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Bagliori nella notte marziana


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Animazione che illustra la dissociazione delle molecole di CO2 nell’atmosfera estiva e il trasporto degli atomi di ossigeno nelle regioni polari invernali. Lì, gli atomi di ossigeno (le sfere rosse) si ricombinano per formare molecole di O2 eccitate che, rilassandosi, emettono luce. Crediti: Esa.

Un team scientifico guidato da ricercatori del Laboratory for Planetary and Atmospheric Physics (Lpap/ Star Research Institute) della Università di Liegi (ULiège) ha appena osservato, per la prima volta, luci nel cielo notturno di Marte utilizzando lo strumento Nomad-Uvis a bordo della sonda Trace Gas Orbiter (Tgo) dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Questo strumento fa parte della suite di spettrometri Nomad sviluppata presso il Royal Institute for Space Aeronomy di Uccle e testata e calibrata presso il Centro spaziale di Liegi. Ricordiamo che Tgo è stato inserito in orbita circolare a un’altitudine di 400 chilometri dal suolo marziano nel 2018.

Inizialmente progettato per mappare nell’ultravioletto lo strato di ozono che circonda il pianeta, Nomad-Uvis copre una gamma spettrale che si estende dal vicino ultravioletto al rosso. A questo scopo, lo strumento è solitamente orientato verso il centro del pianeta e osserva la luce solare riflessa dalla superficie planetaria e dall’atmosfera. «Su proposta del nostro laboratorio, lo strumento è stato orientato verso il lembo del pianeta per osservarne l’atmosfera dai bordi», spiega Jean-Claude Gérard, planetologo dell’ULiège. «Nel 2020, avevamo già rilevato la presenza di un’emissione verde tra i 40 e i 150 chilometri di altitudine, presente durante il giorno marziano, dovuta alla dissociazione della molecola di CO2, principale costituente dell’atmosfera, ad opera della radiazione solare ultravioletta».

«Il satellite Tgo, osservando l’atmosfera notturna, ha appena rilevato una nuova emissione tra i 40 e i 70 chilometri di altitudine, dovuta alla ricombinazione degli atomi di ossigeno creati nell’atmosfera estiva e trasportati dai venti verso le alte latitudini invernali», spiega Lauriane Soret, ricercatrice di Lpap. «Lì, gli atomi si ricombinano a contatto con la CO2 per riformare una molecola di O2 in uno stato eccitato, che si rilassa ed emette luce nel campo del visibile». Questa emissione luminosa è concentrata nelle regioni polari a nord e a sud, dove gli atomi di ossigeno convergono nel ramo discendente della gigantesca traiettoria proveniente dall’emisfero opposto. L’intensità dell’emissione è elevata, nel campo del visibile. Questo processo sembra invertirsi ogni mezzo anno marziano, e la luminosità cambia quindi emisfero. Un’emissione simile è stata analizzata su Venere dallo stesso team utilizzando le immagini del satellite Venus Express. Su Venere, gli atomi viaggiano dal lato illuminato dal Sole al lato in ombra, dove emettono lo stesso bagliore di Marte.

Dopo aver evidenziato la presenza di uno strato di luce verde che circonda il pianeta dal lato diurno, i ricercatori hanno individuato l’emissione notturna. «Lo studio proseguirà durante la missione Tgo e ci fornirà preziose informazioni sulla dinamica dell’alta atmosfera marziana e sulle sue variazioni nel corso dell’anno marziano», continua Soret. «Abbiamo notato che un’altra emissione ultravioletta dovuta alla molecola di ossido nitrico (NO) viene osservata anche da Uvis nelle stesse regioni. Il confronto tra le due emissioni consentirà di affinare la diagnosi e identificare i processi coinvolti».

La molecola NO emette luce anche quando gli atomi di ossigeno e azoto si ricombinano. Come per la radiazione della molecola di O2, gli atomi si formano alla luce del sole, vengono trasportati dai venti nell’altro emisfero e si ricombinano durante il moto discendente nelle regioni polari.

«Queste nuove osservazioni sono inaspettate e interessanti per i futuri viaggi sul Pianeta rosso», afferma entusiasta Gérard. «L’intensità del bagliore notturno nelle regioni polari è tale che strumenti semplici e relativamente economici in orbita marziana potrebbero mappare e monitorare i flussi atmosferici. Una futura missione dell’Esa potrebbe portare con sé una telecamera per l’imaging globale. Inoltre, l’emissione è sufficientemente intensa da essere osservabile durante la notte polare dai futuri astronauti in orbita o dal suolo marziano».

Per saperne di più:


Esa M7, ecco le tre missioni in gara per gli anni ’30


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Schema del processo di selezione di una missione di classe media dell’Esa. Crediti: Esa/Atg

Erano partite in 27, poi la rosa si era ridotta a cinque, ora sono rimaste in tre. E alla fine ne resterà una soltanto. Parliamo della selezione per la missione M7, la settima (in realtà la sesta, M6 è stata cancellata) missione di classe media del programma Cosmic Visione dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. A giocarsi il biglietto per il lancio, in calendario attorno a metà degli anni Trenta, sono dunque rimaste in gara M-Matisse, per lo studio dell’abitabilità e l’evoluzione di Marte, Plasma Observatory, per l’esplorazione dell’ambiente di plasma che circonda il nostro pianeta, e infine Theseus, per l’osservazione di eventi cosmici ad alta energia e di breve durata. Le ultime due sono proposte a guida italiana, con principal investigator dell’Istituto nazionale di astrofisica.

«Tutte e cinque le proposte di missione che hanno superato la Fase 0 erano eccellenti, affrontavano argomenti unici ed entusiasmanti ed erano realizzabili entro la metà del 2030, quindi è stato davvero difficile prendere una decisione finale», dice Carole Mundell, direttrice scientifica dell’Esa. «Abbiamo istituito un panel di esperti degli stati membri dell’Esa per esaminare le missioni candidate. I revisori hanno seguito un rigoroso processo di selezione, che comprendeva l’esame del valore scientifico, della fattibilità scientifica, della tempestività e della complementarità con altri progetti». Dopo questa ulteriore scrematura, le tre missioni ammesse alla fase successiva sono risultate, appunto, M-Matisse, Plasma Observatory e Theseus – quest’ultima ripescata dalla terna per la selezione M5, per la quale la scelta dell’Esa era andata a EnVision.

Le tre missioni rimaste in gara dovranno ora affrontare la cosiddetta Fase A, durante la quale due diverse aziende aerospaziali porteranno a termine – per ciascuna di esse – uno studio dettagliato, così da giungere a un progetto completo. A metà del 2026, infine, verrà scelta la missione da lanciare. Ma sentiamo direttamente dai protagonisti, un po’ più in dettaglio, di che missioni si tratta.

M-Matisse, due satelliti gemelli per lo space weather marziano

«La missione M-Matisse, acronimo per Mars – Magnetosphere Atmosphere Ionosphere and Space-weather Science, è dedicata allo studio dell’accoppiamento magnetosfera-ionosfera-termosfera, dovuto all’interazione tra Marte e il vento solare», spiega Raffaella D’Amicis dell’Inaf Iaps di Roma, responsabile delle data processing unit per il plasma a bordo di entrambi i satelliti di cui si compone la missione. «Attraverso le osservazioni simultanee dei due satelliti – Henri e Marguerite – che orbiteranno intorno a Marte, equipaggiati con gli stessi strumenti, sarà possibile individuare quali sono i processi fisici che governano la dinamica del sistema. Questo rappresenta un punto focale per comprendere l’evoluzione dell’atmosfera e del clima del pianeta, oltre all’ambiente radiativo marziano, ed è essenziale per prevenire situazioni di pericolo per satelliti ed esseri umani, e per previsioni accurate nell’ambito dello space weather».

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Maria Federica Marcucci e Lorenzo Amati, astrofisici Inaf e principal investigator, rispettivamente, delle missioni candidate M7 Plasma Observatory e Theseus. Crediti: Inaf

Plasma Observatory, sette sentinelle nella magnetosfera terrestre

«Plasma Observatory è una missione che potrebbe portare a comprendere, finalmente, i processi che danno vita all’accelerazione di particelle e al trasporto di grandi quantità di energia nei plasmi cosmici», dice la principal investigator della missione, Maria Federica Marcucci, dell’Inaf Iaps di Roma. «A tal scopo, Plasma Observatory è concepito come una costellazione di sette satelliti per fornire, per la prima volta, misure simultanee multi-scala nelle regioni chiave della magnetosfera terrestre, dove avvengono i fenomeni di accelerazione e trasporto più intensi. La comprensione di tali fenomeni è fondamentale, poiché si tratta di processi universali che determinano anche la fisica di oggetti astrofisici lontani e allo stesso tempo danno vita allo space weather, che può avere impatti diretti sullo svolgimento delle attività umane».

Theseus, un telescopio spaziale per lo studio dei Grb

«Theseus è un concetto di missione che ambisce a sfruttare appieno le grandi e uniche potenzialità dei lampi di raggi gamma (Grb, gamma-ray burst) per l’esplorazione dell’universo primordiale e lo sviluppo dell’astrofisica multi-messaggero», dice il principal investigator della missione, Lorenzo Amati, dell’Inaf Oas di Bologna. «I più lunghi e potenti di questi fenomeni permettono, infatti, di rivelare direttamente l’esplosione delle prime stelle formatesi nell’universo. Agendo come veri e propri fari cosmici, questi eventi permettono inoltre l’identificazione e lo studio sistematico delle galassie primordiali, e in particolar modo di quelle di piccola massa e bassa luminosità, invisibili persino ai più potenti telescopi, come il James Webb. Al tempo stesso, i lampi più brevi sono la controparte elettromagnetica più prominente dei segnali gravitazionali prodotti dalla coalescenza di sistemi binari costituiti da due stelle di neutroni o una stella di neutroni e un buco nero. Theseus permetterà la rivelazione e localizzazione di numerose decine di lampi gamma coincidenti con onde gravitazionali, portando così dagli albori alla piena maturazione l’astrofisica e la cosmologia multi-messenger».


Spazio e sostenibilità al vertice di mid-term dell’Esa


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Il razzo Ariane 6 nella base di lancio dello spazioporto europeo in Guyana francese, durante l’esercitazione di una sequenza di lancio completa il 5 settembre 2023. Crediti: Esa/ArianeGroup/Cnes

«Lo spazio oggi è molto più che mera scienza spaziale, esplorazione robotica e umana. Lo spazio è diventato strategico per la prosperità di qualsiasi nazione. La politica spaziale è politica climatica, politica industriale e politica di sicurezza. È uno strumento cruciale per affrontare sfide globali. Lo spazio è diventato un argomento al tavolo dei negoziati globali. L’Europa deve partecipare attivamente a questa conversazione».

Quelle che avete appena letto sono le parole del direttore generale dell’Agenzia spaziale europea (Esa) Joseph Aschbacher, pronunciate durante il vertice ministeriale di mid-term dell’Esa che si è tenuto nei giorni scorsi a Siviglia. Fra i temi affrontati, le azioni di impegno concrete dell’Esa nella lotta al cambiamento climatico, il monitoraggio e la gestione dei detriti spaziali, e l’autonomia dell’Europa nei lanci spaziali e la commerciale dei voli da parte di privati. Riguardo quest’ultimo punto, durante il summit è stata firmata un’intesa trilaterale fra il ministro delle Imprese e del made in Italy con delega alle politiche spaziali e aerospaziali Adolfo Urso, il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire e il vicecancelliere tedesco Robert Habeck per lo sblocco immediato dei razzi Ariane 6 e Vega-C. Sono state inoltre ampliate le disponibilità per il lancio dei vettori Vega dal sito francese della Guyana, ed è stata definita una programmazione dei lanci fino al 2030, anno in cui l’Europa ambisce a raggiungere il primo sbarco di un astronauta europeo sulla Luna.

Da diversi anni l’Esa possiede una divisione dedicata al monitoraggio del nostro pianeta. I dati raccolti dai satelliti sono fondamentali per identificare i segni del cambiamento climatico sul lungo periodo, per studiare l’andamento e le conseguenze gli eventi meteorologici estremi come alluvioni, uragani, eruzioni, e per monitorare l’impatto delle attività umane (come l’agricoltura, l’industria e i lanci spaziali stessi sul clima). L’impegno – preso durante il summit – è quello di potenziare progetti come il Green Transition Information factory, che usa questi dati di osservazione della Terra, il cloud computing e analisi all’avanguardia per sostenere i responsabili delle politiche industriali e le industrie ad accelerare la transizione verso la neutralità del carbonio; o, ad esempio, il sistema Iris a sostegno di una transizione sostenibile del volo e dei satelliti. Allo stesso tempo, l’Esa promette di impegnarsi attivamente per ridurre l’impronta ambientale di tutti i progetti spaziali lungo l’intero ciclo di vita e per promuovere un’industria spaziale pulita e sostenibile.

Parlare di sostenibilità e futuro dello spazio, poi, non può prescindere dal tema dei detriti spaziali. La vita dell’essere umano sulla terra si basa quotidianamente sui servizi offerti da migliaia di satelliti in orbita bassa che causano e risentono del problema dei detriti spaziali. Per questo, durante il summit spaziale a Siviglia, i ministri hanno invitato organizzazioni pubbliche e aziende spaziali commerciali ad asserire la loro intenzione di firmare, ei prossimi mesi, una Carta Zero Debris.

Ne esce, dunque, un’Europa spaziale con molti buoni propositi e buone intenzioni. Serviranno per elaborare una strategia “Esa 2040” da preparare insieme agli Stati membri dell’Esa, che sarà pronta all’inizio del 2024 e sarà la base della riunione ministeriale vera e propria del 2025.

«La press release dell’Esa è piena di buone intenzioni», commenta a Media Inaf Patrizia Caraveo, astrofisica Inaf e autrice, assieme a Clelia Iacomino, del libro Europe in the global Space Economy (Springer, 2023). «Si parla di partnership con investitori privati, di lanciatori finalmente operativi per fornire servizi di lancio per le missioni scientifiche e commerciali europee e di una forte connessione con la commissione europea. Cosa si potrebbe volere di più? Purtroppo, le buone intenzioni non bastano per rendere competitiva l’industria spaziale europea. Non abbiamo un lanciatore riutilizzabile e non sembriamo preoccupati del divario tecnologico ed economico tra i lanciatori europei e quelli americani, dove campeggia un imprendibile SpaceX che quest’anno vuole polverizzare il suo record di lanci ed arrivare a quota 100. Come Clelia Iacomino ed io abbiamo avuto occasione di scrivere nel nostro libro, la politica spaziale europea ha bisogno di una rivoluzione che deve partire dalle istituzioni che la governano che sono troppe e non agiscono di concerto».

«L’Esa, la commissione e l’Euspa applicano regole diverse per la gestione dei contratti», continua Caraveo. «I lanciatori sono saldamente in mano a un monopolio che viene finanziato dal denaro pubblico e tende a stare nella sua comfort-zone senza avventurarsi in tecnologie nuove come il riutilizzo che, guarda caso, è la direzione nella quale stanno andando tutti gli altri players del settore. Le grandi industrie europee sono abituate a lavorare con contratti pubblici per i quali tendono a collaborare più che a competere e sono decisamente risk-averse. Come facciamo notare nel libro, i miliardari europei, che sono in numero minore di quelli americani, ma esistono, agiscono nel mondo del lusso piuttosto che nella tecnologia. Come abbiamo detto scherzosamente nell’ultimo capitolo del nostro libro, Bernard Arnaud (che è il secondo uomo più ricco del mondo) potrebbe fornire cosmetici agli astronauti ma certo non si sogna lontanamente di investire nel settore aerospaziale. Come risultato, Esa (e la Commissione) è costretta a lanciare i suoi satelliti con SpaceX, e forse non è una cosa negativa, visto che per lanciare (in modo perfetto) Euclid, SpaceX è costato meno del Soyuz gestito da Arianespace (parliamo di meno di 70 milioni contro 80). Ma SpaceX è cresciuto grazie ai finanziamenti della Nasa, che ha deciso di credere nelle potenzialità dei privati. Lo farà anche l’Esa? In ogni caso c’è un divario di almeno una decade che pesa come un macigno».


Con l’ammoniaca, all’origine dei giganti gassosi


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Illustrazione artistica della nana bruna Wise J1828, uno dei giganti gassosi più freddi conosciuti al di fuori del nostro Sistema Solare. La sua atmosfera è dominata dalla presenza di acqua, metano e, come suggeriscono i risultati dello studio in questione, ammoniaca. Crediti: Eth Zurigo / Polychronis Patapis

Gli isotopologhi sono molecole che differiscono solo per la loro composizione isotopica. Hanno dunque la stessa formula chimica, ma almeno uno degli elementi costitutivi è un isotopo, cioè un atomo di uno stesso elemento chimico con un numero diverso di neutroni. Esempi di isotopologhi sono l’acqua leggera e l’acqua semi-pesante. Nella prima, che conosciamo semplicemente col nome di acqua, ci sono due atomi di idrogeno e uno di ossigeno (H2O). Nell’altra, invece, un atomo di idrogeno è sostituito da uno di deuterio, un isotopo dell’idrogeno con un neutrone in più nel nucleo (HDO). Sono molecole utilizzate in molti campi della scienza. L’astronomia non fa eccezione.

Gli isotopologhi del monossido di carbonio – in particolare quelli contenenti il carbonio 12 e il carbonio 13 – sono utilizzati ad esempio per studiare l’atmosfera degli esopianeti e ottenere indizi sui loro meccanismi di formazione. Un team di ricercatori guidato dal Centro de Astrobiología di Madrid, in Spagna, ha ora rilevato nell’atmosfera di una nana bruna nuovi isotopologhi che, al pari di quelli del monossido di carbonio, possono essere utilizzati per studiare la formazione planetaria, in particolare quella dei giganti gassosi. Le molecole in questione sono varianti dell’ammoniaca contenenti gli isotopi dell’azoto N14 e N15, e sono state trovate nell’atmosfera di Wise J1828, una delle nane brune più fredde che si conoscono al di fuori del Sistema solare. I risultati della ricerca sono pubblicati su Nature.

Le nane brune sono corpi celesti a metà strada tra stelle e pianeti. Sono infatti troppo piccole per essere classificate come stelle vere e proprie, ma troppo grandi per essere considerate pianeti. Questa loro natura “ambigua” le rende tuttavia degli ottimi laboratori per studiare le atmosfere dei giganti gassosi, in quanto i processi fisici e chimici che vi avvengono sono quasi identici. Nello studio David Barrado, ricercatore presso il Centro di astrobiologia di Madrid, e colleghi si sono concentrati su Wise J1828, una nana bruna situata a 32,5 anni luce dalla Terra nella costellazione della Lira. Per osservare il corpo celeste, l’estate scorsa i ricercatori gli hanno puntato addosso il James Webb Space Telescope.

Nell’intervallo di lunghezze d’onda compreso tra 4,9 e 27,9 μm, lo spettrometro a media risoluzione (Mrs) dello strumento Miri – l’unico del telescopio in grado di spingersi alle lunghezze d’onda del medio infrarosso – ha registrato uno spettro della nana bruna dove, oltre a molecole d’acqua e metano, i ricercatori hanno rilevato gli isotopologhi dell’ammoniaca 14NH3 e 15NH3, costituiti rispettivamente dall’azoto 14 e dall’azoto 15, i due isotopi stabili dell’elemento.

Il passo successivo è stato quello di determinare nell’atmosfera della nana bruna il rapporto di queste due varianti dell’ammoniaca, una misura il cui valore, spiegano i ricercatori, è importante in quanto fornisce indicazioni su quale sia, tra l’accrescimento del nucleo e l’instabilità gravitazionale, il meccanismo di formazione di questo corpo celeste in particolare e dei giganti gassosi in generale. Il numero che è venuto fuori è 670, un valore che, osservano i ricercatori, suggerisce che la nana bruna non si sia formata per accrescimento del nucleo ma piuttosto attraverso il collasso gravitazionale.

Un altro risultato ottenuto dai ricercatori riguarda la variazione del rapporto 14NH3/15NH3 al variare della distanza tra il corpo celeste e la sua stella. È quindi probabile, aggiungono i ricercatori, che l’instabilità gravitazionale svolga un ruolo importante nella formazione dei giganti gassosi, soprattutto per quelli che si muovono su orbite molto grandi.

Ora che grazie al Jwst l’ammoniaca è diventata rilevabile, il rapporto 14NH3/15NH3 può essere utilizzato in futuro come indicatore per studiare formazione di stelle e pianeti, concludono i ricercatori. Si tratta di un nuovo strumento che aiuterà a discriminare tra i diversi meccanismi conosciuti di formazione dei giganti gassosi.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “15NH3 in the atmosphere of a cool brown dwarf” di David Barrado, Paul Mollière, Polychronis Patapis, Michiel Min, Pascal Tremblin, Francisco Ardevol Martinez, Niall Whiteford, Malavika Vasist, Ioannis Argyriou, Matthias Samland, Pierre-Olivier Lagage, Leen Decin, Rens Waters, Thomas Henning, María Morales-Calderón, Manuel Guedel, Bart Vandenbussche, Olivier Absil, Pierre Baudoz, Anthony Boccaletti, Jeroen Bouwman, Christophe Cossou, Alain Coulais, Nicolas Crouzet, René Gastaud, Alistair Glasse, Adrian M. Glauser, Inga Kamp, Sarah Kendrew, Oliver Krause, Fred Lahuis, Michael Mueller, Göran Olofsson, John Pye, Daniel Rouan, Pierre Royer, Silvia Scheithauer, Ingo Waldmann, Luis Colina, Ewine F. van Dishoeck, Tom Ray, Göran Östlin e Gillian Wright


Una gemella della Via Lattea 11.7 miliardi di anni fa


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Il telescopio spaziale Webb è quel paio di occhiali che mancava, agli astrofisici, per vedere nitidamente ciò che prima era indistinguibile. Per raggiungere distanze maggiori, per vedere molto più in dettaglio oggetti più vicini o, in alcuni casi, entrambe le cose assieme. Come nel caso di cui parliamo oggi: è stata scoperta la “galassia gemella” della Via Lattea più lontana di sempre, già pienamente formata quando l’universo aveva solo 2,1 miliardi di anni. Si chiama ceers-2112, è una galassia con una forma a spirale barrata proprio come la nostra, e possedeva (all’epoca in cui è stata osservata) anche una quantità simile di stelle. L’articolo che ne parla è stato pubblicato oggi su Nature.

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Rappresentazione artistica della galassia a spirale barrata ceers-2112, osservata nell’universo primordiale. La Terra si riflette su una bolla illusoria che circonda la galassia, ricordando il legame tra la Via Lattea e ceers-2112. Crediti: Luca Costantin (Cab/Csic-Inta)

Immagine/foto

La scoperta porta con sé un primato osservativo, dal momento che non erano mai state trovate galassie simili oltre redshift 2 – mentre ceers-2112 si trova a redshift 3. Una svolta tecnica, poiché grazie alla sensibilità e alla risoluzione angolare di Webb è possibile adottare le stesse tecniche di analisi fotometrica che si usano per le immagini delle galassie vicine. E che apre un’importante questione teorica: com’è possibile che esistessero galassie perfettamente strutturate e con una forma a disco in un’epoca cosmica così antica? Le simulazioni numeriche, infatti, dicono che non dovrebbero esistere galassie a spirale barrate a redshift maggiore di 1.5, ovvero oltre 9,5 miliardi di anni fa.

Significa, in altre parole, che la Via Lattea potrebbe aver acquisito la sua forma attuale molto prima di quanto si pensasse e aver avuto più tempo per evolvere indisturbata in seguito. E qui torniamo alla questione degli occhiali: da quando abbiamo cominciato a osservare con Webb, anche altri tipi di galassie, sia ellittiche che spirali, sono state viste comparire in epoche molto più antiche, quando si pensava che le galassie fossero quasi tutte di forma irregolare. Segno, anche questo, che si sono evolute molto più velocemente di quanto potessimo prevedere – o vedere – con gli occhiali che possedevamo prima.

«Il James Webb sta rivoluzionando non solo il modo di vedere l’universo ma anche gli scenari di formazione delle galassie», dice a Media Inaf Chiara Buttitta, ricercatrice all’Inaf di Napoli e coautrice dell’articolo. «Studi recenti ad esempio mostrano che, nonostante la loro fragilità, i dischi stellari delle galassie si erano già formati quando l’universo aveva solo un paio di miliardi di anni ed era dominato da violenti interazioni e fusioni tra galassie. La solida presenza di una barra in ceers-2112 è una prova evidente che occorre rivedere gli scenari di formazione delle galassie a disco, e in particolare i tempi di formazione delle galassie barrate, come la Via Lattea. Stando a lavori teorici basati su simulazioni cosmologiche ad alta risoluzione, le barre non sono ancora presenti a quest’epoca primitiva dell’universo. La scoperta di ceers-2112 rappresenta, quindi, un punto di rottura rispetto alle previsioni teoriche. Le future campagne osservative, soprattutto quelle spettroscopiche, ci consentiranno di indagare in dettaglio questo aspetto».

Le galassie non hanno avuto sempre l’aspetto di quelle che vediamo vicino a noi oggi, poiché la loro struttura e la loro massa cambiano nel corso della loro vita. Per quanto riguarda le galassie simili alla Via Lattea, comuni nell’universo vicino, ad esempio, si pensava che fossero estremamente rare in passato. Fino a prima di Webb, la morfologia delle galassie lontane si basava su osservazioni condotte con il telescopio spaziale Hubble, che aveva rivelato, appunto, che molte galassie lontane mostravano strutture altamente irregolari, probabilmente dovute alle continue interazioni e fusioni. Ora, invece, per la prima volta abbiamo la tecnologia per studiare la morfologia dettagliata delle galassie molto distanti. E, con essa, comprendere meglio la loro storia e ricostruirne la formazione.

Ceers-2112 fa parte di un programma osservativo che si chiama Cosmic Evolution Early Release Science (Ceers, appunto), che ha raccolto immagini multibanda profonde di galassie lontane con lo strumento NirCam a bordo del telescopio spaziale Webb, in una regione di cielo in direzione delle costellazioni dell’Orsa Maggiore e di Boote.

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Luca Costantin, ricercatore al Centro di astrobiologia dell’Instituto Nacional de Técnica Aeroespacial a Madrid, in Spagna, e primo autore dell’articolo di Nature che riporta la scoperta della galassia ceers-2112

«Nei primi mesi di vita del James Webb, nell’ambito della collaborazione Ceers abbiamo cominciato ad analizzare visualmente un campione di quasi mille galassie che selezionate per essere osservate quando l’universo aveva meno di 2 miliardi di anni. Tra queste c’era ceers-2112», ricorda a Media Inaf Luca Costantin, ricercatore al Centro di astrobiologia dell’Instituto Nacional de Técnica Aeroespacial a Madrid, in Spagna, e primo autore dello studio. «Inizialmente, la sua classificazione era incerta, dato che nello studio abbiamo analizzato visivamente alcune delle immagini ottenute in singole bande fotometriche. La mia intuizione è stata quella di combinarle tutte assieme per mostrare come la galassia possegga inequivocabilmente una barra, da cui si dipartono due bracci di spirale immersi in un disco esteso ma molto debole e quindi invisibile nelle singole immagini».

Infine, una nota di colore. Dal 2021 la Torre della Specola, sede dell’Inaf di Padova, viene illuminata per un minuto con un colore diverso ogni volta che vi passa sopra un sistema di pianeti extrasolari, un asteroide, una galassia “medusa” o un particolare gruppo di stelle. Si tratta sempre di astri connessi alla città e alle ricerche scientifiche che svolgono gli astronomi padovani. Data la forte connessione degli autori dell’articolo con l’Inaf di Padova, per celebrare ceers-2112 la torre verrà illuminata di rosa scuro.

«Abbiamo scelto questa tonalità di colore per evidenziare quanto la radiazione di ceers-2112 sia spostata verso le lunghezze d’onda più lunghe (verso il rosso, quindi, ndr) in virtù dell’espansione dell’universo», spiega Enrico Maria Corsini, professore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova e coautore dello studio. «I tempi dei passaggi di ceers-2112 saranno visibili sul sito dell’Inaf di Padova».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A Milky Way-like barred spiral galaxy at a redshift of 3“, di Luca Costantin, Pablo G. Perez-Gonzalez, Yuchen Guo, Chiara Buttitta, Shardha Jogee, Micaela B. Bagley, Guillermo Barro, Jeyhan S. Kartaltepe, Anton M. Koekemoer,Cristina Cabello, Enrico Maria Corsini, Jairo Mendez-Abreu, Alexander de la Vega, Kartheik G. Iyer, Laura Bisigello, Yingjie Cheng, Lorenzo Morelli, Pablo Arrabal Haro, Fernando Buitrago, M. C. Cooper, Avishai Dekel, Mark Dickinson, Steven L. Finkelstein, Mauro Giavalisco, Benne W. Holwerda, Marc Huertas-Company, Ray A. Lucas, Casey Papovich, Nor Pirzkal, Lise-Marie Seille, Jesus Vega-Ferrero, Stijn Wuyts e L. Y. Aaron Yung


Euclid nell’universo delle meraviglie


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L’ammasso di galassie del Perseo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Il telescopio spaziale Euclid, lanciato lo scorso primo luglio, osserverà miliardi di galassie, andando a ritroso nella storia dell’universo fino a dieci miliardi di anni fa. Tante e tanto lontane sono necessarie per sviscerare i misteri dell’accelerazione cosmica, ovvero perché l’espansione dell’universo, da qualche miliardo di anni a questa parte, procede a ritmo sempre più sostenuto. Un problema che affligge la cosmologia da quasi un quarto di secolo. Ma prima di cimentarsi con cotanta sfida, come chi si prepara a correre un giorno la maratona, il più recente occhio spaziale aggiuntosi alla flotta dell’Agenzia spaziale europea ha cominciato ad allenarsi vicino casa.

L’oggetto più distante, tra i cinque immortalati nelle prime immagini di Euclid, è l’ammasso di galassie del Perseo, a ben 240 milioni di anni luce da noi. Una distanza di tutto rispetto – la luce delle sue galassie è partita quando sulla Terra erano da poco apparsi i dinosauri – che però impallidisce dinanzi ai miliardi di anni luce da cui si affacciano gli oggetti più lontani, che fanno timidamente capolino sullo sfondo. L’immagine, oltre a un migliaio di galassie appartenenti all’ammasso, mostra infatti più di centomila galassie ancora più distanti, molte delle quali non erano mai state osservate prima d’ora.

«Vogliamo osservare le galassie estremamente deboli e piccole, chiamate galassie nane», commenta Jean-Charles Cuillandre, ricercatore della collaborazione Euclid presso il Cea Paris-Saclay, in Francia. «Sono dominate da stelle più vecchie che brillano in luce infrarossa. Secondo le simulazioni cosmologiche, l’universo dovrebbe contenere molte più galassie nane di quante ne abbiamo trovate finora. Con Euclid saremo in grado di vederle, se davvero esistono in un numero così elevato come previsto».

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Dettaglio dell’ammasso di galassie del Perseo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Tra gli obiettivi di Euclid, mappare la distribuzione e la forma di un grandissimo numero di galassie permetterà di comprendere come la materia oscura, di cui si percepisce solo l’effetto indiretto su ciò che vediamo, ha modellato il cosmo che osserviamo oggi. Nel corso di miliardi d’anni, sotto l’attrazione della gravità, la materia oscura ha formato strutture filamentose, dando origine alla cosiddetta ragnatela cosmica che permea l’universo, nei cui nodi più densi si trovano gli ammassi di galassie come quello del Perseo. «Se non esistesse la materia oscura, le galassie sarebbero distribuite uniformemente in tutto l’universo», aggiunge Cuillandre.

La luce delle galassie lontane porta i segni di tutto ciò che ha incontrato sul suo cammino, compresa la materia oscura, che distorce la forma di queste galassie: è l’effetto di lente gravitazionale debole. Euclid osserverà molti ammassi di galassie come questo, scandagliando una porzione di cielo grande trentamila volte questa immagine, e fornendo così una visione 3D della distribuzione di materia oscura nell’universo. L’evoluzione di questa mappa lungo la storia del cosmo contiene importanti indizi anche sull’energia oscura, uno dei principali sospettati dietro l’espansione accelerata dell’universo.

Tripudio di galassie

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La galassia a spirale Ic 342. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Più vicino a casa, a “soli” undici milioni di anni luce da noi, Euclid ha ripreso una splendida galassia a spirale. Gli esperti la chiamano Ic 342 o Caldwell 5, ma il suo soprannome è “la galassia nascosta” in quanto, a causa della sua posizione nel cielo, è quasi del tutto oscurata dalla polvere della nostra galassia, la Via Lattea, e si può osservare solo nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso. Euclid non è il primo telescopio spaziale ad averla osservata: anche Hubble ne aveva fotografato il suo nucleo, ma finora era impossibile studiare la storia della formazione stellare dell’intera galassia.

«Questo è l’aspetto geniale delle immagini di Euclid. In un solo scatto, può vedere l’intera galassia in tutti i suoi meravigliosi dettagli», spiega Leslie Hunt, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Firenze. «Questa immagine potrebbe sembrare normale, come se ogni telescopio potesse realizzare un’immagine del genere, ma non è vero. La particolarità è che abbiamo un’ampia visuale che copre l’intera galassia, ma possiamo anche ingrandire per distinguere singole stelle e ammassi stellari. Ciò rende possibile tracciare la storia della formazione stellare e comprendere meglio come le stelle si sono formate e si sono evolute nel corso della vita della galassia».

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La galassia irregolare Ngc 6822. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

La spirale Ic 342 somiglia alla Via Lattea, ma non alla maggior parte delle galassie dell’universo, che sono piccole e di forma irregolare. È da queste galassie nane che le galassie più grandi, come la nostra, hanno preso forma. Euclid ne ha già fotografata una: la galassia nana irregolare Ngc 6822 che, ad “appena” 1,6 milioni di anni luce dalla Terra, appartiene al Gruppo Locale, l’ammasso di galassie a cui appartiene la Via Lattea.

Scoperta per la prima volta nel 1884 e identificata come un “sistema stellare remoto” da Edwin Hubble nel 1925, questa galassia è stata ripresa molte volte, recentemente anche dal telescopio spaziale Jwst. Eppure questa è la prima immagine ad alta risoluzione dell’intera galassia, realizzata da Euclid in una sola ora di osservazione. «Studiando le galassie a bassa metallicità [ovvero che contengono piccole quantità di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, ndr] come Ngc 6822 nel nostro vicinato galattico, possiamo scoprire come le galassie si sono evolute nell’universo primordiale», aggiunge Hunt.

Sempre più piccoli, sempre più vicino

Euclid non scherza nemmeno nel nostro “vicinato cosmico”: la scintillante immagine dell’ammasso globulare Ngc 6397, a circa 7800 anni luce dalla Terra, è la prima a racchiudere in un solo “scatto” il nucleo e le regioni esterne di questo agglomerato che raggruppa centinaia di migliaia di stelle. Gli ammassi globulari sono tra gli oggetti più antichi dell’universo, e per questo conservano memoria della storia di formazione stellare delle galassie che li ospitano.

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L’ammasso globulare Ngc 6397. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Ngc 6397, che si trova nel disco della Via Lattea, è il secondo ammasso globulare più vicino a noi. «Attualmente nessun altro telescopio oltre a Euclid può osservare l’intero ammasso globulare e allo stesso tempo distinguere i suoi deboli membri stellari nelle regioni esterne da altre sorgenti cosmiche», spiega Davide Massari, ricercatore Inaf a Bologna. Poiché il nucleo di un ammasso globulare contiene tantissime stelle, le più luminose tendono a oscurare quelle più deboli, di piccola massa. Ma sono proprio queste stelle a racchiudere i segreti delle precedenti interazioni dell’ammasso con la Via Lattea, lasciando talvolta delle scie – dette “code mareali” che si estendono ben oltre l’ammasso. «Ci aspettiamo che tutti gli ammassi globulari della Via Lattea ne abbiano, ma finora ne abbiamo viste solo poche», aggiunge Massari.

«Se non ci sono code mareali, allora potrebbe esserci un alone di materia oscura attorno all’ammasso globulare, che impedisce alle stelle esterne di fuggire. Ma non ci aspettiamo aloni di materia oscura attorno a oggetti su scala più piccola come gli ammassi globulari, ma solo attorno a strutture più grandi come le galassie nane o la stessa Via Lattea». Se invece le osservazioni di Euclid riveleranno code mareali negli ammassi globulari come Ngc 6397, sarebbe possibile calcolare in modo molto preciso il modo in cui questi agglomerati stellari orbitano attorno alla nostra galassia. «E questo ci dirà come è distribuita la materia oscura nella Via Lattea».

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La Nebulosa Testa di Cavallo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Ancora più vicino a casa – siamo a circa 1375 anni luce di distanza – Euclid ha rivisitato un’icona della fotografia astronomica: la Nebulosa Testa di Cavallo. Scoperta nel 1888 da Williamina Fleming ispezionando a occhio nudo le lastre fotografiche dell’Osservatorio di Harvard, questa nube scura dalla forma inconfondibile si nasconde tra il gas e la polvere della nube molecolare di Orione, non lontano dalla stella Alnitak, una delle tre che formano la “cintura” del cacciatore mitologico nella famosa costellazione.

Anche in questo caso, la nuova immagine di Euclid sbalordisce per la visione nitida su un campo così vasto, realizzata peraltro con una sola osservazione di circa un’ora. Tra le spesse coltri di polvere cosmica, prendono forma nuove stelle e, con loro, anche sistemi planetari. «Siamo particolarmente interessati a questa regione, perché la formazione stellare avviene in condizioni molto speciali», spiega Eduardo Martín Guerrero de Escalante dell’Instituto de Astrofisica de Canarias a Tenerife.

La nebulosa è infatti illuminata dall’intensa radiazione proveniente da Sigma Orionis, una stella molto luminosa che si trova sopra la Testa di Cavallo, appena fuori dall’immagine. La stessa Sigma Orionis appartiene a un ammasso contenente più di cento stelle, di cui la missione Gaia ha già rivelato molti nuovi membri, «ma in questa immagine di Euclid», nota Martín, «vediamo già nuovi candidati tra stelle, nane brune e oggetti di massa planetaria, quindi speriamo che Euclid ci fornisca un quadro più completo».

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Dettaglio della Nebulosa Testa di Cavallo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; Cc By-Sa 3.0 Igo

Siamo quasi a casa. E anche qui, in questo vivaio stellare della Via Lattea, fa bella mostra di sé il cosmo più profondo. Distanti galassie dalle forme disparate si intravedono sullo sfondo, oltre il sipario della nebulosa, specialmente nella parte più alta dell’immagine. I risultati di questo “allenamento cosmico” promettono bene. Pur dopo un inizio turbolento, Euclid sembra a tutti gli effetti pronto per la maratona: “catturare” miliardi di galassie vicine e lontane, misurare le loro proprietà e la loro tendenza ad aggregarsi, e affrontare finalmente i segreti dell’universo oscuro.

Su MediaInaf Tv, Leslie Hunt illustra la galassia a spirale Ic 342:

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Su MediaInaf Tv, Leslie Hunt illustra la galassia nana Ngc 6822:

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Su MediaInaf Tv, Davide Massari illustra l’ammasso globulare Ngc 6397:

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Indagando su V1298 Tau, come Sherlock Holmes


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Rappresentazione artistica del sistema planetario V1298 Tau. Crediti: Gabriel Pérez Díaz, Smm (Iac)

Pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, uno studio guidato da Diego Turrini dell’Istituto nazionale di astrofisica ha gettato nuova luce sulledinamiche di formazione del sistema esoplanetario V1298 Tau, un giovane sistema multi-pianeta formatosi circa 20 milioni di anni fa attorno a una stella simile al Sole, che è stato caratterizzato nell’ambito del programma nazionale Gaps (Global Architecture of Planetary System) al Tng (Telescopio nazionale Galileo) in un lavoro pubblicato nel 2021 su Nature Astronomy.

V1298 Tau è un sistema molto inusuale perché ospita quattro pianeti molto massicci (il più piccolo ha una massa decine di volte maggiore di quella della Terra) e questi quattro pianeti sono contenuti in una regione orbitale molto compatta, più piccola dell’orbita di Mercurio attorno al Sole. Il meccanismo chiave per formare un sistema così compatto è quello della cattura risonante (i pianeti migrano avvicinandosi fino a restare catturati in risonanza), ma il sistema oggi non è in risonanza come ci si aspetterebbe che fosse e mostra invece i segni di una violenta storia dinamica nonostante la sua giovane età. Come se questo non fosse sufficiente, i suoi due pianeti più esterni (b ed e) sono due pianeti gioviani con raggi simili tra loro ma masse molto diverse.

Dallo studio pubblicato oggi emerge che le caratteristiche inusuali di questo sistema richiedono una storia di formazione altrettanto inusuale, dove i pianeti b ed e devono essere da distanze molto diverse dalla stella (e deve essere nato almeno due volte più distante di b, che a sua volta deve essere nato almeno alla distanza di Giove nel Sistema solare), ma devono essersi incontrati ed entrati in risonanza durante la loro migrazione per creare l’architettura compatta che vediamo oggi. Nonostante la giovane età del sistema, però, qualcosa deve aver rotto questa risonanza primordiale. Lavorando in un processo alla Sherlock Holmes, per esclusione delle cause impossibili, gli autori dello studio mostrano che il sistema deve contenere o aver contenuto un quinto pianeta massivo a sufficienza da strappare gli altri dalla loro condizione risonante.

«In questo studio, come in quelli che lo hanno preceduto sullo stesso filone, è stato fondamentale l’utilizzo del tool Ssdc ExoplAn3T, che permette di ottenere e visualizzare rapidamente i sistemi esoplanetari nel loro insieme», ricorda Angelo Zinzi, tecnologo dell’Agenzia spaziale italiana e componente del team di autori dell’articolo. «In questo modo è possibile passare dallo studio del singolo esopianeta ad uno studio sistematico sulle caratteristiche degli esosistemi, anche con parametri che ne rispecchiano la storia dinamica».

«V1298 Tau custodisce gelosamente i suoi segreti, ma i nuovi modelli di simulazione e analisi dati che abbiamo sviluppato nella comunità italiana rendono questo sistema un laboratorio unico per studiare i processi che governano la nascita dei pianeti. La partita con V1298 Tau è ancora aperta», conclude Diego Turrini, «ma il nostro studio ci ha permesso di fare previsioni dettagliate per guidare le future osservazioni, incluse quelle del James Webb Space Telescope».

Fonte: Global Science

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The GAPS program at TNG XLVII: The unusual formation history of V1298 Tau”, di D. Turrini, F. Marzari, D. Polychroni, R. Claudi, S. Desidera, D. Mesa, M. Pinamonti, A. Sozzetti, A. Suárez Mascareño, M. Damasso, S. Benatti, L. Malavolta, G. Micela, A. Zinzi, V. J. S. Béjar, K. Biazzo, A. Bignamini, M. Bonavita, F. Borsa, C. del Burgo, G. Chauvin, P. Delorme, J. I. González Hernández, R. Gratton, J. Hagelberg, M. Janson, M. Langlois, A. F. Lanza, C. Lazzoni, N. Lodieu, A. Maggio, L. Mancini, E. Molinari, M. Molinaro, F. Murgas e D. Nardiello


Uhz1*: giovane, supermassiccio, da record


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Gli astronomi hanno trovato il buco nero più distante mai rilevato nei raggi X (in una galassia chiamata Uhz1) utilizzando i telescopi spaziali Chandra e Webb. L’emissione a raggi X è la firma rivelatrice di un buco nero supermassiccio in crescita. Questo risultato potrebbe spiegare come si sono formati alcuni dei primi buchi neri supermassicci nell’universo. Le immagini mostrano l’ammasso di galassie Abell 2744 dietro il quale si trova Uhz1, nei raggi X di Chandra e nei dati infrarossi di Webb, nonché primi piani della galassia ospite del buco nero Uhz1. Crediti: Raggi X: Nasa/Cxc/Sao/Ákos Bogdán; Infrarossi: Nasa/Esa/Csa/STScI; Elaborazione delle immagini: Nasa/Cxc/Sao/L. Frattare & K.Arcand

È un buco nero supermassiccio da record, quello scoperto di recente da un team di astronomi guidato dall’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, negli Usa. E non solo perché, nonostante sia ancora nella sua fase iniziale di crescita, la sua massa è simile a quella della galassia che lo ospita. Ma anche perché, con un redshift di 10.3, è il più lontano mai osservato nei raggi X.

Il buco nero in questione si trova al centro della galassia Uhz1, un quasar distante 13,2 miliardi di anni luce dalla Terra. Ákos Bogdan, astrofisico dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, e colleghi l’hanno scovato combinando i dati di due telescopi orbitanti targati Nasa: il nuovo telescopio a infrarossi James Webb e il veterano telescopio per raggi X Chandra. La scoperta, tuttavia, non sarebbe stata possibile senza un piccolo aiutino: l’effetto lente gravitazionale di Abell 2744, un gigantesco ammasso di galassie situato a 3,5 miliardi di anni luce dalla Terra, frapposto fra la nostra linea di vista e la galassia che ospita il buco nero.

L’effetto lente gravitazionale dell’ammasso Abell 2744 ha infatti permesso al telescopio James Webb di identificare la galassia e determinarne uno spostamento verso il rosso (redshift, in inglese) pari a 10.3, il che significa che la galassia era già lì circa 13 miliardi e mezzo di anni fa, ovvero circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang. Chandra ha poi fatto tutto il resto. Nel corso di due settimane di osservazioni, il telescopio spaziale della Nasa ha catturato luce X emessa dal gas caldo all’interno di Uhz1: la firma rivelatrice del buco nero supermassiccio in crescita al centro della galassia. Anche in questo caso la lente gravitazionale di Abell 2744 è stata fondamentale: amplificando di un fattore quattro la luce X emessa dalla galassia, ha permesso a Chandra di rilevare la debole sorgente.

«Avevamo bisogno del telescopio James Webb per trovare questa galassia straordinariamente distante e di Chandra per trovare il suo buco nero supermassiccio», dice a questo proposito Bogdan, primo autore dell’articolo pubblicato sulla rivista Nature Astronomy, che descrive la scoperta. Che aggiunge: «Abbiamo anche approfittato di una lente d’ingrandimento cosmica, che ha aumentato la quantità di luce rilevata».

Questa scoperta, spiegano i ricercatori, è importante per comprendere come alcuni buchi neri supermassicci possano raggiungere masse colossali subito dopo il Big Bang. In base alla luminosità e all’energia dei raggi X emessi, gli autori hanno stimato una massa del buco nero il cui valore è compreso tra 10 e 100 milioni di volte quella del Sole. Si tratta di una massa pari a quella di tutte le stelle della galassia che ospita il buco nero, osservano i ricercatori, il che è in netto contrasto con quello che osserviamo nelle galassie dell’universo locale, in cui di solito la massa dei buchi neri supermassicci è lo 0.1 per cento della massa totale della galassia.

Come spiegare, dunque, questo risultato? La sua enorme massa a una così giovane età, la quantità di raggi X che produce e la luminosità della galassia che lo ospita sono in accorso con le previsioni teoriche, fatte nel 2017 da Priyamvada Natarajan, astrofisica all’Università di Yale e co-autrice dello studio, secondo cui questi buchi neri sovrappeso – chiamati anche Outsize Black Hole Galaxies – si originerebbero a partire da “semi pesanti”, cioè direttamente dal collasso di un’enorme nube di gas.

«Pensiamo che questa sia la prima rilevazione di un buco nero fuori misura e la migliore prova finora ottenuta che alcuni buchi neri si formano da enormi nubi di gas», osserva Natarajan. «Per la prima volta», conclude la ricercatrice, «stiamo osservando una breve fase della vita di un buco nero supermassiccio in cui esso pesa quanto le stelle della sua galassia».

I ricercatori intendono ora utilizzare questo e altri risultati ottenuti dal telescopio James Webb e quelli ottenuti combinano i dati di altri telescopi per avere una comprensione più completa di ciò che avviene nell’universo primordiale.

Per saperne di più:

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube di Chandra:

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Prime spettacolari e dettagliate immagini di Euclid


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La Nebulosa Testa di Cavallo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; CC BY-SA 3.0 IGO

Cinque foto del cosmo a colori con una risoluzione che sfiora l’incredibile. Queste le prime immagini arrivate dal telescopio spaziale Euclid, costruito e gestito dall’Agenzia spaziale europea (Esa) con il contributo della Nasa e la collaborazione dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e di numerose università italiane. Immagini che mostrano che il telescopio è pronto per creare la più estesa mappa 3D dell’Universo mai vista prima e per scoprire alcuni dei suoi segreti nascosti.

Mai prima d’ora un telescopio, sia spaziale che terrestre, era stato in grado di creare immagini astronomiche così nitide su una zona così ampia di cielo e di guardare così distante nel lontano universo. Le immagini immortalano corpi celesti disparati: si parte dall’iconica Nebulosa Testa di Cavallo, distante appena 1.500 anni luce dalla Terra, passando per un ammasso stellare e due galassie, fino al gigantesco ammasso di galassie del Perseo, a 240 milioni di anni luce da noi. Pur ritraendo oggetti dell’universo relativamente vicino, queste immagini illustrano tutto il potenziale di Euclid, lanciato lo scorso primo luglio ed ora in orbita ad un milione e mezzo di km da noi intorno al punto L2 di equilibrio gravitazionale tra Sole, Terra e Luna.

Euclid, che ha un telescopio con uno specchio del diametro di 1,2 metri, ha il compito di indagare su come la materia oscura e l’energia oscura abbiano dato al nostro universo l’aspetto che ha oggi. Il 95 per cento del cosmo sembra essere costituito da queste misteriose entità “oscure”, ma non si comprende cosa siano, perché la loro presenza provoca solo piccoli cambiamenti nell’aspetto e nei movimenti delle cose che possiamo vedere. Per rivelare l’influenza “oscura” sull’universo visibile Euclid osserverà le forme, le distanze e i movimenti di miliardi di galassie fino alla distanza di 10 miliardi di anni luce. In questo modo, creerà la più grande mappa cosmica 3D mai realizzata. Alla fine della sua vita operativa, prevista al momento intorno a sei anni, Euclid avrà prodotto immagini e dati fotometrici per più di un miliardo di galassie e milioni di spettri di galassie, dati che saranno di grande importanza anche per molti altri settori dell’astrofisica.

«Nell’ambito della partecipazione alle grandi missioni scientifiche di space science», dice Barbara Negri, responsabile del Volo umano e sperimentazione scientifica dell’Agenzia spaziale italiana, «il contributo alla missione Euclid è stato ed è uno dei maggiori impegni dell’Asi in questi anni. Abbiamo coordinato le attività con Esa e con le altre agenzie nazionali, guidato le industrie nazionali nella realizzazione dei contributi italiani agli strumenti di Euclid e nello sviluppo del Science Data Center italiano. Asi ha, inoltre, supportato il team scientifico, in particolare per la responsabilità della gestione del Science Ground Segment della missione che svolge l’importante ruolo di produrre i dati finali della missione, come queste spettacolari immagini, sforzo cui partecipa direttamente anche il centro Ssdc di Asi».

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L’ammasso di galassie del Perseo. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre (Cea Paris-Saclay), G. Anselmi; CC BY-SA 3.0 IGO

«Queste immagini mostrano qualcosa che va ben oltre le migliori aspettative», commenta Anna Di Giorgio dell’Inaf, che coordina le attività italiane per la missione Euclid finanziate dall’Asi. «Le centinaia, se non migliaia, di galassie visibili nello sfondo di ciascuno dei campi osservati danno una misura di quello che sarà possibile ottenere dalla scansione di più di un terzo del cielo: l’idea che sembrava fantascientifica di poter misurare la distorsione nella forma di più di un miliardo di galassie appare oggi ancora di più come un obiettivo perfettamente raggiungibile. Anche in questo caso l’Italia ha dato un contributo importante alla produzione di queste prime immagini, tre delle quali si riferiscono a oggetti proposti da scienziati Inaf, che ne guideranno lo studio dettagliato e saranno i responsabili delle prime pubblicazioni ad essi associate».

«Le prime splendide immagini che Euclid ci ha inviato ci danno conferma dell’enorme potenzialità di questo nuovo strumento nell’esplorazione dell’universo», aggiunge Luca Stanco, che coordina il contributo dell’Infn a Euclid. «In particolare è impressionante il dettaglio, mai raggiunto prima, con cui Euclid è riuscito a osservare l’ammasso di galassie del Perseo, distante ben 240 milioni di anni luce da noi. Queste prime immagini ci danno la fondata speranza che Euclid, nel giro di qualche anno, potrà dare un contributo sostanziale alla definizione della natura sia della materia oscura, sia dell’energia oscura, che assieme costituiscono il 95 per cento dell’universo: riuscire a comprendere questi due misteri sarebbe una rivoluzione. Oggi ha davvero inizio una nuova straordinaria avventura scientifica e l’Italia ne sarà protagonista».

Per questa missione è stato realizzato un consorzio composto da oltre 2000 scienziati provenienti da 300 istituti in 13 paesi europei, oltre a Stati Uniti, Canada e Giappone.

Guarda la conferenza Esa di presentazione delle prime immagini:

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Buchi neri degustatori di galassie


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Il monossido di carbonio (CO, in rosso) indica la presenza di gas molecolare a media densità; il carbonio (C, in blu) indica la presenza di gas atomico; l’acido cianidrico (HCN, in verde) indica la presenza di gas molecolare ad alta densità; la linea di ricombinazione dell’idrogeno (H36α, in rosa) indica la presenza di gas ionizzato. La dimensione del disco centrale di gas denso (verde) è di circa 6 anni luce. Il flusso di plasma si muove quasi perpendicolarmente al disco. Crediti: Alma, T. Izumi et al.

La maggior parte delle galassie, oltre a stelle, sistemi e ammassi stellari, gas e polveri, contengono al centro buchi neri supermassicci che si sviluppano accrescendo massa proveniente dalla galassia circostante.

Sappiamo che il “cibo” gassoso del buco nero può essere fornito dal mezzo interstellare di un’intera galassia alla sua regione centrale, entro un’area di circa 100 parsec (circa 300 anni luce) di distanza dal nucleo. Quando il gas caldo cade verso il buco nero, si riscalda emettendo radiazioni e può essere, quindi, osservato come nucleo galattico attivo (Agn).

Non tutta la materia che cade verso un buco nero, però, viene assorbita: una parte viene espulsa all’esterno. Finora, il rapporto tra la materia che il buco nero attrae a sé e quella che effettivamente poi “mangia” è sempre stato difficile da misurare. Inoltre, poco si sa su come il gas venga trasportato nella zona più interna che circonda il buco nero, a causa dell’estrema compattezza della regione (minore di 10 parsec).

Ora un team di ricerca internazionale guidato da Takuma Izumi di Naoj, il National Astronomical Observatory del Giappone, ha utilizzato il radiotelescopio Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile, per osservare il buco nero supermassiccio nella galassia Eso 97-G13 – una delle galassie più vicine alla Via Lattea, ancora poco esplorata, situata a 14 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione Compasso, o Circinus. Galassia della quale è noto che il buco nero si stia alimentando attivamente. Le nuove osservazioni di Circinus tracciano un quadro vivido di come il gas molecolare alimenti il buco nero supermassiccio nel cuore della galassia. In particolare, nello studio pubblicato la settimana scorsa Science i ricercatori hanno combinato le osservazioni submillimetriche di diversi gas nel centro della galassia e sono riusciti a identificare un afflusso di gas molecolare denso nell’area centrale del nucleo galattico attivo che alimenta il buco nero.

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Galassia Compasso (Circinus), un vorticoso calderone di vapori incandescenti, il cui nucleo è alimentato da un buco nero di una vicina galassia attiva. La galassia si trova a 13 milioni di anni luce di distanza, nella costellazione meridionale del Circinus. Circinus fa parte della classe di galassie a spirale che hanno centri compatti e si ritiene contengano buchi neri massicci. Crediti: Nasa/Esa

Grazie all’alta risoluzione di Alma, il team è stato il primo al mondo a misurare la quantità di afflusso e deflusso fino a una scala di pochi anni luce intorno al buco nero. Le nuove misurazioni dei gas in diversi stati (molecolare, atomico e plasma) effettuate, per la prima volta, con una risoluzione spaziale di 0,5-2,6 parsec hanno individuato afflussi gassosi densi intorno al buco nero supermassiccio che dimostrerebbero come solo una piccola parte – circa il tre per cento – del gas che fluisce verso il buco nero venga “mangiata” da quest’ultimo. Il restante 97 per cento verrebbe espulso nella galassia ospite. In pratica, quasi come dei sommelier che assaggiano il vino senza berlo completamente, i buchi neri supermassicci “inghiottirebbero” solo una minima porzione del gas circostante, mentre i “resti” verrebbero riciclati nelle regioni circumnucleari, o inizierebbero a ricadere di nuovo, lentamente, verso il buco nero.

Il team di ricerca ha anche confermato che è l’instabilità gravitazionale a guidare l’afflusso di gas e che la maggior parte dei flussi espulsi non è abbastanza veloce da sfuggire alla galassia per perdersi nel mezzo intergalattico.

Per saperne di più:


I magnifici sette di Kepler-385


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Il telescopio spaziale Kepler è stato il primo cacciatore di esopianeti della Nasa. Durante i suoi nove anni di missione nello spazio profondo – tre di missione primaria, dal 2009 al 2012, e sei di missione estesa, la cosiddetta K2, dal 2012 al 2018 – il telescopio ha raccolto oltre 600 gigabyte di dati che hanno permesso agli astronomi di dimostrare che sopra le nostre teste ci sono più pianeti che stelle.

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Illustrazione artistica di Kepler-385, il sistema planetario costituito da sette pianeti, quattro dei quali scoperti durante la realizzazione di un nuovo catalogo di candidati pianeti prodotto sulla base dei dati d’archivio di Kepler della Nasa. Crediti: Nasa/Daniel Rutte

I frutti di questi anni di osservazione sono ben 25 data release: 25 documenti riportanti i dati fotometrici di oltre 530mila stelle (chiamate dagli astronomi Kepler Objects of Interest) monitorate alla ricerca di piccoli cambiamenti di luminosità dovuti al transito di pianeti. Il bottino finale della caccia è di oltre 2600 esopianeti scoperti, molti dei quali potrebbero essere luoghi promettenti per la vita.

Ma l’eredità della missione Kepler non è ancora finita. Utilizzando i dati d’archivio raccolti dal telescopio spaziale, un team di astronomi della Nasa ha infatti scoperto nuovi pianeti all’interno di un sistema planetario che di mondi ne contiene già tre. Il sistema planetario in questione è Kepler-385, e stando a quanto descritto nel nuovo catalogo di pianeti prodotto, grazie ai dati del telescopio spaziale, da un team guidato da Jack J. Lissauer, ricercatore all’Ames Research Center della Nasa, i pianeti di questo sistema sarebbero addirittura sette.

Al centro del sistema planetario c’è Kepler 385, una nana gialla simile al nostro Sole, situata a circa 4600 anni luce dalla Terra nella costellazione del Cigno. Kepler-385 b, Kepler-385 c e Kepler-385 d sono i tre pianeti precedentemente individuati e confermati in orbita attorno alla stella. I primi due sono entrambi più grandi della Terra, probabilmente rocciosi e con sottili atmosfere. Kepler-385 b è una super-terra, un mondo roccioso con una massa circa 12 volte quella del nostro pianeta che impiega 10 giorni per completare un’orbita attorno alla stella, dalla quale dista circa 14 milioni di chilometri. Kepler-385 c è invece un pianeta simile a Nettuno, 13 volte più massiccio della Terra e con un periodo di rivoluzione di 15,2 giorni. Insieme a Kepler-385 b, il suo carattere di pianeta è stato confermato nel 2014 da Jason F. Rowe e colleghi. L’ultimo dei pianeti del sistema già noti è stato confermato nel 202o da uno studio condotto da David J.Armstrong e colleghi. Il pianeta è simile a Kepler-385 b, ma è sei volte meno massiccio e impiega 56,4 giorni per completare un’orbita attorno alla sua stella, dalla quale dista circa 19 milioni di chilometri. Il suo nome è Kepler-385 d.

Andiamo adesso ai nuovi pianeti scoperti. O meglio, ai nuovi candidati pianeti. Sono quattro, sono tutti più grandi della Terra ma più piccoli di Nettuno e si prevede che siano avvolti da spesse atmosfere. Hanno periodi di rivoluzione rispettivamente di 3.4, 6, 28 e 86 giorni, e tre di essi sono probabilmente in risonanza orbitale.

La capacità di descrivere le proprietà del sistema Kepler-385 in modo così dettagliato testimonia la qualità di questo catalogo di esopianeti, sottolineano i ricercatori. Il nuovo catalogo si basa infatti su misurazioni migliorate delle proprietà stellari e calcoli più accurati del percorso di ciascun pianeta in transito sulla sua stella ospite. Ciò ha permesso di ottenere informazioni dettagliate su ciascuno dei sistemi planetari individuati dalla missione, rendendo possibili scoperte come queste.

«Abbiamo messo insieme il più accurato elenco di candidati pianeti rilevati dalla missione Kepler e delle loro proprietà», osserva Lissauer, primo autore dell’articolo, accettato per la pubblicazione su The Planetary Science Journal, che presenta il nuovo catalogo. «La missione Kepler della Nasa ha scoperto la maggior parte degli esopianeti oggi conosciuti, questo nuovo catalogo consentirà agli astronomi di saperne di più sulle loro caratteristiche».

La missione Kepler ci ha già mostrato che ci sono più pianeti che stelle, concludono i ricercatori. Questo nuovo studio dipinge un quadro più dettagliato di questi pianeti e dei sistemi planetari di cui fanno parte, fornendoci una visione migliore dei molteplici mondi oltre il nostro Sistema solare.

Per saperne di più:

Ascolta la sonificazione dei dati orbitali dei sette pianeti del sistema sul canale YouTube dell’Ames Research Center:

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Galileo (R)evolution


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La locandina del documentario Galileo (R)evolution, Berta Film, 2023.

A quattrocento anni dalla pubblicazione de Il Saggiatore di Galileo, padre del metodo scientifico, come si è evoluto il mondo della scienza? Chi sono i protagonisti della ricerca oggi? Ce lo racconta il regista Carlo Borean nel documentario Galileo (R)evolution – Il Cammino della Scienza, in anteprima a Firenze il prossimo 5 novembre, alle 11, al cinema La Compagnia (ingresso gratuito).

Galileo (R)evolution si muove narrativamente tra l’osservazione delle vite dei ricercatori, l’animazione della vita di Galileo, gli archivi, le interviste – a scienziati e scienziate, e a storici della scienza – con l’intento di parlare dell’attualità e dell’importanza della ricerca scientifica, oggi come ieri, in Italia e nel mondo, a partire dalla vita di Galileo. Chi fosse lo scienziato Galileo Galilei e come stiano oggi i suoi eredi, Galileo (R)evolution ce lo racconta in un parallelismo tra la vita del genio e la sua eredità, riflessa nelle imprese di giovani ricercatori e scienziati contemporanei. Il documentario ripercorre il cammino della scienza in un dialogo tra lo spazio e il tempo, tra la vita di Galileo e quella delle nuove generazioni di scienziati che, oggi come ieri tra sfide e successi, dedicano una vita a servizio del progresso della conoscenza.

Hanno preso parte al documentario volti noti come la scienziata Antonella Viola, la giornalista scientifica Silvia Bencivelli e l’astronauta Samantha Cristoforetti, e anche due ricercatori dell’Inaf di Arcetri, Giovanni Morlino e Germano Sacco, che hanno contribuito a raccontare il mestiere dell’astrofisico contemporaneo.

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I ricercatori Germano Sacco (sx) e Giovanni Morlino (dx) nel docufilm Galileo (R)evolution, durante una delle scene girate all’Osservatorio Inaf di Arcetri, a Firenze. Crediti: Berta Film

«Non so se traspaia fino in fondo, ma tra le difficoltà varie della ricerca moderna, il nostro rimane un mestiere profondamente avvincente, una sfida continua che ci mette ogni giorno alla prova, e una prova divertente è stata anche partecipare a questo documentario», dice Giovanni Morlino.

«Galileo (R)evolution racconta la storia del grande scienziato in maniera diversa dal solito, mettendo in evidenza il suo ruolo di comunicatore e di ispiratore delle nuove generazioni», aggiunge Germano Sacco. «Farne parte è stata un’esperienza nuova e divertente e spero che possa incoraggiare i ragazzi e le ragazze che lo guardano a intraprendere la nostra professione».

Il film è stato realizzato da Berta Film e Kahuna Film in collaborazione con il Museo Galilei di Firenze e grazie al supporto di vari enti di ricerca, tra cui l’Istituto nazionale di astrofisica.

Guarda il trailer:

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Lucy, il primo fly-by è una doppia sorpresa


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Una serie di immagini della coppia di asteroidi Dinkinesh, scattate dalla fotocamera di tracciamento terminale sulla sonda Lucy della Nasa durante il fly-by del primo novembre 2023. Le immagini sono state scattate a distanza di 13 secondi l’una dall’altra. Il moto apparente dei due asteroidi è dovuto al movimento della sonda mentre volava a una velocità di 4,5 km/s. Crediti: Nasa/Goddard/Swri/Asu

Doveva essere un primato, invece sono due. La prima tappa della sonda della Nasa Lucy – partita da Cape Canaveral il 16 ottobre 2021 – nella fascia principale fra Marte e Giove doveva essere il più piccolo asteroide mai osservato da vicino, (152830) Dinkinesh. Un evento già di per sé carico di aspettativa scientifica, soprattutto considerando che il fly-by è stato annunciato all’inizio di quest’anno, aggiunto in corsa agli altri obiettivi primari della missione. Un evento che, sin dalle prime immagini di avvicinamento, ha mostrato un’ulteriore sorpresa: la presenza di una piccola luna, un sassetto di appena 220 metri di diametro, che orbita intorno all’asteroide. Un sistema binario di asteroidi, insomma. Una vera rarità.

«Abbiamo visto molti asteroidi da vicino, e si potrebbe pensare che sia rimasto poco da scoprire e di cui sorprendersi», dice Simone Marchi, ricercatore del Southwest Research Istitute a Boulder, in Colorado, e deputy principal investigator della missione Lucy. «Ebbene, non potrebbe esserci nulla di più sbagliato. Dinkinesh, e la sua enigmatica lunetta, si differenziano per alcuni aspetti interessanti dagli asteroidi near-Earth di dimensioni simili che sono stati osservati da altri veicoli spaziali come Osiris Rex e Dart».

Dinkinesh è stato scoperto nel 1999 dalla survey Linear, una collaborazione fra la Nasa e la United States Air Force che dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso ha scoperto oltre 140mila corpi minori. Il suo nome, fino a pochi mesi fa, era solo una sigla: (152830) 1999 VD57. Quando la Nasa ha deciso di concedere a Lucy, e ai suoi scienziati, un obiettivo scientifico da visitare prima del 2025 – anno in cui giungerà all’asteroide Donaldjohanson, nella fascia principale, prima di arrivare ai sette asteroidi troiani per cui è stato progettato –, questo (all’apparenza) anonimo sassetto si trovava proprio lungo il percorso. Gli scienziati della missione hanno quindi deciso di chiamarlo con il nome etiope del fossile Lucy, Dinkinesh appunto, che in amarico significa letteralmente “sei meraviglioso”. E, stando a quanto ci ha rivelato finora, sembra davvero aver onorato il suo nome.

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Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/NoirLab

Lo vedete qui a fianco, assieme alla sua piccola luna che sta sorgendo da dietro il corpo principale dell’asteroide. Sono immagini scattate dalla fotocamera di tracciamento terminale della sonda, che assieme al Long-Range Reconnaissance Imager di Lucy ha fatto un vero e proprio reportage del sorvolo, avvenuto intorno alle 17:55 ora italiana del primo novembre 2023, a meno di un minuto dal passaggio più vicino al corpo e da una distanza di circa 430 km.

Nelle settimane precedenti all’incontro della sonda con Dinkinesh, era sorto il dubbio che il sistema potesse essere binario, dato che gli strumenti di Lucy avevano rilevato cambiamenti nella luminosità dell’asteroide nel tempo. E da un’analisi preliminare delle prime immagini disponibili si stima che il corpo più grande abbia una larghezza di circa circa 790 metri, mentre quello più piccolo sia largo circa 220 metri.

L’incontro con l’asteroide, comunque, non è stato meramente un capriccio scientifico. Si è trattato piuttosto di un importante test ingegneristico grazie al quale il team della missione ha potuto verificare la funzionalità del cosiddetto sistema di tracciamento terminale, che consente alla navicella di seguire autonomamente un asteroide durante un sorvolo a una velocità di oltre 16mila chilometri all’ora. Ci vorrà circa una settimana per scaricare tutti i dati raccolti, dai quali si potranno ricavare informazioni utili per preparare al meglio il prossimo obiettivo, nel 2025.


A Manuela Bischetti il premio del Gruppo 2003


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Manuela Bischetti, ricercatrice al Dipartimento di fisica dell’Università di Trieste

Sono dieci i vincitori della terza edizione del Premio giovani ricercatrici e ricercatori del Gruppo 2003, dieci quanto i temi molto attuali e innovativi che sono stati presentati quest’anno dal gruppo. Il bando è rivolto alle ricercatrici e ai ricercatori con meno di 7 anni di attività dalla fine del dottorato e quest’anno ha ricevuto ben 543 candidature, il 46 per cento in più rispetto alla precedente edizione, con una prevalenza di candidature femminili. Il premio consiste in una somma di tremila euro e un diploma, ma soprattutto nella soddisfazione di essere stati valutati da dieci commissioni costituite in prevalenza dai membri del Gruppo 2003, tutti scienziati con un numero di citazioni che li pongono ai vertici della ricerca nazionale e mondiale.

Tra i vincitori, si aggiudica il premio Astrofisica e Spazio la ricercatrice Manuela Bischetti dell’Università di Trieste, associata all’Istituto nazionale di astrofisica, che ha conseguito il dottorato europeo in Astronomy, Astrophysics and Space Science presso l’Università di Roma Tor Vergata nel 2018. Il premio riconosce il suo lavoro, di grande impatto sia nell’ambito della cosmologia che nell’astrofisica delle alte energie, dedicato alla crescita dei buchi neri supermassicci nei primi miliardi di anni dell’universo, i cui risultati sui venti generati da questi buchi neri e il loro impatto sull’evoluzione delle galassie è stato pubblicato nel 2022 sulla rivista Nature.

«È stata veramente una sorpresa», dice Bischetti a Media Inaf. «Ero da poco in Cina e ancora alle prese con il jet-lag quando ho ricevuto la notizia. Ho impiegato un po’ di tempo a rendermi conto di cosa stessi leggendo». L’astrofisica, che predilige un approccio osservativo sfruttando telescopi e tecniche di osservazione anche molto diversi tra loro, lavora su dati astronomici d’avanguardia, come quelli prodotti dall’Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array (Alma) o dallo strumento X-Shooter del Very Large Telescope in Cile. «Prevedo di godermi il premio con un viaggio, il Giappone è una meta che ho in mente da parecchio tempo».

Leonardo Caproni del Centro di Scienze delle Piante, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa, si è aggiudicato il premio nella ricerca in Agricoltura con uno studio di agro-biodiversità per selezionare le varietà autoctone di orzo etiope più adattabili alle variazioni climatiche e in grado di garantire la resilienza delle coltivazioni e la sicurezza alimentare. Monica Dinu del Dipartimento di medicina sperimentale e clinica, Università di Firenze, è la vincitrice della categoria Alimentazione con una ricerca molto innovativa che ha confrontato gli effetti di una dieta vegetariana, rispetto ad una dieta mediterranea isocalorica, sui parametri di funzionalità renale. Il premio Biodiversità è andato a Martino Adamo dell’Università di Torino per aver messo in luce con la sua ricerca un rilevante bias estetico nello studio della biodiversità delle piante.

«Siamo molto soddisfatti del gran numero di domande ricevute, che testimonia come la passione dei giovani per la ricerca scientifica sia più viva che mai, e anche dell’elevata qualità delle proposte, che ha spesso messo in difficoltà le commissioni», commenta la presidente del Gruppo 2003 Maria Pia Abbracchio. «Desidero ringraziare i ricercatori e le ricercatrici del Paese che hanno risposto con così grande entusiasmo al bando e gli sponsor illuminati che ci hanno permesso di istituire questa terza edizione del Premio, valorizzando in questo modo l’impegno e la creatività dei nostri giovani. Un ringraziamento particolare alla segreteria organizzativa del Gruppo e alle commissioni giudicatrici, che hanno operato con grande imparzialità e dedizione, cercando di premiare il rigore metodologico, l’innovatività e l’originalità dei lavori scientifici presentati».

Katinka Bellomo del Politecnico di Torino ha vinto per la categoria Clima, con un utile contributo alla comprensione di come il clima in Europa cambierà nei prossimi decenni per effetto dell’indebolimento della corrente della Atlantic Meridional Overturning Circulation. Il premio di Cybersecurity va invece a Matteo Busi dell’Università Cà Foscari Venezia, con un lavoro che presenta una metodologia per estendere in modo sicuro le funzionalità di un microprocessore in modo da garantire la sicurezza degli utenti e delle applicazioni. A Salvatore Valastro dell’Istituto per la microelettronica e microsistemi – Cnr-Imm, va il premio Energia con una pubblicazione che presenta una soluzione innovativa che elimina il rischio di tossicità da piombo per le celle a perovskite, potenziale valida alternativa alle attuali celle al silicio.

«I tanti giovani che hanno aderito a questa iniziativa sono un vero e proprio orgoglio per il nostro Paese», nota Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). «Nei progetti presentati – i dieci vincitori ma anche molti altri – emergono non solo le competenze e il livello di eccellenza della nostra comunità scientifica, ma anche entusiasmo, passione, visione: elementi che ci portano a immaginare un futuro in cui la conoscenza e la ricerca potranno significativamente migliorare la qualità della vita e dell’ambiente in cui viviamo».

A Vittorio Bianco dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti “Eduardo Caianiello” – Cnr-Isasi il premio della categoria Intelligenza artificiale, Big Data e High Performance Computing per uno studio che presenta un promettente approccio nel monitoraggio e nella classificazione delle microplastiche, uno dei problemi ambientali più urgenti dei nostri tempi. A Paola Albanese dell’Università di Siena, Dipartimento di biotecnologie, chimica e farmacia, il premio della categoria Nuovi materiali per una ricerca che si inserisce nella ambiziosa tematica della progettazione e realizzazione di protocelle artificiali autonome dal punto di vista energetico. Il premio della categoria Salute, la più partecipata con circa 200 candidature, va a Simona Francia dell’Istituto italiano di tecnologia, Genova, per uno studio che presenta una nuova tecnologia di retina artificiale liquida costituita da una sospensione di nanoparticelle polimeriche di natura fotovoltaica. Una borsa di studio di cinquemila euro, messa a disposizione dall’Agenzia spaziale italiana in ricordo di Giovanni Bignami, è stata inoltre assegnata a Federica Angeletti dell’Università di Roma La Sapienza per uno studio che affronta il problema del controllo delle vibrazioni strutturali degli spacecraft con soluzioni tecnologiche disponibili e affidabili.

Hanno inoltre ricevuto una menzione speciale: Eleonora Macchia (Università di Bari “A. Moro”) per Agricoltura, Elisa Bortolas (Università di Milano-Bicocca) e Giuliano Iorio (Università di Padova) per Astrofisica e Spazio, Stefano Della Fera (Istituto di fisica applicata “Nello Carrara” – Ifac-Cnr) e Federico Scoto (Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima – Cnr-Isac) per Clima, Luca Demetrio (Università di Genova) per Cybersecurity, Matteo Bhom (Cnr – Isti), Saverio Francini (Università di Firenze) e Marco La Salandra (Università di Bari “Aldo Moro”) per Intelligenza artificiale, Big Data e High Performance Computing, Maria Tredicine (Università “Gabriele D’Annunzio” Chieti-Pescara) per Salute.

I premi saranno consegnati lunedì 6 novembre, alle ore 14, in una cerimonia presso la sede centrale del Cnr a Roma, alla presenza della presidente del Cnr, la presidente del Gruppo 2003, le giurie e gli sponsor che hanno reso possibile il premio. Durante la cerimonia, oltre alla lettura delle motivazioni dei premi, la parola andrà ai premiati perché spieghino il senso della loro ricerca in termini semplici e accessibili al pubblico. La premiazione si concluderà con una lezione di Peter Bauer su “Destination Earth”, la flagship europea sulla nuova frontiera della “previsione climatica”.

Fonte: comunicato stampa del Gruppo 2003 su Scienza in rete


Per un’etica dei voli spaziali: linee guida su Science


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L’astronauta americano Bruce McCandless. Crediti: Nasa

A oltre cinquant’anni dal Trattato sullo spazio extra-atmosferico – che designava lo spazio come una “provincia per tutta l’umanità” – l’era della space economy, con ingenti investimenti pubblici e privati, ha permesso all’industria del volo spaziale commerciale di espandersi a dismisura, aprendo uno scenario molto più ricco di opportunità rispetto alle sole missioni governative. Questo settore emergente avrà un impatto globale, creando un nuovo indotto lavorativo e facendo volare migliaia di persone nello spazio nei prossimi decenni.

L’etica della ricerca che coinvolge risorse umane sulla Terra è regolata da norme e politiche ben consolidate, ma non è affatto altrettanto chiaro quali regole e misure normative si applicheranno ai partecipanti dei voli spaziali nel settore privato, che porteranno avanti programmi di ricerca anche per il settore pubblico. Le aziende private hanno l’obbligo di condividere i benefici della conoscenza derivanti dalle loro attività di ricerca spaziali nella società? E come dovrebbero essere bilanciati i rischi e i benefici della ricerca sui voli spaziali? Queste sono alcune delle domande in sospeso e a cui è necessario dare risposta nell’interesse pubblico di tutti, considerato che, anche se la stragrande maggioranza dei cittadini non è coinvolta direttamente nelle attività spaziali, tutta la società ha il diritto di beneficiare delle ricadute della ricerca scientifica.

Come rendere la ricerca sempre più sicura e inclusiva – nonché fare il punto sulle potenziali preoccupazioni etiche che caratterizzano il futuro della ricerca spaziale commerciale – è il fulcro delle linee guida etiche proposte nel documento “Ethically cleared to launch? Rules are needed for human research in commercial spaceflight”, pubblicato su Science alla fine di settembre. Il lavoro è frutto della consultazione di un comitato multidisciplinare – composto da circa trenta persone tra bioeticisti, esperti di politica sanitaria e salute spaziale, ricercatori, professionisti del volo spaziale commerciale e autorità governative – durante un workshop tenutosi presso il Banbury Center del Cold Spring Harbor Laboratory di New York e finanziato dal Baylor College of Medicine di Houston.

«Mentre esistono chiare linee guida etiche per le missioni spaziali di ricerca sponsorizzate con finanziamenti governativi, ne esistono poche per condurre una ricerca responsabile nel settore commerciale», dice Vasiliki Rahimzadeh del Centro di etica medica e politica sanitaria del Baylor e prima autrice dell’articolo. «È giunto il momento di sviluppare questo quadro etico, e deve trattarsi di uno sforzo multidisciplinare che coinvolga il settore pubblico e privato».

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Test di volo senza equipaggio con il lanciatore Super Heavy. Crediti: SpaceX

La proposta si sviluppa sostanzialmente intorno a quattro principi guida: la responsabilità sociale, l’eccellenza scientifica, il bilancio tra i rischi e i benefici, e la gestione globale.

La responsabilità sociale dei voli spaziali commerciali è rappresentata dal fatto che la maggior parte di questi dipende attualmente sia da finanziamenti pubblici che da sponsorizzazioni private. I servizi di volo spaziale sono possibili grazie agli attuali investimenti pubblici nella ricerca, molto più ingenti rispetto al passato. Pertanto il settore pubblico ha un ruolo importante nel contribuire agli interessi commerciali delle aziende, e i dati che si basano sugli investimenti pubblici nella ricerca spaziale dovrebbero essere trattati come risorse della comunità.

Che non si possa transigere dagli standard di eccellenza scientifica è chiaro. Studi mal progettati, non originali e non prioritari generano dati di scarsa qualità, sprecando risorse preziose. Un progetto scientifico non ottimale ha effetti negativi anche nel settore degli affari privati: una pratica rigorosa della scienza si traduce in una pratica commerciale di successo.

La ricerca sui voli spaziali, come gli altri ambiti della ricerca che coinvolga esseri umani, è lecita solo se massimizza il suo valore sociale e riduce al minimo la probabilità di danni ai membri dell’equipaggio e ad altri partecipanti, considerato che la ricerca spaziale comporta rischi aggiuntivi rispetto a quella condotta a Terra. La proporzionalità tra questi due fattori dovrebbe essere regolata in modo responsabile.

Infine, è auspicabile una gestione globale dei benefici dell’esplorazione umana dello spazio e le sue risorse dovrebbero essere godute da tutti. La ricerca effettuata nello spazio dovrebbe quindi coinvolgere ed essere condotta da individui e comunità rappresentative dell’intera umanità, diventando quindi anche inclusiva.

Oltre a tutto ciò, le linee guida sottolineano la necessità di chiarire alcune prassi relative al consenso informato, alla protezione dei dati e alle misure di sicurezza per ridurre al minimo i rischi per la salute dei partecipanti, ma soprattutto raccomandano l‘uso responsabile di tempo e delle risorse naturali, così da tenere conto in modo completo ed equilibrato degli interessi della società, delle generazioni future e delle altre specie.

La proposta di questo nuovo quadro etico giunge in un momento critico per la pianificazione del futuro dei voli spaziali commerciali, in cui il vuoto normativo è destinato a creare tensioni crescenti nelle collaborazioni internazionali. L’amministrazione Biden ha confermato la fine della missione della Stazione spaziale internazionale nel 2030, chiudendo di fatto decenni di cooperazione sull’unica piattaforma di ricerca condivisa con le altre nazioni. Gli accordi internazionali, tra cui il Trattato sullo spazio extra-atmosferico, tacciono sul fatto che i principi per l’esplorazione pacifica dello spazio umano siano insufficienti se applicati alla ricerca umana sponsorizzata anche da aziende commerciali. Inoltre, scadrà alla fine del 2023 la moratoria sulla regolamentazione del settore dei voli spaziali commerciali da parte della Federal Aviation Administration. Queste lacune nelle politiche spaziali minacciano l’industria, ostacolano la collaborazione scientifica tra partner pubblici e privati e limitano il trasferimento dei benefici della ricerca verso la società.

In che modo questa proposta potrà diventare concreta? Per dimostrare il loro impegno alla cooperazione globale e alla gestione responsabile delle fonti spaziali, le aziende private – concludono gli autori del documento – dovrebbero emanare politiche per garantire che la ricerca che sponsorizzano sia condotta in modo socialmente responsabile ed etico. In futuro, sarà necessario identificare specifici attori per determinare quale livello di politica sia appropriato per garantire l’implementazione del quadro di riferimento proposto.

«Per questo è stato importante avere al tavolo le compagnie spaziali private», sottolinea Rachael Seidler, coautrice del documento e docente di fisiologia applicata e kinesiologia dell’Università della Florida, «perché stanno partecipando a qualcosa che sta aprendo la strada a tutti e che può portare benefici all’intera umanità».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Ethically cleared to launch? Rules are needed for human research in commercial spaceflight” di Vasiliki Rahimzadeh, Jennifer Fogarty, Timothy Caulfield, Serena Auñón-Chancellor, Pascal Borry, Jessica Candia, I. Glenn Cohen, Marisa Covington, Holly Fernandez Lynch, Henry T. Greely, Michelle Hanlon, James Hatt, Lucie Low, Jerry Menikoff, Eric M. Meslin, Steven Platts, Vardit Ravitsky, Tara Ruttley, Rachael D. Seidler, Jeremy Sugarman, Emmanuel Urquieta, Michael A. Williams, Paul Root Wolpe, Dorit Donoviel, Amy L. McGuire


Tracce di Theia nel mantello terrestre


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Ricostruzione artistica che mostra l’impatto fra Theia e la Terra in formazione. Alcune parti del mantello di Theia potrebbero essere penetrate nel mantello terrestre, accumulandosi verso il nucleo del nostro pianeta. Crediti: Hernán
Cañellas

Una delle teorie più accreditate sulla formazione della Luna ritiene che il nostro satellite sia stato generato durante una violenta collisione fra la Terra in formazione e un altro corpo celeste, denominato Theia, avente una stazza simile a quella di Marte. L’evento sarebbe avvenuto circa quattro miliardi e mezzo di anni fa e, dall’agglomerarsi dei detriti sprigionati dall’impatto, sarebbe nata la nostra Luna. Le simulazioni di questo evento riproducono in maniera efficace il momento angolare del sistema Terra-Luna e le piccole dimensioni del nucleo lunare. Tuttavia, evidenze dirette dell’esistenza di Theia attualmente latitano, ammantando questo corpo celeste di non poco mistero e relegando la teoria annessa al regno delle ipotesi.

Eppure, un’indicazione importante su questo misterioso pianeta potrebbe trovarsi sepolta qualche chilometro sotto i nostri piedi, ovvero nel mantello terrestre, quell’involucro che si estende per circa 2900 km fra la crosta e il nucleo. Negli anni ’80 sono state infatti rinvenute due regioni anomale all’interno di questa struttura, aventi le dimensioni di due continenti, collocate al di sotto dell’Africa e dell’Oceano Pacifico. Esse si contraddistinguono per delle anomalie nella velocità di propagazione delle onde sismiche, che risultano più lente del previsto. A questo corrisponderebbe un incremento della densità tra il 2 e il 3.5 per cento nelle zone interessate rispetto a quelle circostanti. Il tutto a 2900 km di profondità, ovvero nello strato più profondo del mantello, praticamente al confine con il nucleo del nostro pianeta.

Uno studio pubblicato ieri su Nature ritiene di aver scoperto la natura di queste due regioni. Facendo ricorso a delle simulazioni al computer, il team, guidato da Qian Yuan dell’Arizona State University e del California Institute of Technology, suggerisce che queste zone del mantello terrestre siano in realtà strati del mantello di Theia, rimasti imprigionati nella regione più bassa del mantello del nostro pianeta durante la collisione. Si pensa che questi relitti fossero lunghi diverse decine di chilometri e che siano pian piano affondati nella regione più bassa del mantello, formando degli accumuli di materiale tuttora presenti al di sopra del nucleo terrestre. Le regioni si contraddistinguono per un insolito contenuto di ferro, più elevato rispetto alla regioni circostanti.

«Ho provato una sorta di ‘Eureka!’ quando ho realizzato che il corpo celeste ricco di ferro responsabile dell’impatto potesse essersi trasformato in questi rigonfiamenti del mantello», dice Yuan, rievocando un seminario sull’argomento e realizzando quanto pure la Luna sia insolitamente ricca di ferro, a differenza della Terra.

Queste regioni estremamente ferrose sarebbero dunque la diretta conseguenza dell’impatto tra la Terra in formazione e Theia. Poiché si ritiene che le collisioni fra pianeti siano un fenomeno piuttosto comune nelle ultime fasi di formazione dei sistemi planetari, è possibile che tali anomalie del mantello siano presenti anche in altri oggetti.

Alcuni sviluppi possibili di questo studio consisteranno nell’esaminare quanto il materiale proveniente da Theia abbia influenzato la vita geologica del nostro pianeta e macrostrutture come le placche, i continenti e i più antichi minerali. Questo lavoro aiuta a comprendere meglio la formazione della Terra e della Luna e fornisce elementi ulteriori a favore dell’impatto fra la proto-Terra e un altro corpo celeste durante la formazione del Sistema solare.

Per saperne di più:

Guarda la simulazione della collisione:

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Micropolveri vs Dinosauri: uno a zero


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Ricostruzione artistica del North Dakota nei primi mesi successivi all’evento di impatto di Chicxulub, 66 milioni di anni fa, che mostra un mondo buio, polveroso e freddo in cui gli ultimi dinosauri potrebbero essere andati incontro all’estinzione. Crediti: Mark A. Garlick

Il grande inverno, non quello del Trono di Spade, ma quello provocato dalle polveri sottili arrivate nell’atmosfera dopo l’impatto del meteorite Chicxulub sulla Terra, potrebbe essere realmente la causa dell’estinzione dei dinosauri.

Uno studio pubblicato questa settimana su Nature Geoscience da ricercatori del Royal Observatory of Belgium suggerirebbe, infatti, che le polveri di silicato della roccia polverizzata generata dall’impatto di Chicxulub hanno avuto un ruolo dominante nel raffreddamento globale del clima e, successivamente, anche nell’interruzione della fotosintesi sul nostro pianeta. I due fenomeni, di conseguenza, avrebbero portato alla scomparsa dei dinosauri e di circa il 75 per cento delle specie sulla Terra nel periodo di passaggio tra il Cretaceo e il Paleogene noto come limite K-T, o limite K-Pg, circa 66 milioni di anni fa.

L’ipotesi del meteorite come causa dell’estinzione di massa delle specie terrestri è stata già avanzata da vari scienziati nel corso degli anni. Tuttavia, le conseguenze climatiche dei vari detriti emessi nell’atmosfera in seguito all’impatto di Chicxulub rimangono poco chiare, così come non sono ancora stati definiti gli esatti meccanismi attraverso i quali si verificò l’estinzione di massa in quel periodo. Ricerche precedenti avevano già suggerito che lo zolfo rilasciato nell’impatto del meteorite e la fuliggine proveniente dagli incendi conseguenti fossero le principali cause dell’“inverno da impatto” che si verificò in quegli anni. L’espulsione di polvere di silicato nell’atmosfera non era stata considerata finora tra le possibili cause del raffreddamento globale, forse per una scarsa conoscenza delle effettive proprietà fisiche delle particelle di polvere.

Per valutare il ruolo dello zolfo, della fuliggine e delle polveri di silicato sul clima post-impatto, il team di ricerca belga ha sviluppato un nuovo modello paleoclimatico, specializzato nel simulare la risposta climatica e biotica dopo la caduta di Chicxulub. Queste simulazioni sono state effettuate incorporando nuovi dati geologici ad alta risoluzione provenienti da una specifica località del North Dakota, negli Stati Uniti. I campioni di sedimento sono stati raccolti e misurati mediante analisi granulometrica a diffrazione laser da Pim Kaskes e colleghi dell’Archaeology, Environmental Changes & Geo-chemistry (Amgc) alla Vrije Universiteit Brussel e della Vrije Universiteit Amsterdam.

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Limite Cretaceo-Paleogene nel North Dakota (Usa). I sedimenti indicano un ambiente fluviale e paludoso; lo strato rosa-marrone contiene detriti derivanti dall’impatto di Chicxulub e i dati granulometrici di questo intervallo sono stati utilizzati per lo studio di modellazione paleoclimatica. Crediti: Pim Kaskes

In alcuni affioramenti terrestri dove è possibile osservare la stratigrafia geologica, il limite K-T è marcato dalla presenza di un livello, avente spessore massimo di un centimetro, che contiene una notevole quantità di metalli solitamente rari in natura, ma molto diffusi nelle meteoriti. «Abbiamo campionato specificamente l’intervallo millimetrico superiore del limite K-T. Questo intervallo ha rivelato una distribuzione granulometrica molto fine e uniforme, che interpretiamo come la ricaduta atmosferica finale di polvere ultrafine legata all’impatto del meteorite sul nostro pianeta», spiega Kaskes. «I nuovi risultati mostrano valori di granulometria molto più fini di quelli usati in precedenza in altri modelli climatici. Ciò è stato molto importante per le nostre ricostruzioni climatiche».

Gli scienziati hanno così scoperto che la distribuzione dimensionale dei detriti di silicato – di circa 0,8-8,0 micrometri – assegna alle polveri sottili un ruolo maggiore rispetto a quanto precedentemente si pensasse. «Secondo le nuove simulazioni paleoclimatiche, una tale nube di micro polveri di silicati potrebbe essere rimasta nell’atmosfera fino a 15 anni dopo l’evento», descrive Cem Berk Senel, primo autore della ricerca. «Ciò potrebbe aver contribuito al raffreddamento globale della superficie terrestre di ben 15 gradi centigradi nelle fasi iniziali successive all’impatto». Questa tempistica è coerente con le recenti osservazioni dello strato di iridio globale presente nell’antico cratere da impatto di Chicxulub, sepolto sotto la penisola messicana dello Yucatán: il tempo impiegato per l’assestamento del materiale a grana fine nella nube di polvere creatasi dopo l’impatto è stato stimato di meno di 20 anni.

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Modello concettuale della nube di polveri dopo l’impatto di Chicxulub con le diverse fasi di (a) produzione e (b) trasporto e deposizione dell’ejecta generato dall’impatto. (c) Simulazioni di modelli paleoclimatici che mostrano l’evoluzione temporale del flusso di radiazione fotosintetica attiva indotta dalla polvere sul pianeta. (Crediti: Nature Geoscience).

Gli autori, inoltre, hanno analizzato come le variazioni dell’irraggiamento solare indotte dallo “schermo” di polvere di silicato, insieme alla fuliggine e allo zolfo, potrebbero aver interrotto la fotosintesi per quasi due anni dopo l’impatto del meteorite, causando il crollo della produttività primaria e innescando una reazione a catena di estinzioni. L’interruzione della fotosintesi, se prolungata, può porre gravi problemi agli habitat terrestri e marini. Per questa ragione, durante il “grande inverno”, i gruppi biotici non adattati a sopravvivere al buio, al freddo e alla mancanza di cibo per quasi due anni sarebbero andati incontro all’estinzione di massa. I dati paleontologici, osservati dai ricercatori, dimostrano che la fauna e la flora in grado di entrare in una fase di quiescenza – ad esempio, attraverso semi, cisti o ibernazione nelle tane – e di adattarsi a una dieta onnivora, non dipendente da una particolare fonte di cibo, in genere sarebbero sopravvissute meglio all’evento del periodo K-T.

Un evento catastrofico, senza dubbio. Ma c’è il rischio che possa verificarsi di nuovo? «Gli impatti massicci, da parte di asteroidi di dimensioni chilometriche come Chicxulub, in grado di causare eventi di estinzione di massa sono molto rari. Al contrario, gli asteroidi di piccole e medie dimensioni – nell’ordine dei 100 metri di diametro – sono molto più comuni nel nostro Sistema solare e possono causare distruzioni su scala regionale o nazionale», spiega Özgür Karatekin del Royal Observatory of Belgium che, assieme ad altre istituzioni scientifiche, rappresenta il contributo europeo alla difesa planetaria dagli asteroidi all’interno della missione Hera. Promossa dall’Agenzia spaziale europea, la missione Hera convaliderà la tecnica di deflessione cinetica, cioè di deviazione della traiettoria, degli asteroidi e fornirà ulteriori informazioni scientifiche in grado di migliorare la nostra comprensione della geofisica e dei processi di impatto degli asteroidi.

Per saperne di più:


Stelle Cemp-no, stelle d’altri tempi


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Illustrazione artistica che mostra le tappe evolutive dell’universo dal Big Bang a oggi (cliccare per ingrandire). Credito: Stsci

Se c’è una caratteristica che più di tutte contraddistingue il mestiere dell’astronomo, questa è l’attitudine a classificare. Gli astronomi catalogano tutto, per fortuna. È qualcosa di innato, che risale alla notte dei tempi. Sulla base delle abbondanze di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio – i cosiddetti “metalli” – raggruppano ad esempio le stelle in due principali categorie: stelle ricche di metalli (metal-rich stars) e stelle povere di metalli (metal-poor stars). Al primo gruppo appartengono le stelle di popolazione I, ossia le stelle di formazione più recente, dunque più giovani. Al secondo appartengono invece le stelle più avanti con l’età, dunque più antiche, formatesi poco dopo il Big Bang – chiamate stelle di popolazione II.

Tutto qui? Niente affatto. Gli astronomi suddividono le stelle a bassa metallicità ulteriormente in sottogruppi. Ci sono quindi le stelle “estremamente povere di metalli” (extremely metal-poor stars, Xmp), quelle “ultra povere di metalli” (ultra metal-poor stars, Ump), quelle “iper povere di metalli” (hyper metal-poor stars, Hmp) e, infine, quelle “mega povere di metalli” (mega metal-poor star, Mmp). Se poi oltre a essere scarsamente metalliche queste stelle sono arricchite di carbonio, entriamo in un’altra sottocategoria, quella delle carbon-enhanced metal-poor stars (Cemp). E se sono povere di metalli, ricche in carbonio e non presentano tracce di elementi chimici prodotti per cattura neutronica – un particolare tipo di nucleosintesi – allora siamo nell’ambito di un’altra sottocategoria ancora: quella delle stelle Cemp-no, acronimo di chemical enriched metal poor stars with no heavy elements.

Secondo gli astronomi, i membri di quest’ultimo gruppo sono astri originatisi dal materiale espulso con la morte delle prime stelle formatesi nell’universo. Sono cioè le stelle più antiche che conosciamo. Ottenere informazioni sul loro conto è fondamentale sia per gettare nuova luce sulla formazione delle prime generazioni di stelle che per tracciare l’origine degli elementi nel cosmo, elementi che portano con sé le impronte chimiche della prima evoluzione galattica.

Paolo Molaro, astronomo dell’Inaf di Trieste, è uno degli scienziati che si interessa allo studio di queste stelle “fossili”. Nel 1998, insieme ai colleghi Piercarlo Bonifacio, Giovanni Vladilo e Timothy Beers, firma l’articolo che riporta la scoperta del primo componente di questo gruppo: la stella CS22957-027. Una delle ultime ricerche di cui si è occupato riguarda l’analisi della composizione degli isotopi del carbonio proprio in queste stelle, in particolare nelle atmosfere di alcune delle Cemp-no più povere di metalli che si conoscano. Lo studio, che porta il suo come primo nome e che coinvolge numerosi altri astronomi dell’Istituto nazionale di astrofisica, è stato pubblicato il mese scorso su Astronomy and Astrophysics. Per saperne di più, lo abbiamo intervistato.

Molaro, cosa sono esattamente le stelle Cemp, e perché è così importante studiarle?

«Le Cemp sono stelle con un’abbondanza molto alta di carbonio rispetto agli altri elementi. Possono avere da 100 a 10mila volte più atomi di carbonio che di ferro rispetto alle loro relative abbondanze cosmiche. Ce ne sono di due tipi: le Cemp-no e le Cemp-s. Le Cemp-no sono prive, o hanno valori molto bassi, di elementi pesanti la cui nucleosintesi procede per cattura di neutroni, come ad esempio il bario o lo stronzio. Le Cemp-s, invece, sono caratterizzate dalla presenza di questi elementi pesanti oltreché dall’elevata abbondanza di carbonio. Le due classi di stelle sono molto diverse tra loro e hanno poco in comune. Le Cemp-s sono stelle binarie dove la compagna è una stella evoluta che ha passato la fase di Agb (Asymptotic Giant Branch) e ha trasferito sia gli elementi neutron-capture che il carbonio alla stella primaria. Le Cemp-no hanno invece un’origine ancora sconosciuta. È stato suggerito che possano essere il prodotto di faint supernovae, cioè supernove a bassa energia che espellono solo gli strati esterni e che, diversamente dalle supernove classiche, non fanno ferro, o ne hanno molto poco. La cosa intrigante è che tutte le stelle più vecchie che si conoscono attualmente sono del tipo Cemp-no, la prima delle quali è stata scoperta da me e da Bonifacio nel lontano 1996. Ricordo ancora i mille interrogativi che ci siamo posti allora, e a distanza di quasi 30 anni quegli stessi interrogativi sono ancora di attualità».

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L’astronomo dell’Inaf – Osservatorio Astronomico di Trieste Paolo Molaro

Nel vostro studio avete determinato il rapporto di abbondanza carbonio-12/carbonio-13 in un campione di queste stelle. Perché avete scelto questi due isotopi? E in che modo avete ottenuto la misura?

«Nelle stelle molto povere di metalli il set di elementi che si possono misurare è limitatissimo. In genere si riesce a misurare il calcio, il magnesio e qualche volta il ferro, ma non sempre. Nelle Cemp risulta facile misurare il carbonio proprio grazie alla sua sovrabbondanza. Abbiamo quindi pensato di sfruttare questa peculiarità e tentare di misurare il carbonio-13, che è l’isotopo raro del carbonio, nonostante le previsioni teoriche fossero molto sfavorevoli in quanto lo davano almeno mille volte meno abbondante del carbonio-12. La misura è stata possibile grazie a uno spettrografo fenomenale come Espresso, che oltre a essere stabile ha un’elevata risoluzione spettrale, ideale per misurare i rapporti isotopici. Il progetto è stato sviluppato nell’ambito del tempo garantito offerto dall’Eso al consorzio che ha costruito lo strumento – consorzio nel quale l’Italia, con l’Inaf, ha avuto un ruolo molto importante».

Cosa ci dicono di interessante i risultati?

«Le previsioni teoriche prevedono un rapporto C12/C13 in queste stelle superiore a 1000. Noi abbiamo trovato che il rapporto è minore di 100, ciò a causa dell’elevata abbondanza del carbonio-13. In particolare abbiamo misurato il C13 in sei delle stelle più povere di metalli, che si ritiene siano anche le più antiche. La luminosità assoluta di queste le stelle le pone nel ramo delle giganti, in un caso addirittura in sequenza principale. Si può quindi escludere che il carbonio-13 sia stato sintetizzato all’interno di queste stelle. Ne segue che deve essere stato prodotto nei progenitori, che hanno poi arricchito il gas da cui queste stelle si sono formate. Questo è possibile se i progenitori oltre ad avere un gas a bassissima metallicità erano anche in rotazione elevata. Il risultato quindi conferma che le prime stelle erano di questo tipo e in grado di sintetizzare elevate quantità di carbonio-13. Considerato poi che il C13 è la sorgente principale di neutroni che servono per la sintesi degli elementi a cattura neutronica, tutta l’evoluzione chimica di questi ultimi va riconsiderata, unitamente a quella del carbonio-13. Insomma, è una piccola rivoluzione nell’evoluzione chimica della nostra galassia.

E adesso, quali sono i prossimi passi?

«Questo è un lavoro pilota condotto con il contributo determinante di David Aguado, postdoc a Firenze quando abbiamo iniziato a lavorare allo studio, e di Elisabetta Caffau, italiana che lavora all’Osservatorio di Parigi. Ha interessato principalmente tutte e sei le stelle con più basso contenuto di metalli. Ora il progetto è quello di continuare con questo tipo di misure in altre stelle Cemp-no di diverse metallicità e cercare di comprendere la risalita del rapporto C12/C13 al valore solare. Abbiamo già presentato una proposta in questo senso e speriamo ci sia accordata questa possibilità».


Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “On the 12C/13C isotopic ratio at the dawn of chemical evolution” di P. Molaro, D. S. Aguado, E. Caffau, C. Allende Prieto, P. Bonifacio, J. I. Gonzalez Hernandez, R. Rebolo, M.R. Zapatero Osorio, S. Cristiani, F. Pepe, N. C. Santos, Y. Alibert, G. Cupani, P. Di Marcantonio, V. D’Odorico, C. Lovis, C. J. A. P. Martins, D. Milakovic, M. Murphy, N. J. Nunes, T. M. Schmidt, S. Sousa, A. Sozzetti e A. Suarez Mascareno


Fasi occulte


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Simulazione con il software Stellarium dell’occultazione di Venere da parte della Luna il 9 novembre 2023.

In questo mese Giove e Venere sono spettacolari. Giove è ben visibile per tutta la notte alto nel cielo. Il primo del mese il gigante gassoso sarà nel punto più vicino alla Terra e il 3 novembre sarà esattamente all’opposizione. Venere al mattino ancora per questo mese sarà angolarmente piuttosto distante dal Sole e perciò ben visibile, e sarà ancora la guida luminosa per le persone mattiniere. Sorgerà verso le 3 del mattino. Con la sua magnitudine di -4.2 sarà l’astro più luminoso del cielo notturno dopo il nostro satellite. Per chi ha nostalgia di anelli, Saturno è visibile nella prima parte della notte verso sud-ovest, tramontando alla mezzanotte e anticipando gradualmente il tramonto allo scorrere dei giorni.

La Luna, gelosa della bellezza e luminosità di Venere, occulterà il pianeta il 9 del mese. Sarà una bella occasione per vedere i due corpi celesti in avvicinamento ognuno con le proprie fasi: la Luna una falce sottile in diminuzione e Venere appena superato il quarto crescente. L’occultazione purtroppo sarà visibile di giorno. Per chi potrà seguirla, sarà bello vedere i due astri avvicinarsi minuto dopo minuto. L’ideale è osservarli con il telescopio, ma anche a occhio nudo sarà una buona prova per cercare di osservare Venere e la Luna di giorno. Un binocolo aiuta parecchio, ma come con il telescopio occorre fare molta attenzione a non puntare il Sole. Sconsigliamo l’utilizzo di strumenti ottici con il Sole sopra l’orizzonte alle persone poco esperte di osservazione del cielo, perché anche solo un riflesso della luce solare potrebbe danneggiare i nostri occhi. Suggeriamo di posizionarsi con la Luna e Venere visibili all’ombra di un palazzo, in modo da non essere direttamente illuminati dal Sole e quindi più comodi all’osservazione. L’occultazione vera e propria inizierà alle 11:10 del mattino e terminerà alle 12:20. I tempi saranno leggermente diversi a seconda della posizione geografica di osservazione..

Il 20 del mese la Luna e Saturno saranno vicini in cielo, distanti poco più di due gradi. Da seguire dall’imbrunire del cielo fino al tramonto dei due astri, il 25 sarà il turno di Giove. Potete osservarli la sera del 24, del 25 e del 26 per apprezzare il moto relativo di avvicinamento prima e di allontanamento dopo. Inoltre, il nostro satellite non mancherà di incontrare prospetticamente l’ammasso aperto delle Pleiadi, M45. L’incontro accadrà il 27 di novembre, a notte inoltrata.

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51 Pegasi b è il primo esopianeta scoperto orbitare intorno ad una stella simile al Sole. La scoperta, avvenuta nel 1995, ha dimostrato l’esistenza di pianeti gioviani massicci, i cosiddetti “gioviani caldi” che risiedono in orbite prossime alla stella. 51 Pegasi b ha una massa circa la metà di quella di Giove e ruota intorno alla sua stella in appena 4,2 giorni terrestri. Crediti: Nasa Visions of the Future Poster Series

Per prepararci al Natale con largo anticipo, il 10 novembre la cometa C/2023 H2 (Lemmon) passerà nel punto più vicino alla Terra a circa 0,19 unità astronomiche. La magnitudine aspettata, sebbene le comete siano piuttosto imprevedibili, è di 5,3 e quindi dovrebbe essere facilmente visibile anche con un piccolo telescopio. Sarà visibile principalmente dopo il tramonto attraversando il cielo giorno dopo giorno dal timone del grande carro fino alla costellazione del Pesce Australe.

La costellazione sicuramente più caratteristica di questo mese è ancora la costellazione di Pegaso, con il suo grande quadrilatero che a metà del mese transita a sud intorno alle nove di sera. Vicino al lato destro del quadrilatero c’è una stellina di nome 51 Pegasi: simile al nostro Sole e distante 48 anni luce da noi e con una magnitudine di 5.5, ospita il pianeta 51 Pegasi b o Bellerofonte. 51 Pegasi b fu il primo esopianeta scoperto ruotare intorno a una stella simile al Sole.

Spiccano anche le costellazioni di Andromeda, con la galassia di Andromeda, sempre meritevole e facilmente identificabile con un binocolo, la costellazione del Triangolo e dei Pesci. Ben alte in cielo sono ben identificabili le costellazioni di Perseo e Cassiopea. Sebbene sempre visibile, questo mese è l’ideale per osservare il doppio ammasso di Perseo. Per localizzarlo basta un binocolo, ma è anche visibile ad occhio nudo. Dirigete lo sguardo nella zona di cielo tra Perseo e Cassiopea. Il doppio ammasso, bellissimo all’oculare a basso ingrandimento di un telescopio, è una coppia di ammassi aperti simili tra loro che ne conferiscono questa conformazione di ammassi gemelli.

Con il passare dei giorni e delle ore, durante la notte si rendono sempre più visibili le costellazioni tipicamente invernali, quali il Toro, l’Auriga e Orione. Verso nord, la costellazione dell’Orsa Maggiore è bassa nel cielo nella prima parte della notte e poi si alzerà sempre più ruotando intorno alla Stella polare.

Guarda la videoguida di Fabrizio Villa all’osservazione del cielo di novembre:

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Il premio Public Engagement va a “A Sign in Space”


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Rappresentazione grafica del messaggio estratto dai dati grezzi ricevuti il 24 maggio 2023 nell’ambito del progetto “A Sign in Space”. L’immagine è ora utilizzata per decodificare e interpretare il messaggio. Crediti: “A Sign in Space”

Una sonda, tre osservatori astronomici e una sfida unica nel suo genere. La sonda è l’ExoMars Trace Gas Orbiter (Tgo) dell’Agenzia spaziale europea (Esa). I tre osservatori terrestri sono la Stazione radioastronomica di Medicina, gestita dall’Inaf, l’Allen Telescope Array del Seti Institute, in California, e il Robert C. Byrd Green Bank Telescope del Green Bank Observatory (Gbo), in West Virginia. La sfida, tutt’ora in corso, è globale: decodificare il messaggio pseudo-alieno inviato dall’orbita di Marte qui a Terra. Stiamo parlando di “A sign in space”, progetto interdisciplinare ideato con l’obiettivo di simulare la comunicazione con una civiltà extraterrestre.

Per decifrare la misteriosa comunicazione, il progetto ha chiesto l’aiuto di tutti: chiunque, in qualsiasi parte del mondo, ha potuto e può ancora scaricare i dati captati dai radiotelescopi (su DeStor) e cercare di decodificare il messaggio e interpretarne il contenuto. Il leitmotiv del progetto è dunque la partecipazione. Proprio questa per questa caratteristica, e per il conseguente impatto nella comunicazione e nell’educazione alle scienze planetarie, l’Europlanet Society ha assegnato l’Europlanet Prize for Public Engagement 2023 all’ideatrice del progetto: l’artista multimediale Daniela de Paulis.

Istituito nel 2010, l’Europlanet Prize for Public Engagement è un riconoscimento che viene conferito annualmente a individui o gruppi che abbiano sviluppato pratiche innovative e di impatto sociale nella comunicazione e nell’educazione alle scienze planetarie. Nel 2022 il premio era andato a Kosmas Gazease, astrofisico alla National & Kapodistrian University of Athens, e al team che ha realizzato la mostra tattile “Planets In Your Hand”. Quest’anno a ricevere il premio per il proprio impegno pubblico nelle scienze planetarie, oltre al fisico El Mehdi Essaidi, è, come anticipato, l’artista di origini italiane Daniela de Paulis, ideatrice e regista di “A sign in space”.

De Paulis è un’artista interdisciplinare, le cui installazioni e performance hanno una forte componente di coinvolgimento del pubblico, si legge nel comunicato che annuncia i vincitori del premio. Ha collaborato con astronomi e scienziati per molti anni ed è attualmente artist in residence al Seti Institute (Seti Air). Con il progetto, “A Sign in Space”, sviluppato con la collaborazione dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Agenzia spaziale europea (Esa), del Seti Institute e del Green Bank Observatory, ha coinvolto persone di tutto il mondo a decodificare un messaggio simulato proveniente da una civiltà aliena. Il messaggio è stato trasmesso dall’orbita di Marte il 24 maggio scorso, ed è stato ricevuto dai tre radiotelescopi terrestri una decina di minuti dopo. Il progetto ha interessato partecipanti di ben 174 paesi, con oltre 85mila persone impalate davanti ai computer a seguire la diretta streaming dell’invio e della ricezione del segnale. Più di quattromila sono invece le persone che si sono registrate sulla piattaforma online Discord, dove, dopo circa una settimana dall’arrivo, il messaggio è stato individuato all’interno dell’enorme pacchetto di dati ricevuti a terra. Ora che è stato anche decifrato, manca solo l’ultima parte del progetto: interpretarlo.

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L’artista Daniela de Paulis al Green Bank Observatory. Crediti: Paul Vosteen/Green Bank Observatory

«L’idea visionaria di Daniela de Paulis ha riunito un vasto pubblico, persone proveniente da oltre cento paesi che hanno condiviso le proprie opinioni e discusso temi legati all’esplorazione dello spazio e alla ricerca di vita nell’universo, ma anche cosa significa essere umani in questo particolare momento storico e cosa siamo capaci di fare quando sfruttiamo la nostra conoscenza collettiva», dice Claudia Mignone, ricercatrice Inaf coinvolta nel progetto, che ha proposto l’artista per il premio.

Come accennato, oltre a de Paulis, l’Europlanet Prize for Public Engagement 2023 va anche al fisico El Mehdi Essaidi, dell’associazione Asif n Ait Bounouh for Culture and Awareness in Ait Bounouh / Tafraoute, per il suo lavoro volto a promuovere l’alfabetizzazione scientifica nelle comunità isolate e poco servite delle regioni meridionali del Marocco e per per condividere le meraviglie del nostro Sistema solare e dell’universo.

«È un grande motivo di onore per Europlanet riconoscere i risultati di questi due stimolanti professionisti con progetti, risorse e risultati così diversi», commenta Federica Duras, presidente della giuria di Europlanet Outreach, l’organo che valuta le candidature al premio. «Il premio di quest’anno ci dimostra che avvicinare le persone alla scienza planetaria, e più in generale alle meraviglie dell’universo, può essere fatto in molti modi, ed è bello vedere come viene fatto in diverse parti del mondo».

Oltre a ricevere un premio in denaro del valore di 1.500 euro, i vincitori sono invitati a tenere una public lecture all’Europlanet Science Congress 2024, che si terrà a Berlino dall’8 al 13 settembre 2024.

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Sn 1006, nuove indagini per Ixpe


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Questa nuova immagine del resto di supernova Sn 1006 combina i dati di Ixpe e Chandra. Gli elementi in rosso, verde e blu riflettono rispettivamente i raggi X a bassa, media e alta energia, come rilevati da Chandra. I dati Ixpe, che misurano la polarizzazione della luce dei raggi X, sono mostrati in viola nell’angolo in alto a sinistra, con l’aggiunta di linee che rappresentano il movimento verso l’esterno del campo magnetico del residuo. Crediti: Nasa/Cxc/Sao(Chandra); Msfc/Nanjing University/P. Zhou

Situata a più di seimila anni luce dalla Terra nella costellazione del Lupo, Sn 1006 è ciò che rimane dell’esplosione catastrofica di una nana bianca – esplosione avvenuta dopo aver acquisito massa da una stella compagna o essersi fusa con un’altra nana bianca – osservata nella primavera del 1006 d.C. in Cina, Giappone, Europa e nel mondo arabo. La sua luce fu visibile a occhio nudo per almeno tre anni e gli astronomi moderni lo considerano ancora oggi l’evento stellare più luminoso mai registrato nella storia.

Le moderne osservazioni di Sn 1006, ottenute con Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer), hanno identificato e analizzato la strana doppia struttura del suo resto, che appare molto diversa dalla morfologia sferica di altre supernove – come Cassiopea A e Sn 1572 (la supernova di Thyco). La sua struttura, infatti, presenta anche dei bordi luminosi identificabili nelle bande dei raggi X e dei raggi gamma. Lo studio, guidato da Ping Zhou, ricercatrice del Nanjing University, in Cina, e pubblicato su The Astrophysical Journal, vede una grande partecipazione da parte di ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica, tra cui Riccardo Ferrazzoli dell’Inaf di Roma. «Il contributo dell’Inaf», dice Ferrazzoli a questo proposito, «è stato fondamentale sia nella realizzazione dello strumento a bordo di Ixpe, il Gas Pixel Detector, assieme all’Infn di Pisa, che nell’analisi scientifica e interpretazione dei dati».

I dati prodotti dalla sonda Ixpe sono riusciti a mappare con maggiore dettaglio e precisione le strutture del campo magnetico dei resti di supernova a energie più elevate per comprendere meglio i processi che guidano l’accelerazione delle particelle a seguito dell’esplosione stellare. «Grazie alle sue capacità uniche di realizzare immagini della polarizzazione», spiega Ferrazzoli, «Ixpe ci ha consentito di studiare i meccanismi che portano all’accelerazione dei raggi cosmici in questi affascinanti oggetti celesti. Inoltre, Sn 1006 ci appare particolarmente estesa, sicché abbiamo potuto focalizzare l’osservazione su una singola regione particolarmente luminosa nei raggi X».

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Riccardo Ferrazzoli dell’Inaf di Roma. Crediti: Inaf

I risultati ottenuti sembrano dimostrare una connessione tra i campi magnetici e il flusso di particelle ad alta energia dei resti di supernova. «I campi magnetici sono estremamente difficili da misurare, ma Ixpe ci fornisce un modo efficiente per esplorarli», dice Zhou, prima autrice dello studio. «Ora possiamo vedere che i campi magnetici di Sn 1006 sono turbolenti, ma presentano anche una direzione organizzata».

Precedenti osservazioni nei raggi X di Sn 1006, come spiega l’articolo di Zhou e colleghi, hanno offerto la prova che i resti di supernova possono accelerare radicalmente gli elettroni, contribuendo a identificare le nebulose in rapida espansione attorno alle stelle esplose come luogo di nascita di raggi cosmici altamente energetici, che possono viaggiare quasi alla velocità della luce. Gli scienziati hanno ipotizzato che la struttura unica di Sn 1006 sia legata all’orientamento del suo campo magnetico, teorizzando che le onde d’urto della supernova, a nord-est e sud-ovest, si muovano in direzione allineata con il campo magnetico, che accelera in modo più efficiente le particelle ad alta energia.

Quando l’onda d’urto dell’esplosione di supernova attraversa il gas circostante, i campi magnetici si dispongono allineandosi con il movimento dell’onda d’urto. Le particelle cariche vengono intrappolate dai campi magnetici attorno alla fonte dell’esplosione dove ricevono un’accelerazione. Le particelle ad alta energia accelerate, a loro volta, trasferiscono energia ai campi magnetici mantenendoli forti e turbolenti.

Fin dal lancio avvenuto nel dicembre 2021, Ixpe, prima di Sn 1006, aveva già osservato anche i resti di supernova Cassiopea A e Sn 1572, fornendo agli scienziati dati per la comprensione delle dinamiche fisiche all’origine e nei processi dei campi magnetici che circondano questi fenomeni. «Sn1006 è stata il terzo resto di supernova osservato da Ixpe», conclude Ferrazzoli «ma, a differenza dei precedenti, questo si caratterizza per una peculiare struttura “bilaterale” dovuta alle caratteristiche particolari dell’interazione dell’onda d’urto con il campo magnetico della materia interstellare». Secondo gli astronomi, Sn 1006 risulterebbe più polarizzata rispetto agli altri due resti di supernova, ma tutti e tre mostrano campi magnetici orientati in modo tale da puntare verso l’esterno dal centro dell’esplosione.

I ricercatori continueranno a esplorare i dati rilevati da Ixpe per comprendere i meccanismi che animano le supernove e i loro resti, così carichi di particelle fondamentali per lo sviluppo e l’evoluzione dell’universo che conosciamo.

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Confermate le aurore infrarosse su Urano


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Uno degli aspetti più insoliti di Urano è il suo campo magnetico, decentrato di un terzo del raggio del pianeta e inclinato di 59 gradi rispetto all’asse di rotazione del pianeta. Come se non bastasse, il pianeta rotola sul fianco rispetto al piano di rivoluzione attorno al Sole – l’asse di rotazione planetario è infatti inclinato di 98 gradi – e la magnetosfera che ne consegue è davvero particolare. A vederla da vicino, per la prima e unica volta, è stata la sonda Voyager 2 nel suo fly-by nel 1986, che più che fornire risposte però ha aperto il campo alle domande. Per quanto riguarda le aurore, un fenomeno che – nonostante le stranezze di Urano – ci si aspetta di vedere come negli altri pianeti del Sistema solare, la prima conferma in ultravioletto è firmata Hubble, nel 2011, mentre in infrarosso non era ancora arrivata. Fino a pochi giorni fa. Uno studio su Nature Astronomy ha analizzato osservazioni fatte con i telescopi Keck nel 2007, ben sedici anni fa, trovando righe di emissione dello ione idrogenonio H3+: la conferma che aspettavamo.

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«I dati che abbiamo utilizzato risalgono alla fine del 2006», dice a Media Inaf Emma Thomas, prima autrice dello studio e dottoranda alla Scuola di fisica e astronomia dell’Università di Leicester. «E in effetti un’analisi iniziale era stata fatta da Tom Stallard – coautore anche di questo studio – e aveva rivelato variazioni di intensità che, però, richiedevano ulteriori analisi circa la temperatura atmosferica e le densità delle colonne».

Urano e Nettuno sono pianeti insoliti nel Sistema solare, in quanto i loro campi magnetici sono sfasati rispetto agli assi di rotazione. Le aurore sono causate dall’interazione di particelle cariche e altamente energetiche con l’atmosfera, mentre queste vengono convogliate giù tramite le linee del campo magnetico del pianeta. Sulla Terra il risultato lo conosciamo bene e lo possiamo apprezzare direttamente, poiché causa emissioni di luce visibile. Su pianeti come Urano, invece, dove l’atmosfera è prevalentemente una miscela di idrogeno ed elio, le aurore emettono luce al di fuori dello spettro visibile, in ultravioletto e a lunghezze d’onda infrarosse. Sono state rilevate per la prima volta da alcuni strumenti a bordo di Voyager 2, mostrando – sia a lunghezze d’onda radio che ultraviolette – sensibili differenze rispetto a quelle osservate su Giove e Saturno. Le indagini sono poi proseguite con il telescopio spaziale Hubble, che nel 2011 ha identificato 15 emissioni aurorali in ultravioletto: 9 meridionali e 6 settentrionali. I dati raccolti dallo spettrografo infrarosso del telescopio Keck 2, invece, pur risalendo a quattro anni prima, sono stati sfruttati solamente ora.

Gli scienziati hanno analizzato lunghezze d’onda specifiche di luce emessa dal pianeta, nello spettro infrarosso. Hanno guardato in particolare la luce emessa da una particella carica chiamata idrogenonio (H3+), che varia in luminosità a seconda di quanto calda o fredda sia la particella e di quanto densa sia la porzione di atmosfera in cui si trova. In pratica, queste linee agiscono come un termometro all’interno del pianeta. La loro analisi dei dati ha rivelato aumenti significativi nella densità di H3+ nell’atmosfera di Urano non corrispondenti ad altrettanto significative variazioni di temperatura: un comportamento che lascia intuire che la causa sia, piuttosto, la ionizzazione prodotta dalla presenza di un’aurora infrarossa.

«La temperatura di tutti i giganti gassosi, compreso Urano, è di centinaia di gradi al di sopra di quanto previsto dai modelli, se consideriamo il solo riscaldamento del Sole, lasciandoci con la grande domanda di come mai questi pianeti siano molto più caldi del previsto», continua Thomas. «Per questo abbiamo dato spazio all’ipotesi che suggerisce che la causa del fenomeno sia la presenza di un’aurora, che genera e spinge il calore dall’aurora verso l’equatore magnetico».

Il metodo di analisi seguito dagli autori è simile a quanto fatto in precedenza con le osservazioni delle aurore nell’infrarosso su Giove e Saturno. Nonostante questo, le differenze fra i pianeti sono sostanziali: si possono apprezzare confrontando le immagini delle aurore di Giove e Saturno, in basso a sinistra, con quelle di una simulazione delle aurore di Urano nel 2021 (il video in alto).

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Le aurore di Saturno riprese dalla missione Cassini-Huygens. Crediti: Nasa/Jpl/Asi/University of Arizona/University of Leicester

«Una delle differenze più evidenti tra le aurore di Giove e Saturno rispetto a quelle di Urano», dice Thomas, «è l’asimmetria nelle dimensioni e il fatto che, mentre le aurore di Giove e Saturno hanno tipicamente una forma ovale, nessun ovale aurorale è mai stato osservato su Urano. Le teorie attuali suggeriscono che le linee del campo magnetico su Urano si “avvolgono” attorno al pianeta, causando l’accensione e lo spegnimento delle aurore in determinati punti: un fenomeno che non vediamo su Giove e Saturno a causa dell’allineamento degli assi magnetici e di rotazione».

Un altro fattore importante da considerare per le osservazioni di aurore nell’ultravioletto e nell’infrarosso su Urano è che la principale fonte di particelle energetiche è il Sole, che è 19 volte più lontano dalla Terra. Di conseguenza, il segnale che vediamo dal pianeta è quasi cento volte più debole rispetto alle aurore nell’infrarosso di Giove. Se si aggiunge poi il fatto che Urano occupa solo lo 0,0006% del cielo notturno, si deduce che occorrono telescopi con una risoluzione molto alta, che sono stati costruiti solo negli ultimi 20 anni.

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Aurore di Giove viste dal telescopio spaziale Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Jupiter Ers Team; image processing di Judy Schmidt

«Infine, l’ultimo ostacolo è stata la mancanza di tempo e di risorse per completare questo lavoro», spiega Thomas. «Negli ultimi decenni c’è stata molta attenzione su Saturno e Giove, grazie all’entusiasmante lavoro della missione Cassini e dell’attuale missione Juno. Urano non ha ancora avuto un orbiter tutto suo ed è stato visitato solo da Voyager II nel 1986. Pertanto, il focus principale sulle aurore dei pianeti esterni è stato su Saturno e Giove, anche se speriamo che con questa conferma Urano otterrà il tempo e la ricerca che merita».

Questo articolo, intanto, è la conclusione di trent’anni di interrogativi circa l’esistenza dell’aurora infrarossa su Urano, e ha aperto una nuova era di indagini sull’aurora del pianeta. Indagini che potrebbero anche aiutare a comprendere meglio il fenomeno dell’inversione dei poli magnetici sulla Terra. «Non ci molti studi su questo, al momento, e non sono noti gli effetti che potrebbe avere su sistemi come satelliti, comunicazioni e navigazione, che si basano sul campo magnetico della Terra. Ma l’inversione dei poli è un processo che si verifica ogni giorno su Urano a causa dello sfasamento fra asse di rotazione e asse magnetico. Per questo», conclude Thomas, «continuare a studiare l’aurora di Urano potrà dare un’indicazione su cosa possiamo aspettarci in una eventuale, futura inversione dei poli terrestri e su cosa significherà questo per il campo magnetico terrestre.

Per saperne di più:


A Lucca il primo fumetto edito dall’Inaf


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Frammenti di cielo: il primo fumetto edito dall’Inaf

Stelle cadenti, bolidi, meteore e meteoriti: sono i sassi spaziali di cui tratta Frammenti di cielo, il primo fumetto edito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Illustrato da Francesca Poppi, in arte Matitaelettrica, l’opera vanta tra i protagonisti anche la celebre meteorite di Cavezzo, ritrovata il 4 gennaio 2020 in provincia di Modena grazie alle osservazioni della rete Prisma (Prima rete italiana per la sorveglianza sistematica di meteore e atmosfera) e anche all’aiuto di un’intrepida cagnolina di nome Pimpa.

Il fumetto è disponibile da oggi per il download gratuito su EduInaf, il magazine di didattica e divulgazione dell’ente. L’iniziativa, a cura di Francesca Brunetti, Martina Cardillo, Davide Coero Borga, Daniele Gardiol, Daria Guidetti e Adamantia Paizis del Gruppo Storie Inaf, è stata realizzato in collaborazione con Prisma, progetto promosso e coordinato da Inaf e sostenuto da Fondazione Crt. Frammenti di cielo sarà presentato a Lucca sabato 4 novembre, ore 12:00 presso il Comics&Science Palace (via della Zecca 41), nell’ambito dell’evento “L’Inaf a fumetti”, dove saranno disponibili anche le copie cartacee del volume. All’evento, dedicato sia al lancio del nuovo fumetto che alle rubriche illustrate di EduInaf, saranno presenti Antonino La Barbera, Gianluigi Filippelli e, in collegamento streaming, Daria Guidetti e Martina Cardillo.

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Copertina del fumetto di Angelo Adamo “Uno, nessuno, centomila fotoni; una, nessuna, centomila particelle”. Crediti: A. Adamo

In questa cornice l’Inaf cura altri due incontri: sabato 4 novembre alle 19:00 è la volta di Justice in Space, un racconto tra fumetti e scienza con Gianluigi Filippelli e Federica Duras, dedicato a un albo speciale di All Star Comics. Domenica 5 novembre alle 12:30 sarà presente Angelo Adamo per presentare il suo ultimo fumetto, Uno nessuno centomila fotoni – Una, nessuna, centomila particelle, che racconta la scienza dietro agli osservatori Astri e Ctao per l’astronomia gamma ad altissima energia. Comics&Science Palace è l’area ad accesso libero dedicata a incontri, presentazioni, spettacoli e firmacopie della collana Comics&Science di Cnr Edizioni, un’iniziativa di Andrea Plazzi e Roberto Natalini.

L’Inaf partecipa inoltre al Lucca Comics & Games in qualità di ente del centro interuniversitario Game Science Research Center con Imt Lucca e UniMore. La novità del 2023 è una nuova area espositiva nel cuore del festival: la Library del gioco, presso la Imt Library (piazza San Ponziano, con accesso da via Elisa). Quasi mille metri quadrati dedicati alla scienza, alla cultura, all’alta formazione e alla promozione del cambiamento sociale, con sessioni interattive di giochi da tavolo, digitali e di ruolo, escape room, prototipi di giochi su science diplomacy, sostenibilità e coesione sociale, seminari, workshop e dibattiti. Tra gli eventi curati da Inaf, sarà disponibile per tutta la durata del festival una demo del gioco da tavola Pixel: Picture (of) the Universe con Giovanni Contino e Alessandra Zanazzi. Giovedì 2 novembre, sempre presso la Imt Library, ci saranno inoltre interventi e discussione sui temi “Cittadinanza scientifica e gioco” a cura di Sara Ricciardi (ore 16:00) e “Pari e Dispari: accesso al sapere ed equità” a cura di Stefania Varano (ore 17:00).

Domenica 5 novembre alle ore 15:30, a 120 anni esatti dal primo Premio Nobel di Marie Curie, si terrà infine l’evento “Oltre Marie: il ruolo delle donne nella scienza” presso l’Auditorium del Suffragio (Via del Suffragio 6) con la partecipazione tra le altre di Patrizia Caraveo, dirigente di ricerca Inaf.

Per saperne di più:


Jiram trova sali minerali su Ganimede


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Ganimede, la luna principale di Giove, ripresa nell’infrarosso dalo strumenti italiano Jiram. Crediti: Nasa/Jpl/Jiram team

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha usato le misure infrarosse ad alta risoluzione spaziale dello strumento italiano Jiram (Jovian InfraRed Auroral Mapper) a bordo della sonda Nasa Juno per studiare la composizione superficiale di Ganimede, la maggiore delle lune del sistema di Giove e il satellite naturale più grande del Sistema solare. Con questo studio, pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, i ricercatori provano a dimostrare che anche Ganimede in passato potrebbe avere avuto un oceano a diretto contatto con un mantello, perciò potrebbe essere stato abitabile. Lo strumento Jiram, finanziato e supportato dall’Agenzia spaziale italiana (Asi), è stato realizzato da Finmeccanica ed è guidato scientificamente dall’Inaf di Roma.

Nello specifico, su Ganimede sono state trovate tracce di sali cloruri e potenzialmente sali carbonati, incluse varianti ammoniate, oltre a composti organici come aldeidi alifatiche. Cosa vuol dire? «La potenziale presenza di sali ammoniati», spiega Federico Tosi, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf di Roma, «suggerisce che Ganimede, durante la sua formazione, abbia accumulato materiali sufficientemente freddi da condensare l’ammoniaca. Analogamente, la presenza di sali carbonati sarebbe dovuta all’accumulo originale di ghiacci ricchi di anidride carbonica. Come sulla Terra ed altri corpi planetari come Encelado, Europa e Cerere, la presenza di sodio in siti specifici è indicativa dell’interazione tra acqua liquida e materiale roccioso. Questa interazione potrebbe essersi verificata all’inizio della storia di Ganimede, quando le miscele di ghiaccio e roccia sperimentarono lo scioglimento del ghiaccio e l’acqua ed altri volatili primordiali si separarono dalle rocce. Le aldeidi, che svolgono un ruolo importante come molecole precursori prebiotiche, potrebbero essere state presenti in un antico ambiente idrotermale».

I dati infrarossi raccolti dallo strumento Jiram presentano la migliore risoluzione spaziale mai ottenuta finora, ovvero meno di un chilometro per pixel. «Questo tipo di analisi non era possibile con precedenti dati infrarossi telerilevati dalla missione spaziale Galileo, dal telescopio spaziale Hubble e dal Very Large Telescope, per via dei limiti sulla risoluzione spaziale e/o spettrale o sull’intervallo spettrale», specifica Tosi. Jiram ha coperto un intervallo ristretto di latitudini (da 10° nord a 30° nord) e un più ampio intervallo di longitudini (da -35° est a +40° est) nell’emisfero rivolto verso Giove, sorvolando una varietà di unità geologiche come terreni chiari solcati da faglie, terreni scuri ed ejecta di crateri da impatto.

Tosi sottolinea che «la composizione osservata da Jiram può variare a seconda del tipo di terreno: una maggiore abbondanza di sali ed organici non si riscontra necessariamente solo nei terreni scuri ma anche in alcuni terreni chiari in corrispondenza delle faglie, seppure con differenze composizionali tra diverse faglie, suggerendo che un processo endogeno come l’estrusione di liquido dal sottosuolo possa determinare la composizione osservata. Non tutti i terreni scuri appaiono ugualmente arricchiti di anidride carbonica, che pure suggerisce una distribuzione controllata da processi geologici».

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Distribuzione spaziale delle intensità di banda. Da sinistra a destra, sono mostrate le proiezioni dei dati spettroscopici di Jiram, sovrapposte a un mosaico ottico in scala di grigi della superficie di Ganimede. Dall’alto al basso, ciascun pannello mostra la profondità delle firme spettrali a: 2.08 µm, 2.54 µm, 2.89 µm, 3.48 µm e 4.25 µm. Le etichette sugli assi esprimono la longitudine est (asse x) e la latitudine nord (asse y). I colori nelle proiezioni dei dati evidenziano la variabilità della scena osservata, legata alla composizione dei diversi terreni indagati da Jiram

I sali minerali e i composti organici identificati con la tecnica della spettroscopia sfruttata da Jiram su Ganimede, e la loro relazione con le caratteristiche geologiche dell’area esplorata, suggeriscono che questi siano il fossile di un esteso scambio tra acqua liquida e mantello roccioso avvenuto fino ad un certo punto della storia del satellite.

La composizione superficiale delle lune ghiacciate Europa e Ganimede può vincolare l’abitabilità di questi satelliti, noti per ospitare oceani interni di acqua liquida. «Nel recente passato di queste lune», aggiunge Tosi, «il liquido contenuto nel sottosuolo potrebbe essere occasionalmente emerso fino alla superficie, lasciando tracce della sua composizione chimica. Tuttavia, la combinazione di processi endogeni, cioè imputabili alla composizione genuina del liquido sotterraneo, e quelli esogeni, dovuti invece ad alterazione spaziale, complica lo studio della composizione superficiale: dato che Ganimede ha una crosta ghiacciata sostanzialmente più spessa di Europa, la composizione superficiale oggi osservata non è necessariamente rappresentativa della composizione interna e profonda».

Il 7 giugno 2021 la sonda Juno ha sorvolato Ganimede da una distanza minima di 1046 km. Poco dopo il massimo avvicinamento, lo strumento italiano Jiram ha acquisito immagini e spettri infrarossi della superficie del satellite. «Questi dati hanno raggiunto una risoluzione spaziale senza precedenti migliore di 1 km per pixel, tale da permettere di rivelare la composizione superficiale alla scala locale», commenta entusiasta Tosi.

Questi dati arrivano una decina di anni prima rispetto alle misure che i ricercatori si aspettano dalla sonda Juice dell’Agenzia spaziale europea lanciata lo scorso 14 aprile.

«Lo studio dimostra la complessità della chimica che ha luogo sulla superficie di Ganimede», dice Christina Plainaki, project scientist per Jiram dell’Asi. «I risultati aprono importanti prospettive interpretative in merito alle interazioni tra le superfici di questi corpi con i loro interni e l’ambiente spaziale. Il lavoro dimostra ancora una volta il grande valore scientifico della spettroscopia infrarossa, specialmente quando operata ad alta risoluzione spaziale. I risultati di Jiram anticipano le estese misure che verranno svolte con lo strumento Majis della missione Juice alla quale l’Italia ha fornito un contributo fondamentale».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Salts and organics on Ganymede’s surface from infrared observations by Juno/JIRAM”, di Federico Tosi, Alessandro Mura, Alessandra Cofano, Francesca Zambon, Christopher R. Glein, Mauro Ciarniello, Jonathan I. Lunine, Giuseppe Piccioni, Christina Plainaki, Roberto Sordini, Alberto Adriani, Scott J. Bolton, Candice J. Hansen, Tom A. Nordheim, Alessandro Moirano, Livio Agostini, Francesca Altieri, Shawn M. Brooks, Andrea Cicchetti, Bianca Maria Dinelli, Davide Grassi, Alessandra Migliorini, Maria Luisa Moriconi, Raffaella Noschese, Pietro Scarica, Giuseppe Sindoni, Stefania Stefani e Diego Turrini


Quando il cielo ci viene a trovare


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La copertina del fumetto ‘Frammenti di cielo’ (Inaf Press, 2023)

Una folgorante scia di luce, un’intrepida cagnolina e una rete di oltre sessanta telecamere sparse per l’Italia. Sono tra i protagonisti di Frammenti di cielo, il primo fumetto edito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), disponibile da oggi per il download gratuito su EduInaf, la rivista online di didattica e divulgazione dell’ente.

Il fumetto racconta la storia della meteorite di Cavezzo, un vero e proprio “sasso spaziale” che dalle profondità del Sistema solare ha terminato il suo viaggio in provincia di Modena il primo gennaio 2020, non senza lasciare una traccia lampante di sé nei cieli della Pianura padana. Fu proprio l’avvistamento del potente bolide, grazie a otto telecamere della rete Prisma, a permettere tre giorni dopo il ritrovamento di ciò che ne rimaneva: due piccole meteoriti fiutate da Pimpa, l’amica a quattro zampe del signor Davide Gaddi di Mirandola (Mo). Con un nome che omaggia l’indimenticabile cagnolina a pois rossi creata da Altan, le sue vicende non potevano trovare casa più appropriata che tra le pagine d’un fumetto.

La storia ruota intorno ad Aurora, la vispa nipotina del signor Davide che, dopo esser entrata in contatto con il prezioso sassolino rinvenuto dallo zio, viene proiettata in una fantastica avventura interplanetaria alla scoperta di meteoroidi, meteore e meteoriti (se vi siete sempre chiesti il significato di tutti questi termini ma non avete mai osato chiedere, siete nel posto giusto). Sullo sfondo, il lavoro delle ricercatrici e ricercatori Inaf che, grazie alla rete Prisma, vanno a caccia di questi pezzetti di asteroidi, fossili della formazione del Sistema solare, per svelare i segreti delle nostre origini cosmiche.

Il volume, illustrato da Francesca Poppi, in arte Matitaelettrica, srotola la storia su toni del blu di rosettiana memoria, illuminati di quando in quando da un giallo pastello erede del più celebre verde kryptonite di Nembo Kid. Apprezzabile scelta cromatica che, peraltro, va incontro a chi soffre di daltonismo. Realizzato dal Gruppo Storie dell’Inaf, che si occupa di valorizzare il patrimonio culturale dell’ente con attività di divulgazione scientifica attraverso la narrazione, la letteratura e il teatro, Frammenti di cielo porta la firma di Francesca Brunetti, Martina Cardillo, Davide Coero Borga, Daniele Gardiol, Daria Guidetti e Adamantia Paizis.

Alle 25 pagine del fumetto segue una serie di schede illustrate per districarsi nella nomenclatura delle “stelle cadenti” (che stelle non sono) ma anche per conoscere le attività della rete Prisma e scoprire cosa fare se si avvista un bolide nel cielo oppure se si scopre una meteorite (spoiler: fare una segnalazione e stare lontani dalle calamite). Frammenti di cielo è un prodotto di divulgazione agile ed elegante, adatto a curiose e curiosi di tutte le età che hanno voglia di esplorare l’universo senza paura di sospendere l’incredulità, anche solo per un attimo.


Tunguska, ecco dove cercare la meteorite


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Alberi abbattuti e bruciati dall’esplosione del 30 giugno 1908. Crediti: Leonid Kulik/Wikimedia Commons

Dov’è finita l’arma del delitto? A questa domanda da romanzo giallo stanno cercando di rispondere da più di un secolo generazioni di scienziati a proposito di quello che – per chi si occupa di astronomia – è il “delitto del millennio”: l’evento di Tunguska. Un’esplosione da 15 megatoni a seguito dell’ingresso in atmosfera – e al possibile impatto – di un corpo da 50-80 metri di diametro sul cielo della Siberia centrale, nei pressi del fiume Tunguska Pietrosa. Ne conosciamo l’esito: decine di milioni di alberi improvvisamente rasi al suolo dalla terrificante onda d’urto, su un’area di oltre duemila km quadrati – questa la scena del delitto. Grazie ai numerosi testimoni oculari ne conosciamo la data: 30 giugno 1908, non per caso il giorno oggi ricordato in tutto il mondo come Asteroid Day. Grazie a registrazioni sismiche e barometriche dell’epoca (il rumore dell’esplosione si udì fino a mille km di distanza), ne conosciamo l’ora con buona approssimazione: erano le 07:14:28 locali. Insomma, sappiamo tutto. Tranne che cosa l’abbia causato.

Manca l’arma del delitto, appunto. La meteorite. O meglio, il Tcb: il Tunguska Cosmic Body, come lo chiamano gli scienziati. Non è mai stato ritrovato. È il grande mistero di Tunguska. Com’è possibile che non ne sia mai stato recuperato nemmeno un frammento? Un oggetto con lo stesso diametro, per dire, in Arizona circa 50mila anni fa produsse il celebre Meteor Crater e le meteoriti associate sono numerose, mentre a Tunguska di crateri non vi è traccia alcuna. Le ipotesi non mancano. Potrebbe essere stata una piccola cometa, dunque un corpo prevalentemente formato da ghiaccio. Potrebbe essersi trattato sì di un asteroide, ma di quelli “fragili”: non di metallo, come l’asteroide che colpì l’Arizona, bensì di roccia, più frantumabile. Potrebbe anche essere stato di metallo ma con un angolo così radente da “rimbalzare” – o quasi – sull’atmosfera. Oppure… potrebbe essere ancora lì. In attesa che qualcuno lo trovi.

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Albino Carbognani, ricercatore all’Inaf Oas Bologna e primo autore dello studio pubblicato su Icarus. Crediti: A. Carbognani/Inaf

Se quest’ultima ipotesi fosse quella corretta, le domande diventano: è fisicamente possibile? Dimostrato che lo sia, dove dovremmo cercare? È ciò a cui prova ora a rispondere uno studio, condotto da tre astronomi dell’Istituto nazionale di astrofisica, appena pubblicato su Icarus. Tre esperti della complessa arte del ricostruire la più probabile area di dispersione dei frammenti della caduta di un piccolo asteroide, il cosiddetto strewn field: Mario Di Martino, Giovanna Stirpe e, primo autore dello studio, Albino Carbognani, ben noto ai lettori di Media Inaf per gli articoli divulgativi che scrive su queste pagine e sul suo blog Asteroidi e dintorni.

«In effetti le testimonianze degli eventi raccolte all’epoca della caduta parlavano di pietre comparse nella foresta subito dopo la catastrofe», ricorda Carbognani. «Purtroppo, la prima spedizione di Leonid Kulik è stata fatta solo 19 anni dopo, e gli eventuali frammenti macroscopici hanno avuto tutto il tempo per essere inghiottiti dal fango della taiga».

Macroscopici quanto? E qual è la probabilità che siano giunti al suolo? «Per un Tcb avente un’energia cinetica di 15 Mt (quella più accettata per Tunguska) e velocità atmosferica nel range 11-20 km/s (tipica di un impatto asteroidale), un frammento dell’ordine del metro di diametro e con strength (forza di coesione) nel range 14-85 MPa poteva resistere all’onda d’urto, sopravvivere all’airburst avvenuto a circa 8,5 km di quota e arrivare al suolo», spiega Carbognani. «La coesione necessaria non è particolarmente elevata ed è fisicamente possibile, essendo circa solo due volte la strength massima stimata per il meteoroide di Carancas. Quindi è probabile che esistano frammenti macroscopici del Tcb. Peraltro, viste le piccole dimensioni dell’asteroide (circa 50-80 metri di diametro), il Tcb molto probabilmente era un corpo monolitico e non un rubble pile come ad esempio Bennu, che è molto più grande».

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Lo strewn field calcolato da Carbognani e colleghi, qui rappresentato con Google Maps. Le dimensioni dei cerchietti corrispondono ai diversi frammenti con diametri compresi fra 0.7 metri (la dimensione del frammento di Chelyabinsk) e 1,5 metri (la dimensione di Carancas). È evidenziato anche il lago Cheko, a volte indicato come originato da una cratere da impatto formatosi durante l’evento di Tunguska. Crediti: A. Carbognani/Inaf

Insomma, potrebbe valer la pena cercare. Per capire dove, Carbognani e colleghi hanno messo insieme i pochi dati disponibili grazie alle testimonianze storiche e alle numerose campagne scientifiche che si sono succedute da allora: dati come l’azimut della direzione di provenienza, il possibile angolo d’ingresso e l’epicentro dell’esplosione. Poi li hanno inseriti, con tutte le loro incertezze, in un modello messo a punto avvalendosi di un altro impatto, quello del secolo: l’evento di Chelyabinsk del 2013, per il quale è stato rinvenuto un frammento monolitico con una massa di ben 570 kg e i dati sono abbondanti e molto precisi. Infine, grazie anche alla loro pluriennale esperienza con il progetto Prisma, coronata da un clamoroso primo successo nel 2020 con il ritrovamento della meteorite di Cavezzo, e a un software – ottimisticamente battezzato Meteorite Finder – da loro stessi sviluppato per calcolare il cosiddetto “volo buio” (dark flight) di un meteoroide e delimitarne l’area di dispersione sul terreno, hanno individuato la regione più promettente.

«Dai calcoli risulta che il possibile strewn field di Tunguska si colloca a circa 11 km a nord-ovest dall’epicentro dell’esplosione e ha un’estensione di circa 140 km quadrati. Se ci sono», avverte Carbognani, «le meteoriti macroscopiche devono essere sottoterra, perché quando sono arrivate al suolo avevano ancora abbastanza energia cinetica per penetrare il fangoso suolo siberiano. In definitiva il caso Tunguska non è chiuso e potrebbero esserci dei frammenti del Tcb che aspettano di essere ritrovati: le informazioni che si potrebbero ottenere chiarirebbero la natura del corpo oltre ogni ragionevole dubbio. Sarebbe la soluzione di un “mistero” che dura da più di un secolo e che è tempo di risolvere».

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Stelle giovani in ambienti massicci


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La figura (cliccare per visualizzarla integralmente) mostra un’immagine multi-banda di Cygnus OB2, in cui l’emissione ai raggi X è rappresentata in blu (sia le sorgenti che l’emissione diffusa), le osservazioni ottiche dall’Isaac Newton Telescope sono in rosso e le osservazioni nell’infrarosso dallo Spitzer Space Telescope in arancione. Crediti:
X-Ray: Nasa/Cxc/Sao/J. Drake et al; H-alpha: Univ. of Hertfordshire/Int/Iphas; Infrared: Nasa/JPL-Caltech/Spitzer

Nella Via Lattea, oggi, la formazione stellare avviene tipicamente in ambienti stellari di piccola massa. Infatti, gli ammassi stellari giovani (ossia con meno di 10 milioni di anni) che conosciamo nella Via Lattea, che si formano dal collasso e dalla frammentazione delle nebulose, hanno tipicamente una massa di alcune centinaia di volte quella del Sole. Tuttavia, esistono anche regioni di formazione stellare molto più massicce, da cui si originano decine o centinaia di migliaia di stelle, tra cui alcune delle stelle più massicce che conosciamo.

In tali regioni di grande massa, la formazione stellare e le prime fasi evolutive delle stelle possono procedere in maniera diversa rispetto alle regioni di formazione stellare di grande massa. Questo perché le numerose stelle massicce in queste regioni creano un campo di radiazione energetica (ultravioletta e ai raggi X) milioni di volte più intensa delle regioni di piccola massa. Questa radiazione impatta sia il processo di collasso e frammentazione delle nebulose, e quindi la formazione stellare, che l’evoluzione e dispersione dei dischi protoplanetari attorno alle stelle giovani, influenzando quindi il processo di formazione planetaria.

Nelle vicinanze del Sole, le regioni di formazione stellare massiccia sono molto rare. La più vicina a noi è certamente l’associazione stellare massiccia di Cygnus OB2. Si tratta di una regione di formazione stellare enorme, parte del complesso nebulare Cygnus-X, estesa su diverse decine di anni luce e distante da noi circa 4500 anni luce. Negli ultimi 5 milioni di anni, questa regione ha formato decine di migliaia di stelle sparse in un’associazione a bassa densità stellare. Tra queste stelle, ve ne sono alcune di massa molto alta, come CygOB2-7 di classe spettrale O3 (con una massa attuale di circa 50 masse solari), quattro stelle di Wolf-Rayet (con una massa compresa tra 10 e 50 masse solari, estremamente calde), e altre decine di stelle di grande massa. Per queste sue caratteristiche, Cygnus OB2 è la regione migliore per studiare la formazione stellare e planetaria in ambienti stellari massicci.

Questo ha motivato il “Chandra Cygnus OB2 Legacy Survey”, un programma di osservazione multi-banda della regione guidato dall’astronomo Jeremy J. Drake dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (Usa). Il programma è principalmente basato su un’osservazione a raggi X di lunga durata (305 ore) realizzata con il satellite della Nasa Chandra. Questi dati, essenziali per identificare le stelle giovani nella regione e studiare i processi ad alta energia in atto in queste stelle, sono stati combinati con un esteso set di dati nelle bande ottica e infrarossa, tra cui osservazioni specifiche con il Gran Telescopio Canaria, che ha consentito di ottenere una visione completa del processo di formazione stellare e delle prime fasi evolutive delle stelle in Cygnus OB2.

I risultati della campagna osservativa – due dei quali guidati da Mario Guarcello e uno da Ettore Flaccomio dell’Inaf di Palermo – sono stati pubblicati la settimana scorsa su un numero speciale di The Astrophysical Journal Supplement Series.


Alla ricerca di tecnofirme extraterrestri


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Copertina del report “Data-Driven Approaches to Searches for the Technosignatures of Advanced Civilizations Final” – Keck Institute for Space Studies Workshop, May 20–24, 2019. Crediti: Keck/Caltech

Da millenni l’umanità si chiede se siamo soli nell’universo. La scoperta della vita extraterrestre, in particolare della vita intelligente, avrebbe effetti profondi, paragonabili a quelli raggiunti con la consapevolezza che la Terra non è il centro dell’universo e che gli esseri umani si sono evoluti da specie precedenti. La crescita nel campo della ricerca degli esopianeti è stata rapidissima. Da quel lontano 6 ottobre 1995, quando venne scoperto il primo esopianeta, oggi sono 5534 i pianeti extrasolari confermati, in 4125 sistemi planetari diversi. All’incirca nello stesso intervallo di tempo, l’astronomia è arrivata a dover gestire una quantità di dati impressionante, dell’ordine del petabyte.

Recentemente è stato pubblicato uno studio guidato dal WM Keck Institute for Space Studies che ha lo scopo di rivisitare le ricerche di tecnologie aliene alla luce di questi sviluppi. Media Inaf ne ha parlato direttamente con uno degli autori, Stefano Cavuoti dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte, ricercatore ed esperto di intelligenza artificiale.

A che punto siamo con la ricerca di technosignature extraterrestri?

«L’umanità ha iniziato da metà del XX secolo a cercare forme di vita extraterrestri. Ci siamo concentrati sulla ricerca di segnali radio, principalmente nella gamma di frequenze solitamente nota come water hole e che corrisponde alle lunghezze d’onda tra 21 e 18 centimetri. Di fatto questo tipo di ricerca è continuato fino ai giorni nostri e un esempio è il progetto Breakthrough Listen. A questo si sono aggiunti alcuni progetti di Optical Seti (OSeti). Sostanzialmente quasi tutti i principali approcci utilizzati sinora hanno in comune una serie di ipotesi molto specifiche. Stiamo di fatto cercando una civiltà che stia deliberatamente tentando di comunicare, in maniera molto semplice, e che peraltro abbia un livello tecnologico simile a quello che avevamo noi all’epoca dell’inizio di questi studi».

In che direzione le stiamo cercando e come?

«Principalmente stiamo cercando segnali di comunicazione diretti a civiltà sconosciute. Oltre questo ci sono altri lavori ma rappresentano una percentuale piuttosto bassa del settore. Ci sono ad esempio alcuni lavori in letteratura sulla ricerca di sfere di Dyson, che sono delle strutture ipotetiche applicate attorno a qualcosa che emetta molta energia (ad esempio una stella) per sfruttarne quanto più possibile l’energia. Strutture di questo tipo se esistono devono lasciare una traccia infrarossa, dovuta al calore risultante dalla conversione energetica, che potrebbe essere identificata. L’astronomo russo Nikolaj Kardašëv negli anni 60 propose una scala per classificare le civiltà: una civiltà di Tipo 1 è in grado di utilizzare tutta l’energia di un pianeta, una di tipo 2 è in grado di utilizzare tutta o quasi l’energia della stella del proprio sistema mentre una di tipo 3 è in grado di utilizzare tutta quella di una galassia. Una civiltà in grado di costruire una sfera di Dyson attorno a una stella sarebbe classificata quindi nella scala di Kardašëv come di tipo 2 ma niente vieterebbe a una civiltà di tipo 3 di costruirne una attorno a una galassia».

Un risultato del workshop è stato che le ricerche sulle tecnofirme dovrebbero essere condotte in modo coerente con la “First Law of Seti Investigations”. Di cosa si tratta?

«La First Law of Seti Investigations è una frase di Freeman Dyson, che dice: “ogni ricerca di civiltà aliene dovrebbe essere pianificata in modo da dare risultati interessanti anche quando non si scoprono alieni”. Anche Frank Drake, famoso per l’equazione che porta il suo nome, relativa al numero di potenziali civiltà nella nostra galassia, aveva detto qualcosa del genere negli anni 60. Drake partiva da un assunto: questo genere di ricerca spesso non porta ad alcun risultato. Questo fatto non solo vanifica mesi di lavoro ma demoralizza anche il team di ricerca che ci ha lavorato. Questo significa insomma che le ricerche di technosignature dovrebbero essere condotte in modo da produrre risultati scientifici indipendentemente dal trovare o meno vita extraterrestre. Questo rende un eventuale progetto di ricerca più interessante sia per gli enti che devono investirci sia per i ricercatori che devono spenderci il loro tempo».

Le assunzioni che si fanno adesso nella ricerca di vita extraterrestre differiscono da quelle di un tempo?

«Non molto ma le cose stanno cambiando. Parte dello scopo del workshop è anche questo: cercare di capire quanto forti siano i bias umani in questo settore e come cercare di ridurli per quanto possibile. In che modo ci può aiutare l’intelligenza artificiale e in che modo differisce dai metodi di filtraggio dati usati negli anni passati? L’intelligenza artificiale può analizzare grandi quantità di dati in modo rapido ed efficiente, e permetterci di trovare schemi o tendenze che potrebbero sfuggire all’occhio umano, lavorare su molte dimensioni o direttamente sulle immagini. Molti dei metodi di filtraggio si basano su delle assunzioni e tendono ad applicare lo stesso criterio a tutti i dati mentre molti metodi di AI riescono a approcciare diverse porzioni dello spazio dei parametri in maniera specifica risultando così più flessibili».

Quali sono le principali difficoltà?

«Le principali difficoltà sono legate alla mancanza di risorse finanziarie e umane dedicate a questo tipo di ricerca. Questo è un lascito anche di alcuni progetti che magari non hanno rispettato la First Law of Seti Investigation. Questo ha condotto alla mancanza di una comunità scientifica consolidata e riconosciuta».

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Stefano Cavuoti è un ricercatore dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte, esperto di intelligenza artificiale. Nel 2016 ha ricevuto il premio “Outstanding Publication in Astrostatistics PostDoc Award” dell’International Astrostatistics Association. È uno dei builder della missione Euclid. Crediti: S. Cavuoti

C’è qualcosa di diverso che si potrebbe fare, oltre a quello che si sta già facendo, per raggiungere lo scopo?

«Secondo me una delle cose principali da fare è aumentare la percezione di scientificità, se mi passate il termine, di questo tipo di lavoro. Visto che al momento questo tipo di ricerca ha un’aura a volte negativa, in sostanza non viene percepita, spesso anche all’interno della stessa comunità scientifica, come un lavoro serio. Sicuramente queste attività andrebbero divulgate meglio sia al pubblico che alla comunità scientifica. In tal senso penso che sia stato importante che a questo workshop siano state invitate persone che non fossero strettamente dell’ambito del Seti in modo da avere una visione esterna. Io per primo non ho mai partecipato ad attività del Seti ma sono stato invitato in quanto esperto di AI».

Quali sono le vostre raccomandazioni in merito?

«Prima di tutto abbiamo nuovamente sottolineato che questo genere di ricerche va eseguito in modo coerente con la First Law of Seti Investigations. Bisogna poi sfruttare la potenzialità dell’Ai per identificare le anomalie presenti già adesso nei dataset delle grandi survey. Identificare prima e capire poi le anomalie nei dati è un task importantissimo a prescindere dalla vita extraterrestre perché rappresentano o problemi nei dati o oggetti rari o eventualmente una technosignature. Identificare gli errori ed etichettarli, sia per impedire ad altri di utilizzare dati non corretti sia per capire da dove nasce il problema e se possibile risolverlo, è di estrema importanza. Se non è un problema nei dati è un oggetto quantomeno raro, se non peculiare, che è degno di uno studio a sé stante e se non è neppure questo potrebbe essere una technosignature. Ad esempio nei dati che già abbiamo si potrebbe andare a cercare le sfere di Dyson o segnali di cui non riusciamo a spiegare il meccanismo fisico, infine si potrebbe provare a cercare una forma di comunicazione compressa nella variabilità di un Agn (che presumerebbe una civiltà di tipo 3 della scala di Kardašëv). Ad esempio, potrebbero modulare l’emissione ultravioletta dell’Agn alterando la temperatura della parte più interna del disco di accrescimento. L’obiettivo sarebbe sfruttare la luminosità naturale dell’Agn per farla percepire nell’universo, simile a come si modula un segnale con un transistor. Ci sono poi progetti che avrebbero una forte motivazione scientifica e che potrebbero portare a benefici anche in questo settore. Un esempio che abbiamo proposto sarebbe la realizzazione di una survey nel lontano infrarosso all-sky. Infine la ricerca di segnali, intenzionali o meno, nel sistema solare sarebbe un’altra possibile strada da esplorare».

Questo tipo di ricerca da chi è finanziata?

«La Nasa ha sempre portato avanti questo tipo di ricerca anche se chiaramente non sempre con la stessa intensità; non troppo tempo fa ha anche organizzato un workshop dedicato solo a questo. Il workshop di cui stiamo parlando è stato organizzato a spese del Keck Institute for Space Studies che è un istituto gestito congiuntamente da Caltech e Nasa Jpl su fondi della Keck Foundation, le Breakthrough Initiatives sono finanziate da una fondazione privata».


Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il report “Data-Driven Approaches to Searches for the Technosignatures of Advanced Civilizations” di Joseph W. Lazio, S. G. Djorgovski, Andrew Howard, Curt Cutler, Sofia Z. Sheikh, Stefano Cavuoti, Denise Herzing, Kiri Wagstaff, Jason T. Wright, Vishal Gajjar, Kevin Hand, Umaa Rebbapragada, Bruce Allen, Erica Cartmill, Jacob Foster, Dawn Gelino, Matthew J. Graham, Giuseppe Longo, Ashish A. Mahabal, Lior Pachter, Vikram Ravi e Gerald Sussman


E.T. Telefono Dublino


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Instancabili cercatori e appassionati di vita extraterrestre, c’è pane fresco per i vostri denti. Si tratta di un programma di ricerca che usa una nuova tecnica osservativa ed esplora un regime di frequenze radio inedito nel cielo boreale. Il concetto e le prime osservazioni sono riportati in un articolo pubblicato in The Astronomical Journal. Si tratta di un programma che prevede si scansionare il cielo fra i 110 e i 190 MHz, e che finora ha osservato 44 target del catalogo del telescopio Tess e 1,631,152 target selezionati dal catalogo di Gaia.

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Il radiotelescopio Lofar a bassa frequenza situato in Irlanda, a Birr Castle, e coinvolto assieme al radiotelescopio svedese a Onsala nella nuova ricerca di segnali extraterrestri. Crediti: I-Lofar

La ricerca sistematica di comunicazioni provenienti da civiltà extraterrestri intelligenti, il programma Seti, parte dal presupposto che il loro modo di comunicare sia simile al nostro, e utilizzi quindi segnali a frequenze radio. Sono le cosiddette “technosignatures”, marcatori tecnologici distinguibili – in linea di principio – dai segnali naturali emessi dalle sorgenti celesti. A questo scopo, il programma internazionale Breakthrough Listen si serve, da alcuni anni, di alcuni radiotelescopi terrestri come il Green Bank di 100 metri nel West Virginia (Gbt), Stati Uniti, e il radiotelescopio di 64 metri Parkes in Australia, per cercare segnali radio fra 1 e 27.45 GHz. Il nuovo programma lanciato dal Trinity College di Dublino, invece, si propone come estensione di Breakthrough Listen utilizzando la stazione svedese e irlandese dell’array Lofar.

Le novità, rispetto a quanto fatto negli ultimi sessant’anni di ricerca, sono principalmente due. La prima, lo dicevamo, è la frequenza dei segnali captati: più bassa e con una larghezza di banda maggiore rispetto a qualunque ricerca sistematica condotta finora. La seconda, invece, riguarda la tecnica osservativa: usando contemporaneamente due stazioni radio poste in due luoghi diversi – le due stazioni irlandese e svedese dell’array a bassa frequenza di Lofar – sarebbe possibile rimuovere le fonti di rumore e i segnali spuri semplicemente confrontando i dati fra loro, anziché togliere tempo alle osservazioni per effettuare puntamenti mirati a raccogliere solamente il segnale di fondo. In questo modo, è possibile utilizzare tutto il tempo a disposizione per osservare le sorgenti di interesse, eliminando in modo sicuro le interferenze radio per entrambi i siti osservativi contemporaneamente.

La prima prova sul campo ha riguardato l’osservazione di 44 regioni di cielo dalla survey Tess, per un totale di 11 ore di osservazione e 232 gradi quadrati di cielo coperti nell’emisfero nord. Oltre a questi 44 target, le osservazioni hanno coperto anche 1,631,152 target provenienti dai cataloghi Gaia.

Inutile dire che finora non è stato rilevato alcun segnale promettente – non avremmo certo aspettato tanto a dirvelo – ma questa nuova tecnica sfrutta al massimo il potenziale dei radiotelescopi Lofar e consentirà di scandagliare regioni molto ampie di cielo. E non è tutto: la ricerca di technosignatures potrà avvalersi sempre di più delle nuove tecniche di analisi dei Big data, grazie a nuovi progetti dedicati.

«Lofar sarà presto sottoposto a una serie di aggiornamenti in tutte le stazioni dell’array in Europa, che consentiranno una ricerca di segnali extraterrestri ancora più ampia a frequenze comprese tra 15 e 240 MHz», dice Owen Johnson, primo autore dell’articolo e primo studente di dottorato con un progetto interamente incentrato sull’argomento Seti. «Abbiamo miliardi di sistemi stellari da esplorare e ci affideremo ad alcune tecniche di apprendimento automatico per vagliare l’immenso volume di dati. Questo è di per sé interessante: sarebbe piuttosto ironico se l’umanità scoprisse la vita aliena utilizzando l’intelligenza artificiale».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “A Simultaneous Dual-site Technosignature Search Using International LOFAR Stations“, di Owen A. Johnson, Vishal Gajjar, Evan F. Keane, David J. McKenna, Charles Giese, Ben McKeon, Tobia D. Carozzi, Cloe Alcaria, Aoife Brennan, Bryan Brzycki, Steve Croft, Jamie Drew, Richard Elkins, Peter T. Gallagher, Ruth Kelly, Matt Lebofsky, Dave H. E. MacMahon, Joseph McCauley, Imke de Pater, Shauna Rose Raeside, Andrew P. V. Siemion e S. Pete Worden


Marte ha un cuore piccolo. Piccolo, così!


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Il nucleo di ferro liquido di Marte è più piccolo e denso di quanto si pensasse, e circondato da un guscio di roccia fusa. Sono i risultati di un nuovo studio condotto da un team di astronomi guidato dall’Eth di Zurigo sulla base dei dati sismici del lander InSight della Nasa.

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Illustrazione artistica che mostra la struttura interna di Marte alla luce dei nuovi risultati ottenuti dai ricercatori sulla base dei dati sismici del lander InSight della Nasa. Stando a quanto riportato nello studio, il nucleo del pianeta sarebbe più piccolo e più denso di quanto si pensasse, e circondato da uno strato di silicati fusi spesso 150 chilometri. Crediti: Thibaut Roger, Nccr Planet S/Eth Zurigo

Il lander InSight della Nasa è stato il primo manufatto progettato per studiare l’interno di Marte. La sonda è atterrata sul pianeta il 26 novembre del 2018, dopo oltre sei mesi di viaggio. Durante i suoi quattro anni di missione, il sismografo Seis, uno dei tre strumenti a bordo del landar, ha registrato diversi “martemoti”, tra cui due sismi con epicentro nel lato opposto a quello dove si trovava il lander: i più potenti mai registrati sul pianeta. Uno è avvenuto il 25 agosto 2021, al sol 976 della missione, l’altro si è verificato il 18 settembre 2021, al sol 1000, come conseguenza dell’impatto di un meteorite. Un team di ricercatori guidato da Amir Khan, geofisico dell’Istituto di geochimica e petrologia dell’Eth di Zurigo, in Svizzera, ha raccolto e analizzato i dati sismici di questi eventi, ottenendo nuove informazioni sulla dimensione e sulla composizione del nucleo di Marte.

«Anche se la missione si è conclusa nel dicembre 2022, abbiamo scoperto qualcosa di molto interessante», dice a questo proposito Khan.

L’analisi dei martemoti registrati, combinata con le simulazioni al computer, dipinge un nuovo quadro della struttura interna e della composizione del pianeta. I risultati dello studio, pubblicato ieri sulla rivista Nature, suggeriscono innanzitutto che Marte abbia un nucleo di dimensioni minori rispetto a quanto precedentemente determinato: dai circa 3.700 chilometri di diametro si passa a circa 3.300 chilometri. Si tratta di un ridimensionamento non eclatante, sufficiente però a risolvere un mistero che i ricercatori non riuscivamo a spiegare. Studi precedenti basati sull’analisi dei primi dati di Insight hanno suggerito che Marte abbia un nucleo grande (il 25 per cento della sua massa totale, pari a 6,42 x 1023 kg) con una densità media di 6,0–6,3 grammi per centimetro cubo, significativamente inferiore a quella del ferro liquido puro, pari a 8,1 grammi per centimetro cubo. Ciò implica la mescolanza con elementi leggeri come zolfo, carbonio, ossigeno e idrogeno, che costituirebbero circa il 20 per cento in peso. «Si tratta di una quota molto grande di elementi leggeri, al limite dell’impossibile», dice Dongyang Huang, ricercatore presso il Dipartimento di scienze della Terra dell’Eth di Zurigo, tra gli autori dello studio. «Da allora ci interroghiamo su questo risultato».

La nuova stima ottenuta dai ricercatori riduce sostanzialmente questa quantità, che scende tra il 9 e il 14 per cento in peso, valori spiegabili nel contesto dei tipici scenari di formazione planetaria, spiegano i ricercatori. Il fatto che il nucleo marziano contenga questa quantità di elementi leggeri indica che dev’essersi formato molto presto, forse quando il Sole era ancora circondato dal gas della nebulosa da cui gli elementi leggeri avrebbero potuto accumularsi nel nucleo di Marte, aggiungono i ricercatori. La diretta conseguenza di questa riduzione è l’aumento della densità, che passa a 6,65 grammi per centimetro cubo.

Come anticipato, un altro importante risultato di questa ricerca riguarda la struttura interna del pianeta. Marte, come altri pianeti rocciosi differenziati, è composto da un nucleo di lega di ferro ricoperto da un mantello di silicati e da una crosta solidi. La dicotomia nucleo fuso-mantello solido ha probabilmente origine da uno stadio iniziale di oceano di magma globale, durante il quale il ferro, più pesante, si è separato dai silicati, più leggeri, per formare un nucleo. Il nuovo studio modifica questa stratificazione, aggiungendo tra i due gusci precedentemente noti un nuovo strato. I risultati della ricerca indicano infatti che stretto tra il nucleo liquido e il mantello solido ci sia un guscio di silicati fusi spesso 150 chilometri con una densità di circa 4,05 grammi per centimetro cubo.

Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno determinato le proprietà di un’ampia varietà di leghe di ferro utilizzando sofisticate simulazioni eseguite presso il Centro nazionale svizzero di supercalcolo (Cscs) di Lugano, in Svizzera. Quando hanno confrontato i profili simulati con le misurazioni basate sui dati sismici di InSight, hanno però riscontrato un problema: nessuna lega di ferro corrispondeva contemporaneamente sia alla parte esterna che alla parte interna del nucleo di Marte. Il motivo? L’abbiamo anticipato: la presenza di uno “strato di mezzo” fatto di silicati, lo stesso materiale, ma in forma fusa, di cui è composto il mantello del pianeta.

«Ci abbiamo messo un po’ per capire che la regione che in precedenza pensavamo fosse il nucleo esterno di ferro liquido, in realtà è la parte più profonda del mantello», osserva Huang. I risultati di questo studio sono stati confermati anche da un altro lavoro di ricerca, pubblicato anch’esso su Nature, in cui i ricercatori, utilizzando metodi complementari, sono arrivati a una conclusione simile.

«È stato un peccato che i pannelli solari impolverati e la conseguente mancanza di energia abbiano reso impossibile a InSight fornirci dati aggiuntivi, che avrebbero potuto far luce sulla composizione e la struttura dell’interno di Marte, concludono i ricercatori. Nonostante questo, InSight è stata una missione di grande successo, che ci ha fornito molti nuovi dati e approfondimenti che verranno analizzati negli anni a venire.

Per saperne di più, leggi su Nature gli articoli:


Event Horizon, un premio fantastico


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10008977Dal 27 ottobre al primo novembre torna il Festival Science+Fiction di Trieste, il più importante evento italiano dedicato al cinema di questo genere, giunto alla 23esima edizione. L’Istituto nazionale di astrofisica è un partner di vecchia data, patrocinatore del Festival e quest’anno – anche per ricordare i 60 anni dallo storico Festival internazionale del film di fantascienza svoltosi a Trieste dal 1963 al 1982, la prima manifestazione dedicata al cinema di genere in Italia e tra le primissime in Europa – ha promosso l’istituzione di un premio speciale per il lungometraggio in concorso al festival che meglio affronta, con efficacia filmica ed espedienti narrativi coinvolgenti, temi particolarmente rilevanti e innovativi nel campo della scienza. E il titolo del riconoscimento è tutto un programma: “Event Horizon”, per ricordare l’orizzonte degli eventi, linee immaginarie in prossimità dei buchi neri che segnano il limite oltre il quale nulla sfugge ad essi, nemmeno la luce e che da sempre stuzzicano la fantasia di artisti, scrittori e registi. La giuria Inaf di quest’anno, un inedito ma qualificato mix di ricercatori, giornalisti e cinefili, era composta da Valentina Guglielmo, Paolo Soletta, Vincenzo Cardone, Fabrizio Fiore e dal presidente Stefano Cristiani, che con entusiasmo e determinazione è riuscito a concretizzare la sua idea.

«Un’idea che è nata», racconta proprio Cristiani, «da una discussione tra “cinefili astro-snob”, dalla constatazione di quanto sia diffuso nella produzione Sci+Fi lo stereotipo che associa “scoperta scientifica” a “futuro distopico” e spesso risolve questioni complesse poste dal progresso tecnologico con il classico bombardamento catartico, che cancella la scoperta pericolosa di turno – e magari anche lo scienziato –… e dopo “tutti vissero felici e contenti”. Luoghi comuni e scienza non sono mai andati d’accordo, per cui ci è sembrato opportuno premiare chi esce da questi schemi e affronta le sfide futuristiche in campo aperto, senza una fideistica e acritica fiducia nel progresso, ma anche senza pregiudizi. Per capirci – aggiunge Cristiani – nel solco di opere come i celeberrimi “2001 Odissea nello Spazio” e “Interstellar”, ma anche “Europa Report”, vincitore del premio Asteroide al Sci+Fi Festival del 2013».

La giuria costituita per assegnare il premio, creazione artistica di Michele Scarcia, si è trovata in grande sintonia ma ha dovuto affrontare già in questa prima edizione del premio Inaf-Event Horizon una scelta ardua, perché tra le opere selezionate due sono emerse in modo particolare, in realizzazioni formalmente diverse, un film di animazione e un film “di attori”, entrambe straordinariamente riuscite.

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Il poster del film “Restore Point”

Alla fine, la prima edizione del premio Inaf- Event Horizon è andata al film “Restore Point” di Robert Hloz (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, 2023), che verrà presentato in anteprima italiana il 28 ottobre alle ore 20.00 nel cinema Politeama Rossetti di Trieste. Il film è stato premiato dalla giuria “per aver saputo affrontare con particolare efficacia filmica e innovazione temi particolarmente rilevanti e senza tempo in campo scientifico e sociale. L’impianto narrativo cyberpunk, che echeggia Philip Dick nei suoi Blade Runner e Total Recall, con alcune note di Soylent Green e Frankenstein, tocca in modo delicato argomenti con cui l’uomo fa i conti da sempre: il passaggio dalla vita alla morte, le seconde possibilità e il senso della vita – che non può essere ridotto al contenuto di un hard disk. Ideali utopici si confrontano con uno scenario sociale cupo e distopico, creando una giustapposizione coinvolgente. Il tutto, confezionato con effetti visuali eleganti e funzionali. Restore Point è un gioiello cinematografico in cui l’architettura brutalista trasforma Praga in una metropoli del futuro e le curve degli edifici richiamano le svolte nelle indagini del detective Trochinowska».

Il premio Event Horizon 2023 verrà consegnato nel corso della serata da Fabrizio Fiore, Direttore dell’Inaf-Osservatorio Astronomico di Trieste che sottolinea: “Il rapporto tra Science e Fiction non è mai a senso unico. La a Fiction non è una divulgazione della Science, non viene dopo. Il rapporto è molto più complesso, infatti spesso e volentieri la Fiction anticipa la Science, sia come contenuti che come trasferimento e metabolizzazione di questi contenuti nella società. E poi riprende e riadatta il contenuto scientifico che è emerso in un nuovo ciclo non lineare. Da questo punto di vista Restore Point, pur facendo parte di una lunga tradizione come evidenziato anche nella motivazione del premio, introduce elementi di novità, soprattutto nel saper rendere tutti gli elementi di sci-fi una parte veramente naturale della società descritta».

La giuria del premio Inaf-Event Horizon ha infine attribuito una menzione d’onore al lungometraggio animato “Mars Express” di Jérémie Périn (Francia, 2023) “per aver saputo condensare in un film di animazione un thriller mozzafiato che affronta il mai-così-attuale tema del rapporto tra uomini e robot. Lo stile impeccabile riprende e sviluppa, in una forma originale, europea, la migliore tradizione dell’animazione giapponese e di autori come Moebius. Il film raggiunge un equilibrio esemplare tra la ricchezza di elementi futuristici immaginativi, sempre funzionali alla storia, e i codici di un film noir, che tengono lo spettatore incollato allo schermo. Tra Asimov e “The Big Sleep”, il film approda a una risoluzione finale che ci lascia pensosi a meditare non solo sull’essenza dell’umanità di fronte allo sviluppo tecnologico, ma anche sul rapporto col Diverso».

Per saperne di più:


Con un poco di zucchero filato cosmico


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La galassia Ngc 7727. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura

Due lunghi bracci vorticosi che si diramano da un nucleo centrale, ricchi di gas, polvere e sacche di stelle abbaglianti appena formate. La riconoscete? È la tipica forma di una galassia a spirale. Eppure questa figura così nota del cosmo, durante la fusione con un’altra galassia, può prendere una forma molto più bizzarra e amorfa: i suoi ampi bracci vengono improvvisamente scombinati e i due buchi neri supermassicci nei rispettivi centri galattici restano intrappolati in un’energetica e spettacolare danza cosmica prodotta dalle forze di marea.

È il caso di Ngc 7727, una particolare galassia situata nella costellazione dell’Acquario, a circa 90 milioni di anni luce da noi. Gli astronomi hanno catturato un’immagine che mostra le conseguenze di questa fusione galattica utilizzando lo spettrografo Gmo (Gemini Multi-Object Spectrograph) montato sul Gemini South telescope in Cile. L’immagine rivela vaste bande vorticose composte da polvere e gas interstellari che si avvolgono attorno ai nuclei in fusione delle galassie progenitrici, come un intricato garbuglio di filamenti che ricordano lo zucchero filato. Come conseguenza di questa fusione è possibile ammirare un mix sparso di regioni attive ricche di esplosioni stellari e strisce di polvere che circondano il sistema.

Ciò che più colpisce di Ngc 7727 sono i suoi due nuclei galattici, ciascuno dei quali ospita un buco nero supermassiccio, così come è stato confermato dal Vlt (Very Large Telescope). Gli astronomi ora sostengono che la galassia abbia avuto origine da una coppia di galassie a spirale coinvolte in una danza celeste circa un miliardo di anni fa. Stelle e nebulose fuoriuscirono dai loro sistemi rimanendo in balia della forza gravitazionale dei buchi neri finché non si formarono i nodi aggrovigliati e irregolari che osserviamo. La galassia è ancora scossa dall’impatto, la maggior parte dei tralci che vediamo sono incendiati dalla luce di giovani stelle e vivai stellari attivi. Si stima che circa ventitré degli oggetti rilevati in questo sistema siano candidati a divenire dei giovani ammassi globulari. Questi gruppi di stelle si formano spesso in aree in cui la formazione stellare è più elevata del solito e sono particolarmente comuni nelle galassie interagenti, come mostrato dall’immagine.

I due buchi neri supermassicci, che muovono e rimescolano la materia stellare, distano tra loro circa 1600 anni luce. Sono la coppia di buchi neri più vicina alla Terra che si conosca. Uno misura 154 milioni di masse solari e l’altro 6,3 milioni di masse solari. Si stima che tra circa 250 milioni di anni i due buchi neri si fonderanno in uno solo per formare un oggetto ancora più massiccio che dispenderà violente increspature di onde gravitazionali attraverso lo spaziotempo.

Una volta che la polvere galattica si sarà depositata, gli scienziati prevedono che Ngc 7727 si formerà in una galassia ellittica composta da stelle più vecchie e con pochissima formazione stellare, simile a Messier 87, una galassia ellittica con un buco nero supermassiccio al centro. Questo potrebbe essere il medesimo destino che attende il futuro della nostra galassia, la Via Lattea quando si fonderà con la galassia di Andromeda tra miliardi di anni.


Una nuova “teoria del tutto” per un’evoluzione 4.0


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Ammonite opalizzata iridescente. Con il progredire dell’evoluzione della vita da organismi unicellulari a organismi pluricellulari e la formazione di ecosistemi, anche la mineralogia della superficie terrestre è diventata più complessa. E la diversità minerale che si è creata ha cambiato radicalmente la direzione e le possibilità dell’evoluzione. La biodiversità porta alla diversità minerale e viceversa. I due sistemi, biologico e minerale, hanno interagito per creare la vita come la conosciamo oggi. Crediti: Dr. Robert Lavinsky

Le leggi della natura descrivono e spiegano i fenomeni che osserviamo quotidianamente nel mondo che ci circonda. Le leggi classiche del moto, della gravità, dell’elettromagnetismo e della termodinamica, come pure le leggi fondamentali dell’evoluzione, sono alcuni esempi. Ognuna di queste leggi naturali, basate su dati empirici, descrive un comportamento universale dei sistemi fisici macroscopici nello spazio e nel tempo.

In un articolo pubblicato la settimana scorsa sui Proceedings of the National Academy of Sciences, un team multidisciplinare di scienziati, comprendente tra gli altri filosofi della scienza, astrobiologi e fisici teorici, descrive ora una nuova legge. L’hanno chiamata “legge mancante della natura” e riconosce l’evoluzione come una caratteristica comune dei sistemi complessi.

L’idea centrale della legge, chiamata anche “legge dell’aumento dell’informazione funzionale”, è che i sistemi naturali complessi evolvono verso stati di maggiore strutturazione, diversità e complessità se le molteplici configurazioni possibili del sistema subiscono una “selezione per una o più funzioni”. In pratica, quando una nuova configurazione di un sistema funziona bene e la funzione migliora, avviene l’evoluzione. E ciò a prescindere dal fatto che il sistema sia vivente o non vivente.

Ma cosa si intente esattamente per configurazione del sistema? E soprattutto, quali sono queste funzioni alla cui base ci sarebbe l’evoluzione?

La risposta alla prima domanda si trova nei cosiddetti attributi di applicabilità della legge. Nel formulare la teoria, uno degli sforzi che i ricercatori hanno fatto è stato quello di identificare eventuali equivalenze tra diversi sistemi evolutivi attraverso l’indagine di attributi comuni in grado di sostenere un enunciato che unificasse tutti i sistemi in questione. Per indagare questo concetto, gli autori hanno preso in esame tre sistemi in evoluzione differenti: il sistema stellare, il sistema minerale e il sistema biologico. Secondo i ricercatori, questi tre sistemi naturali in evoluzione differiscono in modo significativo nei dettagli: la nucleosintesi stellare dipende dalla selezione di configurazioni stabili di protoni e neutroni; l’evoluzione minerale si basa sulla selezione di nuove disposizioni stabili di elementi chimici; l’evoluzione biologica avviene attraverso la selezione naturale di tratti ereditabili vantaggiosi. Tuttavia, spiegano i ricercatori, questi e molti altri sistemi sono equivalenti sotto tre importanti aspetti: ogni sistema è formato da numerose unità interagenti (particelle nucleari, elementi chimici, molecole o cellule) che si dispongono in modi diversi e si riorganizzano ripetutamente, dando luogo a un numero combinatorio di configurazioni possibili; in ognuno dei sistemi, i processi in corso generano un gran numero di configurazioni diverse; alcune configurazioni, in virtù della loro stabilità o di altri vantaggi competitivi, hanno maggiori probabilità di persistere grazie alla selezione per funzione. In altre parole, ogni sistema si evolve attraverso la selezione di configurazioni vantaggiose. Da quando detto, si capisce come per configurazione di un sistema gli autori intendono l’insieme dei possibili modi che hanno gli elementi costitutivi del sistema stesso di organizzarsi nello spazio. Quanti sono questi modi? Molti, aggiungono i ricercatori. Tuttavia, solo una piccola parte di essi sopravvive in un processo chiamato “selezione per funzione”.

Andiamo ora al concetto di funzione, che Michael L. Wong, astrobiologo e scienziato planetario della Carnegie Carnegie Institution for Science, e colleghi spiegano prendendo come esempio una delle teorie che ha cambiato profondamente il mondo della scienza: la teoria evoluzionistica di Charles Darwin. Quello che sosteneva il naturalista inglese nel suo enunciato è che alle base dell’evoluzione c’è un meccanismo di selezione naturale innescato dalla lotta per la sopravvivenza. In questa teoria, la ‘funzione’ è la sopravvivenza di una specie, ovvero la capacità degli individui con le caratteristiche più vantaggiose di vivere abbastanza a lungo da raggiungere la maturità sessuale, riprodursi, produrre prole e trasmettere ai discendenti i propri geni, che verranno dunque selezionati a preferenza rispetto ai tratti non vantaggiosi. Tutto questo, naturalmente, sotto la spinta dell’adattamento all’ambiente.

La nuova legge amplia questa prospettiva, ammettendo almeno tre tipi di funzioni, dove per funzione si intende qualsiasi processo interno o esterno al sistema che apporti un vantaggio al sistema stesso. La prima funzione, che è anche la più elementare, è la stabilità. Molte strutture in natura sono state selezionate contro il decadimento all’equilibrio termodinamico “nutrendosi” di entropia negativa. Le strutture si sono cioè organizzate in maniera stabile opponendosi alla tendenza naturale al disordine, ossia all’entropia. Queste disposizioni stabili di atomi o molecole vengono selezionate in un processo che gli autori chiamano selezione del primo ordine o selezione per persistenza statica. L’idea alla base è che le configurazioni della materia tendono a persistere a meno che non esistano vie cineticamente più favorevoli all’acquisizione di assetti più stabili.

La seconda funzione è la dinamicità, tipica dei sistemi aperti. Il processo alla base di questa funzione è la dissipazione di energia libera: senza questa funzione, sottolineano i ricercatori, non potrebbero esistere sistemi complessi. L’autocatalisi – tipica dei sistemi autoreplicanti, dunque degli esseri viventi – e l’omeostasi sono altri tipi di funzioni. Il processo di selezione che avviene sulla base di questa funzione è la selezione di secondo ordine o selezione per persistenza dinamica.

La terza funzione, infine, è la novità, ovvero la tendenza dei sistemi in evoluzione a esplorare nuove configurazioni, che a volte portano a comportamenti nuovi o caratteristiche sorprendenti. In un universo che supporta molte possibilità di combinazioni, la scoperta di nuove configurazioni funzionali viene selezionata quando esiste un numero considerevole di configurazioni che non sono state ancora sottoposte a selezione, osservano i ricercatori. La selezione che sottende questa funzione è la selezione di terzo ordine o selezione per generazione di novità.

Secondo i ricercatori, dunque, la selezione di una configurazione dei sistemi sulla base di una o più di queste funzioni porta all’evoluzione del sistema stesso. Detto così l’enunciato mostra molte similitudini con la “legge della complessità crescente“, che afferma che la selezione naturale, agendo da sola, tende ad aumentare la complessità di un sistema. In realtà, sottolineano i ricercatori, la legge dell’aumento dell’informazione funzionale amplifica e quantifica questa congettura, concentrandosi sulla selezione naturale dei sistemi biologici in evoluzione.

Come anticipato, la legge in questione si applica a un’ampia gamma di sistemi in evoluzione, compresi i sistemi viventi. La vita, sebbene distinta nelle specificità dei suoi meccanismi evolutivi, può essere infatti concettualizzata come equivalente ai sistemi stellari e minerali: sia che la guardiamo su scala molecolare, sia che la guardiamo a livello di cellule, individui o ecosistemi, i sistemi biologici hanno il potenziale di presentarsi in numerose configurazioni, e la selezione naturale conserva preferenzialmente configurazioni con funzioni efficaci.

Oltre ad aiutare a comprendere l’evoluzione dei sistemi complessi, lo studio in questione ha notevoli implicazioni anche per la ricerca della vita nel cosmo. L’idea dei ricercatori a tal proposito è questa: se esiste una demarcazione tra la chimica della vita e quella del mondo inanimato che ha a che fare con la selezione per la funzione, si potrebbero identificare delle “regole della vita” che ci permetterebbero di discriminare questa linea di demarcazione nelle indagini astrobiologiche.

«Se Darwin ha formulato la teoria evolutiva partendo da un approccio legato alla sopravvivenza della specie, con questo lavoro lo scenario di applicabilità si amplia notevolmente», dice a Media Inaf John Brucato, astrobiologo all’Inaf – Osservatorio astrofisico di Arcetri, che abbiamo contattato per un commento al nuovo enunciato. «La funzione più interessante è la “novità”», aggiunge lo scienziato, «ovvero la tendenza dei sistemi in evoluzione a esplorare nuove configurazioni che a volte portano a nuovi comportamenti o caratteristiche sorprendenti. Data l’ubiquità dei sistemi evolutivi nel mondo naturale, la nuova legge introdotta in questo lavoro considera sia la “funzione” che il “contesto”. Se accettiamo che la selezione basata sulla crescita di funzionalità, sulla persistenza e sulla generazione di novità sia un processo universale guidato da una legge di natura, allora dobbiamo aspettarci che la vita sia un fenomeno comune nell’Universo»

Per saperne di più:

  • Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “On the roles of function and selection in evolving systems” di Michael L. Wong, Carol E. Cleland, Daniel Arend Jr., Stuart Bartlett, H. James Cleaves II, Heather Demarest, Anirudh Prabhu, Jonathan I. Lunine e Robert M. Hazen


Filamenti a doppia elica nel cuore del blazar


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Immagine ad alta risoluzione del getto relativistico nel blazar 3C 279 ottenuta con RadioAstron. L’immagine rivela una struttura complessa all’interno del getto, con diversi filamenti che formano una struttura a elica. In basso, a titolo di confronto, l’immagine ottenuta dal Very Long Baseline Array e la posizione della sorgente nel cielo dei raggi gamma (si noti che le scale sono molto diverse). Crediti: Nasa/Doe/Fermi Lat Collaboration; Vlba/Jorstad et al.; RadioAstron/Fuentes et al.

I blazar sono le sorgenti continue di radiazione più potenti dell’universo. Come altre galassie attive, presentano una struttura costituita da un buco nero supermassiccio centrale circondato da un disco di materia che lo alimenta. Rientrano in quel 10 per cento di galassie attive che mostrano getti di plasma ad alta velocità in uscita da entrambi i poli, e in particolare in quella percentuale ancora più ridotta di casi in cui possiamo osservare questi getti quasi frontalmente. Un team di ricercatori guidato da Antonio Fuentes dell’Istituto di astrofisica dell’Andalusia (Iaa-Csic) ha ora osservato il getto della galassia 3C 279 – situata in direzione della costellazione della Vergine, a circa cinque miliardi di anni luce da noi – con una risoluzione e una sensibilità senza precedenti, individuando grandi filamenti con una struttura a doppia elica: una scoperta che richiede di rivedere i modelli teorici utilizzati finora.

«I risultati, pubblicati oggi su Nature Astronomy, mostrano che il getto di 3C 279 presenta una struttura complessa», spiega Rocco Lico, coautore dello studio, ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica e all’Iaa-Csic, «composta da almeno due filamenti elicoidali che si estendono dai pressi del nucleo a oltre 570 anni luce di distanza». Si tratta di una struttura inedita, anche se già nel 2020 l’Event Horizon Telescope (Eht) – la collaborazione che nel 2019 ha prodotto la prima immagine di un buco nero – aveva rivelato strutture inaspettate nel nucleo di 3C 279, con una sensibilità però insufficiente per osservare i filamenti.

«Grazie a RadioAstron, un radiotelescopio spaziale con un’orbita che si spinge fino ad arrivare vicino a quella della Luna, e a una rete di 23 radiotelescopi distribuiti su tutta la Terra, abbiamo ottenuto l’immagine a più alta risoluzione del cuore di un blazar fino a oggi, riuscendo così a osservare per la prima volta la struttura interna del getto», dice Fuentes, primo autore dello studio.

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I due coautori Inaf dello studio. Da sinistra: Rocco Lico, dell’Inaf Ira di Bologna, e Gabriele Bruni, dell’Inaf Iaps di Roma

«Nonostante dal 2019 RadioAstron non sia più attivo», aggiunge un altro coautore dello studio, Gabriele Bruni, ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica, «la miniera di dati lasciati in eredità dalla missione continua a rivelare dettagli inediti sulla fisica dei getti. Negli ultimi dieci anni, infatti, sono stati numerosi i contributi della missione allo studio della struttura, propagazione, e conformazione del campo magnetico dei getti relativistici lanciati dai nuclei galattici attivi, grazie alla risoluzione da record raggiunta tramite la tecnica del Vlbi spaziale». Bruni ricorda inoltre come iI gioco di squadra compiuto dalle stazioni radioastronomiche di tutto il globo, che hanno supportato RadioAstron durante le osservazioni, abbia incluso anche le tre antenne italiane dell’Inaf: il Sardinia Radio Telescope, Medicina e Noto.

Tornando ai filamenti elicoidali osservati nel getto di 3C 279, le loro proprietà, spiega Fuentes, «ci portano a concludere che sono prodotti dalle instabilità presenti nel plasma di cui sono fatti i getti. Tenendo conto di tutti gli elementi, siamo giunti a concludere che il modello utilizzato per quattro decenni per spiegare la variabilità radio associata ai getti non si può applicare a questo caso. Proponiamo dunque un modello alternativo che tiene conto delle strutture da noi osservate».

Dallo studio emerge inoltre che il getto potrebbe essere confinato da un campo magnetico elicoidale. Sarebbe questo campo magnetico, che in 3C 279 ruota in senso orario attorno al getto, a incanalare il materiale che viaggia lungo di esso, a una velocità pari a 0,997 volte la velocità della luce.

«Questo risultato, insieme ad altre recenti scoperte, suggerisce che i getti dei blazar abbiano una struttura interna più ricca e complessa delle morfologie “a imbuto” osservate negli studi a bassa risoluzione. Alla luce di questi risultati, molte altre sorgenti di questo tipo potranno essere rianalizzate e reinterpretata», conclude uno dei coautori dello studio, José Luis Gómez, ricercatore all’Iaa-Csic, «evidenziando l’importanza di nuove reti globali di radiotelescopi con risoluzione angolare e sensibilità più elevate, come nel prossimo decennio il Next Generation Eht e, a più lungo termine, le missioni spaziali che osservano a lunghezze d’onda millimetriche».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Filamentary structures as the origin of blazar jet radio variability”, di Antonio Fuentes, José L. Gómez, José M. Martí, Manel Perucho, Guang-Yao Zhao, Rocco Lico, Andrei P. Lobanov, Gabriele Bruni, Yuri Y. Kovalev, Andrew Chael, Kazunori Akiyama, Katherine L.Bouman, He Sun, Ilje Cho, Efthalia Traianou, Teresa Toscano, Rohan Dahale, Leonid I. Gurvits, Svetlana Jorstad, Jae-Young Kim, Alan P. Marscher, Yosuke Mizuno, Eduardo Ros e Tuomas Savolainen

Guarda su MediaInaf Tv l’intervista a Rocco Lico:

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C’è del tellurio in quella kilonova


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Immagine del Grb 230307A e la relativa kilonova (in alto a sinistra) realizzata con la fotocamera NirCam a bordo del telescopio spaziale Webb. La galassia di colore bluastro in basso a destra è il luogo d’origine delle due stelle di neutroni che, dopo aver viaggiato per circa 120mila anni luce, hanno dato luogo all’esplosione. Crediti: Nasa, Esa, Csa, A. Levan (Radboud University)

Un team internazionale di scienziati ha identificato l’origine di un potente lampo di raggi gamma (gamma-ray burst, o Grb) osservato lo scorso marzo: a generarlo è stata una kilonova, ovvero l’esplosione causata dalla fusione tra due stelle di neutroni. La ricerca è basata su osservazioni realizzate con il James Webb Space Telescope (Jwst), che ha anche permesso di rilevare l’elemento chimico tellurio nel materiale espulso dalla potente esplosione. Il lampo, denominato Grb 230307A, è il secondo più luminoso mai scoperto in oltre 50 anni di osservazioni. È stato individuato il 7 marzo 2023 dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi, a cui ha fatto seguito il Neil Gehrels Swift Observatory, entrambi della Nasa. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature.

«Il materiale in queste esplosioni è lanciato nello spazio a velocità molto elevate, causando una rapida evoluzione della luminosità e della temperatura del plasma in espansione», afferma Om Sharan Salafia, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Milano, tra gli autori dello studio. «Con l’espansione, il materiale si raffredda e il picco della sua luce si sposta sempre più verso il rosso, per poi passare all’infrarosso su scale temporali che vanno da giorni a settimane».

Le kilonove sono esplosioni estremamente rare, il che ne rende difficile l’osservazione. Per molto tempo, si è ritenuto che i Grb brevi, dalla durata inferiore a due secondi, derivassero da questi eventi, mentre i Grb più lunghi fossero associati alla morte esplosiva di una stella massiccia, o supernova. Il caso di Grb 230307A è peculiare: il lampo è durato 200 secondi, come i Grb di lunga durata, eppure le osservazioni di Jwst indicano chiaramente che proviene dalla fusione di due stelle di neutroni. Oltre al tellurio, è probabile che nel materiale espulso nella kilonova siano presenti anche altri elementi pesanti, vicini ad esso sulla tavola periodica, come ad esempio lo iodio, necessario per gran parte della vita sulla Terra.

La collaborazione di molti telescopi, sia a terra che nello spazio, ha permesso al team di raccogliere una gran quantità di informazioni su questo evento subito dopo il primo rilevamento, aiutando loro a individuare la sorgente nel cielo e a monitorare la sua luminosità nel tempo. Le osservazioni nei raggi gamma, nei raggi X, nell’ottico, nell’infrarosso e in banda radio hanno mostrato che la controparte ottica/infrarossa era debole, evolvendosi rapidamente e passando dal blu al rosso: i tratti distintivi di una kilonova. In particolare, la sensibilità di Jwst nell’infrarosso ha aiutato gli scienziati a identificare l’origine delle due stelle di neutroni che hanno prodotto la kilonova: una galassia a spirale a circa 120mila anni luce dal luogo della fusione. I progenitori del poderoso evento erano due stelle massicce che formavano un sistema binario in questa galassia: le esplosioni che le hanno trasformate in stelle di neutroni, tuttavia, hanno espulso il sistema binario dalla galassia. Prima di fondersi e dare luogo alla kilonova, diverse centinaia di milioni di anni più tardi, hanno percorso un tragitto pari al diametro della Via Lattea.

Alla campagna osservativa ha partecipato anche il Vst (Vlt Survey Telescope), telescopio dell’Inaf presso l’Osservatorio di Paranal, in Cile. «Quando il Grb fu scoperto, non si conosceva ancora la sua controparte ottica, in quanto Swift non lo aveva osservato e quindi non si aveva idea della posizione esatta con precisione di arcosecondi, in modo da attivare il follow-up classico» spiega il co-autore Luca Izzo, ricercatore presso l’Inaf a Napoli e presso il Dark Cosmology Center, Niels Bohr Institute, Università di Copenhagen, in Danimarca. «Avendo del tempo di osservazione al Vst per un mio programma sulle galassie vicine, decisi di pianificare delle osservazioni per la ricerca della controparte nella notte a me riservata, due giorni dopo la scoperta del Grb. Queste osservazioni hanno identificato correttamente la controparte ottica poche ore dopo la prima conferma, ottenuta dalla UltraCam sul New Technology Telescope. Questo dimostra il contributo del Vst nell’identificazione ottica di sorgenti ad alta energia e nel successivo follow-up e caratterizzazione. Una cosa che faremo sicuramente nel futuro immediato».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature X l’articolo “Heavy element production in a compact object merger observed by Jwst”, di Andrew Levan, Benjamin P. Gompertz, Om Sharan Salafia, Mattia Bulla, Eric Burns, Kenta Hotokezaka, Luca Izzo, Gavin P. Lamb, Daniele B. Malesani, Samantha R. Oates, Maria Edvige Ravasio, Alicia Rouco Escorial, Benjamin Schneider, Nikhil Sarin, Steve Schulze, Nial R. Tanvir, Kendall Ackley, Gemma Anderson, Gabriel B. Brammer, Lise Christensen, Vikram S. Dhillon, Phil A. Evans, Michael Fausnaugh, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Chris Fryer, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Jamie A. Kennea, Mark R. Kennedy, Tanmoy Laskar, Giorgos Leloudas, Ilya Mandel, Antonio Martin-Carrillo, Brian D. Metzger, Matt Nicholl, Anya Nugent, Jesse T. Palmerio, Giovanna Pugliese, Jillian Rastinejad, Lauren Rhodes, Andrea Rossi, Andrea Saccardi, Stephen J. Smartt, Heloise F. Stevance, Aaron Tohuvavohu, Alexander van der Horst, Susanna D. Vergani, Darach Watson, Thomas Barclay, Kornpob Bhirombhakdi, Elm e Breedt, Alice A. Breeveld, Alexander J. Brown, Sergio Campana, Ashley A. Chrimes, Paolo D’Avanzo, Valerio D’Elia, Massimiliano De Pasquale, Martin J. Dyer, Duncan K. Galloway, James A. Garbutt, Matthew J. Green, Dieter H. Hartmann, Páll Jakobsson, Paul Kerry, Chryssa Kouveliotou, Danial Langeroodi, Emeric Le Floc’h, James K. Leung, Stuart P. Littlefair, James Munday, Paul O’Brien, Steven G. Parsons, Ingrid Pelisoli, David I. Sahman, Ruben Salvaterra, Boris Sbarufatti, Danny Steeghs, Gianpiero Tagliaferri, Christina C. Thone, Antonio de Ugarte Postigo, David Alexander Kann


In ricordo di Roberto Fanti


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Roberto Fanti (terzo da sx) con Carla Fanti (seconda da sx), Liliana Formiggini e Roberto Bergamini nel giardino dell’Istituto di fisica dell’Università di Bologna nel 1967. Crediti: Inaf-Ira

Laureatosi in fisica a Bologna, dal 1965 Roberto Fanti ha fatto parte del gruppo di scienziati e tecnici che ha realizzato il primo grande progetto della radioastronomia italiana, il radiotelescopio “Croce del Nord” di Medicina, portando alla creazione del catalogo di radiosorgenti B2, pietra miliare per la scoperta e identificazione delle sorgenti radio, che per moltissimi anni è stato uno dei cataloghi maggiormente utilizzati dalla comunità internazionale. Al tempo il catalogo si rivelò fondamentale per la selezione di radiogalassie e quasar e Roberto capì immediatamente l’importanza di osservare questi oggetti ad alta risoluzione angolare, sviluppando una collaborazione tra l’allora Laboratorio di radioastronomia e il Westerbork Synthesis Radio Telescope (Wsrt) presso Dwingeloo (Olanda). I radioastronomi bolognesi ottennero un accesso continuo al Wsrt, che inizialmente era aperto ai soli ricercatori olandesi. Questa collaborazione segnò l’ingresso effettivo della radioastronomia italiana in campo europeo e contribuì a creare quell’asse tra Italia e Olanda che ancora oggi è uno dei fondamenti della radioastronomia in Europa.

«Con lui, Carla Fanti e Hans de Ruiter abbiamo lavorato per quasi 40 anni sul campione di radiosorgenti B2 a bassa luminosità e l’ultimo articolo, scritto quando eravamo già tutti pensionati, riguardava ancora le proprietà delle galassie del campione», ricorda Paola Parma, oggi associata all’Istituto di radioastronomia.

Roberto Fanti aveva una profonda conoscenza della fisica e dell’astrofisica e una mente così brillante da permettergli di portare contributi fortemente innovativi in ambiti anche molto diversi fra loro. Pur essendo inquadrato presso l’Università di Bologna ha sempre svolto la sua attività scientifica presso il Laboratorio nazionale di radioastronomia, diventato poi Istituto di radioastronomia del Cnr e dell’Inaf. Da qui, per tantissimi anni ha ispirato le più importanti linee di ricerca che hanno portato la radioastronomia italiana ai vertici mondiali. In particolare, è stato un vero e proprio pioniere dello studio della fisica ed evoluzione delle radiosorgenti extragalattiche, costruendo una solidissima scuola apprezzata in tutto il mondo.

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Roberto Fanti con sua moglie Carla il giorno di festeggiamento per il suo pensionamento nel 2005 mostra uno dei regali ricevuti: una serie di antiche stampe di Bologna. Crediti: I. Gioia

«A distanza di quasi 35 anni, il suo articolo “On the nature of compact steep spectrum radio sources” è ancora un punto di riferimento per chi studia l’evoluzione delle radiogalassie», dice Tiziana Venturi, dirigente di ricerca dell’Istituto di radioastronomia. «Ricordo che sulla scia di quello studio, sotto la leadership di Roberto, nacquero collaborazioni intensissime con il California Institute of Technology, allora punta di diamante degli studi ad altissima risoluzione con la tecnica Vlbi delle radiosorgenti compatte».

Roberto è stato professore ordinario di astronomia e astrofisica e direttore, alla fine degli anni ‘90, del Dipartimento di astronomia. Ha insegnato fisica I e fisica II ai corsi di laurea in fisica e astronomia, e il corso di radioastronomia le cui dispense Una finestra sull’Universo “Invisibile” sono poi diventate un libro, scritto insieme con Carla Fanti, che è ancora oggi “la bibbia” per i radio astronomi. La sua brillantezza, la chiarezza e il fascino delle sue lezioni, unitamente alla sua disponibilità, lo hanno fatto amare e rispettare sia dagli studenti sia dai tanti colleghi. Si è sempre distinto per la sua modestia e correttezza, dando lezioni a tutti anche sul come fare “un passo di fianco” per far crescere i più giovani. È stato infatti un mentore eccezionale, facendo crescere intere generazioni di radioastronomi che hanno poi raccolto il suo testimone.

«È stato il mio professore di fisica I, così bravo che a distanza di qualche anno eravamo ancora tutti lì in fila per chiedergli una tesi o consigli sugli argomenti di tesi», dice Gianfranco Brunetti, oggi direttore dell’Istituto di radioastronomia, «la persona che più di tutti mi ha fatto avvicinare alla radioastronomia e sempre un fortissimo riferimento, tanto che negli anni ho continuato a passare nel suo ufficio come un bambino per discutere con lui “carta e penna” di quello che avevo scoperto».

«Roberto è stato il professore con cui mi sono laureata», dice Isabella Gioia, oggi associata all’Istituto di radioastronomia. «Aveva solo tre anni più di me, io laureanda e lui il mio professore! Fui piena di ammirazione per lui. Poi in seguito ebbi modo di conoscerlo meglio come collega, un collega unico, colto, erudito (e non solo in radioastronomia), garbato, gentile. Con lui si poteva parlare di tutto, non solo di scienza!».

In questo momento di tristezza e cordoglio per la sua scomparsa, ci rimane la solidità della sua eredità umana e scientifica, e il privilegio di averlo avuto come professore, collega e amico.

Al suo fianco sempre Carla, amatissima compagna di vita e di quella bellissima avventura che è lo studio dell’Universo. A lei e alla sua famiglia l’abbraccio affettuoso nostro e di tutta la comunità.

Gianfranco Brunetti, Luigina Feretti, Isabella Gioia, Gabriele Giovannini, Paola Parma e Tiziana Venturi


Ligo va oltre il limite quantistico


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Uno sguardo sulla tecnologia che crea la luce “squeezed” nella camera a vuoto di Ligo. Crediti: Georgia Mansell/Ligo Hanford Observatory

Davanti alla precisione degli interferometri per onde gravitazionali si rimane a bocca aperta: i bracci lunghi quattro chilometri ciascuno dei rivelatori di Ligo riescono ad accorgersi di perturbazioni dello spazio-tempo ampie un millesimo del diametro di un protone. O diecimila miliardi di volte più piccole dello spessore di un capello umano, se preferite. Dimensioni inimmaginabili. Dimensioni alle quali gli effetti quantistici iniziano a farsi pesanti. Effetti come il crepitio del rumore prodotto dai fotoni all’interno dei tubi “sotto vuoto” nei quali corrono i fasci laser usati dall’interferometro per rilevare le contrazioni e le dilatazioni dello spazio-tempo dovute al passaggio di onde gravitazionali. Rumore che le leggi della meccanica quantistica – e in particolare il principio di indeterminazione di Heisenberg – rendono impossibile da eliminare del tutto, limitando così la sensibilità degli interferometri. Ma che la stessa meccanica quantistica aiuta ad aggirare. Come? Grazie a una tecnica chiamata quantum squeezing. Ebbene, gli scienziati di Ligo hanno ora annunciato in un articolo su Physical Review X di essere riusciti a implementare nell’interferometro uno squeezing dipendente dalla frequenza, superando così in sensibilità il limite quantistico e aumentando del 60 per cento il numero di eventi che Ligo potrà rivelare.

«La natura quantistica della luce crea il problema, ma la fisica quantistica ci fornisce anche la soluzione», dice a proposito dello squeezing la ricercatrice del Massachussetts Institute of Technology Lisa Barsotti, originaria di Livorno e oggi al Mit come supervisore dello sviluppo di questa nuova tecnologia per Ligo. La soluzione alla quale fa riferimento Barsotti consiste nell’impiego di particolari cristalli che trasformano un fotone in una coppia di fotoni entangled di energia inferiore. Ciò consente di realizzare fisicamente lo squeezing. «I fotoni arrivano con maggiore regolarità, come se si tenessero per mano invece di viaggiare in modo indipendente», spiega un altro dei fisici alla guida del progetto, Lee McCuller del Caltech. E grazie allo squeezing è possibile mettere in atto lo stratagemma che permette non di eliminare ma, almeno, di esercitare un controllo sugli effetti del principio di indeterminazione, consentendo di scegliere verso quale variabile “spingere” l’incertezza. Ovvero, nel caso di Ligo, di spostare il rumore più sulla frequenza o più sull’ampiezza.

Se ci si fermasse qui, però, non si sarebbe fatto altro che “travasare il rumore” da un dominio all’altro. A rendere davvero vantaggioso il ricorso a questa tecnica è il fatto che il rumore quantistico ha componenti ad alta e a bassa frequenza, componenti per le quali la scelta di dove concentrare e dove invece ridurre l’incertezza non è equivalente. Relativamente le alte frequenze, ridurre l’incertezza sulla frequenza (o sulla fase) migliora la sensibilità di Ligo. L’effetto indesiderato è l’incremento del rumore di pressione della radiazione degli specchi alle basse frequenze. Rumore che viene invece limitato riducendo l’incertezza sull’ampiezza.

Per massimizzare i vantaggi occorre dunque un sistema di squeezing che permetta di “spostare” il rumore in base alla frequenza. Ed è esattamente ciò che riescono a fare le nuove cavità ottiche di Ligo, tubi lunghi ognuno quanto tre campi da calcio: consentono di “spremere” la luce in modo diverso a seconda della frequenza. «Prima eravamo costretti a scegliere dove volevamo che Ligo fosse più preciso», dice Rana Adhikari del Caltech. «Ora è come se fossimo riusciti a salvare capra e cavoli».

Il sistema sembra funzionare anche sul campo: Ligo lo sta applicando sin dall’inizio del run osservativo attualmente in corso, O4, iniziato il 24 maggio 2023. E anche l’interferometro italiano Virgo, che fino a ora non ha preso parte al run O4 ma che dovrebbe farlo nel marzo 2024, potrebbe impiegare questa nuova tecnologia.

Per saperne di più:

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Io, sì, vengo dalla Luna


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Rappresentazione artistica di Kamoʻoalewa mentre passa in prossimità del sistema Terra-Luna. Crediti: Addy Graham/University of Arizona

Gli astronomi li chiamano quasi-satelliti. Sono asteroidi near-Earth con orbite così simili a quelle d’un pianeta che sembrano orbitargli attorno, ma in realtà ruotano attorno al Sole. Ce li ha Venere, Nettuno, forse Cerere. E ce li ha anche la Terra, che a oggi ne conta sette. (469219) Kamoʻoalewa, un masso dal diametro compreso tra i 40 e i 100 metri, è uno di questi.

Scoperto nel 2016 dal telescopio PanStarrs, alle Hawaii, di recente il quasi-satellite della Terra è balzato agli onori della cronaca per la sua probabile origine lunare: uno studio condotto da un team di astronomi guidato dal Lunar and Planetary Laboratory dell’Università dell’Arizona (ne abbiamo parlato su Media Inaf) aveva infatti scoperto che le sue caratteristiche fisiche sono molto probabilmente simili a quelle delle rocce lunari. Ora una nuova ricerca, condotta questa volta dall’Università dell’Arizona, a Tucson, è giunta a risultati che avallano questa ipotesi. Il nuovo studio è riportato su Communications Earth & Environment, una rivista del gruppo Nature.

Nel corso della sua storia, la Luna è stata bombardata da moltissimi asteroidi, cosa evidente nei numerosi crateri da impatto che segnano la sua superficie. La maggior parte del materiale espulso con questi impatti solitamente ricade sulla Luna, mentre la restante parte raggiunge la Terra sotto forma di meteore. Una piccola quota, tuttavia, potrebbe sfuggire alla gravità sia della Luna che della Terra e finire per orbitare attorno al Sole, come altri asteroidi near-Earth.

Nello studio in questione, l’obiettivo dei ricercatori era determinare la probabilità che un pezzo di roccia staccatosi dalla Luna in seguito all’impatto di un meteoroide possa posizionarsi nell’orbita tipica di un quasi-satellite. Per farlo hanno effettuato simulazioni dell’evoluzione dinamica di frammenti di roccia lanciati da diverse posizioni della superficie lunare a velocità di espulsione differenti.

Tenendo in debita considerazione le forze gravitazionali di tutti i pianeti del Sistema solare, il team ha scoperto che c’è una probabilità di circa il 7 per cento che alcuni frammenti lunari possano effettivamente posizionarsi in orbite tipiche dei quasi-satelliti, al di fuori della nostra sfera di Hill, la regione dove l’influenza gravitazionale terrestre prevale su quella solare. Detto in altri termini, i risultati suggeriscono che sì, (469219) Kamoʻoalewa potrebbe essere un pezzo di roccia lunare che co-orbita insieme a noi attorno al Sole.

«Finora solo gli asteroidi oltre l’orbita di Marte erano considerati una fonte di near-Earth» osserva Renu Malhotra, scienziata planetaria presso l’Università dell’Arizona e co-autrice della pubblicazione. «Ora stiamo stabilendo che la Luna è la più probabile fonte del near-Earth Kamoʻoalewa».

In futuro i ricercatori cercheranno di dedurre l’età esatta dell’asteroide e di identificare le specifiche condizioni che gli hanno consentito di entrate nella sua attuale orbita. Studi più dettagliati per determinare l’origine da uno specifico cratere lunare forniranno inoltre utili spunti sulla meccanica dell’impatto e ci aiuteranno a comprendere meglio gli asteroidi near-Earth, alcuni dei quali sono considerati un potenziale pericolo per la Terra.

«Questo corpo celeste può darci informazioni sulla formazione della Luna e migliorare la nostra conoscenza degli asteroidi near-Earth», dice a questo proposito Aaron Rosengren, ricercatore dell’Università della California – San Diego, tra i firmatari dell’articolo. «Ma per dire con certezza che Kamoʻoalewa è un frammento della Luna abbiamo bisogno di maggiori informazioni». Informazioni che potrebbero arrivare a breve da Tianwen-2, una missione robotica che sarà lanciata nel 2025 dall’Agenzia spaziale cinese (Cnsa), tra i cui obiettivi c’è riportare sulla Terra campioni dell’asteroide.

Per saperne di più:

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della UC San Diego

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Quanti anni hai, Luna?


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L’astronauta dell’Apollo 17 Harrison Schmitt nel 1972, coperto di polvere lunare. Crediti: Nasa

Più di 4 miliardi di anni fa, in un Sistema solare ancora giovane e in cui la Terra si stava ancora formando, un oggetto gigante delle dimensioni di Marte – denominato Theia – si schiantò contro il nostro pianeta primordiale. Il frammento più grande staccatosi dalla Terra – costituito da magma e rocce fuse sotto forma di un disco di detriti – ha orbitato intorno al pianeta fino a raffreddarsi e costituire, così, la Luna.

Questo è quanto sarebbe avvenuto, secondo la teoria dell’impatto gigante, al momento della nascita del nostro satellite. Ma sul quando e sul come c’è ancora un gran mistero.

Nel recente studio pubblicato sulla rivista Geochemical Perspectives Letters, un team internazionale di ricercatori ha analizzato i frammenti di roccia lunare raccolti dagli astronauti della missione Apollo 17 – l’ultima con equipaggio a bordo – per cercare di datare il momento della formazione della Luna. Fissando l’evento ad almeno 4,46 miliardi di anni, la scoperta renderebbe la Luna più vecchia di circa 40 milioni di anni rispetto a quanto finora stimato.

Riportati sulla Terra nel 1972, i campioni di polvere lunare utilizzati nella ricerca contengono minuscoli cristalli di zircone formatisi miliardi di anni fa, dopo il raffreddamento del magma. «Questi cristalli sono i più antichi frammenti solidi conosciuti, formatisi dopo l’impatto del corpo planetario con la Terra», afferma Philipp Heck, responsabile del Field Museum, direttore del Centro di ricerca interattivo di Negaunee, professore all’Università di Chicago e autore senior dello studio. «Poiché sappiamo quanto sono vecchi questi cristalli, possiamo usarli per stabilire una cronologia lunare».

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Un grano di zircone lunare al microscopio. Crediti: J. Greer

Cristalli come prime tracce di una neonata Luna, quindi.
La roccia contenente i zirconi è stata raccolta nella valle Taurus-Littrow, sul bordo sud-orientale del Mare Serenitatis lunare, e conservata presso il Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Secondo gli scienziati, l’energia scaturita dall’impatto del gigante corpo planetario con la Terra, avrebbe fuso la roccia creando un oceano magmatico: l’origine di quella che sarebbe poi diventata la superficie lunare.

Poiché i cristalli devono essersi formati dopo il raffreddamento dell’oceano di magma, la determinazione dell’età dei cristalli di zircone potrebbe effettivamente rivelare l’età minima possibile della Luna. «Con la superficie lunare così fusa, è impossibile che i cristalli di zircone si siano formati prima dell’impatto e poi si siano conservati», aggiunge Heck. «Devono per forza essersi formati successivamente, quando l’oceano magmatico lunare si è raffreddato. Altrimenti, sarebbero stati fusi e le loro “firme chimiche” sarebbero state cancellate del tutto».

Una precedente ricerca di Bidong Zhang, scienziato planetario dell’Ucla negli Stati Uniti e coautore della pubblicazione, aveva già suggerito che la Luna fosse più vecchia di quanto si pensasse. «È interessante notare che tutti i minerali più antichi trovati sulla Terra, su Marte e sulla Luna sono cristalli di zircone. Lo zircone, non il diamante, dura per sempre», osserva Zhang.

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L’autrice principale Jennika Greer al lavoro con la sonda tomografica atomica. Crediti: Dieter Isheim, Northwestern.

La novità introdotta dal recente studio è l’utilizzo del nuovo metodo analitico chiamato tomografia a sonda atomica (Atom Probe Tomography, Apt) che ha definitivamente fissato l’età del cristallo di Luna più antico in assoluto. Il campione raccolto nella missione Apollo 17 pesava circa 110 chili e, considerando che non siamo tornati sulla Luna da oltre 50 anni, ogni frammento lunare che abbiamo a disposizione è preziosissimo: dobbiamo farlo fruttare per tutti gli studi e le ricerche prossime, fino a quando l’uomo non tornerà sulla Luna.

Per fortuna, gli scienziati hanno trovato, grazie all’Apt, un nuovo modo per analizzare la chimica del suolo lunare utilizzando, atomo per atomo, un singolo granello di polvere senza compromettere il resto del campione. «Nella tomografia a sonda atomica, si inizia riducendo un pezzo di campione lunare in una punta molto affilata, usando un microscopio a fascio ionico focalizzato, quasi come fosse un “temperamatite” di lusso», ha spiegato Jennika Greer, oggi all’Università di Glasgow in Scozia, prima autrice dello studio per cui ha collaborato sin dall’inizio insieme ad Heck, suo precedente supervisore di dottorato.

La “punta” ottenuta è larga solo poche centinaia di atomi, mentre un foglio di carta ha uno spessore di centinaia di migliaia di atomi. Una volta inserito il campione all’interno della sonda atomica, Greer lo ha colpito con un laser Uv per staccare singoli atomi che volano via e vanno a colpire una piastra di rilevamento. Gli elementi più pesanti, come il ferro, impiegano più tempo a raggiungere il rilevatore rispetto a quelli più leggeri, come l’idrogeno; misurando il tempo che intercorre tra lo sparo del laser e l’impatto dell’atomo sul rilevatore, lo strumento è in grado di determinare il tipo di atomo in quella determinata posizione e la sua carica. I ricercatori hanno poi analizzato i dati in tre dimensioni, utilizzando un punto codificato a colori per ogni atomo e molecola e creando una mappa 3D in scala nanometrica della polvere lunare. «Gli atomi passano attraverso uno spettrometro di massa e la velocità con cui si muovono ci dice quanto sono pesanti, il che a sua volta ci dice di cosa sono fatti», spiega Greer.

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La microscopica punta affilata di un cristallo di zircone lunare. Crediti: J. Greer.

L’analisi atomo per atomo, condotta con gli strumenti di tomografia atomica della Northwestern University, ha mostrato quanti atomi, all’interno dei cristalli di zircone, avevano subito un decadimento radioattivo. Quando un atomo ha una configurazione instabile di protoni e neutroni nel proprio nucleo, infatti, subisce un decadimento, liberandosi di alcune particelle e trasformandosi in elementi diversi: per esempio, l’uranio decade in piombo.

Gli scienziati hanno stabilito quanto tempo impiega questo processo a verificarsi e, osservando la proporzione dei diversi isotopi di uranio e piombo presenti in un campione, sono riusciti a stabilirne l’età con precisione. «La datazione radiometrica funziona un po’ come una clessidra», spiega Heck. «In una clessidra, la sabbia scorre da un bulbo di vetro all’altro, e il passare del tempo è indicato dall’accumulo di sabbia nel bulbo inferiore. In modo analogo, conoscendo il tasso di trasformazione e contando il numero di “atomi progenitori” e il numero di “atomi figli” in cui si sono trasformati è possibile calcolare il tempo trascorso».

La proporzione di isotopi di piombo riscontrata dai ricercatori ha indicato che il campione analizzato aveva circa 4,46 miliardi di anni. Pertanto, la Luna deve avere almeno quell’età ed essersi formata entro 110 milioni di anni dalla nascita del Sistema solare. «È incredibile poter avere ora la prova strumentale che la roccia nelle nostre mani è il pezzo di Luna più antico mai trovato finora», commenta Greer.

L’analisi di Greer ha richiesto un solo granello di suolo, largo quanto un capello umano. In quel minuscolo granello ha identificato i prodotti degli agenti atmosferici spaziali, ferro puro, acqua ed elio, che si sono formati grazie alle interazioni del suolo lunare con l’ambiente spaziale. L’estrazione di queste preziose risorse dal suolo lunare potrebbe aiutare i futuri astronauti a sostenere le loro attività sulla Luna. Gli scienziati sono convinti che dal cristallo analizzato si potranno trarre ulteriori informazioni scientifiche. Questa tecnica potrà aiutarci a saperne di più sulle condizioni della superficie lunare e sulla formazione di risorse preziose come l’acqua e l’elio.

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La mezzaluna della Terra si staglia sull’orizzonte lunare in questa spettacolare fotografia scattata dalla navicella Apollo 17 in orbita lunare durante l’ultima missione di allunaggio nel 1972. Crediti: Nasa

La Luna, che orbita intorno alla Terra a una distanza media di circa 385mila chilometri, ha un diametro di circa 3.475 chilometri, poco più di un quarto del diametro del nostro pianeta. L’impatto di Theia con il nostro pianeta è stato un evento catastrofico che ha cambiato la velocità di rotazione della Terra: è grazie alla Luna che si è avuto poi un effetto di stabilizzazione dell’asse e di rallentamento della velocità di rotazione terrestre.

«Il campione è un punto di riferimento per rispondere a molte domande anche sulla storia della Terra. È importante sapere quando si è formata la Luna, perché è un componente importante nel nostro sistema planetario. La Luna stabilizza l’asse di rotazione della Terra, è il motivo per cui ci sono 24 ore in un giorno, e per cui esistono le maree. Senza la Luna, la vita sulla Terra sarebbe diversa. È una parte fondamentale del nostro sistema naturale che deve essere ancora compresa a fondo. Il nostro studio fornisce un piccolo pezzo di puzzle in questo quadro ancora incompleto», ha concluso Heck.

A questo punto, citando la protagonista dell’anime giapponese Sailor Moon, verrebbe quasi spontaneo esclamare: «Potere del cristallo di Luna vieni a noi!».

Per saperne di più:


Coppie di buchi neri in equilibrio


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Rappresentazione artistica di un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa/Jpl Caltech

Un gruppo di quattro ricercatori delle Università di Southampton, Cambridge e Barcellona, ha dimostrato che è teoricamente possibile che esistano coppie di buchi neri perfettamente bilanciate – mantenute in equilibrio da una forza cosmologica – che si comportano come se fossero un unico buco nero.

Le teorie convenzionali sui buchi neri, basate sulla relatività generale di Einstein, spiegano come i buchi neri statici o quelli rotanti possano esistere da soli, isolati nello spazio. Al contrario, coppie di buchi neri sarebbero ostacolate dalla gravità, che li attirerebbe fino a farli scontrare e fondere. Tuttavia, questo è vero se si suppone un universo statico. Cosa succederebbe se fosse in movimento? In un universo in continua espansione, come il nostro, potrebbero esistere coppie di buchi neri “in armonia”, magari mascherandosi da uno solo?

«Il modello cosmologico standard presuppone che il Big Bang abbia portato all’esistenza di un universo che, circa 9,8 miliardi di anni fa, sia diventato dominato da una forza misteriosa, denominata energia oscura, che lo accelera a un ritmo costante», afferma Oscar Dias dell’Università di Southampton. Gli scienziati chiamano questa forza misteriosa costante cosmologica. In un universo spiegato dalla teoria di Einstein con una costante cosmologica, i buchi neri sono immersi in un fondo cosmologico accelerato. E questo cambia il modo in cui possono interagire ed esistere insieme.

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Due buchi neri a distanza fissa. Credit: Aps/Alan Stonebraker

Attraverso complessi metodi numerici, in un articolo pubblicato su Physical Review Letters, il gruppo di scienziati mostra che due buchi neri statici (non rotanti) possono esistere in equilibrio: la loro attrazione gravitazionale risulta infatti essere compensata dall’espansione associata a una costante cosmologica. Anche con l’accelerazione di un universo in continua espansione, i buchi neri rimangono “bloccati” a una distanza fissa l’uno dall’altro. Per quanto l’espansione possa tentare di separarli, l’attrazione gravitazionale riesce a compensarla. «Visti da lontano, una coppia di buchi neri la cui attrazione è compensata dall’espansione cosmica sembrerebbe un unico buco nero. Potrebbe essere difficile individuare se si tratti di un singolo buco nero o di una coppia di buchi neri», commenta Dias.

«La nostra teoria è dimostrata per una coppia di buchi neri statici, ma crediamo che potrebbe essere applicata anche a quelli rotanti», conclude Jorge Santos dell’Università di Cambridge. «Inoltre, sembra plausibile che la nostra soluzione possa valere per tre o anche quattro buchi neri, aprendo tutta una serie di possibilità».

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