Lattuga killer nello spazio
Noah Totsline ha lavorato nel laboratorio del College of Agriculture and Natural Resources di Harsh Bais a un progetto sponsorizzato dalla Nasa che studia come le piante coltivate nello spazio siano più soggette a infezioni da Salmonella rispetto a quelle terrestri. Crediti: University of Delaware
Oltre alle solite tortillas di farina e al caffè in polvere, da circa tre anni la Nasa ha introdotto nell’alimentazione degli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) anche l’insalata. Gli astronauti possono, infatti, gustare lattuga, rucola e altre piante a foglia verde coltivate direttamente nello spazio, in apposite camere di controllo che riproducono le condizioni ideali di temperatura, quantità di acqua e luce necessarie per la maturazione delle piante.
Ma c’è un problema. Sulla Iss sono presenti molti batteri e funghi patogeni – alcuni dei quali molto aggressivi – che possono facilmente colonizzare i tessuti vegetali. Di conseguenza, se gli astronauti mangiassero lattuga infettata da batteri quali Escherichia colio Salmonella, potrebbero ammalarsi, manifestando sintomi anche gravi. Il rischio che un’epidemia di malattie alimentari a bordo della Iss possa far deragliare una missione spaziale, ha suscitato una particolare attenzione nella comunità scientifica e nelle agenzie spaziali, soprattutto considerando i miliardi di dollari che la Nasa e le aziende private come SpaceX investono ogni anno nell’esplorazione dello spazio.
In una nuova ricerca pubblicata su Scientific Reports e su npj Microgravity, i ricercatori dell’Università del Delaware (Ud) hanno coltivato lattuga in condizioni che imitano l’ambiente all’interno della Stazione spaziale. Le piante, capaci di percepire la gravità attraverso le radici, sono state esposte a una microgravità simulata mediante rotazione grazie a un clinostato, un dispositivo per far ruotare le piante simile a quello utilizzato per i polli nelle rosticcerie. «Non si è trattato di una vera e propria simulazione in microgravità», spiega Noah Totsline, primo autore di entrambe le ricerche pubblicate, recentemente laureatosi al Dipartimento di Scienze delle Piante e del Suolo della Ud, «ma ha aiutato le piante a perdere il senso della direzione. Abbiamo confuso la loro risposta alla gravità e, in questo modo, la pianta non sapeva da che parte fosse l’alto o il basso». Il team di ricerca ha così scoperto che le piante sottoposte alla microgravità simulata erano in realtà più inclini a contrarre infezioni da agenti patogeni umani, in particolare, dalla Salmonella.
Gli stomi, i minuscoli pori delle foglie e degli steli che le piante usano per respirare, normalmente si chiudono per difendere la pianta quando percepisce nelle vicinanze un fattore di stress o un corpo estraneo. Durante la simulazione di microgravità, gli stomi della lattuga si aprivano e rimanevano aperti anziché chiudersi come risposta allo stress causato dalla presenza di batteri. «Il fatto che gli stomi siano rimasti aperti quando abbiamo aggiunto batteri durante la simulazione è stato davvero inaspettato», dice Totsline che insieme ai docenti di biologia vegetale, Harsh Bais, e di sicurezza alimentare microbica, Kali Kniel, e con Chandran Sabanayagam del Delaware Biotechnology Institute ha cercato delle possibili soluzioni al problema.
Immagini al microscopio degli stomi delle foglie di lattuga acquisite tre ore dopo la rotazione o il trattamento con i batteri a forma di bastoncino di Salmonella enterica serovar. A: stomi di una pianta non ruotata senza trattamento con batteri. Gli stomi sono completamente aperti. B: stomi di una pianta non ruotata, i batteri hanno impedito la completa chiusura e hanno iniziato a entrare nella pianta. C: stomi di una pianta ruotata senza batteri, più aperti rispetto a quelli non ruotati. D: stomi di una pianta ruotata con applicazione di batteri. La chiusura difensiva dello stoma appare minore e sono visibili più batteri che entrano nell’apertura e navigano a una profondità maggiore all’interno della pianta. Crediti: npj Microgravity
In alcuni studi precedenti, Bais e altri ricercatori dell’Ud hanno dimostrato che l’uso di un batterio ausiliario chiamato Bacillus subtilis Ud1022 riesce a promuovere la crescita e la forma fisica delle piante, aiutandole contro gli agenti patogeni o altri fattori di stress come la siccità. Ipotizzando che Ud1022 potesse aiutare le piante a difendersi dalla Salmonella anche in condizioni simili a quelle spaziali, lo hanno aggiunto alla simulazione di microgravità, constatando, con sorpresa, che il batterio non è riuscito a proteggere le piante che – in assenza dell’innesco di una risposta biochimica – non hanno chiuso i propri stomi. «Quanto riscontrato in condizioni di microgravità simulata è sorprendente e interessante e apre un’altra questione», riferisce Bais. «Sospetto che il batterio Ud1022, annullando la chiusura degli stomi in microgravità, possa sopraffare la pianta stessa aprendo la strada per l’invasione della Salmonella».
I microbi e i batteri sono ovunque: sono su di noi, sugli animali, sul cibo che mangiamo e nell’ambiente che ci circonda: ovunque si trovino gli esseri umani, c’è possibile coesistenza con gli agenti patogeni batterici. Secondo le informazioni della Nasa, circa sette persone per volta convivono e lavorano sulla Stazione Spaziale Internazionale nello stesso momento, occupando un ambiente grande quanto una casa con sei camere da letto. Non è l’ambiente più stretto che esista nello spazio, ma è comunque il tipo di luogo in cui i germi possono creare scompiglio. «Dobbiamo essere preparati e ridurre i rischi nello spazio per coloro che vivono ora sulla Iss e per coloro che potrebbero viverci in futuro», afferma Kniel, esperto di sicurezza alimentare microbica dell’Ud. «È importante capire meglio come i patogeni batterici reagiscono alla microgravità per sviluppare strategie di mitigazione adeguate».
Kniel e Bais collaborano da anni per studiare gli agenti patogeni umani presenti sulle piante. «Per ridurre i rischi associati alla contaminazione delle verdure a foglia e di altri prodotti di base, dobbiamo comprendere meglio le interazioni tra agenti patogeni umani e le piante coltivate nello spazio», spiega Kniel. «Il modo migliore per farlo è un approccio multidisciplinare».
L’astronauta Peggy Whitson con alcune foglie di insalata cresciute sulla Iss nella sua terza e ultima missione, nel 2017. Crediti: Nasa
Forse ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che gli esseri umani possano vivere sulla Luna o su Marte, ma la ricerca della Ud ha un grande impatto potenziale sulla convivenza umana nello spazio; argomento ancor più interessante se si considerano aspetti come la popolazione in continua crescita sulla Terra e la maggiore necessità di cibo sicuro ed equilibrato per gli astronauti delle numerose missioni future programmate. Da un rapporto delle Nazioni Unite, la Terra potrebbe ospitare 9,7 miliardi di persone nel 2050 e 10,4 miliardi nel 2100. «Le misure di sicurezza alimentare sono già al limite in tutto il mondo e, con la perdita di terreni agricoli per la coltivazione del cibo, le persone penseranno presto a spazi abitativi alternativi», afferma Bais. «Non si tratta più di finzione». Inoltre, sempre più spesso i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie o la Food and Drug Administration degli Stati Uniti certificano e fermano le produzioni di insalata in varie parti sulla Terra, intimando alle persone di non mangiarla a causa del rischio di Escherichia coli o Salmonella. Poiché le verdure a foglia sono l’alimento preferito da molti astronauti e sono facili da coltivare in ambienti chiusi come l’ambiente idroponico della Iss, è importante assicurarsi che queste verdure siano sempre sicure da mangiare e cercare delle soluzioni al problema della “lattuga killer”.
Cosa si può fare per contrastare l’azione delle piante che aprono i loro stomi in un ambiente di microgravità permettendo ai batteri di entrare facilmente? La risposta non è così semplice ma potrebbe essere nell’uso di semi sterilizzati o nel miglioramento genetico. «Iniziare con usare dei semi sterilizzati è un modo per ridurre i rischi di avere microbi sulle piante», afferma Kniel. «Ma ciò comunque non escluderebbe quei microbi già presenti nell’ambiente spaziale». Gli scienziati potrebbero dover modificare la genetica delle piante per impedire loro di aprire gli stomi nello spazio. Il laboratorio guidato da Bais sta già prendendo in considerazione diverse varietà di lattuga con genetiche differenti e le sta valutando in condizioni di microgravità simulata. «Se, per esempio, ne troviamo una che chiude gli stomi rispetto a un’altra che abbiamo già testato e che li apre, possiamo provare a confrontare la genetica di queste due diverse cultivar, cercando le differenze o i meccanismi in atto», conclude Bais. «Non vogliamo che un’intera missione spaziale fallisca solo per colpa di un’epidemia di sicurezza alimentare».
Diciamo, per colpa di qualche foglia di lattuga.
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Simulated microgravity facilitates stomatal ingression by Salmonella in lettuce and suppresses a biocontrol agent” di Noah Totsline, Kalmia E. Kniel, Chandran Sabagyanam e Harsh P. Bais.
- Leggi su npj Microgravity l’articolo“Microgravity and evasion of plant innate immunity by human bacterial pathogens” di Noah Totsline, Kalmia E. Kniel e Harsh P. Bais.
Ritrovate le meteoriti di 2024 BX1
I lettori di Media Inaf si ricorderanno del piccolo asteroide 2022 EB5 caduto nel Mare di Norvegia il 22 marzo 2022 e di 2023 CX1, caduto in Normandia il 13 febbraio 2023. La cosa che accomuna 2024 BX1 con i primi due, a parte le piccole dimensioni, è lo scopritore: l’astronomo ungherese Krisztián Sárneczky (Konkoly Observatory). Sárneczky per le sue scoperte di asteroidi near-Earth utilizza il telescopio Schmidt da 60 cm della Piszkéstető Mountain Station, situato circa 80 km a nord-est di Budapest. L’asteroide della nostra news è stato scoperto da Sárneczky alle 21:48 Utc del 20 gennaio quando era di magnitudine apparente +18,0 ed è stato subito inserito nella NeoCp (la near-Earth object confirmation page) con la sigla Sar2736. Come per tutti i NeoCp brillanti sono immediatamente partite le osservazioni di conferma da parte degli altri osservatori europei. Il primo a confermare Sar2736 è stato T. Felber dell’osservatorio Oberfrauendorf (Iau G34) alle 22:56 Utc, a cui sono seguiti diversi osservatori italiani, come San Marcello Pistoiese (Iau 104) e lo Schiaparelli Observatory di Varese (Iau 204).
Immagine di 2024 BX1 ottenuta dall’Osservatorio astronomico G. V. Schiaparelli (Iau 204) di Varese, circa 1h23m dopo la scoperta, quando l’asteroide era di magnitudine apparente +16,5. Crediti: Luca Buzzi
Sulla Mpml (Minor planet mailing list), alle 23 UT un’email di Peter Birtwhistle avvisava che Sar2736 avrebbe colpito l’atmosfera da lì a 90 minuti. La previsione di Birtwhistle è stata fatta usando Find Orb, il software per la determinazione orbitale scritto da Bill Gray, che i lettori ricorderanno per la previsione dell’impatto sulla luna di un razzo cinese Lunga Marcia 3C il 4 marzo 2022. Allo stesso risultato di Birtwhistle erano già arrivati i software per l’allerta rapida degli impatti, Scout per il Jpl, MeerKat per l’Esa e NeoScan system della SpaceDys di Pisa. NeoScan è in grado di fornire una probabilità d’impatto per tutti gli oggetti presenti nella NeoCp, e già con 7 osservazioni astrometriche, alle 22:48 Utc del 20 gennaio, aveva indicato una probabilità d’impatto del 100 per cento per Sar2736.
Come previsto, l’asteroide è caduto alle 00:32 Utc del 21 gennaio 2024 entrando in atmosfera (quota di 50 km), circa 60 km a ovest di Berlino, alle coordinate 52,6° N, 12,5° E, nei pressi della cittadina di Nennhausen. Il bolide generato dall’asteroide è stato ripreso da diversi osservatori allertati dai messaggi comparsi sulla Mpml, ma non è stato triangolato dalle camere all-sky della rete Fripon. In effetti alle 00:32:43 Utc del 21 gennaio 2024 c’è stata una detection singola da parte della stazione di Ketzur (collocata poco a ovest di Berlino), ma ne servono almeno due per la triangolazione di un fireball. Alle 01:41 Utc del 21 gennaio l’asteroide appena caduto, con la Mpec 2024-B76, ha ricevuto la designazione 2024 BX1 da parte del Minor Planet Center. L’orbita è risultata quella tipica di un oggetto Apollo, con semiasse maggiore di 1,34 unità astronomiche, inclinazione di circa 7,3°, perielio fra le orbite di Terra e Venere e afelio poco oltre l’orbita di Marte.
Immagine di una delle meteoriti recuperate dai ricercatori tedeschi. Crediti: Cevin Dettlaff
Grazie ai calcoli fatti dai ricercatori cechi Pavel Spurný, Jiří Borovička e Lukáš Shrbený (Astronomical Institute of the Academy of Sciences of the Czech Republic), che gestiscono la European Fireball Network, è stato possibile triangolare la traiettoria del fireball e avviare la ricerca delle meteoriti al suolo. Lo strewn field risulta qualche chilometro a ovest della cittadina tedesca di Nauen, attorno alle coordinate 52,629° N, 12,713° E. Per fortuna il bolide è caduto con un’elevata inclinazione rispetto alla superficie terrestre, quindi lo strewn field è relativamente compatto e lungo circa 3 km. Nella zona il suolo si presenta pianeggiante e non è stato difficile recuperare delle meteoriti. Infatti, pochi giorni dopo la caduta, il 26 gennaio, ricercatori del Museo di scienze naturali di Berlino, della Libera Università di Berlino e del Centro aerospaziale tedesco hanno recuperato frammenti che, con molta probabilità, sono meteoriti dell’asteroide 2024 BX1, entrambi delle dimensioni di una noce.
There it is! A team of researchers from the museum and its cooperation partners, among them @FU_Berlin and @DLR_de, have discovered suspected fragments of the astroid #2024BX1 today, both of them almost the size of a walnut: t.co/TvZSpG6RnM ☄️ #Sar2736 #Havelland pic.twitter.com/5i29vY5YZM— Museum für Naturkunde Berlin (@mfnberlin) January 26, 2024
Nei prossimi giorni le sospette meteoriti verranno esaminate nei laboratori del Museo per verificarne la composizione chimica e l’origine, mentre proseguiranno le ricerche sul campo. Grazie all’orbita eliocentrica determinata con le osservazioni telescopiche appena prima che l’asteroide si disintegrasse in atmosfera, queste saranno meteoriti con il “pedigree”, perché se ne potrà indagare anche l’origine dinamica. In tutto il mondo sono solo 50 le meteoriti con queste caratteristiche, su ben 70mila meteoriti raccolte.
Ingenuity non volerà più, missione terminata
Oltre 17 chilometri percorsi in 72 voli in più di mille giorni: sono i numeri di Ingenuity, il primo drone ad aver mai volato su un altro pianeta. Dopo quasi tre anni l’incredibile drone della Nasa, andato oltre ogni aspettativa, deve fermarsi per sempre a causa di un danno a una delle eliche. “I Sol (i giorni marziani) non saranno piu gli stessi”, è il tweet di ringraziamento postato da Perseverance, il rover che per tutto questo tempo ha fatto coppia con Ingenuity nell’esplorazione di Marte.
The sols won’t be the same without the #MarsHelicopter.#ThanksIngenuity, for being my partner in exploration from the very beginning. t.co/mFAg7Lwxnp pic.twitter.com/uoi4bXXa9Y— NASA’s Perseverance Mars Rover (@NASAPersevere) January 25, 2024
Ideato per verificare la possibilità di poter volare su Marte, Ingenuity avrebbe dovuto farlo almeno cinque volte, ma la sua tenuta è andata ben oltre le aspettative: ben 72 volte, comprendo complessivamente 17 chilometri. Ad annunciare ufficialmente la fine della missione è stato l’amministratore della Nasa Bill Nelson. La decisione è stata presa in seguito alle immagini giunte a Terra dopo il 72esimo volo, durante il quale ci sono stati dei problemi di comunicazione tra l’elicottero e il rover Perseverance.
Le immagini hanno mostrato che almeno una pala di uno dei rotori è stata danneggiata durante l’ultimo atterraggio e ora il drone non è più in grado di volare. Una missione che rimarrà nella storia dell’esplorazione spaziale e che ha aperto alla possibilità di nuove più ambiziose missioni come il futuro aereo solare che la Nasa sta lavorando a portare in futuro sempre su Marte.
Guarda l’annuncio di Bill Nelson sul canale YouTube della Nasa:
I segreti di Ss 433 svelati dai raggi gamma
Impressione d’artista del sistema Ss 433, che mostra i getti su larga scala (blu) e la circostante Nebulosa Manatee (rossa). I getti sono inizialmente osservabili solo per una breve distanza dalla microquasar dopo il lancio, troppo piccola per essere visibile in questa immagine. I getti viaggiano poi inosservati per una distanza di circa 75 anni luce (25 parsec) prima di subire una trasformazione, riapparendo bruscamente come sorgenti luminose di emissione non termica (raggi X e gamma). Le particelle sono accelerate in modo efficiente in questa posizione, il che indica probabilmente la presenza di un forte shock: una discontinuità nel mezzo in grado di accelerare le particelle. Crediti: Science Communication Lab for Mpik/H.E.S.S.
Era il 1997 quando, nella seconda puntata di una serie televisiva uscita sulla Bbc, l’autore di fantascienza Arthur C. Clarke presentò quelle che per lui erano le sette meraviglie del mondo: il Saturn V, la fortezza rocciosa di Sigiriya (nello Sri Lanka, dove viveva), i microchip, il frattale di Mandelbrot, la toccata e fuga in Re minore di Bach, il calamaro gigante e – udite udite – l’unico oggetto astronomico di questo elenco: Ss 433. Il nome è piuttosto anonimo ma in realtà questa “creatura” celeste già alla fine degli anni ’70 aveva attirato parecchia attenzione per la sua emissione di raggi X. In seguito si scoprì che si trovava al centro di una nebulosa, soprannominata Nebulosa Lamantino, per la sua particolare forma che ricorda questi mammiferi acquatici. Certo è che qualcosa di molto particolare, per essere finita nell’elenco di Clarke, Ss 433 lo deve avere.
Ss 433 è un sistema binario in cui un buco nero, con una massa circa dieci volte quella del Sole, e una stella con una massa simile ma che occupa un volume molto più grande, orbitano l’uno intorno all’altra con un periodo di 13 giorni. L’intenso campo gravitazionale del buco nero strappa materiale dalla superficie della stella, che si accumula in un disco di gas caldo che alimenta il buco nero. Quando la materia cade verso il buco nero, due getti collimati di particelle cariche (plasma) vengono lanciati verso l’esterno, perpendicolarmente al piano del disco, a un quarto della velocità della luce.
I getti di Ss433 possono essere rilevati nella banda radio e nei raggi X fino a una distanza inferiore a un anno luce, da entrambi i lati della stella binaria centrale, prima di diventare troppo deboli per essere visti. Tuttavia, sorprendentemente, a circa 75 anni luce di distanza dal loro “punto di partenza”, i getti riappaiono bruscamente come sorgenti luminose di raggi X. Le ragioni di questa ricomparsa sono state per molto tempo un mistero.
Getti relativistici simili sono stati osservati anche a partire dai centri delle galassie attive (ad esempio le quasar), anche se di dimensioni molto più grandi rispetto ai getti galattici di Ss 433. Per questa analogia, oggetti come Ss 433 sono classificati come microquasar.
Fino a poco tempo fa, non era mai stata rilevata alcuna emissione di raggi gamma da una microquasar. Ma le cose sono cambiate nel 2018, quando l’High Altitude Water Cherenkov Gamma-ray Observatory (Hawc), per la prima volta, è riuscito a rilevare raggi gamma ad altissima energia dai getti di Ss 433. Ciò significa che da qualche parte, nei getti, le particelle sono accelerate a energie estreme. Nonostante decenni di ricerche, non è ancora chiaro come e dove le particelle vengano accelerate nei getti astrofisici.
Lo studio dell’emissione di raggi gamma dalle microquasar offre un vantaggio cruciale: anche se i getti di Ss 433 sono 50 volte più piccoli di quelli della galassia attiva più vicina (Centaurus A), Ss 433 si trova all’interno della Via Lattea, mille volte più vicino alla Terra. Di conseguenza, la dimensione apparente dei getti di Ss 433 nel cielo è molto più grande, e quindi le loro proprietà sono più facili da studiare con l’attuale generazione di telescopi a raggi gamma.
Immagini composite di Ss 433 che mostrano tre diversi intervalli di energia dei raggi gamma. In verde, le osservazioni radio mostrano la Nebulosa Lamantino con la microquasar visibile come un punto luminoso vicino al centro dell’immagine. Le linee mostrano i contorni dell’emissione X dalle regioni centrali e dai getti su larga scala, dopo la loro ricomparsa. Il colore rosso rappresenta l’emissione di raggi gamma rilevata da H.E.S.S. a) a bassa energia (0,8-2,5 TeV, a sinistra), b) energia intermedia (2,5-10 TeV, al centro) e c) alta energia (>10 TeV, a destra). La posizione dell’emissione di raggi gamma si sposta ulteriormente dal sito di lancio centrale al diminuire dell’energia. Crediti: Nrao/Aui/Nsf, K. Golap, M. Goss; Nasa’s Wide Field Survey Ex-plorer (Wise); X-Ray (contorni verdi): Rosat/M. Brinkmann; TeV (contorni rossi): H.E.S.S. collaboration
In seguito alla rilevazione di Hawc, l’Osservatorio H.E.S.S., in Namibia, ha avviato una campagna osservativa del sistema Ss 433. Questa campagna ha portato a circa 200 ore di osservazione, che hanno permesso di ottenere altrettante ore di dati e di rilevare chiaramente l’emissione di raggi gamma dai getti di Ss 433.
La migliore risoluzione angolare dei telescopi H.E.S.S. rispetto alle misurazioni precedenti ha permesso ai ricercatori di individuare per la prima volta l’origine dell’emissione di raggi gamma all’interno dei getti, ottenendo risultati interessanti. Mentre non viene rilevata alcuna emissione di raggi gamma dalla regione centrale del sistema binario, l’emissione appare bruscamente nella parte esterna dei getti, a una distanza di circa 75 anni luce, da entrambi i lati della stella binaria, in accordo con le precedenti osservazioni a raggi X.
Tuttavia, ciò che ha sorpreso maggiormente gli astronomi è stato lo spostamento della posizione dell’emissione di raggi gamma in funzione delle diverse energie. I fotoni gamma con le energie più elevate, superiori a 10 teraelettronvolt, vengono rilevati solo nel punto in cui i getti ricompaiono bruscamente. Al contrario, le regioni che emettono raggi gamma con energie più basse appaiono più avanti, lungo ciascun getto.
«Questa è la prima osservazione in assoluto di una morfologia dipendente dall’energia nell’emissione di raggi gamma di un getto astrofisico», osserva Laura Olivera-Nieto, del Max Planck Institute for Nuclear Physics (Mpik) di Heidelberg, che ha guidato lo studio con H.E.S.S. di Ss 433 come parte della sua tesi di dottorato. «Inizialmente siamo rimasti perplessi da questi risultati. La concentrazione di fotoni di così alta energia nei siti di ricomparsa dei getti X significa che lì deve avvenire un’accelerazione efficiente delle particelle, cosa che non ci si aspettava».
Gli scienziati hanno effettuato una simulazione della dipendenza energetica osservata dell’emissione di raggi gamma e sono riusciti a ottenere la prima stima in assoluto della velocità dei getti esterni. La differenza tra questa velocità e quella con cui vengono lanciati i getti suggerisce che il meccanismo che ha accelerato le particelle più lontano sia un forte shock, una brusca transizione nelle proprietà del mezzo. La presenza di uno shock fornirebbe quindi anche una spiegazione naturale per la ricomparsa dei getti X, in quanto gli elettroni accelerati producono anche radiazione a raggi X. «Quando queste particelle veloci collidono con una particella di luce (fotone), trasferiscono parte della loro energia, producendo così i fotoni gamma ad alta energia osservati con H.E.S.S. Questo processo è chiamato effetto Compton inverso», spiega Brian Reville, capogruppo del gruppo Astrophysical Plasma Theory presso Mpik.
«Ci sono state molte speculazioni sul verificarsi dell’accelerazione delle particelle in questo sistema unico nel suo genere, ma ora non più: il risultato di H.E.S.S. stabilisce davvero il luogo dell’accelerazione, la natura delle particelle accelerate e ci permette di sondare il moto dei getti su larga scala lanciati dal buco nero», sottolinea Jim Hinton, direttore dell’Istituto Max Planck per la Fisica Nucleare di Heidelberg e capo del Dipartimento di Astrofisica Non Termica.
L’osservatorio H.E.S.S., situato negli altopiani di Khomas in Namibia, a un’altitudine di 1835 metri sotto il cielo del sud, è stato progettato per essere utilizzato come centro di osservazione. Crediti: Sabine Gloaguen
«Solo pochi anni fa, era impensabile che le misurazioni a terra dei raggi gamma potessero fornire informazioni sulla dinamica interna di un tale sistema», aggiunge la coautrice Michelle Tsirou, ricercatrice post-dottorato presso il Desy Zeuthen.
Tuttavia, non si sa nulla sull’origine degli shock nei punti in cui il getto ricompare. «Non abbiamo ancora un modello in grado di spiegare uniformemente tutte le proprietà del getto, poiché nessun modello ha ancora previsto questa caratteristica», conclude Olivera-Nieto. L’autrice intende dedicarsi a questo compito: un obiettivo meritevole, poiché la relativa vicinanza di Ss 433 alla Terra offre un’opportunità unica per studiare il verificarsi dell’accelerazione delle particelle nei getti relativistici. Si spera che i risultati possano essere trasferiti ai getti mille volte più grandi delle galassie attive e delle quasar, il che aiuterebbe a risolvere i molti enigmi sull’origine dei raggi cosmici più energetici.
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Acceleration and transport of relativistic electrons in the jets of the microquasar Ss 433”, della H.E.S.S. Collaboration
Lisa e il futuro delle onde gravitazionali
Illustrazione artistica ispirata alla missione spaziale Lisa. Crediti: Esa, Cc By-Sa 3.0 Igo
Il 25 gennaio 2024, il Science Programme Committee dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha approvato la missione Laser Interferometer Space Antenna (Lisa), il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali. Questo passo importante, formalmente chiamato “adozione”, riconosce che l’idea e la tecnologia della missione sono sufficientemente avanzate e dà il via libera alla costruzione, che inizierà a gennaio 2025 una volta affidato l’appalto industriale.
Il lancio di Lisa è previsto per il 2035 a bordo di un razzo Ariane 6. La missione sarà formata da tre sonde, disposte nello spazio in un triangolo equilatero estremamente preciso che seguirà la Terra nella sua orbita attorno al Sole. Le tre sonde si scambieranno raggi laser su distanze pari a 2,5 milioni di chilometri, ovvero più di sei volte la distanza Terra-Luna.
Tra gli obiettivi scientifici di Lisa, rilevare le fluttuazioni nel tessuto spaziotemporale causate, in tutto l’Universo, dalla fusione dei buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie, per comprendere meglio l’origine di questi misteriosi corpi celesti e il loro ruolo nell’evoluzione delle galassie. Grazie all’osservazione di onde gravitazionali a frequenze più basse di quanto possibile da terra, la missione permetterà di esplorare una gran varietà di sorgenti lungo tutta la storia del cosmo, fino all’alba dei tempi.
Per saperne di più su questo ambizioso progetto, sulle sue differenze e possibili sinergie con rivelatori di onde gravitazionali a terra, in particolare con il futuro Einstein Telescope, Media Inaf ha intervistato Oliver Jennrich, Lisa project scientist presso lo European Space Research and Technology Centre dell’Esa a Noordwijk, nei Paesi Bassi.
Dottor Jennrich, qual è la differenza tra Lisa e gli osservatori di onde gravitazionali a terra come Ligo, Virgo e il futuro Einstein Telescope?
«Principalmente l’intervallo di frequenza. I rivelatori a terra hanno il limite di 1 hertz (Hz), la loro sensibilità va da 1 Hz alla banda dei kiloHz [migliaia di Hz, ndr], mentre Lisa è sensibile a onde gravitazionali con frequenze tra 0.1 milliHz [millesimo di Hz, ndr] fino a 1 Hz. Quindi hanno intervalli di frequenza completamente diversi».
Perché questa differenza?
«La vera domanda è: perché non possiamo costruire sulla terra apparati in grado di rilevare onde gravitazionali nella banda dei millihertz? Fondamentalmente perché il suolo è troppo rumoroso. C’è il rumore sismico, tutto ciò che si muove, le onde oceaniche che sbattono sulla costa e scuotono la regione. Sono cose per cui non c’è molto da fare, come per esempio il meteo. Se pensiamo alla frequenza in termini di tempo, un millihertz equivale a circa venti minuti. Immagina una grande nube piena d’acqua, che esercita una sua attrazione gravitazionale sulle cose, e si sposta nel corso di venti minuti. Queste fonti di rumore sono molto più intense del segnale di onde gravitazionali che stiamo cercando, quindi bisogna andare dove queste fonti di rumore non esistono. Ovvero nello spazio».
Lo spettro delle onde gravitazionali. Un osservatorio spaziale come Lisa sarà in grado di registrare anche quella a bassa frequenza prodotte dalla fusione fra buchi neri supermassicci. Crediti: Esa
Quindi la necessità di andare nello spazio è determinata principalmente dal dover evitare questo rumore intrinseco del suolo. Non serve anche per raggiungere grandi dimensioni che non sono disponibili a terra?
«Le onde gravitazionali causano una deformazione [in inglese, strain, ndr], cioè una variazione relativa di lunghezza. Maggiore è la lunghezza, maggiore è il cambiamento che le onde gravitazionali imprimono su di essa. Una volta che si è nello spazio, si può provare ad aumentare le dimensioni dei rilevatori, il che aiuta a catturare segnali più grandi. Ma se il rivelatore è troppo grande, intervengonodegli effetti di cancellazione: se l’intero periodo di un’onda gravitazionale rientra due volte nella lunghezza del rilevatore, l’effetto si annulla, quindi si perde sensibilità alle frequenze più alte. Cerchiamo quindi di massimizzare la lunghezza per ottenere la massima sensibilità possibile, ma senza renderla troppo lunga, perché altrimenti si perderebbero i sistemi ad alta frequenza».
Che cosa significa questo in termini osservativi?
«Significa che Lisa rivela sistemi più pesanti rispetto ai rivelatori a terra. Le sorgenti osservate da Ligo finora sono tutte nell’intervallo tra dieci e cento masse solari. Lisa rivelerà la coalescenza di buchi neri supermassicci, da centomila a un milione di volte la massa del Sole. Questi sono sistemi molto più pesanti che vivono al centro delle galassie, mentre i buchi neri di massa stellare [come quelli osservati da Ligo, ndr] possono trovarsi dappertutto, non devono essere per forza al centro di una galassia».
Lisa è appena stata “adottata” dall’Esa. Che cosa rappresenta questo passo?
«L’adozione significa che diventa ufficialmente parte del programma scientifico dell’Esa. Diventa un progetto vero e proprio, con un team di progetto a pieno titolo. Finora Lisa era in fase di studio, con una piccola squadra di poche persone, mentre nel team di progetto ci saranno venti, trenta persone che lavorano su diversi aspetti della missione. Ed è anche la fase in cui la comunità di Lisa inizia finalmente a costruire qualcosa anziché fare soltanto progetti».
L’orbita e struttura di Lisa. Crediti: Esa / Atg Medialab, Cc By-Sa 3.0 Igo
Torniamo alla scienza: rispetto ai rivelatori attuali di onde gravitazionali a terra, Lisa sarà sensibile a sorgenti molto distanti, permettendo di indagare l’Universo primordiale. Recentemente si parla molto di Einstein Telescope, il futuro rivelatore terrestre, che esplorerà anch’esso un volume di cosmo molto più esteso rispetto agli esperimenti attuali, raggiungendo distanze molto più grandi. Chi vedrà più lontano tra Lisa e Einstein Telescope?
«I rivelatori di onde gravitazionali misurano l’ampiezza del segnale, che diminuisce solo con l’inverso della distanza, a differenza delle misure di potenza o intensità della radiazione, che invece diminuiscono con l’inverso della distanza al quadrato. Per questo, con le onde gravitazionali possiamo esplorare distanze che i telescopi astronomici non possono raggiungere. Quanto lontano un rivelatore può spingersi, questo poi è determinato a tutti gli effetti dalla sua soglia di rumore. Ed è il motivo per cui Einstein Telescope cercherà di raggiungere una sensibilità migliore degli attuali rivelatori terrestri. Le sorgenti producono un certo segnale, a quel punto la domanda è: riusciamo a vederle? E, in tal caso, fino a quali distanze possiamo vederle? Per esempio, prendiamo una sorgente standard: la coalescenza di due stelle di neutroni oppure di due buchi neri di massa stellare. La capacità di osservarli fino a un miliardo oppure dieci, quindici miliardi di anni luce, diciamo, dipende dalla sensibilità del rivelatore. La forza intrinseca della sorgente è essenzialmente la stessa, quindi se vogliamo osservare a distanze maggiori bisogna scegliere sistemi con un segnale più grande, quindi sistemi più massicci. Una massa più grande, però, corrisponde a frequenze più basse: è direttamente proporzionale, la relatività generale è estremamente semplice, tutto scala con la massa. Quindi se vogliamo osservare sistemi a distanza maggiore con un certo rivelatore, dobbiamo scegliere sistemi più massicci, ma non troppo, per evitare di scendere al di sotto della sensibilità limite di quel rivelatore».
Dunque per raggiungere distanze più grandi, serve osservare sistemi più massicci, ma non troppo. Proviamo a spiegarlo con un esempio pratico?
«Possiamo calcolarlo: se vogliamo osservare a una certa distanza, abbiamo bisogno di vedere oggetti che hanno una massa, diciamo, di mille masse solari per avere un segnale sufficiente. Pensiamo a un sistema in coalescenza, con frequenza di qualche Hz, laddove Einstein Telescope sarà più sensibile: possiamo osservarlo fino a un redshift di 10-11 [quando l’Universo aveva circa 400-500 milioni di anni, ndr]. Con Lisa, sistemi in coalescenza con masse tra centomila e dieci milioni di masse solari non potranno nascondersi, li vedremo dovunque essi siano nell’Universo. Gli astrofisici non pensano che non esista nulla a redshift pari a 25 o 30 [quando l’Universo aveva circa 100 milioni di anni, ndr], semplicemente perché non c’è stato tempo a sufficienza per far sì che questi sistemi si formassero. Ma se esistessero, Lisa li vedrebbe, perché il loro segnale sarebbe così forte e la sensibilità e l’intervallo di frequenza sarebbero quelli giusti».
Ripensando alla storia dell’Universo, Lisa riuscirebbe a vedere anche sistemi meno massicci – come quelli a cui l’Einstein Telescope sarà specialmente sensibile – ma più lontano, perché si sono formati prima?
La timeline mostra le prime galassie candidate e la storia dell’universo. Crediti: Harikane et al., Nasa, Est and P. Oesch/Yale
«Una delle domande scientifiche che ci possiamo porre riguarda proprio la formazione di questi sistemi. È ragionevole supporre che sistemi più piccoli si siano formati prima, semplicemente perché i sistemi più grandi si formano da quelli più piccoli, quindi è logico che i più piccoli vengano prima. Ma è una supposizione e la possiamo mettere alla prova. Possiamo cercare quanti segnali provenienti da sistemi di questi tipi vengono osservati a distanze sempre più grandi e se questa osservazione è d’accordo con i modelli attuali che descrivono la formazione delle strutture, come galassie e buchi neri. Lo scenario attuale prevede che i buchi neri grandi, da milioni a miliardi di masse solari, si siano formati attraverso la coalescenza di buchi neri più piccoli, da migliaia a decine di migliaia di masse solari. Probabilmente i buchi neri più piccoli vivevano in protogalassie o ammassi globulari, e quando questi si sono fusi, i loro buchi neri centrali sono caduti verso il centro del nuovo sistema, iniziando a orbitare uno intorno all’altro fino a fondersi, formando infine un buco nero più grande. Chiaramente, se si parte da masse più piccole si vedrà un numero maggiore di segnali, perché per andare da mille a dieci milioni di masse solari servono diecimila eventi di fusione, mentre se si parte da centomila masse solari servono solo cento fusioni per arrivare a dieci milioni di masse solari. Il tasso di coalescenze osservato con questi strumenti fornirà informazioni sugli scenari di formazione delle strutture. Esistono tantissimi studi su questi scenari teorici, ma al momento ci sono pochissime prove osservative e le onde gravitazionali sono probabilmente il canale migliore per osservare questi processi. Einstein Telescope avrà una sensibilità importante intorno ai 10 Hz, quindi individuerà gli oggetti più piccoli che Lisa potrebbe non vedere, quindi è sicuramente un ottimo rilevatore complementare».
Servirà ancora qualcosa come Lisa, una volta che Einstein Telescope diventa realtà?
«Certamente. Ci sarà sempre qualcuno che potrebbe dire il contrario, ma penso che non sia un’affermazione giusta. Sarebbe come dire: ora che c’è Jwst, abbiamo ancora bisogno dei radiotelescopi? Non penso poi che ci siano problemi di concorrenza distruttiva, perché la comunità sta crescendo rapidamente e le industrie coinvolte sono diverse».
In che senso?
«Non sarà l’industria aerospaziale a costruire Einstein Telescope e viceversa, quindi non c’è competizione per le risorse esterne, cosa che può succedere quando i fornitori sono limitati. In tal caso bisognerebbe aspettare, ma non è così. Potrebbero esserci problemi per l’analisi dati se dovessimo lavorare a entrambi i progetti adesso: se Lisa fosse in orbita e Einstein Telescope fosse già in funzione, allora penso che bisognerebbe aumentare il numero di persone che lavorano nell’analisi dei dati in modo abbastanza significativo, ma la crescita è organica. Quando entrambi i progetti saranno avviati, un numero sufficiente di studenti di dottorato saranno diventati postdoc e professori con i propri gruppi, sempre più persone saranno diventate competenti in questo tipo di analisi dati e penso che tutti ne trarranno beneficio. Se la comunità cresce e saranno disponibili più rilevatori, ci sarà un maggiore scambio di idee».
Lisa e Einstein Telescope saranno in grado di operare allo stesso tempo?
«Non sono sicuro di quali siano le tempistiche esatte di Einstein Telescope. Lisa ha una vita nominale di circa cinque anni ma in realtà le cose tendono a durare più a lungo. Quindi, se verrà lanciato a metà degli anni 2030, probabilmente farà ancora misure a metà degli anni 2040».
Se le fasi operative dei due rivelatori dovessero coincidere, almeno in parte, come potrebbero complementarsi a vicenda?
Rappresentazione artistica della fusione di due buchi neri. Crediti: Nasa/Cxc/A.Hobart
«Quando Ligo ha fatto le sue prime scoperte, era abbastanza chiaro che Lisa sarebbe stata in grado di vedere le stesse identiche sorgenti alcune settimane o mesi prima, nella fase in cui spiraleggiano una intorno all’altra, prima della fusione osservata nella banda di Ligo e di Einstein Telescope. Le simulazioni mostrano che esiste un numero significativo di sorgenti osservabili nella parte alta dell’intervallo di frequenze di Lisa che uscirebbero da tale intervallo e riapparirebbero, un paio di settimane o mesi dopo, nell’intervallo di frequenza Ligo per poi fondersi. Lo stesso vale per Einstein Telescope: Lisa potrebbe dire loro in anticipo che qualcosa sta per accadere e quando. Inoltre, entrambe le misurazioni insieme forniranno una migliore localizzazione nel cielo. Gli attuali grafici di localizzazione di Ligo e Virgo non sono così buoni per gli standard astronomici: non è possibile puntare un telescopio in quella direzione perché le barre di errore sono cento volte più grandi del campo di vista».
Potrebbero collaborare anche su qualche altro tipo di sorgente?
«Se riusciremo a vedere altri tipi di sorgenti con entrambi i rilevatori, beh, questo dipende da ciò che la natura metterà a disposizione. Esistono sorgenti in cui piccoli buchi neri o stelle di neutroni cadono verso buchi neri parecchio più grandi, le cosiddette extreme mass ratio inspiral, tipicamente nella gamma di frequenze dei millihertz. Il loro segnale non è una bella sinusoide, c’è un contenuto di armoniche relativamente alto. Quindi, se parliamo di un segnale intorno ai 5 milliHz, allora si potrebbe vedere contemporaneamente, 20 armoniche più su, nella banda di Einstein Telescope. Lisa non vedrà queste sorgenti singolarmente – la larghezza di banda non è sufficiente, farà solo una media di tutti questi sistemi – ma un rilevatore a terra può farlo. Sono sicuro che i nostri amici teorici proporranno tanti altri esempi per osservare un segnale con entrambi i rivelatori contemporaneamente, o anche un segnale multi-messaggero con osservazioni elettromagnetiche. Questa sarebbe la ciliegina sulla torta».
Che tipo di collaborazioni di astrofisica multi-messaggera sono previste con Lisa?
«L’astrofisica multi-messaggera è davvero agli inizi. Penso che anche la nostra comprensione di come il regime delle onde gravitazionali si relazioni con il regime elettromagnetico non sia molto ben sviluppata al momento. Ci sono tante idee ma tutte piuttosto vaghe, dopotutto l’unica sorgente multi-messaggera finora è stata la kilonova nel 2017. Con Lisa, ci sarà un sistema di “allerta”, per far sapere alla comunità che qualcosa sarà osservabile ad una certa data e ora nel futuro: se poi vorranno osservarlo, sono benvenuti. La strategia scientifica del progetto però non dipende da questo, perché renderebbe le cose troppo complicate, ma ci sono sicuramente delle sinergie che sfrutteremo».
Prima ha menzionato che la comunità delle onde gravitazionali è cresciuta molto negli ultimi anni. Com’è cambiata dai tempi precedenti le prime osservazioni di Ligo?
«Se leggo proposte di finanziamento o faccio da referee per un paper, tendo a vedere sempre più spesso nomi che non avevo mai visto prima. Per me, questo indica che molte persone giovani si stanno unendo alla comunità e si stanno costruendo una reputazione. Si vedono annunci di lavoro per analisi dati di onde gravitazionali molto più spesso rispetto a dieci anni fa. La prima osservazione di Ligo ha sicuramente aiutato molto, da un momento all’altro tutti sapevano che c’era qualcosa su cui poter investire. Ci sono molti professori associati o ordinari in tanti posti che si dedicano a questi studi, ed è bello vedere che non si tratta sempre degli stessi attori. Ci sono molte più università e istituti di ricerca interessati rispetto a prima, persino centri di calcolo che si offrono di aiutare l’analisi dati delle onde gravitazionali con le loro Cpu».
Cosa direbbe a studentesse e studenti di fisica o astronomia potenzialmente interessati in una carriera nel campo delle onde gravitazionali?
«Per chi è interessato alla relatività generale numerica o al lavoro teorico, questo è un tema piuttosto caldo al momento perché c’è la promessa che tutto ciò sarà utilizzato nell’arco del prossimo decennio. Il mio sospetto è che, quando Lisa e Einstein Telescope saranno operativi, vedremo anche astronomi generici, chi è interessato a un certo argomento o a una sorgente specifica per esempio, che vorranno sapere se questa sorgente è stata osservata anche nelle onde gravitazionali. La comunità si sta rapidamente spostando da chi osserva le onde gravitazionali perché è interessato alle onde gravitazionali, verso una logica in cui le onde gravitazionali sono solo un altro strumento osservativo per testare una particolare idea. Quindi, a chi sta facendo oggi un dottorato in astronomia, direi sicuramente, anche se non avete un interesse particolare per le onde gravitazionali, anche se non siete interessati alle equazioni di Einstein, di tener presente questa finestra di osservazione che potrete utilizzare tra dieci anni, quindi tenetevi ragionevolmente informati a riguardo. Siate abbastanza competenti da usare questo set di strumenti, questo nuovo canale di informazione per scoprire cosa stava facendo l’universo».
Per saperne di più:
- Leggi la news ‘Capturing the ripples of spacetime: LISA gets go-ahead’ sul sito dell’Esa
Dall’Esa semaforo verde per Lisa ed EnVision
Rappresentazione artistica di Lisa. Crediti: Wikimedia Commons
Il Comitato del programma scientifico (Spc) dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha adottato oggi le missioni Lisa e EnVision. Essere adottati significa che la fase di studio è completata e l’Esa si impegna ora ad attuare le missioni. Lisa verrà lanciata a metà degli anni ’30 mentre la partenza verso Venere di EnVision è al momento prevista per il 2031.
Missione Lisa
Lisa sarà il primo osservatorio spaziale per le onde gravitazionali che rileverà increspature dello spaziotempo con frequenze basse, nella banda 0.1 mHz – 1 Hz, che non possono essere catturate dai rilevatori a terra. Si tratta di un concetto di missione molto innovativo che prevede tre satelliti in configurazione triangolare con bracci di 2,5 milioni di chilometri, che si muovono in un’orbita simile a quella terrestre attorno al Sole: le onde gravitazionali provenienti da sorgenti sparse nell’universo produrranno lievi oscillazioni nelle lunghezze dei bracci (più piccole del diametro di un atomo) che Lisa misurerà con interferometria laser per monitorare il moto relativo fra masse di prova in caduta libera all’interno di satelliti distanti.
La decisione di oggi significa che Lisa ha superato a pieni voti la revisione totale del progetto – dalla definizione della missione complessiva e delle operazioni all’hardware spaziale da costruire – portata avanti nei passati tre anni degli ingegneri dell’Esa. Un contributo fondamentale è stato dato del Consorzio Lisa, una grande collaborazione internazionale che unisce le risorse e le competenze di scienziati di molti paesi in tutto il mondo e che, insieme all’Esa, alle agenzie spaziali europee e alla Nasa, porterà a compimento la missione Lisa.
«Questa missione pionieristica permetterà la crescita delle conoscenze in un’area davvero entusiasmante della scienza spaziale e manterrà gli scienziati europei in prima linea nella ricerca sulle onde gravitazionali», dice il direttore scientifico dell’Esa Carole Mundell.
La tecnologia di misurazione alla base di Lisa è stata provata con successo nello spazio con la missione Lisa Pathfinder dell’Esa, che ha dimostrato che è possibile posizionare masse di prova in caduta libera con una precisione sorprendente, che soddisfa i requisiti necessari per il successo di Lisa.
Le onde gravitazionali con frequenze nella finestra ancora inesplorata compresa tra 0,1 mHz e 1 Hz che Lisa potrà rivelare sono create dalla collisione e dalla fusione di due enormi buchi neri, un milione o più di volte più pesanti del nostro Sole, che si trovano al centro di galassie lontane ancora in formazione. Lisa sarà inoltre l’unico strumento a “vedere” le onde gravitazionali provenienti dai buchi neri stellari che ruotano attorno a quelli massicci nei nuclei galattici, per sondare la geometria dello spaziotempo e testare la gravità nelle sue fondamenta, e rivelerà anche un gran numero di oggetti binari e multipli compatti nella nostra galassia, la Via Lattea, compresi molti oggetti invisibili a tutti gli altri strumenti astronomici.
Infografica sullo spettro delle onde gravitazionali. Crediti: Esa
Lisa misurerà la radiazione gravitazionale nella finestra ancora inesplorata compresa tra 0,1 mHz e 1 Hz, onde non rivelabili dagli osservatori a terra. Le onde in questa gamma di frequenze vengono create dalla collisione e dalla fusione di coppie di enormi buchi neri, un milione o più di volte più pesanti del nostro Sole, in agguato al centro di tutte le galassie. Lisa traccerà la storia di questi enormi buchi neri dalla loro nascita nell’evoluzione dell’universo con misure distanti e precise. Inoltre Lisa consentirà lo studio di “piccoli” buchi neri di massa stellare che sono catturati dai buchi neri più grandi ai centri di galassie distanti e, più vicino a casa, della popolazione di oggetti compatti in sistemi binari nella nostra Via Lattea. Con la sola gravità, Lisa integra la nostra comprensione dell’universo ben oltre quello che osserviamo con l’astronomia elettromagnetica, aiutando a dar risposta alle domande più fondamentali: “Quali sono le leggi fondamentali dell’universo?” e “Com’è evoluto l’universo che osserviamo e di cosa è fatto?”
«Il contributo italiano a Lisa è fondamentale, in quanto sarà realizzato nel nostro Paese il cuore di ognuno dei tre satelliti, cioè i due Gravitation Reference System (Grs) contenenti le masse in caduta libera la cui posizione risente degli effetti dell’onda gravitazionale e viene misurata dai laser», dice Barbara Negri, responsabile dell’Unità volo umano e strumentazione scientifica di Asi. «L’Università di Trento guida scientificamente il progetto, mentre l’industria italiana realizzerà i sette Grs (sei di volo e uno spare) in tre anni, oltre ai precedenti modelli di sviluppo, un impegno davvero notevole. L’Italia partecipa anche allo sforzo comune del consorzio nel preparare le procedure di analisi dei dati, sfruttando le competenze dell’Università di Milano Bicocca e con il contributo dello Space Science Data Center di Asi».
«Esprimiamo grande soddisfazione per l’adozione da parte dell’Esa della missione Lisa, una decisione determinante per il futuro dell’Europa nella ricerca delle onde gravitazionali: con la realizzazione della missione Lisa nello spazio e dell’interferometro di terza generazione Einstein Telescope sulla Terra, due straordinari strumenti complementari che auspicabilmente raccoglieranno dati contemporaneamente, si apriranno possibilità scientifiche uniche e senza precedenti, consegnando all’Europa una leadership mondiale in un settore di ricerca di punta, sia per la scienza sia per le tecnologie che ne deriveranno», commenta Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Infn.
«L’adozione di Lisa è il frutto di oltre due decenni di sviluppo in Italia sul sistema di masse in caduta libera, resi possibili dalla collaborazione fra Asi, industria, università e l’Infn», dice William Joseph Weber del Laboratorio di gravitazione sperimentale all’Università di Trento e Tifpa/Infn, responsabile scientifico del contributo italiano all’hardware della missione. «Punto di partenza è stato soprattutto il successo della missione Lisa Pathfinder, che ha dimostrato la fattibilità del Grs e di gran parte della metrologia per Lisa e che è stata guidata dall’ateneo trentino con Stefano Vitale come principal investigator».
Rappresentazione artistica di EnVision. Crediti: Esa
Missione EnVision
È la prossima missione dell’Esa con destinazione Venere che è stata ufficialmente “adottata” oggi dal comitato del programma scientifico dell’Agenzia. La sonda EnVision, alla quale collabora anche la Nasa, studierà Venere dal suo nucleo interno fino alla sua atmosfera esterna, fornendo importanti nuove informazioni sulla storia, l’attività geologica e il clima del pianeta.
Si prevede che EnVision verrà lanciato su un razzo Ariane 6 nel 2031. La missione risponderà a molte domande aperte da tempo su Venere, probabilmente il meno compreso tra i pianeti terrestri del Sistema solare. Venere è il pianeta più vicino alla Terra – e molto simile a essa per massa e dimensioni ma con alcune differenze sostanziali. Tra i corpi rocciosi del Sistema solare, ha l’atmosfera più densa ed è completamente ricoperto da strati di spesse nubi costituite principalmente da acido solforico. La superficie di Venere ha una temperatura media di 464 °C, con una pressione atmosferica 92 volte più grande di quella che sperimentiamo sulla superficie terrestre. Questo porta a chiederci: come e quando il gemello della Terra è diventato così inospitale?
Le misurazioni effettuate da EnVision aiuteranno a svelare i misteri chiave del nostro vicino tutt’altro che ospitale. Ad esempio, EnVision rivelerà come i vulcani, la tettonica a placche e gli impatti degli asteroidi hanno modellato la superficie venusiana e quanto geologicamente attivo è oggi il pianeta. La missione indagherà anche l’interno del pianeta, raccogliendo dati sulla struttura e sullo spessore del nucleo, del mantello e della crosta di Venere. Infine, studierà il tempo e il clima su Venere, compreso il modo in cui sono influenzati dall’attività geologica sulla terra.
EnVision studierà l’intero pianeta come sistema. Per consentire questa indagine olistica, la sonda trasporterà un’ampia suite di strumenti scientifici. Sarà la prima missione a esplorare direttamente sotto la superficie di Venere, utilizzando il suo radar sounder sotto-superficiale. Un secondo strumento radar mapperà e determinerà la struttura della superficie con una risoluzione fino a dieci metri. Tre diversi spettrometri studieranno la composizione della superficie e dell’atmosfera. Un esperimento di radioscienza utilizzerà le onde radio per studiare la struttura interna del pianeta e le proprietà dell’atmosfera. Il contributo italiano è particolarmente rilevante visto che riguarda uno degli strumenti principali, il radar sounder sotto-superficiale, che per la prima volta verrà utilizzato in una missione su Venere.
Infografica sulla scienza di EnVision. Crediti: Esa
«Il radar sounder penetrerà la crosta venusiana per andare a svelare i misteri che si nascondono nelle prime centinaia di metri al di sotto della superficie», spiega Lorenzo Bruzzone dell’Università di Trento, principal investigator del radar. «Le misure del radar avranno un ruolo cruciale per comprendere i processi legati all’evoluzione del pianeta fornendo informazioni fondamentali per interpretare la geologia venusiana. Tali misure permetteranno analisi dettagliate della tettonica, della stratigrafia, dei crateri sepolti e dei principali elementi connessi all’attività vulcanica. Ciò contribuirà a capire i motivi che hanno portato il nostro pianeta gemello ad avere un’evoluzione così diversa da quella terrestre, diventando un ambiente ostile alla vita».
Questa volta EnVision non sarà solo nel suo viaggio su Venere. Nella speranza di una fruttuosa collaborazione, la Nasa ha anche selezionato due nuove missioni su Venere come parte del suo programma Discovery, il cui lancio è previsto nel periodo 2028-2030: DaVinci (Deep Atmosphere Venus Investigation of Noble gas, Chemistry, and Imaging) e Veritas (Venus Emissività, Radioscienza, InSas, Topografia e Spettroscopia). Insieme, EnVision, DaVinci e Veritas forniranno lo studio più completo di Venere mai realizzato. «L’Asi partecipa attivamente anche alla missione Veritas fornendo un contributo scientifico e tecnologico di altissimo livello», ricorda Angelo Olivieri, project manager dell’Asi. «Gli studi e le tecnologie, su cui Asi continua a fare sostanziali investimenti non solo per quanto attiene i radar sotto-superficiali e i radar ad apertura sintetica ma anche per quanto attiene alla strumentazione per lo studio della gravità dei pianeti, faranno in modo che l’Italia sia in prima linea nell’esplorazione del pianeta Venere».
D’amore e ombra – e Luna e montagna
«Vedo la Grivola da casa e spesso la fotografo, la trovo molto bella ed elegante, anche senza Luna», dice a Media Inaf il 54enne Enzo Massa Micon, nato a Corio (TO) e oggi a Saint-Pierre, in Valle d’Aosta, dove lavora come funzionario del Parco nazionale Gran Paradiso, guida naturalistica e – appunto – fotografo. «Prediligo il paesaggio, la fotografia aerea dalla mongolfiera e la fotografia astratta. E quando ho visto la Grivola con la Luna allineata non mi sono lasciato scappare l’occasione».
Shadows of Mountain and Moon (Ombre di montagna con Luna), Apod Nasa del 22 gennaio 2024. Crediti & Copyright: Enzo Massa Micon
Il risultato lo vedete nello scatto qui sopra: un suggestivo incastro di luci e ombre immortalato oltre un anno fa, all’inizio di ottobre del 2022, e da lunedì scorso entrato a far parte della prestigiosa galleria di immagini astronomiche del giorno, le cosiddette Apod, ospitate sul sito della Nasa.
La Grivola è una montagna del gruppo del Gran Paradiso, è alta 3.969 metri e si trova sullo spartiacque tra la Valle di Cogne e la Valsavarenche. Nello scatto di Massa Micon il Sole la illumina da destra, mentre qualche centinaia di migliaia di km più su sta illuminando il lato destro della Luna, delineando il cosiddetto terminatore: il confine fra notte e giorno, qui allineato in modo suggestivo con la cresta pressoché verticale della montagna.
Enzo Massa Micon. Crediti: Laura Jorioz
Cogliere l’attimo, dice Massa Micon, non è stato poi così difficile. «Sinceramente questo scatto non ha richiesto alcuna preparazione, se non una grande passione per la fotografia di paesaggio e la reflex sempre pronta. La preparazione e la programmazione sono arrivate dopo, per gli scatti successivi, che ritengo anche in alcuni casi migliori – ma Apod ha scelto questa, in quanto si vedono meglio le ombre». E proprio le ombre sono all’origine della scelta del bianco e nero, adottato, spiega Massa Micon, «per enfatizzare la simmetria e il contrasto tra luci e ombre».
Per la pianificazione degli scatti successivi, Massa Micon ha contattato gli astronomi dell’Osservatorio astronomico della Valle d’Aosta, a Saint-Barthelemy, chiedendo consigli sul metodo migliore per capire quando ci sarebbero stati i prossimi allineamenti. «Sono stati molto disponibili e mi hanno consigliato alcune app», dice il fotografo. «All’osservatorio ci sono andato solo come visitatore. Mi piacerebbe collaborare con loro, ma io sono un fotografo di paesaggio, non sono un astrofotografo. Mi piace fotografare di giorno – se poi ci sono anche il Sole e la Luna ancora meglio».
Echi di luce – e l’universo bussò alle porte dell’aria
Gli attori di “Echi di Luce”. Crediti: Fulvio Michelazzi
Venerdì 26 gennaio debutta a Milano lo spettacolo Echi di luce – e l’Universo bussò alle porte dell’Aria, realizzato da Pacta dei Teatri, nell’ambito del festival di teatro ScienzaInScena – Atto Sette su commissione del gruppo Indaco (Inaf per la divulgazione di Astri e Ctao). In scena presso il Pacta Salone fino al 4 febbraio, questo spettacolo teatrale è parte delle attività di divulgazione scientifica del progetto Pnrr Cta+, a guida dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e finanziato dall’Unione Europea – NextGenerationEU.
La collaborazione tra l’Inaf e Pacta dei Teatri è ormai consolidata, ma questa è la prima volta che viene commissionato uno spettacolo. L’Inaf ha chiesto di portare in scena la costruzione stessa del processo scientifico, dalle idee originali all’innovazione tecnologica, passando per lo sguardo di alcuni degli scienziati coinvolti per raccontare la luce Cherenkov e l’universo al TeV. La sfida è stata rappresentare qualcosa che non vediamo e che non è facile raccontare. Il risultato è uno spettacolo coinvolgente, che per la prima volta porta l’astrofisica delle altissime energie a teatro.
Indaco si occupa della divulgazione dei due progetti di telescopi Cherenkov Astri, a guida Inaf, e Ctao, di cui Inaf è uno dei principali contribuenti. Cta+ ha il compito principale di fornire un completamento alla più grande infrastruttura di ricerca dedicata allo studio del cielo ad altissime energie e tra le infrastrutture di ricerca a più alta priorità nazionale: il Cherenkov Telescope Array Observatory (Ctao). Per dare maggior visibilità al progetto, alla scienza che lo guida, e raccontare l’eccellenza italiana raggiungendo una platea più ampia di pubblico si sono cercate idee alternative come il teatro.
«La mia intuizione di coinvolgere la compagnia Pacta, già nota per precedenti collaborazioni con Inaf», spiega la responsabile del gruppo Indaco, Anna Wolter, «nasce dall’idea di perseguire una strada diversa per la diffusione verso il pubblico dei grandi progetti Inaf, di cui il gruppo Indaco si occupa. L’occasione è arrivata grazie al progetto Pnrr Cta+, permettendoci di raccontare, attraverso il teatro, l’eccellenza del lavoro di ricerca scientifica e tecnologica in cui l’Italia e Inaf sono fortemente coinvolti. Speriamo, con la nostra consulenza scientifica e l’appoggio dato alla compagnia, di essere riusciti a raccontare a un pubblico più ampio le meraviglie dell’universo “che va di fretta”, quello delle sorgenti più potenti del cielo».
La realizzazione del progetto ha richiesto il coinvolgimento di buona parte dei membri del gruppo, specialmente ma non solo i milanesi, per raccontare alla compagnia il progetto, la fisica dell’effetto Cherenkov e gli scopi primari che ci prefiggevamo. Il racconto, corredato di immagini, è stato lasciato poi nelle mani sapienti della compagnia teatrale, che ha fuso drammaturgia, coreografica, scenografia, luministica, composizione musicale e interpretazione per realizzare Echi di Luce.
«L’intersezione tra arte e scienza e la sua rivelazione sulla scena, che da oltre vent’anni contraddistinguono uno dei filoni delle nostre programmazioni, quest’anno si arricchisce di collaborazioni con le maggiori istituzioni scientifiche nazionali e di esplorazioni dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo e ritorno, attraverso i secoli», dice Maria Eugenia D’Aquino, ideatrice e curatrice del Festival. «Il debutto del Festival, il 26 gennaio, è dedicato a una grande occasione che ci è stata commissionata dall’Istituto nazionale di astrofisica: una produzione teatrale per raccontare un’importante conquista nell’osservazione dell’universo».
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
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Per saperne di più:
- Visita il sito web: www.pacta.org
- Contatti: + 39 02 36503740 | biglietteria@pacta.org – promozione@pacta.org – ufficioscuole@pacta.org
Slim: per il lander giapponese il Sole sorgerà a ovest
Rappresentazione artistica del lander giapponese Slim sul suolo lunare. A fianco i due piccoli rover ausiliari, dispiegati entrambi con successo: Lev1, che è stato in grado di comunicare direttamente con la Terra, e Lev2, che ha comunicato usando Lev1 come ponte radio. Crediti: Jaxa
Dalle 16:20 ora italiana di venerdì scorso il Giappone è ufficialmente entrato nel ristretto circolo delle nazioni che sono riuscite ad approdare sulla Luna senza schiantarsi. Quinto dopo Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India. E primo per understatement: mai dopo un’impresa spaziale di successo si era vista una conferenza stampa così lugubre come la live andata in onda sul canale YouTube della Jaxa subito dopo l’allunaggio. Conferenza nella quale i responsabili dell’agenzia spaziale giapponese hanno annunciato che il lander Slim è riuscito a compiere un atterraggio morbido, come confermato dall’invio della telemetria ad approdo avvenuto. È anche riuscito a sganciare i due piccoli rover ausiliari – uno “saltellante”, l’altro “rotolante” – e ad acquisire immagini. E tutto lascia supporre – anche se per averne certezza occorrerà circa un mese – che abbia toccato il suolo esattamente dove previsto, realizzando dunque quel 100 meters pinpoint landing che era l’obiettivo principale della missione.
Insomma, un risultato che spettacolare è dir poco: ci fossimo riusciti noi europei, per dire, si sarebbero stappate le migliori bottiglie, fra abbracci e scrosciare d’applausi. Lì alla Jaxa, invece, l’atmosfera sembrava talmente tetra che un giornalista in giacca arancione non ha potuto fare a meno di chiedere come mai avessero tutti un’espressione così cupa, riuscendo almeno a strappare un mezzo sorriso al direttore generale dell’Institute of Space and Astronautical Science (Isas) giapponese Hitoshi Kuninaka. Il quale ha ribadito il perché di tanta apprensione: i pannelli solari.
Da subito è stato evidente che i pannelli solari non stavano funzionando. Come ha ricapitolato anche ieri su X la stessa Jaxa, dopo l’atterraggio non è stato possibile avere conferma dell’alimentazione dalle celle solari. Scesa a un livello di carica del 12 per cento, la batteria è stata scollegata (come previsto) per evitare che si scaricasse del tutto, precludendo così un’eventuale operazione di recupero che, invece, è ancora possibile.
Slim si è quindi spento alle 18:57, oltre due ore e mezza dopo l’approdo. Due ore e mezza durante le quali è riuscito a inviare a terra dati e immagini, la cui analisi è tutt’ora in corso, comprese informazioni di telemetria stando alle quali i pannelli solari di Slim risulterebbero rivolti verso ovest. Dunque non è escluso che al prossimo “tramonto” la batteria possa finalmente ricaricarsi, consentendo la ripresa di quelle attività che sancirebbero l’extra success della missione.
According to the telemetry data, SLIM’s solar cells are facing west. So if sunlight begins to shine on the lunar surface from the west, there is a possibility of generating power, and we are preparing for recovery. #SLIM can operate with power only from the solar cells. #JAXA— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) January 22, 2024
Già, perché nella scala di possibili esiti positivi illustrata dalla Jaxa si parte dal minimum success, ovvero la riuscita dell’atterraggio soft, e questo è sicuramente avvenuto. Per il full success – il successo pieno – era richiesto che l’atterraggio fosse non solo morbido ma pure preciso, entro un raggio di cento metri dal sito programmato, e come dicevamo le probabilità che anche questo difficile obiettivo sia stato conseguito sono elevate. Per l’extra success, invece, era richiesta la prosecuzione delle attività dopo l’approdo, e per questo il giudizio è appunto sospeso almeno fino a quando il Sole non si troverà a ovest, dunque fra circa due settimane, sempre che l’elettronica di Slim resista alle rigide temperature lunari.
Maggiori informazioni sono comunque attese per la fine di questa settimana, ha twittato la Jaxa, concedendosi finalmente il lusso di dichiarare “siamo contenti di aver ottenuto così tanto e siamo felici di essere atterrati con successo”. Chapeau.
Rivedi la conferenza stampa di venerdì sera sul canale YouTube della Jaxa:
Scoperta una sorgente radio al centro di 47 Tuc
Il team ha identificato una nuova sorgente radio (quadrato bianco) al centro dell’ammasso (cerchio rosso). Crediti: Paduano et al.
L’immagine che vi proponiamo è del secondo ammasso globulare più luminoso del cielo notturno, 47 Tucanae, ed è stata prodotta da un team guidato dalla Curtin University, uno dei nodi della International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar) dell’Australia occidentale. La cosa particolarmente interessante dello studio che la riguarda, pubblicato su The Astrophysical Journal, è che gli scienziati hanno rilevato un segnale radio inedito provenire dal centro dell’ammasso.
«Gli ammassi globulari sono sfere giganti di stelle molto vecchie che vediamo intorno alla Via Lattea», spiega Arash Bahramian, astronomo della Curtin University. «Sono incredibilmente densi, con decine di migliaia o milioni di stelle ammassate in una sfera. La nostra immagine è quella di 47 Tucanae, uno degli ammassi globulari più massicci della galassia. Ha più di un milione di stelle e un nucleo molto luminoso e molto denso».
Questo ammasso è visibile anche a occhio nudo ed è stato catalogato (erroneamente come una stella) per la prima volta nel 1751. L’immagine che vedete qui è stata creata grazie a oltre 450 ore di osservazioni all’Australia Telescope Compact Array (Atca) del Csiro. Si tratta dell’immagine radio più profonda e sensibile mai realizzata da un radiotelescopio australiano. Ed è stato proprio l’incredibile livello di dettaglio raggiunto che ha permesso agli astronomi di scoprire un segnale radio incredibilmente debole al centro dell’ammasso, che non era mai stato rilevato prima.
Secondo Alessandro Paduano della Curtin University, il rilevamento del segnale è una scoperta entusiasmante e potrebbe essere attribuito a una delle seguenti due possibilità. «La prima è che 47 Tucanae potrebbe contenere un buco nero con una massa intermedia tra i buchi neri supermassicci che si trovano al centro delle galassie e i buchi neri stellari creati dal collasso delle stelle. Si pensa che i buchi neri di massa intermedia esistano negli ammassi globulari, ma non ne è ancora stato individuato uno. Se questo segnale si rivelasse provenire da un buco nero, sarebbe una scoperta estremamente significativa e la prima rilevazione radio di un buco nero all’interno di un ammasso».
La seconda possibile fonte del segnale è una pulsar, una stella di neutroni rotante che emette onde radio. «Una pulsar così vicina al centro di un ammasso è una scoperta interessante anche dal punto di vista scientifico, perché potrebbe essere usata per cercare un buco nero centrale che non è ancora stato individuato», afferma Paduano.
La scoperta è stata fatta utilizzando l’Australia Telescope Compact Array del Csiro. Crediti: Alex Cherney/Csiro
«Questo progetto ha portato il nostro software ai suoi limiti, sia in termini di gestione che di elaborazione dei dati, ed è stato davvero entusiasmante vedere la ricchezza scientifica che queste tecniche hanno permesso di ottenere», dichiara Tim Galvin, ricercatore del Csiro. «La ricerca di Alessandro rappresenta il culmine di anni di ricerca e di progressi tecnologici, e l’immagine ultra-profonda di 47 Tucanae di Atca è solo l’inizio delle scoperte che devono ancora arrivare».
L’immagine ultrasensibile prodotta è simile a ciò che i ricercatori possono aspettarsi dai radiotelescopi Ska, attualmente in costruzione in Australia e Sudafrica dall’Osservatorio Ska (Skao). Una volta completati, i telescopi Ska saranno i due più grandi array di radiotelescopi al mondo, e aumenteranno notevolmente la nostra comprensione dell’universo, affrontando alcune delle domande scientifiche più fondamentali del nostro tempo.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Ultra-deep ATCA imaging of 47 Tucanae reveals a central compact radio source” di Alessandro Paduano, Arash Bahramian, James C. A. Miller-Jones, Adela Kawka, Tim J. Galvin, Liliana Rivera Sandoval, Sebastian Kamann, Jay Strader, Laura Chomiuk, Craig O. Heinke, Thomas J. Maccarone e Stefan Dreizler
Mai s’era visto un buco nero così antico e lontano
Illustrazione artistica della regione attorno a un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa, Esa, N. Bartmann
Il buco nero più antico finora mai osservato è stato individuato grazie al telescopio spaziale James Webb (Jwst) nella galassia Gn-z11: risalirebbe a 13,2 miliardi di anni fa, ovvero appena 400 milioni di anni dopo il Big Bang. Secondo uno studio pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Nature e guidato dall’italiano Roberto Maiolino, oggi nel Regno Unito al Cavendish Laboratory e al Kavli Institute for Cosmology dell’Università di Cambridge, il fatto che questo buco nero attivo, di massa pari a qualche milione di volte quella del Sole, esista già così “presto” nell’universo mette in discussione le nostre ipotesi su come si formano e crescono i buchi neri.
Prima di oggi, gli astronomi ritenevano che i buchi neri supermassicci al centro di galassie come la Via Lattea impiegassero miliardi di anni per raggiungere le dimensioni attuali. Ma le caratteristiche di questo buco nero appena scoperto suggeriscono che potrebbero essersi formati in altri modi. Forse potrebbero essere nati già “grandi”, o potrebbero essere più “voraci” e mangiare la materia a una velocità cinque volte superiore a quella considerata possibile.
Questo buco nero, invece, già esisteva e aveva una massa considerevole in un’epoca in cui l’universo era agli albori, il che solleva interrogativi sulle teorie tradizionali sullo sviluppo di questi oggetti. Seguendo i modelli standard, infatti, i buchi neri supermassicci si formerebbero a partire dai resti di stelle morte che, collassando, possono dare origine a buchi neri di qualche centinaia di masse solari. Se si fosse sviluppato nel modo previsto, per arrivare alle dimensioni osservate – qualche milione di masse solari, appunto – il buco nero nel cuore di Gn-z11 avrebbe dovuto impiegare almeno un miliardo di anni. Eppure l’universo aveva meno di un miliardo di anni, all’epoca in cui Jwst lo ha visto: una scoperta che suggerisce la possibilità che questo antico buco nero possa aver seguito una via evolutiva unica nel suo genere. «È troppo presto nell’universo per vedere un buco nero così massiccio», dice Maiolino. «Dobbiamo considerare altri modi in cui questi oggetti possono formarsi. Le primissime galassie erano estremamente ricche di gas, dunque potrebbero aver rappresentato un ricco buffet per i buchi neri».
Questa immagine mostra un “primo piano” della galassia Gn-z11 che ospita il buco nero più antico osservato dagli autori della ricerca.. La galassia è stata fotografata dal telescopio spaziale Hubble e sovrapposta a un’altra immagine che segna la posizione della galassia nel cielo. Crediti: Nasa, Esa, and P. Oesch (Yale University)
Gn-z11, la giovane galassia ospite, è circa cento volte più piccola della Via Lattea e brilla grazie al buco nero così energetico al suo centro. I buchi neri, infatti, non possono essere osservati direttamente, ma vengono rilevati dal bagliore di un disco di accrescimento vorticoso, che si forma vicino al loro bordo. Il gas nel disco di accrescimento diventa estremamente caldo e inizia a brillare e a irradiare energia nell’ultravioletto. Questo forte bagliore è il segno con cui gli astronomi sono in grado di individuare i buchi neri.
Come tutti i suoi simili, il buco nero attivo di Gn-z11 sta divorando materiale dalla galassia che lo ospita per alimentare la sua crescita. Ma lo sta facendo con molta più voracità dei suoi fratelli formatisi in epoche successive. Forse troppa. Quando i buchi neri consumano troppo gas, infatti, lo spingono via sotto forma di “vento ultra veloce” capace di bloccare il processo di formazione delle stelle. In altre parole, attraverso il suo vigoroso consumo di materia il buco nero sta “uccidendo” lentamente la galassia che lo ospita, privandosi così della sua fonte di “cibo” e mettendo a rischio la sua stessa esistenza.
L’attuale susseguirsi di enormi passi avanti consentiti da Jwst rappresenta per Maiolino, che prima di arrivare nel Regno Unito ha lavorato per molti anni all’Inaf di Roma, il momento più emozionante della sua carriera. «È una nuova era. Il gigantesco salto di sensibilità compiuto con Jwst, soprattutto nell’infrarosso, è stato come passare dal telescopio di Galileo a un telescopio moderno in una notte», dice il ricercatore, secondo cui la sensibilità di Jwst potrebbe, nei prossimi mesi e anni, mostrarci buchi neri ancora più antichi.
Il telescopio spaziale Jwst della Nasa. Crediti: Nasa
L’intenzione del team di ricerca è, infatti, quella di continuare a sfruttare il telescopio spaziale per cercare “semi” più piccoli di buchi neri, che potrebbero aiutare a ricostruire i processi attraverso i quali si formano: sono già grandi dalla nascita o diventano rapidamente dei giganti?
«Prima che il telescopio James Webb entrasse in funzione e dopo aver già osservato con Hubble, pensavo che l’universo non fosse più così interessante da studiare», ricorda Maiolino. «Ma non è andata affatto così: l’universo si sta rivelando molto generoso nel mostrarci ciò che è accaduto. E questo è solo l’inizio».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A small and vigorous black hole in the early Universe” di Roberto Maiolino, Jan Scholtz, Joris Witstok, Stefano Carniani, Francesco D’Eugenio, Anna de Graaff, Hannah Übler, Sandro Tacchella et al.
Lofar, ora più forte grazie a Eric
Veduta aerea di una parte del radiotelescopio Lofar. Crediti: Astron
Il radiotelescopio europeo Lofar (Low frequency Array) acquisisce la nuova configurazione di European research infrastructure consortium (Eric). L’avvio di questa entità legale pensata per ottimizzare la gestione dell’infrastruttura e consolidare la leadership mondiale dell’Europa nel campo è stato ufficialmente dato nel corso della prima riunione del Consiglio di Lofar Eric svoltasi oggi.
L’infrastruttura di ricerca di Lofar, composta da 70mila antenne distribuite su ben dieci Paesi europei a cui anche l’Italia partecipa con la guida dell’Istituto nazionale di astrofisica, forma il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta ed è il più grande precursore del futuro radiotelescopio Ska alle basse frequenze. Lofar ha già rivoluzionato la ricerca sulla radioastronomia, dando luogo a una valanga di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio. In particolare, la comunità Italiana sta giocando un ruolo fondamentale nell’utilizzo scientifico dei dati Lofar e ha dato un contributo tecnologico importante nella progettazione e realizzazione dei sistemi che saranno utilizzati nell’aggiornamento della infrastruttura (Lofar 2.0) prevista per il 2025.
Lofar Eric governerà proprio la sfida tecnologica alla base di Lofar 2.0, che porterà a un grande potenziamento di Lofar mettendo a disposizione della comunità astronomica una capacità di osservazione ed elaborazione dei dati ancora più all’avanguardia, producendo un ulteriore balzo in avanti nella sensibilità e risoluzione delle immagini prodotte da Lofar.
«Siamo fieri di contribuire in modo decisivo al progetto Lofar» commenta Marco Tavani, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. «L’Italia è infatti uno dei Paesi fondatori di questo Eric che oggi rafforza la leadership mondiale dell’Europa nel campo della radioastronomia. Il lavoro incessante per migliorare a livello tecnologico e organizzativo questa infrastruttura di ricerca sarà fondamentale per entrare in una nuova era dello studio dell’universo nelle onde radio, quando sarà operativo anche lo Square kilometre array observatory».
Lofar Eric fornirà un accesso trasparente a un’ampia gamma di servizi di ricerca scientifica per la comunità europea e globale, promuovendo collaborazioni e consentendo ai ricercatori di portare avanti progetti innovativi su larga scala in tutti i settori scientifici, tra cui lo studio dell’universo primordiale, la formazione e l’evoluzione delle galassie, la fisica delle pulsar e dei fenomeni radio transitori, la natura delle particelle cosmiche ad altissima energia e la struttura dei campi magnetici cosmici. Lofar Eric garantirà l’accesso a una mole di dati senza precedenti attraverso un archivio distribuito su scala Europea e aperto alla comunità.
I membri fondatori di Lofar Eric sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborazioni con istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito garantiscono un’ulteriore partecipazione all’infrastruttura distribuita Lofar e al programma di ricerca. La sede statutaria di Lofar Eric è a Dwingeloo, nei Paesi Bassi, ospitata dal Nwo-I/Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy, che ha guidato la progettazione di Lofar).
«L’istituzione di Lofar Eric consolida l’eccellenza a livello mondiale per l’Europa in un importante settore di ricerca», dice René Vermeulen, direttore fondatore di Lofar Eric. «Con la sua impareggiabile infrastruttura di ricerca distribuita e il suo solido partenariato paneuropeo, Lofar Eric entra nello Spazio europeo della ricerca come una potenza all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dell’astronomia, con il potenziale per contribuire a sfide complesse più ampie».
Per saperne di più:
- Visita il sito web del radiotelescopio Lofar
- Leggi su Media Inaf gli articoli riguardanti Lofar
Libri di astronomia per bambini e ragazzi 2023
David Duff, “Il giorno in cui la Luna e la Terra litigarono” (Corraini, 2023, 36 pp., 19.50 euro)
Come di consueto tra la fine di dicembre e di gennaio il portale Polvere di stelle: i beni culturali dell’astronomia italiana pubblica Libri di astronomia per bambini e ragazzi: l’annuale bibliografia delle pubblicazioni di astronomia per bambini e ragazzi edite nel nostro Paese, un pratico strumento di reference destinato a chi desidera avere a portata di mano il meglio della produzione editoriale in commercio in questo settore.
Libri di astronomia per bambini e ragazzi propone quest’anno ben 80 pubblicazioni suddivise in quattro fasce di età: 3-5, 6-8, 8-10 e 11-14 anni, che corrispondono approssimativamente ai destinatari dei libri. Completa la selezione una sezione dedicata agli atlanti, alle mappe del cielo e alle enciclopedie.
Il numero dei libri identificati in questa edizione è in decisa crescita rispetto a quelle degli anni passati. Un incremento numerico dovuto all’espansione di questo segmento editoriale, cui non sempre corrispondono elevati standard di qualità. La bibliografia ha selezionato opere diverse: libri di divulgazione scientifica, biografie di scienziati, libri gioco a tema divulgativo, accomunati dal fatto di essere strumenti pensati per far avvicinare i più piccoli alla scienza del cielo. Tra questa pluralità di proposte spiccano gli albi illustrati a tema astronomico, un genere in ascesa. Ne segnaliamo due meritevoli di attenzione.
Ne Il giorno in cui la Luna e la Terra litigarono (Corraini, 2023) le parole di David Duff e le illustrazioni coloratissime di Noemi Vola raccontano una lite tra la Terra e la Luna, all’origine di un viaggio avventuroso del nostro satellite nel Sistema solare. Dopo un lungo girovagare tra pianeti e corpi celesti, la Luna decide di tornare al punto di partenza, di riprendere a orbitare attorno al nostro pianeta. Un modo molto fantasioso, giocoso, quello del racconto di un litigio, per introdurre ai bambini il Sistema solare.
Alle costellazioni è dedicato Nascosti nel cielo (Camelozampa, 2022). Qui l’autrice e illustratrice, Aina Bestard, propone una lettura immersiva alla scoperta di abitazioni situate in luoghi diversi del mondo, disegnate a tutta pagina. Una volta varcata la soglia di casa, una tipica dimora giapponese come una yurta, un indovinello posto sulla pagina sinistra del libro introduce l’animale di una costellazione. La risposta all’indovinello viene rivelata dall’apertura di una finestra della casa, un pop up sulla pagina destra, che, illuminata da dietro con una torcia o con un cellulare, mostra l’animale oggetto del quiz e protagonista della costellazione. Il gioco dell’indovinello, da noi sperimentato in tanti percorsi di lettura dedicati ai più piccoli, manda in solluchero i bambini.
Da in alto a sinistra in senso orario: Aina Bestard, “Nascosti nel cielo” (Camelozampa, 2022, 26 pp. 19 euro); Isabel Minhos Martins e di Bernardo P. Carvalho , “Prendere aria, prendere il Sole” (Hopi, 2022, 180 pp); Claudia Martin, “Costruisci il tuo museo dello Spazio” (Editoriale Scienza, 2023, 30 pp., 21,90 euro); Aina Bestard, “Paesaggi ignoti del Sistema solare” (L’ippocampo, 2022, 90 pp., 19,90 euro)
Il gioco riveste un ruolo di primo piano in tante altre proposte, rivolte anche ai bambini più grandi. Prendere Aria, prendere il Sole (Hopi, 2022) ad esempio. La pubblicazione bifronte di Isabel Minhos Martins e di Bernardo P. Carvalho in un tono scanzonato alterna spiegazioni scientifiche a storie di miti celesti, detti, osservazioni tratte dalla vita quotidiana e invita a scoprire la nostra stella attraverso il disegno, la risoluzione di quesiti e anche proponendo semplici attività pratiche.
L’invito al fare, a usare le mani, prezioso in tempi dominati dal mondo virtuale, lo ritroviamo anche in Costruisci il tuo museo dello Spazio (Editoriale Scienza, 2023). “Benvenuti al Museo dello Spazio. Serve il vostro aiuto perché tutto sia pronto per l’inaugurazione. Aprite la scatola delle meraviglie spaziali”, si legge all’inizio del libro. Cinque pop up da montare allegati alla pubblicazione sono pronti per essere utilizzati dai giovani lettori per l’allestimento di un piccolo museo spaziale di carta dove si possono toccare con mano il rover Perseverance, il modulo lunare della missione Apollo III come Giove o Saturno.
Ma i fenomeni del mondo naturale suscitano stupore e meraviglia anche e soprattutto attraverso la vista, basta sfogliare le pagine di Paesaggi ignoti del Sistema solare (L’ippocampo, 2022) per rendersene conto. Pianeti rossi, verdi, azzurri, suoli aridi, superfici ghiacciate o terre infuocate, vulcani in eruzione, riempiono le tavole panoramiche di questo libro adatto ai lettori di tutte le età con il quale concludiamo la nostra breve rassegna.
La bibliografia, che quest’anno si è avvalsa del contributo della biblioteca “Margherita Hack” dell’Inaf di Trieste, è frutto della consolidata collaborazione avviata tra la biblioteca dell’Inaf di Arcetri e Liber – trimestrale di informazione bibliografica e di orientamento critico promosso dalla biblioteca “Tiziano Terzani” di Campi Bisenzio (Fi), curatore di Liber Database, archivio di tutti i libri per ragazzi editi in Italia dal 1987.
L’Orione che si può quasi vedere
Astronomy Picture of the Day della Nasa del 16 gennaio 2024: l’Orione che si può quasi vedere. Crediti: M. Guzzini
Protagonista della Astronomy Picture of the Day (Apod) della Nasa del 16 gennaio 2024 è Orione, il Cacciatore. La gigante rossa Betelgeuse, in alto a sinistra, svetta in una forte tonalità arancione. Numerose le stelle blu della costellazione, con la supergigante Rigel in basso a destra e Bellatrix in alto a destra. Nella cintura di Orione, si distinguono allineate le sue tre stelle, tutte distanti circa 1500 anni luce, nate dalle nubi interstellari. Appena sotto la cintura di Orione si trova una macchia luminosa e sfuocata, nota come Nebulosa di Orione. Infine, appena visibile a occhio nudo, l’Anello di Barnard, un’enorme nebulosa a emissione gassosa che circonda la cintura e la Nebulosa di Orione.
Autore di questo suggestivo scatto è un ingegnere italiano, Michele Guzzini, nato nel 1987 a Recanati, dove risiede. Media Inaf lo ha raggiunto, per conoscerlo, carpire i segreti che hanno permesso di ottenere questa impressionante vista e ascoltare il racconto della sua esperienza.
Orione, una delle più belle e brillanti costellazioni del cielo invernale. Da quanto tempo ha maturato la scelta di riprendere proprio il Cacciatore?
«La costellazione di Orione, alle nostre latitudini, è probabilmente l’area di cielo più interessante da fotografare durante la stagione invernale. È ricca di zone di formazione stellare, nebulose ad emissione e a riflessione, nebulose scure e regioni di idrogeno ionizzato. Le più celebri e riconoscibili sono sicuramente la grande nebulosa di Orione (M42) e la nebulosa Testa di Cavallo. Questo complesso nebuloso, nelle sue formazioni principali, ha una dimensione apparente in cielo di circa 30°x20°, ideale per essere ripreso con una macchina fotografica full frame e obbiettivo da 85mm. Con questo campo inquadrato, l’anello di Barnard sembra abbracciare le altre nebulose in un disegno perfetto. Quando vidi l’Apod del 23 ottobre 2010 ne rimasi stregato, da allora ho sempre sognato di riprendere questa zona di cielo».
Come ha fatto a fotografarla così magnificamente?
«Per farlo, occorre necessariamente un sensore dedicato all’astrofotografia oppure una macchina fotografica modificata, dato che l’idrogeno emette in lunghezze d’onda che vengono filtrate dalle classiche fotocamere. Insieme – e grazie – al mio caro amico Lorenzo Cappella, anche lui astrofilo, abbiamo modificato la mia Nikon Z6 per aumentarne la sensibilità nella lunghezza d’onda dell’h-alpha. Durante una sessione di astrofotografia lo scorso novembre, sempre sui Sibillini, avevo già fatto alcuni scatti di prova su Orione. Era ancora troppo basso sull’orizzonte e non ero riuscito a fare l’inquadratura perfetta, ma avevo capito che c’era un grande potenziale».
Michele Guzzini, ingegnere meccanico, nato nel 1987 a Recanati. Autore della Apod Nasa del 16 gennaio 2024. Crediti: M. Guzzini
Quando e da dove ha scattato questa fotografia?
«Dal mio terrazzo di casa ho la vista su tutto il gruppo dei Sibillini, quindi riesco a valutare le condizioni atmosferiche, in particolare al tramonto, e capire se sarà la serata ideale. Così, domenica 17 dicembre, con meteo e Luna a favore, all’ultimo minuto decido di partire. Setup minimale, Nikon Z6 modificata, Nikon Z 85mm F/1.8 e inseguitore Star Adventurer. Arrivo sul posto, in località Sassotetto, a circa 1500m s.l.m.. Non è il punto più buio dei Sibillini, ma ha il vantaggio di avere, in direzione sud, per alcuni chilometri, soltanto montagne. C’era più neve e ghiaccio di quanto pensassi, nonostante ciò sono riuscito senza troppi problemi ad allineare la montatura e iniziare subito le riprese. Il freddo sicuramente non aiutava me, ma aiutava la macchina fotografica. La bassa temperatura, sotto gli 0°, permette di ottenere immagini ancora più pulite limitando gli effetti del riscaldamento sul sensore di ripresa. Col passare del tempo le condizioni del cielo sembravano migliorare, quindi ho scattato quante più foto possibili, ma sinceramente temevo che non sarebbero state sufficienti per ottenere il risultato sperato».
Operativamente, come si fa a ottenere un’immagine così?
«I giorni successivi mi sono dedicato all’elaborazione, ero impaziente di vedere i risultati, ma questa fase richiede in realtà molto tempo. Inizialmente vanno calibrate ed integrate tutte le riprese fatte, in questo modo si ottiene una singola immagine che contenga quanto più segnale possibile, poi si passa alla vera e propria fase di processing. In totale ho utilizzato 56 foto da 120 secondi a F/2.5. Dopo alcune prove, mi sono accorto che avrei dovuto cambiare qualcosa nel mio workflow. In particolare, ho sviluppato un metodo più efficace per la rimozione del gradiente proveniente dall’inquinamento luminoso, purtroppo anche qui presente e ancora più evidente nelle immagini a campo largo. Sono riuscito a modellare in maniera molto precisa la luce artificiale presente nelle riprese; una volta rimossa, tutte le nebulose, anche le più deboli, si sono rivelate. Un’altra fase importante è quella di riduzione stellare: con la fotografia a lunga esposizione si catturano così tante stelle che vanno quasi a confondere l’occhio e nascondere le nebulose. Completato anche questo passaggio avevo capito di essere riuscito a realizzare la foto che speravo».
Quando è nata la sua passione per il cielo stellato?
«Sin da giovane, ho coltivato la passione per l’astronomia. Mi sono avvicinato alla fotografia astronomica nel 2008, grazie al mio caro amico di lunga data, Lorenzo. Con il suo telescopio e la sua macchina fotografica, abbiamo catturato le prime foto e iniziato a studiare le tecniche di astrofotografia. Insieme abbiamo conosciuto Gianclaudio e gli altri amici dell’associazione Crab Nebula: Angelo, Fabiano, Francesco e Giuseppe. Con loro attualmente gestiamo il Centro Astronomico Gianclaudio Ciampechini, costruito con le nostre mani. Negli anni più recenti, grazie anche agli avanzamenti tecnologici con le nuove fotocamere e obiettivi sempre più performanti, mi sono dedicato in particolare alla fotografia notturna paesaggistica e alla fotografia astronomica a largo campo, cercando luoghi suggestivi e lontani dall’inquinamento luminoso. I monti Sibillini sono diventati il mio rifugio per questo genere di fotografia, poiché sono a breve distanza da casa e posso contare su un comodo punto logistico nella zona. Tuttavia, anche qui, l’inquinamento luminoso è in costante aumento. La mia speranza è che, attraverso il mio lavoro, possa sensibilizzare un numero sempre maggiore di persone su questo problema ambientale».
Per fare astrofotografia immagino occorra pazienza e grande sopportazione, soprattutto quando è freddo. C’è un messaggio vuole lasciare ai nostri lettori, oltre a questa meravigliosa foto?
«Gli astrofotografi sono sempre alla ricerca dell’ultimo sensore, dell’ultimo ausilio tecnologico o software che possa portare ad un risultato migliore, ma c’è molto di più: l’astrofotografia ti arricchisce insegnandoti dedizione, pazienza e un profondo rispetto per la bellezza del cielo stellato. Attraverso la tecnica e la passione, cerco di condividere con gli altri le meraviglie dell’universo, invitandoli a sollevare lo sguardo e a porsi domande. Quando stiamo sotto un cielo stellato, con il telescopio, la macchina fotografica o semplicemente con gli occhi all’insù, ci rendiamo conto di essere parte di qualcosa di unico e apparentemente senza tempo, che accumuna tutti gli esseri che abbiano mai vissuto sul pianeta terra, il nostro “tenue puntino blu“».
Se le galassie vanno a banane
Adriano Fontana. Crediti: Inaf
Se vi siete mai chiesti che forma avessero le galassie all’inizio dei tempi e vi sono venute in mente le immagini di maestose galassie a spirale e imponenti galassie ellittiche, molto probabilmente vi state sbagliando. Uno studio guidato da Viraj Pandya della Columbia University e del Flatiron Institute di New York ha infatti rivelato che una vasta frazione (dal 50 fino all’80 per cento) di un campione di circa quattromila galassie osservate nell’universo lontano ha una forma allungata e schiacciata, che ricorda niente meno che quella di una banana. Le galassie appena nate risultano dunque nettamente diverse da quelle che popolano l’universo attuale, caratterizzato per lo più da galassie a disco e, in minor parte, da galassie sferoidali. La ricerca è stata condotta nell’ambito del programma Ceers (the Cosmic Evolution Early Release Science Survey), che utilizza il telescopio spaziale James Webb per esplorare le galassie distanti. La scoperta risulta di particolare rilevanza, tanto che ieri le è stata dedicata una press releasedella Nasa e un articolo apparso recentemente sul New York Times. Abbiamo chiesto ad Adriano Fontana dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Roma, co-autore dello studio, di commentare questi risultati.
Se l’aspettava che le galassie appena nate fossero fatte così o è stata una sorpresa?
«In parte è una sorpresa, in quanto sapevamo già da prima che le galassie hanno un’evoluzione che porta a modificare nel tempo la loro forma, e che la storia è diversa a seconda delle dimensioni. Però si tendeva a ritenere che l’evoluzione favorisse degli oggetti dalla forma a disco o comunque una componente importante di disco in rotazione. Questo lavoro invece indica che c’è una percentuale elevata di oggetti che non ha una forma regolare prodotta dalla rotazione bensì una forma più allungata, che il primo autore dell’articolo ha scherzosamente definito “a banana”, che è un gioco di parole».
Cosa sono queste galassie “a banana”? In cosa si distinguono rispetto a quelle che popolano l’universo attuale?
«Dire in inglese che una cosa “va a banana” vuol dire che è impazzita. Tecnicamente la banana ha la forma prolata, cioè una forma allungata, ed è quella che sembra caratterizzare parecchie galassie, soprattutto quelle piccole e quelle osservate all’inizio dei tempi. Quello che è sorprendente e che non ci aspettavamo è che questi oggetti siano abbastanza diffusi e non rari, come pensavamo all’inizio».
Alcune delle galassie dello studio osservate con il telescopio spaziale James Webb. Le galassie “a banana” sono quelle nei riquadri superiori. Crediti: Nasa, Esa, Csa, S. Finkelstein, M. Bagley, R. Larson
La forma tridimensionale delle galassie è stata determinata a partire dalla forma bidimensionale delle stesse osservata nelle immagini. Ci spiega come ciò viene reso possibile?
«È un argomento statistico. La forma che vediamo è dovuta alla forma intrinseca orientata in tutti i possibili modi casuali. Noi abbiamo trovato che gli oggetti con la forma molto allungata sono troppi per essere spiegati semplicemente da un orientamento casuale di un disco. Quindi questo vuol dire che è invece la loro forma intrinseca che è prolata, ovvero allungata in quella maniera».
Quali sono le maggiori incertezze associate alla tecnica utilizzata in questo studio?
«Per esempio, in questo lavoro assumiamo che le galassie siano orientate in maniera casuale e che la distribuzione delle loro forme sia di un certo tipo. Ci potrebbero essere delle combinazioni diverse che non abbiamo considerato e che danno lo stesso risultato apparente. Un secondo aspetto è che, anche se Webb è uno strumento così straordinario, perdiamo una parte della luce nelle zone meno brillanti delle galassie. È quindi possibile che le nostre osservazioni, soprattutto di oggetti deboli e lontani, non siano definitive».
Una delle questioni più intriganti indagate dall’astrofisica riguarda la natura della materia oscura. Può questo studio fornirci qualche indicazione rispetto a una delle componenti più misteriose dell’universo?
«Le stelle all’interno di una galassia si muovono seguendo la forza di gravità e la forza di gravità è determinata proprio dalla materia oscura che le tiene insieme. È possibile che questo risultato ci indichi che anche gli aloni di materia oscura abbiano una forma a banana, e che quindi le stelle tendano a seguire questa forma. È interessante notare che le simulazioni fatte al computer in alcuni casi prevedono dei risultati di questo tipo mentre in altri ne prevedono diversi. Quindi questo risultato può indicare che anche i nostri modelli teorici vanno compresi meglio per riprodurre quello che vediamo».
Anche la Via Lattea, che sappiamo essere ora una galassia a disco, era una galassia a banana nella sua “infanzia”?
«La nostra galassia fa parte delle galassie più grandi e per questo tipo di oggetti anche il nostro studio dimostra che la percentuale di dischi tende a essere più elevata e che si sono formati prima. È dunque possibile che la nostra galassia sia nata o che sia da molto tempo un oggetto in rotazione. Come fosse l’antico progenitore nelle prime fasi ormai è andato perso ed è anche possibile che fosse una piccola “banana”. Poi, negli eventi di fusione tra galassie, molto spesso la morfologia viene completamente rivoluzionata e dunque è possibile che questi eventi abbiano ridistribuito tutto e che si sia formato il disco che vediamo oggi».
Quali sono i prossimi passi da compiere per sapere qualcosa in più sulle galassie appena nate?
«Sicuramente sarebbe interessante studiare la velocità delle stelle all’interno delle galassie, almeno per gli oggetti più brillanti e grandi. Questa sarà una delle cose che potremo fare fra alcuni anni con l’Extremely Large Telescope, il futuro telescopio da quasi quaranta metri in costruzione in Cile, che essendo molto più grande e sensibile di Webb permetterà di fare queste misure. Quindi non solo vedere la forma ma vedere come si muovono le stelle nel loro insieme».
Per saperne di più:
- Leggi “Galaxies Going Bananas: Inferring the 3D Geometry of High-Redshift Galaxies with JWST-CEERS” di Viraj Pandya, Haowen Zhang, Marc Huertas-Company, Kartheik G. Iyer, Elizabeth McGrath, Guillermo Barro, Steven L. Finkelstein, Martin Kuemmel, William G. Hartley, Henry C. Ferguson, Jeyhan S. Kartaltepe, Joel Primack, et al.
Così i buchi neri distruggono le stelle
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Una stella sta per essere distrutta da un buco nero supermassiccio: quando passa accanto al buco nero, l’enorme attrazione gravitazionale la fa a pezzi. Metà della stella viene scagliata via e metà ricade verso il buco nero. L’immagine mostra il risultato della simulazione effettuata da Steinberg e Stone, ed evidenzia la densità della metà in caduta (colore verde-blu) e il calore generato dagli urti (bianco-rosso). Crediti: Elad Steinberg
Un nuovo studio condotto da Elad Steinberg e da Nicholas C. Stone dell’Istituto di Fisica Racah della Hebrew University di Gerusalemme getta nuova luce sui buchi neri supermassicci. Queste enigmatiche entità cosmiche, la cui massa varia da milioni a miliardi di volte quella del Sole, sono ancora inafferrabili nonostante il loro ruolo centrale nel modellare le galassie. La loro estrema attrazione gravitazionale deforma lo spaziotempo, creando un ambiente che sfida la nostra comprensione e costituisce una sfida anche per gli astronomi osservativi.
È in questi ambienti estremi che entrano in gioco i tidal disruption events (Tde, in italiano eventi di distruzione mareale) un fenomeno che si verifica quando stelle sfortunate si avventurano troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e vengono fatte a pezzi in sottili flussi di plasma. Quando questo plasma ritorna verso il buco nero, una serie di onde d’urto lo riscalda, dando luogo a uno straordinario spettacolo: un brillamento che supera la luminosità di un’intera galassia per settimane o addirittura mesi.
Lo studio condotto da Steinberg e Stone rappresenta un significativo passo avanti nella comprensione di questi eventi cosmici. Per la prima volta, le loro simulazioni hanno ricreato un evento Tde realistico, catturando l’intera sequenza della distruzione stellare, dalla perturbazione iniziale al picco di luminosità del brillamento che ne consegue; il tutto reso possibile dal pionieristico software di simulazione sviluppato da Steinberg.
Questo studio ha svelato un tipo di onda d’urto finora sconosciuto all’interno dei Tde, risolvendo un dibattito di lunga data su quale sia la sorgente di energia delle fasi più luminose di questi eventi. Conferma, cioè, che sia la dissipazione dell’onda d’urto ad alimentare le settimane più luminose di un brillamento Tde, e apre le porte a studi futuri per utilizzare le osservazioni Tde come mezzo per misurare le proprietà fondamentali dei buchi neri e per testare le previsioni di Einstein in ambienti gravitazionali estremi.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Stream-Disk Shocks as the Origins of Peak Light in Tidal Disruption Events” di Elad Steinberg & Nicholas C. Stone
Sara Lucatello sarà presidente della Eas
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Sara Lucatello, astronoma dell’Inaf di Padova e prossima presidente ad interim della Società astronomica europea
Astrofisica all’Inaf di Padova e già vicepresidente della European Astronomical Society (Eas) dal 2018, Sara Lucatello ricoprirà la massima carica dell’organizzazione a partire dal prossimo luglio e per due anni. Sarà la prima donna nella storia dell’Eas a ricoprire questo ruolo e sarà anche la prima volta che un presidente proviene da un paese mediterraneo. A darne l’annuncio ufficiale, oggi, un comunicato pubblicato nella newsletter dell’Eas.
Lo scorso luglio, in occasione dell’assemblea generale dell’Eas che si è tenuta a Cracovia, il presidente uscente Roger Davies aveva annunciato che avrebbe lasciato il proprio ruolo alla riunione dell’anno successivo, con due anni di anticipo.
«È stato un enorme onore ricoprire il ruolo di presidente per sette anni», ha dichiarato Davies, «ma è giunto il momento di una nuova leadership e auguro a Sara un grande successo in questo ruolo, sperando che le porti altrettante soddisfazioni».
Il Consiglio ha quindi scelto come presidente ad interim fino al 2026 Sara Lucatello, che verrà investita del ruolo ufficialmente il prossimo luglio, in occasione dell’assemblea generale dell’Eas che si terrà proprio a Padova. Al termine di questo periodo si terranno le regolari elezioni per il nuovo presidente del Consiglio, come previsto dallo statuto dell’Eas.
«È un grande onore per me essere stata scelta dai colleghi del Council per guidare la società fino al 2026», dice Lucatello a Media Inaf. «È un importante riconoscimento del mio impegno nelle attività della Società: la promozione e lo sviluppo dell’astronomia in Europa. In questi sette anni, il presidente uscente, Roger Davies, ha guidato la Società con straordinaria competenza e dedizione attraverso cambiamenti significativi. Eas oggi conta più di 5000 membri individuali, astronomi professionisti, 32 società astronomiche nazionali affiliate (inclusa la Società astronomica italiana) e oltre 30 membri organizzativi (incluso l’Istituto nazionale di astrofisica): fondazioni, istituti di ricerca ed entità che sostengono le attività della Società. Sarà un compito impegnativo succedere a Roger, ma sono determinata a portare avanti la sua eredità e a impegnarmi per continuare a sostenere gli interessi della comunità astronomica, a livello europeo con la Commissione, il Parlamento e il Research council e globale, tramite Un Copuos – la Commissione delle Nazioni Unite sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico. La mia nomina è un passo significativo per la società: sarò la prima donna e la prima persona proveniente dal Sud Europa a ricoprire la carica di presidente».
Partita la missione Ax-3 con l’italiano Villadei
Da sinistra: Michael López-Alegría, Alper Gezeravci, Marcus Wandt e Walter Villadei. Crediti: Axiom Space
La missione Axiom-3 è in volo verso la Stazione spaziale internazionale. A bordo il pilota Walter Villadei, colonnello dell’Aeronautica militare e ottavo italiano ad arrivare in orbita. Con lui volano lo svedese Marcus Wandt, della nuova classe di astronauti dell’Agenzia spaziale europea, e il primo astronauta turco Alper Gezeravci. Al comando c’è il veterano Michael Lopez-Alegria, che dopo una lunga carriera nella Nasa adesso lavora per la Axiom Space. La loro è una missione di privati all’insegna della space economy, che per 14 giorni porterà nello spazio 30 esperimenti frutto di tante aziende, molte delle quali italiane. Inizialmente prevista il 18 gennaio, la capsula Crew Dragon Freedom diretta alla Stazione spaziale è stata lanciata dal Kennedy Space Center a Cape Canaveral con un razzo Falcon 9 della SpaceX. L’aggancio alla Iss è previsto alle 11.15 italiane di sabato 20 gennaio.
Sarà la terza volta che una missione privata raggiungerà la stazione orbitale, dopo le missioni Ax-1 dell’aprile 2022 e Ax-2 del maggio 2023. Comincia così la missione ‘Voluntas’’, che per l’Italia ha anche una forte componente istituzionale. È infatti il risultato di uno sforzo congiunto tra la Presidenza del consiglio, i ministeri della Difesa, delle Imprese e del Made in Italy, dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Agenzia spaziale italiana e Aeronautica militare, accanto a centri di ricerca, università e industrie.
Per il ministro della Difesa, Guido Crosetto, la missione Ax-3 segna «un nuovo capitolo di storia dello spazio, che vede l’Italia indiscussa protagonista grazie alle proprie competenze» e «rappresenta un consolidamento delle competenze nazionali nel campo del volo umano spaziale e un contributo allo sviluppo della new space economy». Entra nel vivo la nuova era dei privati, che l’amministratore capo della Nasa, Bill Nelson, ha definito «una nuova epoca d’oro dello spazio». Secondo Walter Villadei la missione è anche la conferma del ruolo di protagonista che l’Italia ha avuto fin dall’inizio dell’era spaziale con il lancio del satellite San Marco 1, il 15 dicembre 1964. «A distanza di 60 anni», ha detto, «lo spazio è diventato una dimensione strategica, un crocevia di interessi geopolitici, economici, industriali, scientifici, militari. È quindi con la partecipazione alla missione Axiom-3 che l’Italia dimostra ancora una volta di avere la capacità e la visione di essere un apripista».
Sono 30 gli esperimenti previsti nella missione, 13 dei quali italiani. Accesso sicuro allo spazio e i risvolti fisiologici della permanenza in orbita sono i temi dei sei esperimenti dell’Aeronautica militare, che svolge anche un ruolo di coordinamento per le attività promosse da aziende e startup italiane. Quattro i test coordinati dall’Asi, che arriva così a 83 esperimenti realizzati in orbita a partire dal 1997, anno della firma del Memorandum of Understanding con la Nasa. Il contributo delle aziende va dalla telemedicina all’abbigliamento aerospaziale, passando per la misura in tempo reale del flusso di particelle cosmiche e i materiali speciali sviluppati dall’azienda costruttrice di automobili Dallara, fino all’utilizzo di un nuovo protocollo messo a punto dalla Mental Economy di Lucca con il supporto di Pwc Italia, per migliorare l’efficienza neuronale di chi svolge attività stressanti. È dedicato alla telemedicina il progetto della Gvm Assistance di Ravenna, all’abbigliamento aerospaziale quello della startup marchigiana Spacewear. L’industria italiana guarda anche alla futura stazione spaziale privata che l’Aiom si prepara a realizzare. Nel sito torinese della Thales Alenia Space, joint venture tra Thales (67 per cento) e Leonardo (33 per cento), sono infatti in fase di realizzazione i moduli della stazione spaziale commerciale di Axiom, destinati a essere lanciati nei prossimi anni e inizialmente attraccati alla Iss. Quando quest’ultima avrà completato la sua vita operativa, i moduli Axiom si separeranno e opereranno come una stazione spaziale commerciale a volo libero.
Guarda la live del lancio sul canale YouTube di Axiom Space:
Gn-z11, l’azoto e il buco nero extralarge
Questa immagine mostra Gn-Z11 (nell’inserto): la galassia più distante scoperta fino ad ora. Crediti: Nasa, Esa, e P. Oesch (Yale University)
Scoperta nel 2015 grazie al telescopio spaziale Hubble, Gn-z11 ha catturato subito l’attenzione degli scienziati attestandosi come la galassia più lontana – e quindi giovane – a noi nota: alla sua distanza l’universo ha circa 430 milioni di anni. L’attenzione su di lei si è riaccesa poi lo scorso anno, quando il James Webb Space Telescope ha permesso di scoprire che Gn-z11 ospita una grande quantità di azoto, cosa piuttosto insolita in epoche così lontane da noi, in cui le galassie hanno avuto poco tempo per “arricchirsi” di elementi chimici così pesanti.
Negli ultimi mesi sono molti i gruppi di ricerca che sono andati a caccia di una spiegazione per questa insolita composizione chimica, chiamando in causa ammassi globulari, prime e seconde generazioni di stelle e addirittura un buco nero molto massiccio (oltre un milione di volte la massa del Sole) al centro della galassia. Qui entra in gioco Francesca D’Antona, ricercatrice associata all’Inaf di Roma, e il suo team tutto italiano, che in un lavoro pubblicato recentemente sulla rivista Astronomy & Astrophysics propone un modello in grado di spiegare sia l’abbondanza di azoto, sia la formazione di un buco nero massiccio in un’epoca così giovane per l’universo. Abbiamo raggiunto D’Antona e le abbiamo fatto un po’ di domande per capire meglio cosa sappiamo di questa galassia.
Come è nata l’idea del vostro studio? Se non ho capito male c’è di mezzo una conferenza scientifica…
«È vero: molti di noi si sono trovati assieme a Sesto, alla conferenza “A multiwavelength view on Globular Clusters near and far”, organizzata da Francesco Calura, Antonino Milone (due dei coautori del nostro studio) e Anita Zanella. L’attenzione era puntata soprattutto sugli ammassi globulari a grandi distanze da noi, per i quali il telescopio spaziale James Webb ha recentemente cominciato a mostrare affascinanti risultati».
Ora veniamo alla scienza. Come si spiega, secondo il vostro modello, la formazione stellare di questa galassia così peculiare?
«Il problema principale dal punto di vista “stellare”, che è la nostra specializzazione di ricerca, sembrava quello di capire come mai ci fosse una così alta presenza di azoto nello spettro, venti volte o più maggiore di quello delle stelle povere di metalli come in questo caso, e comunque anche ben più alta dell’azoto solare. D’altro canto, certe abbondanze così alte sono tipiche delle stelle di cosiddetta “seconda generazione”, che si è scoperto costituire la maggioranza delle stelle negli ammassi globulari della nostra galassia. Quindi molti hanno cominciato a ragionare sulla possibilità che ci si trovi in presenza del gas che negli ammassi è presente all’atto della nascita di questa seconda generazione, concentrandosi soprattutto sui modelli che ne prevedono la formazione entro pochi milioni di anni da quando è nato l’ammasso, e quindi compatibili con l’intensa formazione stellare ottenuta interpretando con i modelli le caratteristiche dello spettro di Gn-z11.
Francesca D’Antona ed Enrico Vesperini alla conferenza “A multiwavelength view on Globular Clusters near and far” a Sesto, nel luglio 2023
D’altro canto noi abbiamo lavorato per moltissimi anni su un modello di formazione della “seconda generazione” molto complesso, basato sull’evoluzione delle stelle cosiddette di “ramo asintotico” (Asymptotic giant branch, Agb), giganti nelle quali la base dell’inviluppo convettivo raggiunge temperature così alte da dar luogo a reazioni nucleari di cattura dell’idrogeno, così che la materia processata viene distribuita su tutta la stella. Queste stelle perdono tutta la loro massa esterna per vento stellare, lasciando solo un nucleo inerte di “nana bianca”, e questo materiale ha le segnature caratteristiche delle ”seconde generazioni” degli ammassi globulari, delle quali la più banale è l’alta abbondanza di azoto. La seconda generazione si formerebbe nel gas che si concentra al centro dell’ammasso globulare e contiene anche il gas processato negli inviluppi delle stelle Agb. Questo modello opera su tempi scala lunghi (decine di milioni di anni), in contrasto con alcune interpretazioni dello spettro di Gn-z11 secondo le quali il tempo scala di formazione sarebbe di qualche milione di anni; siccome un’alta abbondanza di azoto può essere ottenuta con molti sistemi nell’ambito delle stelle massicce, sono stati inizialmente proposti vari modelli basati su tali stelle».
Una possibile svolta arriva proprio lo scorso anno, giusto?
«Esatto, a metà del 2023, nella fioritura di analisi delle caratteristiche di Gn-z11, è stata pubblicata come preprint un’importante analisi di Roberto Maiolino e colleghi che elaborava la proposta che l’emissione centrale di Gn-z11 sia, in realtà, quella di un nucleo galattico attivo (Agn), cioè sia dovuta ad accrescimento su un buco nero, al quale i dati permettono di assegnare una massa un po’ superiore al milione di masse solari. Malgrado questa massa sia ben inferiore a quella dei buchi neri al centro di molte galassie ben conosciute, anche mille volte superiori, è comunque una massa molto alta per un oggetto di soli 430 milioni di anni, per cui c’è da chiedersi come esso possa essersi formato o evoluto così velocemente.
E qui torna in ballo il nostro modello, che lavora su tempi “lunghi” e successivi alla formazione di un primo ammasso globulare (la “prima generazione”). Nel lavoro mostriamo che questo tempo di un centinaio di milioni di anni può essere proprio quello che ha permesso a buchi neri “normali” nati dalla prima generazione di accrescere gas fino a raggiungere oggi la massa richiesta».
Ma quindi il buco nero al centro della galassia è un vantaggio, per Gn-z11?
«Insomma… se c’è il buco nero cambia completamente l’interpretazione dello spettro dell’oggetto. Infatti spettri molto simili possono risultare sia dall’emissione di un Agn che dall’emissione delle stelle in una regione di formazione stellare. Se in Gn-z11 lo spettro include il contributo di accrescimento su un buco nero (l’Agn, appunto), sia la sua giovanissima età che i tassi enormi di formazione stellare trovati con le analisi che non includono il buco nero sono da rivedere completamente: un problema ben noto alle persone che lavorano nel campo».
Mi diceva che rimangono aperti vari problemi rispetto a questa sorgente: quali sono? Che approfondimenti farete in futuro?
«I problemi aperti sono tantissimi, tra cui quello di capire se lo spettro è dovuto alla sola componente Agn oppure a una combinazione di emissione dall’Agn e formazione stellare. Tantissimi ricercatori specializzati lavorano su questo e noi siamo nella fortunata condizione di aspettare i loro risultati. Per quello che ci riguarda invece, è molto chiaro per noi che alla fine Gn-z11 non rappresenta la formazione di un tipico ammasso globulare, anche se sosteniamo che stiamo osservando la fase dei venti Agb, e che l’alto azoto nello spettro è dovuto a questo gas. E anche se è possibile che si stiano formando stelle di seconda generazione nelle zone dell’Agn “protette” dal disco di accrescimento intorno al buco nero, gli ammassi non contengono buchi neri massicci. Questo pertanto può essere un tipico nuclear star cluster, gli ammassi che si trovano intorno ai buchi neri massicci al centro delle galassie. Se fosse vera la nostra ipotesi sulla crescita del buco nero di Gn-z11, allora ci chiediamo che cosa discrimina tra la formazione di un ammasso globulare, nel quale restano solo alcuni buchi neri stellari, dall’evoluzione tipo Gn-z11 in cui i buchi neri centrali invece evolvono verso un buco nero supermassiccio?»
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Gn-z11: witnessing the formation of second generation stars and an accreting massive black hole in a massive star cluster” di F. D’Antona, E. Vesperini, F. Calura, P. Ventura, A. D’Ercole, V. Caloi, A. F. Marino, A. P. Milone, F. Dell’Agli e M. Tailo
Un oggetto del mistero per MeerKat
Un articolo pubblicato oggi su Science svela la presenza di un oggetto dalla natura misteriosa all’interno dell’ammasso globulare Ngc 1851, visibile nella costellazione della Colomba a oltre 39mila anni luce dalla Terra. Di cosa si tratta? Un team internazionale di astronomi, guidato da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la radioastronomia di Bonn, e a cui partecipano anche ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Bologna, ha sfruttato la sensibilità delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKat per scoprire un oggetto massiccio dalle caratteristiche uniche: è più pesante delle stelle di neutroni più pesanti conosciute e allo stesso tempo è più leggero dei buchi neri più leggeri trovati finora. Altro particolare non di poca rilevanza: l’indagato speciale è in orbita attorno a una pulsar al millisecondo in rapida rotazione. Questa potrebbe essere la prima scoperta del tanto ambito sistema binario radio pulsar-buco nero: una coppia stellare che consentirebbe nuovi test della teoria della relatività generale di Einstein.
Rappresentazione artistica del sistema Ngc 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar Ngc 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)
Luminose e intermittenti come potenti fari cosmici puntati verso la Terra, le pulsar sono stelle di neutroni, ossia i resti compatti (una ventina di chilometri di diametro) ed estremamente densi di potenti esplosioni di supernova. La teoria mostra che deve esistere una massa massima per una stella di neutroni. Il valore di tale massa massima non è noto con precisione, ma esistono indicazioni sperimentali del fatto che almeno fino a una massa totale pari a circa 2,2 volte la massa del Sole la stella continua, comunque, a essere una stella di neutroni. D’altro canto, molteplici evidenze osservative indicano che i buchi neri (oggetti densi e compatti al punto che nemmeno la luce può allontanarsi da essi) si formano dal collasso che ha luogo alla fine dell’evoluzione di stelle molto più massicce di quelle che producono le stelle di neutroni. In questo caso, la massa minima osservata finora per il nascente buco nero è circa 5 volte la massa del Sole. Bisogna allora domandarsi quale tipo di oggetto compatto si formi nell’intervallo di masse fra 2,2 e 5 volte la massa del Sole, in quello che i ricercatori chiamano “gap di massa per i buchi neri”: una stella di neutroni estremamente massiccia, un buco nero estremamente leggero o altro? A oggi non esiste una risposta chiara.
Nell’ambito delle due collaborazioni internazionali Trapum (Transients and Pulsars with MeerKat) e MeerTime, gli astronomi sono stati in grado prima di rilevare e poi di studiare ripetutamente i deboli impulsi provenienti da una delle stelle dell’ammasso, identificandola come una pulsar radio: un tipo di stella di neutroni che gira molto rapidamente ed emette onde radio nell’universo, come un faro cosmico. Questa pulsar, denominata Ngc 1851E (ossia la quinta pulsar nell’ammasso globulare Ngc 1851), ruota su se stessa più di 170 volte al secondo, e ogni rotazione produce un impulso ritmico, come il ticchettio di un orologio.
Potenziale storia della formazione della radiopulsar Ngc 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)
«Il ticchettio di questi impulsi è incredibilmente regolare. Osservando come cambiano i tempi dei ticchettii, tramite una tecnica chiamata pulsar timing, siamo stati in grado di effettuare misurazioni estremamente precise del moto orbitale di questo oggetto», spiega Ewan Barr dell’Istituto Max Planck per la radioastronomia di Bonn, primo autore dello studio insieme alla dottoranda dello stesso istituto Arunima Dutta.
L’estrema regolarità degli impulsi osservati ha permesso anche una misurazione molto precisa della posizione del sistema, dimostrando – tramite osservazioni col telescopio spaziale Hubble – che l’oggetto in orbita attorno alla pulsar non è una normale stella, bensì un residuo estremamente denso di una stella collassata. Inoltre, il fatto che l’orbita stia progressivamente cambiando l’orientamento rispetto a noi (un effetto chiamato tecnicamente “precessione del periastro” e previsto dalla relatività generale) ha mostrato che la compagna ha una massa che è contemporaneamente più grande di quella di qualsiasi stella di neutroni conosciuta e tuttavia più piccola di quella di qualsiasi buco nero conosciuto, posizionandola esattamente nel gap di massa dei buchi neri.
«Sin dalle prime osservazioni successive alla scoperta, questo sistema binario mostrava caratteristiche peculiari, in particolare per quanto riguarda l’elevata massa della stella compagna», sottolinea uno dei coautori dello studio, Alessandro Ridolfi, ricercatore postdoc all’Inaf di Cagliari e primo autore, nel 2022, della scoperta di Ngc 1851E (conosciuta anche col nome alternativo Psr J0514-4002E). «Ulteriori osservazioni hanno evidenziato che si trattava addirittura di un sistema unico, con una stella compagna avente una massa in quella che per ora è la “terra di nessuno” per gli oggetti compatti, ovverosia quell’intervallo di masse per le quali la teoria non è oggi in grado di stabilire se si abbia a che fare con un buco nero leggero o una stella di neutroni pesante».
«Se si rivelerà essere un buco nero», prosegue Cristina Pallanca, ricercatrice al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Bologna, «avremo individuato il primo sistema binario composto da una pulsar e un buco nero, una sorta di Santo Graal dell’astronomia. Grazie a esso avremo un’opportunità senza precedenti per testare con altissima precisione la teoria della relatività generale di Albert Einstein e, di conseguenza, per comprendere meglio le proprietà fisiche dei buchi neri».
«Se invece si trattasse di una stella di neutroni», aggiunge Marta Burgay, un’altra ricercatrice di Inaf di Cagliari coinvolta nel progetto, «la sua massa elevata imporrà nuovi vincoli alla natura delle forze nucleari, vincoli che non si possono ottenere con nessun esperimento di laboratorio».
Il sistema si trova nell’ammasso globulare Ngc 1851, un denso insieme di vecchie stelle molto più fitte rispetto alle stelle del resto della nostra galassia. «Un sistema binario così non poteva che crearsi in un ambiente altrettanto straordinario: l’ammasso globulare Ngc 1851», dice Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Bologna, «è un insieme di centinaia di migliaia di stelle mantenute unite dalla loro stessa forza di gravità, formatosi circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 800mila anni e la nostra galassia stava attraversando le prime fasi di formazione. All’interno degli ammassi globulari, le stelle interagiscono continuamente durante il corso della loro vita: si scambiano energia, collidono, si uniscono in nuovi sistemi binari e così via. Il nucleo di Ngc 1851 è dinamicamente molto attivo, anche più rispetto a quello di altri ammassi globulari, e questo ha favorito la formazione del sistema binario unico nel suo genere che abbiamo scoperto».
Le regioni centrali di Ngc 1851 sono così affollate che le stelle possono interagire tra loro, sconvolgendo le loro orbite e nei casi più estremi scontrandosi. Si ritiene che sia stata una di queste collisioni tra due stelle di neutroni a creare l’oggetto massiccio che ora orbita attorno alla radio pulsar. Tuttavia, prima che venisse creata l’attuale binaria, la radio pulsar deve aver acquisito materiale da un’altra stella in una cosiddetta binaria a raggi X di piccola massa. Un tale processo di “riciclaggio” è necessario per riportare la pulsar alla velocità di rotazione attuale.
La scoperta di questo oggetto misterioso mette in luce le potenzialità degli strumenti utilizzati in questa survey e delle antenne che arriveranno nel futuro. «Questa scoperta è l’apice degli studi finora condotti, grazie al sensibilissimo telescopio MeerKat, sulle pulsar negli ammassi globulari, un campo di ricerca dove Inaf, tramite il gruppo di Cagliari, ricopre dall’inizio un ruolo primario», sottolinea Andrea Possenti, ricercatore anch’egli presso la sede sarda dell’Inaf. «Ruolo importante sia sul fronte della ricerca di nuove pulsar – 87 quelle scoperte fino ad oggi con il solo radiotelescopio sudafricano – sia ai fini dello studio di quelle note. Il bello è che c’è ancora tanto da scoprire in questi densi sistemi stellari, sia con le osservazioni a MeerKat, sia, ancor più, con l’avvento del rivoluzionario radiotelescopio Ska. Senza contare che collisioni fra stelle di neutroni come quella ipotizzata per spiegare l’origine di questo sistema potrebbero costituire ulteriori eventi, rari ma di grande interesse, per telescopi per onde gravitazionali, come Virgo, Ligo e il futuro Einstein Telescope».
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “A pulsar in a binary with a compact object in the mass gap between neutron stars and black holes”, di E. Barr, Arunima Dutta, Paulo C. C. Freire, Mario Cadelano, Tasha Gautam, Michael Kramer, Cristina Pallanca, Scott M. Ransom, Alessandro Ridolfi, Benjamin W. Stappers, Thomas M. Tauris, Vivek Venkatraman Krishnan, Norbert Wex, Matthew Bailes, Jan Behrend, Sarah Buchner, Marta Burgay, Weiwei Chen, David J. Champion, C. -H. Rosie Chen, Alessandro Corongiu, Marisa Geyer, Y. P. Men, Prajwal V. Padmanabh e Andrea Possenti
Guarda l’animazione sul canale YouTube di OzGrav ARC Centre of Excellence:
C’è del ghiaccio sepolto all’equatore di Marte?
Medusae Fossae è una vasta regione geologica che si estende per migliaia di chilometri lungo l’equatore di Marte. Più di quindici anni fa, la sonda Mars Express dell’Agenzia spaziale europea (Esa) aveva identificato in quest’area del pianeta dei misteriosi depositi di materiale fino a 2,5 chilometri sotto la superficie. Secondo un nuovo studio, potrebbe trattarsi di un enorme accumulo di ghiaccio.
Mappa dei depositi di materiale scolpiti dal vento nella regione marziana di Medusae Fossae. La scala di colore indica il potenziale spessore del ghiaccio, assumendo che la polvere abbia uno spessore di 300 metri. Crediti: Planetary Science Institute/Smithsonian Institution
Il lavoro si basa su nuovi dati raccolti con il radar Marsis, uno dei due strumenti a bordo di Mars Express forniti dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), progettato da Sapienza Università di Roma con la partecipazione del Jet Propulsion Laboratory della Nasa e dell’Università dell’Iowa, negli Stati Uniti, e gestito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). I dati mostrano che i depositi nella regione di Medusae Fossae si estendono fino a 3,7 chilometri nel sottosuolo del Pianeta rosso, una profondità ancora maggiore di quanto stimato dalle osservazioni precedenti. Il segnale è consistente con quanto ci si aspetta dal ghiaccio stratificato ed è simile a quello rilevato nei pressi delle calotte polari di Marte, che sono ricche di ghiaccio.
Si tratta del più grande deposito di acqua mai rilevato in questa porzione del pianeta: se si sciogliesse, potrebbe coprire la superficie di Marte con uno strato d’acqua profondo da 1,5 a 2,7 metri. Sulla Terra, una simile massa di acqua sarebbe sufficiente a riempire il Mar Rosso. I risultati della ricerca, guidata da Thomas Watters della Smithsonian Institution, sono stati pubblicati sulla rivista Geophysical Research Letters.
La regione di Medusae Fossae si trova al confine tra le pianure e gli altopiani che caratterizzano la geologia di Marte. Comprende formazioni scolpite dal vento, alte diversi chilometri, che si estendono per centinaia di chilometri e rappresentano uno dei depositi di polvere più vasti del pianeta. Per questo, dalle prime osservazioni di Mars Express, non era stato possibile confermare con certezza la presenza di ghiaccio: poteva infatti trattarsi di grandi accumuli di polvere spinta dal vento, oppure di cenere vulcanica o sedimento.
Mappa topografica di Marte, che mostra la posizione della regione Medusae Fossae, in prossimità dell’equatore. Le regioni di colore rosso corrispondono ad altitudini più elevate. Crediti: Esa
«È qui che entrano in gioco i nuovi dati del radar Marsis», spiega Andrea Cicchetti, ricercatore Inaf e co-autore del nuovo studio. «Data la sua profondità, se la formazione di Medusae Fossae fosse semplicemente un gigantesco mucchio di polvere, ci aspetteremmo che si compattasse sotto il suo stesso peso. Ciò creerebbe qualcosa di molto più denso rispetto a quello che effettivamente vediamo con Marsis. Abbiamo provato a modellare il comportamento dei diversi materiali privi di ghiaccio, ma nessuno di essi riproduce le proprietà osservate: c’è bisogno del ghiaccio».
«Lo studio appena pubblicato sarà di cruciale importanza per pianificare le prossime missioni spaziali dirette verso Marte», commenta Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Agenzia spaziale italiana. «È sempre più evidente, infatti, la necessità di fare uno studio di dettaglio di tutta l’immediata sotto-superficie di Marte per verificare se il caso del deposito di ghiaccio sotto le Medusae Fossae sia isolato oppure se sia uno scenario che si verifica anche in altri punti del pianeta. Proprio per questo motivo l’Asi, insieme alla Csa, la Nasa e la Jaxa stanno studiano un concetto di missione ‘Ice Mapper’ che ha l’unico obiettivo di fare una mappatura del ghiaccio sotto-superficiale. Queste informazioni serviranno sia per una rivisitazione dei modelli evolutivi attualmente esistenti sia per supportare lo sviluppo delle missioni umane sulla superficie di Marte che dovranno necessariamente fare affidamento su depositi di ghiaccio in zona equatoriale».
Secondo il nuovo studio, il deposito consiste di strati di polvere e ghiaccio, il tutto sormontato da uno strato protettivo di polvere secca o cenere spesso diverse centinaia di metri. Oggi Marte è un pianeta dall’aspetto arido, ma la sua superficie è ricca di segni dell’acqua che un tempo era abbondante. Presenta inoltre notevoli riserve di ghiaccio d’acqua, come le calotte polari. Eppure una riserva di ghiaccio estesa come quella appena scoperta non avrebbe potuto formarsi nel clima attuale del pianeta, ma deve risalire a un’epoca climatica precedente. Se i risultati di questo studio saranno confermati, bisognerà aggiornare la nostra comprensione della storia del clima di Marte.
L’estensione e la posizione dei depositi ghiacciati nell’area di Medusae Fosse li renderebbero molto interessanti per l’esplorazione umana di Marte in futuro. Le missioni spaziali dovranno atterrare vicino all’equatore del pianeta, lontano dalle calotte polari ricche di ghiaccio o dai ghiacciai ad alta latitudine, e avranno bisogno dell’acqua come risorsa, quindi trovare ghiaccio in questa regione è praticamente essenziale per eventuali future missioni umane sul Pianeta rosso. Purtroppo i depositi identificati in questo studio sono coperti da centinaia di metri di polvere, dunque inaccessibili almeno per i prossimi decenni. Tuttavia conoscere la distribuzione del ghiaccio sulla superficie odierna di Marte aiuta i ricercatori a comprendere sempre meglio dove scorreva l’acqua in passato e dove può essere trovata oggi.
Per saperne di più:
- Leggi su Geophysical Research Lettersl’articolo “Evidence of Ice-Rich Layered Deposits in the Medusae Fossae Formation of Mars” di T. R. Watters et al.
Eht: le immagini aggiornate del buco nero in M87
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La nuova immagine del buco nero al centro della galassia M87 (sulla destra) confrontata con quella ottenuta dalle prime osservazioni della stessa sorgente (sulla sinistra). Crediti: collaborazione Eht
La collaborazione scientifica Eht Event horizon telescope, che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, ha pubblicato nuove immagini di M87*, il buco nero supermassiccio al centro della galassia Messier 87: questa volta le immagini sono state realizzate a partire dai dati delle osservazioni effettuate nell’aprile 2018, un anno dopo rispetto ai dati che hanno portato all’immagine rilasciata nel 2019. Grazie alla partecipazione di un nuovo telescopio, il Greenland Telescope, e a un tasso di acquisizione dati nettamente migliorato in tutti i telescopi della rete di Eht, le osservazioni del 2018 ci offrono una visione della sorgente indipendente dalle prime osservazioni del 2017. Le nuove immagini sono state realizzate da un gruppo internazionale di ricerca della collaborazione Eht, di cui fanno parte anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dell’Università di Cagliari e sono state pubblicate di recente sulla rivista Astronomy & Astrophysics. Le immagini rivelano un anello luminoso, delle stesse dimensioni di quello osservato nel 2017, che circonda una profonda depressione centrale, “l’ombra del buco nero”, come previsto dalla relatività generale. Quello che differisce è la posizione del picco di luminosità dell’anello, che si è spostato di circa 30o rispetto alle immagini del 2017. Questo è coerente con la nostra comprensione teorica della variabilità del materiale turbolento intorno ai buchi neri.
«Un requisito fondamentale della scienza è la possibilità di riprodurre i risultati», afferma il dottor Keiichi Asada, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan e coordinatore del gruppo di lavoro che ha redatto l’articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics. «La conferma dell’anello in una serie di dati completamente nuova è un’enorme pietra miliare per la nostra collaborazione e una forte indicazione che stiamo osservando l’ombra di un buco nero e il materiale che orbita intorno a esso».
Il buco nero M87* è il cuore pulsante della galassia ellittica gigante Messier 87 e si trova a 55 milioni di anni luce dalla Terra. La prima immagine di questo buco nero ha rivelato un anello circolare luminoso, più brillante nella parte meridionale dell’anello. Un’ulteriore analisi dei dati ha anche rivelato la struttura di M87* in luce polarizzata, dandoci maggiori informazioni sulla geometria del campo magnetico e sulla natura del plasma intorno al buco nero.
La nuova era della produzione diretta di immagini dei buchi neri, guidata dall’analisi approfondita delle osservazioni del 2017 di M87*, ha aperto una nuova finestra che ci permette di indagare l’astrofisica dei buchi neri e di testare la teoria della relatività generale a un livello fondamentale. I modelli teorici predicono che non ci dovrebbero essere correlazioni tra il 2017 e il 2018 nello stato del materiale intorno a M87*. Pertanto, osservazioni multiple di M87* ci aiuteranno a porre vincoli indipendenti sulla struttura del plasma e del campo magnetico intorno al buco nero e ci aiuteranno a districare la complicata astrofisica dagli effetti della relatività generale.
Per contribuire alla realizzazione di nuove ed entusiasmanti ricerche scientifiche, l’Eht è in continuo sviluppo. Il Greenland Telescope si è unito a Eht per la prima volta nel 2018, appena cinque mesi dopo il completamento della sua costruzione al di sopra del circolo polare artico. Questo nuovo telescopio ha migliorato in modo significativo la qualità delle nuove immagini ottenute con Eht, migliorando la copertura della rete, in particolare nella direzione nord-sud. Inoltre, il Large millimeter telescope (Lmt), grande telescopio operativo in Messico, ha partecipato per la prima volta alla presa dati con l’intera superficie di 50 metri, migliorando notevolmente la sua sensibilità. L’array di Eht è stato inoltre aggiornato per osservare in quattro bande di frequenza intorno ai 230 GHz, rispetto alle sole due bande del 2017.
«Anche in questo caso abbiamo utilizzato diversi algoritmi di imaging e tecniche di modellizzazione per ottenere questa nuova ricostruzione indipendente di M87*», spiega Rocco Lico, ricercatore Inaf e affiliato all’Instituto de astrofísica de Andalucía (Iaa-Csic), che nella collaborazione Eht ricopre diversi ruoli, tra cui quello di coordinatore del gruppo di lavoro sui nuclei galattici attivi. «Questo approccio richiede l’utilizzo di molte risorse di calcolo e l’analisi di una mole enorme di dati, ma è un requisito fondamentale per poter ottenere risultati robusti ed evitare potenziali bias nel processo di ricostruzione dell’immagine».
L’analisi dei dati del 2018 presenta otto tecniche indipendenti di imaging e modellazione, tra cui i metodi utilizzati nella precedente analisi del 2017 di M87* e quelli nuovi sviluppati dall’esperienza della collaborazione nell’analisi di Sgr A*, il buco nero al centro della nostra galassia. L’immagine di M87* ripresa nel 2018 è notevolmente simile a quella che abbiamo visto nel 2017. Vediamo un anello luminoso delle stesse dimensioni, con una regione centrale scura e un lato dell’anello più luminoso dell’altro. La massa e la distanza di M87* non aumenteranno in modo apprezzabile nel corso della vita umana, quindi la relatività generale prevede che il diametro dell’anello rimanga invariato di anno in anno. La stabilità del diametro misurato nelle immagini dal 2017 al 2018 supporta con forza la conclusione che M87* è ben descritto dalla relatività generale.
«Il cambiamento più grande, ovvero lo spostamento del picco di luminosità intorno all’anello, è in realtà qualcosa che avevamo previsto quando abbiamo pubblicato i primi risultati nel 2019», spiega Britt Jeter, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan. «Mentre la relatività generale dice che le dimensioni dell’anello dovrebbero rimanere pressoché fisse, le emissioni provenienti dal disco di accrescimento attorno al buco nero fanno sì che la parte più luminosa dell’anello oscilli attorno a un centro comune. La quantità di oscillazioni che osserviamo nel tempo è qualcosa che possiamo usare per testare le nostre teorie sul campo magnetico e sull’ambiente del plasma intorno al buco nero».
«A differenza di tutti i lavori di Eht pubblicati finora che hanno presentato un’analisi delle prime osservazioni del 2017, questo risultato rappresenta il primo sforzo per esplorare i molti anni di dati aggiuntivi che abbiamo raccolto», racconta Mariafelicia De Laurentis, deputy project scientist della collaborazione Eht, professoressa all’Università degli Studi di Napoli Federico II e ricercatrice Infn. «Oltre al 2017 e al 2018, l’Eht ha condotto osservazioni di successo nel 2021 e nel 2022 e ha in programma osservazioni nella prima metà del 2024. Ogni anno, l’array di Eht è stato migliorato attraverso l’aggiunta di nuovi telescopi, perfezionamenti nell’hardware e l’inclusione di nuove frequenze di osservazione. Grazie a questi progressi, Eht sarà in grado di continuare a fornirci nuove informazioni sui buchi neri, come M87* o Sgr A*».
Per saperne di più:
Niente di nuovo all’orizzonte degli eventi di M87*
La Event Horizon Telescope Collaboration ha pubblicato nuove immagini di M87* provenienti da osservazioni effettuate nell’aprile 2018, un anno dopo le prime osservazioni. Le nuove osservazioni del 2018, che vedono la partecipazione del Greenland Telescope, confermano il familiare anello di emissione delle stesse dimensioni di quello trovato nel 2017. Questo anello luminoso circonda un’ombra centrale scura, e la parte più luminosa dell’anello nel 2018 si è spostata di circa 30 gradi rispetto al 2017. Crediti: Collaborazione Eht
Sono appena uscite le nuove immagini del buco nero supermassiccio al centro della galassia M87, distante 55 milioni di anni luce da noi. Come riportato nel comunicato stampa, non ci sono grosse differenze tra l’immagine pubblicata nel 2019 e le nuove. Se da un certo punto di vista questo potrebbe rendere l’aggiornamento abbastanza noioso, in realtà per gli scienziati significa un grosso sospiro di sollievo. Immaginate se la nuova immagine di M87 non avesse mostrato una ciambella o se la ciambella fosse stata più luminosa in alto. Avrebbe voluto dire che gli scienziati non stanno capendo un granché di come ottenere l’immagine di un buco nero e che forse non c’è nessun buco nero in M87. Cerchiamo di capire il perché con Luciano Rezzolla, astrofisico della Goethe University di Francoforte e principal investigator di BlackHoleCam, che ci spiega l’importanza di questo risultato e cosa si potrebbe ancora fare, soprattutto con un altro buco nero supermassiccio di nostro interesse.
Questa nuova immagine sembra del tutto simile alla precedente: è cosa buona e giusta?
«La nuova immagine, appena pubblicata, ha tutte le caratteristiche che ci aspettiamo da M87*: lo stesso ring con questa asimmetria nord-sud legata all’inclinazione del disco. Le dimensioni dell’ombra sono esattamente le stesse dell’immagine precedente, entro l’ordine degli errori rilevati. La cosa più rilevante è che in questa immagine il massimo della luminosità è decisamente più chiaro e intenso, e spostato leggermente in basso a destra rispetto a quella che abbiamo visto nel 2017. Il fatto che la nuova immagine sia molto simile può apparire come noioso ma è invece da vedere come un grosso successo perché questo è proprio quello che ci aspettiamo. I tempi scala di variazione dell’emissione su scale dell’orizzonte di M87 sono dell’ordine di giorni, 24 o 48 ore, e non c’è nessuna ragione di credere che l’immagine del 2018 sia correlata in qualche modo con quella del 2017, se non per quegli aspetti che cambiano su tempi scala molto più lunghi, vale a dire, la massa del buco nero (che cambia su tempi scala di milioni di anni) e l’orientazione dello spin (che può cambiare per accrescimento o precessione). Quindi ci aspettiamo sempre una “ciambella”, asimmetrica, più luminosa in basso e, laddove la luminosità in basso è presente, la sua posizione dipende dalle condizioni in cui è stata fatta l’immagine nel 2018. Il fatto che le nostre aspettative siano state rispettate è una grossa conferma che la nostra analisi era corretta e che la teoria torna perfettamente con le osservazioni».
Quindi la novità di questa immagine, che in realtà sembra non portare con sé nulla di nuovo, risiede solo nell’utilizzo di nuovi dati?
«Ci sono due importanti novità, sia dal punto di vista dell’acquisizione dei dati, sia dal punto di vista della loro analisi. L’acquisizione dei dati beneficia dell’impiego di due nuovi telescopi, uno in particolare è il Greenland Telescope, che è entrato in funzione nel 2018 e queste immagini sono state tra le prime che ha fatto. Si tratta di un telescopio gestito da un gruppo di scienziati dell’Academia Sinica in Taiwan e di Harvard, situato in Groenlandia, ed è la controparte del South Pole Telescope (quindi su zone caratterizzate da una latitudine estremamente alta o bassa, rispettivamente, che hanno la possibilità di vedere la sorgente per molto tempo). L’altro telescopio è Lmt (il Large Millimeter Telescope, in Messico) che ha fatto osservazioni con un disco di 50 metri e quindi ci ha aiutato ad aumentare la sensibilità. L’impiego di questi due telescopi aggiuntivi ci ha permesso di migliorare la risoluzione angolare poiché nell’interferometria, più linee di base si hanno, maggiori sono le possibilità di vedere i dettagli. Dal punto di vista dell’analisi dei dati, abbiamo utilizzato le stesse pipeline usate sui dati del 2017, più tutta una serie di altre pipeline che sono state create nel frattempo. Alla fine, abbiamo otto diverse pipeline che gestiscono l’analisi dei dati e tutte queste sono state confrontate, validate e calibrate tra di loro. Quindi possiamo dire che è cresciuta la qualità dei dati e anche la confidenza con cui li analizziamo».
Insomma, M87* sembra essere un buco nero abbastanza noioso…
«Proprio perché M87* è un buco nero che cambia lentamente, non ci aspettiamo di vedere grandi cambiamenti. Cambia troppo lentamente – almeno per le nostre scale temporali umane – per vedere cose che abbiano a che fare con le proprietà di un buco nero come predetto dalla relatività generale, ossia la massa e lo spin. Inoltre, le nostre osservazioni non sono abbastanza frequenti per poter osservare delle caratteristiche che potrebbero cambiare a distanza di pochi giorni, come ad esempio un’emissione concentrata da uno spot che si sposti nel disco di accrescimento. Sarebbe interessante poter fare delle osservazioni su periodi di tempo un po’ più lunghi e ravvicinati in tempo (le osservazioni di Eht sono fatte annualmente in primavera) ma purtroppo non sono in programma, perché già riuscire ad avere una settimana di fila non è assolutamente facile, visto che significa vincere una serie di proposal e la competizione per questi telescopi è agguerrita».
Luciano Rezzolla, astrofisico della Goethe University di Francoforte e principal investigator di BlackHoleCam. Crediti: L. Rezzolla
Questa nuova campagna osservativa ha riguardato anche l’osservazione di SgrA*?
«Sì, queste nuove osservazioni le abbiamo anche per SgrA* ma non le abbiamo ancora pubblicate… lo faremo presto. SgrA* ha le solite complicazioni, perché è molto più variabile ed è molto più difficile fare un’analisi. Il problema delle osservazioni di SgrA è che la sua distribuzione di luminosità delle immagini statiche non ci dice necessariamente qualcosa di fisico. Ad esempio, le tre macchie più luminose evidenti nell’immagine del buco nero al centro della nostra galassia pubblicate nel 2022 non sono il risultato di concentrazioni di emissione particolare, poiché quell’immagine è la media di quattro immagini rappresentative delle quattro categorie nelle quali abbiamo distinto le migliaia di immagini che sono compatibili con le osservazioni. In questo senso, quello che potrebbe succedere con una nuova immagine di SgrA* è che si otterrà qualcosa di completamente diverso. Per quanto poco intuitivo, questo sarebbe un’altra forte conferma della robustezza delle nostre conclusioni. Detto questo, il vero progresso per SgrA* arriverà quando avremo “domato” la tecnica che chiamiamo di “immagine dinamica” (dynamical imaging) e che ci consentirebbe di fare dei brevi filmati di SgrA*».
Quindi riuscire a fare queste immagini non una volta ogni due o tre anni bensì più volte nello stesso anno?
«Attualmente, facciamo l’osservazione interferometrica di circa otto-dieci ore e solo alla fine di questo tempo abbiamo ottenuto informazioni sufficienti per fare un’immagine statica. Fare imaging dinamico significa provare a ottenere un’immagine anche quando non si ha l’intera informazione (ossia la traccia nel piano uv), bensì soltanto una parte. Questo ci consente di avere un’immagine parziale che è meno dettagliata ma, con il software, è possibile compensare questa mancanza di informazioni estrapolando quello che ci si aspetta di ottenere. Chiaramente, le estrapolazioni comportano delle assunzioni su emissioni che avverranno in un futuro prossimo, e questo ha delle implicazioni su quello che si ottiene, e sulla sua robustezza. Per queste ragioni ci sono ancora molti aspetti di questa tecnica che dobbiamo comprendere a fondo».
Quindi, riassumendo, utilizzando due radiotelescopi e una nuova campagna osservativa avete confermato i risultati precedenti.
«Sì, e questo è importante per una serie di ragioni. Quello che abbiamo visto è esattamente quello che ci aspettavamo. Ad esempio, se avessimo visto che nella ciambella l’emissione fosse stata nella zona in alto, questo sarebbe stato in contraddizione con quello che abbiamo concluso in passato, perché abbiamo associato l’asimmetria dell’immagine all’inclinazione del disco. L’inclinazione del disco non può variare se non sui tempi scala di variazione dello spin, e i tempi di variazione dello spin non possono cambiare da un anno all’altro perché, o tramite accrescimento o tramite precessione, comunque i tempi scala sono molto più lunghi di quelli dal 2017 al 2018. Quindi, questo risultato è importante perché va a confermare la robustezza dell’interpretazione. Secondo la relatività generale e la fisica dei plasmi, ciò che vediamo è esattamente quello che ci aspettavamo, in accordo con un flusso di accrescimento turbolento e qui la asimmetria globale è nord sud. Ma dove siano posizionate le concentrazioni di luce dipende dal momento in cui stiamo guardando. Confermare un risultato non è mai tanto entusiasmante quanto trovare il risultato la prima volta, ma per gli scienziati significa anche un grosso sospiro di sollievo».
Per saperne di più:
- Leggi il comunicato stampa
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The persistent shadow of the supermassive black hole of M 87” della The Event Horizon Telescope Collaboration
Mistero sotto il mantello
Gli autori dello studio hanno utilizzato campioni di roccia provenienti dalla missione Apollo 17, del 1972. Durante l’ultima passeggiata spaziale, Harrison Schmitt è stato fotografato in piedi accanto a un enorme masso lunare da Eugene Cernan, ultima persona a camminare sulla Luna. Nasa/Jsc
La storia vulcanica della Luna è il racconto intrigante di un’attività basaltica che si è protratta per almeno 2 miliardi di anni. Tuttavia, rispetto alle rocce terrestri, la diversità nella composizione mineralogica dei campioni lunari restituiti dalle missioni Apollo della Nasa ha continuato a sfidare la comprensione scientifica. Noti come high-Ti basalts per la quantità insolitamente elevata di titanio, i basalti lunari da sempre hanno incuriosito gli studiosi del nostro satellite naturale.
Una ricerca pubblicata questa settimana su Nature Geoscience, guidata dalle università di Bristol nel Regno Unito e di Münster in Germania, sembra ora aver risolto questo rompicapo della geologia lunare, individuando un passaggio fondamentale nella genesi di magmi speciali alla base del processo di formazione delle rocce lunari.
Grazie alla combinazione di esperimenti in laboratorio – con rocce fuse ad alta temperatura – e di sofisticate analisi isotopiche sui campioni lunari, i ricercatori hanno identificato la reazione critica e sono riusciti, per la prima volta, a “imitare” in laboratorio il processo di formazione dei basalti ad alto contenuto di titanio. Il meccanismo chiave consisterebbe in un processo reattivo avvenuto all’interno della Luna, nel profondo del suo mantello, miliardi di anni fa, durante il quale si sarebbe verificato uno scambio degli elementi chimici ferro (Fe) e magnesio (Mg) tra il magma e le rocce circostanti, modellando e modificando così la composizione chimica e le proprietà fisiche della fusione.
Campione di roccia lunare “high-Ti basalt” raccolto dall’Apollo 17 nel cratere Camelot. Ha massa di 1 kg ed è costituito principalmente dai pirosseno, plagioclasio e ilmenite. Presenta grani minerali grossolani che riflettono il raffreddamento e la solidificazione sotto la superficie lunare. Crediti: Nasa
«L’origine delle rocce vulcaniche lunari è una storia affascinante», dice Tim Elliott dell’Università di Bristol, coautore della ricerca. «È come studiare una “valanga”, instabile e di dimensioni planetarie, piena di cristalli creati dal raffreddamento di un oceano di magma primordiale». Secondo la teoria dell’oceano magmatico lunare (Lmo), infatti, l’interno della Luna sarebbe stato modellato dalla progressiva cristallizzazione di un oceano magmatico che, solidificandosi, avrebbe prodotto un mantello a strati, dominato da rocce ricche di minerali di olivina e ortopirosseno, e una crosta lunare di anortosite. Le concentrazioni sorprendentemente elevate di titanio in alcune parti della superficie lunare sono note fin dagli anni ’60 e ’70, quando le prime missioni lunari hanno restituito campioni di lava antica solidificata prelevati dalla crosta lunare. Inoltre, una mappatura più recente, effettuata da un satellite in orbita, ha confermato che questi magmi high-Ti basalts sono molto diffusi sulla Luna. Affinché si formino, considerando la geologia lunare, è necessaria una grande sorgente di titanio, e un’ipotetica fonte potrebbe essere quella nei “serbatoi” di ilmenite – un minerale ricco di ferro e titanio – presenti nel mantello lunare.
La reazione di fusione-interazione individuata dal team di ricerca spiegherebbe non solo l’alto contenuto di titanio nelle rocce lunari ma anche la bassa densità di questi basalti rispetto a rocce simili sul nostro pianeta, caratteristica che sicuramente ha dato origine a numerose eruzioni diffusive prima che la Luna cessasse la sua attività vulcanica.
Mappa che mostra l’abbondanza di titanio sulla superficie della Luna, ottenuta dalla sonda Clementine della Nasa. Le parti rosse indicano concentrazioni estremamente elevate rispetto alle rocce terrestri. Crediti: Lunar and Planetary Institute
«Finora i modelli non erano stati in grado di creare composizioni magmatiche che corrispondessero alle caratteristiche chimiche e fisiche essenziali dei basalti ad alto tenore di titanio», spiega il primo autore dello studio, Martijn Klaver, ricercatore all’Istituto di mineralogia dell’Università di Münster. «È stato particolarmente difficile capire il perché di una densità così bassa da consentire la fuoriuscita di magma fino a circa tre miliardi e mezzo di anni fa». Le successive misurazioni effettuate sui campioni di roccia riprodotti in laboratorio hanno rivelato una composizione isotopica distintiva: in pratica, un’impronta digitale delle reazioni riprodotte dagli esperimenti. «Se la presenza di un tipo di magma unico per la Luna si sospettava da tempo», conclude Elliott, «spiegare come questi magmi siano arrivati in superficie, tanto da essere campionati dalle missioni spaziali, è stato un problema spinoso. È fantastico aver risolto un tale dilemma».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Titanium-rich basaltic melts on the Moon modulated by reactive flow processes” di Martijn Klaver, Stephan Klemme, Xiao-Ning Liu, Remco C. Hin, Christopher D. Coath, Mahesh Anand, C. Johan Lissenberg, Jasper Berndt e Tim Elliott.
Le ultime ore di Peregrine
Il lander Peregrine prima del lancio, alloggiato all’interno dell’ogiva del Vulcan della United Launch Alliance. Crediti: Astrobotic
Le cronache spaziali di questi giorni seguono con attenzione le sofferte vicende della missione alla Luna Peregrine, della compagnia privata americana Astrobotic, con base a Pittsburgh in Pennsylvania. Dopo mezzo secolo dalla conclusione delle missioni Apollo (l’ultima, la numero 17, conclusasi nel dicembre 1972), Peregrine avrebbe dovuto inaugurare – così erano i piani – il ritorno degli Stati Uniti sulla superficie lunare, sia pure con una sonda automatica senza uomini a bordo.
Come da sempre, nell’avventurosa corsa alla Luna, si affiancano alle motivazioni scientifiche anche – e soprattutto – motivazioni “politiche”, dato l’indubbio prestigio e il marchio di leadership strategica che riveste la capacità tecnologica di navigare e posarsi su un altro corpo celeste. Impresa, per la verità, riuscita ad assai pochi attori internazionali, dopo la fortunata serie degli allunaggi americani degli anni ’70 – ancor più strabilianti, a questo punto, visti in questa prospettiva storica.
Se l’approdo alla Luna è riuscito al momento solo a quattro Paesi (Unione Sovietica, Stati Uniti, Cina e India), forse a breve cinque se la missione giapponese Slim avrà successo, per quanto riguarda le compagnie private siamo ancora a zero. Oltre alla missione Peregrine, infatti, solo gli israeliani con la sonda Beresheet e i giapponesi con la Hakuto-R hanno tentato, in anni recenti, il “colpo grosso” di un allunaggio morbido. In ambedue i casi però le difficoltà tecniche dell’operazione hanno portato allo schianto delle sonde, rispettivamente l’11 aprile 2019 e il 25 aprile 2023.
Questa poteva essere anche la sorte di Peregrine, purtroppo sfuggita di mano al controllo da terra appena sette ore dopo il lancio per un problema al sistema propulsivo di bordo (forse la rottura di un serbatoio), che ha ostacolato la corretta orientazione verso il Sole dei pannelli fotovoltaici indispensabili per l’alimentazione dei sistemi di bordo. La situazione è stata parzialmente recuperata dalla Astrobotic e, in accordo con la Nasa, è stato deciso che la Peregrine avrebbe fatto una fine forse meno gloriosa e violenta, ma più “ecologica”. Domenica 14 gennaio la sonda infatti è riuscita a modificare il suo cammino puntando di nuovo verso la Terra, dove arriverà nella tarda serata di domani, giovedì 18 gennaio, bruciando in atmosfera sopra l’Oceano Pacifico.
Partita da Cape Canaveral lo scorso 8 gennaio, spinta da un lanciatore Vulcan-Atlas bistadio della United Launch Alliance (Ula, altra compagnia privata statunitense, a supporto delle attività di lancio Nasa) alla missione è stato attribuito il codice Cospar 2024-006 e Norad 58751.
Dopo il lancio, il secondo stadio del Vulcan ha dato l’impulso finale all’astronave in modo da alzarne progressivamente la quota orbitale terrestre fino ad intercettare ed entrare nella regione di influenza gravitazionale della Luna (la cosiddetta “sfera di Hill” lunare). Alla fine del suo impulso, l’ultimo stadio del missile si è staccato dall’astronave e ha continuato la sua corsa lasciando il nostro pianeta ed entrando in orbita attorno al Sole. L’atterraggio della sonda sulla superficie lunare era previsto per il 23 febbraio 2024.
L’astronave Peregrine, osservata il 12 gennaio 2024 alle 21:30 Ut dal team Inaf Oas di Sst da Loiano (BO) con lo strumento Tandem dell’Inaf, dedicato alle attività di Sorveglianza spaziale. Al momento dell’osservazione l’oggetto si trovava ad una distanza di 389mila km dalla Terra, ormai in prossimità della Luna, appena prima dei problemi tecnici che hanno poi abortito la missione riprogrammandone il ritorno verso la Terra. L’immagine è una animazione di quattro esposizioni da 120 secondi ciascuna. Il campo è uno zoom di 20 x 16 minuti d’arco (circa 1/40 del reale campo di vista di Tandem). Peregrine è il debole oggetto (di magnitudine V~18) indicato dalla freccia, in movimento verso destra. Crediti: A. Carbognani e R. Gualandi/Team Sst Inaf Oas Bologna
A valle di queste manovre, il 12 gennaio alle 21:30 Ut, l’astronave Peregrine è stata intercettata con i telescopi dello strumento Tandem per la sorveglianza spaziale e tracking (Sst), presso la Stazione osservativa di Loiano (BO) dell’Osservatorio Inaf di astrofisica e scienze dello spazio (Oas) di Bologna (Figura 1). Immediatamente dopo, in preparazione alle ulteriori delicatissime manovre di “sgancio” orbitale e avvicinamento alla superficie, sono sopraggiunti i problemi al sistema propulsivo portando domenica scorsa alla definitiva decisione di abortire la missione e fare rientro a Terra.
«La disintegrazione in atmosfera avverrà circa alle 23 (ora di Greenwich) del 18 gennaio», dice Albino Carbognani, astronomo all’Inaf di Bologna, sulla base delle osservazioni Tandem insieme a quelle di altri osservatori. «Considerando le osservazioni astrometriche delle ultime ore, la Peregrine probabilmente brucerà il 18 gennaio alle 21 ora di Greenwich nel cielo sopra l’Oceano Pacifico». La stima del luogo di impatto con l’atmosfera va presa comunque con cautela, perché potrebbero esserci cambiamenti di rotta dell’ultimo momento a vanificare le previsioni. Va inoltre sottolineato che durante il rientro la navicella verrà completamente polverizzata.
L’ultimo stadio del vettore Vulcan-Atlas, che ha portato l’astronave Peregrine in orbita lunare, osservato il 15 gennaio 2024 alle 18:20 Ut da Loiano (BO) con il telescopio “G.D. Cassini” di 152 cm dell’Inaf Oas, equipaggiato con la camera BFosc. Al momento dell’osservazione l’oggetto, separatosi dalla sonda principale, si trovava ad una distanza di 1,61 milioni di km dalla Terra, ormai in orbita attorno al Sole. Crediti: A. Carbognani e R. Gualandi/Team Sst Inaf Oas Bologna
Qualche giorno dopo le osservazioni Tandem, il 15 gennaio, sempre da Loiano, questa volta l’occhio più potente del telescopio Cassini di 152 cm di diametro, equipaggiato con la camera BFosc, ha intercettato anche l’ultimo stadio del Vulcan, ormai “perso” nello spazio interplanetario. «Sulla base alle posizioni astrometriche ottenute da Loiano», continua Carbognani, «sembra che l’ultimo stadio del Vulcan attualmente si muova su un’orbita eliocentrica con semiasse maggiore di 1.1 unità astronomiche, a bassissima inclinazione sull’eclittica e a moderata eccentricità».
Sarà dunque quella di una luminosa meteora sul cielo australiano o nell’Oceano Pacifico la fine prevista per la piccola astronave Peregrine (delle dimensioni di circa due metri e del peso di una tonnellata, con circa 100 kg di carico utile).
A bordo, oltre agli esperimenti scientifici, si trovano anche campioni di ceneri del creatore di Star Trek Gene Roddenberry e del famosissimo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke: non riposeranno sulla Luna quindi, ma il destino ha voluto che facciano ritorno a casa, per disperdersi nella nostra atmosfera.
Chi volesse seguire la vicenda della Peregrine può leggere le press releaseche la Astrobotics emette quotidianamente sul suo sito.
L’Etna svela i segreti del vulcanismo su Venere
Il vulcano venusiano Idunn Mons mostrato nei dati radar della sonda Magellano (aree marroni) con una sovrapposizione dei modelli di calore osservati dalla sonda Venus Express. La scala verticale è aumentata di un fattore 30. Crediti: Esa/Nasa/Jpl
Una soluzione per studiare il vulcanismo di Venere proprio dietro l’angolo? A risolvere il problema viene in aiuto un team internazionale di ricercatori guidati dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) in collaborazione con i vulcanologi dell’Osservatorio etneo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv-Oe), i quali hanno proposto l’Etna come un possibile analogo terrestre per lo studio di Idunn Mons, un vulcano venusiano forse tutt’ora attivo e che in base ai dati attualmente disponibili si ritiene abbia eruttato in tempi geologici recenti.
Venere e i suoi vulcani (attivi e non) sono tra gli obiettivi principali delle future missioni – quelle della Nasa Veritas e Davinci, la missione Esa EnVision e la missione Isro Shukrayaan-1 – che studieranno il gemello della Terra, il secondo pianeta più vicino al Sole. Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Icarus riaccende i riflettori sull’Etna, uno tra i vulcani attivi più monitorati al mondo. Gli studi sul vulcano siciliano permetteranno ai geologi di testare tecniche di analisi dei dati radar per l’individuazione di attività vulcanica in corso su Venere. Allo studio hanno partecipato Nasa, Università di Londra, Accademia delle scienze di Mosca, Indian Space Research Organisation, Università degli Studi di Catania, Università Sapienza di Roma, Università degli Studi di Pavia, Coventry University e Universidad Rey Juan Carlos di Madrid.
«La comparazione ha evidenziato che entrambi i vulcani interagiscono con una zona di rift», spiega Piero D’Incecco, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf d’Abruzzo, «e ha messo in luce la presenza sui fianchi di Idunn Mons di strutture vulcaniche di piccole dimensioni, morfologicamente simili ai coni di scorie presenti sui fianchi dell’Etna».
L’Etna è un vero e proprio laboratorio naturale a cielo aperto per i geologi che si occupano di vulcanismo, perché facile da raggiungere e perché è possibile effettuare osservazioni in-situ prelevando campioni di lava che saranno poi comparati con quelli prodotti dalle future missioni su Venere. I dati aiuteranno a definire il livello di similarità con le lave dei vulcani venusiani.
Ripresa aerea del Monte Etna e dei crateri sommitali nel 2004. Crediti: S. Branca/Ingv
«La facilità di accesso permetterà anche di utilizzare l’Etna come possibile area di test per operazioni di perforazione del suolo da parte dei lander che atterreranno sulla superficie di Venere grazie a future missioni come la Roscosmos Venera-D», continua D’Incecco, di recente nominato nel Comitato direttivo del Venus Exploration Analysis Group (Vexag) della Nasa, per un mandato di tre anni.
La comunità scientifica concorda sul fatto che il vulcanismo su Venere sia comparabile al vulcanismo di tipo hot-spot terrestre. Un esempio lampante sono i vulcani hawaiani, effusivi e caratterizzati da lave molto fluide. La presenza su Venere di strutture vulcaniche morfologicamente simili ai coni di cenere terrestri, che invece sono tipici di un vulcanismo esplosivo, apre una serie di interrogativi sulla possibilità che anche su Venere – seppur localmente – possano verificarsi episodi di vulcanismo esplosivo. «Le future missioni su Venere ci aiuteranno a far luce anche su questa possibilità, che se confermata rivoluzionerebbe la visione attuale che abbiamo del vulcanismo venusiano», aggiunge il ricercatore Inaf.
«Il vulcano Etna a partire dal XIX secolo in poi è stato, e continua a essere, un laboratorio di ricerca per tutta la comunità scientifica italiana e internazionale riguardo gli studi di tipo geologico, vulcanologico, geofisico e geochimico», dice Stefano Branca, direttore dell’Osservatorio etneo dell’Ingv e coautore dell’articolo, «e, grazie al sistema di monitoraggio multiparametrico dell’Osservatorio etneo dell’Ingv, è uno dei vulcani meglio studiati al mondo. Questo lavoro evidenzia ancora di più questo aspetto anche per quanto riguarda lo studio del vulcanismo planetario, come nel caso di Venere. Infatti le notevoli conoscenze sulla storia eruttiva del vulcano siciliano, acquisite durante gli studi realizzati per la pubblicazione della carta geologica dell’Etna alla scala 1:50.000, unitamente alla conoscenze sull’attività recente hanno permesso di fare una comparazione morfostrutturale con il vulcano Idunn al fine di individuare possibile evidenza di vulcanismo attivo su Venere».
Raccolta di campioni di lava sull’Etna, Sicilia, per studiarli e compararli ai campioni di lava che verranno raccolti in futuro dai vulcani di Venere. Crediti: P. D’Incecco/Inaf
L’analisi delle differenze e delle analogie tra strutture vulcaniche di pianeti diversi come Venere e Terra ci ricorda che non esiste un analogo “perfetto” e che, quindi, è fondamentale studiare quanti più analoghi possibile, giacché ogni vulcano terrestre può aiutarci ad approfondire e comprendere meglio un aspetto specifico del vulcanismo venusiano.
«Questo studio rappresenta il primo tassello di un’importante collaborazione multidisciplinare tra astrofisici e vulcanologi dell’Osservatorio etneo dell’Ingv. Una sinergia che apre affascinanti capitoli di ricerca e getta nuova luce sui misteri del vulcanismo di Venere», conclude Branca.
L’articolo pubblicato su Icarus è il primo tassello del progetto Avengers (Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), a guida Inaf, ed è stato presentato alla Lunar and Planetary Science Conference, a Houston, a marzo del 2023. Questo progetto, durante i prossimi anni, si occuperà proprio di selezionare e studiare una serie di vulcani attivi sulla Terra che possano fungere da analoghi per Venere.
Per saperne di più:
- Leggi su Icarus l’articolo “Mount Etna as a terrestrial laboratory to investigate recent volcanic activity on Venus by future missions: a comparison with Idunn Mons, Venus”, di P. D’Incecco, J. Filiberto, J. B. Garvin, G. N. Arney, S. A. Getty, R. Ghail, L. M. Zelenyi, L. V. Zasova, M. A. Ivanov, D. A. Gorinov, S. Bhattacharya, S. S. Bhiravarasu, D. Putrevu, C. Monaco, S. Branca, S. Aveni, I. López, G. L. Eggers, N. Mari, M. Blackett, G. Komatsu, A. Kosenkova, M. Cardinale, M. El Yazidi e G. Di Achille
“I neuroni di Dio”, di Marco Salvati
“I neuroni di Dio” di Marco Salvati, Castelvecchi editore, 2023 (120 pagine, 15 euro)
Chi siamo, Dove andiamo? Dio esiste? Niente di meno che queste sono le domande a cui l’astrofisico Marco Salvati vuole rispondere nel suo libro d’esordio: I neuroni di Dio (Castelvecchi Editore, 2023).
Al lettore Salvati dichiara subito le sue intenzioni – voler rispondere alle grandi domande “dopo mezzo secolo di lavoro in fisica” – senza ricorrere ad alcun escamotage. Le premesse metodologiche sono solide: tutto ciò che esiste può essere indagato e capito solo tramite la ragione. Il presupposto è che tutto sia fisico, e la visione della realtà proposta da Salvati è totalmente materialista, senza alcun dualismo tra spirito e materia: è tutto materia. La realtà si presenta stratificata ed è possibile afferrarla solo con il metodo razionale, capace di spiegare tutto, incluso i sentimenti. “È sempre una catena di cause ed effetti che conduce a un grande onore o a un grande litigio”, scrive l’autore nelle prime pagine.
Se queste sono le premesse chiare di chi scrive, deve essere altrettanto chiaro a chi legge che si tratta di un libro impegnativo, pensato per chi padroneggia almeno le basi della fisica e soprattutto non si fa scoraggiare dall’arrampicata logica che capitolo dopo capitolo lo porterà alla vetta delle (grandi) risposte. Una vetta raggiungibile dopo cento pagine di ragionamenti, articolate in ventisei capitoli brevi ma densissimi.
La figura del fisico e in generale dello scienziato è caratterizzata da alcuni tratti molto chiari tra cui la superbia, il coraggio e l’onestà. “Il più grande difetto del fisico”, scrive Salvati., “è la superbia, la convinzione di potere affrontare qualunque problema. Il suo più grande merito è quello di correre il rischio, e andare all’assalto di qualunque problema sapendo di non potere barare: una certezza è una certezza, una ipotesi è una ipotesi, ed è obbligatorio comunicare entrambe a tutti senza barare”.
Il fisico è quasi una guida razionale sul funzionamento del mondo, senza traccia di trascendenza: “Noi siamo i veri filosofi, eredi dei primi filosofi di perí physeos, de rerum natura”. Il sistema di affermazioni con cui viene descritta la realtà – una realtà non necessariamente del tutto comprensibile – è caratterizzato da diversi gradi di certezza. Ci sono affermazioni condivise e generalmente accettate, altre controverse e a volte rifiutate, altre ancora solo possibili e ancora non prevalenti nel sistema di conoscenza acquisite. L’autore sorvola senza troppe spiegazioni quando si tratta delle prime due categorie di affermazioni (il libro non ha una bibliografia di riferimento), esponendosi però in modo originale in alcuni meandri della fisica quasi del tutto astratti, almeno apparentemente.
Il viaggio del lettore parte da un assunto di fondo condiviso da tutti, almeno a livello intuitivo: che il tempo scorra ininterrottamente sempre nella stessa direzione. Anche che nel tempo presente restiamo confinati senza possibilità di fuga in avanti o all’indietro, diventa chiaro fin dai primi capitoli: il miraggio dei viaggi nel tempo resta un sogno impossibile. Salvati esamina e discute in modo originale il paradosso “del nonno morto”, che non riguarda tanto la possibilità di ritornare nel passato, quanto piuttosto la possibilità di alterare il passato dall’istante futuro da cui siamo partiti.
Punto nodale su cui Salvati centra la sua attenzione è il problema della misura e dei fenomeni superluminali nel cosiddetto entanglement (intreccio, sovrapposizione di diversi stati), fino a discutere di un’ipotetica teoria del tutto come punto di arrivo unitario del sapere fisico a cui nessuno è ancora arrivato. Questa ipotetica teoria globale definirebbe il contatto fra il mondo macroscopico e quello microscopico, unendo in modo coerente e razionale il tutto.
Senza scendere qui nel dettaglio dei vari argomenti trattati, quella proposta da Salvati è anche una propria personale visione del mondo e della sua interpretazione, soggettiva pur senza perdere mai il rigore del metodo razionale, e frutto dell’approfondimento di temi estremamente complessi della fisica fondamentale durato per tutta la vita dell’autore.
È in questo punto di contatto l’entità che chiamiamo Dio? Noi che ruolo abbiamo? Evitare lo spoiler è impossibile, perché la risposta è contenuta già nel titolo del libro – I neuroni di Dio – e Salvati conclude chiudendo mirabilmente la sua parabola logica: “Noi autocoscienze individuali possiamo trovare conforto nella contemplazione del sistema cosmico di cui facciamo parte, e nella consapevolezza dell’opera di conoscenza e di creazione a cui partecipiamo senza limiti di tempo e di spazio: la nostra parabola è una tessera del fiat lux eterno, noi siamo i neuroni di dio”.
Buona lettura.
Per incontrare l’autore:
- Il libro verrà presentato oggi, mercoledí 17 gennaio 2024, alle ore 18, alla libreria Ubik di via Irnerio 27 a Bologna. Modera Flavio Fusi Pecci
La difesa planetaria in realtà aumentata
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Immagine tratta dal trailer ufficiale. Crediti: Inaf
Aurore boreali, meteore e meteoriti, comete e rifiuti spaziali: queste le esperienze in realtà aumentata che è possibile sperimentare con la nuova applicazione di Sorvegliati spaziali, progetto di divulgazione dell’Inaf dedicato alla difesa planetaria. Se avete sempre sognato di poter osservare – a distanza di sicurezza – l’impatto di un asteroide, o di poter ammirare l’aurora boreale in qualsiasi periodo dell’anno, la nuova applicazione targata Inaf fa al caso vostro.
Sorvegliati spaziali è un progetto che nasce da un’idea di Daria Guidetti dell’Inaf di Bologna nel 2021, sviluppato insieme a ricercatrici e ricercatori dell’Inaf in collaborazione con l’azienda Demarka. A oggi, il progetto si avvale di un sito web costantemente aggiornato e costellato di video, infografiche notizie, recensioni che riguardano lo studio di eventi celesti che potrebbero avere effetti sulla Terra, come possibili impatti di asteroidi e passaggi ravvicinati di comete, meteore e meteoriti, nonché di uno spettacolo teatrale per raccontare il lavoro delle donne e degli uomini pionieri delle ricerche sulla difesa planetaria.
L’app è stata presentata in anteprima alla Iaa Planetary Defense Conference, a Vienna, lo scorso aprile e poi proposta come laboratorio per il pubblico in occasione dell’Asteroid Day 2023 durante l’evento “Sorvegliati spaziali – Asteroidi fastidiosi e come affrontarli” presso la Biblioteca Salaborsa a Bologna (26 giugno – 2 luglio 2023). Da oggi è possibile scaricare l’app da App Store e Google Play per dispositivi iOS e Android, in maniera totalmente gratuita.
Attraverso l’uso di nuove tecnologie come la realtà aumentata è possibile accedere a contenuti aggiuntivi e approfondire le tematiche delle macro aree che compongono il progetto, in maniera coinvolgente e interattiva. «L’esperienza più divertente che si può fare con questa app», spiega Guidetti, «è quella di simulare l’arrivo di un asteroide nel proprio ambiente, con tanto di luce, esplosione, boato e ricerca delle meteoriti a terra. Ma anche quella della sezione meteorologia spaziale è molto bella: crea un’aurora colorata e cangiante e si può anche sentirne il suono grazie alla trasformazione in onde sonore di segnali radio emessi da un’aurora reale».
Per attivare l’esperienza, occorre installare l’applicazione “Sorvegliati spaziali” sul proprio dispositivo mobile e selezionare dal menù la voce “Esplora in Ar”. Se si possiede la brochure ufficiale del progetto, selezionare la voce “con brochure”, altrimenti proseguire cliccando su “senza brochure”. «Consiglio di provare tutte le esperienze», conclude Guidetti, «e di farsi scattare delle fotografie mentre si è immersi nel fenomeno astronomico per condividerle con gli amici, magari usando l’hashtag #sorvegliatispaziali. E rimanere aggiornati sul progetto: infatti, l’esperienza dell’app non finisce così, c’è l’intenzione di migliorare ed espandere alcune delle esperienze»
Guarda il trailer del lancio dell’app di Sorvegliati spaziali:
A caccia del dipolo del fondo di raggi gamma
Questa rappresentazione artistica mostra l’intero cielo dei raggi gamma con cerchi magenta che illustrano l’incertezza nella direzione da cui sembrano arrivare più raggi gamma ad alta energia della media. In questa vista, il piano della nostra galassia attraversa il centro della mappa. I cerchi racchiudono regioni con una probabilità del 68% (all’interno) e del 95% di contenere l’origine di questi raggi gamma. Crediti: Goddard Space Flight Center della Nasa
Analizzando 13 anni di dati del telescopio spaziale a raggi gamma Fermi della Nasa, gli astronomi hanno scoperto qualcosa di inaspettato e ancora inspiegabile, al di fuori della Galassia: un segnale in una direzione simile e con una ampiezza quasi identica a un’altra caratteristica attualmente inspiegabile, quella prodotta da alcune delle particelle cosmiche più energetiche mai rilevate.
«Abbiamo trovato un segnale molto più forte di quello che stavamo cercando, e in una parte diversa del cielo», dichiara Alexander Kashlinsky, cosmologo dell’Università del Maryland e del Goddard Space Flight Center, che ha presentato la scoperta al 243° meeting dell’American Astronomical Society a New Orleans. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal Letters il 10 gennaio.
La scoperta, come sottolinea Kashlinsky, è stata del tutto fortuita. Il team era alla ricerca di una caratteristica dei raggi gamma analoga a quella rilevata nel fondo cosmico a microonde (Cmb), la luce più antica dell’universo. Si ritiene che il Cmb si sia originato quando l’universo in espansione si è raffreddato abbastanza da formare i primi atomi, un evento questo che ha permesso alla luce di “svincolarsi” dalla materia e partire per il suo lungo viaggio, permeando il cosmo. Stirata dalla successiva espansione dello spazio negli ultimi 13 miliardi di anni, questa luce è stata rilevata per la prima volta nel 1965, sotto forma di una debole radiazione a microonde distribuita su tutto il cielo.
Negli anni ’70 gli astronomi si resero conto che il Cmb aveva una struttura a dipolo, che fu successivamente misurata con alta precisione dalla missione Cobe (Cosmic Background Explorer) della Nasa. Il Cmb è circa lo 0,12% più caldo della media verso la costellazione del Leone, e più freddo della stessa quantità nella direzione opposta. È ovvio che, per studiare le minuscole variazioni di temperatura del Cmb, dell’ordine del milionesimo di grado, questo segnale dipolare deve essere rimosso.
Gli astronomi ritengono che il pattern dipolare sia il risultato del movimento del Sistema solare rispetto al Cmb a circa 370 chilometri al secondo. Questo movimento dovrebbe dare origine a un segnale di dipolo nella luce proveniente da qualsiasi sorgente astrofisica, ma finora il Cmb è l’unico a essere stato misurato con precisione. «Una misurazione di questo tipo è importante perché un disaccordo con l’ampiezza e la direzione del dipolo Cmb potrebbe fornirci uno sguardo sui processi fisici che operano nell’universo primordiale», spiega il coautore Fernando Atrio-Barandela, professore di fisica teorica presso l’Università di Salamanca in Spagna.
Il team ha pensato che sommando molti anni di dati provenienti dallo strumento Lat (Large Area Telescope) di Fermi, che scansiona l’intero cielo molte volte al giorno, si sarebbe potuto rilevare un modello di emissione di dipolo correlato nei raggi gamma. Grazie agli effetti della relatività, il dipolo dei raggi gamma dovrebbe essere amplificato di ben cinque volte rispetto al Cmb attualmente rilevato.
Così, gli scienziati hanno combinato 13 anni di osservazioni del Fermi Lat di raggi gamma superiori a circa 3 miliardi di elettronvolt (GeV); per confronto, la luce visibile ha energie comprese tra circa 2 e 3 elettronvolt. Hanno rimosso tutte le sorgenti risolte e identificate e hanno eliminato il piano centrale della Via Lattea per analizzare il fondo extragalattico di raggi gamma.
«Abbiamo trovato un dipolo di raggi gamma, ma il suo picco si trova nel cielo meridionale, lontano dal Cmb, e la sua magnitudine è 10 volte superiore a quella che ci aspetteremmo dal nostro moto», riferisce il coautore Chris Shrader, astrofisico dell’Università Cattolica d’America a Washington e di Goddard. «Anche se non è quello che stavamo cercando, sospettiamo che possa essere collegato a una caratteristica simile segnalata per i raggi cosmici di più alta energia».
In alto: una mappa all-sky dei raggi gamma extragalattici in cui il piano della Galassia, mostrato in blu scuro dove i dati sono stati rimossi, attraversa il centro. Il punto e i cerchi rossi indicano la direzione approssimativa da cui sembrano arrivare più raggi gamma della media. In basso: un’analoga mappa all-sky che mostra la distribuzione dei raggi cosmici ad altissima energia rilevati dall’Osservatorio Pierre Auger in Argentina. Il rosso indica le direzioni da cui arriva un numero di particelle superiore alla media, il blu quelle con un numero di particelle inferiore alla media. Crediti: Kashlinsky et al. 2024 e Collaborazione Pierre Auger
I raggi cosmici sono particelle cariche accelerate, per lo più protoni e nuclei atomici. Le particelle più rare ed energetiche, chiamate Uhecr (ultrahigh-energy cosmic rays), trasportano più di un miliardo di volte l’energia dei raggi gamma a 3 GeV e la loro origine rimane uno dei più grandi misteri dell’astrofisica.
Dal 2017, l’Osservatorio Pierre Auger in Argentina ha segnalato un dipolo nella direzione di arrivo degli Uhecr. Essendo carichi elettricamente, i raggi cosmici vengono deviati dal campo magnetico della galassia in misura diversa a seconda della loro energia, ma il dipolo degli Uhecr raggiunge un picco in una posizione del cielo simile a quello che il team di Kashlinsky trova nei raggi gamma. Entrambi hanno grandezze sorprendentemente simili: circa il 7% in più di raggi gamma o particelle rispetto alla media che provengono da una direzione e quantità corrispondentemente minori che arrivano dalla direzione opposta.
Gli scienziati ritengono probabile che i due fenomeni siano collegati: forse, sorgenti non ancora identificate stanno producendo sia i raggi gamma, sia le particelle ad altissima energia. Per risolvere questo enigma cosmico, occorre individuare queste misteriose sorgenti oppure proporre spiegazioni alternative per entrambe le caratteristiche.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Probing the Dipole of the Diffuse Gamma-Ray Background” di A. Kashlinsky, F. Atrio-Barandela e C. S. Shrader
Il salto dei Centauri
Oggetti dall’aspetto di asteroidi possono comunque diventare attivi per numerose ragioni. Questi oggetti sono noti come Centauri e possono presentare regioni di attività e generare code come le comete. Crediti: Pamela L.Gay/Psi
Se per la mitologia antica erano esseri ibridi – metà umani, metà animale – in astronomia i Centauri sono piccoli corpi simili agli asteroidi per dimensioni, ma alle comete per composizione. Sono ghiacciati per natura, provengono dalla fascia di Kuiper – là dove orbitano i piccoli corpi al di là di Nettuno – e trascorrono la maggior parte della loro vita nelle regioni lontane del Sistema solare, dove l’ambiente è troppo freddo perché l’acqua e gli altri ghiacci possano sublimare. In pratica, sono dei corpi celesti in congelatore. Ma, allora, come fanno alcuni di loro ad assumere l’aspetto di brillanti comete?
Questa è la domanda a cui ha provato a rispondere il gruppo di ricerca internazionale guidato dal Planetary Science Institute con uno studio pubblicato dieci giorni fa su The Astrophysical Journal Letters. «Abbiamo trovato alcune risposte all’annoso mistero del perché alcuni Centauri sono diventati attivi come comete mentre gli altri appaiono tranquilli, come normali asteroidi», dice Eva Lilly del Planetary Science Institute, autrice principale della ricerca. «Nessuno sapeva perché si comportassero così. Non aveva alcun senso. Non c£era alcuna correlazione con le dimensioni, il colore e nemmeno con i tipi di orbite descritte».
Lo studio condotto su 39 Centauri attivi e 17 comete della famiglia di Giove (Jupiter Family Comets, Jfc) ha rivelato caratteristiche sorprendenti. Concentrandosi sugli ultimi cambiamenti orbitali come possibili “inneschi” di attività cometaria, il team di ricerca ha identificato un elemento comune ricorrente nelle passate dinamiche di tutti i corpi celesti analizzati. «Nel nostro lavoro abbiamo studiato la storia dinamica di tutti i Centauri conosciuti, sia attivi che inattivi, e abbiamo abbinato le nostre scoperte alla modellazione termica», hanno spiegato gli autori. «Eravamo interessati a trovare un qualche tipo di schema comune ai Centauri attivi che, però, mancasse ai corpi inattivi della popolazione».
Mappare la storia dinamica dei Centauri è un’impresa complessa, poiché questi asteroidi orbitano nel regno dei pianeti giganti e la loro evoluzione orbitale è governata dall’influenza caotica dell’attrazione gravitazionale di tali pianeti. «Abbiamo utilizzato un integratore numerico, un codice che ci consente di prevedere l’evoluzione dell’orbita di un corpo celeste», spiega Lilly. «Per i Centauri, possiamo conoscere l’orbita solo per un breve periodo di tempo – in genere, diverse centinaia di anni – dopo il quale il caos rende le previsioni imprecise».
Rappresentazione grafica del Sistema solare esterno (cliccare per ingrandire). Il Sole è il punto giallo al centro; sono rappresentate le orbite di Giove, Saturno, Urano e Nettuno. I triangoli arancioni sono gli asteroidi Centauri, i cerchi bianchi sono i Plutini, quelli rossi sono oggetti della Fascia di Kuiper e i quadrati rappresentano le comete. Crediti: Minor Planet Center
Grazie a questo modello, il team di ricerca ha scoperto che tutti i Centauri attivi hanno, nel tempo, subito un incontro ravvicinato con Giove o Saturno e che questo incontro ha causato un grande e repentino cambiamento orbitale, caratterizzato da una brusca diminuzione della lunghezza del semiasse maggiore dell’orbita ellittica. «Abbiamo chiamato questa variazione orbitale a-jump. In pratica», continua Lily, «sarebbe una diminuzione del semiasse maggiore dell’orbita del Centauro, che allo stesso tempo si rimodella passando da un’orbita ellittica a un’orbita più circolare, con un perielio minore. Questo cambiamento è molto rapido, dell’ordine di diversi mesi, e il semiasse maggiore può diminuire di diverse unità astronomiche».
Con un “saltino”, quindi, i Centauri si pongono su orbite in cui le loro superfici possono riscaldarsi più a lungo; sulle nuove orbite, l’onda termica può raggiungere i ghiacci all’interno che sublimano e rendono il Centauro attivo. Un po’ come se questi asteroidi uscissero da uno stato di “ibernazione” per intraprendere una seconda vita – questa volta però da cometa. «Gli a-jump non fanno altro che spostare rapidamente alcuni di questi asteroidi più vicino al Sole», spiega Lilly, «dove l’ambiente è sufficientemente caldo perché i ghiacci subiscano transizioni di fase come la sublimazione e trasformino i Centauri in comete».
«Il nostro modello termico lo conferma», continua l’astronoma, «e i risultati suggeriscono che ogni Centauro, per natura, abbia la capacità di diventare attivo, e che tutto dipenda da come si evolve la sua orbita». Restano, dunque, aperte alcune domande. Tutte le Jfc – le comete della famiglia di Giove – sono periodicamente attive e si comportano per lo più come comete normali, ma l’attività più “calorosa” degli asteroidi è stata osservata, invece, solo in circa il 10 per cento dei Centauri.
L’orbita della cometa 167P/Cineos e la sua posizione nel sistema solare. Identificata nel 2004, nell’ambito del programma Cineos, come un asteroide del gruppo dei Centauri, 167P è uno dei corpi celesti analizzati dal team di ricerca. Crediti: California Institute of Technology/Jpl Small-Body Database
L’analisi degli a-jump – tra i principali fattori scatenanti l’attività cometaria – nelle storie dinamiche recenti dei Centauri e delle Jfc potrebbe essere utilizzata per identificare gli asteroidi che sono attualmente attivi o che potrebbero diventarlo a breve. «Abbiamo già identificato tre Centauri con recenti a-jump. Saranno considerati obiettivi ad alta priorità per il successivo monitoraggio della loro trasformazione in nuove comete», concludono gli autori dello studio.
Tra i corpi celesti analizzati dal gruppo di Lilly, c’è anche 167P/Cineos, una cometa periodica del nostro Sistema solare, scoperta e avvistata nel 2004 dal telescopio Schmidt di 60 centimetri della stazione di Campo Imperatore dell’Inaf d’Abruzzo, dove è stata inizialmente identificata come un asteroide del gruppo dei Centauri. L’orbita della cometa è compresa tra quelle dei pianeti Saturno e Urano: con un periodo orbitale attorno al Sole di circa 65 anni, la cometa ha avuto un incontro ravvicinato con Saturno nel gennaio 1873 e ne avrà uno con Urano nell’estate del 2038.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Semimajor-axis Jumps as the Activity Trigger in Centaurs and High-perihelion Jupiter-family Comets” di Eva Lilly, Peter Jevčák, Charles Schambeau, Kat Volk, Jordan Steckloff, Henry Hsieh, Yanga R. Fernandez, James Bauer, Robert Weryk e Richard J. Wainscoat
AAA… cacciatori di lampi gamma cercansi
Cari lettori e lettrici di Media Inaf, se la vostra passione è l’astrofisica, se conservate il sogno nel cassetto di far parte di un team di ricerca e se volete contribuire alla comprensione di alcuni dei fenomeni astrofisici più affascinanti del cosmo… sappiate che c’è una nuova occasione che fa al caso vostro.
Immagine d’anteprima del progetto “Burst Chaser: Unveiling the Mysterious Origin of Gamma-ray Bursts with Citizen Science”. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center/Zooniverse
Stiamo parlando di “Burst Chaser: Unveiling the mystery origin of gamma-ray burst with citizen science“. È uno degli ultimi progetti pubblicati sulla piattaforma online Zooniverse e, come suggerisce il nome, richiede il vostro aiuto per svelare uno dei misteri ancora irrisolti nel campo dell’astrofisica delle alte e altissime energie: l’origine dei lampi di raggi gamma. Alla guida del progetto c’è la scienziata dell’Università di Tampa Amy Lien, che la settimana scorsa ha presentato l’iniziativa al 243mo meeting dell’American Astronomical Society durante la press conference dedicata a “High-Energy Phenomena and Their Origins”.
I lampi di raggi gamma (gamma ray burst, in inglese) sono intense emissioni di radiazione gamma. Rilevabili anche a distanze di miliardi di anni luce, ciò che rende questi eventi cosmici eccezionali è l’energia che rilasciano durante la loro breve vita: a fronte di una durata che va da poche decine di millisecondi a qualche minuto, i Grb sono infatti in grado di sprigionare più energia di quanta ne produca il Sole in tutta la sua vita.
Una tipica curva di luce dell’evoluzione temporale di un gamma ray burst. Le curve di luce dei Grb mostrano picchi di forma e durata differente che formano una struttura di impulsi (in celeste nell’immagine). I volontari che parteciperanno al progetto dovranno classificare le forme degli impulsi e riconoscere schemi di comportamento. Crediti: Nasa Goddard Space Flight Center/Zooniverse
Secondo i modelli più accreditati, i processi che producono questi flash cosmici sono due: la fusione di due stelle di neutroni o di una stella di neutroni con un buco nero e l’esplosione di una stella massiccia sotto forma di ipernova. I lampi di raggi gamma prodotti dal primo processo durano generalmente da poche decine di millisecondi fino a qualche secondo e sono chiamati Grb corti. I lampi gamma che si palesano nel secondo caso durano invece da due secondi fino a qualche minuto e sono chiamati Grb lunghi.
Uno degli strumenti che hanno a disposizione gli astronomi per dare la caccia ai Grb è l’osservatorio Swift Neil Gehrels della Nasa. Spesso chiamato semplicemente Swift, il satellite scandaglia da 19 anni il cielo alla ricerca di questi flash attraverso osservazioni tempestive alle lunghezze d’onda dei raggi gamma, ma anche nei raggi X, Uv e nelle lunghezze d’onda ottiche per rilevare il cosiddetto afterglow – l’emissione residua che si verifica dopo l’esplosione iniziale. È proprio dal team di Swift arriva la richiesta di aiuto.
Quando il satellite, e in particolare lo strumento Burst Alert Telescope (Bat) rileva un lampo di raggi gamma, i suoi dati vengono trasmessi a terra e immediatamente diffusi a tutti gli interessati attraverso il Network delle Coordinate dei Grb (Gcn). Ciò che gli astronomi vedono sui loro computer è una curva di luce, un grafico in cui il Grb è identificato da una struttura costituita da picchi, chiamati impulsi, di forme e durata diversa. È qui che entrano in gioco i cittadini scienziati, a cui viene chiesto di visualizzare le curve di luce dei Grb e identificare al loro interno schemi comuni nella struttura e nella forma degli impulsi di lampi gamma, fornendo così un sistema di classificazione.
Eleonora Troja, tra gli autori del progetto di Citizen science “Burst Chaser“. Dopo il dottorato di ricerca in fisica presso l’Università di Palermo, Troja ha proseguito gli studi sui lampi gamma al Nasa Goddard Space Flight Center. Dal 2022 è professoressa all’Università di Roma Tor Vergata e associata Inaf
«I volontari dovranno aiutarci a trovare i lampi gamma e a distinguere i loro diversi tipi», spiega a Media Inaf Eleonora Troja, professoressa all’Università di Roma Tor Vergata e associata Inaf, tra i firmatari della proposta progettuale. «Questo sarà fatto attraverso due attività che si chiamano “Dove sono gli impulsi?” e “Le forme degli impulsi”. Abbiamo messo a disposizione tutte le osservazione del satellite Swift, i volontari dovranno dare un’occhiata ai grafici che abbiamo preparato ed evidenziare col mouse la presenza di picchi di luce, che noi chiamiamo impulsi. I più esperti potranno anche cimentarsi nella classificazione di questi impulsi descrivendo la loro forma: singolo, doppio, a corona, o con emissione prolungata».
Nella fase beta del progetto diverse decine di cittadini scienziati hanno già cominciato a classificare numerosi lampi di raggi gamma, iniziando a produrre una statistica che mostra una notevole coerenza nella classificazione degli impulsi Grb. Questi risultati, spiegano gli autori, indicano che l’approccio può essere un metodo fattibile per condurre il primo ampio studio sulla popolazione delle strutture degli impulsi.
«Un programma pilota è stato portato avanti negli Stati Uniti con una ventina di volontari», aggiunge Troja. «Questo ha aiutato molto a semplificare il materiale fornito per renderlo di facile comprensione anche ai non esperti. Nell’ultimo ciclo di test, l’80 per cento delle risposte fornite dai volontari coincideva con quelle degli esperti».
Le statistiche ottenute serviranno per istruire sofisticati algoritmi di apprendimento automatico che potranno facilmente individuare impulsi e modelli ricorrenti di Grb.
«Il problema che abbiamo riscontrato è che i nostri algoritmi non riescono a classificare i lampi gamma tanto bene quanto l’occhio umano», sottolinea a questo proposito la ricercatrice. «Negli ultimi anni in particolare abbiamo trovato sempre più casi di lampi gamma con classificazioni imprecise, notando che i nostri studenti, pur avendo minima esperienza, riuscivano meglio del computer a capire che tipo di esplosione avesse generato quel lampo. Ecco allora che abbiamo pensato di creare un grande campione di lampi gamma classificati dai volontari per poi allenare gli algoritmi di intelligenza artificiale. Vogliamo insegnare al computer a riconoscere quelle forme e schemi di comportamento evidenti all’occhio umano, ma che finora sono sfuggiti ai nostri codici».
Se volete anche voi diventare “cittadini scienziati” e contribuire alla conoscenza della fisica dei Grb, non vi resta che partecipare all’iniziativa accedendo alla pagina web del progetto Burst Chaser (disponibile anche nella sua versione italiana, a cura di Eleonora Troja). Dopo una prima fase di esercitazione, volta a riconoscere la differenza tra un impulso e il rumore, entrerete nel vivo della ricerca. Che la caccia abbia inizio!
Un giovane esopianeta terrestre ricoperto di lava
Come Kepler-10 b, illustrato qui, l’esopianeta Hd 63433 d è un piccolo pianeta roccioso in orbita stretta attorno alla sua stella. È il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni, ed è anche il più vicino di dimensioni terrestri così giovane, con un’età di circa 400 milioni di anni. Crediti: Nasa/Ames/JPL-Caltech/T. Pyle
In un sistema planetario a circa 65 anni luce da noi, gli astronomi hanno individuato qualcosa di nuovo: un piccolo corpo celeste in transito davanti alla sua stella. Si tratta di un pianeta, il terzo del sistema, molto caldo e di dimensioni terrestri. Si chiama Hd 63433 d e orbita intorno alla stella Hd 63433 (o Toi 1726, simile al Sole), con una faccia sempre rivolta verso di lei e l’altra costantemente al buio. Questo mondo rovente è il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni. È anche il più vicino pianeta a oggi scoperto di dimensioni terrestri così giovane. Tra gli autori della pubblicazione che riporta la scoperta ci sono Giovanni Covone, professore associato di astronomia e astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli Federico II e Christian Magliano, dottorando in astrofisica all’Università di Napoli Federico II, entrambi associati all’Istituto nazionale di astrofisica. Abbiamo intervistato Covone, autore anche del libro Altre Terre, che ci ha raccontato alcuni aspetti interessanti del corpo celeste appena scoperto e di come si è svolta la ricerca.
Parliamo di Hd 63433 d: dove si trova e come l’avete scoperto?
«Hd 63433 d è il terzo pianeta scoperto intorno alla stella Hd 63433, molto simile al Sole e lontana “appena” 65 anni luce dalla Terra, nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Come i precedenti due pianeti nel sistema di Hd 63433, è stato scoperto attraverso la tecnica dei transiti fotometrici grazie alle osservazioni con il telescopio spaziale Tess della Nasa. Tess è stato appositamente progettato per monitorare decine di migliaia di stelle contemporaneamente e scoprire pianeti extrasolari attraverso le piccole diminuzioni di luminosità della stella madre causate dai pianeti quando le passano davanti lungo la nostra linea di vista. Queste osservazioni permettono di determinare le orbite e i raggi dei pianeti, ma ancora molte domande sono senza risposta. Ad esempio, ancora non conosciamo la massa del pianeta e se possiede un’atmosfera».
Giovanni Covone, professore associato di astronomia e astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli Federico II e associato Inaf. Si interessa dello studio di pianeti di tipo terrestre e di cosmologia. È membro della collaborazione Plato. Crediti: G. Covone
Si trova nella fascia di abitabilità della sua stella?
«Hd 63433 d ruota intorno alla sua stella madre in poco più di quattro giorni (4.2 giorni), quindi è molto vicino a essa. Per confronto, è venti volte più vicino alla sua stella di quanto lo sia la Terra rispetto al Sole. Quindi si trova purtroppo ben al di fuori della cosiddetta regione di abitabilità, dove un pianeta con un’atmosfera simile a quella terrestre potrebbe avere sulla superficie acqua allo stato liquido. È così vicino alla stella madre che (a causa delle forze mareali gravitazionali) le rivolge sempre lo stesso emisfero, come fa la Luna con la Terra. Inoltre, la vicinanza della stella probabilmente ha causato anche la scomparsa della sua atmosfera, a causa dei forti venti stellari».
Ha dimensioni terrestri e orbita attorno a una stella simile al Sole. Non c’è proprio speranza che sia un “mondo” simile al nostro?
«Il suo raggio è davvero simile a quello della Terra (circa 1.1 raggi terrestri), ma se potessimo osservarlo da vicino capiremmo subito che è molto diverso dalla Terra. Prima di tutto, si tratta di un pianeta molto giovane in un sistema planetario molto giovane. Infatti, abbiamo potuto determinare che la stella madre ha un’età di circa 400 milioni di anni, dieci volte più giovane del Sole. Ma soprattutto, non è sicuramente un mondo abitabile. La stella Hd 63433 è meno luminosa del Sole (25% meno luminosa del Sole), ma il nuovo pianeta orbita così vicino che secondo i nostri modelli la temperatura media superficiale sull’emisfero sempre illuminato è superiore ai 1500 gradi Kelvin. A questa temperatura le rocce fondono: quindi, da vicino vedremmo un oceano di magma coprire l’intero emisfero. Tuttavia è un mondo molto interessante, perché il più giovane pianeta roccioso trovato a così breve distanza da noi. Ed è il più piccolo esopianeta confermato di età inferiore a 500 milioni di anni. Abbiamo quindi un’occasione unica per studiare le prime fasi di vita di un sistema planetario, in cui avvengono fenomeni fisici complessi ancora non ben compresi».
Hd 63433 è una stella di cui in realtà esistono svariati dati d’archivio: di quali dati si tratta e come vi hanno aiutato nell’analisi dei dati di Tess?
«Hd 63433 è una stella ben studiata perché relativamente brillante e vicina. È una stella di dimensioni simili a quelle del Sole (il raggio è circa 0,9 volte il raggio del Sole e la massa quasi la stessa). La stella è di tipo spettrale G, lo stesso tipo del Sole. Fa parte di un gruppo stellare noto come Associazione dell’Orsa Maggiore, un gruppo di giovani stelle coese, che si muovono in modo coordinato nella Galassia. È possibile stimare con buona precisione l’età delle associazioni di stelle come queste».
Christian Magliano, laureato presso l’Università di Salerno, è attualmente dottorando in astrofisica all’Università di Napoli, Federico II e associato Inaf. I suoi principali interessi riguardano l’astrofisica, l’astrobiologia e la cosmologia. È attualmente coinvolto nella preparazione della missione scientifica Plato. Crediti: C. Magliano
Anche Gaia è stata utile per caratterizzare il sistema planetario di Hd 63433, e in particolare il suo terzo pianeta da voi scoperto?
«I dati più recenti di Gaia (Dr3) sono stati molto utili nel nostro lavoro per molti aspetti. Prima di tutto, ci hanno permesso di aggiornare la misura della distanza della stella (ottenuta con il metodo della parallasse). Inoltre, la sua velocità nella Galassia è stata calcolata usando ancora i dati di Gaia. Proprio queste misure sono state fondamentali per confermare l’appartenenza della stella all’Associazione dell’Orsa Maggiore, e da questo fatto determinare l’età della stella stessa. Non solo: un risultato importante del nostro lavoro è che abbiamo identificato molte nuove stelle appartenenti al gruppo dell’Orsa Maggiore utilizzando le nuove misure di velocità radiale di Gaia DR3. Infine, le osservazioni di Gaia permettono di ricavare anche importanti parametri stellari, come la temperatura superficiale e il raggio della stella, fondamentali per ricavare i parametri dei pianeti a partire dalle osservazioni dei transiti fatte da Tess».
Pensate di dedicare altro tempo a questo pianeta e, nel caso, con quali strumenti?
«Sicuramente! È un candidato interessante per ulteriori osservazioni. Sarebbe interessante ottenere ulteriori informazioni sul “lato oscuro” del pianeta e sullo stato della sua eventuale atmosfera. Grazie alla sua vicinanza alla Terra, potremmo utilizzare il telescopio spaziale James Webb per rilevare la sua emissione termica con lo strumento Miri. È un target ideale tra i pianeti rocciosi per questo tipo di osservazioni, data la sua giovane età ed elevata temperatura. Inoltre, nelle ultime settimane, Tess ha accumulato altre osservazioni che attendono di essere analizzate, sia per migliorare la precisione dei parametri misurati sia per scovare eventuali altri pianeti nel sistema. Giovani sistemi planetari con pianeti di tipo terrestre sono un banco di prova fondamentale per verificare le nostre teorie sulla formazione e l’evoluzione dei sistemi planetari».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “TESS Hunt for Young and Maturing Exoplanets (THYME) XI: An Earth-sized Planet Orbiting a Nearby, Solar-like Host in the 400 Myr Ursa Major Moving Group” di Benjamin K. Capistrant, Melinda Soares-Furtado, Andrew Vanderburg, Alyssa Jankowski, Andrew W. Mann, Gabrielle Ross, Gregor Srdoc, Natalie R. Hinkel, Juliette Becker, Christian Magliano, Mary Anne Limbach, Alexander P. Stephan, Andrew C. Nine, Benjamin M. Tofflemire, Adam L. Kraus, Steven Giacalone, Joshua N. Winn, Allyson Bieryla, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Karen A. Collins, Giovanni Covone, Zoë L. de Beurs, Chelsea X. Huang, Jon M. Jenkins, Laura Kreidberg, David W. Latham, Samuel N. Quinn, Sara Seager, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Bill Wohler, Roland K. Vanderspek, Ricardo Yarza e Ziegler
Quel vento che forgia i cerchi radio anomali
Quando nel 2019 sono stati rilevati dall’array di radiotelescopi Askap (Australian Square Kilometre Array Pathfinder), mai nessuno prima di allora aveva visto qualcosa di simile. Hanno una forma circolare. Sono enormi, talmente grandi da poter contenere al loro interno intere galassie. E luminosi, luminosi nel radio. Sono sorgenti astronomiche extragalattiche diverse da qualsiasi oggetto celeste precedentemente riportato in letteratura, tant’è che gli astronomi che li hanno scoperti li hanno chiamati Orc, acronimo di odd radio circle: cerchi radio anomali.
Immagine che mostra il cerchio radio anomalo denominato Orc 1. Crediti: Jayanne Inglese/University di Manitoba
A oggi di questi anelli di emissione radio continua ne sono stati individuati quasi una dozzina. I primi tre cerchi radio sono stati scoperti durante la survey Evolutionary Map of the Universe utilizzando l’Askap. Un quarto Orc (Orc 4) è stato individuato nei dati d’archivio acquisiti dal Giant Meterwave Radio Telescope. Ulteriori Orc sono stati scoperti più recentemente nei dati ottenuti dell’array di telescopi MeerKat.
La domanda che si sono posti all’epoca della loro identificazione e che si pongono tutt’ora gli astronomi è: come si formano queste strutture? Per spiegare la loro origine sono state proposte diverse teorie. Alcune chiamano in causa le nebulose planetarie. Altre le fusioni di buchi neri. Altre ancora i wormhole. Nessuna di queste teorie, tuttavia, sembra fornire una spiegazione convincente. Ora un team di ricercatori guidato dall’Università della California a San Diego ritiene di averla trovata, questa spiegazione: a forgiare i cerchi radio sarebbero i venti provenienti dalla galassia situata al centro dei cerchi stessi. Venti prodotti dall’esplosione di stelle massicce che vengono lanciati ad alta velocità nello spazio circostante. La ricerca è pubblicata su Nature.
Per giungere a questa conclusione, Alison Coil, scienziata dell’Università della California a San Diego, e colleghi hanno osservato uno dei pochi cerchi radio osservabili dal nostro emisfero, Orc 4, e la galassia al centro di questa sorgente radio, Wise J155524. L’obiettivo dei ricercatori era identificare un’eventuale controparte ottica della sorgente che permettesse di dare indicazioni circa l’origine di queste strutture. E ci sono riusciti: utilizzando il Keck Cosmic Web Imager (Kcwi), lo spettrografo montato sul telescopio Keck I del W.M. Keck Observatory di Maunakea, nelle Hawaii, hanno rilevato una riga di emissione dell’ossigeno ionizzato (O II) sufficientemente luminosa da permette di studiare le caratteristiche di Orc 4 e della galassia al suo interno, sondando la morfologia, l’estensione e la cinematica del gas.
Una simulazione che mostra l’evoluzione dei venti galattici lanciati a tempi diversi dall’inizio dell’attività starburst. Nell’ipotesi dei ricercatori, l’origine di Orc 4 sarebbe dovuta all’onda di shock prodotta dal vento galattico, indicata nelle mappe come forward shock. Crediti: Alison Coil et al., Nature, 2024
Con più domande che risposte, il team ha portato avanti il lavoro investigativo, determinando la massa della galassia e l’età delle stelle al suo interno e creando mappe di distribuzione e velocità del gas nella regione Orc 4. I risultati delle analisi hanno mostrato la presenza di grandi quantità di gas che coprono una regione di circa 40 kiloparsec di diametro – circa 130mila anni luce. Il gas, inoltre, aveva una velocità pari a circa 200 chilometri al secondo ed è risultato essere molto più luminoso del previsto.
«Il segnale dell’ossigeno ionizzato (OII) di Orc 4 copriva quasi tutta la galassia ed era dieci volte più luminoso del normale», dice Coil. «C’era una quantità pazzesca di OII, molto più di quella normale. Il gas mostrava anche una gamma di velocità molto più ampia di quanto ci si aspettasse, il che suggerisce che si stava muovendo vigorosamente».
Considerate tutte queste proprietà, la conclusione dei ricercatori è che all’origine di Orc 4 vi sia il vento prodotto dall’attività della galassia ospite. La domanda a questo punto è: come si forma questo vento? E in che modo è coinvolto nella formazione di Orc 4?
La galassia ospite di Orc 4 è una galassia starburst. Come suggerisce il nome, si tratta di galassie caratterizzate da un alto tasso di formazione stellare. Le stelle che si formano al loro interno sono per lo più stelle massicce, che dopo una vita relativamente breve esplodono come supernove, espellendo i loro strati esterni nello spazio interstellare sotto forma di venti. Se un numero sufficiente di queste stelle esplode contemporaneamente, la forza delle esplosioni può produrre un potente vento galattico che, colpendo il gas fuori dalla galassia, crea un’enorme onda d’urto. Nell’ipotesi formulata dai ricercatori, sarebbe quest’onda d’urto a produrre Orc 4.
Serena Perrotta, coautrice dello studio pubblicato su Nature, è un’astronoma osservativa. Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Trieste si è trasferita negli Stati Uniti, dove attualmente lavora come ricercatrice presso l’Università della California a San Diego
«Lo scenario che meglio si adatta ai dati è che 1 miliardo di anni prima la galassia al centro di Orc 4 ha subito un breve ma intenso periodo di formazione stellare», spiega a Media Inaf Serena Perrotta, ricercatrice presso l’Università della California San Diego e co-autrice dello studio. «Tali esplosioni stellari tendono a produrre grandi stelle che bruciano intensamente e che esauriscono rapidamente il loro combustibile, per cui dopo qualche milione di anni le stelle esplodono come supernove. Questa raffica di esplosioni in rapida successione produce un potente vento galattico che spinge il gas fuori dalla galassia. Quando questo vento colpisce il gas sottile all’esterno della galassia, crea un’onda d’urto. Nel caso di Orc 4, le antenne dei radiotelescopi stanno osservando quell’onda d’urto dopo che è cresciuta fino a raggiungere dimensioni enormi e ha rallentato, 1 miliardo di anni dopo. All’interno dell’onda d’urto, gli elettroni in rapido movimento si muovono a spirale attorno alle linee del campo magnetico e generano una radiazione nota come luce di sincrotrone. Nell’onda d’urto di Orc 4, che sta invecchiando, queste oscillazioni producono le onde radio osservate. Il modello prevede anche che, in un’esplosione stellare così breve e forte, la coda del vento galattico possa bloccarsi e iniziare a ricadere verso la galassia, producendo una seconda onda d’urto che, riversandosi nella galassia, potrebbe ionizzare altri atomi di ossigeno e spiegare l’insolita produzione di luce OII. Sebbene la portata dell’emissione OII sia un decimo di quella del cerchio radio, è quasi certo che esista una connessione tra le due».
Per testare questa ipotesi i ricercatori hanno condotto una serie di simulazioni in cui forti venti sono stati lanciati da una galassia isolata. In tutti i casi il risultato delle simulazioni è stato la formazione di enormi cerchi radio, rafforzando l’ipotesi formulata dai ricercatori secondo cui a produrre Orc 4 sia un’onda di shock causata dal vento galattico in uscita dalla galassia ospite.
«Abbiamo eseguito una serie di simulazioni numeriche al computer per replicare le dimensioni e le proprietà dell’anello radio su larga scala, compresa la grande quantità di gas freddo nella galassia centrale», aggiunge Perrotta. «Le simulazioni hanno mostrato venti galattici in uscita che soffiano per 200 milioni di anni prima di spegnersi. Quando il vento si è fermato, un’onda di shock in avanti ha continuato a spingere il gas ad alta temperatura fuori dalla galassia e ha creato un anello radio, mentre un’onda di shock inversa ha fatto ricadere il gas più freddo sulla galassia. La simulazione si è svolta nell’arco di 750 milioni di anni, un periodo che corrisponde all’età stellare di Orc 4, stimata in un miliardo di anni».
«Gli Orc ci forniscono un modo per “vedere” i venti galattici attraverso i dati radio e la spettroscopia», dice Coil. «Il loro studio può aiutarci a capire quanto siano comuni questi venti estremi in uscita e quale sia il loro ciclo di vita». Inoltre, conclude la ricercatrice, «i venti possono aiutarci a saperne di più sull’evoluzione delle galassie. Penso che ci sia molto da imparare sugli e dagli Orc».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Ionized gas extends over 40 kpc in an odd radio circle host galaxy” di Alison L. Coil, Serena Perrotta, David S. N. Rupke, Cassandra Lochhaas, Christy A. Tremonti, Aleks Diamond-Stanic, Drummond Fielding, James E. Geach, Ryan C. Hickox, John Moustakas, Gregory H. Rudnick, Paul Sell e Kelly E. Whalen
Aurore sui poli d’una nana bruna
Rappresentazione artistica della nana bruna W1935, che si trova a 47 anni luce dalla Terra. Gli astronomi che utilizzano il telescopio spaziale James Webb hanno trovato emissioni infrarosse di metano provenienti dai poli di W1935. Si tratta di una scoperta inaspettata perché la nana bruna è fredda e non ha una stella ospite; pertanto, non c’è una fonte evidente di energia per riscaldare l’atmosfera superiore e far brillare il metano. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano le aurore, qui evidenziate in rosso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)
Grazie al telescopio spaziale James Webb, gli astronomi hanno scovato una nana bruna (un oggetto celeste più massiccio di un pianeta come Giove ma meno massiccio di una stella come il Sole, con una massa vicina al limite necessario perché si verifichi il processo di fusione nucleare dell’idrogeno tipico delle stelle) con emissioni infrarosse caratteristiche del metano.
Si tratta di una scoperta inaspettata perché la nana bruna in questione, W1935, è fredda e non ha una stella ospite. Pertanto, non sembra esserci una fonte ovvia per l’energia che si suppone essere presente nella sua atmosfera superiore. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano aurore.
Lo studio e i suoi risultati sono stati presentati in una conferenza stampa tenutasi il 9 gennaio al 243° meeting dell’American Astronomical Society, a New Orleans.
Per spiegare il mistero dell’emissione infrarossa del metano, il team ha preso spunto dal Sistema solare, dove l’emissione di metano è una caratteristica comune ai giganti gassosi come Giove e Saturno. Il riscaldamento dell’atmosfera che alimenta questa emissione potrebbe essere legato alle aurore.
Sulla Terra, le aurore si formano quando le particelle energetiche “soffiate” nello spazio dal Sole vengono catturate dal campo magnetico terrestre, scendono a cascata nella nostra atmosfera lungo le linee di forza del campo magnetico vicino ai poli terrestri e, scontrandosi con le molecole di gas, creano impressionanti cortine di luce sfavillante. Giove e Saturno hanno processi aurorali simili che implicano l’interazione con il vento solare, ma ricevono anche contributi aurorali da lune attive vicine come Io (per Giove) ed Encelado (per Saturno).
Per le nane brune isolate come W1935, l’assenza di un vento stellare che contribuisca al processo aurorale capace di giustificare l’energia nell’atmosfera superiore necessaria per l’emissione di metano è però un mistero. Il team ipotizza che l’emissione possa essere dovuta a processi interni non considerati, come i fenomeni atmosferici di Giove e Saturno, oppure a interazioni esterne con il plasma interstellare o con una luna attiva vicina.
Ma veniamo alla storia di questa scoperta, che assomiglia a un giallo. Un team guidato da Jackie Faherty, astronoma dell’American Museum of Natural History di New York, ha ottenuto tempo di osservazione al telescopio Webb per studiare 12 nane brune fredde. Tra queste c’erano W1935 – un oggetto scoperto dal citizen scientist Dan Caselden, che ha lavorato con il progetto Backyard Worlds di Zooniverse – e W2220, un oggetto scoperto grazie al Wide Field Infrared Survey Explorer della Nasa. Webb ha rivelato in modo estremamente dettagliato che le due nane brune – W1935 e W2220 – sembrano essere cloni l’una dell’altra per composizione. Condividono anche luminosità, temperature e caratteristiche spettrali simili di acqua, ammoniaca, monossido di carbonio e anidride carbonica. L’eccezione più evidente è che W1935 ha mostrato un’emissione di metano, contrariamente alle caratteristiche di assorbimento rilevate in W2220. L’emissione è stata osservata a una distinta lunghezza d’onda dell’infrarosso, alla quale Webb è particolarmente sensibile.
«Ci aspettavamo di vedere del metano, perché il metano è presente in tutte queste nane brune. Ma invece di assorbire la luce, abbiamo visto esattamente il contrario: il metano brillava. Il mio primo pensiero è stato: che diavolo è? Perché questo oggetto emette metano?», racconta Faherty.
Gli astronomi hanno utilizzato il telescopio spaziale James Webb per studiare 12 nane brune fredde. Due di queste – W1935 e W2220 – sembravano essere quasi gemelle per composizione, luminosità e temperatura. Tuttavia, W1935 ha mostrato un’emissione di metano, contrariamente alla caratteristica di assorbimento prevista per W2220. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano le aurore. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)
Il team ha impiegato simulazioni numeriche per dedurre cosa potesse esserci dietro tale emissione. Il loro lavoro ha mostrato che W2220 è effettivamente caratterizzata dalla distribuzione di energia prevista in tutta l’atmosfera, diventando più fredda con l’aumentare dell’altitudine. Invece W1935, no. Il risultato, per questa nana bruna, è stato sorprendente. Il modello migliore predilige infatti un’inversione di temperatura, in cui l’atmosfera si riscalda con l’aumentare dell’altitudine. «Questa inversione di temperatura è davvero sconcertante», afferma Ben Burningham dell’Università di Hertfordshire in Inghilterra. «Abbiamo riscontrato questo tipo di fenomeno nei pianeti con una stella vicina che può riscaldare la stratosfera, ma vederlo in un oggetto senza un’evidente fonte di calore esterna è sorprendente».
Per trovare indizi, il team ha guardato nel nostro “cortile”, ai pianeti del Sistema solare. In particolare, i pianeti giganti gassosi possono servire come proxy di ciò che si vede accadere a più di 40 anni luce di distanza, nell’atmosfera di W1935. Il team si è reso conto che in pianeti come Giove e Saturno le inversioni di temperatura sono importanti. Si sta ancora lavorando per capire le cause del loro riscaldamento stratosferico, ma le principali teorie per il Sistema solare riguardano il riscaldamento esterno da parte delle aurore e il trasporto interno di energia dalle profondità dell’atmosfera.
Non è la prima volta che un’aurora viene utilizzata per spiegare le osservazioni di una nana bruna. Gli astronomi hanno rilevato emissioni radio provenienti da diverse nane brune più calde e hanno invocato le aurore come spiegazione più probabile. Per caratterizzare ulteriormente il fenomeno, sono state condotte ricerche con telescopi a terra, come l’Osservatorio Keck per individuare le firme infrarosse di queste nane brune che emettono radio, ma non hanno dato risultati.
W1935 è la prima candidata al di fuori del Sistema solare con la firma di emissione di metano. È anche il candidato aurorale più freddo al di fuori del nostro sistema solare, con una temperatura effettiva di circa 200 gradi Celsius, circa 300 gradi più caldo di Giove.
Riassumendo, nel Sistema solare, il vento solare è il principale responsabile dei processi aurorali, con lune attive come Io ed Encelado che svolgono un ruolo per pianeti come Giove e Saturno, rispettivamente. W1935 non ha una stella compagna, quindi il vento stellare non può contribuire al fenomeno. È ancora da verificare se una luna attiva possa giocare un ruolo nell’emissione di metano su W1935.
«Con W1935, ora abbiamo un’estensione spettacolare di un fenomeno del Sistema solare senza alcuna irradiazione stellare che possa aiutare nella spiegazione», conclude Faherty. «Con Webb, possiamo davvero “aprire il coperchio” della chimica e capire quanto simile o diverso possa essere il processo aurorale al di fuori del nostro sistema solare».
Se volete contribuire alla scoperta di un nuovo mondo, potete partecipare al progetto di citizen science Backyard Worlds: Planet 9 e cercare nuove nane brune e pianeti oltre Nettuno. Oppure potreste provate il nuovo progetto di citizen science Burst Chaser della Nasa, lanciato il 9 gennaio, per aiutare gli scienziati a classificare le curve di luce dei lampi gamma.
Per saperne di più:
- Guarda il video della conferenza stampa tenutasi il 9 gennaio al 243° meeting dell’American Astronomical Society (dal minuto 24:35)
Va a Sofia Contarini il premio “Livio Gratton” 2023
L’astrofisica Sofia Contarini, vincitrice del premio “Livio Gratton” 2023 per la sua tesi di dottorato “Towards a full cosmological exploitation of cosmic voids”
«Ho saputo di aver ricevuto questo premio», dice Sofia Contarini a Media Inaf, «mentre stavo andando a pranzo con il mio fidanzato, Simon, in occasione del suo compleanno. Ovviamente abbiamo avuto un doppio motivo per festeggiare quel giorno!»
Il premio è il “Livio Gratton”, assegnato ogni due anni alla più meritevole tesi di dottorato di ricerca in astronomia o astrofisica dell’ultimo biennio in un istituto di ricerca italiano. A questa edizione, la sedicesima, hanno partecipato 21 giovani ricercatori. E la tesi scelta dalla giuria internazionale – formata da Cesare Chiosi (Università di Padova), Bozena Jadwiga Czerni (Copernicus Astronomical Center, Polonia) e Guy Monnet (European Southern Observatory, Germania) – è risultata Towards a full cosmological exploitation of cosmic voids, con la quale Contarini ha ottenuto il suo dottorato all’Università di Bologna. La giuria ha anche attribuito una menzione speciale a Matteo Braglia per la tesi Scalar-tensor theories in light of cosmological tensions (Inaf – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna).
Istituito per onorare la memoria di Livio Gratton, vicepresidente della Iau, accademico Linceo e professore ordinario di astrofisica alla Sapienza di Roma scomparso nel 1991, il premio di cinquemila euro viene conferito dall’Associazione Eta Carinae in collaborazione con l’Associazione tuscolana di astronomia “Livio Gratton”, con il patrocinio del Comune di Frascati e dell’Istituto nazionale di astrofisica e con il contributo della famiglia Gratton.
Locandina della cerimonia di premiazione
La cerimonia di consegna, aperta al pubblico, si terrà a Frascati domani, sabato 13 gennaio 2024, a partire dalle ore 17.00, all’Auditorium delle Scuderie Aldobrandini. L’evento potrà essere seguito online sul canale YouTube dell’Associazione tuscolana di astronomia. Durante la cerimonia Raffaele Gratton (Inaf Padova) ricorderà Italo Mazzitelli, astronomo allievo di Livio Gratton, recentemente scomparso e la premiazione sarà seguita dalla conferenza pubblica tenuta da Maria Francesca Matteucci (Università di Trieste) sul tema “Archeologia galattica nell’era dei grandi telescopi”. Com’è tradizione fin dalla prima edizione, verrà consegnata alla vincitrice una pergamena del Maestro Gianfranco Cresciani.
«Ricevere questo premio», dice Sofia Contarini, «è un grandissimo onore per me, è sempre bello vedere riconosciuti i propri sforzi. Inoltre mi è stata comunicata questa vittoria poco prima di partire per Monaco di Baviera, dove attualmente sto continuando le mie ricerche, e questo ha aumentato ulteriormente la mia volontà di tornare in Italia, dopo il periodo in Germania. In particolare, spero che grazie al prestigio di questo premio risulterà più facile ottenere, in futuro, una posizione a Bologna, la città che mi ha formata a livello scientifico e che porterò sempre nel cuore».
Una galassia di nome Nube sfida la materia oscura
Immagine della galassia Nube attraverso diversi telescopi. Crediti: Sdss/Gtc/Iac
Solitamente gli oggetti celesti hanno nomi strani, che assomigliano più a targhe automobilistiche che a qualcosa di romantico. Ma non è questo il caso. L’oggetto della scoperta che vi andiamo a presentare si chiama Nube ed è una galassia nana quasi invisibile scoperta da un team internazionale di ricercatori guidato dall’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac) in collaborazione con l’Università di La Laguna (Ull) e altre istituzioni. Il nome è stato suggerito dalla figlia di 5 anni di uno dei ricercatori del gruppo ed è dovuto all’aspetto diffuso dell’oggetto. La sua luminosità superficiale è così debole che era passata inosservata nelle varie indagini precedenti di questa parte del cielo, come se fosse una specie di fantasma. Questo perché le sue stelle sono distribuite in un volume tanto ampio da rendere la “nube” quasi impercettibile.
Questa galassia appena scoperta presenta una serie di proprietà specifiche che la distinguono dagli oggetti precedentemente conosciuti. Il team di ricercatori stima che Nube sia una galassia nana dieci volte più debole di altre dello stesso tipo, ma anche dieci volte più estesa di altri oggetti con un numero di stelle paragonabile. Per capirci, questa galassia è grande un terzo della Via Lattea, ma ha una massa simile a quella della Piccola Nube di Magellano. «Con le nostre attuali conoscenze non riusciamo a capire come possa esistere una galassia con caratteristiche così estreme», spiega Mireia Montes, ricercatrice dell’Iac e prima autrice dell’articolo.
Da alcuni anni Ignacio Trujillo, secondo autore dell’articolo, sulla base delle immagini della Sloan Digital Sky Survey, sta analizzando una specifica striscia di cielo nell’ambito del progetto Legado del Iac Stripe 82. In una delle revisioni, ha notato una debole macchia che sembrava sufficientemente interessante per avviare un progetto di ricerca.
Il passo successivo è stato quello di utilizzare le immagini multicolori ultra-profonde del Gran Telescopio Canarias (Gtc) per confermare che questa macchia non fosse un errore, bensì un oggetto estremamente diffuso. A causa della sua debolezza, è difficile determinare l’esatta distanza di Nube. Utilizzando un’osservazione ottenuta con il Green Bank Telescope (Gbt), negli Stati Uniti, gli autori hanno stimato la distanza di Nube in 300 milioni di anni luce, anche se le prossime osservazioni con il radiotelescopio Very Large Array (Vla) e il telescopio ottico William Herschel Telescope (Wht) presso l’Osservatorio Roque de los Muchachos, a La Palma, dovrebbero aiutarli a verificare se questa distanza è corretta. «Se la galassia dovesse risultare più vicina, sarebbe comunque un oggetto molto strano e rappresenterebbe una sfida importante per l’astrofisica», commenta Trujillo.
La regola generale è che le galassie hanno una densità di stelle molto maggiore nelle loro regioni interne e che questa densità diminuisce rapidamente con l’aumentare della distanza dal centro. Tuttavia, Montes afferma che in Nube «la densità di stelle varia pochissimo in tutto l’oggetto, ed è per questo che è così debole e non siamo stati in grado di osservarla bene fino a quando non abbiamo avuto le immagini ultra-profonde del Gtc».
La galassia Nube. La figura è una composizione di un’immagine a colori e di un’immagine in bianco e nero, per evidenziare lo sfondo. Crediti: Gtc/Mireia Montes
Insomma, Nube ha lasciato parecchio perplessi gli astronomi. Le simulazioni cosmologiche non sono in grado di riprodurre le sue caratteristiche “estreme”, nemmeno sulla base di diversi scenari. «Siamo rimasti senza una spiegazione valida all’interno del Modello cosmologico attualmente accettato, quello della materia oscura fredda», spiega Montes.
Il modello standard è in grado di riprodurre le strutture su larga scala dell’universo, ma ci sono scenari su piccola scala, come il caso di Nube, per i quali non riesce a dare una buona risposta. Gli autori hanno dimostrato come i diversi modelli teorici non siano in grado di riprodurla, il che la rende uno dei casi più estremi finora conosciuti. «È possibile che con questa galassia, e con altre simili che potremmo trovare, possiamo trovare ulteriori indizi che apriranno una nuova finestra sulla comprensione dell’universo», commenta Montes.
«Una possibilità interessante è che le insolite proprietà di Nube ci mostrino che le particelle che compongono la materia oscura hanno una massa estremamente piccola», dice Trujillo. Se così fosse, le insolite proprietà di questa galassia sarebbero una dimostrazione delle proprietà della fisica quantistica, su scala galattica. «Se questa ipotesi fosse confermata, sarebbe una delle più belle dimostrazioni della natura che unifica il mondo del più piccolo con quello del più grande», conclude il ricercatore.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “An almost dark galaxy with the mass of the Small Magellanic Cloud” di Mireia Montes, Ignacio Trujillo, Ananthan Karunakaran, Raúl Infante-Sainz, Kristine Spekkens, Giulia Golini, Michael Beasley, Maria Cebrián, Nushkia Chamba, Mauro D’Onofrio, Lee Kelvin e Javier Román
Stella vecchia fa buon brodo primordiale
media.inaf.it/2024/01/11/stell…
La capacità di una stella di creare un ambiente favorevole alla vita sembra essere inevitabilmente legata al suo campo magnetico. Un tempo si riteneva che man mano che una stella invecchiava, il suo campo magnetico si affievolisse e la stella cominciasse a rallentare la propria rotazione, in un processo inesorabile e senza fine. Oggi si è sempre più convinti che non sia proprio così, e che ci sia un momento preciso nel quale l’accoppiamento fra campo magnetico e rotazione viene meno. Da questo momento in poi, secondo un nuovo studio pubblicato su ApJ Letters, per un pianeta in orbita attorno alla stella sarebbe più facile trovarsi nelle condizioni giuste per sviluppare e sostenere nel tempo forme di vita.
Immagine che illustra il sistema 51 Pegasi e il suo campo magnetico misurato. Il “Weak Magnetic Braking” rilevato su 51 Peg rappresenta un cambiamento relativamente improvviso che rende l’ambiente magnetico più stabile. Lo studio attuale suggerisce che il Sole abbia già compiuto questa transizione, favorendo lo sviluppo di una vita più complessa. Crediti: AipJ. Fohlmeister
Stelle come il Sole e come 51 Pegasi – una stella di massa simile al Sole attorno alla quale è stato scoperto il primo pianeta extrasolare, dai premi Nobel Michel Mayor e Didier Queloz, nel 1995 – nascono in rapida rotazione, creando un forte campo magnetico che può innescare emissioni violente, che bombardano i loro sistemi planetari con particelle cariche e radiazioni energetiche. Nel corso di miliardi di anni, la rotazione della stella rallenta gradualmente e il campo magnetico viene trascinato attraverso un vento che scorre lungo la sua superficie, in un processo noto come “frenata magnetica”. Dal momento che rotazione e campo magnetico sono due proprietà interconnesse, la rotazione più lenta produce un campo magnetico più debole, in un processo di mutua influenza continua. Fino a quando?
Alcune osservazioni del telescopio spaziale Kepler della Nasa avevano già suggerito che il freno magnetico potrebbe indebolirsi sostanzialmente oltre l’età del Sole, ovvero a metà della vita di una stella di massa simile al Sole, interrompendo la stretta relazione tra rotazione e magnetismo nelle stelle più vecchie. Ma si trattava di misure indirette.
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno osservato 51 Pegasi, confermando che essa ha già attraversato la fase di indebolimento del freno magnetico, transitando in un regime chiamato weak magnetic braking. Il livello di attività della stella 51 Pegasi era infatti monitorato già da molti anni prima che avvenisse la scoperta del pianeta 51 Pegasi b che vi orbita intorno, e le osservazioni avevano mostrato un’attività stellare pressoché costante nel tempo.
Ai dati già disponibili, gli autori hanno aggiunto le osservazioni del satellite Tess sulla variazione di luminosità della stella e le osservazioni polarimetriche dello spettrografo Pepsi al telescopio Lbt, ricavando non solo massa, raggio ed età della stella, ma anche riuscendo a mapparne in maniera precisa il campo magnetico. Dati alla mano, le proprietà misurate da 51 Pegasi mostrano che, proprio come il Sole, la stella ha già attraversato la fase di transizione di weak magnetic braking. Se così non fosse, secondo gli autori la stella avrebbe avuto un tasso di perdita di massa più elevato e un campo magnetico più forte, con un maggior numero di linee di campo aperte su larga scala da cui potevano fuoriuscire le eruzioni energetiche, creando un ambiente meteorologico più rigido di quello osservato.
La conclusione dello studio, per 51 Pegasi ma non solo, è che il freno magnetico cambia improvvisamente nelle stelle leggermente più giovani del Sole, diventando oltre dieci volte più debole e diminuendo ulteriormente quando le stelle continuano a invecchiare. Di conseguenza, le stelle più vecchie, dopo l’inizio di questa fase, potrebbero fornire un ambiente più stabile per lo sviluppo e il mantenimento della vita. Le stelle giovani, invece, bombardano i loro pianeti con radiazioni e particelle cariche che sono ostili allo sviluppo della vita complessa.
A questo punto, la domanda nasce spontanea: in che fase si trovava allora, il Sole, quando è nata la vita? Nel Sistema solare, il passaggio della vita dagli oceani alla terraferma è avvenuto diverse centinaia di milioni di anni fa, proprio in coincidenza con il momento in cui il freno magnetico ha iniziato a indebolirsi nel Sole. Insomma, l’orologio biologico delle stelle, se intendiamo la loro capacità di creare un ambiente favorevole alla nascita della vita, non sarebbe quando esse sono giovani e attive, ma dalla mezza età in poi.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Weakened Magnetic Braking in the Exoplanet Host Star 51 Peg“, di Travis S. Metcalf , Klaus G. Strassmeier, Ilya V. Ilyin, Derek Buzasi, Oleg Kochukhov, Thomas R. Ayres, Sarbani Basu, Ashley Chontos, Adam J. Finley, Victor See, Keivan G. Stassun, Jennifer L. van Saders, Aldo G. Sepulveda e George R. Ricker
Al team di Ixpe il premio “Bruno Rossi” 2024
Rappresentazione artistica dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer. Crediti: Nasa/Msfc
Il prestigioso premio Bruno Rossi 2024 dell’High Energy Astrophysics Division (Head) dell’American Astronomical Society è stato conferito a Martin Weisskopf, Paolo Soffitta e alla Collaborazione scientifica della missione Ixpe “per lo sviluppo dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer, le cui nuove misure migliorano la nostra comprensione dell’accelerazione e dell’emissione delle particelle da shock astrofisici, buchi neri e stelle di neutroni”.
Ixpe, lanciato nel dicembre 2021, grazie alle sue nuove, ricche e dettagliate misure sta contribuendo in modo stupefacente alla comprensione dei meccanismi di funzionamento di molti processi che avvengono nel nostro universo. In particolare Ixpe ha aggiunto due osservabili, l’intensità e l’angolo di polarizzazione simultaneamente alla più usuale coordinata spaziale, temporale e all’energia. Questo è alla base del successo di Ixpe che ha svolto ricerche importantissime nell’ambito dei fenomeni di accelerazione nelle Pulsar Wind Nebulae più brillanti e nei Blazars. Ha permesso di studiare fenomeni di turbolenza e shocks nei resti di supernovae, mappandone il campo magnetico nelle immediate vicinanze dei siti di accelerazione. L’analisi della polarizzazione risolta in energia ha permesso di studiare il plasma in vicinanza dei più brillanti buchi neri galattici e del centro galattico e in vicinanza di quelli super-massici delle galassie attive. L’analisi della polarizzazione risolta in fase ha poi, per la prima volta, reso possibile la misura diretta della geometria delle pulsar binarie e di stelle di neutroni magnetizzate quali le magnetars, parametri talvolta degeneri delle usuali analisi spettroscopiche e di variabilità temporale. Tutti questi straordinari risultati che Ixpe è già riuscito a ottenere nei pochi mesi da cui è entrato in attività sono alla base del prestigioso riconoscimento appena attribuito dall’American Astronomical Society.
Paolo Soffitta (Inaf Iaps di Roma), coordinatore della Collaborazione scientifica dell’esperimento Ixpe. Crediti: Inaf/V. Muscella
«Ixpe è la dimostrazione di come una idea perseguita da più di trent’anni», dice Paolo Soffitta, ricercatore dell’Inaf, che coordina la Collaborazione scientifica dell’esperimento assieme a Martin Weisskopf, «si sia stata trasformata in una missione di successo grazie alla collaborazione tra Stati Uniti e Italia. Il team internazionale ha visto in Italia la sinergia tra Inaf, Infn e il partner industriale Ohb-Italia coordinati dall’ Agenzia spaziale italiana e le università di Roma Tre e Università di Padova. Il sistema di rivelazione sensibile alla polarizzazione è stato interamente concepito, sviluppato, assemblato testato e calibrato in Italia».
«Ixpe è l’ennesima dimostrazione della straordinaria cooperazione tra Nasa e Asi in missioni scientifiche di grande prestigio. Asi ha coordinato tutte la attività di sviluppo dei rivelatori innovativi a bordo di Ixpe», sottolinea Barbara Negri, responsabile dell’Unità volo umano e sperimentazione scientifica di Asi, «dalla fase di prototipizzazione a quella realizzativa, sulle cui tecnologie aveva già investito da diversi anni e ha contributo al software per l’analisi dei dati scientifici grazie allo Space Science Data Center. Inoltre, Asi partecipa alle attività di ground-segment, avendo messo a disposizione la base di Malindi, come stazione TT&C [telemetry, tracking, and sommand, ndr] primaria».
«Il premio Bruno Rossi rappresenta un importante riconoscimento internazionale del valore della ricerca italiana», conclude Luca Baldini, responsabile nazionale per l’Infn della missione Ixpe, «che dimostra ancora una volta la capacità di estendere gli orizzonti della conoscenza creando tecnologie fortemente innovative, in particolare, come Infn fornendo ad Ixpe i suoi occhi sensibili alla polarizzazione dei raggi X, i Gas Pixel Detector. Decisive per il successo della missione sono state non solo la visione della nuova tecnica impiegata per la cattura e la ricostruzione dei fotoni, ma anche l’esperienza e la determinazione di tutto il gruppo scientifico nella costruzione di telescopi per lo spazio altamente performanti e affidabili. Ixpe e i suoi straordinari risultati testimoniano l’eccellenza della scienza e delle tecnologie che l’Italia è in grado di realizzare».
Einstein Probe in volo per fare i raggi X al cosmo
Infografica riassuntiva della missione Einstein Probe, partita il 9 gennaio dalla base spaziale cinese di Xichang, nella provincia di Sichuan. Crediti: Esa
È partita ieri, martedì 9 gennaio 2024, dal centro spaziale di Xichang, nella provincia di Sichuan, alle 08:03 del mattino ora italiana (le 15:03 ora locale), la missione Einstein Probe, una collaborazione fra l’accademia cinese delle scienze (Cas), L’Esa e il Max Planck Institute für Extraterrestrische Physik (Mpe) di Monaco di Baviera. Dopo il lancio, la sonda ha raggiunto la sua orbita a un’altitudine di circa 600 km, dalla quale compie una rivoluzione intorno alla Terra ogni 96 minuti con un’inclinazione orbitale di 29 gradi. Si tratta di un telescopio che osserva alle frequenze dei raggi X e questa configurazione orbitale gli consente di monitorare quasi l’intero cielo notturno in sole tre orbite.
L’universo ai raggi X è quello dei fenomeni più energetici, delle esplosioni di supernove, dei jet emessi dai buchi neri quando la materia cade al loro interno, e delle collisioni fra stelle di neutroni che generano onde gravitazionali. È anche il cielo delle esplosioni improvvise, dei cosiddetti eventi transienti, imprevedibili. Per questo è importante continuare a scandagliarlo, a guardare come evolve l’emissione associata a questi fenomeni e scoprire che succede quando nuove sorgenti di raggi X cominciano a brillare.
Per farlo, Einstein Probe è dotato di due strumenti: un telescopio a grande campo, il Wide-field X-ray telescope (Wxt), il cui scopo è proprio quello di monitorare il cielo alla ricerca di nuovi eventi e nuove sorgenti; e il Follow-up X-ray telescope (Fxt), che come dice il nome stesso si occuperà di prendere in carico le segnalazioni del primo strumento guardando con più attenzione, più alta risoluzione e maggior potere collettore, tutti gli oggetti celesti che varrà la pena approfondire.
Crediti: Chinese Academy of Sciences
Wxt ha un design ottico modulare che sfrutta la tecnologia Lobster Eye (occhio di aragosta). L’ispirazione all’anatomia del crostaceo non è casuale, ed è particolarmente indicata per le osservazioni alle alte frequenze dei raggi X: per le aragoste, infatti, la visione non avviene tramite rifrazione da un cristallino, ma tramite riflessione della luce da migliaia di piccoli quadratini disposti su una superficie quasi sferica, verso la retina. Analogamente, il processo di focalizzazione nella banda dei raggi X avviene per riflessione replicando la visione a largo campo di questi crostacei. Questo consente allo strumento di osservare 3600 gradi quadrati (quasi un decimo della sfera celeste) in un solo puntamento e, come dicevamo all’inizio, scandagliare l’intero cielo notturno in tre orbite intorno alla Terra, in poco più di quattro ore e mezzo.
La sonda Einstein Probe, infine, trasmetterà un segnale di allarme per attivare altri telescopi sulla Terra e nello spazio che operano ad altre lunghezze d’onda (dalla radio ai raggi gamma). Questi punteranno rapidamente verso la nuova sorgente per raccogliere preziosi dati a più lunghezze d’onda, consentendo così uno studio più approfondito dell’evento. Si tratta di una pratica ormai consolidata in quella che viene definita “astronomia multimessaggera”, fondamentale per studiare quali processi fisici innescano l’emissione di energia e radiazione da parte di oggetti transienti e altamente energetici.
Nei prossimi sei mesi, il team di Einstein Probe sarà impegnato nei test e nella calibrazione degli strumenti. Dopo questa fase di preparazione, comincerà la fase scientifica in cui la sonda trascorrerà almeno tre anni osservando attentamente l’intero cielo a raggi X. L’Esa, come partner del progetto, ha partecipato ai test e alla calibrazione dei due telescopi a bordo, e ha sviluppato il gruppo di specchi di uno dei due telescopi di Fxt in collaborazione con Mpe e Media Lario (un’azienda italiana), e ha anche fornito il sistema per deviare gli elettroni indesiderati dai rivelatori (il deviatore di elettroni). Per tutta la durata della missione, poi, le stazioni di terra dell’Esa saranno utilizzate per aiutare a scaricare i dati dal veicolo spaziale. La ricompensa scientifica, per Esa, sarà l’accesso al 10% dei dati generati dalle osservazioni di Einstein Probe.
Buchi neri e stelle di neutroni dalle supernove
Rappresentazione artistica di un oggetto compatto e della sua stella compagna. Crediti: Eso/L. Calçada
Scoperto un legame diretto tra la morte esplosiva delle stelle massicce e la formazione degli oggetti più compatti ed enigmatici dell’universo: i buchi neri e le stelle di neutroni. Con l’aiuto del Vlt (Very Large Telescope) e dell’Ntt (New Technology Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), due gruppi di ricerca hanno potuto osservare le conseguenze dell’esplosione di supernova in una galassia del nostro vicinato, trovando testimonianze del misterioso oggetto compatto lasciato dall’evento.
Quando le stelle massicce arrivano alla fine della propria vita, collassano sotto la loro stessa gravità così rapidamente che ne consegue una violenta esplosione, nota come supernova. Gli astronomi ritengono che, terminata l’agitazione conseguente all’esplosione, ciò che resta sia il nucleo ultradenso – o resto compatto – della stella. A seconda della massa della stella, il resto compatto sarà una stella di neutroni – un oggetto così denso che un cucchiaino del suo materiale peserebbe circa mille miliardi di chilogrammi, qui sulla Terra – o un buco nero – un oggetto da cui nulla, neppure la luce, può sfuggire.
Gli astronomi avevano già trovato nel passato molti indizi che suggeriscono questa catena di eventi, come la scoperta di una stella di neutroni all’interno della Nebulosa del Granchio, la nube di gas rimasta dopo l’esplosione di una stella quasi mille anni fa, ma non avevano mai visto prima d’ora questo processo in tempo reale, il che implica la mancanza di una prova diretta di una supernova che lascia dietro di sé un resto compatto. «Nel nostro lavoro stabiliamo questo collegamento diretto», dice Ping Chen, ricercatore presso il Weizmann Institute of Science, Israele, e autore principale di un articolo pubblicato oggi su Nature e presentato al 243° incontro dell’American Astronomical Society a New Orleans (Usa).
Il colpo di fortuna dei ricercatori è arrivato nel maggio 2022, quando l’astronomo dilettante sudafricano Berto Monard ha scoperto la supernova Sn 2022jli nel braccio a spirale della galassia del nostro vicinato Ngc 157, situata a 75 milioni di anni luce di distanza da noi. Due gruppi separati hanno rivolto la loro attenzione alle conseguenze di questa esplosione e ne hanno scoperto il comportamento singolare.
Dopo l’esplosione, la luminosità della maggior parte delle supernova si affievolisce con il tempo; gli astronomi vedono un declino graduale e continuo nella “curva di luce” dell’esplosione. Ma il comportamento di Sn 2022jli è molto peculiare: quando la luminosità complessiva diminuisce, non lo fa in modo continuo, ma oscilla invece su e giù ogni 12 giorni circa. «Vediamo nei dati di Sn 2022jli una sequenza ripetuta di aumento e diminuzione della luminosità», dice Thomas Moore, dottorando presso la Queen’s University di Belfast, Irlanda del Nord, che ha condotto uno studio sulla supernova pubblicato alla fine dello scorso anno sulla rivista The Astrophysical Journal. «È la prima volta che troviamo oscillazioni periodiche ripetute, su molti cicli, nella curva di luce di una supernova», nota Moore nel suo articolo.
Questa rappresentazione artistica mostra il processo attraverso il quale una stella massiccia all’interno di un sistema binario diventa una supernova. La serie di eventi si è verificata nella supernova Sn 2022jli ed è stata rivelata per mezzo di osservazioni con on il Vlt (Very Large Telescope) e con l’Ntt (New Technology Telescope) dell’Eso. Dopo che una stella massiccia è esplosa come una supernova, ha lasciato dietro di sé un oggetto compatto: una stella di neutroni o un buco nero. La stella compagna è sopravvissuta all’esplosione, ma di conseguenza la sua atmosfera è diventata più gonfia del solito. L’oggetto compatto e la sua compagna hanno continuato a orbitare l’uno intorno all’altra, con l’oggetto compatto che rubava regolarmente materia dall’atmosfera rigonfia dell’altra. Questo accumulo di materia è stato visto nei dati ottenuti dai ricercatori come fluttuazioni regolari di luminosità e moti periodici di idrogeno gassoso. Crediti: Eso/L. Calçada
Sia il gruppo di Moore che quello di Chen ritengono che questo comportamento potrebbe essere spiegato dalla presenza di più di una stella nel sistema Sn 2022jli. In effetti, non è insolito che le stelle massicce siano in orbita insieme con una stella compagna in quello che è noto come sistema binario, e la stella che ha provocato Sn 2022jli non fa eccezione. Ciò che è notevole in questo sistema, tuttavia, è che sembra che la stella compagna sia sopravvissuta alla morte violenta dell’altra e che i due oggetti, il resto compatto e la compagna, abbiano continuato a orbitare l’uno intorno all’altro.
I dati raccolti dal gruppo di Moore, che includevano osservazioni con l’Ntt dell’Eso nel deserto di Atacama in Cile, non hanno permesso loro di definire esattamente come l’interazione tra i due oggetti abbia causato le variazioni nella curva di luce. Ma il gruppo di Chen ha realizzato ulteriori osservazioni. Hanno trovato nella luminosità in banda visibile del sistema le stesse fluttuazioni regolari che il team di Moore aveva rilevato e hanno anche individuato moti periodici di idrogeno gassoso ed esplosioni di raggi gamma nel sistema. Le loro osservazioni sono state possibili grazie a una flotta di strumenti a terra e nello spazio, incluso lo strumento X-shooter installato sul Vlt dell’Eso, anch’esso situato in Cile.
Rappresentazione artistica di una stella in un sistema binario mentre esplode in supernova. Crediti:
Eso/L. Calçada
Mettendo insieme tutti gli indizi, i due gruppi in generale concordano sul fatto che quando la stella compagna ha interagito con il materiale espulso durante l’esplosione della supernova, la sua atmosfera ricca di idrogeno è diventata più gonfia del solito. Di conseguenza, l’oggetto compatto rimasto dopo l’esplosione sfrecciando attraverso l’atmosfera della compagna durante l’orbita le ruberebbe gas idrogeno, formando intorno a sé un disco caldo di materia. Questo furto periodico di materia, o accrescimento, produrrebbe molta energia, rilevata come cambiamenti regolari di luminosità nelle osservazioni.
Anche se i due gruppi non hanno potuto osservare la luce proveniente direttamente dall’oggetto compatto, hanno concluso che questo furto di energia può essere dovuto solo a una stella di neutroni invisibile, o forse a un buco nero, che risucchia materia dall’atmosfera gonfia della stella compagna. «La nostra ricerca è come risolvere un puzzle raccogliendo tutte le prove possibili», conclude Chen. «Tutti questi pezzi messi in ordine portano alla verità».
Nonostante la conferma della presenza di un buco nero o di una stella di neutroni, c’è ancora molto da svelare su questo sistema enigmatico, tra cui l’esatta natura dell’oggetto compatto o a quale fine potrebbe tendere questo sistema binario. I telescopi di prossima generazione come l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso, la cui entrata in funzione è prevista per la fine di questo decennio, aiuteranno in questo senso, consentendo agli astronomi di rivelare dettagli senza precedenti di questo sistema unico.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A 12.4-day periodicity in a close binary system after a supernova”, di Ping Chen, Avishay Gal-Yam, Jesper Sollerman, Steve Schulze, Richard S. Post, Chang Liu, Eran O. Ofek, Kaustav K. Das, Christoffer Fremling, Assaf Horesh, Boaz Katz, Doron Kushnir, Mansi M. Kasliwal, Shri R. Kulkarni, Dezi Liu, Xiangkun Liu, Adam A. Miller, Kovi Rose, Eli Waxman, Sheng Yang, Yuhan Yao, Barak Zackay, Eric C. Bellm, Richard Dekany, Andrew J. Drake, Yuan Fang, Johan P. U. Fynbo, Steven L. Groom, George Helou, Ido Irani, Theophile Jegou du Laz, Xiaowei Liu, Paolo A. Mazzali, James D. Neill, Yu-Jing Qin, Reed L. Riddle, Amir Sharon, Nora L. Strotjohann, Avery Wold e Lin Yan