alla forza di gravità responsabile del moto dell’onda. «Sembra che non sia necessaria una quantità significativa di materia oscura per spiegare il moto che osserviamo», specifica Konietzka. «La gravità della materia ordinaria sembra sufficiente da sola a guidare l’andamento ondulatorio».

Un altro nodo importante da risolvere per i ricercatori riguarda la formazione di queste onde nella nostra e in altre galassie. Poiché questa struttura sembra costituire la spina dorsale di uno dei bracci di spirale della Via Lattea, l’oscillazione dell’onda potrebbe significare che i bracci di spirale delle galassie siano in generale oscillanti, implicando dunque che siano più dinamici di quanto si pensasse in precedenza.

«Questo studio è un importante passo in avanti nella comprensione delle proprietà di una delle strutture più interessanti scoperte di recente nella nostra galassia», commenta Germano Sacco, ricercatore Inaf esperto di popolazioni stellari giovani della nostra galassia, non coinvolto nel lavoro pubblicato su Nature. «Studiando il moto dell’Onda di Radcliffe, i colleghi hanno determinato indirettamente come è distribuita la massa nella zona del disco galattico dove si trova il Sole e hanno scoperto che la Radcliffe ha portato alla formazione della bolla locale. Ovvero un struttura che circonda il Sole formata di plasma caldo la quale, espandendosi, ha dato origine a molti dei sistemi stellari giovani più vicini. Nei prossimi anni sarà interessante capire se esistono altre strutture di questo tipo, come si formano e come influenzano la formazione delle stelle».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The Radcliffe Wave is Oscillating” di Ralf Konietzka, Alyssa A. Goodman, Catherine Zucker, Andreas Burkert, João Alves, Michael Foley, Cameren Swiggum, Maria Koller e Núria Miret-Roig


Viaggio nella formazione planetaria in 80 stelle


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Con una serie di studi, un gruppo di astronomi ha gettato nuova luce sull’affascinante e complesso processo della formazione dei pianeti. Le straordinarie immagini, catturate utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), in Cile, rappresentano una delle più grandi survey mai effettuate sui dischi di formazione planetaria. La ricerca riunisce le osservazioni di oltre 80 giovani stelle intorno a cui potrebbero formarsi pianeti, fornendo agli astronomi una grande quantità di dati e di approfondimenti unici su come nascono i pianeti nelle diverse regioni della nostra galassia.

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Dischi di formazione planetaria osservati con Shphere in tre nubi della Via Lattea. Crediti: Eso/C. Ginski, A. Garufi, P.-G. Valegård et al.

«Si tratta davvero di un cambiamento nel nostro campo di studi», dice Christian Ginski, docente all’Università di Galway, in Irlanda, e autore principale di uno dei tre nuovi articoli pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics. «Siamo passati dallo studio intenso dei singoli sistemi stellari a questa vasta panoramica di intere regioni di formazione stellare».

Sono stati finora scoperti più di cinquemila pianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole, spesso all’interno di sistemi nettamente diversi dal Sistema solare. Per capire dove e come nasce questa diversità, gli astronomi devono osservare i dischi ricchi di polvere e gas che avvolgono le giovani stelle, le culle stesse della formazione dei pianeti. Questi si trovano più facilmente nelle enormi nubi di gas in cui si stanno proprio formando le stelle.

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Dischi di formazione planetaria in tre regioni osservate da Sphere. Dall’alto: nube del Toro, nube del Camaleonte e nube di Orione. Crediti: Eso/A.Garufi et al.; Iras, Eso/C. Ginski et al.; Esa/Herschel, Eso/P.-G. Valegård et al.; Iras

Proprio come i sistemi planetari maturi, le nuove immagini mostrano la straordinaria diversità dei dischi che formano pianeti. «Alcuni di questi dischi mostrano enormi bracci a spirale, presumibilmente guidati dall’intricato balletto dei pianeti in orbita», spiega Ginski. «Altri mostrano anelli e grandi cavità scavate dai pianeti in formazione, mentre altri ancora sembrano lisci e quasi dormienti in mezzo a tutto questo trambusto di attività», aggiunge Antonio Garufi, astronomo all’Osservatorio astrofisico di Arcetri dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), e autore principale di uno degli articoli.

L’equipe ha studiato un totale di 86 stelle in tre diverse regioni di formazione stellare della nostra galassia: Taurus e Chamaeleon I, entrambe a circa 600 anni luce dalla Terra, e Orione, una nube ricca di gas a circa 1600 anni luce da noi nota come il luogo di nascita di numerose stelle più massicce del Sole. Le osservazioni sono state raccolte da un grande gruppo di ricerca internazionale, composto da scienziati provenienti da più di 10 paesi.

Il gruppo di lavoro ha raccolto diverse informazioni chiave dall’insieme dei dati. Per esempio, in Orione hanno scoperto che le stelle in gruppi di due o più avevano meno probabilità di avere grandi dischi di formazione planetaria. Questo è un risultato significativo dato che, a differenza del Sole, la maggior parte delle stelle della nostra galassia ha delle compagne. Oltre a ciò, l’aspetto irregolare dei dischi in questa regione suggerisce la possibilità che vi siano pianeti massicci incorporati al loro interno, il che potrebbe causare la deformazione e il disallineamento dei dischi.

Sebbene i dischi di formazione planetaria possano estendersi per distanze centinaia di volte maggiori della distanza tra la Terra e il Sole, la loro posizione a diverse centinaia di anni luce da noi li fa apparire come minuscole capocchie di spillo nel cielo notturno. Per osservare i dischi, l’equipe ha utilizzato il sofisticato strumento Sphere (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument) installato sul Vlt dell’Eso. Il sistema all’avanguardia di ottica adattiva estrema di Sphere corregge gli effetti di turbolenza dell’atmosfera terrestre, producendo immagini nitide dei dischi. Ciò significa che l’equipe ha potuto acquisire immagini di dischi attorno a stelle con masse pari alla metà della massa del Sole, che in genere sono troppo deboli per la maggior parte degli altri strumenti oggi disponibili. Ulteriori dati per la survey sono stati ottenuti utilizzando lo strumento X-shooter montato sul Vlt, che ha permesso agli astronomi di determinare quanto siano giovani e massicce le stelle. D’altra parte, Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso è partner, ha aiutato il gruppo a comprendere meglio la quantità di polvere che circonda alcune stelle.

Con l’avanzare della tecnologia, l’equipe spera di scavare ancora più a fondo nel cuore dei sistemi di formazione planetaria. Il grande specchio da 39 metri di diametro del futuro Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, per esempio, consentirà di studiare le regioni più interne dei dischi intorno alle giovani stelle, dove potrebbero formarsi pianeti rocciosi simili al nostro.

Per ora, queste immagini spettacolari forniscono ai ricercatori un tesoro di dati per aiutare a svelare i misteri della formazione dei pianeti. «È quasi poetico che i processi che segnano l’inizio del viaggio verso la formazione dei pianeti e, in definitiva, la vita nel Sistema solare siano così belli», conclude Per-Gunnar Valegård, studente di dottorato all’Università di Amsterdam, Paesi Bassi, che ha condotto lo studio su Orione. Valegård, che è anche insegnante part-time presso la Scuola Internazionale Hilversum nei Paesi Bassi, spera che le immagini ispirino i suoi alunni a diventare scienziati in futuro.

Fonte: comunicato stampa Eso

Guarda su MediaInaf Tv l’intervista ad Antonio Garufi:

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Per saperne di più:


Questa sera su Rai 1 “Margherita delle stelle”


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“Margherita delle stelle” è il film-tributo a Margherita Hack prodotto da Rai Fiction e Minerva Pictures. Va in onda oggi, martedì 5 marzo, in prima serata su Rai 1. Crediti: Rai

“Com’è che una donna, nata nel 1922, cresciuta con il fascismo, è riuscita a fare la scienziata? Io non ho una risposta da dare, ho solo la mia storia”. Queste parole di Margherita Hack chiudono il trailer del film realizzato da Rai Fiction e Minerva Pictures che andrà in onda questa sera alle 21.30, su Rai 1, e sono una perfetta sintesi del temperamento e della forza che hanno caratterizzato questa grande donna di scienza.

Margherita – interpretata da Cristiana Capotondi – era una donna libera, forte e autonoma, era un modello di emancipazione in un’epoca in cui queste caratteristiche spaventavano molto più di quanto non fossero un esempio. Non era solamente una scienziata. Per questo il film, diretto da Giulio Base e Monica Zapelli, e liberamente tratto dal libro Nove vite come i gatti scritto da Hack e Federico Taddia, racconta soprattutto gli anni meno noti della scienziata. Quelli della sua infanzia e adolescenza in cui emergevano la sua indipendenza, il suo anticonformismo, la curiosità e la forza con cui portava avanti le sue idee. Anni in cui Margherita si dedicava alle sue passioni – la bicicletta, lo sport –, in cui non aveva paura di essere diversa e in cui incontrava il suo Aldo, un marito che ha saputo appoggiare e far emergere ancora di più la sua determinazione.

E poi, la sua carriera accademica, la sua intelligenza, il suo amore per le stelle e ancora una volta la determinazione che l’ha portata a diventare la prima direttrice dell’Osservatorio astronomico di Trieste, una delle sedi dell’Inaf – assieme ad Arcetri e Roma – in cui è stato girato il film. Non solo Margherita delle stelle, però: la scienziata era anche e soprattutto Margherita della gente. Con il suo dono per la divulgazione ha saputo portare l’astronomia agli occhi di tantissime persone, trasmettendo loro la passione, l’amore e la meraviglia che lei stessa aveva nei confronti del cielo. Una capacità, questa, che come dimostra questo film, è diventata la sua eredità e continua tutt’ora.

«Abbiamo cercato – dice Giulio Base – di dare tutto il possibile affinché la meravigliosa epopea della professoressa Hack potesse emozionare nonché insegnare qualcosa al pubblico televisivo. Di sicuro da parte mia ho imparato ad amarla: proprio grazie a lei ho avuto una buona scusa per approfondire le prime basi dell’astrofisica e innamorarmi delle stelle, fra le quali senz’altro brilla oggi anche quella di Margherita».

Insomma, questa è la storia di una donna che in tempi non sospetti – e per nulla favorevoli – ha saputo costruirsi una vita su misura, senza accettare compromessi che potessero piegare i suoi ideali o limitare i suoi sogni.

Se volete un piccolo assaggio, potete guardare il trailer al link che vi lasciamo qui sotto.

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Misurata la gravità in un mondo (quasi) quantistico


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Impressione artistica dell’esperimento. Crediti: University of Southampton

Ancora non è chiaro come la gravità agisca nel piccolo mondo dei quanti e il regno quantico di Hank Pym in Ant-Man & The Wasp, seppure con tutto il suo fascino, non ci viene in aiuto. La gravità si differenzia da tutte le altre forze fondamentali conosciute perché in realtà non è altro che la manifestazione della curvatura dello spaziotempo. Per questo motivo, è restia all’unificazione con la teoria quantistica. L’interazione gravitazionale è fondamentalmente debole e diventa importante solo su scale macroscopiche. Ciò significa che non sappiamo cosa succede alla gravità nel regime microscopico, dove dominano gli effetti quantistici.

Persino Einstein rimase perplesso di fronte alla gravità quantistica e, nella sua teoria della relatività generale, disse che non c’era un esperimento realistico che potesse mostrare una versione quantistica della gravità. Ma ora i fisici dell’Università di Southampton – in collaborazione con scienziati europei, tra cui l’italiano Andrea Vinante dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie, Cnr e Fondazione Bruno Kessler – utilizzando una nuova tecnica, hanno rilevato una debole attrazione gravitazionale su una minuscola particella, e sostengono che questa scoperta potrebbe aprire la strada alla teoria della gravità quantistica.

L’esperimento, pubblicato sulla rivista Science Advances, ha utilizzato magneti levitanti per rilevare la gravità su particelle microscopiche, abbastanza piccole da sconfinare nel regno quantistico. L’autore principale della pubblicazione – Tim Fuchs, dell’Università di Southampton – ha dichiarato che i risultati potrebbero aiutare gli esperti a trovare il pezzo di puzzle mancante nel nostro quadro della realtà. «Per un secolo gli scienziati hanno cercato, fallendo, di capire come la gravità e la meccanica quantistica funzionino insieme. Ora che siamo riusciti a misurare con successo segnali gravitazionali sulla massa più piccola mai registrata, siamo un passo più vicini a capire finalmente come funzionano in tandem».

Gli accademici di Southampton hanno condotto l’esperimento con gli scienziati dell’Università di Leiden nei Paesi Bassi e dell’Istituto per la fotonica e le nanotecnologie in Italia, con il finanziamento della Horizon Europe EIC Pathfinder dell’UE (QuCoM). Il loro studio si è avvalso di una sofisticata configurazione che comprende dispositivi superconduttori, noti come trappole, con campi magnetici, rivelatori sensibili e un eccellente isolamento dalle vibrazioni. Così hanno misurato una forza di attrazione molto debole, di appena 30 attonewton (ossia 30 milionesimi di milionesimi di milionesimi di Newton), su una minuscola particella di 0,43 milligrammi, facendola levitare a temperature di congelamento di un centesimo di grado sopra lo zero assoluto, circa meno 273 gradi Celsius.

I risultati dell’esperimento estendono le misure di gravità a forze gravitazionali basse, dell’ordine dell’attonewton appunto, e sottolineano l’importanza dei sensori meccanici levitati di dimensioni mesoscopiche (ossia dimensioni intermedie tra quelle della fisica quantistica e della fisica classica), che offrono la possibilità di indagare la gravità, pur consentendo un controllo quantistico sul loro stato di moto. «La nostra nuova tecnica, che utilizza temperature estremamente fredde e dispositivi per isolare le vibrazioni della particella, si rivelerà probabilmente la via da seguire per misurare la gravità quantistica. Svelare questi misteri ci aiuterà a carpire altri segreti della struttura stessa dell’universo, dalle particelle più piccole alle strutture cosmiche più grandi», conclude Hendrik Ulbricht dell’Università di Southampton.

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Marte era un tempo una fucina di biomolecole


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La materia organica presente oggi su Marte potrebbe essersi originata dalla formaldeide, un precursore di importanti molecole biologiche essenziali per la vita. Il Pianeta rosso, inoltre, miliardi di anni fa sembrerebbe essere stato un mondo in cui zuccheri e aminoacidi, elementi costitutivi della vita, potrebbero essersi formati in abbondanti quantità. È questa la conclusione a cui è giunto un team di scienziati guidati dalla Tohoku University (Giappone). I risultati della ricerca, pubblicati su Scientific Reports, forniscono nuove indicazioni circa la presenza di vita passata sul pianeta.

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Schema della produzione di formaldeide su Marte circa tre miliardi e mezzo di anni fa. Crediti: Shungo Koyama et al., Scientific Reports, 2024

Oggi Marte è un mondo ostile, caratterizzato da un clima estremo. Diverse prove geologiche suggeriscono tuttavia che in un lontano passato il pianeta fosse molto diverso. Circa tre miliardi e mezzo di anni fa, Marte aveva un clima temperato, con un’atmosfera più densa e umida di quella odierna. In un ambiente del genere, il pianeta potrebbe aver avuto acqua liquida superficiale, un ingrediente chiave per la vita come la conosciamo.

La domanda che si sono posti Shungo Koyama, ricercatore alla Tohoku University, e colleghi è: in un simile ambiente, potrebbe essersi prodotta formaldeide? E ancora: è possibile che le molecole organiche presenti oggi su Marte abbiano avuto origine dalla formaldeide?

Per rispondere a questa domanda i ricercatori hanno condotto sofisticate simulazioni, ricostruendo nei loro modelli l’antica atmosfera del pianeta. Nel codice utilizzato – Proteus, acronimo di Photochemical and Radiation Transport Model for Extensive Use – i ricercatori hanno contemplato sessantatré reazioni chimiche, che hanno coinvolto specie reagenti neutre, specie radicaliche – cioè molecole con un elettrone spaiato nei loro orbitali – e ioni. Le condizioni iniziali della simulazione hanno previsto un’atmosfera con una pressione di due bar dominata da anidride carbonica, con concentrazioni minori di idrogeno molecolare e monossido di carbonio. Al termine della simulazione, i ricercatori hanno ottenuto una stima della produzione atmosferica di formaldeide.

L’interesse verso la formaldeide non è casuale. Si tratta, infatti, di una molecola organica che può formarsi facilmente nelle atmosfere planetarie attraverso varie reazioni chimiche. Inoltre, è una specie chimica solubile e reattiva, e quindi ha il potenziale per svolgere un ruolo significativo nella sintesi di importanti molecole biologiche. Reazioni che coinvolgono la formaldeide possono portare ad esempio alla produzione di aminoacidi, i precursori delle macromolecole biologiche che chiamiamo proteine. E possono portare anche alla formazione di zuccheri come il ribosio, un elemento fondamentale per formare lo scheletro zucchero-fosfato che costituisce l’ossatura dell’Rna – molecola chiave per l’origine della vita come la conosciamo. Pertanto, determinare se l’ambiente superficiale del primo Marte può aver favorito la produzione di formaldeide è fondamentale per comprendere se ci sia stata un’evoluzione della chimica prebiotica del pianeta, e se questa possa eventualmente aver portato allo sviluppo di qualche forma di vita.

I risultati della simulazioni suggeriscono che l’antica atmosfera di Marte sarebbe potuta essere una sorgente continua di formaldeide e che questa avrebbe potenzialmente potuto portare alla formazione di vari composti organici, compresi aminoacidi e zuccheri, spiegano i ricercatori. La molecola, inoltre, potrebbe essere all’origine della materia organica presente oggi sul pianeta. In particolare, per quanto riguarda la formazione degli zuccheri, lo studio suggerisce che la formaldeide possa aver contribuito a una produzione continua di molecole biologicamente rilevanti come il ribosio, soprattutto durante il periodo noachiano – da 4.1 ai 3.7 miliardi di anni fa – e primo esperiano – da 3.7 a 3 miliardi di anni fa. A questo proposito, l’ipotesi dei ricercatori è che durante questi periodi geologici la continua conversione di anidride carbonica e monossido di carbonio in formaldeide possa aver saturato l’atmosfera di Marte, favorendo la solubilizzazione di grandi quantità della molecola negli oceani. Qui, tramite la reazione del formosio –o reazione di Butlerov, dal nome del suo scopritore, il chimico russo Aleksandr Michajlovič Butlerov –, la formaldeide sarebbe stata convertita in zuccheri.

Nello studio i ricercatori stimano le quantità di ribosio che potrebbero essersi formate. Ipotizzando che circa 3.8 miliardi di anni fa un terzo della superficie di Marte fosse ricoperta di oceani, che il pH (cioè la concentrazione di ioni H+) di questi oceani fosse neutro e che sul pianeta vi fosse un ciclo dell’acqua simile a quello della Terra, i ricercatori hanno calcolato un produzione annuale della molecola pari a circa 40 tonnellate. Cominciata nel neochiano, questa produzione di ribosio sarebbe continuata sino all’inizio dell’amazzoniano. Da qui in poi, sottolineano i ricercatori, la possibilità di formare elementi costitutivi della vita è diminuita drasticamente per via dell’aumento dell’acidità degli oceani, da cui le reazioni che producono zuccheri e amminoacidi dipendono.

La nuova ricerca fornisce informazioni cruciali sui processi chimici che potrebbero essersi verificati su Marte. Rivelando l’esistenza di condizioni favorevoli alla formazione di biomolecole, lo studio amplia la nostra comprensione dell’antica capacità del pianeta di sostenere la vita. l’obiettivo futuro è comprendere se la materia organica oggi presente su Marte sia davvero derivata dalla formaldeide. Per farlo, verrà inclusa nei modelli la composizione isotopica del carbonio attesa in presenza di questa molecola nell’antico Marte, e verrà confrontata con i dati provenienti dalle attuali missioni sul pianeta. In questo modo si avrà un quadro migliore dei processi che hanno plasmato la chimica organica del Pianeta rosso.

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Nelle galassie piccole c’è l’Uv buona


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L’ammasso di Pandora (Abell 2744). Crediti: Nasa, Esa, Csa, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (Stsci)

L’epoca della reionizzazione è il periodo di transizione che mise fine alla cosiddetta età oscura, l’era in cui nell’universo – permeato di idrogeno neutro – i fotoni, e dunque la luce, non riuscivano a propagarsi. Gli astronomi da decenni cercano di individuare le possibili sorgenti all’origine della reionizzazione: sorgenti capaci di emettere energia sufficiente a eliminare gradualmente la nebbia di idrogeno neutro che rendeva, appunto, l’universo opaco. Ora una risposta potrebbe essere arrivata da uno studio, pubblicato la settimana scorsa su Nature, condotto con il James Webb Space Telescope (Jwst), avvalendosi di una lente gravitazionale.

In particolare, il team internazionale del programma Uncover – programma di osservazioni con Jwst, sia imaging che spettroscopiche, dell’ammasso di galassie Abell 2744 – ha sfruttato il cluster di galassie, detto anche ammasso di Pandora, come lente gravitazionale per indagare sulle sorgenti responsabili dell’epoca della reionizzazione. In questo caso, la lente gravitazionale – deviando e amplificando la luce proveniente dagli oggetti che si trovano dietro all’ammasso – ha permesso agli scienziati di vedere e studiare otto galassie estremamente deboli, al punto che, senza l’effetto lente, sarebbero state difficili da individuare anche per Webb. Otto galassie nane molto lontane, e dunque appartenenti a un’epoca molto antica della storia dell’universo. Il team ha scoperto che queste deboli galassie emettono una quantità di luce ultravioletta enorme: addirittura quattro volte superiore a quanto era stato previsto. Questo significa che la maggior parte dei fotoni che hanno reionizzato l’universo proveniva probabilmente da galassie nane come queste.

«È una scoperta che rivela il ruolo cruciale svolto dalle galassie ultra-deboli nell’evoluzione dell’universo primordiale», dice Iryna Chemerynska dell’Institut d’Astrophysique di Parigi, in Francia, coautrice dello studio. «Queste galassie emettono fotoni ionizzanti che trasformano l’idrogeno neutro in plasma durante la reionizzazione cosmica. Questo sottolinea quanto sia importante comprendere il ruolo delle galassie di piccola massa all’interno della storia dell’universo».

«Queste fornaci cosmiche emettono insieme un’energia più che sufficiente a portare a termine il lavoro», aggiunge il responsabile del team, Hakim Atek, anch’egli dell’Institut d’Astrophysique di Parigi e primo autore dell’articolo. «Nonostante le loro dimensioni ridotte, queste galassie sono prolifiche produttrici di radiazione energetica, e la loro abbondanza durante il periodo da noi considerato è significativa al punto che, complessivamente, potrebbero essere in grado di trasformare l’intero stato dell’universo».

Ma com’è stato possibile giungere a questa conclusione? Gli astrofisici del progetto Uncover hanno combinato dati di imaging da Webb con immagini di Abell 2744 dallo Hubble Space Telescope per selezionare le possibili galassie candidate nell’epoca della reionizzazione. A questo è seguita un’analisi spettroscopica per mezzo di NirSpec, lo spettrografo per il vicino infrarosso di Webb, che ha permesso di rilevare diversi spettri di queste galassie. «L’incredibile sensibilità di NirSpec, combinata con l’amplificazione gravitazionale fornita da Abell 2744», continua Atek, «ci ha permesso di identificare e studiare in dettaglio queste galassie nei primi miliardi di anni dell’universo, nonostante siano oltre cento volte più deboli della nostra Via Lattea».

Questa è la prima volta in cui gli scienziati sono riusciti a stimare in modo affidabile quanto sono comuni le galassie deboli: i risultati confermano che sono il tipo di galassie più abbondante durante l’epoca della reionizzazione. Oltre a ciò, questa è anche la prima volta in cui è stata quantificata la potenza ionizzante di queste galassie, permettendo così agli astronomi di determinare che esse, appunto, producono abbastanza energia per ionizzare l’universo primordiale.

In un prossimo programma di osservazione di Webb, chiamato Glimpse, gli scienziati otterranno delle immagini ancora più sensibili. Utilizzeranno come lente gravitazionale un altro ammasso di galassie, Abell S1063, e questo permetterà di identificare galassie ancora più deboli appartenenti all’era della reionizzazione. Inoltre, questo consentirà agli astronomi di verificare se le galassie nane nello studio attuale sono rappresentative della distribuzione su larga scala delle galassie, permettendoci così di migliorare la nostra conoscenza sull’universo primordiale.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Most of the photons that reionized the Universe came from dwarf galaxies”, Hakim Atek, Ivo Labbé, Lukas J. Furtak, Iryna Chemerynska, Seiji Fujimoto, David J. Setton, Tim B. Miller, Pascal Oesch, Rachel Bezanson, Sedona H. Price, Pratika Dayal, Adi Zitrin, Vasily Kokorev, John R. Weaver, Gabriel Brammer, Pieter van Dokkum, Christina C. Williams, Sam E. Cutler, Robert Feldmann, Yoshinobu Fudamoto, Jenny E. Greene, Joel Leja, Michael V. Maseda, Adam Muzzin, Richard Pan, Casey Papovich, Erica J. Nelson, Themiya Nanayakkara, Daniel P. Stark, Mauro Stefanon, Katherine A. Suess, Bingjie Wang e Katherine E. Whitaker


Ecco la coppia più pesante dell’universo


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Crediti: NoirlLab / Nsf / Aura / J. daSilva / M. Zamani

Si corteggiano da tempo immemorabile, sempre più vicini, senza allontanarsi mai. Ma di convolare a nozze non se ne parla. Cosa li trattiene, si chiedono gli scienziati? Diamo un po’ di numeri, prima che qualcuno pensi di aver riconosciuto qualche coppia di sua conoscenza. Perché è sì di una coppia che stiamo parlando, ma del tutto sui generis. Una coppia record, almeno quanto a stazza: se i due membri salissero insieme sul piatto d’una bilancia, per riequilibrare dovremmo mettere sull’altro 28 miliardi di “soli” – il nostro Sole preso 28 miliardi di volte. E anche la durata della loro storia è inconcepibile per noi umani, dipanandosi lungo un intervallo di tempo di oltre tre miliardi di anni. Tre miliardi di anni trascorsi a flirtare gravitazionalmente, danzando l’uno attorno all’altro, fino a trovarsi ad “appena” 24 anni luce di distanza – altra cifra record per una coppia di questo genere.

Stiamo parlando di un sistema binario di buchi neri supermassicci, situato all’interno della galassia ellittica B2 0402+379, a circa 750 milioni di anni luce da noi. L’unica coppia di buchi neri supermassicci che, almeno fino a oggi, si sia riusciti a osservare con una risoluzione sufficiente a permettere di distinguere i due oggetti – dunque a vederli separatamente. E infatti la distanza che li separa – come dicevamo, 24 anni luce – è la più piccola mai misurata per un sistema binario di buchi neri supermassicci. A compiere l’osservazione è stato il membro di un’altra “coppia” a suo modo straordinaria: il Gemini North, uno dei due telescopi da otto metri dell’Osservatorio Gemini – quello situato nell’emisfero nord, alle Hawaii.

Ma cosa li trattiene dal fondersi, dicevamo? Ci riusciranno mai?

Partiamo da quest’ultima domanda, nient’affatto scontata. L’unione fra coppie di buchi neri è un evento di cui abbiamo numerose testimonianze dirette grazie agli interferometri per onde gravitazionali, è vero, ma sempre relativamente a buchi neri di massa stellare. Mai abbiamo assistito a una fusione fra buchi neri supermassicci – quelli nel cuore delle galassie, per intenderci. Tanto che gli astronomi parlano di problema dell’ultimo parsec: un fenomeno che ci riporta alla prima domanda – cosa li trattiene dal fondersi.

Facciamo un passo indietro. I buchi neri supermassicci non s’incontrano mai da soli, ma sempre portandosi appresso la propria galassia. Insomma, il loro non è un tête-à-tête solitario, bensì un’ammucchiata di miliardi di stelle – galaxy merging, lo chiamano gli astronomi. E sono proprio questi miliardi di terzi incomodi a consentire ai due buchi neri d’avvicinarsi sempre più, tramite il cosiddetto attrito di Chandrasekhar: la cessione progressiva di quantità di moto tramite trasferimento di energia cinetica alla materia che si trova nelle vicinanze. Detto altrimenti: quando, nel corso della fusione fra galassie, il buco nero passa vicino a una stella, la fionda gravitazionale accelera la stella e decelera il buco nero. Durante questo processo viene però espulsa materia dal percorso orbitale, con il risultato che, man mano che le orbite dei due buchi neri si fanno più vicine, e il volume di spazio che i buchi neri attraversano si riduce, la materia rimasta è così poca da rendere teoricamente improbabile una fusione in tempi compatibili con l’età dell’universo. E più la massa dei due buchi neri è elevata, più il problema si aggrava. Insomma, potrebbe essere proprio la loro massa eccessiva a precludere il lieto fine.

«Normalmente sembra che le galassie con coppie di buchi neri più leggeri abbiano stelle e massa a sufficienza per farli incontrare rapidamente», spiega Roger Romani della Stanford University, coautore di uno studio sulla cinematica di questo sistema binario pubblicato a gennaio su The Astrophysical Journal. «Poiché questa coppia è così massiccia, ha richiesto molte stelle e gas per portare a termine il lavoro. Ma la binaria ha così spazzato via questa materia dal centro della galassia, rimanendo così in una situazione di stallo – e accessibile per il nostro studio».

Quest’unione non s’ha dunque da fare? È ancora da stabilire se la coppia supererà la stagnazione e finirà per fondersi – su tempi scala di milioni di anni – o se resterà per sempre nel limbo orbitale in cui si trova. Se i due buchi neri dovessero collassare l’uno nell’altro, però, è certo che produrrebbero onde gravitazionali cento milioni di volte più potenti di quelle generate dalle fusioni frea buchi neri di massa stellare. È poi sempre possibile che a sbloccare la situazione sia l’ingresso di un terzo attore: la fusione con un’altra galassia, in grado di portare al sistema materia aggiuntiva, magari un terzo buco nero, così da consentire alla coppia di rallentare ulteriormente il proprio moto orbitale e – finalmente –unirsi. Ma pare non ci siano galassie in vista, là attorno a B2 0402+379, dunque l’evento è considerato dagli astronomi assai improbabile.

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Per la missione Life un banco di prova di nome Terra


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La caratterizzazione dell’atmosfera degli esopianeti situati nella zona abitabile delle loro stelle madri è uno sforzo chiave nel campo delle scienze esoplanetarie. Studiare la composizione, la struttura e la dinamica dell’involucro gassoso che avvolge questi mondi fornisce infatti preziose informazioni sulla loro abitabilità. Inoltre, è essenziale per individuare la presenza di eventuali bioforme – cioè le tracce lasciate da una qualche forma di attività biologica – e dunque per identificare la vita al di fuori del Sistema solare.

Una delle tecniche che utilizzano gli astronomi per analizzare la composizione chimica dell’atmosfera di un esopianeta è la spettroscopia nel medio infrarosso, consistente nel rivelare la radiazione termica emessa dalle molecole. Ciò che si ottiene da questo tipo di indagini sono i cosiddetti spettri di emissione termica: una sorta di codice a barre contenente le impronte digitali di tutte le specie chimiche presenti. Life, acronimo di Large Interferometer For Exoplanets, è un concetto di missione a guida europea il cui obiettivo primario è proprio questo: ottenere gli spettri di emissione termica di mondi simili alla Terra in orbita ad altre stelle, al fine di caratterizzare le loro atmosfere, valutarne l’abitabilità e identificare eventuali biofirme.

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Illustrazione artistica che mostra la configurazione nello spazio dei satelliti della missione Life. Crediti: Eth Zurich / Life

Per riuscire nell’intento, il team della missione, comprendente tra gli altri Laura Silva dell’Inaf di Torino e Stavro Ivanovski dell’ Inaf di Trieste, prevede di posizionare nello spazio quattro satelliti, chiamati satelliti collettori, che rifletteranno la luce verso un veicolo spaziale cosiddetto combinatore. La disposizione spaziale di questi manufatti tecnologici sarà la seguente: i quattro satelliti saranno disposti a raggiera, mentre il veicolo combinatore sarà al centro. In questa configurazione, i cinque satelliti si comporteranno come un unico grande telescopio, che sarà in grado captare la radiazione termica nel medio infrarosso emessa da un esopianeta sfruttando la cosiddetta Mir nulling interferometry. Si tratta di una metodologia abbastanza nuova, che permette di eliminare dalla luce raccolta dai telescopi quella di origine stellare, lasciando la sola luce proveniente dal pianeta sotto osservazione, che è quella che interessa ai fini delle analisi.

Come tutte le missioni in fase embrionale, la missione Life deve affrontare però sfide non indifferenti. Tra queste sfide ci sono la validazione del metodo di caratterizzazione e la corretta interpretazione degli spettri Mir ottenuti. Detto in altri termini, prima che la missione veda la luce, occorre che sia valutato il suo potenziale scientifico. Lo ha fatto di recente un team di ricercatori guidato da Jean-Noël Mettler, ricercatore all’Eth di Zurigo, optando per una soluzione molto efficace: hanno utilizzato la Terra come modello di pianeta extrasolare.

Le domande alle quali volevano rispondere i ricercatori erano queste: se la missione Life osservasse la Terra, riuscirebbe a rivelare tracce di vita? Se sì, che tipo di spettri di emissione termica acquisirebbe? E ancora: se questi spettri venissero poi analizzati per recuperare informazioni sull’atmosfera e sulle condizioni della superficie planetaria, in che modo i risultati dipenderebbero dalle variazioni stagionali e dalla particolare vista del pianeta che catturerebbero i telescopi?

Per rispondere a questi quesiti, l’approccio utilizzato dai ricercatori è stato il seguente. Utilizzando i dati climatici della Terra ottenuti dallo strumento Airs (Atmospheric Infrared Sounder) a bordo del satellite Aqua Earth della Nasa, hanno generato spettri di emissione termica nella gamma del medio infrarosso simili a quelli che potrebbero essere registrati dalla missione nelle future osservazioni degli esopianeti. Hanno quindi dato in pasto questi dati a Lifesim, un software appositamente sviluppato per simulare le osservazioni di sistemi esoplanetari da parte della missione Life. Infine, hanno esaminato quanto bene possa essere caratterizzata la Terra in termini di abitabilità. In tutte le simulazioni con dati reali, i ricercatori hanno impostato quattro specifiche geometrie per l’osservazione della Terra – due viste dai poli e due viste equatoriali – per valutare la dipendenza delle osservazioni dal tipo di vista. Inoltre, per tenere conto dei cambiamenti stagionali, hanno utilizzato i dati raccolti nei mesi di gennaio e luglio.

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Le quattro geometrie di osservazione della Terra considerate nello studio. Crediti: J. N. Mettler, B. Konrad, S.P. Quanz e R. Helled

I risultati dello studio, pubblicato su The Astrophysical Journal, sono incoraggianti: se la missione Life osservasse il nostro pianeta da una distanza di circa 30 anni luce, troverebbe segni di un mondo temperato e abitabile, spiegano i ricercatori. Negli spettri Mir, il team è riuscito infatti a rilevare l’anidride carbonica e il metano, ma anche l’acqua e l’ozono, molecole considerate biofirme atmosferiche. I risultati mostrano inoltre che la geometria dell’osservazione, cioè la vista del pianeta che catturano i telescopi, non influenza né la rilevabilità delle molecole né la loro abbondanza relativa. Lo stesso vale per le variazioni stagionali.

I risultati, concludono i ricercatori, suggeriscono che Life potrebbe identificare correttamente la Terra come un pianeta in cui la vita potrebbe prosperare, con livelli rilevabili di bioindicatori, un clima temperato e condizioni superficiali che consentono la presenza di acqua liquida. Anche se la stagionalità atmosferica non è facilmente osservabile, lo studio dimostra inoltre che le missioni spaziali di prossima generazione potranno stabilire se i vicini esopianeti terrestri sono abitabili o addirittura abitati.

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Non è un sistema per pianeti giganti


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Sullo sfondo, una porzione della nebulosa di Orione osservata da Jwst. Nel riquadro, il sistema protoplanetario d203-506. Crediti: Nasa/Esa/Csa/S. Fuenmayor/Pdrs4all. Zoom: I. Schroetter/O. Berné/Pdrs4all

Le stelle massicce emettono potenti “venti” di radiazione ultravioletta verso le regioni circostanti e, se si trovano in un ammasso stellare, come spesso accade, l’effetto sulla formazione di stelle e pianeti nelle vicinanze non è trascurabile. A seconda della massa della stella intorno a cui si sta formando un sistema planetario, infatti, questa radiazione può aiutare i pianeti a formarsi, nel caso di stelle più massicce, ma può anche impedirne del tutto la nascita, nel caso di stelle di piccola massa, in quanto la radiazione fa letteralmente evaporare la materia da cui si stanno formando i pianeti.

È del secondo caso che tratta lo studio apparso oggi su Science, guidato da Olivier Berné, ricercatore presso l’Institut de Recherche en Astrophysique et Planétologie, Université de Toulouse, il Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs) e il Centre National d’Etudes Spatiales di Tolosa, in Francia. Osservando con il telescopio spaziale James Webb (Jwst) il disco protoplanetario chiamato d203-506, nella nebulosa di Orione, Berné e collaboratori hanno misurato in modo molto preciso la temperatura e la densità del gas nel disco nella banda infrarossa usando gli strumenti NirCam e NirSpec. Dai nuovi dati, hanno scoperto che i venti provenienti dalle stelle massicce del vicino ammasso del Trapezio stanno spazzando via la materia del disco in maniera estremamente rapida.

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La stessa porzione della nebulosa di Orione, osservata con il telescopio spaziale Hubble e, nel riquadro, il disco protoplanetario d203-506 nei dati di Jwst. Nasa/Stsci/Rice Univ./C.O’Dell et al / O. Berné, I. Schrotter, Pdrs4all

Queste stelle, che sono circa dieci volte più massicce ma soprattutto centomila volte più luminose del Sole, riversano un intenso flusso di radiazione ultravioletta sui vicini sistemi planetari in formazione, così intenso da dissipare la materia di un disco protoplanetario come questo, che ruota attorno a una stella di piccola massa, in meno di un milione di anni. Con il risultato che, in un sistema planetario simile, non sarebbe possibile la formazione di pianeti giganti simili a Giove.

Lo studio guidato da Berné sottolinea il ruolo chiave delle stelle massicce nel forgiare i sistemi planetari nei loro paraggi, aprendo nuovi orizzonti nella comprensione dei fenomeni che portano alla nascita dei sistemi planetari nell’Universo. Come mai invece si è formato un pianeta come Giove nel Sistema solare? «Una possibile risposta è nel fatto che la stella al centro del disco protoplanetario che abbiamo studiato in Orione», spiega Berné a Media Inaf, «ha una massa molto inferiore rispetto a quella del Sole e non è in grado di trattenere la materia così come il Sole potrebbe fare. Ma è anche possibile che quando il Sistema solare si è formato, le stelle massicce fossero più lontane di quello che vediamo in Orione».

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Nell’occhio di Webb, le minuscole stelle del Tucano


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Emanuele Dondoglio e Anna Fabiola Marino, entrambi dell’Inaf, indicano due nane brune all’interno del campo di vista osservato da Jwst. Crediti: Antonino Milone/Univ. Padova

Gli ammassi globulari sono tra gli oggetti più affascinanti del cielo notturno e sono utilizzati dagli astronomi come laboratori per gli studi sull’evoluzione stellare. Nonostante la maggior parte delle stelle che li costituiscono siano deboli, i limiti imposti dalla strumentazione disponibile hanno a lungo confinato l’osservazione di questi oggetti a una porzione di massa relativamente piccola. Quindi, quello che sappiamo di questi antichi aggregati stellari costituisce de facto solo la punta dell’iceberg.

Come questi oggetti si siano formati agli albori dell’universo, quanto massicci fossero in origine, come abbiano formato popolazioni stellari diverse in composizione chimica, quali siano le proprietà delle stelle di massa più piccola e delle stelle “mancate” – cioè le nane brune – che non hanno acceso le reazioni nucleari, costituiscono tutte questioni irrisolte. Con l’avvento del James Webb Space Telescope (Jwst), lanciato con successo alla fine del 2021, le stelle meno luminose mai osservate in un ammasso globulare sono state finalmente rilevate dalle spettacolari immagini ottenute per 47 Tucanae. I risultati sono riportati in uno studio a guida Inaf in uscita su The Astrophysical Journal.

«Queste immagini incredibilmente profonde», dice Antonino Milone dell’Università di Padova, fra i coautori dello studio, «hanno rivelato le proprietà delle stelle di piccolissima massa, mostrando per la prima volta la sequenza delle nane brune: una scoperta di inestimabile valore per i modelli di evoluzione stellare e per l’analisi delle proprietà che marcano il “confine” tra le stelle e le nane brune».

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Nel pannello a sinistra, immagine di una porzione del campo di vista osservato dal Jwst. I pannelli a destra mostrano immagini monocromatiche nel vicino e lontano infrarosso per la regione indicata dal riquadro in giallo nel pannello di sinistra. I cerchi blu e rosso indicano due nane brune. Crediti: A. F. Marino et al. ApJ, 2024

In parallelo, grazie allo strumento NirSpec a bordo del Jwst, è stato possibile osservare le stelle più deboli per le quali sono disponibili dati spettroscopici in ammassi globulari. «Poiché gli spettri di stelle poco massive così fredde sono dominati da molecole di vapore acqueo, questi dati ci consentono di osservare acqua in stelle. Queste molecole sono ottimi indicatori del contenuto di ossigeno, rivelando che la variazione di abbondanza di questo elemento in stelle di piccola massa è simile a quella osservata in stelle di massa maggiore», spiega la prima autrice dello studio, Anna Fabiola Marino dell’Istituto nazionale di astrofisica.

«Questa scoperta è fondamentale per comprendere come si sono formati gli ammassi globulari nelle prime fasi di vita dell’universo. Il fatto che le stelle di massa più piccola mostrano le stesse variazioni chimiche delle stelle di massa maggiore suggerisce che le stelle con chimica peculiare osservate negli ammassi costituiscano una seconda generazione stellare», conclude Emanuele Dondoglio, giovane ricercatore postdoc dell’Istituto nazionale di astrofisica. «Questo implicherebbe una massa significativamente maggiore di quella che osserviamo oggi per questi fossili stellari, che potrebbero essere stati i mattoni che hanno costruito la Via Lattea».

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Quel legame tra l’acqua e la formazione dei pianeti


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Vicino al centro del disco, dove si trova la giovane stella HL Tauri,, l’ambiente è più caldo e il gas più luminoso. Gli anelli di colore rosso derivano da osservazioni precedenti di Alma e mostrano la distribuzione della polvere intorno alla stella. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/S. Facchini et al.

Alcuni ricercatori hanno trovato vapore acqueo nel disco che circonda una giovane stella, esattamente dove potrebbero formarsi i pianeti. L’acqua è un ingrediente chiave per la vita sulla Terra e si ritiene che svolga un ruolo significativo anche nella formazione del pianeta. Eppure, finora non eravamo mai stati in grado di mappare la distribuzione dell’acqua in un disco stabile e freddo, il tipo di disco che offre le condizioni più favorevoli alla formazione di pianeti intorno alle stelle. Le nuove scoperte sono state possibili grazie ad Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso (Osservatorio europeo australe) è partner.

«Non avrei mai immaginato che avremmo potuto catturare l’immagine di oceani di vapore acqueo nella stessa regione in cui è probabile che si stia formando un pianeta», dice Stefano Facchini, astronomo dell’Università Statale di Milano, che ha guidato lo studio pubblicato oggi su Nature Astronomy. Le osservazioni rivelano una quantità di acqua pari ad almeno tre volte quella contenuta in tutti gli oceani della Terra nel disco interno della giovane stella HL Tauri, simile al Sole, situata a 450 anni luce dalla Terra nella costellazione del Toro.

«È davvero straordinario che possiamo non solo rilevare, ma anche catturare immagini dettagliate e risolvere spazialmente il vapore acqueo a una distanza di 450 anni luce da noi», aggiunge il coautore Leonardo Testi, astronomo dell’Università di Bologna. Le osservazioni “risolte spazialmente” con Alma consentono agli astronomi di determinare la distribuzione dell’acqua in diverse regioni del disco. «Partecipare a una scoperta così importante nell’iconico disco di HL Tauri va oltre a ciò che mi sarei mai aspettato per la mia prima esperienza di ricerca in astronomia», dice Mathieu Vander Donckt dell’Università di Liegi, in Belgio, che era studente di un master quando ha partecipato alla ricerca.

Una quantità significativa di acqua è stata trovata nella regione in cui esiste una lacuna nota nel disco di HL Tauri. Spazi a forma di anello vengono scavati nei dischi ricchi di gas e polvere da corpi celesti giovani, simili a pianet, in orbita intorno alla stella che crescono raccogliendo materiale. «Le nostre immagini recenti rivelano una notevole quantità di vapore acqueo a distanze sempre maggiori dalla stella che includono uno spazio vuoto in cui potrebbe potenzialmente trovarsi un pianeta in questo momento in formazione», spiega Facchini. Ciò suggerisce che questo vapore acqueo potrebbe influenzare la composizione chimica dei pianeti che si formano in quelle regioni.

Osservare l’acqua con un telescopio da terra non è un’impresa da poco, poiché l’abbondante vapore acqueo nell’atmosfera terrestre degrada i segnali astronomici. Alam, gestito dall’Eso insieme ai suoi partner internazionali, è composto da una serie di telescopi nel deserto cileno di Atacama a circa 5000 metri di altitudine, costruito in un ambiente elevato e secco appositamente per ridurre al minimo questo degrado, fornendo condizioni di osservazione eccezionali. «A oggi, Alma è l’unica struttura in grado di risolvere spazialmente l’acqua in un disco freddo di formazione planetaria», sottolinea il coautore Wouter Vlemmings, professore alla Chalmers University of Technology, in Svezia.

«È davvero emozionante osservare direttamente, in un’immagine, il rilascio di molecole d’acqua da particelle di polvere ghiacciata», dice Elizabeth Humphreys, astronoma dell’Eso che ha partecipato allo studio. I granelli di polvere che compongono il disco sono i semi della formazione dei pianeti, che si scontrano e si aggregano in corpi sempre più grandi in orbita intorno alla stella. Gli astronomi ritengono che dove fa abbastanza freddo perché l’acqua si congeli sulle particelle di polvere, sia anche più efficiente ottenere l’unione delle particelle: un luogo ideale per la formazione dei pianeti. «I nostri risultati mostrano come la presenza di acqua possa influenzare lo sviluppo di un sistema planetario, proprio come avvenne circa 4,5 miliardi di anni fa nel Sistema solare», conclude Facchini.

Con i potenziamenti ora in corso per Alma e l’entrata in funzione dell’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso entro il decennio, la formazione dei pianeti e il ruolo giocato dall’acqua diventeranno sempre più chiari. In particolare Metis (Mid-infrared Elt Imager and Spectrograph) offrirà agli astronomi viste impareggiabili delle regioni interne dei dischi di formazione planetaria, dove si formano pianeti simili alla Terra.

Fonte: comunicato stampa Eso

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LiciaCube gioca con i pennacchi di Dimorphos


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LiciaCube è una missione dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), parte integrante della missione Dart della Nasa, il cui obiettivo è stato il primo test in scala reale della tecnica di impatto cinetico, a scopo di difesa planetaria. Crediti: Asi

Il 26 settembre 2022 la sonda spaziale Dart (Double Asteroid Redirection Test) della Nasa – un oggetto da mezza tonnellata lanciato a 22500 chilometri all’ora – ha colpito Dimorphos (il satellite dell’asteroide Didymos) nel corso del primo esperimento di difesa planetaria mai tentato nella storia, modificandone la traiettoria. Tutto questo “sotto gli occhi vigili” del cubesat dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) LiciaCube (Light Italian Cubesat for Imaging of Asteroids), che dopo un anno e mezzo ci restituisce un’ulteriore “fotografia” di ciò che è successo nei secondi successivi l’impatto. In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, il gruppo internazionale di ricercatrici e ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) analizza la composizione della nube di detriti e di polvere (plume, in inglese) espulsa dall’asteroide Dimorphos in seguito all’impatto esplosivo.

La prima sonda interplanetaria made in Italy – progettata, costruita e operata per l’Asi dalla società torinese Argotec – è parte integrante della missione statunitense e il team scientifico italiano di LiciaCube è coordinato da Inaf e Asi in collaborazione con l’Istituto di fisica applicata “Nello Carrara” del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifac), il Politecnico di Milano, l’Università di Bologna e l’Università Parthenope di Napoli.

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Alcune caratteristiche morfologiche misurate nella coda di materiale espulso dall’asteroide Dimorphos dallo strumento Luke a bordo di LiciaCube 118 s dopo l’impatto. La risoluzione spaziale dell’immagine è di 23 m per pixel a 304 km da Dimorphos. Tutti i fotogrammi sono stati ruotati e ricentrati rispetto a Dimorphos. Didymos e Dimorphos sono saturi. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

Gli strumenti a bordo di LiciaCube – Luke (LiciaCube Unit Key Explorer) e Leia (LiciaCube Explorer Imaging for Asteroid) – hanno inviato a terra dati straordinari prima e dopo l’impatto.

«La fase scientifica è iniziata 71 secondi prima dell’impatto di Dart, testimoniato “in diretta” misurando una rapida variazione della luminosità del piccolo asteroide», racconta Elisabetta Dotto, ricercatrice presso l’Inaf di Roma, prima autrice dell’articolo e coordinatrice del gruppo che lavora al programma LiciaCube sin dalla sua ideazione. «Viaggiando a una velocità relativa di circa 6,1 chilometri al secondo, LiciaCube ha effettuato un sorvolo dell’oggetto raggiungendo, nel suo punto di massimo avvicinamento a Dimorphos, una distanza di soli 58 km, 174 secondi dopo l’impatto. LiciaCube ha acquisito 426 immagini degli effetti prodotti dall’impatto».

I risultati ottenuti da LiciaCube sono importanti a livello scientifico per la comunità internazionale, trattandosi delle sole immagini raccolte in situ della prima missione di difesa planetaria mai condotta finora. I pennacchi di Dimorphos sono simili alla coda di una cometa e sono generati dalla polvere espulsa nello spazio. A differenza delle comete, però, i “ciuffi” di Dimorphos sono stati generati artificialmente.

Ma come è cambiato Dimorphos dopo l’arrivo di Dart? «La prima cosa stupefacente è stata che la superficie di Dimorphos», prosegue Dotto, «non è stata più visibile a causa del materiale espulso. Oltre a testimoniare l’evento unico della deflessione di un asteroide grazie a un impatto cinetico, sono state ottenute immagini dettagliate di un asteroide binario che ci possono permettere di capire meglio la natura di questi oggetti. Poiché gli asteroidi sono ciò che resta di una fase intermedia del processo che ha portato alla formazione dei pianeti, i dati acquisiti forniscono informazioni importanti nello studio delle prime fasi di aggregazione del materiale che compone il Sistema solare».

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I flussi di polvere attorno a Dimorphos (in alto). In basso l’asteroide compagno Didymos. La risoluzione dell’immagine è di 7,5 m per pixel a 97 km da Dimorphos. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

La ricercatrice Inaf spiega che «il materiale espulso dal cratere di impatto ha formato un cono con un angolo di apertura di circa 140 gradi e una struttura complessa e disomogenea, caratterizzata da filamenti, granelli di polvere e massi singoli o raggruppati espulsi a seguito dell’impatto stesso di Dart. Le immagini hanno mostrato che la parte più interna della coda aveva un colore bluastro e diventava via via più rossa con l’aumentare della distanza da Dimorphos. La velocità dei materiali espulsi varia da poche decine di metri al secondo fino a circa 500 metri al secondo».

«La complessa dinamica delle particelle espulse dall’impatto», aggiunge Alessandro Rossi dell’Ifac-Cnr, «costituisce un affascinante laboratorio di meccanica orbitale che verrà studiato a lungo dalla comunità delle scienze planetarie».

«Il contributo dell’Università di Bologna, nell’ambito di questo progetto», ricorda Marco Zannoni, ricercatore presso il Dipartimento di ingegneria industriale (Din) e responsabile tecnico delle attività affidate all’Università di Bologna, «ha riguardato la determinazione ed il controllo della traiettoria di LiciaCube, a partire dai dati di tracking ricevuti dalle antenne di terra del Deep Space Network della Nasa. La sfida più grande è stata quella di guidare il nanosatellite LiciaCube, che si trovava a 10 milioni di chilometri dalla Terra e viaggiava a più di 6 chilometri al secondo, a posizionarsi nel punto giusto ed al momento giusto per scattare le foto dell’impatto di Dart con Dimorphos».

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Gli asteroidi del sistema binario visti dagli strumenti di LiciaCube. Nello specifico, Didymos e Dimorphos viste da Leia (b,c) e Luke (d,e). Immagine b: il sistema binario ripreso a una distanza di circa 1.000 km, 5 s prima dell’impatto; Didymos è visibile al centro e Dimorphos appare come un anello (a causa della sfocatura dello strumento, scoperta durante il volo) nella parte inferiore destra di Didymos. Immagine c: la stessa scena vista 1 s dopo l’impatto. Immagin d: RGB dei bersagli acquisita ad una distanza di 76 km, 159 s dopo l’impatto. Immagine e: Rgb a una distanza di 71 km, 174 s dopo l’impatto. Crediti: E. Dotto/Inaf/Asi

«Il lavoro pubblicato può essere considerato un punto di partenza per la missione Dart-LiciaCube e, più in generale, nell’ambito della difesa planetaria», commenta Angelo Zinzi, project scientist Asi per LiciaCube. «Grazie al grande lavoro realizzato da gli enti e le industrie coinvolte nella missione LiciaCube, con il coordinamento del team di progetto dell’Asi, è stato dimostrato che i cubesat sono ormai pronti per missioni sia tecnologiche sia scientifiche nello spazio profondo e che l’Italia è in grado di essere un attore principale in questo contesto».

«LiciaCube ha permesso di ottenere immagini e dati altrimenti impossibili da acquisire», aggiunge Zinzi, «e che hanno fornito un impulso fondamentale alla conoscenza dell’evento di impatto avvenuto tra la sonda Dart e Dimorphos. È importante anche sottolineare che tutti i dati e il software di archiviazione e calibrazione dati sono stati gestiti dal centro dati scientifico di Asi (Ssdc), utilizzando standard internazionalmente riconosciuti per la corretta preservazione e la disseminazione del dato. A seguito di questo lavoro, sono già in fase di pubblicazione e/o revisione, altri lavori dai quali ottoneremo un’analisi dei dati di LiciaCube di maggiore dettaglio e conoscenza».

«Grazie al grande lavoro del team scientifico sulle immagini, il Politecnico di Milano collaborando con Cnr ha potuto contribuire al raffinamento dei modelli di espulsione dei frammenti e al miglioramento dello studio dell’evoluzione del loro moto nel sistema binario asteroideo», dice Michèle Roberta Lavagna, professoressa di flight mechanics del Politecnico di Milano, Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali.

I dati a oggi ottenuti stanno dimostrando come, pur attraverso una piccola sonda, sia possibile raccogliere importanti dati scientifici e come, un team ben affiatato e coordinato possa ottenerne risultati unici di grande rilevanza scientifica.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The Dimorphos ejecta plume properties revealed by LiciaCube”, di E., Dotto, J.D.P., Deshapriya, I., Gai, P.H., Hasselmann, E., Mazzotta Epifani, G.,Poggiali, A., Rossi, G., Zanotti, A., Zinzi, I., Bertini, J.R., Brucato, M., Dall’Ora, V., Della Corte, S.L., Ivanovski, A., Lucchetti, M., Pajola, M., Amoroso, O., Barnouin, A., Campo Bagatin, A., Capannolo, S., Caporali, M., Ceresoli, N.L., Chabot, A.F., Cheng, G., Cremonese, E.G., Fahnestock, T.L., Farnham, F., Ferrari, L., Gomez Casajus, E., Gramigna, M., Hirabayashi, S., Ieva, G., Impresario, M., Jutzi, R., Lasagni Manghi, M., Lavagna6, J.-Y., Li, M., Lombardo, D., Modenini, P., Palumbo, D., Perna, S., Pirrotta, S.D., Raducan, D.C., Richardson, A.S., Rivkin, A.M., Stickle, J.M. Sunshine, P., Tortora, F., Tusberti, M., Zannoni


Che fine faranno i massi di Dimorphos?


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Marco Fenucci, ricercatore del Neo Coordination Centre dell’Agenzia spaziale europea, a Frascati, e primo autore dello studio sul destino orbitale dei detriti di Dimorphos. Crediti: Jelena Jokić

Meno di due mesi dopo l’impatto della sonda Dart sull’asteroide di 160 metri di diametro Dimorphos, in configurazione binaria con Didymos, a undici milioni di chilometri dalla Terra, il telescopio spaziale Hubble ha immortalato 37 massi vaganti da cinque a dieci metri di diametro che si sono staccati dalla superficie. Frammenti di asteroide che non sarebbero stati prodotti dall’impatto, ma che erano già presenti sul corpo celeste e si sarebbero staccati a causa dell’urto. Dove andranno a finire? Per rispondere a questa domanda, due ricercatori – Marco Fenucci dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e Albino Carbognani dell’Inaf – hanno fatto delle simulazioni al computer. I risultati sono stati pubblicati questo mese in un articolo su Mnras.

Prima di cominciare, mettiamo le cose in chiaro. La risposta è no: non c’è il rischio che arrivino qui sulla Terra. Non quelli di Dimorphos, almeno. Per saperlo con precisione gli autori hanno calcolato l’evoluzione orbitale dei massi nei prossimi 20mila anni utilizzando simulazioni numeriche, e hanno visto che la distanza tra i due punti più vicini delle orbite dei due corpi – un parametro chiamato Moid (letteralmente minimum orbit intersection distance) – avrà un minimo di 0.02 unità astronomiche fra 2500 anni e poi aumenterà. I calcoli considerano la velocità dei detriti misurata dallo Hubble Space Telescope e, per tenere conto dell’incognita sulla direzione presa, simulano l’evoluzione di un numero molto elevato di massi, in modo da non escludere alcuna configurazione simile al reale.

La Terra è dunque salva, dicevamo, ma il punto è un altro: con la missione Dart, e più in generale la possibilità di deviare asteroidi per mezzo di un impattore cinetico, si apre un nuovo capitolo nella mitigazione del rischio da impatto e, prima di agire, bisogna fare attenzione e tenere conto anche dell’evoluzione orbitale dei prodotti della collisione perché questi possono costituire un ulteriore rischio.

«Una delle ragione per cui il sistema binario Didymos-Dimorphos era stato scelto come target della missione Dart è che la coppia di asteroidi si manterrà sempre molto lontana dalla Terra, per cui era un obiettivo perfetto per lo scopo della missione», spiega a Media Inaf Marco Fenucci, dottorato in matematica e dal 2022 membro del team del Near Earth Objects Coordination Centre (Neocc) dell’Esa, dove si occupa del calcolo delle orbite degli asteroidi vicini alla Terra e delle loro probabilità di impatto sul nostro pianeta. È il primo autore di questo articolo, che costituisce il primo lavoro pubblicato sull’argomento.

Quando Dart è stato concepito, ricorda Fenucci, non si conosceva ancora il tipo di materiale presente sulla superficie di Dimorphos. Prima delle missioni Hayabusa-2 ed Osiris-Rex, dirette rispettivamente agli asteroidi Ryugu e Bennu, si pensava addirittura che piccoli asteroidi come Dimorphos fossero dei blocchi monolitici, e che quindi non presentassero piccoli massi sulla loro superficie. Per questo, l’eventualità dell’espulsione di questi massi non era stata tenuta in considerazione.

«Con il nostro lavoro suggeriamo che, durante la pianificazione di una missione di deflessione, si debba fare uno step in più, e studiare anche l’evoluzione orbitale del materiale espulso durante, in modo da non creare ulteriori oggetti a rischio di impatto», dice Albino Carbognani, ricercatore all’Inaf di Bologna e secondo autore dello studio. «Non si sapeva esattamente che cosa aspettarsi nell’impatto di Dart e le stime della variazione del periodo orbitale erano fatte considerando semplicemente la conservazione della quantità di moto, senza entrare nei dettagli delle dimensioni dei frammenti emessi. Nessuno aveva previsto o studiato preventivamente l’evoluzione orbitale di possibili boulder, infatti fecero scalpore le osservazioni di Hubble, nessuno se li aspettava così grandi e rilevabili da Terra».

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L’oggetto bianco e luminoso in basso a sinistra è l’asteroide Dimorphos. Ha una coda di polvere blu che si estende in diagonale in alto a destra. Un gruppo di punti blu circonda l’asteroide. Si tratta di massi che sono stati staccati dall’asteroide quando, il 26 settembre 2022 (in Italia era già il 27), la Nasa ha deliberatamente colpito l’asteroide con la sonda impattatrice Dart, per capire cosa occorrerebbe per deviare un futuro asteroide in rotta di collisione con la Terra. La fotografia scattata da Hubble è del dicembre 2022. Crediti: Nasa, Esa, D. Jewitt (Ucla)

Il sistema Dydimos-Dimorphos è quindi fortunato, perché la sua orbita non incontra mai quella della Terra. Conosciamo bene però altri asteroidi, come ad esempio Bennu e Apophis, la cui orbita incontra già quella della Terra e che possono arrivare davvero molto vicini al nostro pianeta.

«La superficie di Bennu presenta delle similitudini con quella di Dimorphos, nel senso che grazie alle immagini riprese dalla sonda Osiris-Rex sappiamo che ci sono dei massi della taglia di diversi metri sulla sua superficie», spiega Fenucci. «Se si tentasse quindi di deflettere un asteroide come Bennu con una missione come Dart, alcuni di questi massi verrebbero espulsi dalla superficie, e anche loro molto probabilmente finirebbero su un’orbita che incrocia quella della Terra. Nel caso si verificasse un rischio concreto di collisione con la Terra si dovrà procedere con una missione di mitigazione, specialmente con un asteroide della taglia di Bennu o di Apophis. Stiamo parlando di asteroidi di qualche centinaio di metri di diametro. Missioni di questo genere, tipicamente, mirano a spostare di poco l’asteroide, in modo che la Terra venga mancata durante l’approccio ravvicinato. Tuttavia, come dimostrato dall’impatto di Dart, massi della taglia di alcuni metri possono essere espulsi durante l’impatto, creando ulteriori oggetti in grado di colpire la Terra. Anche se l’impatto di oggetti di questo tipo ha delle conseguenze molto minori rispetto a quello di un asteroide di centinaia di metri, possono comunque causare dei danni a livello locale, come abbiamo visto nell’impatto avvenuto sopra Chelyabinsk nel 2013. È quindi necessario capire se massi del genere vengano espulsi durante l’impatto, ed eventualmente studiarne il loro destino orbitale».

Che i massi separati dalla superficie di Dimorphos non possano giungere fin qui, è consolatorio per il genere umano. Tuttavia, il problema riguarda ancora alcuni di noi. Ingegneri, tecnici e scienziati dell’Agenzia spaziale europea, e non solo, che sono impegnati nella missione Hera che andrà a vedere da vicino il luogo dell’impatto di Dart. Sarà importante, per loro, conoscere bene la posizione, il numero e l’evoluzione delle traiettorie di questi massi per evitarli – in primis – o anche per essere in grado di osservarli e riprenderli nel caso si siano allontanati dall’asteroide.

Infine, messa da parte la paura, è naturale chiedersi che fine faranno davvero questi massi.

«Dal nostro lavoro abbiamo calcolato che i massi espulsi durante l’impatto di Dart potrebbero impattare con Marte in due possibili occasioni, una fra seimila anni e l’altra fra 15mila anni, e che l’atmosfera marziana non sarebbe in grado di fermarli», conclude Fenucci. «Arriverebbero direttamente al suolo, scavando dei crateri di impatto di circa cento metri di diametro. Questo implica che le meteoriti che arrivano sulla Terra, che si originano tipicamente da meteoroidi della taglia di circa un metro di diametro, possono avere origine dalle collisioni che avvengono su asteroidi vicini alla Terra».

Per saperne di più:


Quando una stella d’assioni esplode


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Timeline della storia del cosmo. Dal punto di vista osservativo, l’epoca della reionizzazione – la linea di demarcazione fra età oscura e alba cosmica – è segnata dalla scomparsa della riga a 21 cm, lunghezza d’onda della luce che l’idrogeno neutro assorbe ed emette durante la cosiddetta transizione iperfine, quando gli spin dell’elettrone e del protone passano da paralleli ad antiparalleli. Avendo perso il suo unico elettrone, l’idrogeno ionizzato non assorbe né emette a questa frequenza: è una prerogativa dell’idrogeno neutro. Crediti: Nasa/Wmap Science Team

Ormai da qualche anno – da quando le wimp sono passate di moda – le candidate più gettonate al ruolo di particelle di materia oscura sono gli assioni. Particelle ipotetiche anch’esse, mai afferrate da alcun rivelatore, a differenza delle wimp – dove la lettera ‘m’ sta a indicarne la natura di particelle massive – gli assioni sono ultraleggeri. Eppure anche loro, come le wimp, potrebbero spiegare quell’80 per cento abbondante di materia che dovrebbe costituire l’universo ma della quale non sappiamo alcunché – la materia oscura, appunto.

Come trovare, dunque, questi assioni? Due studi pubblicati questo mese su Physical Review D da un team di ricercatori guidato da Miguel Escudero (Cern) e Xiaolong Du (Carnegie Observatories, Usa) suggeriscono di guardare alle esplosioni di stelle. Esplosioni di stelle particolari, però: non le classiche supernove, bensì – appunto – stelle di assioni. Cercandone le tracce in un “luogo” che gli astronomi conoscono bene: la riga a 21 cm dell’idrogeno neutro.

«Gli assioni sono uno dei principali candidati per la materia oscura. Abbiamo scoperto che, una volta condensate in densi ammassi, hanno la capacità di riscaldare l’universo, proprio come le supernove», spiega uno fra i coautori dei due studi, l’astrofisico Malcolm Fairbairn del King’s College di Londra. «Armati di questa conoscenza, ora sappiamo con molta più certezza dove puntare i nostri strumenti per trovarli».

L’ipotesi che possano esistere – o essere esistite – stelle di assioni non è nuova, ne abbiamo parlato anche su Media Inaf. Ciò su cui si concentrano gli autori dei due studi è la possibilità che, se la loro massa supera una certa soglia, queste stelle possano diventare instabili, esplodendo in un fiotto di radiazioni elettromagnetiche: fotoni, particelle di luce dunque, che a differenza degli assioni hanno il non trascurabile vantaggio di poter essere rilevati. In particolare, riscaldando il gas intergalattico nel periodo che separa il big bang dalla formazione delle prime stelle, dunque nell’intervallo fra 50 e i 500 milioni dall’inizio dell’universo, questi fotoni d’origine “assionica” potrebbero aver avuto un ruolo cruciale nella cosiddetta reionizzazione. Da qui l’idea di cercarne le tracce nella riga a 21 cm della transizione iperfine dell’idrogeno neutro, spazzato via proprio a seguito della reionizzazione.

Arrivando a una stima del numero totale di stelle di assioni nell’universo e, per estensione, del loro potenziale esplosivo sul gas intergalattico, gli autori dei due studi sono anche riusciti a ipotizzare l’impatto dell’esplosione delle stelle di assioni sulla Cmb – la radiazione cosmica di fondo – all’inizio della reionizzazione. Una stima, questa, che in teoria consentirebbe di usare le misure della riga a 21 cm per calcolare con precisione l’effettivo contributo degli assioni.

«Stelle di assioni coerenti, anche quelle relativamente compatte, hanno il potenziale per esplodere in un alone di elettromagnetismo e luce. Conoscere il tipo di strutture che la materia oscura assionica può formare e il suo impatto sul gas intergalattico circostante», conclude Fairbairn, «può aprire nuove strade per la sua individuazione».

Per saperne di più:

Guarda sul canale YouTube del King’s College di Londra la simulazione dell’esplosione di una stella d’assioni:

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Una magnetar da corsa tra le stelle della Volpetta


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Illustrazione artistica che mostra una magnetar che espelle materia nello spazio tramite venti magnetosferici relativistici. In verde sono rappresentate le linee del campo magnetico della stella di neutroni, in grado di influenzare flusso di materia emessa dall’oggetto. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

I lampi radio veloci – in inglese fast radio burst (Frb) – sono intense esplosioni di onde radio capaci di sprigionare in pochi millisecondi tanta energia quanta ne produce il Sole in un anno. Nel 2020, simili esplosioni sono state rivelate provenire dalla sorgente galattica Sgr 1935+2154, suggerendo che alcuni di essi siano prodotti dalle magnetar, come lo è Sgr 1935+2154: stelle di neutroni superdense, in rapida rotazione e con un campo magnetico estremamente forte.

Nel 2022, un team internazionale di scienziati ha nuovamente messo gli occhi su Sgr 1935+2154, rilevando caratteristiche della sorgente mai osservate prima d’ora: cambiamenti della velocità di rotazione dell’oggetto celeste accoppiati temporalmente all’emissione di Frb. La scoperta, riportata questo mese sulle pagine di Nature, permette di comprendere meglio ciò che causa queste misteriose esplosioni radio veloci.

Sgr 1935+2154 è una magnetar che si trova a circa 30mila anni luce di distanza nella costellazione della Volpetta. Si stima che la stella di neutroni abbia un diametro di circa 20 chilometri e ruoti circa 3 volte al secondo, il che equivale a una velocità rotazionale di quasi 11mila chilometri orari. Il 14 ottobre 2022 la sorgente ha emesso un potente quanto effimero Frb, catturato dal radiotelescopio canadese Chime e dallo statunitense Green Bank Telescope (Gbt) e denominato Frb 20221014. L’emissione del lampo radio è avvenuta in un periodo in cui la sorgente era particolarmente attiva, durante il quale ha emesso centinaia di brevi esplosioni di raggi X.

Allertati di questo periodo di intensa attività, Chin-Ping Hu, ricercatore alla National Changhua University of Education (Taiwan), e il suo team hanno puntato due telescopi targati Nasa in direzione della sorgente. Uno è Nicer, un rivelatore per raggi X installato dal 2017 all’esterno della Stazione spaziale internazionale. L’altro è NuStar, un satellite per raggi X. Osservando con questi due strumenti Sgr 1935+2154 ininterrottamente dal 12 ottobre al 6 novembre 2022, dunque in una finestra temporale comprendente il giorno in cui è stato registrato Frb 20221014, gli scienziati sono riusciti a svelare cosa è successo sulla superficie e nelle immediate vicinanze dell’oggetto celeste prima e dopo l’emissione del lampo radio veloce in questione.

I risultati delle osservazioni hanno mostrato chiaramente che il lampo radio è stato emesso tra due accelerazioni rotazionali della stella di neutroni. Glitch: è così che gli astronomi chiamano questi incrementi repentini della velocità di rotazione. Ma la cosa che più ha sorpreso gli scienziati è stato scoprire che tra un glitch e l’altro, cioè tra un’accelerazione e l’altra, la magnetar ha rallentato rapidissimamente la sua velocità: in sole nove ore – il tempo intercorso tra i due glitch – la sorgente è passata infatti alla velocità rotazionale di “riposo”, cioè quella precedente al primo glitch, decelerando cento volte più rapidamente di quanto sia mai stato osservato in queste sorgenti.

«In genere quando si verificano le accelerazioni, la magnetar impiega settimane o mesi per tornare alla sua velocità normale», sottolinea Chin-Ping Hu, autore principale del nuovo studio. «La decelerazione che abbiamo osservato noi avviene in tempi molto più brevi di quanto si pensasse in precedenza, e questo potrebbe essere legato alla velocità con cui vengono generati i lampi radio».

Ma come spiegare queste rapide decelerazioni, chiamate dagli addetti ai lavori anti-glitch? E in che modo sono correlate all’emissione dei lampi radio? Un’idea i ricercatori se la sono fatta. L’ipotesi è che alla base di questi repentini rallentamenti possa esserci la differente velocità di rotazione tra la superficie rigida della magnetar e il nucleo superfluido. Nelle magnetar può accadere che il nucleo della stella ruoti più velocemente della sua superficie rigida, spiegano i ricercatori. Quando ciò avviene, parte del momento angolare del nucleo può essere trasferito alla crosta, provocando incrementi della velocità di rotazione come quelli osservati in questo studio. Se la prima accelerazione avesse causato una frattura nella superficie della magnetar, in particolare in prossimità dei poli magnetici, tale crepa, in maniera del tutto simile a un’eruzione vulcanica, potrebbe aver causato l’espulsione nello spazio di grandi quantità di materia stellare sotto forma di un vento magnetosferico relativistico. Secondo gli autori, la perdita di massa associata a questo vento relativistico potrebbe essere responsabile degli anti-glitch. Non solo: poiché il vento di particelle può alterare il campo magnetico della magnetosfera di una stella di neutroni, gli autori ipotizzano che questo stesso vento possa aver generato le condizioni per produrre il lampi radio veloce. La rapida decelerazione dopo il primo glitch potrebbe poi aver risincronizzato lo spin tra il nucleo superfluido e il resto della stella, portando al secondo glitch.

Avendo osservato solo uno di questi eventi in tempo reale, concludono i ricercatori, non possiamo ancora dire con certezza cosa provochi queste decelerazioni e in che modo siano connesse all’emissione dei Frb. Le future osservazioni in banda X di Sgr 1935+2154 e di altre magnetar, in combinazione con il monitoraggio in banda radio, contribuiranno a identificare le condizioni necessarie per produrre questi misteriosi lampi radio veloci.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Rapid spin changes around a magnetar fast radio burst”, di Chin-Ping Hu, Takuto Narita, Teruaki Enoto, George Younes, Zorawar Wadiasingh, Matthew G. Baring, Wynn C. G. Ho, Sebastien Guillot, Paul S. Ray, Tolga Guver, Kaustubh Rajwade, Zaven Arzoumanian, Chryssa Kouveliotou, Alice K. Harding e Keith C. Gendreau


Una stella di neutroni nelle ceneri di Sn 1987A


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A sinistra c’è un’immagine NirCam (Near-Infrared Camera) rilasciata nel 2023. L’immagine in alto a destra mostra la luce dell’argon ionizzato singolarmente (Argon II) catturato dalla modalità Mrs (Medium Risoluzione Spectrograph) del Miri (Mid-Infrared Instrument). L’immagine in basso a destra mostra la luce proveniente dall’argon ionizzato multiplo catturato dal NirSpec (Near-Infrared Spectrograph). Entrambi gli strumenti mostrano un forte segnale proveniente dal centro del resto della supernova. Ciò ha indicato al team scientifico che lì c’è una fonte di radiazioni ad alta energia, molto probabilmente una stella di neutroni. Crediti: Nasa, Esa, Csa, STScI, Claes Fransson (Università di Stoccolma), Mikako Matsuura (Università di Cardiff), M. Barlow (Ucl), Patrick Kavanagh (Università di Maynooth), Josefin Larsson (Kth)

Era stata cercata a lungo, la stella di neutroni che si è formata dalle ceneri dell’esplosione di una delle supernove più studiate: Sn 1987A. Molti gli indizi rilevati dai ricercatori in tre decenni e mezzo di intense osservazioni con i migliori telescopi come Hubble o Spitzer, ma nessuna evidenza conclusiva dell’esistenza di una stella di neutroni. La svolta è stata resa possibile grazie al James Webb Space Telescope che ha rilevato gli effetti dell’emissione ad alta energia di quella che potrebbe essere una giovane stella di neutroni o la pulsar wind nebula che l‘avvolge – una nebulosa altamente energetica alimentata dalla stella di neutroni al suo interno.

Le supernove, lo spettacolare risultato finale del collasso di stelle molto massicce, esplodono in poche ore e la loro luminosità raggiunge il picco in pochi mesi, mentre i resti della stella esplosa continuano a evolversi rapidamente nei decenni successivi. L’espandersi di questo oggetto attraverso il mezzo interstellare offre agli astronomi la rara opportunità di studiare un processo astronomico fondamentale per l’evoluzione dell’universo, quasi “in tempo reale”. Infatti, oltre a essere le principali fonti di elementi chimici come carbonio, ossigeno, silicio e ferro che rendono possibile la vita come noi la conosciamo, le supernove sono anche responsabili della creazione degli oggetti più esotici dell’universo come stelle di neutroni e buchi neri.

Webb ha iniziato le osservazioni scientifiche di Sn 1987A nel luglio 2022 e ora, in uno studio pubblicato la settimana scorsa su Science, un team internazionale di astronomi guidato da Claes Fransson della Stockholm University, in Svezia, ha annunciato di aver rilevato segnali di una probabile stella di neutroni provenire dal centro della nebulosa attorno a Sn 1987A. I ricercatori hanno utilizzando il Medium Resolution Spectrograph (Mrs) e il Mid-Infrared Instrument (Miri) di Webb per osservare le righe spettrali che potrebbero essere state create dalla calda e giovane stella di neutroni o dalla pulsar wind nebula.

La presenza di uno di questi due oggetti estremamente energetici tra i resti di Sn 1987A era stata già ipotizzata per la prima volta nel 2019 e poi, nel 2021, in uno studio guidato da Emanuele Greco dell’Inaf di Palermo, grazie ai dati raccolti dai telescopi spaziali Chandra e NuStar e utilizzando simulazioni numeriche all’avanguardia. Nulla a confronto del potente occhio di Webb, come spiega lo stesso Greco – non coinvolto nel nuovo studio uscito su Science – a Media Inaf: «Questo studio sfrutta le straordinarie capacità del telescopio spaziale James Webb e rappresenta, a oggi, la più robusta evidenza della presenza di una stella di neutroni all’interno di Sn 1987A. Nonostante non sia possibile stabilire con certezza se la sorgente responsabile dell’emissione sia una pulsar wind nebula o una stella di neutroni estremamente calda, questo risultato si allinea allo scenario ipotizzato in uno studio del 2019 in banda radio e da noi riproposto nel 2021 e nel 2022 in banda X per spiegare l’eccesso di emissione in banda hard. Dagli studi condotti in bande diverse emerge un quadro coerente che sembra indicare la pulsar wind nebula come origine più plausibile».

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Un’immagine che combina i dati di Hubble e quelli Webb di SN 1987A e della sorgente compatta di argon altamente ionizzata. La sorgente blu debole al centro è stata rilevata dallo strumento NIRSpec su Webb. Crediti: Hst, Jwst/NIRSpec, J. Larsson

L’analisi spettrale dei risultati prodotti da Webb ha rivelato un forte segnale proveniente dal centro del materiale espulso che circonda il luogo in cui si è generata Sn 1987A, attribuito alla presenza di argon ionizzato. Utilizzando poi lo spettrografo NirSpec di Webb, che osserva a lunghezze d’onda più corte, i ricercatori hanno trovato elementi chimici ancora più fortemente ionizzati. La presenza di tali ioni richiede la formazione di fotoni altamente energetici che devono provenire da oggetti come, ad esempio, una stella di neutroni. «La conferma della presenza di una stella di neutroni nel cuore di Sn 1987A», conclude Greco, «è uno step fondamentale per la comprensione di come questi oggetti evolvono nei primi anni della loro vita. In particolare, si tratta della stella di neutroni più giovane che conosciamo e rappresenta quindi un laboratorio cosmico unico nel suo genere».

Ulteriori analisi con Webb, unite a osservazioni con telescopi da terra, potrebbero fornire maggiore chiarezza su ciò che sta accadendo nel cuore del resto di Sn 1987A. Inoltre, i ricercatori si augurano che queste osservazioni possano stimolare lo sviluppo di modelli teorici più dettagliati, consentendo di comprendere meglio non solo l’evoluzione finale di Sn 1987A, ma di molte altre supernove.

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Emission lines due to ionizing radiation from a compact object in the remnant of Supernova 1987A” di C. Fransson, M. J. Barlow, P. J. Kavanagh, J. Larsson, O. C. Jones, B. Sargent, M. Meixner, P. Bouchet, T. Temim, G. S. Wright, J. A. D. L. Blommaert, N. Habel, A. S. Hirschauer, J. Hjorth, L. Lenkić, T. Tikkanen, R. Wesson, A. Coulais, O. D. Fox, R. Gastaud, A. Glasse, J. Jaspers, O. Krause, R. M. Lau, O. Nayak, A. Rest, L. Colina, E. F. van Dishoeck, M. Güdel, Th. Henning, P-O. Lagage, G. Östlin, T. P. Ray e B. Vandenbussche


Cicatrice di metallo su una stella cannibale


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Rappresentazione artistica della nana bianca magnetica WD 0816-310, sulla cui superficie gli astronomi hanno trovato una sorta di cicatrice dovuta al l’ingestione di detriti planetari. Crediti: Eso/L. Calçada

Quando una stella come il Sole si avvicina al termine della propria vita, può inghiottire pianeti e asteroidi che erano nati insieme con lei. Ora, utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (l’Osservatorio europeo australe) in Cile, alcuni ricercatori hanno trovato per la prima volta una firma unica di questo processo: una cicatrice impressa sulla superficie di una nana bianca. I risultati sono stati pubblicati oggi su The Astrophysical Journal Letters.

«È risaputo che alcune nane bianche – braci di stelle come il nostro Sole che si raffreddano lentamente – stanno cannibalizzando pezzi dei loro sistemi planetari. Ora abbiamo scoperto che il campo magnetico della stella gioca un ruolo chiave in questo processo, provocando una cicatrice sulla superficie della nana bianca», spiega Stefano Bagnulo, astronomo all’Osservatorio e planetario di Armagh (Irlanda del Nord, Regno Unito) e autore principale dello studio.

La cicatrice osservata dal gruppo di lavoro è una concentrazione di metalli impressa sulla superficie della nana bianca WD 0816-310, il resto di una stella simile ma leggermente più grande del nostro Sole, di dimensione pari a quella della Terra. «Abbiamo dimostrato che questi metalli provengono da un frammento planetario grande quanto o forse più di Vesta, il secondo asteroide del Sistema solare per dimensione, di circa 500 chilometri», aggiunge Jay Farihi, professore allo University College di Londra (Regno Unito) e coautore dello studio.

Le osservazioni hanno anche fornito indizi su come la stella abbia ottenuto la cicatrice di metallo. L’equipe ha notato che l’intensità della misura del metallo cambiava durante la rotazione della stella, suggerendo che i metalli sono concentrati su un’area specifica sulla superficie della nana bianca, piuttosto che distribuiti uniformemente su di essa. Hanno anche scoperto che questi cambiamenti erano sincronizzati con i cambiamenti nel campo magnetico della nana bianca, indicando che la cicatrice metallica si trova su uno dei suoi poli magnetici. Combinati insieme, questi indizi indicano che il campo magnetico ha incanalato i metalli sulla stella, creando la cicatrice.

«Sorprendentemente, il materiale non era mescolato uniformemente sulla superficie della stella, come previsto dalla teoria. Invece, questa cicatrice è una zona di materiale planetario concentrato, tenuta in posizione dallo stesso campo magnetico che ha guidato la caduta dei frammenti», commenta il coautore John Landstreet, professore alla Western University, Canada, anch’egli affiliato all’Osservatorio e planetario Armagh. «Niente di simile è mai stato visto prima».

Per giungere a queste conclusioni, l’equipe ha utilizzato uno strumento multiuso – un po’ come un coltellino svizzero – installato sul Vlt, chiamato Fors2, che ha permesso di rilevare la cicatrice metallica e collegarla al campo magnetico della stella. «L’Eso ha una combinazione unica della possibilità di osservare oggetti deboli come le nane bianche e di misurare con sensibilità i campi magnetici stellari», conclude Bagnulo. Nello studio, i ricercatori si sono basati anche sui dati d’archivio dello strumento X-Shooter, installato sul Vlt, per confermare i risultati.

Sfruttando la potenza di osservazioni come queste, gli astronomi possono rivelare la composizione complessiva degli esopianeti, pianeti che orbitano attorno a stelle al di fuori del Sistema solare. Questo studio unico mostra anche come i sistemi planetari possano rimanere dinamicamente attivi, anche dopo la loro “morte”.

Fonte: comunicato stampa Eso

Per saperne di più:


Il primo lander privato si è posato sulla Luna


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Odysseus il 21 febbraio dopo l’inserimento nell’orbita lunare. Credito: Intuitive Machines

Il primo lander privato si è posato sulla Luna. È Odysseus, dell’azienda texana Intuitive Machines.

È una prima assoluta nella storia dell’era spaziale e segna anche il ritorno di un veicolo americano sulla Luna a 52 anni dall’ultima missione del programma Apollo.

Lanciato il 15 febbraio scorso, Odysseus è entrato nell’orbita lunare il 21 febbraio, dopo aver percorso un milione di chilometri. La manovra di allunaggio si è svolta come previsto, ma ci sono stati momenti di tensione perché inizialmente non si riusciva a ricevere il segnale. Dopo alcuni tentativi con più antenne da Terra, finalmente è arrivato il ‘bip’ dal lander.

È stato un segnale debole, quello arrivato a Terra dall’antenna principale di Odysseus, ma sufficiente a far tirare un sospiro di sollievo e a scatenare un applauso sempre più forte e convinto. «Possiamo confermare senza dubbio che il nostro veicolo è sulla superficie della Luna e che stiamo trasmettendo», ha detto il direttore di volo Tim Crain non appena è stato ricevuto il segnale. Adesso si attendono aggiornamenti sulle condizioni del lander.

La missione Im-1 ha raggiunto così il suo obiettivo, cruciale per il futuro dei programmi lunari e per la Lunar Space Economy.

After troubleshooting communications, flight controllers have confirmed Odysseus is upright and starting to send data.
Right now, we are working to downlink the first images from the lunar surface.

— Intuitive Machines (@Int_Machines) February 23, 2024

Quello di Odysseus, il lander della classe Nova-C della Intuitive Machines, è il primo successo di una missione privata dopo i fallimenti del lander Peregrine dell’azienda americana Astrobotic nello scorso gennaio e quelli dei lander da Hakuto-R M1 della giapponese ispace nel 2023 e di Beresheet, dell’azienda israeliana SpaceIL nel 2019. Sono invece quattro i Paesi che hanno fatto posare un loro veicolo sulla Luna: dopo gli Stati Uniti sono riusciti ad allunare Russia, Cina, India e Giappone.

Era dall’11 dicembre 1972 che un veicolo costruito negli Stati Uniti non si posava sul suolo lunare. L’azienda con sede a Houston ha compiuto così quello che in molti già definiscono “un passo da gigante per i privati”.

«Odysseus ha una nuova casa», ha scritto su X la Intuitive Machines, riferendosi al sito di allunaggio del suo lander, vicino al cratere Malapert A, a circa 300 chilometri dal polo Sud lunare. Questo cratere, dal diametro di circa 69 chilometri, è vicino al massiccio di Malapert, una dei 13 siti considerati per la missione Artemis III della Nasa.

Come era accaduto per il lander Peregrine della Astrobotic, anche Odysseus è finanziato in parte dal programma varato nel 2018 dalla Nasa per i voli commerciali, il Commercial Lunar Payload Services e, come l’altra missione, ha a bordo sei strumenti della Nasa, il cui obiettivo è raccogliere dati utili alla pianificazione delle future missioni del programma Artemis, destinato e portare nuovamente degli astronauti sulla Luna.

Guarda su MediaInaf Tv il servizio del 16 febbraio 2024:

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eRosita dice la sua sulla tensione cosmologica S8


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Immagini ottiche che mostrano le galassie in direzione di quattro ammassi di galassie a distanze diverse. L’emissione di raggi X del gas caldo negli ammassi è mostrata in blu. Crediti: M. Kluge, C. Garrel; optical image: Legacy Survey DR10, X-ray: eRosita

Lo studio dell’evoluzione degli ammassi di galassie, le strutture più grandi dell’universo, ha fornito misure precise del contenuto totale di materia e del modo in cui si raggruppa. Questo è quanto sostengono gli scienziati del consorzio tedesco eRosita, guidato dal Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (Mpe) e con la partecipazione dell’Università di Bonn, in un articolo sottomesso alla rivista Astronomy and Astrophysics. I loro risultati confermano il modello cosmologico standard e alleviano la cosiddetta tensione S8, legata alla apparente discrepanza tra la crescita delle strutture stimata dal lensing gravitazionale debole e dalle anisotropie del fondo cosmico a microonde (Cmb). L’analisi si basa su uno dei più grandi cataloghi di ammassi e superammassi di galassie, pubblicato contestualmente allo studio in questione.

eRosita è un telescopio spaziale a raggi X a bordo del satellite Spectrum-RG, lanciato nel luglio 2019. Due settimane fa, il consorzio tedesco eRosita ha pubblicato i dati della prima survey all-sky. L’obiettivo principale della survey è quello di comprendere meglio la cosmologia attraverso la misurazione della crescita nel tempo cosmico degli ammassi di galassie. Tracciando l’evoluzione degli ammassi attraverso i raggi X emessi dal gas caldo rilevati da eRosita, e misurando la massa di questi ammassi attraverso il lensing gravitazionale debole (o weak lensing), sono state effettuate misure precise e accurate sia della quantità totale di densità di materia nell’universo sia della sua clumpiness, o grumosità. Mentre in passato le misurazioni della clumpiness effettuate con tecniche diverse – in particolare il fondo cosmico a microonde e il cosiddetto cosmic shear (la distorsione delle immagini di galassie lontane dovuta all’effetto di lente gravitazionale debole da parte della struttura a grande scala dell’universo) – apparivano incoerenti tra loro, le misure di eRosita mostrano ora una coerenza con i risultati ottenuti dal Cmb.

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Come sopra, ma mostrando solo le galassie che ci si aspetta di trovare nei rispettivi ammassi (e non in quelli di primo piano o di sfondo). Crediti: M. Kluge, C. Garrel; optical image: Legacy Survey DR10, X-ray: eRosita

Secondo il modello cosmologico standard, l’universo primordiale era un mare estremamente caldo e denso di fotoni e particelle. Nel corso del tempo cosmico, piccole variazioni di densità si sono trasformate nelle grandi galassie e negli ammassi di galassie che vediamo oggi. Le osservazioni di eRosita mostrano che la materia (visibile e oscura) costituisce il 29 per cento del bilancio totale di massa/energia dell’universo, in ottimo accordo con i valori ottenuti dalle misure della radiazione di fondo cosmico a microonde, emessa quando l’universo è diventato trasparente.

Oltre a misurare la densità totale di materia nell’universo, eRosita ha misurato anche la clumpiness della distribuzione di materia, descritta attraverso il cosiddetto parametro S8. Come accennato all’inizio, la tensione S8 nasce dal fatto che gli esperimenti sul Cmb misurano un valore di S8 più alto rispetto, ad esempio, alle indagini sul cosmic shear. Se non si riesce a risolvere questa tensione, occorre chiamare in causa una nuova fisica. Ma eRosita ha fatto proprio questo: «eRosita ci dice che l’universo si è comportato come ci si aspettava nel corso della storia cosmica», afferma Vittorio Ghirardini, ricercatore post-dottorato presso l’Mpe che ha guidato lo studio cosmologico. «Non c’è alcuna tensione con la Cmb: forse i cosmologi possono rilassarsi un po’».

Una componente importante dell’analisi è rappresentata dalle misurazioni del lensing gravitazionale debole. Questo effetto descrive le distorsioni coerenti impresse alle forme osservate delle galassie lontane quando i loro raggi di luce attraversano il campo gravitazionale delle strutture in primo piano. Mentre gli studi sul cosmic shear sondano l’effetto lungo direzioni casuali, questo può essere misurato anche in prossimità di ammassi di galassie per stimarne le masse. Il team di eRosita ha condotto tali misure incorporando i dati di tre survey attuali di lensing gravitazionale debole: la Dark Energy Survey (Des), la Hyper Suprime Cam Survey (Hsc) e la Kilo-Degree Survey (KiDs). Queste misure calibrano la relazione tra il segnale a raggi X di eRosita e la massa dell’ammasso, permettendo così il confronto con le previsioni dei modelli cosmologici.

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Come le altre due immagini, ma con l’aggiunta della distorsione media misurata delle immagini delle galassie di fondo, causata dal debole effetto di lente gravitazionale che permette di “pesare” gli ammassi. Crediti: M. Kluge, C. Garrel, S. Grandis; optical image: Legacy Survey DR10, weak lensing: Dark Energy Survey (DES), X-ray: eROSITA

L’analisi della survey di weak lensing KiDS e il confronto dettagliato tra tutte e tre le survey sono presentati in un articolo guidato da Florian Kleinebreil, dottorando nel gruppo di Tim Schrabback. «Sono orgoglioso del team di weak lensing che ha svolto un lavoro eccellente nel fornire l’analisi di tutte e tre le principali survey di weak lensing per la calibrazione della massa degli ammassi di eRosita, che ha permesso di ottenere questi vincoli cosmologici; qualcosa che non è mai stato raggiunto prima», afferma Thomas Reiprich dell’Università di Bonn.

«Abbiamo scoperto che le tre survey di lensing forniscono vincoli di massa coerenti per gli ammassi di eRosita, fornendo un importante test di coerenza per l’analisi complessiva», spiega Kleinebreil. «L’analisi completata dimostra l’eccezionale potere di vincolo cosmologico fornito dalle analisi combinate di campioni di ammassi di galassie all’avanguardia e dalle survey di lensing debole. È interessante notare che questo campo progredirà ulteriormente nei prossimi anni, anche grazie all’arrivo di programmi di weak lensing di nuova generazione, tra cui quello condotto dal nuovo telescopio spaziale Euclid dell’Esa», conclude Schrabback.

E non è tutto. Gli oggetti più grandi dell’universo portano con sé anche informazioni sulle particelle più piccole: i neutrini, particelle leggerissime quasi impossibili da rilevare. Grazie all’abbondanza degli aloni di materia oscura più grandi dell’universo, i risultati di eRosita forniscono la misura combinata della massa dei neutrini più stretta mai ottenuta finora da un satellite cosmologico.

Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eROSITA All-Sky Survey: Cosmology Constraints from Cluster Abundances in the Western Galactic Hemisphere” di V. Ghirardini, E. Bulbul, E. Artis, N. Clerc, C. Garrel, S. Grandis, M. Kluge, A. Liu, Y. E. Bahar, F. Balzer, I. Chiu, J. Comparat, D. Gruen, F. Kleinebreil, S. Krippendorf, A. Merloni, K. Nandra, N. Okabe, F. Pacaud, P. Predehl, M. E. Ramos-Ceja, T. H. Reiprich, J. S. Sanders, T. Schrabback, R. Seppi, S. Zelmer, X. Zhang, W. Bornemann, H. Brunner, V. Burwitz, D. Coutinho, K. Dennerl, M. Freyberg, S. Friedrich, R. Gaida, A. Gueguen, F. Haberl, W. Kink, G. Lamer, X. Li, T. Liu, C. Maitra, N. Meidinger, S. Mueller, H. Miyatake, S. Miyazaki, J. Robrade, A. Schwope, I. Stewart
  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eRosita All-Sky Survey: Weak-Lensing of eRASS1 Galaxy Clusters in KiDS-1000 and Consistency Checks with DES Y3 & HSC-Y3” di Florian Kleinebreil, Sebastian Grandis, Tim Schrabback, Vittorio Ghirardini, I-Non Chiu, Ang Liu, Matthias Kluge, Thomas H. Reiprich, Emmanuel Artis, Emre Bahar, Fabian Balzer, Esra Bulbul, Nicolas Clerc, Johan Comparat, Christian Garrel, Daniel Gruen, Xiangchong Li, Hironao Miyatake, Satoshi Miyazaki, Miriam E. Ramos-Ceja, Jeremy Sanders, Riccardo Seppi, Nobuhiro Okabe, Xiaoyuan Zhang
  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SRG/eROSITA All-Sky Survey: First catalog of superclusters in the western Galactic hemisphere” di A. Liu, E. Bulbul, M. Kluge, V. Ghirardini, X. Zhang, J.S. Sanders, E. Artis, Y.E. Bahar, F. Balzer, M. Brueggen, N. Clerc, J. Comparat, C. Garrel, E. Gatuzz, S. Grandis, G. Lamer, A. Merloni, K. Migkas, K. Nandra, P. Predehl, M.E. Ramos-Ceja, T.H. Reiprich, R. Seppi, S. Zelmer


Pesare le galassie con l’intelligenza artificiale


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Intelligenza artificiale e astrofisica. Crediti: C. Tortora

Gli algoritmi e le applicazioni di intelligenza artificiale fanno ormai parte della nostra vita quotidiana. La comunità scientifica, tuttavia, ne fa largo utilizzo già da diversi anni e l’Italia, in questo, è all’avanguardia. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), per esempio, ha partecipato a un progetto guidato da Nicola R. Napolitano, da cinque anni presso la Sun Yat-sen University (Cina), che per la prima volta è riuscito a dimostrare che l’intelligenza artificiale può imparare dalle simulazioni cosmologiche di formazione ed evoluzione dell’universo a misurare correttamente la massa delle galassie. Lo studio che è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, descrive una nuova metodologia per stimare la massa delle galassie (incluso il loro contenuto di materia oscura) usando il machine learning.

Napolitano, già ricercatore Inaf e ora professore ordinario presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, spiega che «in questo modo, è possibile superare i problemi intrinseci alla dinamica delle galassie. I modelli dinamici, infatti, hanno bisogno di pesanti assunzioni sulla distribuzione dei moti interni delle galassie, che possono non essere totalmente corrette, e necessitano un esborso di risorse enorme per ottenere risultati sufficientemente accurati».

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Crescenzo Tortora, Inaf

L’articolo “Total and dark mass from observations of galaxy centers with Machine Learning” dimostra per la prima volta che questa metodologia funziona su cataloghi di galassie reali. Gli esperti hanno confrontato le stime del nuovo codice, denominato Mela (Mass Estimator machine Learning Algorithm), con stime di procedure dinamiche classiche verificando quindi che Mela può riprodurre con incredibile accuratezza le masse dei metodi classici, in alcuni casi molto più laboriosi e basati su dati molto più complessi (per esempio la cinematica 3D) dei dati più semplici di cui Mela ha bisogno e che saranno prodotti per milioni di galassie con i progetti di spettroscopia di nuova generazione in cui Inaf è coinvolta, come Weave e 4Most.

Crescenzo Tortora, ricercatore dell’Inaf di Napoli che ha partecipato allo studio, aggiunge: «Il lavoro è stato possibile grazie a un percorso intrapreso dal nostro gruppo che negli ultimi anni ha esteso le applicazioni dell’intelligenza artificiale a diversi settori dell’analisi dati di grandi survey astronomiche. Questo è stato anche possibile grazie all’esperienza acquisita negli ultimi anni con survey a grande campo (nello specifico Kids al telescopio Vst) nella ricerca di lenti gravitazionali, l’analisi della struttura e delle popolazioni stellari delle galassie».

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Nicola R. Napolitano, Università degli Studi di Napoli Federico II

Come in tanti altri settori, il machine learning è una realtà sempre più concreta nell’ambito dell’astrofisica, non solo nell’analisi dei dati ma anche nel loro sfruttamento scientifico. Napolitano prosegue: «In questo lavoro abbiamo chiesto a Mela di mostrarci come otteneva i suoi risultati e quali fossero le osservabili che avessero più importanza per derivare le sue conclusioni. La cosa straordinaria è che abbiamo capito che Mela può capire la fisica delle gravità».

L’Inaf, e in particolare la sede di Napoli, vanta una storica expertise in materia di dinamica delle galassie con la partecipazione a progetti nati sul solco della tradizione delle fisica delle galassie. I ricercatori Italiani, in particolare Tortora e Napolitano, sono diventati, negli anni, specialisti a livello mondiale con collaborazioni con i gruppi di dinamica delle galassie più importanti nel contesto internazionale e con progetti, come Mela, che sono unici al mondo.

«Da questo lavoro abbiamo capito che l’intelligenza artificiale è pronta a imparare la fisica a partire dai dati», conclude Napolitano. «Nella fattispecie abbiamo verificato che Mela può utilizzare le leggi fisiche che conoscevamo, ma presto l’intelligenza artificiale potrà imparare anche la Fisica che non conosciamo».

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Una meteora sul golfo di Napoli


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Meteora sul golfo di Napoli, immortalata da Wang Letian l’8 febbraio 2024 dall’Isola di Capri, e diventata Apod della Nasa lo scorso 17 febbraio. Crediti: Wang Letian

Una strisciata nel cielo, una meteora che sembra cadere proprio sulla cima del Vesuvio, in una vista sognata fin da bambino. È questa la cornice della foto scattata da Wang Letian, e ritrovata fra le altre scattate la stessa notte solo il giorno dopo. L’immagine del golfo di Napoli segnato da questa meteora è stata scattata dall’Isola di Capri, dove Letian si trovava in vacanza, ed è stata scelta dalla Nasa come foto astronomica del giorno – Astronomy picture of the day, Apod – il 17 febbraio scorso.

Era inizio febbraio quando Wang Letian, classe 1985, responsabile finanziario di un’azienda che si occupa di tecnologia in Cina, ha deciso di festeggiare il Capodanno cinese facendo una vacanza in Italia.

«Quando ero bambino, ho letto un racconto di O. Henry, The last leaf», racconta Letian a Media Inaf. «Il protagonista dell’articolo è un pittore che spera di poter dipingere un giorno il golfo di Napoli. Anch’io desidero il paesaggio di Napoli fin da quando ero giovane. Quindi, questo viaggio è stato programmato appositamente per andare a Napoli e a Roma. La sera dell’8 febbraio mi trovavo in un appartamento sull’isola di Capri, che aveva un balcone che si affacciava proprio sul golfo di Napoli. Quella sera il tempo era un po’ nuvoloso ma, essendo un appassionato di astrofotografia, ho messo comunque un treppiede e una macchina fotografica sulla mensola del balcone».

Per scattare Letian ha utilizzato una Canon R5 e un obiettivo Sigma da 14 mm. Ha impostato la fotocamera in modalità di ripresa automatica e quello che sperava di catturare, racconta, era proprio una vista con un bolide sul golfo di Napoli.

«Ma l’apparizione di una meteora è imprevedibile, quindi ho impostato la fotocamera per effettuare scatti temporizzati e, di fatto, non ho visto nulla a occhio nudo», continua Letian. «Il giorno dopo, controllando le foto scattate, ho scoperto per caso questa meteora in uno degli scatti. Non avendo portato con me un computer durante il viaggio, non ho avuto modo di elaborare le foto fino al mio rientro. Sono tornato a Pechino il 15 febbraio dopo aver visitato diverse città vicino a Napoli, Pompei e Roma. Una volta a casa, ho elaborato le foto scattate e sono rimasto abbastanza soddisfatto del risultato. Per questo ho proposto la foto alla Nasa come Apod».

L’astrofotografia per Letian è, da sempre, un hobby che lo aiuta a rilassarsi dopo il lavoro e lo accompagna nelle serate, nei fine settimana e quando si trova in viaggio. Quello del Golfo di Napoli è stato uno scatto fortunato – ci dice – perché il tempo è stato brutto per tutti i giorni successivi a quella serata e, in generale, scattare foto astronomiche richiede anche una buona dose di fortuna.


Bennu, raccolti in tutto 121.6 grammi


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Gli otto vassoi contenenti il materiale finale dell’asteroide Bennu. La polvere e le rocce sono state versate nei vassoi dalla piastra superiore della testa del Tagsam. Da questo versamento sono stati raccolti 51,2 grammi, portando la massa finale del campione di asteroide a 121,6 grammi. Crediti: Nasa/Erika Blumenfeld & Joseph Aebersold

120 grammi. Meno di mezzo panetto di burro, quasi una tazza di farina 00, persino meno di uno yogurt in vasetto. Oppure, il peso totale del campione dell’asteroide Bennu raccolto dalla sonda Osiris-Rex nell’ottobre 2020. Sembra poco, se paragonato alle quantità elencate sopra, ma si tratta del più grande campione di asteroide mai raccolto nello spazio; inoltre, è il doppio del requisito primario della missione per raggiungere gli obbiettivi scientifici prefissati.

Sono 121.6 grammi, per la precisione. Li hanno pesati gli addetti alla manipolazione del campione al Johnson Space Center della Nasa, dopo aver rimosso la copertura della testa del campionatore lo scorso 10 gennaio 2024. Quando hanno aperto per la prima volta la copertura del contenitore scientifico di Osiris-Rex, il Touch-and-Go Sample Acquisition Mechanism (Tagsam), gli esperti si sono accorti che c’era del materiale aggiuntivo rimasto sul coperchio del raccoglitore vero e proprio. Hanno quindi cominciato ad analizzare quello, lo scorso ottobre 2023, prima di procedere all’effettiva apertura della capsula. Anche perché due delle viti di fissaggio si erano ancorate in maniera ostinata e hanno impedito di lavorare subito all’intero campione.

Nei 70.3 grammi di materiale bonus raccolto all’esterno erano stati trovati composti ricchi di carbonio e molti minerali argillosi contenenti acqua. Ora, i 51.3 grammi trovati all’interno sono stati disposti in vassoi appositi – quelli che vedete nell’immagine di destra – in attesa che comincino le attività scientifiche. Il 70 per cento del campione rimarrà al Johnson Space Center della Nasa e conservato per ulteriori ricerche da parte di scienziati di tutto il mondo, comprese le generazioni future.

La restante parte, invece, sarà containerizzato e distribuito per essere studiato dai ricercatori. Oltre 200 scienziati della missione Osiris-Rex provenienti da tutto il mondo esplorerà le proprietà della regolite, mentre in primavera verrà pubblicato un catalogo dei campioni che saranno disponibili per essere richiesti dalla comunità scientifica mondiale tramite proposte di analisi scientifiche competitive.

Bennu è un asteroide primitivo e potrebbe contenere al proprio interno materiale risalente ai primi istanti di vita del Sistema solare. Per questo, studiare questi campioni è così importante: potrebbe farci toccare con mano reperti provenienti dal nostro passato, aiutandoci a capire meglio come si è formato il Sistema solare e quali sono le nostre origini.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Kilonove, fabbriche di metalli pesanti


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Immagine artistica della danza ‘suicida’ di due stelle di neutroni prima di trasformarsi in kilonova. Crediti: Clara & Sofía López Martín (Freepik) / Alberto J. Castro-Tirado (IAA-CSIC/UMA)

Le kilonove, le esplosioni astronomiche che derivano dalla fusione di oggetti celesti super compatti, appartengono a una rara classe di eventi osservati nel cielo. Questi eventi catastrofici sono caratterizzati da lampi gamma (Gamma-ray bursts, Grb) brevi, che durano di solito meno di 2 secondi, tranne alcune eccezioni, tra cui il Grb 230307A piuttosto lungo – circa 40 secondi – rilevato nel 2023.

Yuhan Yang, postdoc in Astrofisica, ed Eleonora Troja, professoressa associata di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Roma Tor Vergata e associata all’Istituto Nazionale di Astrofisica, firmano un nuovo studio pubblicato su Nature che analizza l’evoluzione temporale delle kilonove e il loro coinvolgimento nella produzione di elementi pesanti, noti come lantanoidi o, più comunemente, terre rare. Questi metalli fanno parte della nostra quotidianità: si trovano negli smartphone, nelle lampade e nelle batterie delle auto elettriche.

Secondo gli astronomi, nei giorni successivi a un evento di fusione, l’evoluzione della kilonova è essenzialmente caratterizzata dal decadimento radioattivo degli elementi più pesanti del ferro, sintetizzati durante la fusione. Nel periodo che va da una settimana a un mese, ci si aspetta che il comportamento della kilonova diverga sulla base della composizione del materiale rilasciato e di ciò che rimane lì dove è avvenuta la fusione. «Di solito non si osservano le kilonove per così tanto tempo, ad eccezione di AT2017gfo, che è stata la prima e l’unica kilonova con segnali di onde gravitazionali finora osservata», spiega Yang. Negli anni passati il telescopio spaziale Spitzer aveva osservato AT2017gfo mesi dopo la fusione, ma sfortunatamente il debole segnale non aveva permesso di identificare la presenza di terre rare, lasciando comunque un pezzo mancante del puzzle.

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Immagine artistica di Grb 230307A. L’immagine è stata realizzata da Yuhan Yang grazie all’AI-tool Dreamina.

Nella ricerca pubblicata su Nature sono state invece riportate le osservazioni legate a Grb 230307A. L’inizio della kilonova è stato identificato dalle osservazioni di questo Grb dopo un giorno. Lo studio è stato prorogato per due mesi dopo il lampo gamma. La sensibilità e la visione multicolore del telescopio spaziale Hubble e del telescopio spaziale James Webb hanno permesso di risolvere un pezzo cruciale del puzzle, ovvero l’evoluzione ‘tardiva’ di una kilonova.

«È stato emozionante studiare una kilonova come mai l’abbiamo vista grazie ai potenti occhi dei telescopi Hubble e James Webb Space Telescope» ha commentato Eleonora Troja. «Nei primi pochi giorni il comportamento di una kilonova non varia a seconda della sua composizione chimica. Ci vogliono settimane per capire quali metalli sono stati forgiati nell’esplosione e noi non abbiamo mai avuto la possibilità di osservare una kilonova così a lungo. Ora per la prima volta abbiamo potuto verificare che i metalli più pesanti del ferro e dell’argento si sono formati davanti ai nostri occhi».

I ricercatori spiegano che il rapido processo di cattura dei neutroni, il cosiddetto processo r, produce elementi più pesanti del ferro. La presenza di terre rare derivate dal processo r è cruciale per spiegare la brillante luce infrarossa proveniente da Grb 230307A. Questo conferma che le kilonove giocano un ruolo significativo nella creazione degli elementi più pesanti nell’universo.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A lanthanide-rich kilonova in the aftermath of a long gamma-ray burst” di Yu-Han Yang, Eleonora Troja, Brendan O’Connor, Chris L. Fryer, Myungshin Im, Joe Durbak, Gregory S. H. Paek, Roberto Ricci, Clécio R. Bom, James H. Gillanders, Alberto J. Castro-Tirado, Zong-Kai Peng, Simone Dichiara, Geoffrey Ryan, Hendrik van Eerten, Zi-Gao Dai, Seo-Won Chang, Hyeonho Choi, Kishalay De, Youdong Hu, Charles D. Kilpatrick, Alexander Kutyrev, Mankeun Jeong, Chung-Uk Lee, Martin Makler, Felipe Navarete & Ignacio Pérez-García


Sardegna e Marocco “Sotto lo stesso cielo”


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I nove ragazzi della Sardegna in partenza dall’aeroporto di Cagliari (da sinistra: Giada, Alice, Cinzia, Chiara, Maria, Elena, Maria Chiara, Riccardo, Ivan e Francesco). Crediti: Paolo Soletta/Inaf Cagliari

L’Istituto nazionale di astrofisica è uno tra gli istituti pubblici con più collaborazioni internazionali al mondo, e i suoi 17 osservatori sparsi per l’Italia ospitano centinaia di ricercatori con un grande bagaglio di scienza ma anche di contatti personali che possono essere messi a disposizione delle comunità di appartenenza e della solidarietà internazionale. La storia del progetto “Sotto lo stesso cielo” nasce proprio così, dall’incontro fra l’Inaf e l’associazione Elda Mazzocchi Scarzella – piccola ma pragmatica associazione di mamme di Domusnovas, in Sardegna, in cerca di un partner per partecipare a un bando della Regione Sardegna che finanzia progetti tra l’isola e il resto del mondo, con un particolare riguardo all’area mediterranea.

L’associazione Elda ha dunque contattato l’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Cagliari, ed è stato così possibile individuare un partner in Marocco grazie a un incontro, durante una summer school organizzata nel luglio 2023 dall’Unione astronomica internazionale (Iau), tra Silvia Casu, astrofisica responsabile della divulgazione e didattica dell’Inaf di Cagliari, e Jalili Qawtar, educatrice e programmatrice dell’università di Al Akhawayn a Ifrane, in Marocco. Grazie a questa fortunata congiunzione è stato possibile approntare “Sotto lo stesso cielo”, un progetto piccolo (circa 60mila euro) ma piuttosto articolato che prevede uno scambio giovanile tra nove ragazze e ragazzi di Musei, Domusnovas, Iglesias e Villamassargia con sei loro coetanei, soprattutto ragazze, della municipalità di Ifrane.

Saranno le donne importanti e il cielo stellato i fili conduttori della narrazione che accomuneranno questi giovani nelle tante attività previste: astronomia e coding ma anche teatro, empowerment femminile e arte muraria. Alla fine del progetto è prevista una pièce teatrale a cura di Teatro Impossibile e due murales: uno a tema sardo a Ifrane, l’altro a tema marocchino a Musei, piccolo comune capofila del progetto, grazie alla disponibilità e lungimiranza del giovane sindaco Sasha Sais.

«L’importanza della ‘A’ di art nelle discipline Steam (science, technology, engineering, art and mathematics)», dice Silvia Casu, «è stata riconosciuta solo recentemente. Grazie a progetti come questo possiamo mostrare come arte e scienza siano invece complementari e integranti e come l’arte fornisca una prospettiva unica per parlare di scienza e per mostrare l’importanza della creatività. Inaf in particolare lavora da anni su queste tematiche, grazie anche all’opera del Centro italiano dell’Office of Astronomy for Education dell’Iau, che ha promosso la creazione di una rete di collaborazioni nel Mediterraneo e un processo creativo e collaborativo di progettazione di attività astronomiche. Ed è interessante per noi mettere alla prova alcune di queste attività con gli adolescenti di paesi e culture diverse».

La prima missione del partenariato italiano in Marocco è stata realizzata dal 17 al 22 gennaio 2024 ed è servita anzitutto per poter conoscere i partecipanti di Ifrane e formarli sul concetto di cooperazione internazionale, onere toccato a Roberto Copparoni dell’associazione Amici senza confini di Cagliari. Inoltre è stata l’occasione per far conoscere sindaci e funzionari dei comuni di Musei e Ifrane, anche in vista di eventuali future collaborazioni in altri ambiti, come la raccolta dei rifiuti o la gestione dell’acqua pubblica. Infine, era necessario conoscere i luoghi per poter organizzare il soggiorno dei giovani protagonisti durante la seconda missione, in partenza proprio oggi, mercoledì 21 febbraio.

«Il viaggio è uno strumento educativo che l’associazione Elda inserisce in tutti i suoi progetti», spiega la coordinatrice del progetto, Maria Giovanna Dessì, «in quanto stimolare la curiosità e favorire la bellezza dell’incontro tra ragazzi diversi e distanti è fondamentale per avere cittadini consapevoli del proprio territorio e pronti a conoscerne altri. Dopotutto, sono proprio le diversità che rendono il mondo un’autentica meraviglia, così come il progetto “Sotto lo stesso cielo” vuole comunicare, nel suo senso più profondo».


Dall’asteroide alla palla di neve


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Illustrazione artistica della Terra “a palla di neve”, senza acqua liquida sulla superficie. Crediti: Oleg Kuznetsov/Wikipedia.

Secondo la teoria della Terra a palla di neve, in epoche molto remote il nostro pianeta avrebbe attraversato periodi di glaciazione su scala globale che rappresentano i cambiamenti climatici più marcati della storia della Terra. Riguardo questa teoria – ancora molto discussa tra gli scienziati – ha preso posizione un gruppo di ricerca dell’Università di Yale in collaborazione con le università di Chicago e Vienna, in uno studio pubblicato recentemente su Science Advances.

È noto fin dagli anni ’60 che se la Terra a un certo punto fosse diventata sufficientemente fredda, l’alta riflettività della neve e del ghiaccio avrebbe potuto creare un ciclo di feedback ghiaccio-albedo che avrebbe creato ancora più ghiaccio marino e un ulteriore abbassamento delle temperature, fino a causare una glaciazione completa del pianeta. Queste condizioni si sono verificate almeno due volte durante l’era Neoproterozoica della Terra, da 720 a 635 milioni di anni fa. Tuttavia, a oggi non è chiaro cosa abbia dato inizio a questi periodi di freddo globale, noti come eventi della “Terra a palla di neve”. La maggior parte delle teorie si è concentrata sull’idea che i gas serra nell’atmosfera siano in qualche modo diminuiti a tal punto da dare inizio a un profondo inverno (la fase “palla di neve”, appunto).

«E se fosse stato un impatto extraterrestre ad avere causato queste transizioni climatiche in modo molto brusco?» si chiede Minmin Fu dell’Università di Yale, primo autore dello studio. Secondo l’ipotesi sostenuta dal suo gruppo di ricerca, l’impatto di un asteroide di dimensioni paragonabili a Chicxulub potrebbe essere stato in grado di indurre un abbassamento drastico delle temperature innescando quindi una glaciazione globale a causa dell’effetto feedback.

Per dimostrare questa tesi, i ricercatori hanno utilizzato un sofisticato modello climatico che simula sia la circolazione atmosferica e oceanica, sia la formazione del ghiaccio marino in diverse condizioni. Il modello è stato applicato alle conseguenze di un ipotetico impatto in quattro distinti periodi: preindustriale (150 anni fa), Ultimo massimo glaciale (21mila anni fa), Cretaceo (145 – 66 milioni di anni fa) e Neoproterozoico (1 miliardo – 542 milioni di anni fa). Per due degli scenari climatici più caldi (nel Cretaceo e nell’era preindustriale), un bombardamento di asteroidi in grado di innescare una glaciazione globale è ritenuto improbabile ma nell’Ultimo massimo glaciale e nel Neoproterozoico, in cui la temperatura terrestre poteva essere già abbastanza fredda da essere considerata un’era glaciale, l’impatto di un asteroide avrebbe potuto far precipitare la Terra in uno stato di “palla di neve”.

«Ciò che mi ha sorpreso di più dei nostri risultati è che, date le condizioni climatiche iniziali sufficientemente fredde, uno stato “a palla di neve” dopo l’impatto di un asteroide possa svilupparsi nel giro di un solo decennio», dichiara Alexey Fedorov dell’Università di Yale, coautore dell’articolo. «In quella fase, lo spessore del ghiaccio marino all’equatore potrebbe essere di circa dieci metri, da confrontare con uno spessore di ghiaccio marino tipico di uno o tre metri nell’Artico moderno».

Poiché il modello climatico utilizzato nello studio è lo stesso che viene utilizzato per prevedere gli scenari climatici futuri, verrebbe da chiedersi quale sia la possibilità di un periodo di “Terra a palla di neve” indotto da un asteroide negli anni a venire. Per i ricercatori si tratta di un evento molto improbabile – anche a causa del riscaldamento del pianeta causato dall’uomo – ma indubbiamente analoghi impatti potrebbero essere altrettanto devastanti.

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Marziani per un anno: la Nasa ne vuole quattro


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La Nasa cerca quattro marziani. Quattro persone disposte a trascorrere un intero anno ininterrottamente a Mars Dune Alpha. Requisiti: essere cittadini statunitensi (o con permesso di residenza permanente, dunque con Green Card), sani e motivati, non fumatori e di età compresa tra i 30 e i 55 anni. È richiesta anche una buona conoscenza della lingua inglese, così da poter comunicare senza difficoltà con i compagni di equipaggio e con il centro di controllo della missione. Motivati, dicevamo: la voglia di vivere avventure uniche e gratificanti non può mancare, sottolinea l’agenzia, così come l’interesse a contribuire all’impegno della Nasa nella preparazione del primo viaggio umano su Marte.

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Rendering di Mars Dune Alpha. Crediti: Icon

Già, perché Chapea – questo il nome della missione – è “solo” un programma propedeutico alle future vere missioni verso il Pianeta rosso. E Mars Dune Alpha altro non è se non una sorta di loft ipertecnologico stampato in 3D, poco più di 150 metri quadri calpestabili, situato al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Un ambiente progettato nei minimi dettagli per simulare quelle che si prevede saranno le principali sfide di una vera missione su Marte: risorse con il contagocce, dispositivi che si guastano, una ventina di minuti in media di latenza nelle comunicazioni e altri fattori di stress ambientale. Tra i compiti dell’equipaggio non mancheranno passeggiate spaziali simulate, operazioni robotiche, attività di manutenzione, esercizio fisico, coltivazione d’ortaggi e altre colture.

Insomma, per passare la selezione anche il pollice verde può essere d’aiuto. Ma certo non basterà: i criteri di selezione, chiarisce infatti la Nasa, saranno infatti più o meno quelli richiesti anche agli aspiranti astronauti. Più precisamente: una laurea magistrale in una disciplina Stem rilasciata da un istituto accreditato e almeno due anni di esperienza professionale sempre in ambito Stem o, in alternativa, almeno mille ore di volo come pilota. Saranno presi in considerazione anche i candidati che abbiano completato almeno due anni di dottorato, sempre in discipline Stem, oppure che abbiano conseguito una laurea in medicina o, infine, che abbiano completato con successo un corso per piloti collaudatori. Se poi gli anni di esperienza professionale sono almeno quattro, potranno fare domanda anche gli ufficiali militari e chi è in possesso della sola laurea breve, sempre in una disciplina Stem.

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L’equipaggio della prima missione Chapea (da sinistra: Nathan Jones, Ross Brockwell, Kelly Haston e Anca Selariu). Crediti: Nasa/Josh Valcarcel

La squadra che supererà la selezione prenderà possesso di Mars Dune Alpha nella primavera del 2025, raccogliendo il testimone dai precedenti quattro “marziani”, quelli della prima edizione del programma Chapea: Nathan Jones, Ross Brockwell, Kelly Haston, Anca Selariu.

Termine ultimo per presentare le domande: martedì 2 aprile 2024. Ah, è previsto anche un compenso economico, ma la Nasa non ne specifica l’ammontare: maggiori informazioni, si legge nel sito, saranno fornite durante il processo di selezione dei candidati.


Italia-Sudafrica, accordo tra Inaf e Sarao


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In primo piano, da sinistra, Pontsho Maruping (managing director di Sarao) e Filippo Maria Zerbi (direttore scientifico di Inaf). Alle spalle di Zerbi l’ambasciatore d’Italia in Sudafrica Alberto Vecchi. Crediti: G. Umana/Inaf

È stato firmato presso la sede di Città del Capo in Sudafrica di Sarao (South African Radio Astronomy Observatory) un accordo per la formazione e la mobilità di ricercatori tra Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e Sarao. Presenti alla firma l’ambasciatore d’Italia Alberto Vecchi e il direttore scientifico di Inaf Filippo Maria Zerbi, che ha siglato l’accordo insieme alla managing director di Sarao, Pontsho Maruping.

L’investimento da parte di Inaf sarà di 350mila euro. Inaf rappresenta il governo italiano nello Square Kilometer Array Observatory (Skao), organizzazione inter-governativa creata a Roma nel 2019, di cui sono membri, oltre all’Italia, anche Australia, Cina, Olanda, Portogallo, Sudafrica, Regno Unito, Spagna e Svizzera, e che comporta un impegno finanziario per l’Italia di circa 120 milioni di euro in dieci anni (2021-2030). Nel progetto originale del Sudafrica ci sono 64 telescopi di avanguardia il cui insieme è stato chiamato MeerKat, il nome di una piccola mangusta diffusa nella zona di installazione delle antenne a 600 chilometri da Città del Capo.

L’Italia contribuisce con il MeerKat+, che aggiunge al radio telescopio MeerKat ulteriori 14 antenne in collaborazione con il tedesco Istituto Max Planck. I fondi italiani contribuiti via Inaf per la nuova installazione sono 6 milioni di euro. Le antenne saranno consegnate e installate entro la fine del 2024 e operative entro il 2025.

L’ambasciatore Vecchi ha ospitato la comunità scientifica in una serata in concomitanza con l’apertura del convegno Meerkat@5, che si tiene a Stellenbosch tra il 20 e il 23 febbraio. Vecchi ha ricordato gli impegni congiunti tra Italia e Sudafrica e ha assicurato che il supporto di Inaf continuerà nel futuro. «In un mondo incerto c’è un disperato bisogno di esempi di cooperazione e di questo accordo possiamo essere orgogliosi», ha detto.

Per Pontsho Maruping, managing director di Sarao, «il rapporto tra Italia e Sudafrica è importante perché lavoriamo insieme allo sviluppo di funzionalità aggiuntive sulle parabole MeerKat. Siamo ora in fase di progettazione di ricevitori Banda 5 che daranno al telescopio un’ulteriore modalità di osservazione. Si avrà così un incremento di conoscenze per la prossima fase del telescopio Skao».

Il direttore scientifico di Inaf Filippo Maria Zerbi ha detto di essere «molto lieto di celebrare un ulteriore passo nella collaborazione diplomatico-scientifica tra Italia e Sudafrica, in particolare nel settore della radio astronomia, che promette grandi risultati».

Fonte: Ansa


Nestar, una matrioska di gravastar


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Secondo la scoperta dei fisici della Goethe University di Francoforte, una nestar potrebbe assomigliare a una bambola matrioska di gravastar. Crediti: Daniel Jampolski e Luciano Rezzolla, Università Goethe di Francoforte

Per la scienza, l’interno dei buchi neri è un vero enigma. Nel 1916, il fisico tedesco Karl Schwarzschild delineò una soluzione alle equazioni della relatività generale di Einstein, secondo la quale il centro di un buco nero consiste in una cosiddetta singolarità, un punto in cui spazio e tempo non esistono più. Qui, secondo la teoria, tutte le leggi fisiche, compresa la teoria generale della relatività di Einstein, non si applicano più e il principio di causalità è sospeso. Nessuna informazione può uscire dal cosiddetto orizzonte degli eventi del buco nero e la singolarità costituisce una bella seccatura per gli scienziati. Potrebbe essere per questo motivo che la soluzione di Schwarzschild non attirò particolare attenzione al di fuori dell’ambito teorico per molto tempo, cioè fino alla scoperta del primo candidato buco nero nel 1971, seguita dalla scoperta del buco nero al centro della Via Lattea negli anni 2000 e infine dalla prima immagine di un buco nero, catturata dalla Event Horizon Telescope Collaboration nel 2019.

Nel 2001, Pawel Mazur ed Emil Mottola hanno proposto una soluzione diversa alle equazioni di campo di Einstein che ha portato a oggetti che hanno chiamato gravitational vacuum star, o gravastar. A differenza dei buchi neri, le gravastar presentano diversi vantaggi dal punto di vista dell’astrofisica teorica. Da un lato, sono compatte quasi quanto i buchi neri e sono caratterizzate da una gravità sulla loro superficie forte quanto quella di un buco nero. D’altra parte, le gravastar non hanno un orizzonte degli eventi, cioè un confine dal quale non è possibile inviare informazioni, e il loro nucleo non presenta una singolarità. Il centro delle gravastar infatti è costituito da un’energia esotica – oscura – che esercita una pressione negativa in contrapposizione all’enorme forza gravitazionale che comprime la stella. La superficie delle gravastar è rappresentata da una sottilissima crosta di materia ordinaria, il cui spessore si avvicina allo zero.

In un nuovo studio pubblicato su Classical Quantum Gravity i due fisici teorici Daniel Jampolski e Luciano Rezzolla della Goethe University di Francoforte hanno presentato una soluzione alle equazioni di campo della relatività generale che descrive l’esistenza di una gravastar all’interno di un’altra gravastar. A questo ipotetico oggetto celeste hanno dato il nome di nestar (dall’inglese nested, annidato).

«La nestar è come una bambola matrioska», spiega Jampolski, che ha scoperto la soluzione nell’ambito della sua tesi di laurea triennale, sotto la supervisione di Rezzolla. «La nostra soluzione alle equazioni di campo permette un’intera serie di gravastar annidate». Mentre Mazur e Mottola sostengono che la gravastar abbia una crosta infinitamente sottile costituita da materia normale, nella nestar il guscio di materia è un po’ più spesso: «È un po’ più facile immaginare che qualcosa del genere possa esistere».

«È bello che anche 100 anni dopo che Schwarzschild ha presentato la sua prima soluzione alle equazioni di campo di Einstein della teoria generale della relatività, sia ancora possibile trovare nuove soluzioni. È un po’ come trovare una moneta d’oro lungo un sentiero già esplorato da molti altri. Purtroppo, non abbiamo ancora idea di come si possa creare una gravastar di questo tipo. Ma anche se le nestar non esistessero, esplorare le proprietà matematiche di queste soluzioni ci aiuta a capire meglio i buchi neri», conclude Rezzolla.

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