I misteri del cielo tra scienza e fantasia
Marco Malvaldi, “Oscura e celeste”, Giunti, 2023, 352 pagine, 19 euro
Oscura e Celeste è l’ultimo romanzo dello scrittore Marco Malvaldi, pubblicato lo scorso aprile da Giunti. La storia si svolge a Firenze nel 1631, periodo in cui l’Europa è in conflitto, i viveri scarseggiano, è in corso un’epidemia di peste bubbonica e la Santa Inquisizione non dà tregua alla libertà di espressione, soprattutto scientifica.
Un palcoscenico oscuro per i protagonisti del romanzo, che tuttavia può offrire un’opportunità allo scienziato considerato uno dei padri del metodo scientifico: Galileo Galilei (1564-1642). A causa dell’epidemia, infatti, Galileo potrebbe riuscire a eludere i controlli della Santa Inquisizione e a stampare il suo ultimo libro – Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo – non a Roma ma a Firenze. Purtroppo la sua vista risulta sempre più appannata e ad aiutarlo con la trascrizione delle minute per la stampa sarà la figlia prediletta Virginia (suor Maria Celeste), divenuta monaca di clausura in San Matteo ad Arcetri, insieme alla sorella Livia (suor Arcangela), per insufficienza di dote.
Malvaldi ci presenta, dunque, un Galileo non solo scienziato ma anche padre, amato e odiato dalle figlie che si ritrovano a vivere l’infelice vita monastica, per di più di clausura, tra preghiera, castità e povertà. Ma anche un luogo umile e di preghiera può rivelare aspetti inattesi. Così una notte qualcuno intravede un’ombra, si sente il tonfo di un corpo che cade e nel cortile del monastero viene trovato il corpo di suor Agnese, mente curiosa e votata alla cultura. Chi avrebbe mai potuto ucciderla? Le vicende storiche si intrecciano così con il mistero, sciogliendosi e perdendosi lungo tutta la trama del romanzo, fino all’ultima pagina, grazie alla scrittura energica e ironica dell’autore.
Galileo si svela al lettore senza fretta, attraverso le conversazioni e gli incontri con le figlie, con “la Piera”, la domestica timorosa e chiacchierona, la madre badessa del Convento in San Matteo, i cardinali, gli allievi, gli inquisitori e i grandi personaggi alla corte del granducato come Ferdinando II De’ Medici.
Il romanzo è frutto di un’intensa ricerca storica, ma attenzione, “questo non è un libro di storia” come sottolinea lo stesso Malvaldi nelle note finali. Le vicende sono ispirate dalla storia ed è animato dal folto epistolario tra Galileo e le figlie, in particolare con Virginia, riportato più volte tra le pagine del romanzo. Dal carteggio originario, però, vi è una lacuna di un anno, periodo in cui probabilmente Galileo si trovava ad Arcetri e poteva andare a trovare le figlie personalmente. Ed è qui che si insinua la fantasia dello scrittore. Chi è appassionato di storia avrà spesso avvertito quel profondo, viscerale, desiderio di poter viaggiare nel tempo e osservare con i propri occhi momenti, eventi, personaggi, in epoche molto distanti da noi. Non è dunque improbabile immaginare ciò che ha provato lo stesso Malvaldi davanti a quel salto temporale: “disperazione degli storici ma benedizione per i romanzieri”.
Ma se non è un romanzo storico, allora è un libro giallo? Si potrebbe rispondere: non solo. La scrittura di Marco Malvaldi è sarcastica. Mentre si destreggiano tra i vari colpi di scena, i suoi protagonisti hanno un piglio a tratti polemico e irriverente contro il potere sia religioso che politico. È un libro estremamente moderno, difficile da approfondire senza incappare in qualche spoiler.
Chi ama Galileo Galilei e le sue avventure storiche e scientifiche, dovrebbe leggerlo. Chi ama i gialli potrebbe apprezzare molto l’intreccio tra storia e fantasia fino alla risoluzione del caso.
Polvere eri, pianeta diventerai
Al centro dell’immagine (cliccare per ingrandire) si trova la giovane stella V960 Mon, a oltre 5000 anni luce di distanza da noi nella costellazione dell’Unicorno.Il materiale polveroso che potrebbe formare pianeti circonda la stella. Le osservazioni ottenute con lo strumento Sphere installato sul Vlt dell’Eso, rese con toni di giallo, mostrano che il materiale polveroso in orbita intorno alla giovane stella si sta raccogliendo in una serie di intricati bracci a spirale che si estendono a distanze maggiori dell’intero Sistema Solare. Invece, le regioni in blu rappresentano i dati ottenuti con Alma, di cui l’Eso è partner.I dati di Alma scrutano più in profondità nella struttura dei bracci a spirale, rivelando grandi grumi di polvere che potrebbero contrarsi e collassare per formare pianeti giganti delle dimensioni di Giove grazie a un processo noto come “instabilità gravitazionale”. Crediti: Eso / Alma (Eso/Naoj/Nrao) / Weber et al.
Una nuova spettacolare immagine rilasciata oggi dall’Eso (Osservatorio Europeo Australe) fornisce utili indizi su come potrebbero formarsi i pianeti massicci come Giove. Usando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso e Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), alcuni ricercatori hanno rilevato grandi masse di polvere, vicino a una giovane stella, che potrebbero collassare e creare pianeti giganti.
«Questa scoperta è davvero affascinante in quanto segna il primissimo avvistamento intorno a una giovane stella di grumi di materia che potrebbero dare origine a pianeti giganti», dice Alice Zurlo, ricercatrice presso l’Universidad Diego Portales, in Cile, coinvolta nelle osservazioni.
Il lavoro si basa su un’immagine ipnotica ottenuta con lo strumento Sphere (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet Research) installato sul Vlt dell’Eso che mostra dettagli affascinanti del materiale intorno alla stella V960 Mon, una giovane stella a oltre cinquemila anni luce di distanza da noi nella costellazione dell’Unicorno che ha attratto l’attenzione degli astronomi nel 2014 quando la sua luminosità è improvvisamente aumentata più di venti volte. Le osservazioni di Sphere effettuate poco dopo l’inizio di questa “esplosione” di luminosità hanno rivelato che il materiale in orbita intorno a V960 Mon si sta raccogliendo in una serie di intricati bracci a spirale che si estendono su distanze maggiori dell’intero Sistema Solare.
La scoperta ha quindi motivato gli astronomi ad analizzare le osservazioni d’archivio dello stesso sistema realizzate con Alma, di cui l’Eso è partner. Le osservazioni del Vlt indagano la superficie del materiale polveroso intorno alla stella, mentre Alma può scrutare più in profondità nella struttura. «Con Alma, è diventato evidente che i bracci a spirale stanno subendo una frammentazione, con conseguente formazione di grumi di materia con masse simili a quelle dei pianeti», spiega Zurlo.
Grandi grumi pieni di polvere in orbita intorno a V960 Mon, catturati da Alma. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao) / Weber et al.
Gli astronomi ritengono che i pianeti giganti si formino per accrescimento del nucleo, quando i granelli di polvere si uniscono, o per instabilità gravitazionale, quando grandi frammenti di materiale intorno a una stella si contraggono e collassano. Mentre i ricercatori avevano già trovato varie evidenze per confermare il primo di questi scenari, il supporto per il secondo rimaneva scarso.
«Nessuno aveva mai visto una vera osservazione dell’instabilità gravitazionale su scala planetaria – fino a oggi», ricorda Philipp Weber, ricercatore dell’Università di Santiago, in Cile, che ha guidato lo studio pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters.
«Il nostro gruppo cerca da oltre dieci anni tracce di come si formano i pianeti e non potremmo essere più entusiasti di questa incredibile scoperta», dice Sebastián Pérez dell’Università di Santiago, in Cile, membro del gruppo di lavoro.
Gli strumenti dell’Eso aiuteranno gli astronomi a svelare maggiori dettagli di questo affascinante sistema planetario in costruzione e in tutto ciò l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso giocherà un ruolo chiave. Attualmente in costruzione nel deserto cileno di Atacama, l’Elt potrà osservare il sistema nel modo più dettagliato di sempre e raccogliere informazioni cruciali. «L’Elt consentirà l’esplorazione della complessità chimica che circonda i grumi, aiutandoci a capire meglio la composizione del materiale da cui si stanno formando i potenziali pianeti», conclude Weber.
Fonte: comunicato stampa Eso
Più dell’amor poté la gravità
Spingendo il suo sguardo nella direzione della costellazione della Balena, il telescopio spaziale James Webb ha assistito a un incontro molto particolare, che è stato immortalato in questa fotografia.
Crediti. Esa/Webb, Nasa & Csa, L. Armus & A. Evans. Ringraziamenti: R. Colombari
A 270 milioni di anni luce dalla Terra, due galassie si stanno lanciando a capofitto l’una nell’altra.
Per quanto possa sembrare un evento straordinario, questi incontri celesti sono molto comuni nell’universo e la maggior parte delle galassie si è scontrata almeno una volta con una compagna. Si tratta di fusioni che durano centinaia di milioni di anni (un tempo difficile da immaginare ma relativamente breve per le scale cosmiche) e che, con un po’ di fortuna, siamo in grado di catturare.
C’è movimento, lassù, un cielo tutto in evoluzione. Le galassie stesse evolvono: guidate dalla gravità nascono, si intrecciano, collidono, si mischiano e, così facendo, generano delle nuove spettacolari strutture.
Un’attrazione simile travolgerà anche noi. La nostra gemella, Andromeda, si sta avvicinando verso la Via Lattea a 120 chilometri al secondo (non all’ora!) e il risultato sarà una fusione mozzafiato. Il cielo di notte, a quel punto, apparirà più o meno così.
Crediti: Nasa, Esa, Z. Levay and R. van der Marel (Stsci), T. Hallas, and A. Mellinger
Dell’impatto, però, non c’è da preoccuparsi. Per prima cosa, l’eventualità che il Sole si scontri con altre stelle durante questa collisione è molto remota, e con buona probabilità il Sistema solare sarà salvo. E poi, tutto ciò non ci riguarda davvero: la fusione avverrà tra – secolo più, secolo meno – 4 miliardi di anni.
Testo preparato da Edwige Pezzulli per la puntata di “Noos – L’avventura della conoscenza” andata in onda su Rai 1 giovedì 20 luglio 2023, disponibile su RaiPlay, e riproposto su Media Inaf per gentile concessione dell’autrice.
Guarda il video sul canale YouTube della Rai:
Palermo, 47 gradi all’Osservatorio Inaf: è record
La sede dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo. Crediti: L. Leonardi/Inaf Palermo
Oggi, lunedì 24 luglio 2023, la stazione meteorologica digitale dell’Inaf-Osservatorio astronomico di Palermo “Giuseppe S. Vaiana”, situata in cima alla Torre Pisana di Palazzo dei Normanni, alle ore 15:42 ha registrato una temperatura di 47,0 °C. Tale valore costituisce un massimo assoluto della temperatura registrata presso l’Osservatorio per la parte di serie meteorologica che è stata già digitalizzata, e cioè a partire dall’anno 1865.
Sono in corso indagini più approfondite per stabilire se tale valore estremo sia un massimo anche considerando la parte più antica della serie meteorologica dell’Osservatorio, che risale fino alla sua fondazione, nel 1790. Il precedente record della serie digitalizzata era 44,6 °C, registrata sia il 10 agosto 1999 che il 25 giugno 2007.
Il valore attuale dunque, di gran lunga superiore al precedente record, è dovuto all’effetto del libeccio in caduta sulla città dai rilievi (foehn), che ha ulteriormente arroventato l’aria caldissima dell’anticiclone nord-africano. La temperatura è stata stabilmente sopra i 40 gradi a partire della 8 della mattina. A sottolineare ulteriormente la particolarità dei fenomeni meteorologici di questo periodo, vi è la circostanza che la temperatura massima registrata all’Osservatorio è stata sempre superiore a 40 °C negli ultimi tre giorni, sempre superiore a 36 °C negli ultimi sette e sempre superiore a 32 °C dal 7 luglio, tutte circostanze che anche prese a sé stanti sono di assoluta peculiarità nella serie storica dell’Osservatorio nel periodo 1865-2023.
L’Osservatorio astronomico di Palermo è stato riconosciuto come “Centennial Observing Station” dall’Organizzazione mondiale della meteorologia nel 2020, poiché soddisfa gli stringenti requisiti richiesti riguardo la conservazione e l’acquisizione di dati meteo centenari.
La strumentazione meteorologica consiste di una moderna centralina elettronica digitale, acquisita anche grazie al supporto dell’Università di Palermo e della Società meteorologica italiana, e di una serie di strumenti analogici di backup. Presso il Museo della Specola dell’Osservatorio sono altresì conservati diversi strumenti meteorologici storici usati in passato per le rilevazioni di quella che è una delle più lunghe serie storiche dell’Europa meridionale.
Per saperne di più:
- Scarica il comunicato stampa dell’Inaf di Palermo
Storia di una galassia senza materia oscura
La galassia priva di materia oscura Ngc 1277, situata vicino al centro dell’ammasso del Perseo, a 240 milioni di anni luce dalla Terra. Crediti: Nasa, Esa e M. Beasley (Iac)
Strani, gli astrofisici. Abituati a convivere con l’idea di un universo fatto per la maggior parte di due entità sconosciute e invisibili – materia oscura ed energia oscura – si stupiscono quando una galassia, per stare in piedi, non ne ha bisogno. E ne fanno una notizia. O meglio, un articolo scientifico, peer-reviewed e pubblicato in Astronomy and Astrophysics. Racconta il caso di Ngc 1277, una galassia quasi priva di materia oscura, mentre la teoria prevederebbe che questa costituisse almeno il 10 per cento (e fino al 70 per cento) della sua massa.
Una delle prove che ha convinto gli astrofisici circa l’esistenza di materia oscura riguarda proprio le galassie. La rotazione osservata delle stelle e del gas nel loro disco, infatti, non segue l’andamento che ci si aspetterebbe se la massa della galassia fosse costituita solamente da quel che vediamo, ma necessita di un’aggiunta: la materia oscura, appunto. Ma Ngc 1277 non è una galassia come le altre.
Innanzitutto, perché è considerata il prototipo delle cosiddette relic galaxy, galassie massive ultracompatte vicine (a noi) e con caratteristiche tali da far pensare cha non abbiano mai avuto una fase di accrescimento tramite fusione con altre galassie, come previsto dallo scenario standard di formazione delle galassie. Le galassie relics, quindi, sembra che siano evolute passivamente attraverso il tempo cosmico senza interagire con nessun’altra struttura, fino a trovarsi nell’universo locale compatte così come erano quando si sono formate, e popolate solo da stelle vecchie primordiali. Delle vere e proprie eremite cosmiche.
«In quanto reliquie dell’universo antico, queste galassie ci permettono di studiare i processi fisici che hanno plasmato l’assemblaggio di massa delle galassie nell’universo ad alto redshift ma ci forniscono una quantità di dettagli raggiungibile solo nell’universo vicino», spiega a Media Inaf Michele Cappellari, professore di astrofisica all’università di Oxford e coautore dello studio su Ngc 1277. «Per riconoscerle, cerchiamo galassie con tre caratteristiche: la prima, quella di essere compatte, la seconda, che siano massicce e, infine, la terza è che abbiano una popolazione stellare completamente vecchia, senza alcuna evidenza di formazione stellare più recente».
Proprio per sfruttare questa finestra sul passato dell’universo offerta da Ngc 1277, gli autori di questo studio hanno deciso di osservarla in dettaglio con uno spettrografo a campo integrale, e di ricostruirne tutta la cinematica e la dinamica dal centro a circa ventimila anni luce di distanza da questo. Per farlo, hanno usato il George Mitchell and Cynthia Spectrograph contenuto nel telescopio dal 2.7m di diametro Harlan J. Smith all’osservatorio Mc Donald, in Texas. Scoprendo che, all’interno del raggio osservato, non può esserci più del 5 per cento di materia oscura e la massa è costituita quasi unicamente dalle stelle.
«Sappiamo bene che nella scienza niente è definitivo e tutto può cambiare con nuove scoperte e teorie. Tuttavia, la ragione per cui possiamo affermare che Ngc 1277 non ha la stessa quantità di materia oscura delle altre galassie è che, in altri lavori, abbiamo usato lo stesso tipo di modelli dinamici basati sulla cinematica stellare a grandi distanze per decine di altre galassie e nessuna mostra comportamenti simili», continua Cappellari. «Quindi, abbiamo una galassia che avevamo già identificato come una galassia particolare del tipo relic, che si rivela anche essere particolare per la presunta mancanza di materia oscura. Ci sembra naturale pensare che le due caratteristiche particolari di questa galassia siano correlate, invece che frutto del caso. Con un oggetto singolo a disposizione, però, non possiamo escludere che si tratti di una coincidenza “sfortunata”. Quindi stiamo provando a ingrandire il campione per verificare se tutte le relics sono carenti di materia oscura».
Per farlo, gli astronomi utilizzerano anche lo strumento Weave, uno spettrografo a campo integrale montato al William Herschel Telescope alle Canarie, con il quale riosserveranno anche Ngc 1277. Se queste nuove osservazioni dovessero confermare l’assenza di materia oscura, la prima cosa da fare sarà indagare la ragione per cui questa galassia ne è priva, o come abbia potuto perderla. Una delle ipotesi, secondo quanto riportato dagli autori, potrebbe essere che la materia oscura le sia stata strappata dall’interazione gravitazionale con il mezzo intra-cluster dell’ammasso di galassie nel quale si trova a vivere.
«L’ipotesi che la materia oscura sia stata sottratta da interazioni è stata proposta da alcuni modelli che hanno dimostrato come questo sia fattibile», spiega Cappellari. «Però, possiamo già dire che questa teoria non si adatta bene a Ngc 1277. Innanzitutto, questa galassia è troppo massiccia. Poi, l’interazione avrebbe dovuto alterare anche la morfologia e la cinematica delle componenti visibili come gas e stelle, ma Ngc 1277 sembra girare rapidamente con un disco stellare sottile e regolare. Infine, c’è il fatto che è una relic, come spiegato sopra, e l’interazione gravitazionale non produce relics. Quindi, questa caratteristica dovrebbe essere una improbabile coincidenza».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “The massive relic galaxy NGC 1277 is dark matter deficient – From dynamical models of integral-field stellar kinematics out to five effective radii”, di Sébastien Comerón, Ignacio Trujillo, Michele Cappellari, Fernando Buitrago, Luis E. Garduño, Javier Zaragoza-Cardiel, Igor A. Zinchenko, Maritza A. Lara-López, Anna Ferré-Mateu e Sami Dib
Esplosione sulla cometa Pons-Brooks
La chioma della cometa Pons–Brooks ripresa il 23 luglio 2023 da Marcelo de Oliveira (Brasile) usando il Faulkes Telescope North nell’ambito del progetto didattico “Comet Chasers Project”. Crediti: Marcelo de Oliveira.
Il prossimo 21 aprile 2024 la cometa periodica 12P/Pons-Brooks passerà al perielio arrivando a 0,78 unità astronomiche dal Sole (circa 117 milioni di km). Non si tratta di un valore particolarmente ridotto, ma è un evento che non capita di frequente: la Pons-Brooks infatti appartiene alla famiglia delle comete Halley-Type e ha un periodo orbitale di ben 71 anni, solo 5 in meno della sua parente più nota. L’orbita della Pons-Brooks ha un’eccentricità di 0,95 e all’afelio arriva a 33,6 unità astronomiche dal Sole, poco oltre l’orbita di Nettuno. In realtà, considerato che l’orbita della cometa è inclinata di ben 74° sul piano dell’eclittica, i passaggi ravvicinati con i pianeti sono estremamente rari. Per lo più la Pons-Brooks si muove al di sopra dell’eclittica, passa al di sotto al nodo discendente che si trova in prossimità dell’orbita di Venere e risale sopra l’eclittica al nodo ascendente, posto fra le orbite di Saturno e Urano. La cometa fu scoperta il 21 luglio 1812 all’Osservatorio di Marsiglia dall’astronomo francese Jean-Louis Pons e riscoperta indipendentemente il 2 settembre 1883 dall’astronomo americano William Robert Brooks. Questa circostanza spiega il perché del doppio nome che porta la cometa.
Integrando l’orbita indietro nel tempo, Maik Meyer e colleghi hanno scoperto che la Pons-Brooks era già stata osservata a occhio nudo nel 1457 e nel 1385. Nel 1457 fu osservata dal celebre cartografo e astronomo Paolo dal Pozzo Toscanelli (che ispirò il viaggio di Cristoforo Colombo), mentre nel 1385 fu osservata solo dagli astronomi cinesi, attenti osservatori del cielo. Come si vede si tratta di una cometa abbastanza anonima, ma che può riservare delle sorprese.
La cometa è stata ritrovata il 10 giugno 2020 dal Lowell Discovery Telescope, quando era di magnitudine +23 a 11,6 unità astronomiche dal Sole. Da allora la luminosità è salita in modo regolare fino al 19 luglio di quest’anno, quando la Pons-Brooks aveva una magnitudine apparente di +16,6. Il 20 luglio questo valore è improvvisamente salito a +11,6: un valore di luminosità ben cento volte superiore, indice di un’esplosione (outburst) avvenuta sul nucleo. Autore della scoperta è stato l’astrofilo ungherese Elek Tamás (Harsona Observatory), come descritto nell’Electronic Telegram No. 5280 da Daniel Green, del Central Bureau for Astronomical Telegrams.
Per la verità la Pons-Brooks non è nuova a questo tipo di comportamento: la cometa ha mostrato outburst sia nel passaggio del 1812, del 1883 e del 1954, l’ultimo osservato. Al momento dell’outburst del 20 luglio la cometa era a 3,89 unità astronomiche dal Sole e subito dopo l’evento il diametro apparente della chioma ha iniziato ad aumentare per effetto dell’espansione nello spazio dei gas e polveri emessi nello spazio. Al momento il diametro angolare della chioma è di circa 50 arcosecondi, pari a 140mila km nello spazio, in aumento (grossomodo il diametro del pianeta Giove). La chioma presenta una struttura interessante: non ha una completa simmetria sferica, ma presenta una zona d’ombra circoscritta da due getti che si allungano nello spazio, una figura che ricorda un po’ quella di Pac-Man.
La cometa Pons-Brooks ripresa da Roma nelle sere del 19 e 22 luglio da Fabrizio Montanucci con uno Schmidt-Cassegrain da 28 cm di diametro. Nella serata del 19 (a sinistra) la cometa, indicata dalla freccia, era poco luminosa, mentre nella serata del 22 (a destra) è ben evidente la chioma in rapida espansione. Crediti: Fabrizio Montanucci
Probabilmente questa struttura è l’effetto combinato di un nucleo che ruota molto lentamente con l’asse di rotazione rivolto verso l’osservatore e l’espansione del materiale nello spazio. Se l’outburst, come è logico attendersi, è avvenuto nell’emisfero illuminato dalla radiazione solare, il materiale sarà stato sospinto sia verso il Sole sia lateralmente, e poi ripiegato all’indietro dalla pressione della radiazione e il vento solare, dando luogo a una specie di “fontana”, che ha formato una zona meno densa all’interno della chioma, percepibile come una zona d’ombra. La chioma attuale della Pons-Brooks ricorda quella di un’altra cometa esplosiva, la 29P/Schwassmann-Wachmann, che ogni 57 giorni ha un outburst del nucleo. In base al tasso di espansione della chioma della Pons-Brooks si può stimare una velocità di circa 0,5 km/s, un valore abbastanza tipico per questo genere di eventi. Ci saranno altri outburst? Considerata la storia passata della cometa molto probabilmente sì, va seguita con attenzione.
La Pons-Brookes dovrebbe superare la soglia della visibilità a occhio nudo nel periodo da fine febbraio a metà giugno 2024, purtroppo però sarà osservabile con difficoltà dall’emisfero boreale perché, all’inizio del periodo, avrà una scarsa elongazione dal Sole e sarà visibile solo per poco tempo in prima serata. Successivamente l’elongazione aumenterà, ma la declinazione diventerà rapidamente molto negativa e sarà un oggetto celeste del cielo australe. Conviene seguire questa cometa nella fase di avvicinamento al Sole perché dopo sarà molto più complicato: in queste settimane la Pons-Brooks continuerà a essere ben visibile alta sull’orizzonte nella costellazione del Drago, se avete un telescopio e una camera Ccd/Cmos non trascurate di darle un’occhiata – potreste scoprire il prossimo outburst.
Acqua in un sistema planetario in formazione
Il James Webb Space Telescope (Jwst) stupisce ancora e si conferma l’osservatorio spaziale più potente di cui dispone la comunità scientifica al momento. Utilizzando il telescopio di Nasa ed Esa, la collaborazione Minds (Miri mid-inrared disk survey), un team di ricerca guidato dall’Istituto Max Planck per l’astronomia e a cui partecipa anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), ha scoperto acqua nella regione interna di un disco di gas e polvere attorno alla giovane stella Pds 70, a circa 370 anni luce di distanza da noi. Gli astronomi si aspettano che in quella zona si stiano formando dei pianeti rocciosi – quindi di tipo terrestre. Come descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, si tratta del primo rilevamento di questo tipo in un disco di gas e polveri che ospita già almeno altri due pianeti.
Rappresentazione artistica del disco intorno a Pds 70. Le osservazioni con Jwst hanno permesso di scoprire acqua nelle regioni interne del disco, dove normalmente si formano pianeti di tipo terrestre. Due giganti gassosi, osservati in precedenza, hanno scavato un ampio spazio anulare nel disco di gas e polvere. Crediti: Max Planck Institute for Astronomy
Dall’analisi dei dati raccolti, risulta che eventuali pianeti rocciosi nati nel disco interno beneficerebbero di una significativa disponibilità d’acqua, migliorando le possibilità di sviluppare condizioni favorevoli alla vita. I ricercatori riescono quindi a provare che esiste un meccanismo che fornisce acqua a pianeti potenzialmente abitabili già durante la loro formazione.
Sulla Terra, l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Lo scenario attualmente più accreditato suggerisce che l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta a seguito dei violenti impatti con asteroidi e comete che bombardarono la superficie del giovane pianeta. Ora, gli esperti ritengono però che l’acqua potrebbe essere disponibile sin dalla nascita di questi pianeti.
«La scoperta di acqua intorno a Pds 70, una stella ancora in formazione e un po’ meno massiccia del Sole, ha un’importanza molteplice», dice Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’Inaf di Napoli e co-autore dello studio. «Prima di tutto perché Pds 70 è l’unica stella giovane in cui sono stati osservati direttamente due pianeti in formazione (probabilmente dei giganti gassosi) posizionati nelle regioni esterne del disco. Quindi ci aspettiamo che ce ne possano essere altri di tipo roccioso in formazione nelle regioni più interne e non ancora osservati. Il fatto più importante è che l’acqua osservata è situata proprio in questa regione interna, quindi ora sappiamo che possibili pianeti in formazione hanno una riserva d’acqua da cui possono attingere».
Le osservazioni sono state effettuate sfruttando lo strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) a bordo del telescopio James Webb. Secondo l’analisi dei dati, l’acqua è sotto forma di vapore caldo, compatibile con una temperatura di circa 330 gradi Celsius.
Pds 70 è il primo disco relativamente “anziano” – l’età stimata è circa 5,4 milioni di anni – in cui gli astronomi abbiano trovato l’acqua. Nel corso del tempo, il contenuto di gas e polvere dei dischi che formano i pianeti diminuisce. Poiché studi precedenti non erano riusciti a rilevare l’acqua nelle regioni centrali di dischi simili, gli astronomi hanno sempre sospettato che potesse non sopravvivere alla radiazione stellare, portando così i pianeti rocciosi a formarsi in ambienti asciutti e aridi. Le osservazioni di Miri confermano, però, che dopotutto i perimetri interni dei dischi privi di polvere potrebbero non essere così asciutti. In tal caso, molti pianeti terrestri che si formano in quelle zone potrebbero già nascere con un ingrediente chiave per garantirne l’abitabilità.
Di pianeti rocciosi nel disco di Pds 70 non vi è traccia al momento, poiché sarebbero troppo deboli e vicini alla stella per essere osservati direttamente con gli attuali strumenti a disposizione. Pds 70 b e c sono gli unici due pianeti, gassosi, all’interno di questo sistema planetario. I due oggetti hanno accumulato polvere e gas orbitando attorno alla loro stella ospite, creando un ampio spazio anulare quasi privo di qualsiasi materiale rilevabile.
Ma da dove viene questo vapore acqueo? L’acqua trovata all’interno del disco potrebbe essere un residuo di una nebulosa inizialmente ricca di questa molecola. Un’altra fonte potrebbe essere polvere interstellare ricca di acqua e gas che entrano dai bordi esterni del disco di Pds 70. In determinate circostanze, l’ossigeno e l’idrogeno gassoso possono combinarsi e formare vapore acqueo. «La verità sta probabilmente in una combinazione di tutte queste opzioni», spiega Giulia Perotti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’Istituto Max Planck per l’astronomia ad Heidelberg, in Germania. «Tuttavia, è probabile che un meccanismo svolga un ruolo decisivo nel sostenere il serbatoio d’acqua del disco Pds 70. Il nostro compito in futuro sarà scoprire qual è».
«Jwst sta rivoluzionando la nostra comprensione della formazione planetaria, rivelandoci la diversità e la ricchezza della chimica dei dischi, ovvero dell’habitat in cui i pianeti si formano», conclude Caratti o Garatti. «Il progetto Jwst Minds ha proprio lo scopo di studiare questo habitat in un numero significativo di stelle di tipo solare in formazione».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Water in the terrestrial planet-forming zone of the Pds 70 disk”, di G. Perotti, V. Christiaens, T. Henning, B. Tabone, L. B. F. M. Waters, I. Kamp, G. Olofsson, S. L. Grant, D. Gasman, J. Bouwman, M. Samland, R. Franceschi, E. F. van Dishoeck, K. Schwarz, M. Güdel, P.-O. Lagage, T. P. Ray, B. Vandenbussche, A. Abergel, O. Absil, A. M. Arabhavi, I. Argyriou, D. Barrado, A. Boccaletti, A. Caratti o Garatti, V. Geers, A. M. Glauser, K. Justannont, F. Lahuis, M. Mueller, C. Nehmé, E. Pantin, S. Scheithauer, C. Waelkens, R. Guadarrama, H. Jang, J. Kanwar, M. Morales-Calderón, N. Pawellek, D. Rodgers-Lee, J. Schreiber, L. Colina, T. R. Greve, G. Östlin e G. Wright
Smascherata una nana bianca a due facce
Animazione con i campi magnetici della nana bianca, responsabili probabilmente della presenza delle due facce. Crediti: K. Miller, Caltech/Ipac
Si chiama Janus, l’insolita stella nana bianca osservata per la prima volta in assoluto dai telescopi in California. E proprio come la divinità romana bifronte che guarda sia il passato che il futuro, rappresentando le fasi di passaggio e transizione, questa particolare nana bianca ha mostrato due facce, o meglio, due atmosfere differenti: una di elio e l’altra composta da idrogeno.
«La superficie della nana bianca cambia completamente da un lato all’altro», dice Ilaria Caiazzo, ricercatrice postdoc al Caltech (California Institute of Technology) che ha guidato il nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature. «Quando mostro queste mie osservazioni, rimangono tutti a bocca aperta».
Le nane bianche sono i resti estremamente densi e incandescenti lasciati dalla maggior parte delle stelle dopo la loro morte: quando le stelle invecchiano, si trasformano prima in giganti rosse, poi il materiale esterno viene spazzato via e il loro nucleo si contrae in nane bianche dense e incandescenti. Anche il nostro Sole evolverà in una nana bianca, tra circa cinque miliardi di anni. Le nane bianche hanno una massa paragonabile a quella del Sole, compressa però in un volume simile a quello di un pianeta come Terra: in presenza di una forte gravità, gli elementi pesanti sprofondano verso il centro e lo strato superiore della loro atmosfera contiene solo gli elementi più leggeri, di solito idrogeno o elio. Nel campione di nane bianche osservato in questo caso, però, gli astronomi hanno scoperto che almeno un membro della famiglia cosmica mostra due facce ben distinte: un lato della nana bianca è composto solo da idrogeno e l’altro solo da elio.
A 1300 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Cigno, Janus è stata inizialmente vista con lo Zwicky Transient Facility (Ztf), lo strumento che scansiona il cielo ogni notte dall’Osservatorio Palomar del Caltech, vicino a San Diego. Durante la sua ricerca di nane bianche altamente magnetizzate, Caiazzo ha scovato un oggetto che si è subito distinto per i suoi rapidi cambiamenti di luminosità. Dopo ulteriori indagini con la fotocamera Chimera del telescopio Palomar e con l’HiperCam del Gran Telescopio Canarias, sull’isola di La Palma (Canarie, Spagna), la ricercatrice ha confermato l’esistenza di Janus e la rotazione sul suo asse con un periodo di 15 minuti. Successive osservazioni effettuate dai telescopi Keck in cima a Maunakea, nelle Hawaii, hanno poi rivelato la peculiare natura bifronte della nana bianca.
Ilaria Caiazzo, ricercatrice del Caltech e prima autrice del nuovo studio pubblicato su Nature
Il team ha successivamente utilizzato uno spettrometro per diffondere la luce della nana bianca in un arcobaleno di lunghezze d’onda contenenti diverse “impronte chimiche”. I dati hanno rivelato la presenza di idrogeno quand’era in vista uno dei due emisferi della nana bianca, e di elio quando invece era visibile il lato opposto. Una scoperta che potrebbe aiutare a far luce sui meccanismi fisici alla base dell’evoluzione delle nane bianche.
Ma come mai una nana bianca che fluttua da sola nello spazio ha facce così drasticamente differenti? Il team, perplesso, ha elaborato alcune possibili teorie, e una di queste è che forse stiamo assistendo a una rara fase di evoluzione della nana bianca. «Alcune nane bianche passano dall’essere dominate dall’idrogeno alla completa predominanza dell’elio sulla loro superficie», spiega Caiazzo. «Potremmo aver colto una di queste nane bianche in flagrante».
Dopo la formazione delle nane bianche, gli elementi più pesanti affondano nel nucleo e gli elementi più leggeri – l’idrogeno è il più leggero di tutti – galleggiano verso l’alto. Ma col passare del tempo, quando le nane bianche si raffreddano, si pensa che i materiali si mescolino tra loro. In alcuni casi, l’idrogeno si mescola e si diluisce all’interno, e questo potrebbe far prevalere l’elio in superficie. Janus potrebbe rappresentare un esempio di questa fase di transizione.
Rappresentazione artistica della nana bianca “a due facce” Janus. Ciò che resta di una stella quando muore è composto da elio e idrogeno. Qui sono divisi su due facce, quella con l’idrogeno è il “volto” più luminoso. Credii: K. Miller, Caltech/Ipac
Rimane comunque da capire come mai la transizione avvenga in modo così disgiunto, con una parte che si evolve prima dell’altra. Perché, in pratica, si formano le “due facce”? La risposta potrebbe risiedere nei campi magnetici. «I campi magnetici intorno ai corpi cosmici tendono a essere asimmetrici, e questo può ostacolare il mescolamento dei materiali. Ecco dunque che, se il campo magnetico è più forte da un lato, quel lato avrà meno mescolanza – e quindi più idrogeno», spiega Caiazzo. Un’ulteriore ipotesi, formulata anch’essa dagli autori dello studio, è sempre legata ai campi magnetici: in questo secondo scenario, modificherebbero la pressione e la densità dei gas atmosferici. «I campi magnetici potrebbero portare a una minore pressione dei gas nell’atmosfera della nana bianca. Ciò favorirebbe la formazione di un “oceano” di idrogeno là dove i campi magnetici sono più forti», spiega il coautore dell’articolo James Fuller, professore di astrofisica teorica al Caltech. «Non sappiamo quale di queste teorie sia corretta, ma non riusciamo a pensare a nessun altro modo per spiegare la presenza dei lati asimmetrici senza campi magnetici».
Per provare a risolvere il mistero, il team spera di trovare altre nane bianche simili a Janus, sempre grazie allo studio del cielo tramite Ztf, ritenuto da Caiazzo uno strumento eccellente per trovare oggetti strani. Le future indagini, come quelle che verranno effettuate dall’Osservatorio Vera C. Rubin in Cile, dovrebbero rendere ancora più facile la ricerca di nane bianche variabili e, magari, stravaganti.
Per saperne di più:
- Leggi lo studio su Nature “A rotating white dwarf shows different compositions on its opposite faces” di Ilaria Caiazzo, Kevin B. Burdge, Pier-Emmanuel Tremblay, James Fuller, Lilia Ferrario, Boris T. Gänsicke, J. J. Hermes, Jeremy Heyl, Adela Kawka, S. R. Kulkarni, Thomas R. Marsh, Przemek Mróz, Thomas A. Prince, Harvey B. Richer, Antonio C. Rodriguez, Jan van Roestel, Zachary P. Vanderbosch, Stéphane Vennes, Dayal Wickramasinghe, Vikram S. Dhillon, et al.
Guarda sul canale YouTube di Caltech il video (in inglese) con Ilaria Caiazzo:
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Mario: competenza, dedizione e ironia
Mario Nonino (Udine 26/11/1959 – 21/07/2023)
Mario Nonino (Udine 26/11/1959 – 21/07/2023), astronomo dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Trieste, si è spento questa mattina, dopo una malattia fulminante, lasciando increduli amici e colleghi.
Aveva ottenuto il dottorato nel 1989 sotto la supervisione di Margherita Hack, con una tesi sulle galassie di Seyfert. I suoi interessi scientifici spaziavano dalla formazione ed evoluzione delle galassie negli ammassi e nel campo, alla ricerca di galassie lontane, allo studio delle popolazioni stellari nella Galassia e nell’Universo vicino. Mario aveva un’esperienza unica a livello internazionale nel pianificare, realizzare e condurre in prima persona lo sfruttamento scientifico dei dati da tutti i telescopi di frontiera, sia da terra che dallo spazio. A testimonianza del riconoscimento di tali competenze, era stato coinvolto con ruoli di primo piano nelle principali survey cosmologiche nell’ottico e nel vicino infrarosso: Sloan Digital Sky Survey (Sdss), Eso Imaging Survey (Eis), Chandra Deep Field South survey (Cdfs), the Great Observatories Deep Survey (Goods), Cluster Lensing And Supernova Search (Clash) e Clash-Vlt. All’Eso il suo lavoro aveva gettato le basi delle Public Survey. La sua consulenza era stata continuamente richiesta nell’Advance Data Products Group per la creazione e le verifiche di qualità dei data products di alto livello da rilasciare alla comunità.
La sua ultima impresa da principal investigator ha riguardato la progettazione, l’esecuzione e la release della Eso Public Survey Gcav (Galaxy Clusters At Vircam) con il telescopio Vista. La scoperta di una nana bruna dai dati Jwst della collaborazione Glass (“Early Results from GLASS-JWST. XIII. A Faint, Distant, and Cold Brown Dwarf”, Nonino et al. 2023, ApJ, 942, 29) è stato solo uno dei suoi numerosi contributi allo sfruttamento dei dati da questo telescopio rivoluzionario, che gli hanno permesso di entrare a pieno titolo in importanti collaborazioni internazionali di programmi Gto e Go.
Con l’approssimarsi del lancio del satellite Esa Euclid, e con la conseguente urgenza di completare una robusta pipeline fotometrica, Mario era stato chiamato ad assumere un ruolo di coordinamento all’interno di Ou-Mer, una delle organizational units centrali nel segmento di terra scientifico della missione.
Mario lascia l’esempio della passione per la ricerca guidata dalla pura curiosità. Alla domanda di un giornalista: «Cosa ama di più del suo lavoro?» lui aveva risposto: «L’entusiasmo di trovare qualcosa di inaspettato, la sfida tecnica, ovvero riuscire a trovare modi per analizzare dati in modo più veloce o più accurato».
Grazie alla sua arguzia e alla sua ironia, lavorare al suo fianco è stato, per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di farlo, sempre un piacere e un privilegio. Mario era una persona di immenso valore scientifico e professionalità, qualità a cui si affiancavano innata modestia, generosità e umanità. Tutto il mondo ci ha invidiato le sue vaste e profonde competenze e la sua proverbiale affidabilità. Era sempre disponibile ad aiutare i suoi collaboratori, caratteristica che lo rendeva anche un eccellente mentore per studenti e giovani colleghi. Ogni problema che doveva affrontare lo viveva come un’opportunità, sia nella vita personale che in quella privata.
L’ultima fase della sua vita l’ha affrontata con grande coraggio e dignità. Mario ci ha lasciato, e con lui abbiamo perso un solido e insostituibile punto di riferimento: il suo esempio resterà sempre con i suoi amici e collaboratori.
Amata Mercurio, Marisa Girardi, Paolo Tozzi, Piero Rosati e Stefano Borgani
Vulcanico Venere, surriscaldato da antichi impatti
Simone Marchi, primo autore dello studio appena pubblicato su Nature Astronomy, è un esperto di grandi impatti. Crediti: Maku
Il volto di Venere ha un aspetto geologicamente giovanile, potremmo dire fresco – ovviamente non dal punto di vista termico. Eppure di tettonica a placche non vi è traccia. Cos’è dunque che rinnova la superficie della sorella della Terra? Secondo uno studio pubblicato ieri su Nature Astronomy, guidato dal Southwest Research Institute (Swri) di Boulder, in Colorado, la risposta sta in una successione di “massaggi violenti” prodotti da antichi impatti ad alta velocità – un’iniezione di energia che potrebbe aver surriscaldato il nucleo del pianeta, alimentando così un vulcanismo intenso e favorendo il rimescolamento della superficie.
«Uno dei misteri del Sistema solare interno», osserva a questo proposito il primo autore dello studio, l’italiano Simone Marchi, originario di Lucca ma da anni negli Usa al Swri, «è che, nonostante abbiano dimensioni e densità simili, la Terra e Venere si comportano in modi sorprendentemente diversi, in particolare per quanto riguarda i processi che spostano le masse lungo un pianeta».
Sulla Terra l’azione dominante è quella delle placche, che galleggiando come iceberg sulle rocce semiliquide del mantello rimodellano incessantemente la superficie del pianeta, dando origine a catene montuose quando si scontrano e favorendo la comparsa di vulcani, che non a caso si trovano soprattutto lungo i bordi delle placche. Su Venere, al contrario, i vulcani tendono a essere – semplificando un po’ – molto più causa che effetto. Essendo la sua superficie formata da un’unica placca senza soluzione di continuità, dunque senza possibilità di movimento, a rinnovarne l’aspetto sono state – e forse sono ancora oggi – principalmente le inondazioni di lava prodotte dai vulcani. Vulcani presenti in modo massiccio: sono oltre 80mila, dunque 60 volte più numerosi che qui sulla Terra.
Rappresentazione artistica di Venere in epoca primordiale. Crediti: Southwest Research Institute
Ma cosa può aver reso Venere un pianeta così vulcanico? «La massiccia attività vulcanica», spiega Jun Korenaga della Yale University, fra i coautori dello studio, «è alimentata da un nucleo surriscaldato, che provoca una vigorosa fusione interna». E all’origine del surriscaldamento del nucleo ci sarebbe, appunto, una storia di intensi impatti primordiali. «I nostri ultimi modelli», continua infatti Korenaga, «dimostrano che il vulcanismo di lunga durata indotto da collisioni precoci ed energetiche offre una spiegazione convincente per la giovane età superficiale di Venere». Uno scenario, questo, nel quale un ruolo importante è giocato dalla maggiore vicinanza di Venere dal Sole rispetto alla Terra. Percorrendo un’orbita più stretta, si muove a velocità maggiore, e di conseguenza gli impatti sono più energetici. Non solo: gli autori dello studio sottolineano come a intersecare un’orbita interna qual è quella di Venere siano di solito impattatori con orbite più eccentriche di quelle richieste per colpire la Terra. E anche questo significa impatti di energia maggiore.
«Velocità d’impatto più elevate fondono una maggiore quantità di silicato, arrivando a sciogliere fino all’82 per cento del mantello di Venere», aggiunge a completare il quadro un’altra coautrice dello studio, Raluca Rufu, dell’SwRI. «Questo produce un mantello misto di materiali fusi ridistribuiti a livello globale e un nucleo surriscaldato».
L’occasione per confermare la validità di questi modelli dovrebbe presentarsi a breve. Per i prossimi anni sono infatti già in programma ben tre missioni spaziali verso Venere: Veritas, Davinci e l’europea EnVision. «In questo periodo l’interesse per Venere è alto, e ci sono sinergie fra questi ultimi risultati e le prossime missioni», conclude Marchi. «I dati che verranno raccolti potrebbero aiutare ad avere conferme».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Long-lived volcanic resurfacing of Venus driven by early collisions”, di Simone Marchi, Raluca Rufu e Jun Korenaga
Calcinacci d’asteroide dopo l’impatto con Dart
Li vedete quei 37 circoletti bianchi con un puntino blu al centro nell’immagine qui sotto? Sono 37 macigni di grandezza variabile, da 1 a 6.7 metri, che si sono staccati dalla superficie dell’asteroide Dimorphos quando, il 27 settembre scorso, è stato colpito dalla sonda spaziale Dart della Nasa – un “proeittile” da mezza tonnellata sparato a 22500 km/h – nel corso del primo esperimento di difesa planetaria mai tentato nella storia.
L’oggetto bianco e luminoso in basso a sinistra è l’asteroide Dimorphos. Ha una coda di polvere blu che si estende in diagonale in alto a destra. Un gruppo di punti blu circonda l’asteroide. Si tratta di massi che sono stati staccati dall’asteroide quando, il 26 settembre 2022 (in Italia era già il 27), la Nasa ha deliberatamente colpito l’asteroide con la sonda impattatrice Dart, per capire cosa occorrerebbe per deviare un futuro asteroide in rotta di collisione con la Terra. La fotografia scattata da Hubble è del dicembre 2022. Crediti: Nasa, Esa, D. Jewitt (Ucla)
Anche questa immagine è a suo modo storica: si tratta infatti probabilmente degli oggetti dalla luminosità più debole mai immortalati nel Sistema solare. Autore dello scatto è il telescopio spaziale Hubble. Al di là del virtuosismo e del valore estetico, è una fotografia che offre agli scienziati importanti dati scientifici, utili per comprendere in dettaglio cosa sia effettivamente accaduto il giorno dell’impatto, in attesa che la missione Hera dell’Esa – il cui lancio è in programma per il 2024 – non arrivi sulla scena del delitto per documentarla da vicino.
I 37 macigni, che si stanno allontanando dall’asteroide a circa 1 km/h, hanno una massa complessiva pari allo 0.1 per cento della massa di Dimorphos, dicono le stime degli scienziati. Ed è plausibile che non si tratti di frammenti prodotti al momento dell’impatto, bensì che fossero già lì sparsi sulla superficie dell’asteroide. A suggerirlo è la presenza di macigni di analoghe dimensioni negli ultimi fotogrammi ultra-ravvicinati acquisiti da Dart (guarda il tweet qui di seguito) pochi istanti prima di colpire il bersaglio.
IMPACT SUCCESS! Watch from #DARTMIssion’s DRACO Camera, as the vending machine-sized spacecraft successfully collides with asteroid Dimorphos, which is the size of a football stadium and poses no threat to Earth. pic.twitter.com/7bXipPkjWD— NASA (@NASA) September 26, 2022
Stando ai calcoli del team che ha osservato con Hubble questi 37 frammenti, l’impatto dovrebbe aver dato una “scrollata” sufficiente a disperdere il due per cento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide. Un dato che consente di ottenere una stima delle dimensioni del cratere d’impatto prodotto da Dart, in attesa di misurarlo direttamente quando Hera giungerà sul posto.
Nel frattempo, gli scienziati dei team di Dart e del cubesat tutto italiano LiciaCube stanno studiando gli effetti dell’impatto anche attraverso le immagini raccolte sul luogo e in diretta dalla fotocamera Luke (LiciaCube Unit Key Explorer) di LiciaCube nei minuti immediatamente successivi alla collisione.
Arrivano da Ixpe nuove scoperte sui blazar
Questa rappresentazione artistica mostra la struttura di un getto di buco nero come dedotta dalle recenti osservazioni del blazar Markarian 421 con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe). Il getto è alimentato dal disco di accrescimento mostrato nella parte inferiore dell’immagine, che è formato da materiale che orbita e cade nel buco nero. Il getto è pervaso da un campo magnetico elicoidale. Le osservazioni di Ixpe hanno dimostrato che i raggi X devono essere generati in uno shock che si trova all’interno di materiale che si spiraleggia intorno alle linee del campo elicoidale. L’inserto mostra la regione che emette attivamente la luce che osserviamo. I raggi X sono generati nella regione bianca più vicina al fronte di shock, mentre l’emissione ottica e radio deve provenire da regioni più turbolente e più lontane dallo shock. Crediti: Nasa/Pablo Garcia
L’universo risplende di energia, che viene prodotta non solo da stelle, nebulose e brulicanti vivai galattici, ma anche dai getti di elettroni liberi originati da alcuni tra i più potenti oggetti cosmici: i nuclei galattici attivi noti come blazar. Questa settimana, un team internazionale di astrofisici, utilizzando i dati dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe) della Nasa, realizzato in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana (Asi), ha pubblicato su Nature Astronomy nuove scoperte sul blazar denominato Markarian 421, un nucleo galattico attivo e una potente sorgente di raggi gamma che si trova nella costellazione dell’Orsa Maggiore, all’incirca a una distanza di 400 milioni di anni luce dalla Terra.
«Markarian 421 è una vecchia conoscenza degli astronomi che scrutano l’universo estremo», ha detto l’astrofisica dell’Asi Laura Di Gesu, prima autrice dell’articolo. «Eravamo sicuri che questo blazar sarebbe stato un obiettivo interessante per Ixpe, ma questa scoperta ha superato le nostre migliori aspettative. Ha, infatti, mostrato come la misura della polarizzazione dei raggi X arricchisca la nostra capacità di sondare la complessa geometria del campo magnetico e l’accelerazione delle particelle in diverse regioni dei getti relativistici. Un momento entusiasmante per gli studi sui getti astrofisici».
Un blazar è un nucleo galattico attivo identificato grazie all’espulsione del suo potente getto di elettroni liberi nella direzione degli osservatori terrestri come telescopi terrestri e spaziali. La “fiammata” prodotta da questi getti è molto luminosa e, per questo, altamente rivelabile a causa dagli effetti dello spazio-tempo relativistico sulla luce del getto.
Nonostante decenni di studio, gli scienziati non hanno ancora compreso appieno i processi fisici che determinano la dinamica e l’emissione dei getti relativistici espulsi dai blazar. Ma la rivoluzionaria capacità di Ixpe di misurare la polarimetria nei raggi X, ovvero la capacità di misurare la direzione media del campo elettrico delle onde luminose, offre agli astronomi una visione senza precedenti di questi oggetti, della loro geometria e dell’origine delle loro emissioni.
I modelli teorici, che tentano di spiegare le caratteristiche dei getti, raffigurano spesso una struttura di campo magnetico a elica a spirale, simile a quella della catena del Dna umano, ma Ixpe ha riscontrato una variabilità inaspettata durante tre osservazioni prolungate di Markarian 421 a maggio e giugno 2022.
«Ci aspettavamo che la direzione della polarizzazione potesse cambiare, ma pensavamo che le rotazioni di maggior entità sarebbero state rare, sulla base di precedenti osservazioni ottiche di molti blazar», ha affermato Herman Marshall, fisico ricercatore presso il Massachusetts Institute of Technology di Cambridge e coautore dello studio.
Ixpe ha così effettuato tre osservazioni del blazar Markarian 421, rivelando un grado di polarizzazione costante. Sorprendentemente, il comportamento dell’angolo di polarizzazione non è stato lo stesso: mentre nella prima osservazione è rimasto costante, nella seconda la sua direzione ha letteralmente fatto un’inversione a U, ruotando di quasi 180 gradi in due giorni. Con sorpresa, la direzione di polarizzazione continuava a ruotare alla stessa velocità nella terza osservazione.
«Questa notevole scoperta suggerisce l’idea che il plasma responsabile dell’emissione nei raggi X segua la struttura elicoidale del campo magnetico all’interno dei getti, come suggerito da Alan Marscher e il suo team nel 2008 con osservazioni nelle onde radio», commenta Dawoon Kim, dottorando presso l’Inaf di Roma e tra gli autori dello studio pubblicato su Nature Astronomy. «Le future osservazioni di Markarian 421 permetteranno di ottenere informazioni fisiche sul getto, come la dimensione spaziale della regione di collimazione».
Le misurazioni ottiche, infrarosse e radio simultanee, inoltre, non hanno mostrato alcun cambiamento nella direzione della polarizzazione della luce, anche quando la direzione della polarizzazione dei raggi X ruotava velocemente. Tale rotazione della polarizzazione dà credito a un modello in cui uno shock si propaga lungo campi magnetici a spirale all’interno del getto. L’ emissione di raggi X mappa la spirale mentre gli elettroni che producono la luce ottica sono in una zona diversa del getto, dove il campo magnetico non è tale da produrre una variazione della polarizzazione.
Ixpe continuerà ad osservare Markarian 421 e altri blazar per saperne di più su queste fluttuazioni del getto e sulla frequenza con cui si verificano.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Discovery of X-ray polarization angle rotation in the jet from blazar Mrk 421”, di Laura Di Gesu, Herman L. Marshall, Steven R. Ehlert, Dawoon E. Kim, Immacolata Donnarumma, Fabrizio Tavecchio, et al.
Così mettono su massa i giovani buchi neri
Rappresentazione artistica dei getti espulsi da un buco nero supermassiccio in rapida crescita. Mentre attraversa il gas magnetizzato circostante, il piano di polarizzazione di un’onda radio emessa in prossimità del buco nero ruota. Crediti: Naoj
È una dieta da body building estremo, quella seguita dai giovani buchi neri supermassicci. Un regime straordinariamente efficace per mettere su massa con una rapidità che lascia attoniti. Un regime tutt’ora incompreso: gli astronomi non riescono infatti a spiegarsi come i mostri al centro delle galassie siano riusciti ad arrivare – in tempi relativamente molto brevi – a raggiungere milioni, spesso miliardi, di masse solari. Di cosa si nutrono? E come si nutrono?
Una parziale risposta arriva oggi, sulle pagine di The Astrophysical Journal, da un team di astronomi guidato da Mieko Takamura, dell’università di Tokyo, che ha studiato con i quattro radiotelescopi dell’array Vlbi giapponese Vera un campione di sei narrow-line Seyfert 1 (Nls1). Le Nls1 sono una classe di galassie attive (Agn) che si pensa ospitino buchi neri massicci relativamente piccoli ma in rapida crescita: perfette, dunque, per osservare il primo stadio evolutivo di questi voraci mostri cosmici. In particolare, per capire da dove traggano la loro massa, gli autori dello studio si sono concentrati sull’ambiente nelle immediate vicinanze di questi buchi neri, sfruttando le nuove capacità dell’array giapponese.
«Le osservazioni sono state effettuate con un sistema di registrazione a banda ultra-larga (ultra-wide band) recentemente migliorato per le antenne Vera che ha permesso di misurare la polarizzazione del segnale con estrema precisione», dice a Media Inaf uno dei coautori dello studio, Filippo D’Ammando, dell’Istituto nazionale di astrofisica. «Questo sistema consente di esplorare in dettaglio le proprietà polarimetriche anche di sorgenti relativamente deboli».
Filippo D’Ammando e Monica Orienti, unici coautori europei dello studio appena pubblicato di ApJ, sono entrambi ricercatori all’Istituto di radioastronomia dell’Inaf di Bologna. Crediti: Inaf
La misura della polarizzazione delle onde radio emesse in prossimità di buchi neri supermassicci è di particolare interesse, per gli astronomi. Quando l’emissione polarizzata si propaga attraverso il gas magnetizzato che circonda un buco nero, infatti, il piano di polarizzazione ruota gradualmente, causando un effetto noto come rotazione di Faraday.
«Per la prima volta abbiamo osservato la rotazione di Faraday nella regione centrale di queste narrow-line Seyfert 1», spiega un’altra coautrice dello studio, Monica Orienti, dell’Istituto nazionale di astrofisica. «Queste misure permettono di farsi un’idea dell’ambiente nel nucleo di queste sorgenti, in particolare della quantità di gas presente, e – insieme alle altre proprietà polarimetriche estrapolate dalle osservazioni Vera – di fare un confronto con quanto osservato per altre classi di Agn con getti relativistici come i blazar».
Dai nuovi dati è emerso che la rotazione di Faraday attorno a questi giovani buchi neri è significativamente maggiore rispetto a quella misurata osservando buchi neri più maturi, più massicci e già ben sviluppati. Un indizio, questo, della presenza di una copiosa quantità di gas nelle regioni centrali delle galassie Nls1 – abbondanza che contribuisce a spiegare la rapidità con la quale questi buchi neri riescono a mettere su massa.
«Il processo di crescita dei buchi neri supermassicci», conclude Takamura, «non è diverso da quello degli esseri umani. Quelli che abbiamo osservato hanno caratteristiche paragonabili a quelle di una persona golosa, un po’ come bambini che hanno una gran voglia di riso». E dalle loro parti il “riso”, come abbiamo visto, certo non manca.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Probing the Heart of Active Narrow-line Seyfert 1 Galaxies with VERA Wideband Polarimetry”, di Mieko Takamura, Kazuhiro Hada, Mareki Honma, Tomoaki Oyama, Aya Yamauchi, Syunsaku Suzuki, Yoshiaki Hagiwara, Monica Orienti, Filippo D’Ammando, Jongho Park, Minchul Kam e Akihiro Doi
Raro esempio di magnetar di periodo ultra-lungo
Rappresentazione artistica di una magnetar a periodo ultra-lungo, un raro tipo di stella con campi magnetici estremamente forti in grado di produrre potenti esplosioni energetiche. L’oggetto appena scoperto emette onde radio di 5 minuti ogni 21 minuti, rendendolo la magnetar con il periodo più lungo mai rilevato. Gli astronomi lo hanno scoperto utilizzando il Murchison Widefield Array (Mwa), un radiotelescopio nel Wajarri Yamaji Country nell’entroterra dell’Australia occidentale. Crediti: Icrar
Segnatevi questi numeri: 5, 21, 33. No, non stiamo farneticando, ma tenete a mente queste cifre e leggendo le prossime righe scoprirete perché.
Un team internazionale guidato da astronomi della Curtin University e dell’International Center for Radio Astronomy Research (Icrar) ha scoperto un nuovo tipo di oggetto stellare che sfida la nostra comprensione della fisica delle stelle di neutroni. L’oggetto potrebbe essere una magnetar a periodo ultra-lungo, un raro tipo di stella con campi magnetici estremamente forti in grado di produrre potenti esplosioni. Fino a poco tempo fa, tutte le magnetar conosciute rilasciavano energia da pochi secondi a pochi minuti. L’oggetto appena scoperto emette onde radio per ben cinque minuti ogni ventuno minuti, rendendolo la magnetar con il periodo più lungo rilevato finora. La ricerca è stata pubblicata oggi sulla rivista Nature e nel team ci sono anche due ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
L’oggetto si chiama Gpm J1839-10 ed è stato scoperto utilizzando le antenne del Murchison Widefield Array (Mwa), un radiotelescopio in Australia Occidentale. La magnetar si trova a 15mila anni luce dalla Terra ed è visibile nella costellazione dello Scudo. L’oggetto stellare è la seconda magnetar a periodo ultra-lungo mai rilevata: la prima era stata descritta, in un articolo pubblicato su Nature nel gennaio 2022, come un enigmatico oggetto transitorio che appariva e scompariva in modo intermittente, emettendo potenti raggi di energia tre volte all’ora.
Ancora più sorprendente è che Gpm J1839-10 è rimasto nascosto nei dati d’archivio per ben trentatré anni. Dopo aver rilevato la posizione di Gmp J1839-10, il team ha iniziato a cercare negli archivi di tutto il mondo. «È apparso in osservazioni del Giant Metrewave Radio Telescope (Gmrt), in India, e il Very Large Array (Vla) negli Stati Uniti riporta osservazioni risalenti al 1988», ricorda Natasha Hurley-Walker di Icrar, prima autrice dell’articolo pubblicato oggi su Nature. «È stato un momento davvero incredibile per me. Avevo cinque anni quando i nostri telescopi hanno registrato per la prima volta gli impulsi di questo oggetto, ma nessuno l’ha notato ed è rimasto nascosto per trentatré anni. Nessuno si aspettava di trovare qualcosa di simile».
Tra luglio e settembre 2022, il team ha scandagliato i cieli utilizzando il radiotelescopio australiano. Gpm J1839-10 emette impulsi che durano fino a cinque minuti, cioè cinque volte più a lungo del primo oggetto simile scoperto. La conferma è arrivata da altri tre radiotelescopi Csiro in Australia, da MeerKat in Sud Africa e dal telescopio spaziale Xmm-Newton.
«Nell’ultimo paio di anni le ricerche di nuove sorgenti radio hanno condotto alla scoperta di pulsar lente dell’ordine del minuto, ma solo l’anno scorso ricerche accurate hanno rivelato pulsatori radio delle decine di minuti, totalmente nuovi», racconta Domitilla de Martino, tra gli autori dello studio per l’Inaf di Napoli. «Ricerche sui transienti radio sono storicamente eseguite su scale di tempo molto brevi, dei secondi, e per questo nessuno prima aveva trovato sorgenti radio pulsanti così lente».
L’interesse per questo oggetto è così elevato perché «questa sorgente radio è troppo lenta per produrre onde radio», aggiunge de Martino. «Posizionata al di sotto della cosiddetta “linea di morte” (death-line) sarebbe in teoria invisibile, eppure la vediamo. Ciò implica che la nostra conoscenza di stelle di neutroni fortemente magnetizzate è ancora frammentaria. Allo stesso modo. qualora la sua natura fosse diversa, ad esempio una nana bianca, sarebbe una rarità perché l’emissione radio fortemente polarizzata e coerente non è stata mai osservata in una nana bianca isolata».
La scoperta ha importanti implicazioni per la nostra comprensione della fisica delle stelle di neutroni e del comportamento dei campi magnetici in ambienti estremi. Solleva anche nuove domande sulla formazione e l’evoluzione delle magnetar e potrebbe far luce sull’origine di fenomeni misteriosi come i lampi radio veloci. Il team di ricerca prevede di condurre ulteriori osservazioni della magnetar, sperando anche di scoprirne altre simili.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A long-period radio transient active for three decades“, di N. Hurley-Walker, N. Rea, S. J. McSweeney, B. W. Meyers, E. Lenc, I. Heywood, S. D. Hyman, Y. P. Men, T. E. Clarke, F. Coti Zelati, D. C. Price, C. Horvath, T. J. Galvin, G. E. Anderson, A. Bahramian, E. D. Barr, N. D. R. Bhat, M. Caleb, M. Dall’Ora, D. de Martino, S. Giacintucci, J. S. Morgan, K.M. Rajwade, B. Stappers e A. Williams
Guarda su Vimeo l’animazione realizzata dall’Icrar:
player.vimeo.com/video/8266143…
C’è un esopianeta gemello nella mia stessa orbita?
Il giovane sistema planetario Pds 70, situato a quasi 400 anni luce dalla Terra, visto con Alma. Il sistema presenta una stella al centro, attorno alla quale orbita il pianeta Pds 70b (evidenziato con un cerchio giallo pieno). Sulla stessa orbita di Pds 70b, indicata da un’ellisse gialla piena, gli astronomi hanno individuato una nube di detriti (cerchiata da una linea gialla tratteggiata) che potrebbe essere la struttura di un nuovo pianeta, o i resti di uno già formato. La struttura ad anello che domina l’immagine è un disco di materiale circumstellare da cui si stanno formando pianeti. In questo sistema c’è infatti un altro pianeta, Pds 70c, visibile a ore 3 proprio accanto al bordo interno del disco. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao) / Balsalobre-Ruza et al.
Usando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), alcuni astronomi hanno trovato il possibile “gemello” di un pianeta in orbita intorno a una stella lontana. L’equipe ha rilevato una nuvola di detriti che sembra condividere l’orbita del pianeta e che, ritengono gli scienziati, potrebbe rappresentare il materiale costitutivo per un nuovo pianeta oppure i resti di uno formato in precedenza. Se confermata, questa scoperta sarebbe la prova a oggi più stringente che due esopianeti possono condividere la stessa orbita.
«Vent’anni fa era stato previsto che, in teoria, coppie di pianeti di massa simile potessero condividere la stessa orbita intorno alla propria stella – i cosiddetti pianeti troiani, o co-orbitali. Per la prima volta, abbiamo trovato prove a favore di questa idea», dice Olga Balsalobre-Ruza, studentessa del Centro di astrobiologia di Madrid, in Spagna, che ha guidato l’articolo pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics.
I troiani, corpi rocciosi nella stessa orbita di un pianeta, sono comuni nel Sistema solare: l’esempio più famoso sono gli asteroidi troiani di Giove – più di 12mila corpi rocciosi che condividono la stessa orbita intorno al Sole del gigante gassoso. Gli astronomi prevedono che i troiani, in particolare i pianeti troiani, potrebbero esistere anche intorno a una stella diversa dal Sole, ma le prove di questo sono scarse. «Gli “esotroiani” [i pianeti troiani al di fuori del Sistema solare, ndr] sono stati finora come unicorni: in teoria possono esistere, ma nessuno li ha mai visti”, afferma il coautore Jorge Lillo-Box, ricercatore senior presso il Center for Astrobiology.
Ora un gruppo internazionale di scienziati ha utilizzato Alma, di cui l’Eso è partner, per trovare la prova osservativa più forte dell’esistenza dei pianeti troiani, nel sistema Pds 70. Si sa che questa giovane stella ospita due pianeti giganti simili a Giove, Pds 70b e Pds 70c. Analizzando le osservazioni Alma d’archivio del sistema, l’equipe ha individuato una nube di detriti nella posizione dell’orbita di Pds 70b in cui si prevede si possano trovare i troiani.
I troiani occupano le cosiddette zone lagrangiane, due regioni estese nell’orbita di un pianeta dove la materia può rimanere intrappolata grazie all’attrazione gravitazionale combinata della stella e del pianeta. Studiando queste regioni dell’orbita di Pds 70b, gli astronomi hanno rilevato un segnale debole da una di esse, che indica la possibile presenza di una nube di detriti con una massa fino a circa due volte quella della Luna.
L’equipe ritiene che questa nube di detriti potrebbe indicare un mondo troiano o un pianeta in via di formazione in questo sistema. «Chi potrebbe immaginare due mondi che condividono la durata dell’anno e le condizioni di abitabilità? Il nostro lavoro è la prima prova che questo tipo di mondo potrebbe esistere», dice Balsalobre-Ruza. «Possiamo immaginare che un pianeta possa condividere la sua orbita con migliaia di asteroidi, come nel caso di Giove, ma per me è strabiliante pensare che due pianeti possano condividere la stessa orbita».
«La nostra ricerca è il primo passo per cercare pianeti co-orbitali in epoche molto iniziali di formazione», dice la coautrice Nuria Huélamo, ricercatrice senior presso il Center for Astrobiology. «Apre nuove domande sulla formazione dei troiani, su come si evolvono e quanto sono frequenti nei diversi sistemi planetari», aggiunge Itziar De Gregorio-Monsalvo, capo dell’ufficio dell’Eso per la scienza in Cile, che pure ha contribuito alla ricerca.
Per confermare definitivamente la scoperta, l’equipe dovrà attendere fino a dopo il 2026, quando mireranno a utilizzare Alma per vedere se sia Pds 70b che la sua nube gemella di detriti si sono mossi in modo significativo lungo la loro orbita comune intorno alla stella. «Questo sarebbe un notevole passo avanti nel campo esoplanetario», dice Balsalobre-Ruza.
«Il futuro in questo campo si mostra molto entusiasmante e attendiamo con impazienza le capacità della schiera estesa di Alma, pianificata per il 2030, che miglioreranno notevolmente la possibilità dello strumento di caratterizzare i trioani in molte altre stelle», conclude De Gregorio-Monsalvo.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Tentative co-orbital submillimeter emission within the Lagrangian region L5 of the protoplanet PDS 70 b”, di O. Balsalobre-Ruza, I. de Gregorio-Monsalvo, J. Lillo-Box, N. Huélamo, Á. Ribas, M. Benisty, J. Bae, S. Facchini e R. Teague
Univerƨi. Mai più senza
La copertina del primo numero della rivista
Si affaccia oggi sul panorama editoriale italiano Universi, la nuova rivista dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), in distribuzione in questi giorni nelle varie sedi dell’ente e presso altri istituti di ricerca e università. Voluto dal presidente Marco Tavani, Universi è un periodico di divulgazione scientifica, un vero e proprio house organ che presenta, con cadenza semestrale, le attività e i risultati scientifici dell’Inaf.
«L’Istituto nazionale di astrofisica comincia così una nuova avventura, per la quale abbiamo scelto un nome plurale: Universi, perché la pluralità è una caratteristica centrale del nostro istituto», spiega Tavani. «Con la sua vitale comunità di ricercatrici e ricercatori, Inaf è leader nello studio di questo universo “dalle molte facce”, dal Sistema solare alle migliaia di esopianeti in orbita attorno ad altre stelle, dalla Via Lattea fino alle innumerevoli galassie che popolano le immense vastità cosmiche. Una realtà oggi in grande espansione, in crescita – non solo scientifica ma anche di comunità, di progettualità – di cui il primo numero della rivista presenta una panoramica».
«Universi vuole portare la ricerca scientifica condotta all’interno dell’ente oltre le porte degli osservatori e degli istituti che ne fanno parte, usando un linguaggio comprensibile e coinvolgente», aggiunge Maura Sandri, direttrice responsabile della rivista. «Per fare questo, si propone di coinvolgere ricercatori e ricercatrici nella preparazione di approfondimenti per un ampio pubblico relativi alle loro più recenti scoperte. Per mantenere un respiro più ampio, accanto a questi approfondimenti verranno pubblicate interviste a personaggi, non necessariamente dell’ente, che hanno ottenuto risultati rilevanti in campo internazionale nell’ultimo periodo, oltre che un vasto numero di rubriche che interessano diversi aspetti della società». Per chiunque fosse interessato a leggere il contenuto della rivista, è disponibile il sito web di Universi, nel quale si trovano tutti gli articoli, gli approfondimenti, le rubriche e i servizi fotografici riportati nel cartaceo. Nel sito, alla voce Sfoglia, è possibile “sfogliare” la rivista e nella sezione archivio si può scaricare il pdf.
«Vi racconteremo anche quello che facciamo per il grande pubblico: dai contenuti e le attività che portiamo a festival ed eventi nazionali e internazionali, all’offerta innovativa di risorse didattiche che i ricercatori Inaf portano direttamente nelle scuole, ma anche i tanti progetti nel campo dell’intercultura e dell’inclusione. Vogliamo parlarvi di tutto questo e di molto ancora, per portarvi con noi a scoprire tutta la straordinaria bellezza che c’è nel nostro universo. Un universo plurale», conclude Tavani.
Scienza, il costo di non essere madrelingua inglese
Di scienza si legge, si scrive e si parla in inglese. Chi vuol fare della scienza il proprio mestiere, quindi, non può prescindere dalla conoscenza della lingua inglese come apriporta nel mondo della ricerca. Dall’inizio del dottorato in poi, scrivere i propri risultati scientifici o presentarli a una conferenza, scrivere richieste di fondi o avere accesso a strumenti internazionali (come laboratori, o telescopi), e soprattutto entrare a far parte di collaborazioni scientifiche internazionali, non ammette l’utilizzo della propria madrelingua. A meno che non sia inglese.
Infografica che presenta i cinque ambiti della ricerca scientifica su cui si è concentrato il questionario compilato da circa 900 ricercatori di otto paesi, e riassume i risultati statistici ottenuti. Crediti: Amano et al. 2023/Plos Biology
Una condizione, questa, che per alcuni costituisce un vero e proprio limite. Ricercatori che vedono i propri articoli rifiutati dalle riviste perché non sono scritti abbastanza bene, o che evitano di presentare il proprio lavoro a conferenze internazionali o al pubblico per la vergogna di dover parlare una lingua nella quale non si sentono a loro agio. È uscito oggi, su Plos Biology, uno studio statistico a riguardo: si tratta dei risultati di un sondaggio condotto su circa novecento ricercatori di diversa nazionalità. Emerge che i non madrelingua inglesi vivono o hanno vissuto, nella loro carriera accademica, svantaggi nello svolgimento di tutte le attività scientifiche prese in esame.
L’iniziativa è partita da uno sforzo congiunto di alcuni ricercatori dell’Università del Queensland, in Australia, e dell’Università della California, che hanno reclutato 908 ricercatori in scienze ambientali (in particolare ecologia, biologia evolutiva, biologia della conservazione e discipline correlate) che hanno pubblicato, come primi autori, almeno un articolo peer-reviewed in inglese, e provenienti infine da uno dei seguenti otto paesi: Bangladesh, Bolivia, Regno Unito, Giappone, Nepal, Nigeria, Spagna e Ucraina. Queste nazionalità sono state scelte e classificate in base al livello di conoscenza dell’inglese del paese secondo l’English Proficiency Index, e in base al reddito. La suddivisione risultava quindi la seguente: Bangladesh e Nepal con una bassa conoscenza dell’inglese e reddito medio-basso, Giappone con bassa conoscenza dell’inglese e reddito alto, Bolivia, Ucraina con moderata conoscenza dell’inglese e reddito medio-basso, Spagna con moderata conoscenza dell’inglese e reddito alto, e infine Nigeria e Regno Unito in cui l’inglese è la lingua ufficiale e il reddito è rispettivamente medio-basso ed elevato.
Gli aderenti hanno completato un sondaggio online in cui veniva chiesto loro l’impegno necessario a svolgere cinque categorie di attività scientifiche: lettura, scrittura, e pubblicazione di articoli scientifici, divulgazione e partecipazione a conferenze. Per quanto riguarda le scienze ambientali, è emerso che i non madrelingua inglesi, soprattutto quelli di nazionalità cui è stato assegnato un basso livello di conoscenza dell’inglese, hanno maggiori probabilità, rispetto ai madrelingua inglesi, di veder rifiutati i loro articoli dalle riviste a causa della qualità di scrittura. Nell’articolo si legge che il 38,1 per cento (in media) e il 35,9 per cento (in media) dei non madrelingua inglesi di nazionalità con moderata e bassa conoscenza dell’inglese, rispettivamente, ha subito un rifiuto dell’articolo a causa della scrittura in inglese, mentre solo il 14,4 per cento dei madrelingua inglesi ha avuto la stessa esperienza: la frequenza del rifiuto dell’articolo legato alla lingua è da 2,5 a 2,6 volte superiore per i non madrelingua. E se l’articolo non viene rifiutato, è molto più probabile che venga richiesta una revisione di lingua: gli “stranieri” rispetto all’inglese hanno 12,5 volte più probabilità di ricevere una richiesta di revisione, semplicemente a causa dell’inglese scritto. Molti di loro rinunciano anche a partecipare e presentare a conferenze internazionali perché non si sentono sicuri di comunicare in inglese. In generale, comunque, le difficoltà cominciano anche prima di arrivare alla pubblicazione o alla presentazione, perché i non madrelingua hanno bisogno di un tempo fino a due volte maggiore per leggere e scrivere e scrivere documenti e preparare presentazioni in inglese. Trovate tutti i numeri e le statistiche nell’infografica qui sopra.
I risultati che abbiamo visto riguardano, come abbiamo detto, le scienze biologiche. Vale lo stesso anche nell’astrofisica?
«Ho sempre pensato che fosse un problema molto serio», risponde a Media Inaf Sergio Campana, ricercatore Inaf e associate editor nella rivista Astronomy & Astrophysics. «In A&A gli articoli arrivano filtrati dell’editor-in-chief, che rimanda indietro articoli. Anche a me è capitato qualche volta, nonostante il filtro iniziale. Non è tanto rigettare il lavoro ma un chiedere agli autori di scriverlo meglio. Non viene dato un giudizio sul merito scientifico, ma sul fatto che si riesca a capire, senza travisare, il significato del lavoro. Solo a quel punto si riesce a dare un giudizio di merito. Su quasi mille lavori che ho guardato sarà successo poche volte. A posteriori, a lavoro accettato, praticamente tutti gli articoli di A&A vanno a un language editor (che però non è un esperto della materia) che cerca di migliorare l’inglese. Aggiungo anche che anche nella richiesta di fondi europei i non nativi inglesi sono penalizzati. Non ho dati, purtroppo, ma è innegabile che per dei fondi molto molto competitivi anche una lettura più piacevole aiuti i candidati».
Un problema che, come emerso nell’articolo di Plos, ha a che fare anche con la nazionalità. L’Italia, che non è stata inclusa nello studio, ha un English Proficiency Index che la colloca al primo posto della fascia moderata, esclusa per pochi punti dalla categoria superiore.
«Gli autori italiani in genere scrivono in maniera abbastanza chiara, almeno rispetto al resto dei non-native speakers (francesi, spagnoli, tedeschi eccetera)», aggiunge Laura Pentericci, anche lei ricercatrice Inaf e associate editor in A&A. «Non ho mai trovato particolari criticità, anche se ovviamente sono tante le variabili: spesso, ad esempio, arrivano articoli scritti da studenti in cui si nota chiaramente che il collega senior non ha letto e corretto quanto scritto. Ecco, questo non accade mai con gli autori italiani, segno che questi ci tengono molto a non presentare articoli scritti in maniera approssimativa. E a questo proposito segnalo che Inaf, per la seconda volta, sponsorizza la scuola per dottorandi “Scientific communication in astronomy”, che organizzo anche io, e in cui dedichiamo due giornate intere proprio alla scrittura di articoli scientifici, con lezioni ed esercitazioni».
Per saperne di più:
- Leggi su Plos Biology l’articolo “The manifold costs of being a non-native English speaker in science”, di Tatsuya AmanoI, Valeria Ramírez-Castañeda, Violeta Berdejo-Espinola, Israel Borokini, Shawan Chowdhury, Marina Golivets, Juan David Gonzalez-Trujillo, Flavia Montaño-Centellas, Kumar Paudel, Rachel Louise White e Diogo Veríssimo
Stelle di materia oscura? La scoperta di Webb
Secondo qualunque definizione, un oggetto celeste può essere chiamato stella se soddisfa due condizioni: brillare di luce propria e raggiungere pressioni e temperature tali da saper innescare processi di fusione nucleare al centro. Le due cose sono intimamente connesse, dal momento che senza la fusione nucleare una stella non si accende. Forse, però, potrebbe essere giunto il momento di ampliare la definizione. Uno studio uscito su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) riporta il ritrovamento, nelle immagini del James Webb Space Telescope (Jwst), di tre oggetti luminosi che potrebbero essere “stelle oscure”: oggetti teorici molto più grandi e luminosi del Sole alimentati da particelle di materia oscura che si annichiliscono. Se confermate, le stelle oscure potrebbero rivelare la natura della materia oscura.
Le tre candidate stelle di materia oscura, come osservate da Webb. Crediti: Nasa/Esa
Le tre candidate si chiamano Jades-GS-z13-0, Jades-GS-z12-0 e Jades-GS-z11-0, sono state osservate dal telescopio James Webb nell’ambito della Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades) e catalogate, nel dicembre 2022, come galassie primordiali. Si tratta di oggetti che vivevano in un periodo compreso tra circa 320 milioni e 400 milioni di anni dopo il Big Bang, tra i più lontani mai osservati. La prima ipotesi, appunto, era che si trattasse di galassie contenenti milioni di stelle di popolazione III (le prime nate nel cosmo). L’altra, invece, è che si tratti di stelle oscure. Oscure per modo di dire, dato che emettono abbastanza luce da competere con un’intera galassia di stelle. Secondo la teoria, infatti, queste stelle fatte di materia oscura potrebbero raggiungere una massa pari a diversi milioni di volte quella del Sole, e una luminosità fino a dieci miliardi di volte superiore.
«Innanzitutto, non sono risolte e quindi possono essere interpretate come sorgenti puntiformi. E i loro colori sono coerenti con quelli che si teorizzano per le stelle oscure», spiega a Media Inaf Cosmin Ilie, ricercatore alla Colgate University, a Hamilton, nello stato di New York, e primo autore dello studio. «In termini di colori, infatti, sappiamo che le stelle oscure sono, in generale, degli ottimi camaleonti e possono camuffarsi da galassie primordiali. Lo avevamo previsto, sulla base di simulazioni, durante la stesura di un recente articolo e, senza sorpresa, abbiamo scoperto che questa previsione è confermata dai dati Jwst nell’articolo che abbiamo pubblicato su Pnas».
L’idea delle stelle oscure è comparsa, per la prima volta, in un articolo pubblicato nel 2008 su Physical Review Letters. Funzionano più o meno così: al centro delle prime protogalassie si troverebbero ammassi molto densi di materia oscura, insieme a nubi di idrogeno e gas di elio. Mentre il gas si raffreddava, collassava e trascinava con sé la materia oscura. Man mano che la densità aumentava, le particelle di materia oscura si annichilivano sempre più, aggiungendo sempre più calore, il che impediva al gas di collassare fino a un nucleo abbastanza denso da sostenere la fusione come in una stella ordinaria. Invece, continuerebbe a raccogliere altro gas e materia oscura, diventando grande, gonfia e molto più luminosa delle stelle ordinarie. A differenza delle stelle ordinarie, la fonte di energia sarebbe distribuita uniformemente, anziché concentrarsi nel nucleo. Con una quantità sufficiente di materia oscura, quindi, queste stelle riescono a raggiungere masse e luminosità come quelle che citavamo sopra.
Non ci sono comunque solo somiglianze, con le galassie primordiali, ma anche qualche caratteristica che potrebbe far pendere l’ago della bilancia, in maniera definitiva, in una direzione o nell’altra. «In termini di differenze, innanzitutto le stelle oscure sono sorgenti puntiformi, mentre le galassie sono oggetti estesi», continua Ilie. «Inoltre, in termini di spettro, le stelle oscure supermassicce presentano alcune differenze significative rispetto alle galassie primordiali. La più significativa è la presenza di una riga di assorbimento caratteristica dovuta all’elio, la cosiddetta riga HeII (1640 ångström). Le galassie primordiali non presentano questa caratteristica. Con un tempo di esposizione sufficiente, queste differenze possono essere utilizzate per confermare che qualunque candidato è una vera e propria stella oscura».
Infine, i ricercatori sottolineano che è altamente improbabile che le stelle oscure si formino o sopravvivano fino all’universo locale. Delle tre condizioni per la formazione di stelle oscure individuate nell’articolo del 2008 che citavamo sopra, solo una è soddisfatta nell’universo più maturo (vale a dire a redshift inferiore a circa 10): il fatto che i prodotti dell’annichilazione fra le particelle di materia oscura possano termalizzare in modo efficiente all’interno di una nube di gas protostellare. Le altre due condizioni – che la densità di materia oscura sia sufficientemente elevata, e che le nubi di gas coinvolte nella formazione di stelle abbiano una bassa metallicità – sono soddisfatte solo durante l’alba cosmica, quando si sono formate le prime stelle e galassie.
«Possiamo trovare altre candidate stelle oscure con Webb e il prossimo Roman Space Telescope, e possiamo confermarle spettroscopicamente con lo strumento NirSpec di Webb, sfruttando appunto la riga caratteristica di assorbimento dell’elio HeII 1640, e possibilmente anche con Alma, sfruttando altre caratteristiche specifiche degli spettri delle stelle oscure supermassicce a lunghezze d’onda superiori».
Per saperne di più:
- Leggi su Pnas l’articolo “Supermassive Dark Star candidates seen by JWST”, di Cosmin Ilie, Jillian Paulin, e Katherine Freese
Palermo, scoperto un affresco sulla Torre Pisana
Manuela Coniglio, ricercatrice all’Inaf di Palermo, autrice del ritrovamento dell’affresco dimenticato. Crediti: Francesca Martines/Inaf Palermo
Questa è la storia del ritrovamento di un affresco dimenticato. Un affresco da anni sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno sia mai riuscito a vederlo. Un grande affresco dell’Ottocento dipinto sulla Torre Pisana del Palazzo dei Normanni – in pieno centro di Palermo, nota anche come torre di Santa Ninfa – per celebrare quello che è probabilmente il più importante contributo scientifico dato dalla Specola di Palermo all’umanità: la scoperta del pianeta nano Cerere, avvenuta il primo gennaio 1801 grazie a padre Giuseppe Piazzi, fondatore dell’Osservatorio.
Sede oggi del Museo della Specola gestito dall’Inaf di Palermo, la Torre ospitava l’antico Osservatorio astronomico, nato nel 1790 per volere del re Ferdinando III di Borbone. Gli altri esempi che abbiamo a Palermo di committenza borbonica nel periodo neoclassico hanno dato luogo a meraviglie dell’architettura locale, sia da un punto di vista architettonico che da un punto di vista artistico. Eppure chi visitasse oggi l’Osservatorio non troverebbe alcun elemento decorativo. Né se ha memoria.
Incuriosita da questa assenza, per cercare eventuali testimonianze di lavori artistici presenti all’interno della Specola fra Settecento e Ottocento, Manuela Coniglio, titolare di un assegno di ricerca sulla valorizzazione del patrimonio storico dell’Osservatorio, ha avuto un’idea geniale: follow the money, come direbbero gli inglesi. E ha trascorso mesi nell’archivio storico a scavare nella corrispondenza, in cerca di pagamenti e lettere che parlassero di affidamento di lavori artistici e di restauro.
Se ci sono state delle commesse, si è detta, qualche traccia potrebbe essere rimasta…
«Esatto. Così ho iniziato a spulciare la corrispondenza dell’Osservatorio, in entrata e in uscita. Fino a che – siamo sul finire dell’estate scorsa – un giorno mi sono imbattuta in una minuta, una nota manoscritta di una lettera inviata nel 1835, scritta da Niccolò Cacciatore, il secondo direttore dell’Osservatorio, in cui veniva richiesto il restauro degli affreschi della Specola. È stata la scintilla: avevo finalmente la conferma che qualche affresco doveva esserci stato».
A quel punto che ha fatto?
«Mi sono precipitata a leggere la risposta, a questa richiesta di restauro: risposta nella quale l’Amministrazione generale della Real Casa autorizzava il finanziamento per il restauro degli affreschi che adornavano la terrazza. E questo dettaglio sul luogo era già un elemento in più, che mancava nella lettera di Cacciatore. Proseguendo poi nelle ricerche, sono andata avanti di qualche decennio fino a che, un giorno di fine novembre, non ho trovato, nella corrispondenza del 1858, una seconda richiesta di restauro, ancor più dettagliata».
Palazzo dei Normanni oggi, con una delle cupole della Specola ben visibile in cima alla torre di Santa Ninfa. Nei due riquadri a sinistra, l’ubicazione (in alto) e l’ingrandimento (in basso) dell’affresco nelle stereoscopie conservate a Civico archivio di Milano. Crediti per la fotografia: Lasterketak/Wikimedia Commons
Cosa diceva?
«Era una lettera di Domenico Ragona, direttore dell’Osservatorio dal 1849 al 1860, nella quale si chiedeva il restauro di un affresco. Un grande affresco, si legge nella lettera, che ricorda con figure simboliche la scoperta di Cerere Ferdinandea – l’asteroide scoperto da Giuseppe Piazzi il primo gennaio 1801. E nella lettera viene specificato anche dove si trovava, questo affresco: nella parete a nord della torre di Santa Ninfa, vicino al balcone della sala Meridiana».
Dunque proprio a pochi metri da dove si trovava, accanto all’archivio…
«Esatto! Infatti sono subito corsa a piano terra, la curiosità era alle stelle, per provare a dare un’occhiata. Ma niente: da lì sotto non ho visto altro che una parete liscia».
Però non si è arresa…
«No, al contrario. A quel punto è diventato lo scopo principale delle mie giornate, quell’affresco. Mi sono rimessa sulle carte. Con un elemento in più: ora conoscevo la collocazione esatta. Così ho deciso di tentare una ricerca – molto impegnativa, devo dire – sugli elementi iconografici della torre di Santa Ninfa. La lettera che parla dell’affresco è di un’epoca agli albori della fotografia, dunque le speranze erano pochissime, ero quasi certa che non avrei mai trovato nulla».
E invece?
«E invece, a fine dicembre, ho scoperto che al Civico archivio fotografico del Comune di Milano conservano una stereoscopia della metà dell’Ottocento che inquadra esattamente il fianco laterale del Palazzo Reale – quindi della torre di Santa Ninfa – in cui, sapendo esattamente dove andare a osservare, in effetti si intravede qualcosa. Ho chiesto al Civico archivio una copia della fotografia in alta risoluzione, e appena l’ho ricevuta ho provato a ingrandire. Ed è finalmente uscita l’immagine che avevo inseguito per mesi».
Il fregio carta intestata dell’Osservatorio astronomico di Palermo, raffigurante Cerere Ferdinandea. Crediti: Inaf Palermo
Cosa mostra, questa immagine?
«Mostra esattamente la rappresentazione tipica di Cerere che mi aspettavo di trovare. Cerere era la dea protettrice della Sicilia, protettrice delle messi, e aveva una sua tipologia iconografica ben precisa, derivante dalla mitologia greca e latina. Quindi mi ero immaginata, leggendo le lettere, un affresco raffigurante questa figura femminile con il capo coronato di spighe, su un carro trainato da figure mitologiche, che potevano essere draghi o serpenti, e con il braccio teso a reggere una fiaccola ardente. Ingrandendo la fotografia conservata a Milano, l’immagine che emerge è esattamente questa: il contorno, il perimetro dell’immagine è perfettamente sovrapponibile a una rappresentazione di Cerere Ferdinandea che è stata utilizzata proprio all’interno dell’Osservatorio astronomico come fregio di una carta intestata della seconda metà dell’Ottocento. Accostando le due immagini, risultano perfettamente sovrapponibili: è probabile che l’affresco sia stato il modello dal quale è poi stato tratto il fregio della carta intestata – il periodo coincide».
Riassumendo: a quel punto – siamo agli inizi di quest’anno – aveva le lettere, la posizione, la descrizione e perfino la foto. Mancava solo l’affresco vero e proprio…
«Già. E qui è intervenuto il direttore dell’Osservatorio, Fabrizio Bocchino. Mentre mi confrontavo con lui e con la Dottoressa Chinnici sugli indizi raccolti, ha avuto un’intuizione: si è ricordato che nel 2019 c’era stata una caduta accidentale di calcinacci proprio da quella parete della torre, tale da rendere necessario un intervento di messa in sicurezza, per evitare che ne cadessero altri. “Prova ad andare a guardare, con attenzione”, mi ha detto, “magari questa caduta di calcinacci ha fatto venire fuori qualcosa”. Ora, raggiungere quella parete, dal piano dell’Osservatorio, è molto difficile, perché il balcone della sala Meridiana – quella che, stando alla descrizione, si affaccia proprio sull’affresco – è un balconcino pericolante, è chiuso da un catenaccio e non è accessibile. Muovendo un po’ la persiana, che non può essere aperta per questioni di sicurezza, e contorcendomi tutta sono comunque riuscita a vedere il punto che è stato messo in sicurezza a seguito della caduta di questi calcinacci. Ed è lì che ho intravisto le tracce di una pittura sottostante, di un bel colore rosso pompeiano, portate alla luce proprio dalla caduta dei calcinacci. Non solo: si vede anche un tratto di quella che doveva essere la cornice superiore dell’affresco di Cerere».
Manuela Coniglio sul piano delle Cupole e, più in basso, la porzione di affresco (ingrandimento nel dettaglio) portata alla luce dalla caduta dei calcinacci. Crediti: Francesca Martines/Inaf Palermo
Una fortuna incredibile… Una curiosità: i calcinacci erano caduti da più parti o solo da quella parete?
«Sola da quella parete! La storia voleva proprio venire fuori».
A questo punto il direttore le ha dato il permesso d’aprire la persiana o ha dovuto continuare con i contorcimenti?
«Non è stato necessario. Ci siamo resi conto che salendo oltre, e affacciandosi dal piano delle Cupole, è possibile vedere bene la porzione di parete con lo squarcio».
Insomma, l’affresco è lì, sotto l’intonaco della parete nord della torre di Santa Ninfa, nota anche come torre Pisana. Ora come avete intenzione di procedere? Più di così il fato direi che non poteva fare, toccherà dargli una mano, no?
«Il grandissimo problema è che questa parete è difficilmente raggiungibile, per cui un potenziale lavoro di restauro sarebbe molto impegnativo, da un punto di vista economico. Però vogliamo tentare il possibile. Anche perché questo non è un affresco qualsiasi: è un affresco che si offre a tutta la città. Stiamo parlando della parete esterna del Palazzo Reale di Palermo, il palazzo più importante della città, da tutti i punti di vista – politico, economico e artistico. Una parete visibile da chiunque si trovi a passare da corso Vittorio Emanuele, che è uno degli assi principali della città, da piazza del Parlamento, dalla Cattedrale. Insomma, è sotto gli occhi di tutti. E non è un caso se l’affresco – che celebra, ricordiamo, un’eccezionale scoperta scientifica avvenuta all’Osservatorio di Palermo – si trovi proprio lì: aveva una funzione divulgativa, di memoria collettiva. Quindi riportarlo alla luce significa riportare alla luce i valori – oltre all’aspetto artistico – che l’affresco portava con sé».
Per saperne di più:
- Leggi sul Giornale di astronomia l’articolo “Cerere Ferdinandea: il grande affresco dimenticato”, di Manuela Coniglio e Ileana Chinnici
Incendio a La Palma: la situazione al Tng
Il fumo invade la caldera e la parte sud dell’isola. Crediti: Vidal Guerra
Potrebbe essere un cassonetto dato alle fiamme per una ragazzata l’origine dell’incendio che dalla mattina del 15 luglio sta devastando l’isola di La Palma, dove all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos ha sede il Telescopio nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf. Dal municipio di Puntagorda a nord le fiamme si sono estese rapidamente grazie al vento, le temperature elevate e la mancanza di pioggia da diversi giorni. I danni sono ingenti, diverse case e proprietà sono andate perse.
Il fronte dell’incendio si è spostato verso ovest entrando nel municipio di Tijarafe e poi ha cominciato a salire verso l’Osservatorio. Il pomeriggio di sabato 15 è stato deciso di far evacuare l’Osservatorio e sono rimaste solo cinque persone a vigilare la situazione. Intanto nei paesi sottostanti circa quattromila persone dovevano abbandonare casa e averi per spostarsi in posti più sicuri.
Ci sono otto elicotteri e due idrovolanti che combattono le fiamme dall’alto più diverse squadre di esercito, forestale, pompieri e protezione civile che da terra bonificano il terreno e proteggono le case.
Fumo denso vicino alla residenza dell’Osservatorio. Crediti: Iac
Il cambio delle condizioni meteo della domenica ha aiutato a controllare l’incendio che, arrivato a circa 3 km dal Tng, ha cominciato a ritirarsi e spostarsi verso ovest. Grazie al migliorare della situazione, ieri (lunedì 17) la strada verso l’osservatorio è stata riaperta, e lo staff del Tng ha potuto ispezionare le condizioni della cupola.
«Il personale tecnico deve controllare che la cupola non sia ricoperta di ceneri, fuliggine e residui di rami o foglie che potrebbero cadere sul telescopio quando si apre per osservare». dice a Media Inaf il direttore del Tng, Adriano Ghedina. «Allo stesso tempo, i filtri dell’aria condizionata vanno ispezionati, puliti o cambiati. Non sappiamo quanto fumo abbia investito la cupola direttamente ma il fronte era abbastanza vicino».
L’incendio sfortunatamente è poi entrato nel Parco nazionale della Caldera de Taburiente, una zona impervia e ripida, fitta di alberi, che impedisce le operazioni da terra. Le pigne ardenti degli alberi si staccano e rotolano per centinaia di metri verso il fondo della valle allargando il fronte dell’incendio in modo aleatorio. Il fuoco continua a spostarsi e il fumo sale per le pareti della caldera invadendo la zona dell’Osservatorio, per cui anche la notte scorsa è stata persa a causa del fumo.
«Dovremo decidere di giorno in giorno, a seconda del vento e dell’evoluzione dell’incendio, prima di aprire la cupola e poter ricominciare le osservazioni», conclude Ghedina. «La nostra preoccupazione, oltre che per il telescopio, era per la casa di un collega che si trovava giusto nella direzione del fronte dell’incendio. Per fortuna le unità di terra hanno fatto un gran lavoro di preparazione e, quando è stato il momento, l’incendio è passato attorno alla sua casa senza fare grossi danni».
Come riconoscere i segnali di E.T.? Scintillano
Il Green Bank Telescope, uno dei radiotelescopi utilizzati dal progetto Breakthrogh Listen. Crediti: Geremia/English Wikipedia
L’anno prossimo l’istituto Seti compirà ufficialmente quarant’anni. Ma è già dagli anni Sessanta che la ricerca di una traccia radio di vita extraterrestre intelligente va avanti. Decenni trascorsi a spulciare nell’immensità dei segnali raccolti dai radiotelescopi alla ricerca di una traccia che ci offra la prova che no, non siamo soli: che c’è qualcuno là fuori. Una traccia che cambierebbe per sempre la storia dell’umanità. Una traccia che finora non è stata trovata. Ma c’è una buona notizia: grazie a una nuova tecnica messa a punto a Berkeley da un team di ricercatori del progetto Breakthrough Listen, illustrata in un articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal, potrebbe diventare presto molto più rapido distinguere in modo automatico i segnali di provenienza aliena da quelli prodotti, invece, da noi terrestri.
Uno fra i problemi maggiori della ricerca di tracce radio di intelligenze extraterrestri è che non sappiamo cosa attenderci. Non sappiamo come riconoscerlo, il segnale che cerchiamo. Che aspetto dovrebbe mai avere? Occorre per forza di cose procedere per assunzioni arbitrarie. Quella principale è che un segnale artificiale, a differenza delle onde radio provenienti da sorgenti cosmiche naturali, dovrebbe essere a banda stretta. «Pensiamo alla musica: quando con un dito premiamo un tasto del pianoforte», spiega il radioastronomo Germano Bianchi nell’articolo “Segnali intelligenti” pubblicato su Edu.Inaf, «produciamo solo una nota, mentre se con due mani schiacciamo dieci tasti, il risultato è che sentiamo dieci note contemporaneamente. È come se il segnale naturale fosse composto da diverse note tutte insieme, mentre quello artificiale da una nota sola».
A questo punto sorge però un secondo problema: se riceviamo un segnale a banda stretta, come facciamo a sapere che non è stato prodotto da noi? La risposta ovvia è: basta guardare da dove proviene. Ma le cose sono più complicate. Immersi come siamo nel rumore elettromagnetico e circondati da decine di migliaia di satelliti artificiali, non sempre è possibile stabilire la provenienza di un segnale radio. Prendiamo, per esempio, il segnale emesso il 24 maggio scorso per il progetto A sign in space: ideato ed emesso proprio con l’intenzione di “mimare” un messaggio da E.T., arrivava direttamente dallo spazio – da Tgo, un satellite dell’Esa in orbita attorno a Marte. Oppure, per restare a segnali involontari, c’è il caso recente di Blc1 (Breakthrough Listen Candidate 1): rilevato il 29 aprile 2019, aveva apparentemente tutte le carte in regola per essere un candidato “segnale Wow”. Non solo: sembrava provenire da Proxima Centauri, dove si trova il sistema planetario a noi più vicino. Ma a uno studio approfondito è emerso che, con tutta probabilità, si è trattato di un’interferenza tutta terrestre.
Il celebre commento Wow! scritto da Ehman a margine dei dati. Crediti Big Ear Radio Observatory and North American AstroPhysical Observatory (Naapo)
Un modo per tentare di discriminare fra segnali cosmici e segnali terrestri è quello di puntare il radiotelescopio telescopio in un punto diverso del cielo, per poi tornare alcune volte nel punto in cui il segnale è stato originariamente rilevato. Questo assumendo che il segnale che cerchiamo sia persistente nel tempo. Un’altra assunzione arbitraria, dunque. Ed è proprio per non aver soddisfatto questa condizione che il celebre segnale Wow individuato dall’astronomo Jerry Ehman il 15 agosto 1977 è stato scartato: dopo quella prima rilevazione non è stato più possibile riceverlo.
Ebbene, la nuova tecnica elaborata a Berkeley promette di poter tenere in considerazione considerare anche segnali che non si ripetono. Grazie a un criterio finora di diffile applicazione per stimare quanto sia lontana l’origine del segnale: la scintillazione. Il concetto è simile a quello che a volte usiamo quando guardiamo il cielo per decidere se un oggetto è una stella o un pianeta: la turbolenza atmosferica fa infatti sì che la luce delle stelle, apparendoci come sorgenti puntiformi, sembri tremolare, mentre quella riflessa dai pianeti – che, per la loro vicinanza a noi, puntiformi non sono – lo fa assai meno. Qualcosa di analogo avviene per le onde radio d’origine remota quando attraversano non l’atmosfera bensì il mezzo interstellare. Il plasma freddo del mezzo interstellare, in particolare gli elettroni liberi, è infatti in grado di alterare il segnale di sorgenti radio come le pulsar. Nel caso di un segnale a banda stretta, scrivono gli autori dello studio, una serie di rifrazioni in successione fa sì che la sua ampiezza non ci appaia stabile, ma aumenti e diminuisca nel tempo. Come se “scintillasse”, appunto.
L’algoritmo in codice Python sviluppato dal primo autore dello studio pubblicato oggi, Bryan Brzycki, studente a Uc Berkeley, è in grado di fare proprio questo: analizza la scintillazione dei segnali a banda stretta e individua quelli che si attenuano e si illuminano con periodi inferiori al minuto – sintomo dell’attraversamento del mezzo interstellare. In altre parole, è in grado di mettere in luce la firma del mezzo interstellare nei segnali potenzialmente emessi da intelligenze extraterrestri.
«Questo significa che potremmo utilizzare una pipeline opportunamente sintonizzata per identificare senza ambiguità le emissioni artificiali provenienti da sorgenti lontane rispetto alle interferenze terrestri», dice la relatrice di tesi di Brzycky, Imke de Pater, professoressa emerita di astronomia a Berkeley. «Non solo: oltre che per trovare un segnale, questa tecnica potrebbe, in certi casi, essere usata confermare la provenienza di un segnale da una sorgente lontana, piuttosto che locale. Questo lavoro rappresenta, dopo il criterio di osservare di nuovo verso la stessa regione di cielo, il primo nuovo metodo di conferma d’un segnale nella storia del progetto Seti».
Insomma, una “filigrana” molto promettente contro i falsi positivi. Ma con almeno un grosso limite, sottolineano gli stessi autori dello studio: affinché il fenomeno della scintillazione radio sia rilevabile, la sorgente del segnale deve trovarsi ad almeno 10mila anni luce da noi. Dunque è una tecnica soggetta a produrre numerosi falsi negativi: un segnale proveniente da Proxima Centauri, per esempio, dunque solo a poco più di quattro anni luce di distanza, non supererebbe il test.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “On Detecting Interstellar Scintillation in Narrowband Radio SETI”, di Bryan Brzycki, Andrew Siemion, Imke de Pater, James M. Cordes, Vishal Gajjar, Brian Lacki e Sofia Sheikh
Arrivederci Cracovia, appuntamento a Padova
Al termine del meeting annuale dell’EAS a Cracovia, la bandiera passa all’Italia, che ospiterà il congresso a Padova nel 2024. Foto: David Montes, Twitter: @DMontesG
Chissà cosa si chiedeva una giovane persona che giungeva a Cracovia nel Cinquecento. È possibile che, tra le maestose chiese e l’imponente castello che dominano la città polacca, si interrogasse anche sulle nostre origini: chi siamo, da dove veniamo? È la riflessione di Roger Davies, presidente della European astronomical society (Eas), in chiusura del meeting annuale tenutosi proprio a Cracovia questa settimana. Una considerazione che ricorda quanto siano antiche le domande su cui si interroga oggi, con nuova consapevolezza e strumenti all’avanguardia, la comunità astronomica: come si è formato il Sistema solare, da dove arrivano le molecole alla base della vita sulla Terra?
Il meeting ha raccolto in Polonia circa 1500 ricercatrici e ricercatori da tutto il mondo, affiancati da un centinaio di colleghi collegati virtualmente. Molteplici gli argomenti trattati, dagli esopianeti alla formazione stellare e l’evoluzione galattica, a un anno dalla pubblicazione delle prime, rivoluzionarie immagini di Jwst. Si è parlato anche dell’applicazione dell’intelligenza artificiale all’astronomia, della diversità della comunità di ricerca e delle sfide del public engagement. Secondo il rituale, al termine della cerimonia di chiusura, il comitato polacco che ha collaborato all’organizzazione del convegno ha passato la bandiera ai colleghi italiani: il prossimo meeting annuale dell’Eas si terrà infatti a Padova, dal primo al cinque luglio 2024.
«È una grande opportunità per l’Italia, anche per Padova ma sicuramente per tutta la comunità astronomica italiana, che spero riusciremo a utilizzare nel modo migliore», commenta Sara Lucatello, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica a Padova e vicepresidente dell’Eas. «Non vedo l’ora di portare l’astronomia europea nel mio istituto e mostrare loro le grandi capacità astronomiche e la scienza all’avanguardia che si fa in Italia in questo momento».
Al cuore della singolarità
Prendete otto radiotelescopi sparsi in tutto il mondo. Fateli lavorare in rete, come fossero un unico strumento delle dimensioni del pianeta Terra. Poi mettete assieme trecento ricercatrici e ricercatori e mescolate tutto lentamente. Il risultato che potreste ottenere è la prima immagine di un buco nero, come quella svelata al mondo nell’aprile del 2019 dalla collaborazione internazionale Event Horizon Telescope (Eht).
Il buco nero supermassiccio al centro di Messier 87. Crediti: The Event Horizon Telescope
Un buco nero in effetti è nero, come dice il nome stesso, e quindi invisibile. Si tratta di un oggetto così compatto da esercitare una gravità estrema intorno a sé – tanto grande da non farsi sfuggire nessuna particella che gli si avvicini troppo, nemmeno la luce. Proprio per questo è nero.
Spesso, però, attorno a questi aspirapolvere gravitazionali orbita un disco di materia, intrappolato nelle vicinanze dell’oggetto compatto per effetto della sua gravità. Prima di essere fagocitato e cadere all’interno del buco nero, il disco si riscalda molto per attrito e, di conseguenza, diventa incandescente ed estremamente brillante. La materia in orbita attorno a un buco nero finisce così per assomigliare a un faro luminoso e potente, visibile anche a miliardi di anni luce di distanza. E come nel gioco delle ombre, se il buco nero è circondato da materia luminosa, sarà possibile vedere per contrasto la sua silhouette.
Per produrre la sua prima immagine, Eh ha puntato gli occhi su una galassia relativamente vicina a noi, M87. Osservando nel suo centro, è riuscita a catturare l’ombra prodotta da M87* (con l’asterisco!), un buco nero con una massa pari a più di 6 miliardi di Soli messi insieme.
Che nel nucleo delle galassie abitino dei buchi neri mastodontici non è per noi una novità, anzi: oggi si pensa che quasi tutte ne ospitino uno, Via Lattea compresa. Nel nostro centro galattico si trova infatti Sagittarius A*, un buco nero supermassiccio che pesa “soltanto” quattro milioni di volte il Sole.
Grazie a Eht siamo riusciti a posare lo sguardo anche su di lui. Ecco come appare la sagoma del nostro vicino, la singolarità che abita il cuore della Galassia.
Ottenuta dall’Event Horizon Telescope (Eht) nel 2022, questa è la prima immagine di Sgr A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea. Crediti: Eht Collaboration
Testo preparato da Edwige Pezzulli per la puntata di “Noos – L’avventura della conoscenza” andata in onda su Rai 1 giovedì 13 luglio 2023, disponibile su RaiPlay, e riproposto su Media Inaf per gentile concessione dell’autrice.
Guarda il video sul canale YouTube della Rai:
Robot lunari, vince il gioco di squadra
Una squadra è più della somma delle sue parti: il trio di “robot con le zampe”, qui raffigurato durante un test in una cava di ghiaia in Svizzera, si è già conquistato la copertina del numero di luglio di Science Robotics. Crediti: Eth Zurich/Takahiro Mik (foto), Science Robotics
Three is a magic number, recitava un noto slogan di telefonia mobile. Alla stessa conclusione sono arrivati i ricercatori guidati dall’Eth, il Politecnico federale di Zurigo, che stanno lavorando alla realizzazione di robot per l’esplorazione lunare. Come riportato in uno studio pubblicato questa settimana su Science Robotics, avendo terminato con successo il test su terreno dell’utilizzo combinato di tre robot in contemporanea, il team svizzero sta perseguendo l’idea di inviare non un solo robot in esplorazione, ma piuttosto un’intera squadra di veicoli – dispositivi volanti compresi – che si completino a vicenda.
L’esplorazione robotica di ambienti extraterrestri è utile per far progredire la nostra comprensione del Sistema solare e per scovare potenziali risorse minerarie; sulla Luna, ad esempio, ci sono materie prime che l’umanità potrebbe un giorno estrarre e utilizzare. Diverse agenzie spaziali, fra le quali l’Agenzia spaziale europea (Esa), stanno già pianificando future missioni per esplorare meglio il nostro satellite in cerca di minerali. Ciò ha incentivato notevolmente lo sviluppo di tecnologie di esplorazione robotica. Molti obiettivi rilevanti per la scienza, per l’esplorazione e per l’estrazione di risorse sulla superficie lunare si trovano però in aree difficili da raggiungere o con proprietà fisiche sconosciute. Bocche e scogliere vulcaniche, grotte, nuovi crateri da impatto: occorrono veicoli di esplorazione adeguati per spostarsi sulla Luna. Lo sviluppo di sistemi di esplorazione robotica in grado di attraversare in modo efficiente terreni difficili e irregolari senza compromettere le capacità esplorative e di analisi scientifica rimane dunque una priorità assoluta.
I ricercatori svizzeri hanno equipaggiato tre Anymal (così li hanno chiamati, con la ‘y’), un tipo di robot a zampe sviluppato all’Eth, con una serie di strumenti di misurazione e analisi che li rendono potenzialmente adatti alle future esplorazioni lunari. Come in un lavoro di squadra, il trio di robot è stato testato su vari terreni in Svizzera e poi presso il Centro europeo per l’innovazione delle risorse spaziali (Esric), in Lussemburgo, dove qualche mese fa il team ha vinto il concorso “Esric-Esa Space Resources Challenge” per l’ideazione di robot di esplorazione lunare, insieme a colleghi del Research Center for Information Technology di Karlsruhe (Fzi), in Germania. Il concorso europeo prevedeva la ricerca e l’identificazione di minerali su un sito di prova modellato come la superficie della Luna: l’obiettivo tecnico principale della sfida era la prospezione di un ambiente analogo a quello lunare per la ricerca di aree arricchite di risorse, ossia zone con minerali adatti all’utilizzo in situ delle risorse, come ilmenite, rutilo e biossido di titanio.
Dati scientifici catturati dai robot durante il concorso nel 2021. L’obiettivo della sfida era la prospezione di un ambiente di tipo lunare per la ricerca di aree arricchite di risorse come ilmenite, rutilo e biossido di titanio. Crediti: Science Robotics
«L’utilizzo di più robot presenta due vantaggi», spiega Philip Arm, primo autore dello studio e dottorando del gruppo guidato dal professor Marco Hutter dell’Eth. «I singoli robot possono assumere e svolgere contemporaneamente compiti specializzati. Inoltre, proprio grazie alla ridondanza, una squadra di robot è in grado di compensare il fallimento di un singolo compagno». In questo caso, ridondanza significa che le stesse apparecchiature di misura e analisi sono installate su più robot. In altre parole, ridondanza e specializzazione sono due aspetti opposti, ma necessariamente complementari. «È una questione di giusto equilibrio», dice Arm, che con gli altri ricercatori del Politecnico di Zurigo e delle università di Basilea, Berna e Zurigo ha risolto il problema rendendo due dei robot a zampe “robot specialisti” e lasciando al terzo il ruolo di “robot generalista”.
Il primo robot è stato programmato per essere particolarmente bravo nel mappare il terreno classificandone la geologia grazie a uno scanner laser e diverse telecamere, alcune delle quali in grado di effettuare analisi spettrali, per raccogliere i primi indizi sulla composizione minerale delle rocce. All’altro robot specializzato è stato insegnato a identificare con precisione le rocce utilizzando uno spettrometro Raman e una telecamera per microscopia. Il terzo robot, quello generalista, era in grado sia di mappare il terreno sia di identificare le rocce, il che significa che aveva una gamma di compiti più ampia rispetto agli specialisti, ma l’equipaggiamento di cui era dotato gli consentiva di svolgere questi compiti con minore precisione. Una sorta di assicurazione contro i guasti: questa combinazione di competenze renderebbe possibile completare le missioni lunari anche in caso di malfunzionamento di uno dei robot specialisti.
Combinazione vincente. La giuria del concorso Esric-Esa è rimasta particolarmente colpita dalle “prove su strada” dei tre robot, ma soprattutto dal fatto che i ricercatori abbiano integrato la ridondanza nel loro sistema di esplorazione per renderlo resistente a potenziali guasti. Come premio, il team vincitore ha ottenuto un contratto di ricerca di un anno utile a sviluppare ulteriormente queste tecnologie.
Capacità di movimento del robot ANYmal personalizzato su diversi modelli di terreni planetari. Crediti: Science Robotics
Ad esempio, si cercherà di rendere i futuri robot più autonomi. Attualmente, tutti i dati provenienti dai robot confluiscono in un centro di controllo, dove un operatore assegna i compiti ai singoli robot. In futuro, i robot semi-autonomi potrebbero interagire per assegnarsi direttamente i compiti l’uno all’altro, con possibilità di controllo e di intervento da parte dell’operatore.
Infine, oltre ai “robot con le zampe”, la ricerca finanziata coinvolgerà anche i robot con le ruote, di cui sarebbero esperti i ricercatori tedeschi del Fzi. «I robot con le zampe, come il nostro Anymal, sono in grado di affrontare terreni rocciosi e ripidi, ad esempio per scendere in un cratere», spiega Hendrik Kolvenbach, scienziato senior del gruppo del professor Hutter. I robot con ruote, seppur svantaggiati in questo tipo di condizioni, possono muoversi più velocemente su terreni meno impegnativi. Per una missione futura, sarebbe quindi utilissimo poter combinare diverse tipologie di robot per garantire varie modalità di locomozione. E non finisce qui: alla squadra potrebbero aggiungersi anche robot volanti.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo su Science Robotics “Scientific Exploration of Challenging Planetary Analog Environments with a Team of Legged Robots” di Philip Arm, Gabriel Waibel, Jan Preisig, Turcan Tuna, Ruyi Zhou, Valentin Bickel, Gabriela Ligeza, Takahiro Miki, Florian Kehl, Hendrik Kolvenbach e Marco Hutter
Guarda il video sul canale YouTube dell’Eth di Zurigo:
youtube.com/embed/bqwbQzVrzkQ?…
Gravità e materia oscura, un legame oltre le distanze
Isaac Newton formulò la sua teoria della gravità come un’azione a distanza: un pianeta risente istantaneamente dell’influenza di un altro corpo celeste, indipendentemente dalla distanza che li separa. Questa caratteristica spinse Einstein a sviluppare la celebre teoria della relatività generale, in cui la gravità diventa una deformazione locale dello spaziotempo. Il principio di località afferma che un oggetto è influenzato direttamente solo dall’ambiente circostante: oggetti distanti non possono comunicare tra di loro informazioni in modo istantaneo; conta solo ciò che si trova qui in questo momento. Nel secolo scorso, con la nascita e lo sviluppo della meccanica quantistica, i fisici hanno scoperto che i fenomeni non locali non solo esistono, ma sono fondamentali per comprendere la natura della realtà. Ora un nuovo studio della Sissa – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, pubblicato a fine maggio su The Astrophysical Journal, suggerisce che la materia oscura, uno dei componenti più enigmatici dell’universo, interagisca con la gravità in modo non locale. Secondo gli autori, i dottorandi Francesco Benetti e Giovanni Gandolfi e il loro supervisore Andrea Lapi, questa scoperta potrebbe fornire una nuova prospettiva per comprendere la natura ancora poco chiara della materia oscura.
La galassia nana Ngc 5949. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/Jenny Hottle
La materia oscura è una componente fondamentale della natura: è responsabile della formazione delle strutture che osserviamo oggi nell’universo e circonda la materia luminosa nelle galassie, contribuendo al movimento delle stelle che osserviamo nel cielo. La natura della materia oscura è però ancora misteriosa, così come la sua interazione con la gravità, soprattutto nelle galassie più piccole. «Negli ultimi decenni la comunità scientifica ha compiuto un grande sforzo per comprendere questi fenomeni enigmatici, ma restano ancora molti interrogativi da risolvere. Per esplorare la natura della materia oscura e la sua interazione con la gravità potrebbe quindi essere necessario adottare un nuovo approccio», spiegano gli autori dello studio. La nuova ricerca della Sissa ha esplorato proprio questo interessante percorso.
Lo studio propone un nuovo modello di interazione non locale tra la materia oscura di una galassia e la gravità: «è come se tutta la materia presente nell’universo dicesse alla materia oscura di una galassia come muoversi», affermano gli autori. Per modellare questa non località, si è fatto uso del calcolo frazionario, uno strumento matematico sviluppato per la prima volta nel XVII secolo e che ha recentemente trovato applicazione in diverse aree della fisica. La potenza di questo calcolo non era mai stata testata in astrofisica. «Ci siamo chiesti se il calcolo frazionario potesse essere la chiave per comprendere la misteriosa natura della materia oscura e la sua interazione con la gravità e sorprendentemente i risultati sperimentali su migliaia di galassie di diverso tipo hanno mostrato che il nuovo modello descrive in modo più accurato il moto delle stelle rispetto alla teoria standard della gravità», spiegano gli autori. Questa non località sembra emergere come un comportamento collettivo delle particelle di materia oscura all’interno di un sistema confinato, risultando particolarmente rilevante nelle galassie di dimensioni ridotte. Una comprensione approfondita di questo fenomeno potrebbe portarci molto vicino a ciò che la materia oscura è realmente.
«Restano però ancora molte domande a cui rispondere», precisano gli autori. «Come emerge esattamente la non-località? Quali sono le sue implicazioni all’interno di strutture più grandi, come gli ammassi di galassie, o nel fenomeno della lente gravitazionale che ci permette di osservare oggetti celesti lontani?». Inoltre, sarà necessario riconsiderare il modello standard della cosmologia alla luce di questo nuovo meccanismo. «Ulteriori studi saranno condotti per esplorare tutte queste implicazioni e altre ancora. Non saremmo sorpresi di scoprire che altre domande irrisolte sull’universo potrebbero essere risolte dalla non-località appena proposta». Il progresso nella comprensione della natura della materia oscura rappresenta un passo significativo verso una migliore conoscenza del nostro universo. La ricerca continua a fornire nuove prospettive e ci avvicina sempre di più a una comprensione completa dei fenomeni che ci circondano.
Fonte: comunicato stampa Sissa
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Dark Matter in Fractional Gravity I: Astrophysical Tests on Galactic Scales”, di Francesco Benetti, Andrea Lapi, Giovanni Gandolfi, Paolo Salucci e Luigi Danese
Nuova misura salva (ancora) il Modello standard
La camera a vuoto usata nell’esperimento. Crediti: Nist
La simmetria genera bellezza, ordine, perfezione. L’asimmetria genera vita. Se le leggi matematiche che descrivono i fenomeni fisici che ci circondano, dall’infinitamente piccolo delle particelle all’infinitamente grande dell’universo, ricercano infatti semplicità ed eleganza nella simmetria, sappiamo che è invece da un’asimmetria nel loro comportamento che si è generato l’esistente. Gli astrofisici la stanno cercando nei grandi sconosciuti del cosmo, come materia ed energia oscura, mentre i fisici tentano di trovare una falla nel Modello standard, la teoria che spiega il comportamento delle particelle elementari. Da uno studio sperimentale pubblicato la scorsa settimana su Science emerge che non ci sono ancora riusciti. Hanno ristretto il campo, e posto un ulteriore limite da superare, ma per ora il risultato è sempre lo stesso: zero.
«Il Modello standard spiega quasi tutto delle particelle elementari e dei fenomeni associati ad esse, ma non è in grado di spiegare tutto quel che accade ed è accaduto nell’universo», dice Claudia Patrignani, fisica dell’Università di Bologna, non coinvolta direttamente nello studio, alla quale ci siamo rivolti per un commento sul nuovo risultato. «Tutte le misure che abbiamo fatto finora negli acceleratori, ai laboratori del Gran Sasso o nelle miniere, infatti, sono previste e spiegate a livello teorico dal Modello standard. Invece nell’universo c’è molto di più. Ed è un grosso punto interrogativo. Per rispondere, alcune delle opzioni riguardano proprio la ricerca di violazioni di simmetria nelle leggi, e nel comportamento delle particelle».
Ma cominciamo dall’inizio. Subito dopo il big bang, il cosmo produceva in ugual misura materia e antimateria. Particelle e antiparticelle che continuavano a formarsi e annichilirsi. Questa condizione di perfetta simmetria non consentiva alcuna conformazione stabile. Poi però, qualcosa è successo e l’universo ha deciso da che parte stare: è rimasta solamente la materia. A livello di fisica delle particelle elementari, quella descritta dal Modello standard appunto, capire come sia potuto accadere significa cercare una piccola differenza di comportamento fra particelle e antiparticelle che abbia selezionato le une invece delle altre. Significa, in altre parole, trovare una violazione di simmetria: se una particella e la sua antiparticella non sono esattamente simmetriche, a un certo punto una può prevalere sull’altra.
Il Modello standard prevede una violazione della simmetria nel caso di alcune particelle elementari, i quark pesanti, ma non sembra essere sufficiente a spiegare quanto è successo nei primi istanti di vita dell’universo, facendo prevalere la materia sull’antimateria. E se la teoria corrente non offre altri margini in cui indagare, forse la soluzione è uscire da essa, cercando di mettere in crisi alcune delle sue previsioni.
«Cercare una violazione della teoria, a livello sperimentale, significa cercare un’eccezione laddove essa pone dei limiti estremamente stretti», continua Patrignani. «L’idea è: se il Modello standard non funziona, il modo migliore per accorgersene è andare a cercare qualcosa di diverso da zero laddove la teoria dice in modo molto preciso che devo trovare zero».
Gli elettroni sono costituiti da una carica elettrica negativa, e gli scienziati del Nist/Jila hanno cercato di misurare quanto uniformemente questa carica sia distribuita tra il polo nord e il polo sud dell’elettrone. Eventuali disomogeneità indicherebbero che l’elettrone non è perfettamente rotondo, e ciò sarebbe la prova di un’asimmetria nell’universo primordiale che potrebbe aver portato all’esistenza della materia. Il Cornell Group del Jila ha studiato il comportamento degli elettroni nelle molecole regolando il campo magnetico intorno a esse per cercare eventuali spostamenti degli elettroni. Crediti: Jila/Steven Burrows
Una possibilità su cui i fisici si stanno concentrando da circa vent’anni è il momento di dipolo dell’elettrone. Una grandezza che, appunto, secondo la teoria dovrebbe essere nulla. Per spiegare cosa sia il momento di dipolo dell’elettrone, dobbiamo pensare a come si distribuisce la carica attorno a questa particella: se fosse distribuita in maniera uniforme, come su una sfera, allora il momento di dipolo sarebbe zero. E questo è quanto ci si aspetta dal Modello standard. Ma se questa sfera avesse invece delle irregolarità, dei “bitorzoli”, o fosse un uovo invece di una sfera, allora il momento sarebbe diverso da zero. Per misurarlo esistono diverse strade, e tutte stanno cercando di spingersi a un livello di precisione sempre più elevato, raggiungendo dimensioni sempre più piccole. Nello studio appena pubblicato, gli scienziati sono riusciti a migliorare le stime precedenti di un fattore 2,4.
«Pensiamo all’elettrone come a una particella puntiforme con una distribuzione di carica (più o meno sferica) attorno, e circondato da una nuvola di particelle virtuali, di quark pesanti o le altre particelle del Modello standard, come i bosoni W, Z o Higgs. Misurare come sono distribuite queste particelle, e determinare quanto pesanti sono, consente di comprendere come sia distribuita la carica. E se ci fossero nuove particelle virtuali di massa via via maggiore (e diverse da quelle previste dal Modello standard), il loro effetto si manifesterebbe esplorando volumi sempre più piccoli attorno all’elettrone», spiega Patrignani.
L’esperimento messo in atto dai fisici del Jila – un istituto di ricerca statunitense gestito congiuntamente dal National Institute of Standards and Technology (Nist) e dall’Università del Colorado a Boulder – continua un filone iniziato circa vent’anni fa. Prevede di usare degli ioni di fluoruro di afnio confinati all’interno di una trappola: alternando il campo elettromagnetico intorno alla trappola, gli elettroni erano costretti ad allinearsi o meno all’intenso campo elettrico all’interno dello ione. Un momento di dipolo elettrico produrrebbe una differenza fra i livelli energetici di ioni allineati in modo opposto, mentre i risultati, al meglio della precisione raggiunta, non hanno mostrato alcuna disuniformità. Questo può essere tradotto in un limite sul volume entro il quale non si vedono particelle diverse da quelle previste dal Modello standard (e quindi sulla massa di queste).
«Sapere quale livello di precisione bisogna raggiungere per dire con certezza che il momento di dipolo è nullo non è semplice. Il Modello standard prevede che si debba raggiungere un limite dai tre agli otto ordini di grandezza più basso rispetto a ora», commenta Patrignani. «Sembra molto, ma essendo una misura di effetto zero non è detto che sia impossibile. Misure di questo tipo sono cominciate circa vent’anni fa e in questo tempo sono migliorate di circa tre ordini di grandezza. Può sembrare frustrante fare tutto questo lavoro per ottenere, di fatto, un risultato pari a zero, cioè dimostrando che non si trova niente. Ma il punto è proprio questo: se si trovasse qualcosa di diverso sarebbe davvero eclatante. E sarebbe anche un problema: significherebbe che dobbiamo rivedere tutta la teoria su cui ci siamo basati finora».
Questo esperimento va a testare uno dei fondamenti della fisica, perché riguarda una delle teorie che più ha avuto successo degli ultimi anni, e che finora non ha mostrato punti deboli. La misura del momento di dipolo dell’elettrone in laboratorio viene affrontata con due tecniche sperimentali diverse – una delle quali prevede le trappole di ioni, ed è quella utilizzata in questo studio. Queste due continuano a rincorrersi e a migliorare le proprie misure abbassando il limite.
«Questa è una forza e al contempo una sicurezza», conclude Patrignani. «Nel caso in cui, a furia di rincorrersi, una delle due trovi una deviazione dallo zero, l’altra potrà subito intervenire a fornire una controprova o una smentita, con una tecnica sperimentale diversa e quasi ortogonale».
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “An improved bound on the electron’s electric dipole moment”, di
Tanya S. Roussy, Luke Caldwell, Trevor Wright, William B. Cairncross, Yuval Shagam, Kia Boon Ng, Noah Schlossberger, Sun Yool Park, Anzhou Wang, Jun Ye e Eric A. Cornell
Arte e scienza, quaranta ritratti di donne
Patrizia Caraveo, astrofisica, dirigente di ricerca dell’Inaf, commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Crediti: Gerald Bruneau/Fondazione Bracco
Da oggi, giovedì 13 luglio, presso il Museo Carlo Bilotti di Roma, apre al pubblico “Ritratte. Donne di arte e di scienza”, una mostra fotografica dedicata ai volti, alle carriere e al merito di donne italiane che hanno conquistato ruoli di primo piano nell’ambito della scienza e dei beni culturali.
L’esposizione, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla cultura, Sovrintendenza capitolina ai beni culturali, è curata e realizzata dalla Fondazione Bracco in collaborazione con Arthemisia. Servizi museali Zetema Progetto Cultura.
La mostra, attraverso gli scatti del fotografo di fama internazionale Gerald Bruneau, mette in luce non solo la figura ma anche e soprattutto le capacità professionali di 40 donne che hanno raggiunto posizioni apicali nel loro settore, fra le quali due astronome dell’Istituto nazionale di astrofisica – Patrizia Caraveo e Maria Cristina De Sanctis.
Un itinerario eclettico di immagini e parole, che si snoda in luoghi spesso nascosti, tra vaste sale rivestite di marmi di palazzi d’epoca e laboratori di ricerca inaccessibili, per raccontare la guida sapiente di queste professioniste che non di rado propongono – attraverso la loro stessa biografia – un modello di governo inclusivo e ispirante.
Maria Cristina De Sanctis, planetologa, prima ricercatrice all’Inaf di Roma. Crediti: Gerald Bruneau/Fondazione Bracco
La mostra propone due percorsi espositivi distinti ma complementari, oggi riuniti per la prima volta in un’unica esposizione, fortemente voluta da Fondazione Bracco nell’ambito del proprio intervento di contrasto agli stereotipi di genere e di promozione delle competenze, concepiti rispettivamente come asse prioritario di intervento per raggiungere la parità e unico discrimine per qualsiasi sviluppo personale e collettivo.
“Ritratte. Donne di arte e di scienza” alterna dunque storie di donne alla guida di primarie istituzioni culturali del nostro Paese e di alcune tra le più importanti scienziate italiane, in un ideale unione di saperi tra arte e scienza, un viaggio esemplare tra luoghi d’arte e laboratori scientifici.
Da un lato, le direttrici dei musei italiani, “luoghi sacri alle Muse”, spazi dedicati alla conservazione e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico, custodi del nostro passato e laboratori di pensiero per costruire il futuro, ma anche imprese con bilanci e piani finanziari, che contribuiscono in modo cruciale alla nostra economia. Oggi alla guida di importanti istituzioni culturali italiane ci sono professioniste che hanno raggiunto posizioni apicali grazie a competenze multidisciplinari, che uniscono una profonda conoscenza della storia dell’arte con capacità gestionali e creative. È ancora più importante sottolineare tale conquista alla luce dei dati disponibili, che mostrano come in tutta l’Unione europea le donne che si occupano di arte e cultura generalmente abbiano meno accesso alle risorse di creazione e produzione, siano pagate meno degli uomini e siano sottorappresentate nelle funzioni dirigenziali e decisionali, nonché sul mercato dell’arte.
Tra i volti di “donne di scienza” in mostra legati allo spazio e all’astronomia, oltre a quelli di Caraveo e De Sanctis, sono esposti anche i ritratti di Simonetta Di Pippo (in alto) ed Ersilia Vaudo Scarpetta (in basso). Crediti: Gerald Bruneau/Fondazione Bracco
Dall’altro, le scienziate, con racconti che rafforzano ancor di più l’empowerment e il contrasto agli stereotipi di genere nella pratica scientifica. In mostra alcuni dei volti del progetto più ampio denominato #100esperte (100esperte.it): ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A. e sviluppato con Fondazione Bracco grazie al supporto della rappresentanza in Italia della Commissione europea, è una piattaforma online per accrescere la visibilità dell’expertise femminile, alimentata nel tempo con i profili di esperte italiane in settori strategici che vedono ancora una sottorappresentazione femminile a partire dalle discipline Stem (science, technology, engineering and mathematics).
«Al centro della mostra “Ritratte” lo spettatore può osservare le vaste competenze, il merito, le qualità intrinseche o acquisite che hanno portato queste donne a rivestire ruoli di primo piano, nell’arte e nella scienza», sottolinea Diana Bracco, presidente di Fondazione Bracco. «Nel percorso fotografico le protagoniste, che di norma vivono spazi di lavoro appartati, che siano musei o laboratori, sono finalmente oggetto di attenzione collettiva, sono riconosciute nel loro ruolo. Questo è il movimento necessario che siamo tutti invitati a compiere: riconoscere le competenze, renderle visibili. Da tempo con Fondazione Bracco, attraverso il progetto #100esperte e molte iniziative formative dedicate all’empowerment femminile, facciamo proprio questo: valorizziamo il merito e incoraggiamo nuove vocazioni, leve essenziali per sostenere le aspirazioni di bambine e ragazze, e per raggiungere una presenza paritaria di donne e uomini nelle posizioni apicali».
Sardinia Radio Telescope, ritorno al futuro
Il Sardinia Radio Telescope visto dall’alto. Crediti: Paolo Soletta/Inaf
Il Sardinia Radio Telescope (Srt), situato a San Basilio, in provincia di Cagliari, è un’infrastruttura di ricerca dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). È un radiotelescopio di 64 metri di diametro, uno dei più innovativi e performanti d’Europa, nato per studiare le onde radio provenienti dal cosmo. Oltre a essere uno strumento ideale per le applicazioni astronomiche come “antenna singola”, Srt può osservare anche in modalità interferometrica a lunghissima base, la cosiddetta tecnica Vlbi, cioè in rete con le antenne europee e le altre antenne italiane dell’Inaf situate a Medicina, in provincia di Bologna, e a Noto, in provincia di Siracusa.
Sebbene Srt sia stato progettato per osservazioni fino a una frequenza nominale di 100 GHz, nella sua configurazione iniziale lo strumento era stato equipaggiato con ricevitori che hanno una copertura di frequenza da 0,3 a 26 GHz.
Nell’ambito del Programma operativo nazionale (Pon) denominato “Potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’universo alle alte frequenze radio”, Inaf si è aggiudicato un finanziamento di 18,7 milioni di euro dal Ministero dell’università e della ricerca. Il progetto di potenziamento di Srt è partito il 25 giugno del 2019 e si è concluso il 25 giugno 2023, e ha visto la partecipazione di ricercatori di Sapienza Università di Roma, del Cnr-Eiit, dello Uk Research and Innovation (Ukri) nel Regno Unito, dell’Università di Manchester sempre nel Regno Unito e del Korea Astronomy and Space Science Institute (Kasi) in Corea del Sud.
Il Sardinia Radio Telescope. Crediti: Marta Burgay/Inaf
Per raggiungere gli obiettivi di potenziamento previsti nel progetto, Srt è stato equipaggiato con quattro nuovi ricevitori che permetteranno agli astronomi di osservare l’universo fino a 100 GHz, avendo così una nuova finestra per studiare fenomeni celesti prima non esplorabili. Per migliorare le capacità di puntamento e la sensibilità del radiotelescopio, Srt è stato dotato anche di un nuovo sistema metrologico. È stato acquisito un avanzato sistema di backend e di computer per il trattamento dei dati, sono state potenziate le interfacce meccaniche ed elettroniche dell’infrastruttura che permetteranno al sistema un migliore funzionamento nel suo complesso. Infine, il potenziamento dei laboratori nella sede di Selargius della sede Inaf di Cagliari, permetterà di mantenere allo stato dell’arte tutta questa nuova strumentazione capitalizzando il potenziamento per i prossimi 10 anni, almeno. Questi risultati sono stati presentati oggi al Teatro Doglio di Cagliari durante l’evento “Dall’Università all’impresa: la ricerca è innovazione” organizzato dal Ministero dell’università e della ricerca.
«Con la strumentazione d’avanguardia e gli aggiornamenti infrastrutturali che vanta ora il Sardinia Radio Telescope», commenta il presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, Marco Tavani, «potremo davvero spingerci molto più avanti nello studio dell’universo nelle onde radio. Sono davvero orgoglioso di veder completato tutto questo complesso e articolato lavoro nel perfetto rispetto delle tempistiche e dei finanziamenti forniti dal Ministero dell’università e della ricerca, anche considerando i gravi problemi legati alla passata pandemia da Covid-19. Un lavoro corale che ha visto tutte le “anime” dell’Inaf – scientifiche, tecnico-ingegneristiche e amministrative – collaborare al meglio per raggiungere questo importante traguardo».
Il progetto è strutturato in nove obiettivi realizzativi, ognuno con un responsabile, e le varie attività sono state seguite da un team di circa 60 unità di personale dell’Inaf composto da tecnologi, tecnici, amministrativi e ricercatori distribuiti nelle sedi di Cagliari, Bologna, Firenze e Catania.
Federica Govoni, responsabile del progetto Pon Srt. Crediti: Paolo Soletta/Inaf
L’infrastruttura così potenziata permetterà alla comunità scientifica di espandere l’utilizzo di Srt ad alte frequenze radio sia in modalità a disco singolo che in modalità interferometrica nella rete Vlbi. Nel progetto finanziato è inoltre compreso un potenziamento delle antenne Inaf di Medicina e Noto che operano, congiuntamente a Srt, nella rete Vlbi.
Si apre ora una nuova fase di verifica della nuova dotazione strumentale che porterà il radiotelescopio nella condizione di piena attività e produttività scientifica consentendo al radiotelescopio di operare con grande versatilità ed efficienza, permettendo agli astronomi di esplorare aree scientifiche di frontiera grazie ad una copertura in frequenza da 0.3 a 100 GHz .
«Questo risultato», ricorda Federica Govoni, ricercatrice Inaf a Cagliari e responsabile del progetto Pon Srt, «non si sarebbe potuto raggiungere senza la costante presenza del responsabile amministrativo del progetto Maria Renata Schirru, del direttore dell’Inaf di Cagliari Emilio Molinari, del responsabile unico dei procedimenti delle gare d’appalto Ignazio Porceddu, del project office composto da Davide Fierro, Letizia Caito e Andrea Orlati, del personale che ha curato la rendicontazione e l’archiviazione della documentazione tecnica, ovvero Adina Mascia e Teresa Pulvirenti e dell’intero team del progetto. Tutti hanno partecipato al raggiungimento degli obiettivi con grande spirito di abnegazione».
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
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Approfondimenti sui nove obiettivi realizzativi (Or 1-9):
Ricevitore criogenico multi-beam in Banda W per Srt (75 – 116 GHz) «Caruso (Cryogenic Array Receiver for Users of the Sardinia Observatory) è un ricevitore criogenico multi-beam 4×4 operante in banda W (70-116 GHz) installato al fuoco Gregoriano del Sardinia Radio Telescope. La realizzazione dello strumento è stata appaltata da Inaf ad Ukri (Uk Research and Innovation) nell’ambito del contratto Pon Or1. Caruso è tra i principali e più performanti strumenti disponibili in ambito radioastronomico a livello internazionale operanti in banda W. Grazie alla sua installazione, completata nelle scorse settimane, Srt riuscirà ad effettuare osservazioni astronomiche ad alta sensibilità sia di tipo spettro-polarimetrico che di emissione nel continuo, sfruttando al massimo il campo di vista, rendendo il radiotelescopio una facility pressoché unica nel panorama internazionale». Alessandro Navarrini, Inaf Cagliari
Ricevitore criogenico multi-beam in Banda Q per Srt (33 – 50 GHz)
«L’Or2 del progetto Pon ha realizzato un ricevitore criogenico a microonde nella banda da 33 a 50 GHz, nella configurazione multifeed: 19 ricevitori identici guarderanno in contemporanea 19 punti del cielo. Sarà possibile ottenere mappe in spettroscopia, in polarimetria o in semplice ampiezza del segnale ricevuto. Sarà possibile osservare il Sole con questa modalità. Lo strumento deriva dal lavoro delle strutture Inaf di Bologna, Firenze e Cagliari e si è avvalso della professionalità di Ieiit-Cnr e dell’Università di Manchester per lo studio e realizzazione di due dispositivi in guida d’onda». Alessandro Orfei, Inaf Bologna
Camera millimetrica per Srt (80 – 116 GHz)
«Lo scopo dell’Or3 era dotare Srt di una camera millimetrica di nuova generazione per osservazioni ad alta sensibilità e risoluzione angolare in banda W (80 – 110 GHz). La realizzazione è stata affidata a Sapienza Università di Roma, che in collaborazione con Inaf ha progettato, realizzato e infine installato su Srt il ricevitore denominato Mistral (MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids). Con un campo di vista di 4 minuti d’arco e una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco, Mistral consentirà di esplorare casi scientifici chiave dalle scale galattiche fino all’universo ad alto redshift. In particolare, l’avvento della camera Mistral aprirà una nuova strada per rivelare i dettagli della formazione e dell’evoluzione delle strutture su larga scala nell’universo. Ad esempio, attraverso l’osservazione dell’effetto Sunyaev-Zel’dovich, sarà possibile effettuare indagini sugli ammassi di galassie e i filamenti che li collegano, ottenendo informazioni sulla loro fisica, dinamica e morfologia». Matteo Murgia, Inaf Cagliari
Sistema ricevente a microonde compatto e simultaneo a tre-bande per i tre radiotelescopi italiani
«Tre nuovi ricevitori tri-band (18-26 GHz, 34-50 GHz e 80-116 GHz) compatti, criogenici e simultanei sono stati sviluppati, all’interno dell’Or4 del Pon, per i tre radiotelescopi Inaf (Srt, Medicina e Noto). Una volta in operazione, essi consentiranno alla comunità scientifica di espandere dai siti italiani le osservazioni alle alte frequenze sia come antenne singole sia in modalità interferometrica. La simultaneità in frequenza permetterà di migliorare la calibrazione del ricevitore alle alte frequenze (intorno ai 100 GHz) sfruttando calibratori astronomici presenti alle più basse frequenze. I ricevitori sono stati progettati e sviluppati dal Korea Astronomy and Space Science Institute sulla base di un analogo sistema che opera da più di 10 anni al Korea Vlbi Network (Kvn)». Pietro Bolli, Inaf Firenze
Sistema metrologico per SRT
«Per consentire l’operatività di Srt ad alte frequenze occorre tenere sotto controllo e monitorare le deformazioni della struttura che avvengono sotto l’azione di carichi gravitazionali e termici, oltre che a causa della pressione del vento. A tal fine, Or5 si è occupato della progettazione e della acquisizione di un complesso sistema di metrologia, costituito da oltre 200 sensori di temperatura, anemometri, inclinometri che forniranno ad un modello basato su reti neurali le informazioni per il calcolo in tempo reale degli errori di puntamento del telescopio; inoltre un laser scanner, un’antenna per misure olografiche e un sistema all’avanguardia di misura di posizione verificheranno il profilo delle ottiche principali, oltre che il loro corretto posizionamento nello spazio al fine di fornire al sistema di controllo le correzioni affinché Srt osservi sempre in modo da avere sempre le massime prestazioni possibili». Sergio Poppi, Inaf Cagliari
Backend per Srt
«I nuovi ricevitori multi-beam richiedono sistemi di acquisizione dati in grado di analizzare un numero elevato di segnali indipendenti, su una banda passante elevata, e di supportare una varietà di modalità osservative (quasi-continuo, spettroscopia, spettropolarimetria, analisi di pulsar). Questo richiede l’utilizzo di schede basate su logiche programmabili. Il sistema di acquisizione è composto da due sezioni che consentono di analizzare fino a 40 segnali rispettivamente su una banda più limitata (fino a 1.4 GHz) ma con un numero elevatissimo di canali spettrali (fino a 65mila) oppure bande fino a 2 GHz con minore risoluzione spettrale. Lo sviluppo del firmware di acquisizione deriva dalla collaborazione tra le strutture Inaf di Firenze e di Cagliari». Giovanni Comoretto, Inaf Firenze
Fornitura delle interfacce elettroniche e meccaniche per l’integrazione dei nuovi sistemi
«L’Or7 si è occupato del potenziamento dell’infrastruttura tecnica e tecnologica del Sardinia Radio Telescope. Alcune caratteristiche innovative della strumentazione scientifica acquisita con il progetto Pon hanno reso necessari alcuni interventi ben mirati, alla meccanica e servomeccanica, agli impianti elettrico, criogenico, termostatazione e distribuzione dei segnali Rf, al fine di garantire un’efficace integrazione e un pieno sfruttamento di tutti i ricevitori e dei nuovi backend digitali. Con la nuova configurazione del Srt si avrà, inoltre, una semplificazione delle procedure manutentive e il superamento di alcune carenze strutturali che apriranno il telescopio ad ulteriori miglioramenti tecnologici con chiare ricadute sulla quantità e qualità della produzione scientifica dello strumento». Andrea Orlati, Inaf Bologna
HPC e sistemi di archiviazione per la raccolta ed uso dati SRT
«Per l’Or8, la disponibilità di una infrastruttura di calcolo moderna e prestazionale (circa 500 core Cpu, 12 Gpu di tipo A40 e oltre 8 PB di spazio su disco) costituisce un tassello fondamentale per permettere al rinnovato Srt di esprimere il suo pieno potenziale scientifico. In particolare, la componente installata presso il sito di Srt fornirà un’analisi in tempi rapidi della qualità dei dati acquisiti dall’antenna e servirà a preservare i dati per un breve periodo, prima del loro trasferimento altrove. La componente installata al sito dell’Inaf di Cagliari sarà invece dedicata all’analisi approfondita dei dati». Andrea Possenti, Inaf Cagliari
Potenziamento dei laboratori per lo sviluppo di tecnologie a microonde
«L’Or9 del Pon ha riguardato il potenziamento dei laboratori dell’Inaf di Cagliari con la ricerca e l’acquisizione di strumentazione all’avanguardia per i laboratori di microonde, elettronica e meccanica. La strumentazione acquisita permetterà di progettare e sviluppare nuove tipologie di ricevitori e di backend radioastronomici, nuovi circuiti e schede elettroniche per il comando e controllo dei diversi sistemi installati sul Sardinia Radio Telescope e di nuovi sistemi metrologici per misurare e correggere le deformazioni gravitazionali e termiche della struttura del radiotelescopio che pregiudicano le sue prestazioni alle più alte frequenze di utilizzo». Tonino Pisanu, Inaf Cagliari
Molecole organiche nel cratere marziano Jezero
Lo spettrometro Sherloc è uno degli strumenti scientifici a bordo di Perseverance. Crediti: Nasa
Perseverance, in diretta da Marte, ci regala una nuova scoperta. Il rover Nasa atterrato nel 2021 nel cratere Jezero – un antico bacino lacustre che nel passato potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità – ha infatti individuato tracce di sostanze organiche che suggeriscono la presenza, sul Pianeta rosso, di un ciclo geochimico molto più complesso di quanto si pensasse.
I risultati sono stati ottenuti utilizzando lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals), che come un investigatore ha permesso la mappatura a scala fine e l’analisi di varie tipologie di minerali con materiale organico presenti sul fondo del cratere Jezero. Lo studio, pubblicato oggi su Nature, è guidato da Sunanda Sharma, ricercatrice del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, in California.
«Sherloc è uno spettrometro Raman risonante e di fluorescenza molto sensibile per la rivelazione di organici», spiega a Media Inaf una delle coautrici dello studio, l’astrobiologa Teresa Fornaro, ricercatrice all’Inaf di Arcetri, «in quanto utilizza un laser nel profondo ultravioletto che induce negli organici un’emissione di fluorescenza ben separata dallo scattering Raman e quindi permette di raccogliere simultaneamente entrambe queste tipologie di segnali sullo stesso rivelatore».
Teresa Fornaro, ricercatrice all’Inaf di Arcetri, coautrice dello studio pubblicato su Nature. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli
Sono molteplici le teorie che tentano di spiegare la formazione di molecole organiche sul suolo marziano. Si parla di interazioni acqua-roccia, per esempio, o di depositi di polvere interplanetaria. «Queste molecole potrebbero essere state sintetizzate su Marte per via abiotica attraverso processi acquosi», dice Fornaro. «Oppure potrebbero essere state sintetizzate per via abiotica nello spazio e portate su Marte dalle meteoriti e poi intrappolate all’interno di minerali come il solfati durante la loro precipitazione in seguito all’evaporazione dell’acqua del lago che era presente un tempo nel cratere Jezero. Non si può escludere, poi, che queste siano quello che resta di molecole biotiche che hanno subito miliardi di anni di alterazione dovuta a irraggiamento e ossidanti sulla superficie di Marte».
Analizzando le osservazioni di Sherloc, sono stati rilevati segnali di molecole organiche in tutti e dieci i bersagli osservati da Sherloc nel fondo del cratere Jezero. «La concentrazione di organici stimata da queste misure», prosegue la ricercatrice, «va da 20 parti per milione nella formazione più giovane, denominata Máaz, a 2 ppm nella formazione più antica denominata Séítah, indicando che questa materia organica è stata presente su un periodo esteso di tempo (da almeno 2.3-2.6 miliardi di anni) e ha resistito nonostante l’esposizione alle condizioni estreme della superficie del pianeta». La differenza tra queste osservazioni può fornire informazioni sui diversi modi in cui la materia organica può avere avuto origine.
«Attraverso gli studi di laboratorio ci stiamo avvicinando a dare una risposta riguardo all’ipotesi migliore», conclude Fornaro, «ma sicuramente ne avremo la certezza solo quando i campioni verranno portati sulla Terra attraverso la campagna di Mars Sample Return e potranno essere analizzati in dettaglio con le strumentazioni più sensibili disponibili nei nostri laboratori terrestri».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Diverse organic-mineral associations in Jezero crater, Mars”, di Sunanda Sharma et al.
Così scorrevano i fiumi su Marte e Titano
Le immagini della missione Cassini mostrano reti fluviali che defluiscono nei laghi nella regione polare settentrionale di Titano. Crediti: Nasa/Jpl/Usgs
Da quel che sappiamo, oltre che sul nostro pianeta, su altri due mondi del Sistema solare scorrono – o scorrevano – fiumi: Marte, dove solchi e crateri oggi asciutti sono ciò che resta di antichi fiumi e laghi, e Titano, la luna più grande di Saturno, solcato ancora oggi da corsi di metano liquido. Una nuova tecnica sviluppata dai geologi del Mit ha permesso di stimare l’intensità con cui scorrevano i fiumi su Marte e come scorrono attualmente su Titano, utilizzando osservazioni satellitari per stimare la velocità con cui spostavano fluidi e sedimenti a valle.
Applicando questa tecnica, il team del Mit ha calcolato la velocità e la profondità dei fiumi in alcune regioni di Marte più di un miliardo di anni fa. Stime simili sono state fatte anche per i fiumi attualmente attivi su Titano, benché la densa atmosfera della luna e la sua distanza dalla Terra ne rendano più difficile l’esplorazione, con molte meno immagini disponibili della sua superficie rispetto a quelle di Marte.
Lo studio è nato dalle perplessità di due autori, Taylor Perron e Samuel Birch, emerse quando hanno notato che le immagini scattate dalla sonda Cassini della Nasa dei fiumi di Titano mostravano una curiosa mancanza di delta a ventaglio alla foce della maggior parte dei fiumi lunari, contrariamente a quanto avviene sulla Terra. Potrebbe essere che i fiumi di Titano non trasportino abbastanza flusso o sedimenti per formare un delta?
Il gruppo di ricercatori si è basato sul lavoro del coautore Gary Parker, che negli anni Duemila ha sviluppato una serie di equazioni matematiche per descrivere il flusso dei fiumi sulla Terra. Parker aveva studiato le misurazioni dei fiumi prese direttamente sul campo da altri ricercatori. Da questi dati, aveva scoperto che c’erano alcune relazioni universali tra le dimensioni fisiche di un fiume – la sua larghezza, profondità e pendenza – e la velocità con cui scorreva. Aveva quindi elaborato equazioni per descrivere matematicamente queste relazioni, tenendo conto di altre variabili come il campo gravitazionale che agisce sul fiume e la dimensione e la densità del sedimento spinto lungo il letto del fiume.
Sulla Terra, i geologi possono effettuare misurazioni sul campo della larghezza, della pendenza e della dimensione media dei sedimenti di un fiume, che possono essere inserite nelle equazioni di Parker per prevedere con precisione la portata di un fiume o la quantità di acqua e sedimenti che può spostarsi a valle. Ma per i fiumi su altri pianeti le misurazioni sono più limitate, e si basano in gran parte su immagini e misurazioni di elevazione raccolte da satelliti. Per Marte, diversi orbiter hanno scattato immagini ad alta risoluzione del pianeta. Per Titano, le osservazioni sono poche e lontane tra loro.
Birch si rese presto conto che qualsiasi stima del flusso fluviale su Marte o su Titano avrebbe dovuto basarsi sulle poche caratteristiche che possono essere misurate da immagini e topografia remote, vale a dire la larghezza e la pendenza di un fiume. Con alcuni ritocchi algebrici, ha adattato le equazioni di Parker in modo che funzionassero solo conoscendo larghezza e pendenza. Ha quindi raccolto i dati di 491 fiumi sulla Terra, ha testato le equazioni modificate su questi fiumi e ha scoperto che le previsioni basate esclusivamente sulla larghezza e sulla pendenza di ciascun fiume erano accurate.
Quindi ha applicato le equazioni a Marte, e in particolare agli antichi fiumi che confluiscono nei crateri Gale e Jezero, che plausibilmente miliardi di anni fa erano laghi pieni d’acqua. Per prevedere la portata di ciascun fiume, ha considerato la gravità marziana e le stime della larghezza e della pendenza di ciascun fiume, basate su immagini e misurazioni dell’elevazione effettuate dai satelliti in orbita.
Da sinistra a destra: il fiume Hólmkelsá vicino a Svöðufoss, in Islanda; vecchi canali fluviali sulla superficie del delta di Jezero, su Marte; e la Saraswati Flumen che scorre verso la costa del lago Ontario, su Titano. Crediti: Sam Birch (Islanda), Nasa/Jpl/University of Arizona (Mars), Nasa/Jpl-Caltech/Asi/Cassini Radar Team (Titano)
Dalle previsioni sulla portata, il team ha scoperto che i fiumi probabilmente hanno continuato a scorrere per almeno 100mila anni al cratere Gale e almeno 1 milione di anni al cratere Jezero, abbastanza a lungo da poter sostenere la vita. Sono stati anche in grado di confrontare le loro previsioni sulla dimensione media dei sedimenti sul letto di ciascun fiume con le misurazioni sul campo dei sassi marziani vicino a ciascun fiume, condotte dai rover Curiosity e Perseverance della Nasa. Queste poche misurazioni hanno permesso al team di verificare che le loro equazioni, applicate a Marte, fossero accurate.
Poi è stata la volta di Titano. Si sono concentrati su due posizioni in cui è possibile misurare le pendenze del fiume, tra cui un fiume che sfocia in un lago delle dimensioni del lago Ontario, che sembra effettivamente formare un delta quando si immette nel lago. Tuttavia, questo delta è uno dei pochi che si pensa esistano sulla luna: quasi ogni fiume che si vede scorrere in un lago di Titano è infatti misteriosamente privo di un delta. Il team ha quindi deciso di applicare il metodo a uno di questi fiumi senza delta.
Hanno calcolato il flusso di entrambi i fiumi (con e senza delta) e hanno scoperto che potrebbe essere paragonabile ad alcuni dei più grandi fiumi della Terra con delta, con una portata stimata confrontabile a quella del Mississippi. Il team ha anche valutato che i fiumi su Titano dovrebbero essere più larghi e avere una pendenza più dolce rispetto ai fiumi che trasportano lo stesso flusso sulla Terra o su Marte. Ciò che hanno trovato è che entrambi i fiumi dovrebbero spostare abbastanza sedimenti per creare una foce a delta. Ma non è quello che si vede. La maggior parte dei fiumi su Titano non ha depositi a ventaglio. È chiaro quindi che ci dev’essere qualcos’altro all’opera sulla luna di Saturno per spiegare questa mancanza di depositi fluviali.
Bisogna certamente continuare a indagare. In questo ci aiuterà senz’altro Dragonfly, la nuova missione della Nasa che nel 2027 partirà con l’obiettivo di esplorare proprio quel mondo, Titano. Sfruttando la bassa gravità e la densa atmosfera della luna, volerà da un posto all’altro come una libellula. Allora, forse, con molte più osservazioni da usare come input per la tecnica dei ricercatori del Mit, potremo finalmente capire perché la luna di Saturno manca di depositi fluviali.
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Reconstructing river flows remotely on Earth, Titan, and Mars” di Samuel P. D., Gary Parker, Paul Corlies, & J. Taylor Perron
Ecco il buco nero supermassiccio più lontano
Il buco nero all’interno della galassia Ceers 1019 era già presente 570 milioni di anni dopo il big bang, ed è molto meno massiccio di altri buchi neri trovati in precedenza nell’universo primordiale. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (Stsci)
Nonostante il telescopio spaziale James Webb sia al lavoro solamente da un anno, la già corposa lista dei record battuti da questo formidabile strumento continua a crescere con nuove scoperte e misurazioni. L’ultima, rivelata dai ricercatori con la pubblicazione di alcuni paper in una versione speciale di The Astrophysical Journal Letters solo qualche giorno fa, riguarda la scoperta del buco nero più distante mai osservato, nella galassia Ceers 1019.
Il buco nero in questione è stato identificato in una delle immagini prodotte dal telescopio facenti parte del Cosmic Evolution Early Release Science (Ceers) Survey, un esteso programma di osservazioni con l’obiettivo principale di studiare, attraverso immagini e spettroscopie, le antiche galassie nell’epoca della reionizzazione, il momento in cui i fotoni energetici delle prime stelle hanno ionizzato il gas nel mezzo intergalattico.
Il buco nero all’interno della galassia Ceers 1019 esisteva poco più di 570 milioni di anni dopo il big bang – estremamente presto nella storia comica – e pesa solo 9 milioni di masse solari, molto poco se confrontato con altri buchi neri lontani osservati attraverso altri telescopi, che arrivano a masse pari anche a miliardi di volte quella del Sole. Sebbene le sue dimensioni siano ridotte, questo buco nero è estremamente famelico, come rivela lo spettro ricavato dal Webb, che indica un consumo di gas, polvere e stelle alla massima velocità teoricamente possibile per le sue dimensioni.
Questo grafico mostra i buchi neri supermassicci attivi più distanti attualmente conosciuti nell’universo. Tre, tra cui il più distante (all’interno della galassia Ceers 1019), sono stati recentemente identificati dalla Cosmic Evolution Early Release Science (Ceers) Survey del James Webb Space Telescope. I buchi neri individuati Ceers sono molto più piccoli di qualsiasi altro buco nero precedentemente noto nell’universo primordiale. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (Stsci)
Anche se relativamente piccolo, questo buco nero è esistito così tanto tempo fa che resta difficile spiegare come possa essersi formato così presto dopo l’inizio dell’universo. I ricercatori sapevano da tempo che i buchi neri più piccoli dovevano esistere già nell’universo primordiale, ma solo con l’inizio delle osservazioni del Jwst sono stati in grado di effettuare rilevamenti definitivi.
Il team non solo ha potuto distinguere quali emissioni nello spettro provengono dal buco nero e quali dalla galassia che lo ospita, ma ha anche potuto misurare la quantità di gas che il buco nero sta ingerendo e determinare il tasso di formazione stellare della galassia. I ricercatori hanno scoperto che questa galassia sta ingerendo quanto più gas possibile, sfornando al contempo nuove stelle. Per capire come mai, si sono rivolti alle immagini. Visivamente, Ceers 1019 appare come tre ammassi luminosi, non come un singolo disco circolare. «Non siamo abituati a vedere così tanta struttura nelle immagini a queste distanze», ha detto l’astronoma Jeyhan Kartaltepe del Rochester Institute of Technology di New York, membro del team Ceers. «La fusione con un’altra galassia potrebbe essere in parte responsabile dell’attività del buco nero di questa galassia, e questo potrebbe anche portare a un aumento della formazione stellare».
Oltre al buco nero in Ceers 1019, i ricercatori hanno identificato altri due buchi neri più piccoli, esistiti 1 miliardo e 1,1 miliardi di anni dopo il big bang. Jwst ha inoltre individuato undici galassie che esistevano quando l’universo aveva un’età compresa tra 470 e 675 milioni di anni.
«Finora la ricerca sugli oggetti dell’universo primordiale era in gran parte teorica», spiega l’astronomo Steven Finkelstein dell’Università del Texas a Austin, a capo del programma Ceers. «Con Webb, non solo possiamo vedere buchi neri e galassie a distanze estreme, ma possiamo anche iniziare a misurarli con precisione. È questa è l’enorme potenza di questo telescopio».
L’Extremely Large Telescope è a metà dell’opera
Questa immagine, scattata alla fine di giugno 2023, mostra una ripresa effettuata da un drone del cantiere dell’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso a Cerro Armazones, nel deserto cileno di Atacama, ove ingegneri e operai edili stanno attualmente assemblando la struttura della cupola del telescopio a un ritmo vertiginoso. Crediti: Eso
L’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso (l’Osservatorio europeo australe) è un telescopio terrestre rivoluzionario che avrà uno specchio principale di 39 metri e sarà il più grande telescopio al mondo per osservare la luce visibile e infrarossa. La costruzione di questo progetto tecnicamente complesso sta avanzando a un buon ritmo, e ora l’Elt supera il traguardo del 50 per cento di completamento.
Il telescopio si trova in cima al Cerro Armazones, nel deserto cileno di Atacama, dove in questo momento ingegneri e operai edili stanno assemblando la struttura della cupola del telescopio a un ritmo vertiginoso. Cambiando ogni giorno in modo evidente, la struttura in acciaio acquisterà presto la familiare forma arrotondata tipica delle cupole.
Gli specchi del telescopio e altri componenti sono in costruzione presso varie aziende in Europa, e anche questi lavori procedono molto bene. L’Elt dell’Eso avrà un pionieristico design ottico a cinque specchi, che include un gigantesco specchio principale (M1) composto da 798 segmenti esagonali. È stato già prodotto più del 70 per cento delle forme grezze degli specchi e dei supporti per questi segmenti, mentre M2 e M3 sono stati fusi e ora sono in fase di lucidatura. I progressi su M4, uno specchio adattivo e flessibile che regolerà la propria forma mille volte al secondo per correggere le distorsioni causate dalla turbolenza dell’aria, sono particolarmente impressionanti: tutti e sei i sottili petali sono completati e vengono ora integrati nell’unità strutturale. Inoltre, tutte e sei le sorgenti laser, altro componente chiave del sistema di ottica adattiva dell’Elt, sono state prodotte e consegnate all’Eso per le verifiche.
Anche tutti gli altri sistemi necessari per completare l’Elt, tra cui il sistema di controllo e le attrezzature necessarie per assemblare e mettere in servizio il telescopio, stanno procedendo bene nello sviluppo o nella produzione. Inoltre, tutti e quattro i primi strumenti scientifici di cui sarà dotato l’Elt sono nella fase finale di progettazione e per alcuni sta per iniziare la fase di produzione. Infine, la maggior parte dell’infrastruttura di supporto per l’Elt si trova ora presso o vicino al Cerro Armazones. Per esempio, l’edificio tecnico che, tra l’altro, sarà utilizzato per lo stoccaggio e il rivestimento di diversi specchi di Elt è completamente costruito e attrezzato, mentre lo scorso anno è entrato in funzione un impianto fotovoltaico che fornisce energia rinnovabile al sito.
Questa immagine, scattata alla fine di giugno 2023, mostra l’immagine presa da una webcam del cantiere dell’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso a Cerro Armazones, nel deserto cileno di Atacama, ove ingegneri e operai edili stanno attualmente assemblando la struttura della cupola del telescopioa un ritmo vertiginoso. Lo sfondo stellato è dominato dal nucleo della Via Lattea, la nostra galassia, e dalla Grande e Piccola Nube di Magellano, due galassie nane che orbitano intorno alla nostra. Crediti: Eso
La costruzione dell’Elt dell’Eso è iniziata nove anni fa con una cerimonia “esplosiva”: la cima del Cerro Armazones è stata appiattita nel 2014 per fare spazio al gigantesco telescopio.
Si prevede però che il completamento del restante 50 per cento del progetto sarà notevolmente più rapido rispetto alla costruzione della prima metà dell’Elt, che comprendeva il lungo e meticoloso processo di finalizzazione del progetto della stragrande maggioranza dei componenti da produrre. Inoltre, alcuni degli elementi, come i segmenti dello specchio e i relativi componenti di supporto e sensori, hanno richiesto una prototipazione dettagliata e verifiche significative prima di essere prodotti in serie. Per di più, la costruzione è stata influenzata dalla pandemia di Covid-19, con la chiusura del sito per diversi mesi e ritardi nella produzione di molti dei componenti del telescopio. I processi di produzione sono ora completamente ripresi e resi più efficienti, perciò si prevede che la restante metà dell’Elt richiederà solo cinque anni. Tuttavia, costruire un telescopio così grande e complesso come l’Elt non è esente da rischi finché non è completo e funzionante.
«L’Elt è il più grande della prossima generazione di telescopi terrestri ottici e nel vicino infrarosso e il più avanzato nella costruzione», dice il direttore generale dell’Eso, Xavier Barcons. «Raggiungere il 50 per cento di completamento non è un’impresa da poco, date le sfide inerenti a progetti grandi e complessi, ed è stato possibile solo grazie all’impegno di tutti quanti all’Eso, al supporto continuo degli stati membri dell’Eso e all’impegno dei nostri partner industriali e dei consorzi dedicati agli strumenti. Sono veramente orgoglioso che l’Elt abbia raggiunto questo traguardo».
Il piano è di iniziare le osservazioni scientifiche nel 2028. l’Elt dell’ESso affronterà questioni astronomiche del calibro di: siamo soli nell’universo? Le leggi della fisica sono universali? Come si sono formate le prime stelle e galassie? Cambierà radicalmente ciò che sappiamo del nostro universo e ci farà riflettere anche sul posto che occupiamo nel cosmo.
Fonte: comunicato stampa Eso
Guarda su MediaInaf Tv il servizio video del 2022 su Elt:
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Touch Sky: viaggio fra gli atlanti celesti
Un dettaglio del “Liber de aggregationibus scientiae stellarum” di Al-Farghani, XIV secolo
L’Istituto nazionale di astrofisica accende la prima serata di Rai Cultura con un documentario interamente autoprodotto, dedicato ad alcune delle più belle e rare opere d’arte custodite dalle biblioteche degli osservatori d’Italia: atlanti celesti, selenografie, cometografie che, a partire dal Cinquecento con l’introduzione della stampa sono diventati per gli astronomi uno strumento fondamentale per l’indagine scientifica.
La prima visione di Touch Sky | carte, mappe, atlanti stellari è in programma martedì 11 luglio su Rai Scuola (canale 57), alle ore 22. Ma il documentario Inaf sarà parte della programmazione di Rai Cultura anche dopo l’estate con il palinsesto autunnale della terza serata di Rai3, dedicata ai Doc, e disponibile sulla piattaforma di RaiPlay.
Dal museo copernicano di Villa Mellini a Monte Mario, Roma, alla Milano di Palazzo Brera, la specola di Padova, l’osservatorio di Napoli a Capodimonte, quello di Arcetri di fronte alla casa di Galileo, a Firenze, ma anche Catania e Palermo con Palazzo dei Normanni. A condurre lo spettatore nel viaggio fra carte e volumi in cui si fondono scienza, arte e mito, illustrati con precisione e dovizia di particolari, è Davide Coero Borga: volto familiare della divulgazione scientifica Rai e Inaf.
«È motivo di orgoglio che il primo nostro documentario sia dedicato al patrimonio storico di un ente scientifico che fa ricerca e tecnologia di avanguardia, e di per sé proiettato nel futuro», commenta Marco Tavani, presidente Inaf. «Inaf affonda consapevolmente le proprie radici nel passato. Avere una storia come la nostra, fa la differenza. E anche oggi, nell’era dell’astrofisica multimessaggio, c’è bisogno di fare astronomia di posizione, disegnare nuovi atlanti, compilare nuovi cataloghi stellari. Il satellite europeo Gaia ha già rilevato la posizione, la distanza, il colore, il movimento di quasi due miliardi di stelle nella nostra galassia. Disegnando una mappa tridimensionale di quella regione di universo che ci piace chiamare casa: la Via Lattea».
«Questa è una storia che passa anzitutto dai libri custoditi nelle biblioteche Inaf: parliamo di oltre 7mila volumi antichi», spiega Antonella Gasperini, responsabile del servizio biblioteche, musei e terza missione Inaf. «Gli atlanti celesti e i cataloghi stellari protagonisti del documentario sono stati uno strumento di lavoro fondamentale per gli astronomi. Sfogliarli oggi, come fa Touch Sky, ci permette di ricostruire le tappe di un percorso tutt’altro che lineare e che ci ha portati all’attuale rappresentazione e concezione dell’universo».
«Abbiamo cercato di ripercorrere con un linguaggio contemporaneo e fresco un’avventura lunga quasi duemila anni e che parla del nostro rapporto con il cielo notturno», spiega Davide Coero Borga. «L’occhio della telecamera da un lato catapulta lo spettatore direttamente sulla pagina, accompagnandolo fra gli straordinari particolari di atlanti e cartografie di altri mondi. Dall’altra, grazie al drone, si solleva per scoprire gli edifici storici che custodiscono biblioteche archivi: ville e palazzi storici nel cuore della città».
Touch Sky | carte, mappe, atlanti stellari è un documentario prodotto dall’Istituto nazionale di astrofisica nell’ambito dei progetti Mur Touch Sky e Inaf Cosmic Pages. La regia è di Marco Cantini e Davide Coero Borga. Con la consulenza e la partecipazione di Mauro Gargano, Antonella Gasperini, Giovanna Caprio, Ileana Chinnici, Manuela Coniglio, Daniela Domina, Federico di Giacomo, Marco Faccini, Mariachiara Falco, Daniele Gardiol, Mimma Lauria, Agnese Mandrino, Emilia Olostro Cirella, Francesco Poppi, Gina Santagati e Valeria Zanini.
Per saperne di più:
- Scopri e sfoglia gli atlanti celesti su beniculturali.inaf.it e lookup.inaf.it
Guarda un’anteprima del documentario su YouTube:
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Cheops osserva il pianeta più brillante di sempre
Impressione artistica dell’esopianeta Ltt9779b, in orbita attorno alla sua stella. Il pianeta ha le dimensioni di Nettuno e riflette l’80 per cento della luce della sua stella. Questa brillantezza è stata scoperta da misurazioni dettagliate effettuate da Cheops dell’Esa sulla quantità di luce proveniente dal sistema pianeta-stella. Crediti: Ricardo Ramírez Reyes (Universidad de Chile)
A parte la Luna, l’oggetto più luminoso nel nostro cielo notturno è il pianeta Venere, il cui spesso strato di nubi riflette circa il 75 per cento della luce solare. In confronto, la Terra ne riflette solo circa il 30 per cento. Ora, per la prima volta, gli astronomi hanno trovato un esopianeta che sembra superare la brillantezza di Venere: Ltt9779 b. Nuove misurazioni molto precise della missione Cheops dell’Esa (con forte partecipazione italiana) rivelano infatti che questo pianeta – scoperto e caratterizzato nel 2020 dal satellite Tess della Nasa e da strumenti terrestri come Harps dell’Eso, in Cile – riflette l’80 per cento della luce proveniente dalla sua stella.
La frazione di luce che un oggetto riflette è chiamata albedo. La maggior parte dei pianeti ha un albedo basso, sia perché hanno un’atmosfera che assorbe molta luce, sia perché la loro superficie è scura o ruvida. Ci sono delle eccezioni, come i mondi ricoperti di ghiaccio o pianeti come Venere, che hanno uno strato di nubi riflettenti.
L’elevata albedo di Ltt9779 b è stata una sorpresa perché si stima che il lato del pianeta rivolto verso la sua stella si trovi a circa 2000 °C. Qualsiasi temperatura superiore ai 100 °C è troppo alta perché si formino nubi di vapore acqueo, ma la temperatura dell’atmosfera di questo pianeta dovrebbe essere troppo alta anche per nubi di metalli.
«Ltt9779 b è un pianeta di dimensioni simili a quelle di Nettuno e orbita molto vicino alla propria stella. Pianeti di questo tipo sono molto rari: in genere l’intensa radiazione proveniente dalla stella dissolve rapidamente l’atmosfera del pianeta, lasciando completamente scoperto un piccolo nucleo roccioso», spiega a Media Inaf Gaetano Scandariato dell’Inaf Osservatorio Astrofisico di Catania, co-autore dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics che descrive la scoperta. «In particolare, gli elementi che risentono maggiormente di questo effetto sono quelli più leggeri, tipicamente idrogeno ed elio. Per Ltt9779 b sembra invece che il processo di dissolvimento dell’atmosfera si sia arrestato anticipatamente. Il motivo risiederebbe nel fatto che a un certo punto la concentrazione degli elementi più pesanti, già abbastanza alta in partenza, sia diventata tale da portare a fenomeni di condensazione. Un po’ come quando, in una sauna, viene immesso tanto vapore acqueo da saturare l’aria e portare alla formazione della condensa. La formazione delle nubi nell’atmosfera di Ltt9779 b porta a due conseguenze molto importanti. Da un lato la presenza delle nubi ha bloccato il dissolvimento dell’atmosfera, e spiega quindi la peculiarità di questo pianeta esposta in partenza. Inoltre, le nubi portano il pianeta a riflettere circa l’80 per cento della radiazione stellare, il valore più alto finora riscontrato fra i pianeti extrasolari».
E non è tutto, perché essere brillante è solo una delle sorprese di Ltt9779 b. Le sue dimensioni e la sua temperatura lo rendono infatti uno dei cosiddetti nettuniani ultracaldi, ma nessun altro pianeta di queste dimensioni e massa è mai stato trovato orbitare così vicino alla sua stella. Questo significa che vive in quello che è noto come il deserto dei nettuniani caldi.
I dati della missione Cheops dell’Esa hanno portato alla sorprendente rivelazione che un esopianeta ultra-caldo che orbita attorno alla sua stella ospite in meno di un giorno, è coperto da nubi riflettenti composte da metalli, rendendolo l’esopianeta più brillante mai trovato. Crediti: Esa (Acknowledgement: work performed by Atg under contract for Esa)
Il pianeta ha un raggio 4,7 volte più grande di quello terrestre e un anno su Ltt9779 b dura solo 19 ore. Tutti i pianeti scoperti in precedenza che orbitano attorno alla loro stella in meno di un giorno o sono gioviani caldi – giganti gassosi con un raggio almeno dieci volte più grande di quello terrestre – oppure pianeti rocciosi più piccoli di due raggi terrestri. Insomma, gli scienziati si sono trovati di fronte un pianeta che non dovrebbe esistere.
Per determinare le proprietà di Ltt9779 b, Cheops ha osservato il momento in cui il pianeta si spostava dietro la sua stella, e riappariva dalla parte opposta. In questi due particolari momenti, quando si trovano entrambi lungo la linea di vista del telescopio spaziale, la luminosità rilevata è maggiore, perché è una combinazione di quella della stella e quella riflessa sul pianeta. La differenza nella luce ricevuta subito prima e subito dopo che il pianeta si è eclissato, ci dice quanta luce riflette il pianeta.
Questa misurazione così precisa del piccolo cambiamento nel segnale dalla stella che eclissa il pianeta è possibile solo con Cheops, che oltre a essere preciso ha garantito una copertura del sistema 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
«Cheops è la prima missione spaziale in assoluto dedicata al follow-up e alla caratterizzazione di esopianeti già noti. A differenza delle grandi missioni di rilevamento incentrate sulla scoperta di nuovi sistemi di esopianeti, Cheops ha abbastanza flessibilità per concentrarsi rapidamente su obiettivi interessanti e può raggiungere una copertura e una precisione che spesso semplicemente non possiamo ottenere in nessun altro modo», aggiunge Maximilian Günther, scienziato della missione.
Osservando lo stesso pianeta extrasolare con strumenti diversi, si avrà il quadro completo. «Ltt9779 b è un obiettivo ideale per il follow-up con le eccezionali capacità dei telescopi spaziali Hubble e James Webb», osserva Emily Rickman, scienziata dell’Esa. «Ci permetteranno di esplorare questo esopianeta con una gamma di lunghezze d’onda più ampia, compresa la luce infrarossa e Uv, per comprendere meglio la composizione della sua atmosfera».
Il futuro della ricerca sugli esopianeti è brillante, poiché Cheops è solo la prima di un trio di missioni dedicate agli esopianeti. Sarà affiancato da Plato nel 2026, che si concentrerà su pianeti simili alla Terra in orbita a una distanza tale dalla loro stella da poter supportare la vita, e da Ariel, che entrerà a far parte della flotta nel 2029 e si specializzerà nello studio delle atmosfere degli esopianeti.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The extremely high albedo of LTT 9779 b revealed by CHEOPS“, di Hoyer, J. S. Jenkins, V. Parmentier, M. Deleuil, G. Scandariato, T. G. Wilson, M. R. Díaz, I. J. M. Crossfield, D. Dragomir, T. Kataria, M. Lendl, R. Ramirez, P. A. Peña Rojas and J. I. Vinés
Lontano nel passato
Se prendessimo un granello di sabbia, lo posizionassimo tra l’indice e il pollice e poi stendessimo il braccio di fronte a noi, la piccola zona del nostro campo di vista coperta dal granellino sarebbe simile alla porzione di universo catturata dal telescopio spaziale James Webb nel Primo campo profondo, una fotografia che racchiude la storia dell’universo.
Immagine del “First Deep Field” del James Webb Telescope che ha permesso di studiare la luce intracluster dell’ammasso Smacs-J0723.3-7327. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI
Lo studio del cosmo, si sa, non avviene perlustrandolo fisicamente. Quello che possiamo limitarci a fare, tenendo i piedi a Terra o grazie ai veicoli spaziali in volo nei pressi del Sistema solare, è raccogliere la luce emessa dalle diverse sorgenti, che porta con sé importanti informazioni sulla sorgente stessa che l’ha prodotta. Per raggiungerci, però, la luce ha bisogno di tempo.
Partiamo dal Sole, che dista da noi 150 milioni di chilometri – una quantità inafferrabile per le nostre menti ma insignificante per le scale dell’universo. Questa lunghezza viene attraversata dalla luce in otto minuti. Ciò vuol dire che i raggi che partono dalla nostra stella in questo momento ci arriveranno solo tra otto minuti e quindi l’immagine che vediamo in cielo è (e sempre sarà) quella di un Sole vecchio, seppure solo di otto minuti.
Allontanando di poco lo sguardo sulla stella più vicina al Sole, osserveremo Proxima Centauri come era circa quattro anni fa mentre di Andromeda, la nostra galassia gemella, cattureremo una luce che ha impiegato due milioni e mezzo di anni per arrivare fino alla Terra, partita in un’epoca nella quale sul nostro pianeta non era ancora comparso il genere Homo.
Spingendo gli occhi ancora oltre, vedremo galassie sempre più lontane, così distanti da noi da riceverne un’immagine che ha viaggiato anche per miliardi di anni prima di raggiungerci. Con i potenti occhi del James Webb potremo allora scovare le prime galassie dell’universo, quelle che si sono accese durante la cosiddetta “alba cosmica”, appena qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang. Alcune di loro sono nascoste proprio lì, tra i puntini del Primo campo profondo.
Quella che riceviamo dal cielo, in fin dei conti, è sempre luce del passato, e guardare più lontano nell’universo significa anche vedere più indietro nel tempo. Il James Webb non è allora un semplice telescopio, ma rappresenta a tutti gli effetti una potente e sofisticatissima macchina del tempo.
Testo preparato da Edwige Pezzulli per la puntata di “Noos – L’avventura della conoscenza” andata in onda su Rai 1 giovedì 6 luglio 2023, disponibile su RaiPlay, e riproposto su Media Inaf per gentile concessione dell’autrice.
Guarda il video sul canale YouTube della Rai:
Lofar conferma emissioni involontarie da satelliti
Impressione artistica di una grande costellazione di satelliti in orbita terrestre bassa che transita sopra il radiotelescopio Lofar. Crediti: Danielle Futselaar
In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, vengono presentati i risultati dell’analisi dei dati acquisiti dal radiotelescopio Lofar– il più grande radiotelescopio a bassa frequenza sulla Terra, sviluppato da Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy) e operato in collaborazione con altri nove paesi europei nell’International Lofar Telescope (Ilt) – il quale ha dimostrato che i satelliti possono emettere non intenzionalmente onde radio che interferiscono con le osservazioni dei radiotelescopi.
In particolare, nell’aprile del 2022 Lofar ha osservato i satelliti della costellazione Starlink di SpaceX. Pur essendo autorizzati a operare all’interno della banda di frequenza radio da 10,7 a 12,7 GHz, destinata principalmente alla connettività Internet, il radiotelescopio ha appurato che questi satelliti emettono segnali elettromagnetici a frequenze significativamente inferiori.
In un comunicato stampa emesso dal Center for the Protection of the Dark and Quiet Sky from Satellite Constellation Interference dell’Unione astronomica internazionale (Iau Cps), gli autori dello studio riferiscono che per 47 dei 68 satelliti osservati, Lofar ha rilevato segnali radio tra 110 e 188 MHz. Questa banda di frequenze comprende un intervallo protetto compreso tra 150,05 e 153 MHz, specificatamente destinato alla radioastronomia dall’International Telecommunications Union (Itu). Gli autori concludono che l’emissione rilevata proviene dall’elettronica di bordo, ed è quindi distinta da quella prevista per le telecomunicazioni.
Rilevazione di radiazioni indesiderate provenienti da un satellite Starlink, realizzata con Lofar. I cerchi giallo-verdi mostrano i pixel della radiocamera sintetica, che formano in cielo una griglia esagonale. La freccia rossa indica il movimento previsto del satellite Starlink attraverso il campo visivo del radiotelescopio. Il satellite ha causato un segnale nei pixel lungo la traccia. Lo sfondo mostra un’anteprima di un rilevamento effettuato con Lofar (“The LOFAR Two-meter Sky Survey”, Shimwell et al., in prep.). Crediti: Iau/Cps
SpaceX attualmente non sta violando le regole poiché, per i satelliti, questo tipo di segnali non è coperto da un regolamento internazionale. Visto l’aumento previsto di costellazioni satellitari, l’assenza di regolamentazione può mettere a rischio la radioastronomia. Nel comunicato stampa gli autori incoraggiano gli operatori di satelliti e coloro che si occupano di regolamentare l’attività a considerare anche l’impatto sulla scienza.
L’interferenza in radiofrequenza è sempre stata una sfida per gli astronomi, che si sforzano continuamente di perfezionare le strategie per tenere conto dei segnali radio prodotti dall’uomo. «I radioastronomi effettuano le loro osservazioni scientifiche in bande di frequenza prossime, se non condivise, con quelle dei servizi di telecomunicazione (fissi, mobili, satellitari, terrestri, punto-punto, broadcast, etc). L’estrema sensibilità dei radiotelescopi, necessaria per rilevare i deboli segnali provenienti dall’universo più remoto, rende questi strumenti estremamente vulnerabili alla presenza di segnali a radio frequenza prodotti da attività antropica», commenta a Media Inaf Pietro Bolli, radioastronomo all’Inaf di Firenze e rappresentante dell’Ente all’interno del Committee on Radio Astronomy Frequencies (Craf).
Rilevazione di radiazioni elettromagnetiche indesiderate provenienti dai satelliti Starlink, realizzata con il radiotelescopio Lofar. I cerchi dal blu al giallo mostrano i pixel della radiocamera sintetica, che formano una griglia esagonale nel cielo. I cerchi blu rappresentano un segnale debole, quelli gialli uno forte. Il satellite ha generato un segnale nei pixel lungo la traccia. Le posizioni del satellite nel cielo coincidevano perfettamente con i pixel. Crediti: Iau/Cps
«Per questo motivo, la comunità radioastronomica è da sempre fortemente coinvolta nello sviluppo di strategie tecniche e regolatorie per armonizzare la co-esistenza delle osservazioni scientifiche con le attività di telecomunicazioni», continua Bolli. «Negli ultimi anni, con l’espansione delle tecnologie wifi radio per le più svariate applicazioni (Internet of Things, automotive radars, 5G, ecc.), questa sfida di condividere una risorsa finita quale è lo spettro radio è diventata significativamente più complessa. In questo ambito, la presenza di costellazioni di satelliti in orbita bassa, attualmente sull’ordine delle migliaia, ma previste raggiungere numeri delle decine di migliaia, complica ulteriormente la sopravvivenza della radioastronomia se misure di coordinamento non vengono stabilite. Questo studio mostra, per la prima volta, utilizzando lo strumento Lofar, come tali satelliti emettano non intenzionalmente radiazioni elettromagnetiche nella banda tra 150,05 e 153 MHz assegnata alla radioastronomia dall’International Telecommunications Union».
«Partendo dalle misure effettuate, simulazioni presentate nello stesso articolo mostrano inoltre come costellazioni più numerose aumenteranno l’entità del disturbo, soprattutto in assenza di chiari regolamenti che proteggano le bande radioastronomiche da radiazioni non intenzionali. Il problema è sicuramente complesso, e solo un’intensa collaborazione tra la comunità radioastronomica e gli operatori satellitari potrà prevenire conseguenze assolutamente negative sul futuro delle osservazioni scientifiche», conclude Bolli.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Unintended electromagnetic radiation from Starlink satellites detected with LOFAR between 110 and 188 MHz” di F. Di Vruno, B. Winkel, C. G. Bassa, G. I. G. Jozsa, M. A. Brentjens, A. Jessner, S. Garrington
Due podcast astronomici sotto il sole di luglio
Sandro Bardelli, astronomo all’Inaf Oas Bologna, ospite del podcast “Lo stato del futuro”. Crediti: LampoTv
Se vi piace l’astronomia, e se vi piace sentirne parlare in spiaggia sotto al sole, o correndo al tramonto, o meglio ancora di notte stesi su un prato sotto le stelle, questa prima settimana di luglio ha per voi due ghiotte opportunità: due nuovi podcast che parlano della scienza dell’universo e delle tecnologie per studiarlo, entrambi in collaborazione con i ricercatori dell’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica.
A partire da oggi, venerdì 7 luglio, verranno pubblicati su Spotify i nove episodi della seconda stagione di Lo stato del futuro, una serie che promette agli ascoltatori “Un’indagine approfondita sul futuro dell’universo e della nostra civiltà”. Realizzata nell’ambito del progetto 3Orizzonti con il patrocinio dell’Inaf e la collaborazione di Sandro Bardelli, astronomo all’Inaf di Bologna nonché divulgatore scientifico esperto di cosmologia osservativa ed evoluzione delle galassie, questa seconda stagione racconta quali scoperte e avvenimenti futuri possiamo aspettarci nel campo della ricerca astronomica e spaziale.
«Il progetto generale si chiama Lo stato del futuro, per cui racconteremo – insieme a Stefano De Felici e Federico Mazza – i misteri del cosmo che sono attualmente irrisolti», dice Bardelli a Media Inaf. «Mi sto riferendo alla materia oscura e all’energia oscura, che potrebbero essere spiragli aperti verso una nuova comprensione del nostro universo. Parleremo della possibile esistenza di vita su altri pianeti e alle problematiche legate alla comunicazione con civiltà aliene. Inoltre fotograferemo il futuro prossimo, segnato dall’ingresso dei privati nella corsa allo spazio e ai corpi celesti, visti come risorse da sfruttare».
«Fare scienza e fare arte», continua Bardelli a proposito delle due anime del progetto, «sono ambedue dei processi creativi, che seguono naturalmente regole diverse, ma accomunati dalla voglia di esplorare la nostra esistenza, anche forse per trovarne un senso. La cosa che trovo esaltante nelle due discipline è l’uso dell’immaginazione che porta ad astrarsi dallo spazio e dal tempo, immaginando luoghi remoti e tempi passati o futuri, affrancandosi dal guscio del nostro corpo».
Le antenne della Croce del Nord e la parabola da 32 metri della Stazione radioastronomica di Medicina. Crediti: R. Cerisola/Inaf
Tornando con i piedi per terra – e in particolare in terra di pianura, quella “bassa” di confine che ancora è Emilia ma già è Romagna –, per gli appassionati di tecnologia, e per chiunque sia curioso di sapere come funzionano quegli straordinari ricevitori per l’ascolto dell’universo che sono le antenne per la radioastronomia, è in rete da lunedì scorso su Spreaker il primo episodio di I radiotelescopi di Medicina. Nato dalla collaborazione dell’Istituto di radioastronomia dell’Inaf con Handmedia e il comune di Medicina, in provincia di Bologna, è un podcast di cinque episodi dedicati alla Stazione radioastronomica di Medicina.
«L’idea è di far conoscere la Stazione radioastronomica mostrandone aspetti poco noti al pubblico», dice Simona Righini, tecnologa all’Inaf di Bologna e ospite, insieme a Jader Monari, del primo episodio, «sottolineando in particolare il rapporto che questa struttura ha con il territorio».
Tra le finalità esplicite del podcast c’è anche il job advertisement: farsi conoscere sul territorio e pubblicizzare l’offerta di posti di lavoro per profili tecnici e tecnologici, soprattutto – ma non solo – relativamente ai nuovi bandi Pnrr. Dall’informatica all’impiantistica, dall’elettronica alle fibre ottiche, nel corso dei cinque episodi verrà dunque raccontata dai protagonisti la vita quotidiana di chi lavora alla Stazione radioastronomica, verrà illustrato in dettaglio come funzionano le antenne e verranno presentati i progetti presenti e futuri nei quali il personale è coinvolto.
Per ascoltare i due podcast:
- Lo stato del futuro, dal 7 luglio su Spotify
- I radiotelescopi di Medicina, dal 3 luglio su Spreaker
Jwst e le super fabbriche di polveri stellari
Immagine della galassia a spirale Ngc 6946 con in evidenza le due supernove, Sn 2004et e Sn 2017eaw, realizzata dalla fotocamera Miri (Mid-Infrared Camera) di Jwst. Sono visibili le frecce della bussola, la barra di grandezza in scala e la chiave cromatica di riferimento. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Ori Fox (Stsci), Melissa Shahbandeh (Stsci), Alyssa Pagan (Stsci)
Grazie alle recenti osservazioni del telescopio spaziale James Webb di Nasa, Esa e Csa, sono stati fatti passi da gigante nel confermare l’origine della polvere nelle galassie primordiali.
L’analisi di due supernove di tipo II, la supernova 2004et (Sn 2004et) e la supernova 2017eaw (Sn 2017eaw), ha rivelato che durante il collasso vengono rilasciate grandi quantità di polvere all’interno dei getti di materiale stellare. Questa scoperta aiuterebbe gli scienziati che da decenni si interrogano sull’origine della polvere nell’Universo primordiale e confermerebbe il ruolo chiave delle supernove in tale processo.
La polvere è uno dei principali elementi costitutivi di molti corpi celesti nell’Universo, in particolare dei pianeti. Quando una stella muore diffonde polvere nello spazio, rendendola disponibile durante la nascita delle successive generazioni di stelle e dei loro pianeti intorno. Da dove arrivi questa polvere è però una domanda ancora aperta e senza risposte definitive. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’esplosione di supernove potrebbe essere una fonte significativa di polvere cosmica: il gas residuo infatti, espandendosi e raffreddandosi, formerebbe la polvere.
«Finora le prove dirette di questo fenomeno erano scarse. Con le nostre precedenti capacità, è stato possibile studiare le polveri in una sola supernova relativamente vicina, la Supernova 1987A, a 170 mila anni luce dalla Terra, osservata dal radio telescopio Alma», spiega l’autrice principale del recente studio, Melissa Shahbandeh della Johns Hopkins University e dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, nel Maryland. «Quando il gas si raffredda a sufficienza per formare la polvere, questa è rilevabile solo a lunghezze d’onda del medio infrarosso, a patto di avere una sensibilità sufficiente».
Per questo era necessario attendere Webb. Le osservazioni fatte dal telescopio spaziale infrarosso sono state quindi il primo importante passo avanti nello studio della produzione di polvere dalle supernove: per studiare stelle più distanti di Sn1987A, come la Sn 92004et e la Sn 2017eaw – che si trovano a circa 22 milioni di anni luce di distanza nella galassia NGC 6946 – lo strumento Mid-Infrared Instrument di Webb è essenziale. Offre infatti una combinazione perfetta fra ampiezza di copertura in termini di lunghezza d’onda ed elevata sensibilità.
Un altro risultato particolarmente intrigante della ricerca è la misura della quantità di polvere rilevata nella fase iniziale della vita della supernova, in una piccola frazione della sua età totale: in Sn 2004et, i ricercatori hanno infatti trovato più di 5 mila masse terrestri di polvere, il quantitativo più elevato mai misurato in una supernova dopo lo studio di Sn 1987A.
Immagine della galassia a spirale NGC 6496 che mostra la posizione delle supernove SN2004et e SN2017eaw a 22milioni di anni luce dalla Terra. Crediti: KPNO, NSF’s NOIRLab, AURA, Alyssa Pagan (STScI)
Ma quanta di questa polvere riesce a sopravvivere agli shock interni che si riverberano in seguito all’esplosione della stella? Questo è il nuovo quesito che si sono posti gli scienziati. La presenza di una tale quantità di polvere in una determinata fase della vita di Sn 2004et e Sn 2017eaw suggerirebbe che essa possa effettivamente sopravvivere all’onda d’urto, rendendo le supernove importanti “fucine” di polvere cosmica. Inoltre, secondo il team di ricerca, le stime attuali della massa misurata potrebbero essere solo la punta dell’iceberg. Se da un lato l’occhio infrarosso di Webb ha permesso ai ricercatori di misurare polveri più fredde di sempre, dall’altro potrebbero essercene altre ancora più fredde, non rilevate poiché irradiano a lunghezze d’onda ancora più rosse o perché rimangono oscurate dagli strati di polvere più esterni. Infine, le osservazioni finora fatte hanno dimostrato agli astronomi che galassie giovani e lontane sono piene di polvere. Tuttavia, queste non sono abbastanza vecchie da aver consentito alle stelle di massa intermedia come ad esempio il Sole, che hanno un tempo di vita più lungo, di fornire polvere durante il processo di “invecchiamento”. In quelle galassie, infatti, solamente le stelle più massicce e meno longeve – e presenti in maggiore quantità – avrebbero avuto il tempo di collassare per creare tanta polvere.
Questi interrogativi sottolineano come le nuove scoperte siano solo un accenno alle nuove possibilità di ricerca sulle supernove e sulla polvere stellare aperte dal James Webb Space Telescope. Le supernove Sn 2004et e Sn 2017eaw sono solo i primi due dei cinque target inclusi nell’ambito del programma di osservazione Webb General Observer 2666.
«C’è un crescente entusiasmo nel capire come e se la polvere potrà fornire anche informazioni sul nucleo della stella che l’ha prodotta esplodendo», conclude Ori Fox, ricercatore allo Space Telescope Science Institute e a capo del programma di osservazione con Webb. «Sicuramente in futuro, dopo aver esaminato tutti i risultati, i colleghi del team troveranno ulteriori strade per studiare queste supernove polverose».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “JWST observations of dust reservoirs in type IIP supernovae 2004et and 2017eaw “ di Melissa Shahbandeh, Arkaprabha Sarangi, Tea Temim, Tamás Szalai, Ori D Fox, Samaporn Tinyanont, Eli Dwek, Luc Dessart, Alexei V Filippenko, Thomas G Brink, Ryan J Foley, Jacob Jencson, Justin Pierel, Szanna Zsíros, Armin Rest, WeiKang Zheng, Jennifer Andrews, Geoffrey C Clayton, Kishalay De, Michael Engesser, Suvi Gezari, Sebastian Gomez, Shireen Gonzaga, Joel Johansson, Mansi Kasliwal, Ryan Lau, Ilse De Looze, Anthony Marston, Dan Milisavljevic, Richard O’Steen, Matthew Siebert, Michael Skrutskie, Nathan Smith, Lou Strolger, Schuyler D Van Dyk, Qinan Wang, Brian Williams, Robert Williams, Lin Xiao e Yi Yang
Jwst e le super fabbriche di polveri stellari
Immagine della galassia a spirale NGC 6946 con in evidenza le due supernove, SN 2004et e SN 2017eaw, realizzata dalla fotocamera MIRI (Mid-Infrared Camera) di JWST. Sono visibili le frecce della bussola, la barra di grandezza in scala e la chiave cromatica di riferimento. Crediti: NASA, ESA, CSA, Ori Fox (STScI), Melissa Shahbandeh (STScI), Alyssa Pagan (STScI)
Grazie alle recenti osservazioni del telescopio spaziale James Webb di Nasa ed Esa, sono stati fatti passi da gigante nel confermare l’origine della polvere nelle galassie primordiali.
L’analisi di due supernove di tipo II, la supernova 2004et (SN 2004et) e la supernova 2017eaw (SN 2017eaw), ha rivelato che durante il collasso vengono rilasciate grandi quantità di polvere all’interno dei getti di materiale stellare. Questa scoperta aiuterebbe gli scienziati che da decenni si interrogano sull’origine della polvere nell’Universo primordiale e confermerebbe il ruolo chiave delle supernove in tale processo.
La polvere è uno dei principali elementi costitutivi di molti corpi celesti nell’Universo, in particolare dei pianeti. Quando una stella muore diffonde polvere nello spazio, rendendola disponibile durante la nascita delle successive generazioni di stelle e dei loro pianeti intorno. Da dove arrivi questa polvere è però una domanda ancora aperta e senza risposte definitive. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’esplosione di supernove potrebbe essere una fonte significativa di polvere cosmica: il gas residuo infatti, espandendosi e raffreddandosi, formerebbe la polvere.
«Finora le prove dirette di questo fenomeno erano scarse. Con le nostre precedenti capacità, è stato possibile studiare le polveri in una sola supernova relativamente vicina, la Supernova 1987A, a 170 mila anni luce dalla Terra, osservata dal radio telescopio Alma», spiega l’autrice principale del recente studio, Melissa Shahbandeh della Johns Hopkins University e dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, nel Maryland. «Quando il gas si raffredda a sufficienza per formare la polvere, questa è rilevabile solo a lunghezze d’onda del medio infrarosso, a patto di avere una sensibilità sufficiente».
Per questo era necessario attendere Webb. Le osservazioni fatte dal telescopio spaziale infrarosso sono state quindi il primo importante passo avanti nello studio della produzione di polvere dalle supernove: per studiare stelle più distanti di SN1987A, come la SN 92004et e la SN 2017eaw – che si trovano a circa 22 milioni di anni luce di distanza nella galassia NGC 6946 – lo strumento Mid-Infrared Instrument di Webb è essenziale. Offre infatti una combinazione perfetta fra ampiezza di copertura in termini di lunghezza d’onda ed elevata sensibilità.
Un altro risultato particolarmente intrigante della ricerca è la misura della quantità di polvere rilevata nella fase iniziale della vita della supernova, in una piccola frazione della sua età totale: in SN 2004et, i ricercatori hanno infatti trovato più di 5 mila masse terrestri di polvere, il quantitativo più elevato mai misurato in una supernova dopo lo studio di SN 1987A.
Immagine della galassia a spirale NGC 6496 che mostra la posizione delle supernove SN2004et e SN2017eaw a 22milioni di anni luce dalla Terra. Crediti: KPNO, NSF’s NOIRLab, AURA, Alyssa Pagan (STScI)
Ma quanta di questa polvere riesce a sopravvivere agli shock interni che si riverberano in seguito all’esplosione della stella? Questo è il nuovo quesito che si sono posti gli scienziati. La presenza di una tale quantità di polvere in una determinata fase della vita di SN 2004et e SN 2017eaw suggerirebbe che essa possa effettivamente sopravvivere all’onda d’urto, rendendo le supernove importanti “fucine” di polvere cosmica. Inoltre, secondo il team di ricerca, le stime attuali della massa misurata potrebbero essere solo la punta dell’iceberg. Se da un lato l’occhio infrarosso di Webb ha permesso ai ricercatori di misurare polveri più fredde di sempre, dall’altro potrebbero essercene altre ancora più fredde, non rilevate poiché irradiano a lunghezze d’onda ancora più rosse o perchè rimangono oscurate dagli strati di polvere più esterni. Infine, le osservazioni finora fatte hanno dimostrato agli astronomi che galassie giovani e lontane sono piene di polvere. Tuttavia, queste non sono abbastanza vecchie da aver consentito alle stelle di massa intermedia come ad esempio il Sole, che hanno un tempo di vita più lungo, di fornire polvere durante il processo di “invecchiamento”. In quelle galassie, infatti, solamente le stelle più massicce e meno longeve – e presenti in maggiore quantità – avrebbero avuto il tempo di collassare per creare tanta polvere.
Questi interrogativi sottolineano come le nuove scoperte siano solo un accenno alle nuove possibilità di ricerca sulle supernove e sulla polvere stellare aperte dal James Webb Space Telescope. Le supernove SN 2004et e SN 2017eaw sono solo i primi due dei cinque target inclusi nell’ambito del programma di osservazione Webb General Observer 2666.
«C’è un crescente entusiasmo nel capire come e se la polvere potrà fornire anche informazioni sul nucleo della stella che l’ha prodotta esplodendo», conclude Ori Fox, ricercatore allo Space Telescope Science Institute e a capo del programma di osservazione con Webb. «Sicuramente in futuro, dopo aver esaminato tutti i risultati, i colleghi del team troveranno ulteriori strade per studiare queste supernove polverose».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “JWST observations of dust reservoirs in type IIP supernovae 2004et and 2017eaw “ di Melissa Shahbandeh, Arkaprabha Sarangi, Tea Temim, Tamás Szalai, Ori D Fox, Samaporn Tinyanont, Eli Dwek, Luc Dessart, Alexei V Filippenko, Thomas G Brink, Ryan J Foley, Jacob Jencson, Justin Pierel, Szanna Zsíros, Armin Rest, WeiKang Zheng, Jennifer Andrews, Geoffrey C Clayton, Kishalay De, Michael Engesser, Suvi Gezari, Sebastian Gomez, Shireen Gonzaga, Joel Johansson, Mansi Kasliwal, Ryan Lau, Ilse De Looze, Anthony Marston, Dan Milisavljevic, Richard O’Steen, Matthew Siebert, Michael Skrutskie, Nathan Smith, Lou Strolger, Schuyler D Van Dyk, Qinan Wang, Brian Williams, Robert Williams, Lin Xiao e Yi Yang
A caccia di giganti freddi con Harps-N
Rappresentazione artistica di un pianeta di tipo gioviano freddo.
Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Penn State University
Come la vedete una battuta di caccia al gioviano freddo, dalle Canarie? Appassionante, soprattutto per i ricercatori dell’Inaf che da anni si occupano della ricerca e della caratterizzazione degli esopianeti, i pianeti fuori dal Sistema solare. Un gruppo di esperti guidati da Aldo Bonomo, ricercatore dell’Inaf di Torino, ha quindi scandagliato il cielo alla ricerca di gioviani freddi (pianeti analoghi a Giove) in circa quaranta sistemi di piccola taglia osservati con la tecnica dei transiti dalle missioni Kepler e K2 (quest’ultima è un’estensione delle osservazioni del telescopio spaziale Keplero). La survey, realizzata con lo strumento Harps-N montato al Telescopio Nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf alle Canarie, dura da circa dieci anni e ha come obiettivo quello di comprendere la formazione dei pianeti di piccola taglia e quella del nostro vicinato planetario. «Non abbiamo ancora una risposta alla domanda “perché il Sistema solare non contiene pianeti di piccola taglia (super-Terre e mini-Nettuni) in orbite relativamente strette?”», dice Bonomo, primo autore dell’articolo accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics. Lo abbiamo intervistato per capire meglio l’argomento della sua ricerca.
Di cosa si tratta?
«È un lavoro che è durato diversi anni, a guida Inaf, all’interno del consorzio che ha costruito e montato lo spettrografo ad alta risoluzione Harps-N al Tng. Il consorzio include l’Università di Ginevra, tre istituti di astrofisica di Harvard fra cui lo Smithsonian Astrophysical Observatory, e tre università del Regno Unito fra cui l’Università di St Andrews. Con il metodo delle velocità radiali abbiamo cercato analoghi di Giove, ovvero pianeti giganti gassosi freddi (o gioviani freddi), in quasi quaranta sistemi che erano già noti per avere super-Terre e sub-Nettuniani, ovvero pianeti con raggi compresi fra il raggio della terra e quello di Nettuno, a distanze orbitali dalle loro stelle più piccole di quella di Mercurio dal Sole. Questi pianeti sono fra i più abbondanti nella nostra galassia: circa il 50% delle stelle simili al Sole ne ha almeno uno, ma non esistono nel Sistema Solare».
Perché non si sono formati nel Sistema Solare?
«Non lo sappiamo. Alcuni studi teorici hanno però ipotizzato che possa essere stato Giove ad aver impedito la formazione di super-Terre e sub-Nettuniani nel Sistema Solare, essenzialmente per due ragioni: Giove avrebbe agito come barriera dinamica all’eventuale migrazione dei nuclei di Saturno, Urano e Nettuno verso il Sole, che avrebbero altrimenti potuto formare uno dei tanti sistemi di super-Terre e sub-Nettuniani caldi, come quelli scoperti dalle missioni spaziali Kepler, K2 e Tess; in alternativa, la formazione di Giove avrebbe prodotto un gap nel disco protosolare, impedendo così al materiale solido delle regioni esterne di migrare verso quelle interne per formare pianeti più grossi e massivi dei pianeti rocciosi del Sistema Solare. Questi studi teorici prevedono che gli analoghi extrasolari di Giove siano relativamente rari in sistemi con pianeti di piccola dimensione (super-Terre e/o sub-Nettuniani) interni. Abbiamo voluto testare questa predizione, cercando, come detto, gioviani freddi in trentotto di questi sistemi scoperti precedentemente dalla missione spaziale Kepler (poi K2) con il metodo dei transiti, e osservati successivamente con lo spettrografo HARPS-N per determinare le masse e le densità dei pianeti transitanti».
Cosa avete scoperto?
«Abbiamo scoperto cinque gioviani freddi in tre sistemi planetari, due nel sistema Kepler-68 (Kepler-68d e Kepler-68e con periodi P=1,7 e 9,4 anni), due in Kepler-454 (Kepler-454c e Kepler-454d con P=1,4 e 11,1 anni) e un pianeta in un’orbita molto eccentrica (o ellittica) K2-312c (e=0,85, P=2,5 anni). Solo due di questi pianeti erano già noti (Kepler-68d e Kepler-454c), quindi ne abbiamo trovati tre nuovi. Una grande sorpresa è stata l’eccentricità del gigante gassoso esterno nel sistema K2-312 (alias HD80653c), che era già noto per avere un pianeta transitante roccioso con periodo ultra-breve, inferiore a un giorno. Studi futuri cercheranno di capire come si sia formato questo sistema eccezionale. Siamo riusciti a determinare bene i parametri orbitali dei pianeti Kepler-68e e Kepler-454d solo con gli ultimi dati presi nell’estate del 2022 prima di cominciare a scrivere l’articolo, quasi al fotofinish… visti i lunghi periodi orbitali di 9 e 11 anni».
Qual è l’elemento di novità in questo articolo rispetto allo stato dell’arte?
«Oltre alla scoperta dei tre nuovi gioviani freddi, il nostro lavoro non ha confermato un risultato precedente della letteratura scientifica, secondo cui ci sarebbe un eccesso di gioviani freddi attorno a stelle con pianeti di piccola dimensione e breve periodo, come se la formazione di super-Terre e sub-Nettuniani fosse in qualche modo “facilitata” dai fratelli maggiori, analoghi di Giove. L’analisi del nostro campione di stelle non mostra tale eccesso, ma al contrario indicherebbe una possibile anticorrelazione, come previsto da alcuni lavori teorici. Tuttavia, l’incertezza sulla frequenza dei gioviani freddi del nostro campione, dovuta alla sua dimensione inevitabilmente limitata, non ci ha permesso di trarre una conclusione definitiva sull’esistenza o meno di tale anticorrelazione. Servirà dunque estendere il campione ad altre stelle con pianeti di piccola dimensione interni, ad esempio includendo i sistemi Tess osservati con Harps-N dal nostro consorzio, e sistemi K2 e Tess osservati dall’emisfero sud con altri spettrografi quali Harps ed Espresso».
Perché il vostro lavoro è così importante per la comunità dei “cacciatori di pianeti”?
«Direi per tre ragioni: la prima è aver mostrato, come detto, che non c’è una correlazione fra pianeti di piccola taglia interni e gioviani esterni. Ciò rappresenta un importante vincolo osservativo per i modelli di formazione e migrazione di super-Terre e sub-Nettuniani. La seconda consiste nell’aver determinato in modo omogeneo le masse e densità di 64 pianeti di piccola taglia nei 38 sistemi considerati (una quindicina dei quali sono sistemi multipli), migliorandone in diversi casi la precisione; grazie a queste misure è possibile determinare la loro composizione e stabilire, ad esempio, se questi pianeti siano super-terre rocciose come la Terra, in caso di elevate densità, oppure siano sub-Nettuniani che hanno densità più basse perché contengono grandi quantità di ghiaccio di acqua e/o possiedono un’atmosfera di idrogeno ed elio. Diverse composizioni corrispondono a diverse storie di formazione ed evoluzione planetarie: è dunque possibile che l’impatto dei gioviani freddi sulla formazione dei pianeti piccoli interni sia diverso per i pianeti rocciosi e non-rocciosi, cosa che potrà essere investigata con studi futuri. Infine, ma non meno importante, con questo lavoro rilasciamo a tutta la comunità scientifica le oltre 3600 misure di velocità radiale che abbiamo preso dal 2012 con Harps-N perché altri gruppi di ricerca possano utilizzarle per nuovi studi. La misurazione delle velocità radiali è stata migliorata negli ultimi anni per correggere alcuni effetti strumentali. Noi italiani, in particolare, abbiamo contribuito in modo importante a testare vari aggiornamenti del software per la misura delle velocità radiali sviluppato dai colleghi svizzeri».
Lo studio è stato possibile grazie al Tng. Cosa rende speciale questo telescopio e i suoi strumenti come Harps-N?
«È uno dei migliori spettrografi al mondo, in termini di precisione delle misure e stabilità sul lungo termine, per cercare nuovi pianeti con il metodo delle velocità radiali e per determinare le masse e le densità di pianeti precedentemente scoperti con il metodo dei transiti, come quelli delle missioni spaziali Kepler, K2 e Tess. Solo lo spettrografo Espresso all’osservatorio Very Large Telescope in Cile ottiene al momento una precisione/accuratezza delle misure di velocità radiali migliore di Harps-N, grazie soprattutto alla maggiore dimensione dello specchio del telescopio (8.2 m contro i 3.6 m del Tng). Tuttavia, trovandosi appunto nell’emisfero sud, Espresso non può osservare le stelle più a Nord, per cui i due spettrografi sono certamente complementari».
Per saperne di più:
- Leggi su ArXiv il pre-print dell’articolo “Cold Jupiters and improved masses in 38 Kepler and K2 small-planet systems from 3661 high-precision HARPS-N radial velocities. No excess of cold Jupiters in small-planet systems”, di Aldo Bonomo, X. Dumusque, A. Massa, A. Mortier, R. Bongiolatti, L. Malavolta, A. Sozzetti, L. A. Buchhave, M. Damasso, R. D. Haywood, A. Morbidelli, D. W. Latham, E. Molinari, F. Pepe, E. Poretti, S. Udry, L. Affer, W. Boschin, D. Charbonneau, R. Cosentino, M. Cretignier, A. Ghedina, E. Lega, M. López-Morales, M. Margini, A. F. Martínez Fiorenzano, M. Mayor, G. Micela, M. Pedani, M. Pinamonti, K. Rice, D. Sasselov, R. Tronsgaard e A. Vanderburg