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A caccia di giganti freddi con Harps-N


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Rappresentazione artistica di un pianeta di tipo gioviano freddo.
Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Penn State University

Come la vedete una battuta di caccia al gioviano freddo, dalle Canarie? Appassionante, soprattutto per i ricercatori dell’Inaf che da anni si occupano della ricerca e della caratterizzazione degli esopianeti, i pianeti fuori dal Sistema solare. Un gruppo di esperti guidati da Aldo Bonomo, ricercatore dell’Inaf di Torino, ha quindi scandagliato il cielo alla ricerca di gioviani freddi (pianeti analoghi a Giove) in circa quaranta sistemi di piccola taglia osservati con la tecnica dei transiti dalle missioni Kepler e K2 (quest’ultima è un’estensione delle osservazioni del telescopio spaziale Keplero). La survey, realizzata con lo strumento Harps-N montato al Telescopio Nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf alle Canarie, dura da circa dieci anni e ha come obiettivo quello di comprendere la formazione dei pianeti di piccola taglia e quella del nostro vicinato planetario. «Non abbiamo ancora una risposta alla domanda “perché il Sistema solare non contiene pianeti di piccola taglia (super-Terre e mini-Nettuni) in orbite relativamente strette?”», dice Bonomo, primo autore dell’articolo accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics. Lo abbiamo intervistato per capire meglio l’argomento della sua ricerca.

Di cosa si tratta?

«È un lavoro che è durato diversi anni, a guida Inaf, all’interno del consorzio che ha costruito e montato lo spettrografo ad alta risoluzione Harps-N al Tng. Il consorzio include l’Università di Ginevra, tre istituti di astrofisica di Harvard fra cui lo Smithsonian Astrophysical Observatory, e tre università del Regno Unito fra cui l’Università di St Andrews. Con il metodo delle velocità radiali abbiamo cercato analoghi di Giove, ovvero pianeti giganti gassosi freddi (o gioviani freddi), in quasi quaranta sistemi che erano già noti per avere super-Terre e sub-Nettuniani, ovvero pianeti con raggi compresi fra il raggio della terra e quello di Nettuno, a distanze orbitali dalle loro stelle più piccole di quella di Mercurio dal Sole. Questi pianeti sono fra i più abbondanti nella nostra galassia: circa il 50% delle stelle simili al Sole ne ha almeno uno, ma non esistono nel Sistema Solare».

Perché non si sono formati nel Sistema Solare?

«Non lo sappiamo. Alcuni studi teorici hanno però ipotizzato che possa essere stato Giove ad aver impedito la formazione di super-Terre e sub-Nettuniani nel Sistema Solare, essenzialmente per due ragioni: Giove avrebbe agito come barriera dinamica all’eventuale migrazione dei nuclei di Saturno, Urano e Nettuno verso il Sole, che avrebbero altrimenti potuto formare uno dei tanti sistemi di super-Terre e sub-Nettuniani caldi, come quelli scoperti dalle missioni spaziali Kepler, K2 e Tess; in alternativa, la formazione di Giove avrebbe prodotto un gap nel disco protosolare, impedendo così al materiale solido delle regioni esterne di migrare verso quelle interne per formare pianeti più grossi e massivi dei pianeti rocciosi del Sistema Solare. Questi studi teorici prevedono che gli analoghi extrasolari di Giove siano relativamente rari in sistemi con pianeti di piccola dimensione (super-Terre e/o sub-Nettuniani) interni. Abbiamo voluto testare questa predizione, cercando, come detto, gioviani freddi in trentotto di questi sistemi scoperti precedentemente dalla missione spaziale Kepler (poi K2) con il metodo dei transiti, e osservati successivamente con lo spettrografo HARPS-N per determinare le masse e le densità dei pianeti transitanti».

Cosa avete scoperto?

«Abbiamo scoperto cinque gioviani freddi in tre sistemi planetari, due nel sistema Kepler-68 (Kepler-68d e Kepler-68e con periodi P=1,7 e 9,4 anni), due in Kepler-454 (Kepler-454c e Kepler-454d con P=1,4 e 11,1 anni) e un pianeta in un’orbita molto eccentrica (o ellittica) K2-312c (e=0,85, P=2,5 anni). Solo due di questi pianeti erano già noti (Kepler-68d e Kepler-454c), quindi ne abbiamo trovati tre nuovi. Una grande sorpresa è stata l’eccentricità del gigante gassoso esterno nel sistema K2-312 (alias HD80653c), che era già noto per avere un pianeta transitante roccioso con periodo ultra-breve, inferiore a un giorno. Studi futuri cercheranno di capire come si sia formato questo sistema eccezionale. Siamo riusciti a determinare bene i parametri orbitali dei pianeti Kepler-68e e Kepler-454d solo con gli ultimi dati presi nell’estate del 2022 prima di cominciare a scrivere l’articolo, quasi al fotofinish… visti i lunghi periodi orbitali di 9 e 11 anni».

Qual è l’elemento di novità in questo articolo rispetto allo stato dell’arte?

«Oltre alla scoperta dei tre nuovi gioviani freddi, il nostro lavoro non ha confermato un risultato precedente della letteratura scientifica, secondo cui ci sarebbe un eccesso di gioviani freddi attorno a stelle con pianeti di piccola dimensione e breve periodo, come se la formazione di super-Terre e sub-Nettuniani fosse in qualche modo “facilitata” dai fratelli maggiori, analoghi di Giove. L’analisi del nostro campione di stelle non mostra tale eccesso, ma al contrario indicherebbe una possibile anticorrelazione, come previsto da alcuni lavori teorici. Tuttavia, l’incertezza sulla frequenza dei gioviani freddi del nostro campione, dovuta alla sua dimensione inevitabilmente limitata, non ci ha permesso di trarre una conclusione definitiva sull’esistenza o meno di tale anticorrelazione. Servirà dunque estendere il campione ad altre stelle con pianeti di piccola dimensione interni, ad esempio includendo i sistemi Tess osservati con Harps-N dal nostro consorzio, e sistemi K2 e Tess osservati dall’emisfero sud con altri spettrografi quali Harps ed Espresso».

Perché il vostro lavoro è così importante per la comunità dei “cacciatori di pianeti”?

«Direi per tre ragioni: la prima è aver mostrato, come detto, che non c’è una correlazione fra pianeti di piccola taglia interni e gioviani esterni. Ciò rappresenta un importante vincolo osservativo per i modelli di formazione e migrazione di super-Terre e sub-Nettuniani. La seconda consiste nell’aver determinato in modo omogeneo le masse e densità di 64 pianeti di piccola taglia nei 38 sistemi considerati (una quindicina dei quali sono sistemi multipli), migliorandone in diversi casi la precisione; grazie a queste misure è possibile determinare la loro composizione e stabilire, ad esempio, se questi pianeti siano super-terre rocciose come la Terra, in caso di elevate densità, oppure siano sub-Nettuniani che hanno densità più basse perché contengono grandi quantità di ghiaccio di acqua e/o possiedono un’atmosfera di idrogeno ed elio. Diverse composizioni corrispondono a diverse storie di formazione ed evoluzione planetarie: è dunque possibile che l’impatto dei gioviani freddi sulla formazione dei pianeti piccoli interni sia diverso per i pianeti rocciosi e non-rocciosi, cosa che potrà essere investigata con studi futuri. Infine, ma non meno importante, con questo lavoro rilasciamo a tutta la comunità scientifica le oltre 3600 misure di velocità radiale che abbiamo preso dal 2012 con Harps-N perché altri gruppi di ricerca possano utilizzarle per nuovi studi. La misurazione delle velocità radiali è stata migliorata negli ultimi anni per correggere alcuni effetti strumentali. Noi italiani, in particolare, abbiamo contribuito in modo importante a testare vari aggiornamenti del software per la misura delle velocità radiali sviluppato dai colleghi svizzeri».

Lo studio è stato possibile grazie al Tng. Cosa rende speciale questo telescopio e i suoi strumenti come Harps-N?

«È uno dei migliori spettrografi al mondo, in termini di precisione delle misure e stabilità sul lungo termine, per cercare nuovi pianeti con il metodo delle velocità radiali e per determinare le masse e le densità di pianeti precedentemente scoperti con il metodo dei transiti, come quelli delle missioni spaziali Kepler, K2 e Tess. Solo lo spettrografo Espresso all’osservatorio Very Large Telescope in Cile ottiene al momento una precisione/accuratezza delle misure di velocità radiali migliore di Harps-N, grazie soprattutto alla maggiore dimensione dello specchio del telescopio (8.2 m contro i 3.6 m del Tng). Tuttavia, trovandosi appunto nell’emisfero sud, Espresso non può osservare le stelle più a Nord, per cui i due spettrografi sono certamente complementari».

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Marte, in attesa d’acqua liquida


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Immagine del Terra Sirenum e dei suoi canali, catturati dalla fotocamera High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) sul Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl/Univ. of Arizona.

Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Brown University offre nuove informazioni su come l’acqua proveniente dallo scioglimento dei ghiacci potrebbe aver avuto un ruolo nella formazione delle gravine, profondi canaloni prodotti dall’erosione – detti anche gully – che solcano le pendici dei crateri marziani. Ma l’aspetto più entusiasmante è che, secondo gli autori, questo ruolo dell’acqua sarebbe molto recente, molto più recente dei tre miliardi di anni fa, quando si ritiene che fosse effettivamente presente.

Lo studio, pubblicato su Science, si concentra sui canaloni marziani, che effettivamente sembrano stranamente simili a quelli che si formano sulla Terra nelle valli secche dell’Antartide, causati dall’erosione dell’acqua dovuta allo scioglimento dei ghiacciai. I ricercatori hanno costruito un modello in grado di simulare un momento particolare in cui le condizioni su Marte potrebbero aver consentito al pianeta di riscaldarsi al di sopra della temperatura di congelamento dell’acqua, rendendo la superficie del Pianeta rosso in parte ricoperta di acqua liquida.

Marte, a differenza della Terra, ha un asse di rotazione la cui inclinazione – sebbene attualmente sia quasi identica a quello terrestre – oscilla dai 10 ai 60 gradi ogni due milioni di anni. Gli scienziati hanno scoperto che, quando l’asse di rotazione di Marte si inclina a circa 35 gradi, l’atmosfera diventa abbastanza densa da consentire il verificarsi di brevi episodi di scioglimento del ghiaccio in corrispondenza dei canaloni. Hanno quindi confrontato i dati del loro modello con i periodi della storia del pianeta in cui si ritiene che i canaloni nella regione Terra Sirenum si siano ampliati rapidamente a valle rispetto alle quote superiori, un fenomeno che non potrebbe essere spiegato senza la presenza occasionale di acqua.

«Sappiamo da molte delle nostre ricerche, e da quelle di altre persone, che all’inizio della storia di Marte c’era acqua corrente in superficie, con reti di valli e laghi», spiega Jim Head, ricercatore presso la Brown University, tra gli autori dello studio. «Ma circa tre miliardi di anni fa, tutta quell’acqua liquida andò persa e Marte divenne quello che chiamiamo un deserto iper-arido, o polare. Nel nostro studio mostriamo che anche successivamente e nel passato recente, quando l’asse di Marte si inclina a 35 gradi, il pianeta si riscalda abbastanza da far sciogliere neve e ghiaccio, riportando acqua liquida, fino a quando le temperature scendono e questa si congela di nuovo».

I risultati dello studio aiutano a colmare alcune delle lacune su come si sono formati questi canaloni, tra cui la loro altezza, quanto è profonda l’erosione e quanto si estendono lungo il lato dei crateri. Ovviamente sarebbe importante, secondo gli autori, visitare e studiare questi canaloni durante le future missioni esplorative su Marte.

Le teorie precedenti suggeriscono che i canaloni marziani siano stati scolpiti dall’anidride carbonica che evapora dal suolo, facendo scivolare rocce e macerie lungo i pendii. Tuttavia, l’altezza dei canaloni ha indotto molti scienziati a pensare che l’acqua dei ghiacciai abbia avuto un ruolo, a causa della distanza percorsa lungo i pendii e dell’erosione dei canaloni. Dimostrare che l’acqua liquida potrebbe essere esistita su Marte in tempi più recenti rispetto a quando è scomparsa, molto tempo prima, è stato difficile perché le temperature sul pianeta in genere si aggirano intorno a -70 gradi centigradi.

I risultati del nuovo studio suggeriscono che la formazione dei canaloni sia stata guidata da periodi di scioglimento dei ghiacci e dall’evaporazione del ghiaccio secco (anidride carbonica allo stato solido) in altri momenti dell’anno. I ricercatori hanno scoperto che ciò si è probabilmente verificato ripetutamente negli ultimi milioni di anni, con l’evento più recente circa 630mila anni fa.

Secondo gli autori, se fosse stato presente ghiaccio nei canaloni che hanno osservato quando l’asse di Marte si è inclinato a circa 35 gradi, le condizioni sarebbero state quelle giuste per lo scioglimento dello stesso, poiché le temperature sono salite sopra zero gradi centigradi.

«Il nostro studio mostra che la distribuzione globale dei canaloni è meglio spiegata dall’acqua liquida negli ultimi milioni di anni», dice Jay Dickson, primo autore dello studio, ora al California Institute of Technology. «L’acqua spiega la distribuzione dell’elevazione dei canaloni in modi che l’anidride carbonica non riesce a fare. Ciò significa che Marte è stato in grado di creare acqua liquida in un volume sufficiente per erodere i canali negli ultimi milioni di anni, ossia molto recentemente sulla scala della storia geologica di Marte».

Nonostante i dubbi sulla possibilità di questo disgelo e sul fatto che gli scienziati non siano mai stati in grado di modellare le giuste condizioni marziane per lo scioglimento del ghiaccio, i ricercatori sono ragionevolmente convinti che la loro ipotesi sia plausibile perché hanno visto in prima persona caratteristiche simili in Antartide. Lì, nonostante le basse temperature, il Sole è in grado di riscaldare il ghiaccio quel tanto che basta perché si sciolga e si verifichi il fenomeno dell’erosione del canalone.

Infine, lo studio solleva la questione fondamentale se la vita possa ancora, o di nuovo, esistere sul Pianeta rosso. Questo perché la vita, così come la conosciamo sulla Terra, va di pari passo con la presenza di acqua allo stato liquido. Secondo Head, così come nel gelido ambiente antartico i pochi organismi esistenti spesso si trovano in stasi, in attesa di acqua liquida, anche su Marte potrebbero esserci microorganismi che stanno bene nel ghiaccio e sono ancora lì, in attesa… perché, prima o poi, Marte si inclinerà di nuovo a 35 gradi.

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Avvertimenti energetici dal Sole


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L’immagine, in luce ultravioletta estrema, evidenzia il brillamento visto dal Solar Dynamics Observatory la notte del 3 luglio 2023. Crediti: Nasa/Sd

Il Sole ha emesso un forte brillamento solare, con un picco alle 01:14 ora italiana del 3 luglio 2023 (le 19:14 del giorno precedente, negli Stati Uniti). Lo ha visto e immortalato il Solar Dynamics Observatory della Nasa, che osserva costantemente il Sole a diverse lunghezze d’onda. In questo caso, l’immagine che vedete sulla destra è stata scattata in un filtro che seleziona l’ultravioletto estremo, e il brillamento è chiaramente la parte più esposta dell’immagine. Si tratta, infatti, di un brillamento di classe X1.0 – dove la lettera X è attribuita alla categoria dei brillamenti più intensi, mentre il numero fornisce informazioni sulla sua forza.

I brillamenti solari, in inglese solar flare, sono potenti rilasci di energia, spesso associati a eruzioni solari, note come Coronal Mass Ejections (Cme). Possono avere un impatto sulle comunicazioni radio, sulle reti elettriche, sui segnali di navigazione e rappresentare un rischio per i veicoli spaziali e gli astronauti. Per vedere come un evento di questo tipo possa influire sulla Terra, gli Stati Uniti pubblicano avvisi, allerte e previsioni meteo spaziali sul sito Noaa Space Weather Prediction Center.

I brillamenti solari vengono classificati in base all’energia rilasciata. I flare X, dicevamo, sono i più potenti. Quello del 3 luglio 2023 è stato classificato come X1: pur essendo un evento decisamente importante, non è il più potente mai registrato. Il brillamento più energetico, di classe X28, è stato osservato il 4 novembre del 2003 e ha generato una Cme che si propagava a una velocità di 2.300 chilometri al secondo.

«Sebbene non sia stato il flare più energetico, questo evento ci ricorda che dobbiamo prestare massima attenzione al Sole nei prossimi mesi», spiega a Media Inaf Daniele Telloni, ricercatore all’Inaf di Torino. «Il Sole sta infatti rapidamente raggiungendo il massimo del suo attuale ciclo solare. Poiché il numero di flare, anche di classe X, è maggiore durante le fasi più attive, sicuramente il Sole avrà in serbo altri spettacolari rilasci di energia come quello registrato il 2 luglio».

La Nasa, in quanto ente ufficiale per gli studi sulla meteorologia spaziale, osserva costantemente il Sole e l’ambiente spaziale che ci circonda con una serie di veicoli spaziali che studiano la sua attività, la sua atmosfera, e rilevano particelle e campi magnetici nello spazio che circonda la Terra. Una di queste è Parker Solar Probe, una missione lanciata nell’agosto 2018 con l’obiettivo di avvicinarsi alla nostra stella per studiarne la corona. Il 27 giugno 2023 la sonda ha completato la sua sedicesima orbita intorno al Sole. Questa comprendeva un passaggio ravvicinato (o perielio) avvenuto il 22 giugno 2023, dove la sonda si è avvicinata a 8,53 milioni di chilometri dalla superficie solare, appena il 6,2 per cento della distanza Terra-Sole, muovendosi a circa 586.782 chilometri all’ora. La sonda è uscita dal flyby solare sana e funzionante. Il 21 agosto completerà il suo sesto flyby intorno a Venere, e utilizzerà la gravità del pianeta per stringere la sua orbita intorno al Sole e impostare un futuro perielio a soli 7,24 milioni di chilometri dalla superficie del Sole.

«Parker Solar Probe, più di qualsiasi altra sonda, si è avvicinata (e si avvicinerà sempre più) al Sole», continua Telloni. «Il suo obiettivo principale è quello di svelare come la corona, lo strato più esterno dell’atmosfera solare, venga riscaldata a temperature superiori al milione di gradi e il vento solare venga accelerato a velocità superiore a quella del suono e delle onde di Alfvén. Ma Parker Solar Probe sta portando a importanti scoperte anche nel campo delle eruzioni solari: ha infatti già misurato decine di Cme. Il 2 luglio Parker Solar Probe si trovava già a una distanza pari a 4/10 della distanza Terra-Sole, ma in una posizione ideale per rivelare in situ, ovvero localmente, qualsiasi evento associato al flare X1. Sarà interessante studiarne i dati una volta che verranno scaricati a Terra».


Formazione a sandwich per i piccoli pianeti


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Pianeta che si forma tra due grandi pianeti. Crediti: Mark Garlick/University of Warwick

La studio della formazione dei pianeti è da sempre uno dei campi più importanti dell’astronomia. Dalla prima scoperta di un esopianeta, ormai più di 20 anni fa, gli astronomi cercano di indagare non solo l’origine dei pianeti del Sistema solare, ma anche quella dei corpi celesti che orbitano attorno a stelle diverse dal Sole. Anzi, è proprio quest’ultima che in molti casi si rivela di fondamentale importanza per comprendere l’evoluzione del Sistema solare, grazie soprattutto ai grandi radiointerferometri come Alma, che con la loro alta sensibilità possono ottenere immagini nitide proprio dei luoghi in cui i pianeti si stanno formando, i cosiddetti dischi protoplanetari, condensati di gas e polveri intorno a giovani stelle. Grazie a questi dati, i ricercatori possono osservare in dettaglio cosa avviene all’interno dei dischi, sviluppare modelli teorici e confrontarli con le osservazioni, tentando così di comprendere i processi che portano alla formazione e all’evoluzione dei pianeti.

Di recente, un gruppo di ricercatori dell’Università di Warwick hanno sviluppato una nuova interessante ipotesi su come potrebbero formarsi i pianeti di minori dimensioni. Il lavoro è stato presentato al National Astronomy Meeting 2023, che ha avuto inizio lunedì 3 luglio, e sottomesso alla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Il team ha mostrato come due pianeti di grandi dimensioni nel disco protoplanetario possano potenzialmente dare origine a un pianeta più piccolo tra di loro, definendo il processo “formazione di un pianeta a sandwich”.

«Nell’ultimo decennio, le osservazioni hanno rivelato l’esistenza di anelli e vuoti nei dischi protoplanetari. Gli spazi vuoti sono dove ci aspettiamo che si trovino i pianeti e, grazie alla teoria, sappiamo che i pianeti causano la formazione di anelli di polvere proprio all’esterno di essi. Cosa succede esattamente in questi anelli è una domanda importante per gli astronomi di tutto il mondo» spiega Farzana Meru, ricercatrice del Dipartimento di Fisica dell’Università di Warwick.

La causa che innescherebbe questo tipo di formazione a sandwich è che i due grandi pianeti limiterebbero il flusso di polvere verso l’interno. La quantità di polvere che si raccoglierebbe tra di loro sarebbe ridotta rispetto a quella che si avrebbe se non ci fosse il pianeta esterno. Perciò, se la polvere dovesse unirsi per formare un pianeta centrale, questo sarebbe probabilmente più piccolo dei due pianeti esterni, proprio come il ripieno di un panino. «Nel nostro studio, proponiamo che gli anelli siano luoghi di formazione di pianeti; in particolare, che in essi si stiano formando pianeti a sandwich. Questa è una visione molto differente da quella convenzionale sulla formazione dei pianeti, in cui ci si aspetta che essi si formino in sequenza dall’interno verso l’esterno del disco e che diventino sempre più massicci verso l’esterno. Ciò che è davvero interessante è che ci sono esempi che abbiamo trovato dalle osservazioni di esopianeti che mostrano effettivamente questa architettura di pianeti a sandwich, dove il pianeta centrale è meno massiccio dei suoi vicini» conclude Meru.

Sebbene siano necessari ulteriori studi per confermare quanto riportato dai ricercatori, questa teoria potrebbe rappresentare una possibile spiegazione per la formazione di pianeti come Marte e Urano, che sono circondati da pianeti più grandi.


Esplorare e abitare il Pianeta rosso


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Paolo Ferri, “Le sfide di Marte. Storie di esplorazione di un pianeta difficile”, Raffaello Cortina, 2023, 280 pagine, 22 euro

Le notizie da Marte sono una presenza continua sulle pagine dei giornali. Il rover cinese ha trovato rocce che denunciano la presenza di acqua liquida nella zona equatoriale del pianeta appena un milione di anni fa, mentre le foto ad alta risoluzione della piccola luna Deimos, ottenute dalla sonda emiratina Hope, fanno sospettare che si tratti di un pezzo di Marte piuttosto che di un asteroide catturato. Continua a fare notizia Ingenuity, il piccolo elicottero che avrebbe dovuto fare 5 voli, ma ha già superato quota 50. Intanto, Perseverance ha ripreso a raccogliere campioni di suolo marziano che, in tubi sigillati, vengono sparsi strategicamente perché una prossima missione li vada a raccogliere e li riporti a terra. Non sarà facile e, se volete imparare come si fa, consiglio di leggere Le sfide di Marte. Storie di esplorazione di un pianeta difficile scritto da Paolo Ferri. Un esperto indiscusso, con una lunghissima carriera in Esa, che sa tutto sulle missioni marziane e ci racconta come si progettano e come i piani originali cambino per adattarsi alle nuove tecnologie o ai mutati assetti geopolitici.

Ferri ha seguito fin dall’inizio il progetto Mars Sample Return, pensato per andare a recuperare i campioni di Perseverance. È una sfida che vede gli sforzi congiunti di Nasa ed Esa ma il recupero dei campioni sarà solo un aperitivo per il viaggio di andata e ritorno dei primi esploratori.

Nel descrivere il progetto Artemis, che riporterà donne e uomini sulla Luna, viene sempre sottolineato che si tratta di un primo passo in vista del viaggio, molto più lungo e impegnativo, verso Marte. Lo stesso succede quando si parla di Starship, il nuovo lanciatore pesante che SpaceX ha messo alla prova senza successo, ma che rivedremo presto sulla rampa di lancio. Benché sembri uscito da un libro di fumetti, è quanto di più innovativo sia mai stato progettato. Grazie al riutilizzo di lanciatore e navetta, Starship permetterà di abbassare notevolmente il costo del trasporto spaziale e, nella visione grandiosa di Elon Musk, trasporterà astronauti, ma anche facoltosi turisti, sulla Luna mantenendo, però, Marte come obiettivo finale. Elon sostiene che siamo destinati a diventare una specie multiplanetaria e lui, che si è posto l’obiettivo di morire su Marte, vuole fornire il mezzo di trasporto. Per affrontare lunghi viaggi, l’equipaggio deve essere preparato oltre che dal punto di vista fisico anche, e soprattutto, dal punto di visto psicologico. Raggiungere Marte implica diversi mesi di viaggio durante i quali gli astronauti vivono in condizioni che uniscono lo stress fisico a quello psicologico. La prolungata permanenza in assenza di forza peso produce perdita di calcio nelle ossa e una diminuzione delle dimensioni del cuore, che deve faticare meno a pompare il sangue, mentre la costante presenza della radiazione cosmica rappresenta un serio pericolo per i suoi effetti cancerogeni. A questo si aggiunge lo stress di vivere con risorse limitate, lontanissimi da ogni possibile forma di aiuto, in ambienti necessariamente ristretti che non offrono alcuna privacy e dove le capacità relazionali degli esseri umani sono messe a dura prova. Occorre trovare modo di mantenere gli astronauti in buona forma fisica, proteggendoli dalle radiazioni più pericolose, ed evitare che la convivenza gomito a gomito faccia sorgente conflitti o, peggio ancora, depressione.

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Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, “Le città dell’universo. Come sarà abitare nello spazio”, Il Saggiatore, 2023, 199 pagine, 16 euro

L’architettura spaziale può aiutare per progettare gli ambienti in modo che siano funzionali ma anche confortevoli. È un problema tutt’altro che semplice affrontato da Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro ne Le città dell’universo. Come sarà abitare lo spazio. Sono due architetti che lavorano con l’Esa per progettare gli interni delle navicelle, ma anche case lunari e marziane, usando la luce, i nuovi materiali ed i colori per allargare spazi angusti, permettendo a ciascuno di ritagliarsi un angolino su misura. Tuttavia, la gestione dello stress fisico ed emotivo rimane un’incognita dei viaggi spaziali e, visto che nessuno ha ricette, non resta che provare. La Nasa ha iniziato con lo studiare quello che succede al fisico degli astronauti che hanno trascorso un periodo di circa un anno sulla Iss. I risultati più interessanti si sono ottenuti grazie ai gemelli Kelly, entrambi astronauti Nasa. Mentre uno era sulla Iss, a terra veniva monitorato l’altro e, una volta terminata la missione, è stato fatto un confronto approfondito tra i due confermando che lo spazio accelera i processi di invecchiamento. Per quantificare lo stress emotivo causato dall’isolamento e dalla necessità di doversela cavare con limitate scorte di generi di prima necessità, la Nasa ha in corso la prima di una serie di tre simulazioni ognuna delle quali avrà durata di un anno e avrà come protagonisti quattro volontari che vivranno reclusi in un hangar al Johnson Space center a Houston (in Texas) pretendendo di essere su Marte. Il loro habitat marziano è piccolo ma non angusto, faranno passeggiate (marziane) in un cortile che replica i paesaggi fotografati dai rover della Nasa e svolgeranno i loro compiti.

Mentre aspettiamo che i progetti si realizzino, chi abbia voglia di andare a fare un giretto su Marte può servirsi del Global Ctx Mosaic of Mars, la mappa interattiva a più alta risoluzione del pianeta rosso mai creata, basata su 110mila foto ottenute dalla missione Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa.

In effetti, i panorami marziani sono in bianco e nero, ma non si può avere tutto dalla vita.


La lentezza dell’universo nel ticchettio dei quasar


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Impressione artistica di un quasar. Crediti: Image Adobe Stock

La teoria della relatività generale di Einstein implica che l’universo lontano – e quindi più antico – dovrebbe espandersi molto più lentamente di quanto faccia oggi. Tuttavia, guardare indietro nel tempo per verificarlo si è rivelata un’impresa non semplice, soprattutto quando si vuole andare molto indietro. Ora, sembra che gli scienziati ci siano riusciti usando i quasar come orologi. La ricerca è stata pubblicata oggi su Nature Astronomy.

«Se guardiamo indietro all’epoca in cui l’universo aveva poco più di un miliardo di anni, vediamo che il tempo sembra scorrere cinque volte più lentamente», afferma l’autore principale dello studio, Geraint Lewis della School of Physics e del Sydney Institute for Astronomy. «Se voi foste lì, in questo universo neonato, un secondo vi sembrerebbe un secondo, ma dalla nostra posizione – più di 12 miliardi di anni nel futuro – quel primo istante sembra trascinarsi a lungo».

Insieme al suo collaboratore, Brendon Brewer dell’Università di Auckland, Lewis ha utilizzato le osservazioni di quasi 200 quasar per analizzare questa dilatazione temporale. «Grazie a Einstein, sappiamo che il tempo e lo spazio sono intrecciati e, dall’alba del tempo nella singolarità del Big Bang, l’universo si è espanso», spiega Lewis. «Questa espansione dello spazio significa che le nostre osservazioni dell’universo primordiale dovrebbero apparire molto più lente del tempo che scorre oggi. In questo articolo abbiamo stabilito che circa un miliardo di anni dopo il Big Bang è così».

In precedenza, gli astronomi avevano confermato questo “universo lento” fino a circa la metà della sua età attuale usando come orologi standard le supernove. Ma sebbene le supernove siano estremamente luminose, sono difficili da osservare alle immense distanze necessarie per scrutare l’universo primordiale.

Osservando i quasar, questo orizzonte temporale si sposta fino a solo un decimo dell’età dell’universo, confermando che quest’ultimo sembra accelerare man mano che invecchia. «Laddove le supernove agiscono come un singolo lampo di luce, cosa che le rende più facili da studiare, i quasar sono uno spettacolo pirotecnico, dunque più complessi. Quello che abbiamo fatto è svelare questo spettacolo pirotecnico, dimostrando che anche i quasar possono essere usati come indicatori standard del tempo nell’universo primordiale», dichiara Lewis.

Combinando le osservazioni di 190 quasar osservati nell’arco di due decenni in diversi colori (o lunghezze d’onda) – luce verde, luce rossa e nell’infrarosso – gli autori sono stati in grado di standardizzare il “ticchettio” di ogni quasar. Attraverso l’applicazione dell’analisi bayesiana, hanno trovato che l’espansione dell’universo è impressa nel ticchettio di ogni quasar.

Questi risultati confermano ulteriormente l’immagine di Einstein di un universo in espansione, ma contrastano con studi precedenti che non erano riusciti a identificare la dilatazione temporale di quasar distanti. «Questi studi precedenti hanno portato le persone a chiedersi se i quasar siano veramente oggetti cosmologici, o anche se l’idea di espandere lo spazio sia corretta», conclude Lewis. «Con questi nuovi dati e analisi, tuttavia, siamo stati in grado di trovare il ticchettio sfuggente dei quasar e abbiamo riscontrato che si comportano proprio come prevede la relatività di Einstein».

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Saturno, una vista fuori dal comune


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Immagine di Saturno e di alcune delle sue lune, catturata dallo strumento NirCam del James Webb Space Telescope il 25 giugno 2023. In questa immagine monocromatica, il filtro NirCam F323N (3,23 micron) è stato mappato a colori con una tonalità arancione. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI, M. Tiscareno (Seti Institute), M. Hedman (University of Idaho), M. El Moutamid (Cornell University), M. Showalter (Seti Institute), L. Fletcher (University of Leicester), H. Hammel (Aura); image processing by J. DePasquale (StScI).

Ormai il telescopio spaziale James Webb ce lo ha insegnato: le sue immagini non sono solo di una bellezza e valenza scientifica straordinaria, ma ci offrono anche una prospettiva completamente diversa da quella da cui siamo abituati a osservare l’universo. L’ultima immagine rilasciata non fa eccezione. Si tratta della prima osservazione del Signore degli Anelli, Saturno, in tutto il suo straordinario fascino.

Le osservazioni della NirCam all’infrarosso ci offrono una visione inedita del pianeta, che appare estremamente scuro e privo delle caratteristiche bande, dal momento che a questa lunghezza d’onda il metano presente nell’atmosfera assorbe quasi tutta la luce solare e impedisce la visione delle nubi primarie. I protagonisti della scena sono invece i brillanti anelli ghiacciati, i cui dettagli sono immortalati insieme ad alcune delle lune maggiori: Dione, Encelado e Teti.

Anche l’atmosfera del pianeta, che viene per la prima volta osservata con questa definizione a questa particolare lunghezza d’onda dell’infrarosso (3,23 micron), mostra dettagli inaspettati: grandi formazioni scure nell’emisfero settentrionale, che non sembrano però seguire le linee di latitudine del pianeta. Queste strutture ricordano quelle negli aerosol stratosferici al di sopra delle nubi principali riscontrate su Giove nelle osservazioni di Webb.

Il polo nord è particolarmente scuro, forse a causa di un processo stagionale ancora sconosciuto che interessa in particolare gli aerosol polari. Un piccolo accenno di luminosità verso il bordo del disco di Saturno potrebbe essere dovuto invece alla fluorescenza del metano ad alta quota (il processo di emissione di luce dopo averla assorbita), o all’emissione dello ione triidrogeno (H3+) nella ionosfera; la spettroscopia di Webb potrebbe aiutare i ricercatori a confermarlo.

Questa immagine fa parte di un programma di osservazioni profonde attraverso il quale i ricercatori sperano di poter svelare, grazie alla potenza e sensibilità del Webb, nuove strutture negli anelli, e forse anche nuove lune di Saturno. Ulteriori esposizioni permetteranno agli scienziati di sondare alcuni degli anelli più deboli, non visibili in questa immagine, tra cui il sottile anello G e l’anello E.

«Siamo molto contenti che Jwst abbia prodotto questa bella immagine, a conferma del fatto che anche i nostri dati scientifici più profondi hanno dato buoni risultati», dichiara Matthew Tiscareno, ricercatore del Seti Institute che ha guidato il processo di progettazione di questa osservazione: «Non vediamo l’ora di scavare nelle esposizioni profonde per vedere quali scoperte ci aspettano».


Mostri in crescita sotto l’occhio di Webb


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Questo profondo campo di galassie mostra una disposizione di dieci galassie distanti, contrassegnate da otto cerchi bianchi, in una linea filiforme diagonale. Due dei cerchi contengono più di una galassia. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Feige Wang (Ua) e Joseph DePasquale (StScI)

Le galassie sono come delle ampie isole nell’oceano cosmico fatte di stelle, polvere e gas. Queste imponenti strutture possono legarsi gravitazionalmente tra loro dando origine a vasti ammassi filamentosi e interconnessi. Questa rete cosmica appare tenue inizialmente, diventando sempre più distinguibile man mano che la gravità unisce la loro materia fatta di stelle e gas.

Utilizzando il James Webb Space Telescope, alcuni ricercatori guidati dall’Università dell’Arizona (Ua) negli Stati Uniti – tra i quali Roberto Decarli e Federica Loiacono di Inaf Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna – hanno scoperto una disposizione filiforme di dieci galassie che esisteva solo 830 milioni di anni dopo il Big Bang. La struttura galattica – catturata dalla Nircam (Near-Infrared Camera) di Webb – appare lunga tre milioni di anni luce e sembrerebbe collegata a un quasar molto distante e luminoso, conosciuto come J0305-3150.

Secondo lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati in due articoli su The Astrophysical Journal Letters il 29 giugno scorso, il filamento evolverà in un enorme ammasso di galassie, molto simile all’ammasso Abell 1656, noto come Ammasso della Chioma, presente nell’universo locale. Il risultato è sorprendente, come spiega Feige Wang dell’Ua e primo autore di uno dei due articoli: «Questa è una delle prime strutture filamentose mai individuate e associate a un quasar così distante».

La scoperta si inserisce all’interno del progetto Aspire (A SPectroscopic survey of biased halos In the Reionization Era), il cui obiettivo principale è studiare gli ambienti cosmici dei primi buchi neri. Proprio per questo, parte del lavoro di ricerca indaga le proprietà di otto quasar nell’universo primordiale, confermando che i loro buchi neri centrali, esistiti meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang, hanno una massa compresa tra 600 milioni e 2 miliardi di volte la massa del Sole.

Come questi buchi neri possano crescere così velocemente, ancora gli astronomi non sono in grado di spiegarlo. «Per formare questi buchi neri supermassicci in così poco tempo, devono essere soddisfatti due criteri», spiega Wang, «Innanzitutto, l’oggetto deve iniziare a crescere a partire da un enorme “seme” di buco nero. In secondo luogo, anche se questo seme iniziasse con una massa equivalente a mille soli, avrebbe ancora bisogno di accumulare un milione di volte più materia al massimo tasso possibile, per tutta la sua vita».

Un’altra domanda spinosa riguarda gli enormi deflussi di materia che durante la formazione di un buco nero supermassiccio possono estendersi ben oltre il buco nero stesso, su scala galattica, e ostacolare la formazione delle stelle, come spiega Jinyi Yang dell’Ua, primo autore del secondo articolo: «Tali venti sono stati osservati nell’universo vicino, ma non sono mai stati osservati direttamente nell’epoca della reionizzazione (ndr, periodo in cui il gas primordiale, di cui è pervaso l’universo giovane, passa dallo stato neutro a quello ionizzato). La scala del vento è legata alla struttura del quasar. Nelle osservazioni di Webb, stiamo osservano che tali venti esistevano nell’universo primitivo».

Dunque, è nato prima il buco nero o la galassia tutt’attorno? Non possiamo saperlo. Gli ultimi due decenni di ricerca cosmologica hanno fornito una solida comprensione sulla formazione ed evoluzione della rete cosmica, ma ulteriori osservazioni di Webb potrebbero fornire risposte senza precedenti su alcune delle più intricate domande sull’evoluzione dell’universo.

Per saperne di più


C’è molta più luce nell’universo primordiale


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A sinistra, immagine del campo ultra-profondo utilizzato dalla collaborazione Miri Deep Imaging Survey (Midis) per la ricerca di galassie primordiali. L’immagine combina i dati acquisiti con la fotocamera NirCam, che opera alle lunghezze d’onda del vicino e del medio infrarosso. Nei riquadri a destra sono mostrate invece alcune delle 44 galassie ad alto redshift identificate nello studio. Si sarebbero formate nei primi 200-500 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’età dell’universo era dall’1 al 5 per cento della sua età attuale. Crediti: Pierluigi Rinaldi, Rafael Navarro-Carrera, Pablo G. Pérez-González.

I modelli e le osservazioni astronomiche sono strumenti essenziali nel campo dell’astrofisica. I modelli permettono ai ricercatori di simulare e prevedere un’ampia gamma di fenomeni astronomici, come la formazione e l’evoluzione delle galassie, l’evoluzione delle stelle e la dinamica dei sistemi planetari. Le osservazioni forniscono invece le prove empiriche di questi fenomeni.

L’utilizzo di questi due approcci alla ricerca prevede naturalmente il confronto dei dati ottenuti. Quando ciò avviene, la condizione ideale è che i risultati siano concordanti. Tuttavia non sempre è così. Può capitare infatti che i dati raccolti siano in contrasto con le osservazioni, o dissimili da quelli che emergono dalle simulazioni, mettendo in discussione le previsioni fatte dai modelli.

È quanto è successo a un team internazionale di ricercatori guidati dal Center for Astrobiology (Cab) che, analizzando i dati ottenuti dal telescopio spaziale James Webb (Jwst), ha trovato nell’universo primordiale, quello cioè formatosi pochi milioni di anni dopo il Big Bang, molta più luce di quella prevista dalle simulazioni cosmologiche.

I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati di recente sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal Letters. Il titolo della pubblicazione è Life beyond 30: Probing the −20 < MUV < −17 Luminosity Function at 8 < z < 13 with the NIRCam Parallel Field of the MIRI Deep Survey, dove Life beyond 30, spiega a Media Inaf Pierluigi Rinaldi, dottorando all’Università di Groningen e co-autore dell’articolo, «si riferisce al fatto che oggi, grazie al Jwst, è possibile ottenere immagini molto profonde dell’universo, con appunto una profondità maggiore di 30 in magnitudine (più alto è il suo valore, più ci si sta spingendo verso sorgenti molto deboli)».

Nello studio, Pablo G. Pérez-González, astrofisico del Cab, e colleghi hanno raccolto dati da una regione dello spazio situata nella costellazione della Fornace, contenente migliaia di galassie che esistevano già 13 miliardi di anni fa – circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang. Si tratta di uno spicchio di cielo su cui il telescopio spaziale Hubble ha messo già gli occhi, tant’è che è conosciuta col nome di Hubble eXtreme Ultra-deep Field (Xdf). Le osservazioni sono state condotte utilizzando la Near-Infrared Camera (NirCam), l’imager principale e strumento di prima luce di Webb, in grado di acquisire immagini ad alta risoluzione.

«Fino allo scorso anno», prosegue Rinaldi, «le immagini più profonde dello spazio provenivano dall’Hubble eXtreme Deep Field, con una profondità (5 sigma) attorno a magnitudine 29.5. Oggi, invece, grazie al Jwst, e in particolare allo strumento NirCam, ci si può spingere oltre, quindi beyond, e osservare l’universo più profondo».

«Nel dicembre 2022 abbiamo raccolto dati in un’area del cielo nota come Hubble Ultra-deep Field utilizzando lo strumento Miri di Jwst, che ha trascorso 50 ore a raccogliere fotoni di galassie lontane» dice Göran Ostlin, Co-Principal Investigator dello strumento e co-autore dello studio. «Parallelamente», continua Ostlin, «è stato acceso anche lo strumento NirCam, la camera più sensibile di Jwst, e con esso, nell’ambito del programma Miri Deep Imaging Survey (Midis), abbiamo raccolto dati che ci hanno permesso di rilevare galassie dieci volte più deboli di quelle che erano state studiate durante i primi sei mesi di attività scientifiche di Jwst».

Il passo successivo nel lavoro di ricerca è stato quello di selezionare, tra le miriadi di galassie individuate, quelle ad alto spostamento verso il rosso, in particolare quelle con un redshift compreso tra otto e tredici, cioè galassie formatesi da 500 milioni a circa 350 milioni di anni dopo il Big Bang. L’analisi ha permesso di individuare un campione di galassie formatesi nei primi 600 milioni di anni dell’universo, meno del 4 per cento della sua età attuale (stimata in circa 13,7 miliardi di anni), alcune delle quali risalenti addirittura ai primi 200 milioni di anni dell’universo, l’1 per cento circa della sua età.

«Ci siamo focalizzati su galassie ad altissimo redshift (z>8), da 600 milioni di anni dopo il Big Bang a circa 350 (z ~ 12)», sottolinea a questo proposito Rinaldi. «Analizzando i dati NirCam in Hudf-P2, e con l’aiuto di dati ausiliari di Hst, è stato possibile trovare 44 galassie che presentano dropouta 1.15 micron o 1.5 micron, dove con dropout si intende che prima di queste lunghezze d’onda non c’è alcuna emissione e che le galassie iniziano ad apparire a più alte lunghezze d’onda di quelle sopra elencate. Questo a causa del mezzo intergalattico che assorbe tutti i fotoni Uv emessi a lunghezze d’onda minore di 1216 ångström (Lyman Alpha) a questi redshift».

Il campione così costituito è stato quindi utilizzato per la fase successiva: la costruzione della cosiddetta funzione di luminosità Uv, che prevede il conteggio di galassie in funzione della magnitudine a diversi redshift. «Jwst è in grado di misurare la quantità di energia emessa nell’ultravioletto da galassie lontane. Per effetto dell’espansione dell’universo, oggi quell’energia assume la forma di fotoni infrarossi, che sono quelli che lo strumento NirCam di Jwst è in grado di rivelare» aggiunge Rinaldi. «La luce che abbiamo studiato è quella emessa da giovani stelle che stanno formandosi all’interno di giovani galassie all’alba dell’universo primordiale. Catturare questa luce (Uv), però, ha richiesto osservazioni molto profonde a lunghezze d’onda che prima non erano in alcun modo accessibili, ma che oggi col Jwst sta diventando molto più semplice fare».

Il confronto delle proprietà di queste antiche galassie e della quantità di fotoni ultravioletti emessi con quanto previsto dalle simulazioni cosmologiche è stato l’ultimo atto dello studio. Il risultato? I ricercatori hanno trovato molte più galassie del previsto. Non solo. Questi oggetti sono molto più piccoli e luminosi di quanto le simulazioni predicano, arrivando a produrre dieci volte più fotoni ultravioletti.

La domanda a questo punto è: a cosa è dovuta questa discordanza tra modelli e osservazioni? Gli scienziati un’idea se la sono fatta, ma è solo un’ipotesi.

«I fotoni ultravioletti possono essere creati da stelle giovani e calde – molto più calde del Sole – che si evolvono rapidamente e poi scompaiono, ma possono anche essere creati da buchi neri supermassicci», dice Pérez-González. «Nel nostro studio», aggiunge lo scienziato, «abbiamo trovato che le galassie primordiali sono anche molto più compatte, 2-3 volte più del previsto, il che potrebbe essere collegato alla presenza di questi buchi neri».

Se così fosse, però, le domande si moltiplicano: come hanno potuto formarsi così in fretta questi buchi neri supermassicci? Ma soprattutto, attraverso quale processo? Si sono formati forse da buchi neri primordiali che esistono quasi dal Big Bang stesso? Oppure da buchi neri che non si evolvono da stelle, come avviene normalmente, ma direttamente dal gas primordiale?

«Ancora oggi non conosciamo granché di quello che accadeva a quei redshift, ad esempio non conosciamo precisamente la fisica che c’è dietro la formazione di galassie, e questo può sicuramente influire sui modelli e sulla loro incapacità attuale di predire cosa accadde nell’universo primordiale», conclude Rinaldi. «Grazie a Jwst, osservazioni profonde e sistematiche del cielo miglioreranno la nostra conoscenza, permettendoci di collezionare molta più statistica (robusta) a quei redshift e perciò migliorare i nostri modelli di formazione ed evoluzione di galassie».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Life beyond 30: Probing the −20 < MUV < −17 Luminosity Function at 8 < z < 13 with the NIRCam Parallel Field of the MIRI Deep Survey” di Pablo G. Pérez-González, Luca Costantin, Danial Langeroodi, Pierluigi Rinaldi, Marianna Annunziatella, Olivier Ilbert, Luis Colina, Hans Ulrik Noorgaard-Nielsen, Thomas Greve, Göran Ostlin, Gillian Wright, Almudena Alonso-Herrero, Javier Álvarez-Márquez, Karina I. Caputi, Andreas Eckart, Olivier Le Fèvre, Álvaro Labiano, Macarena García-Marín, Jens Hjorth, Sarah Kendrew, John P. Pye, Tuomo Tikkanen, Paul van der Werf, Fabian Walter, Martin Ward, Arjan Bik, Leindert Boogaard, Sarah E. I. Bosman, Alejandro Crespo Gómez, Steven Gillman, Edoardo Iani, Iris Jermann, Jens Melinder, Romain A. Meyer, Thibaud Moutard, Ewine van Dishoek, Thomas Henning, Pierre-Olivier Lagage, Manuel Guedel, Florian Peissker, Tom Ray, Bart Vandenbussche, Ángela García-Argumánez, Rosa María Mérida


L’ultima Venere e l’arco della Via Lattea


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Marte Luna e Venere
Simulazione con software Stellarium del tramonto del 20 luglio con Marte, la Luna e Venere.

In luglio non perdiamo l’ultima occasione per osservare Venere e le sue fasi, prima che sparisca, immersa nella luce del Sole. Si potrà sicuramente osservarla al tramonto nella prima parte del mese, oramai piuttosto basso sull’orizzonte ovest. Raggiungerà la sua massima luminosità il 9 del mese con una magnitudine addirittura di -4,5. La sua fase varierà man mano che passano i giorni, fino a diventare una falce sottilissima, mentre il suo diametro apparente aumenterà. Si potrà osservare con un telescopio e nella seconda metà del mese sarà osservabile di giorno. Tuttavia, si sconsiglia l’osservazione ai non esperti data la vicinanza in cielo del pianeta con la nostra stella. Il rischio è di puntare per sbaglio il Sole con conseguenze gravi per i nostri occhi.

Giove, al contrario di Venere, con l’avanzare dei giorni sarà sempre più facilmente visibile, ma solo nella seconda parte della notte. All’inizio del mese sorgerà dopo la mezzanotte mentre il periodo migliore per osservarlo è a fine mese, quando sorgerà verso le 23 e sarà abbastanza alto sull’orizzonte sud-est da essere osservato con facilità. Saturno, allo stesso modo, migliorerà la sua visibilità con il passare dei giorni e sarà da cercare sempre verso sud, sud-est.

Diversi saranno gli incontri tra i pianeti e la Luna. In particolare, il primo del mese tra Venere e Marte alla sera, sopra l’orizzonte ovest. Il 7 luglio, al mattino presto prima dell’alba, tra la Luna e Saturno. Il 12 luglio tra Giove e la Luna, visibile a partire dalle 2 del mattino fino ai primi chiarori dell’alba.

Il 20 e il 21 luglio sarà interessante osservare la Luna, Venere e Marte vicino in cielo con la Luna che sarà una falce sottilissima. Osservateli di sera verso le 21, al tramonto bassi sull’orizzonte ovest.

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Via Lattea fotografata dalle colline del Parco dei Gessi bolognesi e dei Calanchi dell’Abbadessa. Crediti: Luca Benassi

Il 28 luglio potrebbe essere un’occasione per osservare Mercurio perché in questo giorno il pianeta sarà alla massima altezza sull’orizzonte. Sarà molto difficile osservarlo perché raggiungerà il massimo 10 gradi sopra l’orizzonte ovest, al tramonto.

Per chi ha la possibilità e la fortuna di cieli bui, in questo mese la Via Lattea è padrona della volta celeste. In corrispondenza della costellazione del Sagittario o dell’asterismo della teiera la nostra galassia si mostra in tutta la sua bellezza. In questa zona, vicino al centro galattico, con un binocolo non sarà difficile rendersi conto della miriade di ammassi e nebulose presenti. Con un telescopio lo spettacolo è assicurato.

Il triangolo estivo – formato dalle stelle Deneb nella costellazione del Cigno, Vega nella costellazione della Lira e Altair in quella dell’Aquila – è il tipico asterismo di questa stagione. Sono le prime tre stelle visibili all’imbrunire che fanno capo alle altrettante tre costellazioni. La costellazione del Cigno è particolarmente interessante per la stella doppia che forma la sua testa: Albireo, una bellissima coppia di stelle le cui componenti sono una arancione e l’altra azzurra. Un contrasto di colori mozzafiato chi la osserva al telescopio.

La costellazione della Lira ha al suo interno una delle nebulose planetarie più osservate: la nebulosa ad anello M57, un resto di una stella morente simile al Sole. Infine, per rimanere sulla scia della Via Lattea, è interessante la costellazione dello Scudo, tra quella dell’Aquila e la costellazione del Sagittario. Tra i vari ammassi osservabili spicca M11, facilmente visibile con un buon binocolo: uno dei più ricchi e densi ammassi aperti, formato da circa 2900 stelle, con un’età stimata di 250 milioni di anni.

Guarda la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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Partita la missione europea Euclid


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Crediti: SpaceX

Nasce da lontano la conoscenza della geometria che, grazie al matematico e filosofo greco Euclide, ha rivoluzionato la misura dello spazio, anche con le leggi che portano il suo nome. Euclid, non a caso, è anche il nome della missione appena decollata da Cape Canaveral. Si tratta di un programma scientifico dell’Esa, uno dei più ambiziosi nel quale l’Italia, attraverso l’Agenzia spaziale italiana (Aso), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), gioca un ruolo da protagonista. Il satellite Euclid ospita un telescopio a specchio di 1,2 metri di diametro e due strumenti scientifici, il Vis (Visible Instrument) e il Nisp (Near Infrared Spectrometer Photometer), che avranno l’obiettivo principale di osservare il cielo extragalattico con lo scopo di ottenere immagini con altissima risoluzione e misurare gli spettri di milioni di galassie.

Lo scopo scientifico di Euclid è comprendere dettagliatamente la natura della materia oscura e dell’energia oscura, uno dei temi di maggiore interesse nell’astrofisica moderna in quanto queste due componenti, misteriose e invisibili, costituiscono il 95 per cento della composizione dell’universo. La missione raggiungerà questo obiettivo attraverso l’osservazione e lo studio di due fenomeni cosmologici diversi e indipendenti: il lensing gravitazionale debole, cioè l’apparente distorsione dell’immagine delle galassie dovuta alla distribuzione non omogenea della materia oscura lungo la linea di vista, e le oscillazioni acustiche della materia visibile (detta barionica) e il clustering delle galassie. Questo studio combinato porrà vincoli sull’equazione che descrive le proprietà dell’energia oscura, potendo permettere di capire se, ad esempio, questa evolva con l’espansione cosmica o sia necessario considerare modifiche alla teoria della relatività generale di Einstein. Euclid, che ha una massa di circa 2100 chilogrammi, è stato lanciato oggi dalla piattaforma numero 40 della base di Cape Canaveral Space Force Station con un vettore Falcon 9 e sarà posizionato, nelle prossime settimane, in orbita attorno al punto lagrangiano L2, uno dei punti di equilibrio gravitazionale del sistema Sole-Terra, a 1,5 milioni di km dal nostro pianeta.

«Con il lancio di Euclid si inaugura una nuova era per la cosmologia», commenta Marco Tavani, presidente Inaf. «È sconcertante pensare come il 95 per cento dell’universo continui a sfuggirci, nonostante gli enormi balzi nella comprensione del cosmo realizzati negli ultimi decenni. Cos’è la misteriosa materia oscura, che tiene insieme le strutture cosmiche e supera di circa cinque volte quella visibile? E l’energia oscura, ancor più elusiva, che guida l’attuale espansione accelerata del cosmo? Sono questi gli affascinanti interrogativi che affronterà Euclid, un’incredibile missione spaziale europea, di cui l’Italia è tra i maggiori partecipanti. Al nostro Paese fa capo infatti circa un quarto di tutto l’impegno necessario per realizzare e far funzionare il satellite, nonché per sfruttare i risultati scientifici della missione. L’Istituto nazionale di astrofisica ha il prestigioso e delicato compito di guidare l’intero Science Ground Segment, che coordina l’elaborazione e l’analisi dell’immensa mole di dati raccolti dalla sonda, una volta inviati a terra. Ha inoltre progettato il software per i due strumenti di bordo, il cervello scientifico della missione, e gestirà, una volta in volo, le operazioni di uno di essi, lo spettrografo per il vicino infrarosso Nisp».

«Oggi è un altro importante giorno per lo spazio italiano sia sotto l’aspetto scientifico sia industriale. Il lancio di Euclid», sottolinea Teodoro Valente, presidente Asi, «aprirà nuove strade alla comprensione di noi e dell’universo che ci circonda. Missioni di questo calibro sono la conferma del ruolo che gioca la ricerca scientifica nello sviluppo della conoscenza e della crescita a tutto tondo. Un importante programma nel quale l’Asi ha coordinato un insieme importante realtà nazionali, un lavoro che ci permette di metterle a disposizione di un ambizioso progetto europeo il patrimonio di saper fare e che fa salire il nostro Paese sul palco dei protagonisti. Euclid, che ha visto la collaborazione di oltre 200 fra scienziati e ricercatori italiani, rappresenta una eccellenza che rende lustro alla filiera spaziale italiana».

«Euclid rappresenta la prima iniziativa Infn dedicata al tema dell’energia oscura», aggiunge Antonio Zoccoli, presidente Infn. «L’Istituto nazionale di fisica nucleare ha infatti contribuito alla realizzazione dello strumento Nisp e ora collaborerà all’analisi dei dati che saranno raccolti dal telescopio, mettendo a disposizione anche risorse di calcolo, con l’obiettivo principale di focalizzarsi sullo studio dell’energia oscura e sulla misura della massa del neutrino. Se le ricerche sull’energia oscura rappresentano perciò una novità per il nostro Istituto, quelle dedicate alle misure dirette e indirette delle proprietà dei neutrini rientrano invece tra le ricerche di punta dell’Infn, che, grazie alla sua partecipazione a Euclid, potrà ora integrare le proprie attività e la sua lunga tradizione in questo settore con una nuova tipologia di dati acquisiti con tecniche di tipo astrofisico».

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Infografica sugli strumenti Vis e Nisp di Euclid. Crediti: Esa

L’Asi, in collaborazione con l’Inaf e l’Infn, ha guidato il team industriale che ha progettato e realizzato i contributi agli strumenti, formato da un’Associazione temporanea d’imprese con Ohb Italia mandataria, Sab Aerospace e Temis mandanti mentre la leadership per la realizzazione della piattaforma è stata affidata da Esa a Thales Alenia Space Italia del gruppo Leonardo.

L’Asi, inoltre, supporta l’Inaf nell’importante ruolo di guida del Science Ground Segment e per lo sviluppo del software di bordo dei due strumenti e tutti gli enti di ricerca per le attività nei Science Working Groups. Infine l’Asi ha affidato ad Altec le attività industriali per la progettazione e la realizzazione del Science Data Center italiano della missione sotto la guida di dell’Inaf. Ulteriori risorse di calcolo necessarie per l’analisi dati e per le simulazioni dei risultati scientifici saranno inoltre fornite alla componente italiana della missione dall’Infn.

In Euclid sono coinvolti oltre duecento scienziati e scienziate italiani, appartenenti all’Inaf, all’Infn e a numerose università, in primo luogo l’Università di Bologna e poi Università di Ferrara, Università di Genova, Università Statale di Milano, Università di Roma Tre, Università di Trieste, Sissa e Cisas.

Al lancio seguirà un’intensa fase di tre mesi di test e calibrazione del veicolo spaziale e degli strumenti scientifici in volo, in preparazione alle osservazioni. Nell’arco di sei anni, Euclid osserverà un terzo del cielo con precisione e sensibilità senza precedenti. Alla fine della sua vita operativa, prevista al momento intorno a sei anni, Euclid avrà prodotto immagini e dati fotometrici per più di un miliardo di galassie e milioni di spettri di galassie, dati che saranno di grande importanza anche per molti altri settori dell’astrofisica.

L’Agenzia spaziale italiana ha partecipato, inoltre, alle operazioni di lancio monitorando il satellite dalla sua base di Malindi, il Luigi Broglio Space Center, in Kenya. Le stazioni di terra del Broglio Space Center sono localizzate in una posizione privilegiata per osservare gli eventi chiave della missione. La base di Malindi ha, quindi, effettuato attività di supporto sin dalle prime fasi di partenza tracciando la traiettoria del vettore Falcon 9 e acquisendo il primo segnale di Euclid appena 30 minuti dopo il decollo, per poi eseguire il monitoraggio fino a sei ore dopo la partenza.

Per saperne di più:

Rivedi la live del lancio sul canale YouTube dell’Esa:

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Una notte al Tng per Raffaele e Chiara


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Raffaele e Chiara davanti allo specchio primario del Tng. Crediti: Inaf / Tng

I due primi classificati nella categoria senior della XXI edizione dei Campionati Italiani di Astronomia, Raffaele Stoppa (Liceo Scientifico Francesco Ribezzo Francavilla Fontana, Brindisi) e Chiara Luppino (Liceo Scientifico Leonardo da Vinci, Reggio Calabria), hanno appena concluso il loro stage di formazione presso il Telescopio Nazionale Galileo (Tng) organizzato nell’ambito dei Campionati Italiani di Astronomia 2023.

Chiara e Raffaele hanno visitato – sotto la mia guida, quale responsabile dell’organizzazione dello stage – l’isola di La Palma dal 22 al 27 giugno scorso, accompagnati da Angela Misiano (Società Astronomica Italiana), Agatino Rifatto (Inaf Osservatorio Astronomico di Capodimonte) e Anna Brancaccio (Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la Valutazione del Sistema Nazionale di Istruzione).

Il primo giorno sull’isola li ha visti presenti negli uffici della Fgg-Inaf, fondazione Canaria che gestisce il Tng, dove sono stati accolti dal direttore Adriano Ghedina e dallo staff, e dove hanno seguito una mia lezione come introduzione alla successiva visita all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos e alle osservazioni schedulate al Tng per la notte del 24 giugno.

Dopo un’ora di viaggio in auto, i ragazzi hanno raggiunto l’Osservatorio del Roque de Los Muchachos, situato a quasi 2500 metri sul livello del mare, sulla Caldera de Taburiente, il vulcano ormai spento che domina l’isola.

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Chiara e Raffaele durante le osservazioni dello spettro della Sn2023 Ixf. Crediti: Inaf / Tng

Dopo aver riservato le stanze e la cena nella residencia, l’hotel che ospita gli astronomi durante i loro momenti di riposo, Chiara e Raffaele hanno avuto la possibilità di visitare il Gran Telescopio Canarias (Gtc), con uno specchio primario di 10,4 metri. Tra i momenti più emozionanti della visita va menzionato quello in cui il grande telescopio e la grande cupola hanno iniziato a muoversi sotto i loro occhi. Ma non solo: grazie alla disponibilità dello staff del Gtc, i ragazzi sono riusciti a muovere le 400 tonnellate di telescopio solo con la forza delle loro braccia, questo grazie a un cuscinetto idrostatico che permette la riduzione dell’attrito durante i movimenti del telescopio stesso.

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Spettro non calibrato di Sn2023 Ixf osservato da Raffaele e Chiara con lo strumento Lrs@Tng. Sulla destra è ben visibile la riga in emissione H-alfa. Crediti: Inaf / Tng

Ma questi momenti sono stati solo l’inizio di una serata ancor più emozionante. Ritornati al Tng, Chiara e Raffaele hanno potuto assistere in diretta all’apertura della cupola del più grande telescopio ottico/infrarosso italiano e ai test di inizio notte che implicano movimenti in elevazione e azimuth del telescopio stesso. Finiti i test, e subito dopo il tramonto, la sala di controllo con i suoi tanti computer ha atteso i ragazzi per vivere la loro prima esperienza da astronomi.

Insieme ai loro insegnanti e allo staff del telescopio (Carmen Padilla Torres, operatore al telescopio, Marco Pedani, astronomo di supporto e la sottoscritta), Chiara e Raffaele hanno iniziato a familiarizzare con Dolores, lo strumento che avrebbero usato durante la notte per l’osservazione della supernova SN2023 ixf.

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Immagine in tre colori della galassia M101 con la Sn2023 Ixf osservata da Chiara e Raffaele utilizzando lo strumento Lrs@Tng. Crediti: A. Harutyunyan.

La supernova e la sua galassia ospite, M101, sono state osservate in tutta la loro bellezza nei tre filtri blu, verde e rosso, con lo scopo di costruirne un’immagine a tre colori. Per rendere quest’esperienza ancora più unica e mettere in pratica quanto appreso durante le ore di stage, Raffaele e Chiara hanno anche osservato uno spettro della supernova e fatto una pre-analisi dei risultati imparando a riconoscere le righe spettrali di una stella alla fine della sua vita.

Finalmente, subito prima di andare a dormire, hanno potuto ammirare lo spettacolare cielo notturno che sovrasta il Roque de Los Muchachos, realizzando così uno dei loro sogni: andare alle Canarie e passare una notte di osservazione al più grande telescopio italiano.


I Campionati Italiani di Astronomia sono banditi dal Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici, la Valutazione e l’internazionalizzazione del Sistema Nazionale di Istruzione e attuate dall Società Astronomica Italiana (SAIt) in sinergia con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf). Lo stage al Tng è parte integrante delle attività didattiche connesse ai Campionati e viene realizzato anche grazie al contributo della Fundación Galileo Galilei – Inaf Fundación Canaria.


Come nell’universo locale, così in quello lontano


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Immagine del quasar Hsc J2236+0032 ottenuta a 3.6 μm con lo strumento Nircam di Jwst. A sinistra, l’immagine complessiva; al centro, la luce deal quasar; a destra, la luce proveniente dalle stelle della galassia ospite (cliccare per ingrandire). Crediti: Ding, Onoue, Silverman et al.

Tutte le grandi galassie nell’universo ospitano un buco nero supermassiccio al loro centro, anche le galassie più lontane che si osservano nel cosmo più antico. Eppure i meccanismi che ne regolano la formazione sono ancora poco chiari. Gli astrofisici si domandano come si siano potuti formare buchi neri di massa considerevole nel poco tempo disponibile durante le fasi iniziali dell’universo, e si interrogano anche sulla possibile influenza reciproca tra i buchi neri e le loro galassie ospiti. Le osservazioni nell’universo locale mostrano infatti una chiara relazione tra la massa dei buchi neri supermassicci e quella, molto maggiore, delle galassie in cui risiedono, ma da cosa possa derivare questa relazione è ancora un mistero.

Un nuovo studio ha provato a far chiarezza grazie a nuove osservazioni del James Webb Space Telescope (Jwst). Il team di ricerca, guidato da ricercatori del Kavli Institute for the Physics and Mathematics of the Universe in Giappone e del Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics in Cina, ha rivelato per la prima volta la luce proveniente dalle stelle di due galassie che ospitano buchi neri in fervente attività – i cosiddetti quasar osservate quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni.

I nuovi dati hanno permesso di stimare la massa sia dei due buchi neri, pari rispettivamente a 1,4 e 0,2 miliardi di volte quella del Sole, che delle galassie, circa cento volte più massicce. E non solo: il lavoro trova che il rapporto tra le masse dei buchi neri e delle loro galassie ospiti, misurato quando l’universo aveva appena 860 milioni di anni, è simile a quello riscontrato nell’universo locale, circa tredici miliardi di anni dopo. Sembra dunque che la relazione tra buchi neri e galassie esistesse già meno di un miliardo di anni dopo il Big bang. I risultati sono stati pubblicati questa settimana sulla rivista Nature.

«Questa è la prima volta che si misura la massa stellare della galassia, che è quella che viene utilizzata per studiare la relazione tra la massa del buco nero e della galassia ospite nell’universo locale. In precedenza, la massa delle galassie ospiti di quasar a redshift maggiore di 6 (ovvero quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni d’età, ndr) era stimata a partire delle proprietà del gas utilizzando il telescopio Alma. È quindi finalmente possibile confrontare le stesse quantità nell’universo lontano e locale», spiega a Media Inaf Marta Volonteri, direttrice di ricerca presso l’Institut d’Astrophysique de Paris e co-autrice del nuovo studio. «Il risultato ha mostrato che la relazione tra la massa del buco nero e la massa della galassia ospite è simile a quella che si osserva nelle galassie vicine a noi, contrariamente ai quasar ancora più brillanti in cui, basandosi sui dati Alma (per questi quasar super brillanti non abbiamo ancora misurato le masse stellari con Jwst), il buco nero è più massiccio “di quanto dovrebbe essere”. Questo è esattamente quello che ci si aspettava».

Secondo Volonteri, che nel 2011 aveva calcolato teoricamente l’evoluzione di questo rapporto nel corso della storia cosmica, il risultato suggerisce che la maggior parte di buchi neri e galassie crescono di pari passo fin dall’inizio della loro storia – oltre 10 miliardi di anni fa. Già nel lavoro di dodici anni fa, la ricercatrice pregustava le osservazioni di Jwst per poter verificare questa ipotesi scrutando galassie lontanissime: il telescopio spaziale Hubble, infatti, era in grado di rilevare galassie ospiti di quasar luminosi quando l’universo aveva poco meno di 3 miliardi di anni, ma non più giovane.

«I quasar sono i più brillanti tra i nuclei galattici attivi la cui sorgente d’energia è l’accrescimento di gas su buchi neri supermassicci, e la luminosità prodotta dal buco nero è molto maggiore della luminosità della galassia ospite», aggiunge Volonteri. «Per osservare la galassia bisogna modellare e sottrarre la luminosità del quasar. Questo è fortunatamente possibile perché il quasar è una sorgente puntiforme: la dimensione della regione in cui la luminosità del buco nero è prodotta è comparabile a quella del Sistema solare, quindi circa un miliardo di volte più piccola delle dimensioni tipiche di una galassia».

Non è stata solo l’elevata risoluzione angolare di Jwst a permettere al team di ottenere queste immagini: osservando a lunghezze d’onda dell’infrarosso, il potente osservatorio spaziale può rivelare la radiazione che era stata originariamente emessa dalle galassie lontane sotto forma di luce visibile, la cui lunghezza d’onda è poi slittata nell’infrarosso a causa dell’espansione cosmica. Il telescopio Hubble, invece, osserva a lunghezze d’onda più piccole (nel visibile e vicino infrarosso) ed è dunque sensibile principalmente alla radiazione emessa dalle galassie nell’ultravioletto, che non traccia bene l’intera distribuzione stellare.

I due quasar erano stati scoperti originariamente con il telescopio Subaru, e sono diventati oggetti di interesse a causa della loro luminosità relativamente bassa, che ne avrebbe reso meno difficile misurare le proprietà della galassia ospite. I ricercatori e le ricercatrici continueranno questo studio su molti altri quasar, sia più brillanti che più deboli, utilizzando le osservazioni programmate per il primo ciclo di Jwst. «Con un campione più grande potremo finalmente quantificare in modo robusto la co-evoluzione tra buco nero e galassia ospite nel primo miliardo d’anni dell’universo», conclude Volonteri.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Detection of stellar light from quasar host galaxies at redshifts above 6” di Xuheng Ding, Masafusa Onoue, John D. Silverman, Yoshiki Matsuoka, Takuma Izumi, Michael A. Strauss, Knud Jahnke, Camryn L. Phillips, Junyao Li, Marta Volonteri, Zoltan Haiman, Irham Taufik Andika, Kentaro Aoki, Shunsuke Baba, Rebekka Bieri, Sarah E. I. Bosman, Connor Bottrell, Anna-Christina Eilers, Seiji Fujimoto, Melanie Habouzit, Masatoshi Imanishi, Kohei Inayoshi, Kazushi Iwasawa, Nobunari Kashikawa, Toshihiro Kawaguchi, Kotaro Kohno, Chien-Hsiu Lee, Alessandro Lupi, Jianwei Lyu, Tohru Nagao, Roderik Overzier, Jan-Torge Schindler, Malte Schramm, Kazuhiro Shimasaku, Yoshiki Toba, Benny Trakhtenbrot, Maxime Trebitsch, Tommaso Treu, Hideki Umehata, Bram P. Venemans, Marianne Vestergaard, Fabian Walter, Feige Wang e Jinyi Yang.


Jwst rileva emissione H-alfa all’alba cosmica


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Immagine Jwst dell’Hubble eXtreme Deep Field (Xdf) che mostra uno zoom per due delle galassie dell’epoca di reionizzazione. La luminosità delle due piccole immagini in basso a sinistra è prodotta dalla riga di emissione H-alfa. Crediti: P. Rinaldi (Rug), R. Navarro-Carrera (Rug), P. Cáceres-Burgos (Rug)

Un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’astrofisico Pierluigi Rinaldi dell’Università di Groningen ha rilevato per la prima volta la riga di emissione H-alfa in singole galassie durante l’epoca di reionizzazione.

Le galassie in cui è presente formazione stellare producono una grande quantità di fotoni ultravioletti, ma durante l’epoca di reionizzazione questi fotoni vengono assorbiti dal mezzo intergalattico. Il miglior tracciante per misurare il livello di formazione stellare è la riga di emissione H-alfa. Tale riga è caratteristica del salto quantico dell’elettrone di un atomo di idrogeno dal livello energetico n = 3 a n = 2. Ha una lunghezza d’onda di 656,281 nanometri ed è visibile nella parte rossa dello spettro elettromagnetico. Per le galassie con un elevato spostamento verso il rosso, questa riga nell’ottico viene spostata su lunghezze d’onda maggiori, nel vicino e medio infrarosso. Ed è proprio lì, in quella regione dello spettro elettromagnetico, che lo strumento Miri – acronimo di Mid-Infrared Instrument – a bordo del James Webb Space Telescope (Jwst), l’ha rilevata.

Lo studio che presenta la scoperta è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal e Media Inaf ha intervistato Rinaldi, il primo autore, per proporvi un’anticipazione dei risultati.

Avete rilevato, per la prima volta, emissione H-alfa da singole galassie all’epoca della reionizzazione. Di cosa si tratta?

«La detection di emissione H-alfa durante l’epoca della reionizzazione in galassie singole è estremamente importante per diversi motivi. Da un lato, ci dà l’idea di come questo tipo di ricerca possa ora essere svolto sistematicamente grazie al telescopio Jwst e in particolare grazie allo strumento Miri, che permette la detection di questa riga all’alba dell’universo primordiale. Prima del Jwst, questo non era possibile in singole galassie. Spitzer era l’unico strumento in grado di poter trovare questa riga a quei redshift, ma la sua risoluzione era di gran lunga inferiore rispetto a quello che possiamo permetterci ora col Jwst. Dall’altra parte, la detection di emissione H-alfa durante l’epoca della reionizzazione è estremamente importante perché ci permette di tracciare la storia di formazione stellare nelle galassie durante un periodo saliente della vita dell’universo, ovverosia quel momento in cui l’universo stesso passò dall’essere completamente “buio” (solo idrogeno neutro dopo la ricombinazione cosmica) all’essere completamente ionizzato (redshift pari a 6, ovvero un miliardo di anni dopo il Big bang) e pieno di galassie in grado di emettere fotoni capaci di raggiungerci oggi».

Perché non si riesce a vedere un’altra riga interessante, la Lyman-alfa (quella che corrisponde al salto dal livello energetico n = 2 a n = 1)?

«Questa domanda è interessantissima ed è la chiave del perché abbiamo deciso di studiare altre righe di emissione in questo studio (i.e., H-alfa e H-beta + [OIII]). La riga di emissione Lyman-alfa è una riga dalle proprietà molto particolari, ma allo stesso tempo soffre della presenza del mezzo intergalattico (Igm) neutro. Quindi più ci si spinge verso l’universo primordiale, quindi pieno di idrogeno neutro, più usare questa riga diventa complicato. Per anni le galassie Lyman Alpha Emitter sono state utilizzate per studiare l’universo ad alto redshift, ma i conteggi di queste galassie crollano drammaticamente a redshift maggiore di 7 (meno di 770 milioni di anni dopo il Big bang, ndr) a causa del fatto che i fotoni Lyman vengono immediatamente assorbiti una volta emessi nel mezzo intergalattico a quei redshift. Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di usare righe nell’ottico come quelle di cui sopra: queste non soffrono della presenza dell’Igm come la Lyman-alfa e ci danno l’opportunità unica di spingere i nostri studi a redshift più elevati e di studiare l’universo primordiale».

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L’astrofisico Pierluigi Rinaldi, dottorando dell’Università di Groningen e primo autore dello studio che verrà pubblicato su The Astrophysical Journal. Crediti: P. Rinaldi

Come è avvenuta l’osservazione?

«Come detto sopra, questa scoperta è stata possibile grazie all’utilizzo del Jwst e in particolare dello strumento Miri. In questo studio abbiamo utilizzato l’immagine più profonda dell’universo a 5.6 micron che è stata mai prodotta. Questi dati sono stati collezionati a dicembre scorso e sono parte del programma Miri Deep Imaging Survey (Midis), a cui partecipano numerosi astrofisici da diverse parti del mondo e fanno parte del Miri European Consortium».

Cosa comporta la vostra scoperta?

«La nostra scoperta apre le porte alla possibilità di studiare sistematicamente queste galassie nell’universo primordiale. Futuri studi ci permetteranno di collezionare una alta statistica per questo tipo di galassie e ci permetteranno di caratterizzare la storia di formazione stellare nelle galassie durante l’epoca della reionizzazione».

E adesso, quali sono i prossimi passi?

«Il prossimo step è sicuramente ottenere gli spettri per queste galassie e capire come queste abbiano giocato un ruolo fondamentale durante l’epoca della reionizzazione. La domanda è: questi forti emettitori sono i principali responsabili della reionizzazione dell’universo? Ancora non lo sappiamo, ma è l’oggetto di studio del nostro prossimo articolo che sarà presto fuori».


Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “MIDIS: Strong (Hb + [OIII]) and Ha emitters at redshift z≃7−8 unveiled with JWST/NIRCam and MIRI imaging in the Hubble eXtreme Deep Field (XDF)” di Rinaldi, K. I. Caputi, L. Costantin, S. Gillman, E. Iani, P. G. Perez Gonzalez, G. Oestlin, L. Colina, T. Greve, H. U. Noorgard-Nielsen, G. S. Wright, A. Alonso-Herrero, J. Alvarez-Marquez, A. Eckart, M. Garcia-Marin, J. Hjorth, O. Ilbert, S. Kendrew, A. Labiano, O. Le Fevre, J. Pye, T. Tikkanen, F. Walter, P. van der Werf, M. Ward, M. Annunziatella, R. Azzollini, A. Bik, L. Boogard, S. Bosman, A. Crespo, I. Jermann, D. Langeroodi, J. Melinder, R. Meyer, T. Moutard, F. Peissker, M. Topinka, E. van Dishoeck, M. Guedel, Th. Henning, P.-O. Lagage, T. Ray, B. Vandenbussche, C. Waelkens, R. Navarro-Carrera, V. Kokorev


Dentro la culla


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Granchio, testa di cavallo, occhio di gatto: a guardarlo bene, l’universo offre scorci mozzafiato, capaci di lasciare a bocca aperta e di solleticare la nostra fantasia. È così che finiamo per ritrovare figure familiari anche tra gli oggetti celesti, proprio come accade con le nuvole nel cielo.

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Particolare della Nebulosa della Carena immortalata da Jwst. Crediti: Nasa, Esa, Csa, and Stsci

C’è chi racconta di vederci delle colline e delle valli immerse in un mare di stelle e chi, invece, riconosce in questa immagine delle scogliere affacciate sull’oceano cosmico.

A catturare il panorama in questione è stato il James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale lanciato in orbita il giorno di Natale del 2021, che ha aperto una nuova finestra di osservazione sull’universo. Finestra dalla quale possiamo ammirare la scogliera cosmica, un’immensa distesa di gas e polvere presente in una delle più grandi fabbriche di stelle della nostra galassia, la Nebulosa della Carena.

Nello scatto, che è stata una delle prime fotografie rese pubbliche dalla Nasa nel luglio 2022, riusciamo a osservare il bordo di questa fabbrica o, per essere precisi, a guardarci attraverso. Webb infatti cattura una luce diversa da quella che vediamo con i nostri occhi, che è luce visibile: questo telescopio è sensibile agli infrarossi, un altro tipo di radiazione elettromagnetica che ha la capacità di attraversare indisturbata la polvere. Con gli occhi a infrarossi, allora, possiamo osservare dentro le regioni di formazione stellare, studiare i processi che permettono agli astri di accendersi e scovare stelle che fino a quel momento risultavano invisibili, brillanti ma nascoste dietro a banchi di polvere.

In questa regione, per esempio, ne sono state appena scoperte ventiquattro. Benvenuti alla luce, astri nascenti dell’universo.


Testo preparato da Edwige Pezzulli per la puntata di “Noos – L’avventura della conoscenza” andata in onda su Rai 1 giovedì 29 giugno 2023, disponibile su RaiPlay, e riproposto su Media Inaf per gentile concessione dell’autrice.

Guarda il video sul canale YouTube della Rai:

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Ferro liquido, dal cuore della Terra al laboratorio


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Infografica che rappresenta i due esperimenti che hanno consentito la misura della resistività del ferro a pressioni e temperature mai raggiunte prima. Crediti: Tokyo Tech

Nel cuore della Terra, così come in quello degli altri pianeti rocciosi del Sistema solare, scorre ferro liquido. Sul nostro pianeta, il ferro è anche l’elemento più abbondante in massa. Ma tutto quello che compone la crosta e che, in generale, abbiamo a disposizione, si trova allo stato solido.

Le proprietà del ferro allo stato liquido possono variare di molto, tanto che le attuali teorie che cercano di descriverle sono oggetto di dibattito fra scienziati e non sono ancora state verificate sperimentalmente. Non sappiamo, ad esempio, come cambia la resistività elettrica, ovvero la capacità del metallo di resistere al passaggio di corrente elettrica nelle condizioni di temperatura e pressioni estreme che ci sono al centro della Terra (e di altri pianeti). Un comportamento che potrebbe dirci molto sulla fisica planetaria nel Sistema solare e in altri pianeti che abbiamo trovato attorno ad altre stelle.

Il primo scoglio per misurare la resistività elettrica del ferro liquido è senz’altro la tecnica: occorre, infatti, raggiungere condizioni estreme. Tutti gli esperimenti di laboratorio svolti finora sono riusciti a spingersi a toccare al massimo i 51 Gigapascal (GPa) di pressione e 2900 gradi Kelvin (K) di temperatura: ancora lontani dalle condizioni del nucleo terrestre. La ragione principale è che è difficile mantenere intatte la forma e la composizione chimica del campione di ferro all’interno delle attuali apparecchiature ad alta pressione. Per questo motivo, fra i fisici sperimentali fa notizia che, pochi giorni fa, su Physical Review Letters, sia uscito uno studio di laboratorio in cui si descrivono due esperimenti che hanno consentito di misurare la resistività del ferro a 135 GPa and 6680 K.

Le due nuove tecniche sono state ideate e pensate nei laboratori del Tokyo Institute of Technology, in Giappone, e prevedono l’uso di una cella a incudine di diamante – Dac, dall’inglese diamond anvil cell – che esercita una pressione incredibilmente elevata su un campione, comprimendolo tra le facce piane di due diamanti contrapposti. Le vedete rappresentate entrambe nell’infografica qui sopra. Nella prima tecnica, quella di sinistra, i ricercatori hanno utilizzato una capsula di zaffiro per contenere il campione di ferro nella Dac, e l’hanno riscaldato con un laser e una corrente elettrica. La capsula serviva per mantenere inalterata la geometria del campione di ferro durante la fusione e per ridurre al minimo le differenze di temperatura all’interno del campione. Nella seconda tecnica, invece di preservare la forma del campione durante il processo di fusione, incapsulandolo, i ricercatori hanno utilizzato potenti laser per fondere istantaneamente il materiale, con l’obiettivo di misurarne rapidamente la resistenza (con una risoluzione al millisecondo), la diffrazione ai raggi X e la temperatura, prima che avesse il tempo di cambiare la sua geometria. Due tecniche ingegnose che hanno permesso di raggiungere pressioni (la prima) e temperature (la seconda) più di due volte maggiori di quelle finora sperimentate.

Che risposta hanno dato, questi esperimenti, agli scienziati che dibattono sulle teorie di previsione del comportamento del ferro liquido? Innanzitutto, che la sua resistività non varia molto al variare della temperatura. Poi, che il suo comportamento segue abbastanza bene le predizioni teoriche anche a pressioni molto elevate, compresa un’anomalia intorno ai 50 GPa, probabilmente dovuta a una transizione magnetica graduale.

Queste evidenze sono importanti perché ci sono alcune discrepanze tra le previsioni teoriche e i dati sperimentali sulla resistività del ferro liquido, soprattutto a pressioni inferiori a 50 GPa. I risultati di questo studio contribuiranno quindi a chiarire l’origine di queste discrepanze e aiuteranno i fisici a sviluppare modelli e teorie più accurate sul comportamento del ferro. A sua volta, questo potrebbe portare a una comprensione più completa dei nuclei terrestri e dei fenomeni correlati, come i campi magnetici planetari.

Per saperne di più:


Neutrini dalla Via Lattea nei ghiacci di IceCube


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IceCube al tramonto e la Via Lattea. Crediti: Martin Wolf, IceCube/Nsf

Inseguita senza successo da generazioni di astrofisici, l’emissione diffusa di neutrini ad alta energia provenienti dalla Via Lattea è stata finalmente confermata grazie ad IceCube, l’enorme rete di cinquemila fotomoltiplicatori calati nei ghiacci del Polo Sud a formare un rivelatore da un chilometro cubo – il più grande al mondo per lo studio di queste inafferrabili particelle.

Fino a oggi, i neutrini ad alta energia – parliamo di teraeletronvolt (Tev), se non addirittura di petaeletronvolt (PeV) – osservati dai rivelatori avevano per lo più origine extragalattica: provenivano dai nuclei attivi di remote galassie, in particolare dai blazar. Blazar che agiscono da acceleratori di particelle di potenza inimmaginabile, sparando raggi cosmici a energie anche centinaia di volte superiori a quelle raggiungibili dai protoni che viaggiano al Cern nell’anello di Lhc. Raggi cosmici che a loro volta, entrando in collisione con altri nuclei a velocità prossime a quella della luce, danno vita – proprio come accade al Cern – a nuove particelle dalla vita effimera, il cui decadimento produce raggi gamma e, appunto, neutrini.

Essendoci dunque il medesimo processo fisico all’origine sia dell’emissione gamma che dei neutrini ad alta energia, è ragionevole attendersi che una forte emissione gamma – come quella registrata dal piano galattico – sia accompagnata da un flusso di neutrini. Tanto più che quest’ultimi non c’è nulla che li fermi. C’è però un problema: il rumore di fondo. I fotomoltiplicatori di IceCube si eccitano infatti non solo per i segnali prodotti dai rari neutrini provenienti dallo spazio che riescono a intercettare, ma anche ­– per esempio – per quelli dovuti ai muoni atmosferici. Per abbattere questo rumore gli scienziati di IceCube hanno escogitato una soluzione ingegnosa: usano il nostro pianeta come un immenso filtro, tenendo conto solo dei segnali prodotti da particelle che arrivano non dall’alto bensì dal basso. Particelle, dunque, che sono arrivate al Polo Sud entrando dall’emisfero boreale e attraversando la Terra per migliaia di km: un’impresa che solo entità inarrestabili come i neutrini sono in grado di compiere.

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Rappresentazione artistica della Via Lattea “vista” attraverso i neutrini (in blu). Crediti: IceCube Collaboration/U.S. National Science Foundation (Lily Le & Shawn Johnson)/Eso (S. Brunier)

Soluzione ingegnosa, ma con un effetto indesiderato: usando questa tecnica occorre rinunciare in partenza a tutti i segnali provenienti dal cielo australe. Proprio quello in cui si trova il centro galattico, e dal quale è dunque ragionevole attendersi la maggiore emissione di neutrini galattici. Ecco così che, paradossalmente, è stato fino a oggi più facile confermare l’emissione di neutrini da remote galassie che dal cuore della Via Lattea.

Per uscire dall’impasse è stato necessario fare ricorso a un filtro differente: al posto della Terra, l’intelligenza artificiale. È infatti proprio facendo scremare dieci anni di dati da nuovi algoritmi di machine learning che gli scienziati della IceCube Collaboration sono infine riusciti a ottenere la prima prova statisticamente significativa (in gergo tecnico, siamo a 4.5 sigma) dell’emissione di neutrini dal piano galattico. Un eccesso di neutrini, riportato oggi su Science, coerente con la distribuzione e le interazioni dei raggi cosmici all’interno della nostra galassia previste dagli scienziati.

Per giungere a questa importante conclusione, al ricorso all’intelligenza artificiale si è dovuto affiancare anche un complesso esercizio teorico di interpretazione dei risultati. E in questo ha avuto un ruolo cruciale il lavoro di un team di ricercatori italiani esterni alla IceCube Collaboration: Daniele Gaggero e Dario Grasso della Sezione Infn di Pisa, Antonio Marinelli dell’Università di Napoli Federico II e della Sezione Infn di Napoli (nonché associato Inaf), Alfredo Urbano e Mauro Valli della Sapienza e della Sezione Infn di Roma. È grazie a un loro particolare modello – il cosiddetto modello Kra-gamma – che è stato possibile spiegare alcuni aspetti inattesi dei dati osservati.

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In alto, la Via Lattea in luce visibile. In basso, la Via Lattea rilevata attraverso l’emissione di neutrini. Crediti: IceCube Collaboration/U.S. National Science Foundation (Lily Le & Shawn Johnson)/Eso (S. Brunier)

«L’identificazione di un debole fondo diffuso come quello galattico», spiega Dario Grasso a Media Inaf, «è molto più complicata di quella delle sorgenti puntiformi. Per farlo la collaborazione IceCube ha utilizzato dei modelli (o cosiddetti template) nella forma di distribuzioni spaziali (mappe) e in energia dell’emissione attesa che sono stati confrontati statisticamente con l’insieme degli eventi di neutrino da loro rivelati. Noi gli abbiamo fornito due di questi template, fra cui quello che è poi risultato in miglior accordo con i loro dati».

L’esistenza dell’emissione diffusa di natura adronica dalla Via Lattea si estende infatti, inaspettatamente, fino a energie oltre il PeV con un flusso ben superiore a quello predetto dai modelli convenzionali di trasporto dei raggi cosmici ma in accordo, appunto, con il modello Kra-gamma. Se i modelli convenzionali fossero stati corretti, IceCube non avrebbe avuto, ancora per diversi altri anni, statistica sufficiente per rivelare l’emissione galattica.

«La forte evidenza della Via Lattea come sorgente di neutrini ad alta energia ha superato i rigorosi test della Collaborazione», conclude il portavoce di IceCube, Ignacio Taboada, del Georgia Institute of Technology. «Il prossimo passo sarà identificare sorgenti specifiche all’interno della galassia».

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Le pulsar ci svelano il respiro dello spazio-tempo


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Rappresentazione artistica di una pulsar. Crediti: Nasa

In una serie di articoli pubblicati oggi sulla rivista Astronomy and Astrophysics, gli scienziati dello European Pulsar Timing Array (Epta), in collaborazione con i colleghi indiani e giapponesi dell’Indian Pulsar Timing Array (InPta), riportano i risultati ottenuti analizzando dati raccolti in oltre 25 anni, che promettono di condurre a scoperte senza precedenti nello studio della formazione e dell’evoluzione del nostro universo e delle galassie che lo popolano.

«I risultati presentati oggi dalla collaborazione Epta sono straordinari per la loro importanza scientifica e per le prospettive future di ulteriore consolidamento dei risultati», commenta Marco Tavani, presidente dell’Inaf. «L’astrofisica italiana e l’Inaf sono leader mondiali in una grande impresa finalizzata a esplorare il cosmo con le onde gravitazionali, un filone di ricerca che vedrà l’Italia protagonista nei prossimi anni».

L’Epta è una collaborazione di scienziati di undici istituzioni in tutta Europa, fra cui due in Italia (l’Inaf con la sua sede di Cagliari e l’Università di Milano-Bicocca), e riunisce astronomi e fisici teorici, al fine di utilizzare le osservazioni degli impulsi ultra regolari provenienti da stelle di neutroni chiamate pulsar per costruire un rilevatore di onde gravitazionali delle dimensioni della nostra galassia. Infatti le pulsar si comportano come orologi naturali di alta precisione e dalla misura ripetuta di piccolissime variazioni (inferiori ad un milionesimo di secondo e correlate fra loro) nei tempi di arrivo dei loro impulsi è possibile misurare le minute dilatazioni e compressioni dello spazio-tempo provocate dal passaggio di onde gravitazionali provenienti dall’universo lontano.

Questo gigantesco rivelatore di onde gravitazionali – che dalla Terra si estende in direzione di 25 pulsar, selezionate all’interno della nostra Via Lattea e distanti migliaia di anni luce da noi – rende possibile sondare un tipo di onde gravitazionali aventi un ritmo lentissimo, corrispondente a lunghezze d’onda enormemente più lunghe di quelle osservate, a partire dal 2015, dai cosiddetti interferometri per onde gravitazionali, tra cui spiccano Virgo a Cascina (vicino a Pisa) e Ligo negli Stati Uniti.

All’Inaf di Cagliari, l’entusiasmo è palpabile. «Grazie alle osservazioni di Epta, stiamo aprendo una nuova finestra nell’universo delle onde gravitazionali ultra lunghe (corrispondenti a frequenze di oscillazione del miliardesimo di hertz) che sono associate a sorgenti e fenomeni unici», dice la ricercatrice Caterina Tiburzi.

«Queste onde gravitazionali», precisa la collega Marta Burgay, «ci permettono di studiare alcuni dei misteri finora irrisolti nell’evoluzione dell’universo, fra cui, ad esempio, le proprietà della elusiva popolazione cosmica dei sistemi binari formati da due buchi neri supermassici, aventi masse miliardi di volte maggiori di quella del Sole». Questi buchi neri si trovano ad orbitare al centro di galassie che stanno fondendosi l’una con l’altra, e durante il loro orbitare, la teoria della relatività generale di Albert Einstein prevede che emettano onde gravitazionali ultra lunghe.

Gli strumenti utilizzati per raccogliere i dati sono l’Effelsberg Radio Telescope in Germania, il Lovell Telescope dell’Osservatorio Jodrell Bank nel Regno Unito, il Nancay Radio Telescope in Francia, il Westerbork Radio Synthesis Telescope nei Paesi Bassi, e il Sardinia Radio Telescope (Srt) in Italia.

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Crediti: Epta

«Questi risultati», aggiunge l’astronoma Delphine Perrodin, sempre dell’Inaf di Cagliari, «si basano su decenni di certosine e instancabili campagne di osservazione effettuate utilizzando i cinque più grandi radiotelescopi in Europa. Inoltre, una volta al mese i dati di questi telescopi vengono anche sommati fra loro, aumentando ulteriormente la sensibilità dell’esperimento».Queste osservazioni sono poi state ulteriormente integrate dai dati forniti dal Giant Metrewave Radio Telescope in India, con ciò rendendo l’insieme di dati ancora più accurato.

«È una grande soddisfazione per tutta l’astrofisica italiana che Srt, il grande radiotelescopio gestito da Inaf, sia fra i testimoni dell’emergere nei dati di questo lento respiro dello spazio-tempo», spiega Andrea Possenti, primo ricercatore dell’Inaf di Cagliari e fra i fondatori di Epta, assieme all’ex presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica Nichi D’Amico. «Si tratta di nuovo grande risultato scientifico, che conferma, a livello mondiale, il ruolo centrale dell’Italia, e vieppiù della Sardegna (con Srt e speriamo presto anche con l’Einstein Telescope), nello studio delle onde gravitazionali per molti decenni a venire».

I risultati dell’Epta si confrontano con una serie di pubblicazioni indipendenti oggi annunciate in parallelo da altre collaborazioni in tutto il mondo, facenti capo agli esperimenti di tipo Pta (Pulsar timing array) australiano, cinese e nordamericano, noti rispettivamente come Ppta, Cpta e NanoGrav. I vari risultati sono consistenti fra tutte le collaborazioni, ciò che corrobora ulteriormente la presenza nei dati di un segnale dovuto ad onde gravitazionali. Il lavoro però non termina qui, in quanto la natura stessa del segnale osservato prevede che esso si manifesti in maniera progressivamente più chiara. «Ho cominciato il mio dottorato al momento giusto», ricorda Francesco Iraci, dottorando dell’Università di Cagliari che da circa un anno svolge le sue ricerche presso l’Inaf di Cagliari proprio nel contesto di Epta, «non vedo l’ora di contribuire all’ulteriore affinamento dei dati».

Infatti, ai fini di conclamare definitivamente la scoperta di un nuovo fenomeno, è buon uso in fisica che il risultato dell’esperimento abbia una probabilità di verificarsi in modo casuale meno di una volta su un milione di casi.Il risultato riportato da Epta – così come dalle altre collaborazioni internazionali – si avvicina, ma ancora non soddisfa appieno questo criterio: infatti c’è ancora circa una probabilità su mille che fonti di rumore casuali congiurino per generare il segnale. Dopo aver completato le loro analisi in modo indipendente, i ricercatori delle quattro collaborazioni – Epta, InPta, Ppta e NanoGrav – stanno ora direttamente combinando i loro dati all’interno del coordinamento dell’International Pulsar Timing Array. L’obiettivo è quello di sfruttare misure effettuate su un campione complessivo di oltre cento pulsar, osservate con tredici radiotelescopi in tutto il mondo. L’accresciuta quantità e qualità dei dati dovrebbe dunque fornire agli astronomi la prova inconfutabile che una nuova era nell’esplorazione dell’Universo è iniziata.

Guarda il servizio video sul canale YouTube MediaInaf Tv:

youtube.com/embed/OnekaCIWQcU?…

Per saperne di più, leggi il preprint dei sei articoli in pubblicazione su Astronomy and Astrophysics:

  • The second data release from the European Pulsar Timing Array I. The dataset and timing analysis”, di J. Antoniadis, S. Babak, A.-S. Bak Nielsen, C. G. Bassa, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, G. Desvignes, M. Falxa, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, B. Goncharov, E. Graikou, J.-M. Grießmeier, L. Guillemot, Y. J. Guo, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, R. A. Main, M. B. Mickaliger, I. C. Nitu, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, H. Quelquejay Leclere A. Samajdar, S. A. Sanidas, A. Sesana, G. Shaifullah, L. Speri, R. Spiewak, B. W. Stappers, S. C. Susarla, G. Theureau, C. Tiburzi, E. van der Wateren, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. P. W. Verbiest, J. Wang, L. Wang, Z. Wu
  • The second data release from the European Pulsar Timing Array II. Customised pulsar noise models for spatially correlated gravitational waves”, di J. Antoniadis, P. Arumugam, S. Arumugam, S. Babak, M. Bagchi, A. S. Bak Nielsen, C. G. Bassa, A. Bathula, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, S. Dandapat, D. Deb, S. Desai, G. Desvignes, N. Dhanda-Batra, C. Dwivedi, M. Falxa, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, B. Goncharov, A. Gopakumar, E. Graikou, J.-M. Grießmeier, L. Guillemot, Y. J. Guo, Y. Gupta, S. Hisano, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, B. C. Joshi, F. Kareem, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, D. Kharbanda, T. Kikunaga, N. Kolhe, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, Y. Maan, R. A. Main, M. B. Mickaliger, I. C. Niţu, K. Nobleson, A. K. Paladi, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, T. Prabu, H. Quelquejay Leclere, P. Rana, A. Samajdar, S. A. Sanidas, A. Sesana, G. Shaifullah, J. Singha, L. Speri, R. Spiewak, A. Srivastava, B. W. Stappers, M. Surnis, S. C. Susarla, A. Susobhanan, K. Takahashi, P. Tarafdar, G. Theureau, C. Tiburzi, E. van der Wateren, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. P. W. Verbiest, J. Wang, L. Wang, Z. Wu
  • The second data release from the European Pulsar Timing Array III. Search for gravitational wave signals”, di J. Antoniadis, P. Arumugam, S. Arumugam, S. Babak, M. Bagchi, A.-S. Bak Nielsen, C. G. Bassa, A. Bathula, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, S. Dandapat, D. Deb, S. Desai, G. Desvignes, N. Dhanda-Batra, C. Dwivedi, M. Falxa, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, B. Goncharov, A. Gopakumar, E. Graikou, J.-M. Grießmeier, L. Guillemot, Y. J. Guo, Y. Gupta, S. Hisano, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, B. C. Joshi, F. Kareem, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, D. Kharbanda, T. Kikunaga, N. Kolhe, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, Y. Maan, R. A. Main, M. B. Mickaliger, I. C. Nitu, K. Nobleson, A. K. Paladi, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, T. Prabu, H. Quelquejay Leclere, P. Rana, A. Samajdar, S. A. Sanidas, A. Sesana, G. Shaifullah, J. Singha, L. Speri, R. Spiewak, A. Srivastava, B. W. Stappers, M. Surnis, S. C. Susarla, A. Susobhanan, K. Takahashi, P. Tarafdar, G. Theureau, C. Tiburzi, E. van der Wateren, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. P. W. Verbiest, J. Wang, L. Wang, Z. Wu
  • The second data release from the European Pulsar Timing Array IV. Search for continuous gravitational wave signals”, di J. Antoniadis, P. Arumugam, S. Arumugam, S. Babak, M. Bagchi, A. S. Bak Nielsen, C. G. Bassa, A. Bathula, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, S. Dandapat, D. Deb, S. Desai, G. Desvignes, N. Dhanda-Batra, C. Dwivedi, M. Falxa, I. Ferranti, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, B. Goncharov, A. Gopakumar, E. Graikou, J. M. Grießmeier, L. Guillemot, Y. J. Guo, Y. Gupta, S. Hisano, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, B. C. Joshi, F. Kareem, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, D. Kharbanda, T. Kikunaga, N. Kolhe, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, Y. Maan, R. A. Main, S. Manzini, M. B. Mickaliger, I. C. Nitu, K. Nobleson, A. K. Paladi, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, T. Prabu, H. Quelquejay Leclere, P. Rana, A. Samajdar, S. A. Sanidas, A. Sesana, G. Shaifullah, J. Singha, L. Speri, R. Spiewak, A. Srivastava, B. W. Stappers, M. Surnis, S. C. Susarla, A. Susobhanan, K. Takahashi, P. Tarafdar, G. Theureau, C. Tiburzi, E. van der Wateren, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. P. W. Verbiest, J. Wang, L. Wang, Z. Wu
  • The second data release from the European Pulsar Timing Array: V. Implications for massive black holes, dark matter and the early Universe”, di J. Antoniadis, P. Arumugam, S. Arumugam, P. Auclair, S. Babak, M. Bagchi, A.-S. Bak Nielsen, E. Barausse, C. G. Bassa, A. Bathula, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, C. Caprini, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, M. Crisostomi, S. Dandapat, D. Deb, S. Desai, G. Desvignes, N. Dhanda-Batra, C. Dwivedi, M. Falxa, F. Fastidio, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, B. Goncharov, A. Gopakumar, E. Graikou, J.-M. Grießmeier, A. Gualandris, L. Guillemot, Y. J. Guo, Y. Gupta, S. Hisano, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, B. C. Joshi, F. Kareem, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, D. Kharbanda, T. Khizriev, T. Kikunaga, N. Kolhe, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, Y. Maan, R. A. Main, M. B. Mickaliger, H. Middleton, A. Neronov, I. C. Nitu, K. Nobleson, A. K. Paladi, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, T. Prabu, K. Postnov, H. Quelquejay Leclere, P. Rana, A. Roper Pol, A. Samajdar, S. A. Sanidas, D. Semikoz, A. Sesana, G. Shaifullah, J. Singha, C. Smarra, L. Speri, R. Spiewak, A. Srivastava, B. W. Stappers, D. A. Steer, M. Surnis, S. C. Susarla, A. Susobhanan, K. Takahashi, P. Tarafdar, G. Theureau, C. Tiburzi, R. J. Truant, E. van der Wateren, S. Valtolina, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. P. W. Verbiest, J. Wang, L. Wang, Z. Wu
  • The second data release from the European Pulsar Timing Array: VI. Challenging the ultralight dark matter paradigm”, di Clemente Smarra, Boris Goncharov, Enrico Barausse, J. Antoniadis, S. Babak, A.-S. Bak Nielsen, C. G. Bassa, A. Berthereau, M. Bonetti, E. Bortolas, P. R. Brook, M. Burgay, R. N. Caballero, A. Chalumeau, D. J. Champion, S. Chanlaridis, S. Chen, I. Cognard, G. Desvignes, M. Falxa, R. D. Ferdman, A. Franchini, J. R. Gair, E. Graikou, J.-M. Grie, L. Guillemot, Y. J. Guo, H. Hu, F. Iraci, D. Izquierdo-Villalba, J. Jang, J. Jawor, G. H. Janssen, A. Jessner, R. Karuppusamy, E. F. Keane, M. J. Keith, M. Kramer, M. A. Krishnakumar, K. Lackeos, K. J. Lee, K. Liu, Y. Liu, A. G. Lyne, J. W. McKee, R. A. Main, M. B. Mickaliger, I. C. Niţu, A. Parthasarathy, B. B. P. Perera, D. Perrodin, A. Petiteau, N. K. Porayko, A. Possenti, H. Quelquejay Leclere, A. Samajdar, S. A. Sanidas, A. Sesana, G. Shaifullah, L. Speri, R. Spiewak, B. W. Stappers, S. C. Susarla, G. Theureau, C. Tiburzi, E. van der Wateren, A. Vecchio, V. Venkatraman Krishnan, J. Wang, L. Wang, Z. Wu


I connotati d’un gigante gassoso


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I pianeti si formano dai dischi di polveri e gas che circondano giovani stelle in formazione. Dischi protoplanetari, è così che gli astronomi chiamano queste “culle cosmiche”. Il loro studio è di fondamentale importanza: è infatti osservando questi anelli che gli astronomi riescono a caratterizzare gli embrioni planetari e, più in generale, a comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione dei pianeti.

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Illustrazione artistica che mostra un pianeta simile a Giove che interagisce e riscalda il gas vicino, guidando i deflussi alla base della formazione del monosolfuro di silicio. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), M. Weiss (Nrao/Aui/Nsf)

Una delle facility utilizzate per scrutare questi dischi è l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma), una schiera di 66 radiotelescopi situati a 5000 metri di altitudine nel deserto di Atacama, in Cile. Riesaminando dati d’archivio ottenuti da questo array, un team di ricerca guidato dal Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian ha trovato, all’interno del disco protoplanetario di una giovane stella, la firma chimica più convincente mai ottenuta prima della formazione di un protopianeta.

La stella in questione è Hd 169142, un astro situato a circa 375 anni luce di distanza dalla Terra. L’embrione planetario invece è Hd 169142 b, un enorme ammasso di gas e ciottoli, la cui natura di pianeta in erba è stata confermata ad aprile 2023 da uno studio che ne ha rivelato il moto Kepleriano. Monossido di carbonio (CO), monossido di zolfo (SO) e monosolfuro di silicio (SIS), infine, sono le molecole individuate; molecole la cui scoperta, in associazione a un protopianeta, potrebbe rendere più facile in futuro rivelare, confermare e caratterizzare i protopianeti in formazione.

«Quando abbiamo osservato Hd 169142 e il suo disco a lunghezze d’onda submillimetriche, abbiamo identificato diverse firme chimiche convincenti di questo protopianeta gigante gassoso recentemente confermato», dice Charles Law, astronomo del Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian e primo autore dello studio, accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters, che riporta la scoperta. «Ora abbiamo la conferma che possiamo usare le firme chimiche per capire quali tipi di pianeti potrebbero formarsi nei dischi attorno alle giovani stelle».

Il monossido di carbonio e il monossido di zolfo sono molecole gassose che si ipotizza siano associate alla formazione planetaria. La loro presenza era già stata rilevata in passato in diversi dischi protoplanetari, compreso quello di Hd 169142. Il monosolfuro di silicio, invece, è un gas che non è mai stato rilevato prima d’ora in nessuna di queste strutture. Il fatto che Alma ne abbia rilevato le tracce nel disco di Hd 169142, spiegano i ricercatori, potrebbe essere la prova che Hd 169142 b sia un gigantesco protopianeta simile a Giove.

Il motivo di questa affermazione ha a che fare con la dinamica della formazione planetaria. Affinché il monosolfuro di silicio sia rilevabile in un disco è necessario che esso venga rilasciato dai grani di polvere lì presenti. Ciò avviene quando potenti onde d’urto “investono” questi grani causandone la distruzione, un comportamento che può verificarsi, ad esempio, se a produrre questi fronti d’onda è il veloce vorticare di un protopianeta gigante.

«Man mano che continueremo a esaminare più dischi attorno a giovani stelle, troveremo inevitabilmente altre molecole interessanti ma inaspettate come il monosolfuro di silicio», conclude Law. «Questa scoperta implica che stiamo guardando solo la punta dell’iceberg della diversità chimica associata agli ambienti protoplanetari».

Per saperne di più:


All’inferno e ritorno: Halla, il pianeta sopravvissuto


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Rappresentazione artistica del possibile scenario in cui Baekdu era in origine un sistema binario composto da una gigante rossa in stretta orbita attorno a una stella nana bianca. La vicinanza dei due membri della coppia avrebbe permesso il trasferimento di materiale tra le due stelle, portando alla loro fusione. Il pianeta Halla è qui in primo piano e orbita pericolosamente vicino, ma comunque abbastanza lontano da sopravvivere all’impatto della collisione esplosiva della coppia di stelle. Crediti: W. M. Keck Observatory/Adam Makarenko

Dal mito di Orfeo a Chuck Norris, passando per Dante, chi rientra da un viaggio all’inferno suscita una certa ammirazione. E da oggi la galleria dei sopravvissuti sembrerebbe arricchirsi di un nuovo eroe: Halla, un pianeta simile a Giove in orbita attorno a una stella a 520 anni luce da noi, una gigante rossa di nome Baekdu. Nel caso di Halla, a dire il vero, sarebbe stato l’inferno a viaggiare fino ad avvolgerlo, ampliando i propri confini al punto da inglobare il malcapitato pianeta. Eppure, ora che le fiamme si sono ritratte, lui è ancora lì che corre, seguendo un’orbita graziosamente circolare – lunga 93 giorni – attorno a Baekdu, beatamente ignaro di rappresentare, per gli astronomi che lo hanno scoperto, un rompicapo ancora senza spiegazione. Un mondo impossibile. Un mondo la cui esistenza è però confermata oggi su Nature da uno studio guidato da Marc Hon dell’Università delle Hawaii.

Tutto ha inizio nel 2015, quando un team di astronomi coreani, utilizzando il metodo della velocità radiale, scopre in orbita attorno stella 8 Ursae Minoris – questo il nome scientifico di Baekdu – le tracce di un gigante gassoso simile a Giove: Halla, appunto, alias 8 Ursae Minoris b. Nulla di strano, se non fosse che la distanza che separa Halla dalla sua stella – 0.46 unità astronomiche, dunque meno della metà di quella che separa la Terra dal Sole – è inferiore al raggio raggiunto dalla stella stessa nell’epoca di massima espansione. Il raggio dell’inferno solcato da Halla, dunque.

A dirlo sono i dati sulle oscillazioni stellari di Baekdu raccolti da Tess, il Transiting Exoplanet Survey Satellite della Nasa. Dati dai quali si evince che la stella, nel suo nucleo, già sta bruciando elio: segno che ha attraversato una fase di enorme espansione sotto forma di gigante rossa – fase tipica della storia evolutiva di queste stelle. Un destino non dissimile, vale la pena ricordare, da quello al quale andrà incontro fra circa cinque miliardi di anni il Sole – e di conseguenza il nostro pianeta.

Quantomai perplessi dall’aver scoperto che, un tempo, la stella doveva essere stata più grande dell’orbita del pianeta, gli astronomi hanno voluto verificare che davvero Halla si trovasse proprio lì. Tra il 2021 e il 2022 hanno dunque ripetuto le misure già compiute nel 2015 dalle Hawaii, utilizzando lo spettrometro ad alta risoluzione HiRes dell’Osservatorio Keck e lo spettropolarimetro Espadons del Canada-France-Hawaii Telescope. Risulatto: Halla è sempre lì, e la sua orbita è rimasta stabile per oltre un decennio.

Com’è possibile? Non si può escludere che quando la stella divenne una gigante rossa Hella non si trovasse lì dov’è ora ma assai più lontano, a distanza di sicurezza, e che sia migrato verso le regioni interne del sistema solo in un secondo tempo. Gli astronomi la considerano però un’ipotesi alquanto inverosimile, soprattutto considerando la rapidità con la quale evolve una stella in quelle fasi concitate. D’altronde è inverosimile anche lo scenario “romantico” del pianeta-eroe che attraversa indenne una gigante rossa.

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«Sembra altamente improbabile che Halla possa essere sopravvissuto all’inghiottimento della sua stella ospite in rapida evoluzione: l’espansione della stella avrebbe distrutto il pianeta», dice infatti a Media Inaf una delle coautrici dello studio, Amalie Stokholm, ricercatrice all’Università di Bologna e associata Inaf. «Tuttavia, ci sono altri scenari che potrebbero spiegare questa configurazione sconcertante. Una possibilità è che il suo sistema ospite avesse in origine un aspetto molto diverso da quello che osserviamo oggi. Riteniamo che la stella ospite possa essere stata in origine un sistema binario [vedi l’animazione qui sopra, ndr]. La fusione delle due stelle potrebbe aver impedito a ciascuna di esse d’espandersi a tal punto da inghiottire il pianeta. In questo caso, Halla orbita sì vicino, ma comunque a distanza sufficiente da consentirgli di sopravvivere all’impatto della collisione esplosiva delle due stelle».

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«Un’altra possibilità», continua Stokholm, «è che Halla sia un pianeta “neonato”, formatosi dai detriti rilasciati durante la fusione, il che lo renderebbe un pianeta di “seconda generazione” [vedi l’animazione qui sopra, ndr]. Comunque sia, è il primo pianeta mai scoperto in orbita stretta attorno a una stella che nel nucleo brucia elio: una dimostrazione del fatto che gli esopianeti possono ancora sorprenderci, venendo scoperti attorno a stelle dove mai ci aspetteremmo di trovarne».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A close-in giant planet escapes engulfment by its star”, di Marc Hon, Daniel Huber, Nicholas Z. Rui, Jim Fuller, Dimitri Veras, James S. Kuszlewicz, Oleg Kochukhov, Amalie Stokholm, Jakob Lysgaard Rørsted, Mutlu Yıldız, Zeynep Çelik Orhan, Sibel Örtel, Chen Jiang, Daniel R. Hey, Howard Isaacson, Jingwen Zhang, Mathieu Vrard, Keivan G. Stassun, Benjamin J. Shappee, Jamie Tayar, Zachary R. Claytor, Corey Beard, Timothy R. Bedding, Casey Brinkman, Tiago L. Campante, William J. Chaplin, Ashley Chontos, Steven Giacalone, Rae Holcomb, Andrew W. Howard, Jack Lubin, Mason MacDougall, Benjamin T. Montet, Joseph M. A. Murphy, Joel Ong, Daria Pidhorodetska, Alex S. Polanski, Malena Rice, Dennis Stello, Dakotah Tyler, Judah Van Zandt e Lauren M. Weiss


Uno Stregatto sul cielo di Paranal


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Questa spettacolare immagine della nebulosa Sh2-284 è stata catturata con grande dettaglio dal Vst (Vlt Survey Telescope) all’Osservatorio del Paranal dell’Eso. Sh2-284 è una regione di formazione stellare, con un ammasso di giovani stelle, Dolidze 25, al centro. La radiazione di questo ammasso è abbastanza potente da ionizzare l’idrogeno gassoso contenuto nella nebulosa. È questa ionizzazione che produce i brillanti colori arancione e rosso. Crediti: Eso/Vphas+ team. Acknowledgement: Casu

Questa nube rossa e arancione, parte della nebulosa Sh2-284, viene mostrata in un dettaglio spettacolare utilizzando i dati del Vlt Survey Telescope (Vst), un telescopio di proprietà dell’Istituto nazionale di astrofisica e ospitato presso l’Osservatorio dell’Eso a Paranal in Cile. Questa nebulosa brulica di giovani stelle, mentre gas e polvere al suo interno si aggregano per formare nuovi soli. Se guardate la nube nel suo insieme, potreste riuscire a distinguere la faccia di un gatto che vi sorride dal cielo.

Il vivaio stellare Sh2-284 è una vasta regione di polvere e gas, la cui zona più luminosa, visibile in questa immagine, misura circa 150 anni luce (più di 1400 migliaia di miliardi di chilometri). Si trova a circa 15mila anni luce dalla Terra nella costellazione dell’Unicorno.

Annidato al centro della parte più luminosa della nebulosa, proprio sotto il “naso del gatto”, si trova un ammasso di giovani stelle noto come Dolidze 25, che produce grandi quantità di forti radiazioni e venti. La radiazione è abbastanza potente da ionizzare l’idrogeno gassoso nella nube, producendo così i colori brillanti arancione e rosso. È in nubi come questa che si trovano gli elementi costitutivi delle nuove stelle.

I venti dell’ammasso centrale di stelle spingono via il gas e la polvere nella nebulosa, svuotandone il centro. Quando i venti incontrano sacche di materiale più dense, queste offrono maggiore resistenza, il che significa che le aree circostanti vengono erose per prime. Ciò crea diversi pilastri, visibili lungo i bordi di Sh2-284, che puntano al centro della nebulosa, come per esempio quello sul lato destro dell’inquadratura. Sebbene questi pilastri possano sembrare piccoli nell’immagine, in realtà sono larghi diversi anni luce e contengono enormi quantità di gas e polvere da cui si formano nuove stelle.

Il Vst è dedicato alla mappatura del cielo australe in luce visibile e utilizza una fotocamera da 256 milioni di pixel appositamente progettata per acquisire immagini a campo molto ampio. Questa immagine fa parte della survey Vphas+ (Vst Photometric Hα Survey of the Southern Galactic Plane and Bulge), che ha studiato circa 500 milioni di oggetti nella nostra galassia natale, aiutandoci a comprendere meglio la nascita, la vita e infine la morte delle stelle all’interno della Via Lattea.

Fonte: comunicato stampa Eso

Guarda il video dello European Southern Observatory:

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Alma indaga l’origine delle stelle massicce


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Le stelle massicce – quelle aventi una massa più di 8 volte quella del Sole – sono tra le principali responsabili della creazione e diffusione nell’universo, attraverso le supernove, di elementi pesanti, compresi quelli necessari per la vita. Nonostante rivestano questo ruolo chiave, questo tipo di stelle è ancora avvolto da numerosi interrogativi, incluso quello sulla loro origine. Infatti, se gli astronomi sono riusciti a sviluppare modelli precisi per la nascita e l’evoluzione delle stelle meno massicce, molto più diffuse, per le loro sorelle maggiori, anche a causa della loro rarità, c’è ancora da indagare.

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Mappe delle emissioni di polvere per 39 Irdc dove si prevede in futuro la formazione di stelle massicce. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), K. Morii et al.

Un team internazionale di astronomi guidato da Kaho Morii, ricercatrice all’Università di Tokyo, ha utilizzato il radiointerferometro Alma – un array di 66 radiotelescopi posto a 5000 metri di altitudine nel deserto di Atacama, in Cile – per studiare un campione di ben 39 nubi scure infrarosse (Irdc), estese e dense strutture di gas e polveri all’interno delle quali è previsto che si formeranno le stelle massicce. Il team si è focalizzato sulle nubi che non mostrano ancora alcun segnale di formazione stellare, proprio per avere la possibilità di indagare l’inizio del processo che porta alla formazione delle stelle di grande massa. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal il 20 giugno.

All’interno delle Irdc, il team ha trovato più di 800 nuclei di nubi molecolari, strutture che gli astronomi pensano si evolveranno in stelle: il più grande campione finora studiato. Nella formazione di stelle di minore massa, dal 30 al 50% della massa iniziale del nucleo viene convertita in massa stellare, mentre il resto viene espulso. Assumendo lo stesso scenario di evoluzione delle stelle di minore massa, i ricercatori hanno trovato che il 99% di questi “bozzoli stellari” non avrebbe una massa sufficiente per diventare una stella massiccia. I nuclei dovrebbero accrescere gas aggiuntivo dall’ambiente circostante. Questi risultati supportano l’idea che per spiegare l’evoluzione delle stelle di grande massa sia necessario sviluppare nuovi modelli sostanzialmente differenti da quelli dell’evoluzione delle stelle di massa inferiore.

Il team ha inoltre indagato la distribuzione spaziale dei nuclei. Negli ammassi stellari, le stelle massicce sono solitamente raggruppate, mentre quelle di massa minore seguono una distribuzione più ampia. Tuttavia, le osservazioni hanno rivelato che la posizione dei nuclei di massa maggiore non presenta alcuna particolare tendenza rispetto a quella dei nuclei di massa minore. D’altra parte, sono i nuclei più densi quelli che tendono a concentrarsi. Questo suggerisce che siano proprio i nuclei più densi, piuttosto che quelli più massicci, i progenitori delle stelle di massa elevata.

«Abbiamo dimostrato con maggiore certezza rispetto agli studi precedenti che le stelle massicce seguono uno scenario di crescita diverso rispetto a quelle di minore massa. Inoltre, possiamo dedurre che i nuclei più densi negli ammassi possono crescere in modo più efficiente accumulando materiale circostante. Sembra quindi che la densità sia più importante della massa originaria per la formazione di stelle massicce», afferma la prima autrice dello studio Kaho Morii.

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Giovanni Sabatini, dell’Inaf Osservatorio Astrofisico di Arcetri, esperto di astrochimica e formazione stellare. Laureatosi in Astrofisica e Cosmologia, presso l’Università di Bologna, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Astrofisica in co-tutela tra l’Università di Concepciòn in Cile e l’Università di Bologna. Successivamente ha lavorato presso l’Istituto di Radioastornomia di Bologna e il Centro Regionale Europeo di Alma come esperto di interferometria. Crediti: G. Sabatini

Media Inaf ha raggiunto Giovanni Sabatini dell’Inaf Osservatorio Astrofisico di Arcetri, esperto di astrochimica e formazione stellare, co-autore dello studio, che commenta così la scoperta: «Il progetto Ashes (guidato dal Prof Patricio Sanhueza del National Astronomical Observatory of Japan) è nato dal desiderio di comprendere fino in fondo il processo di formazione delle stelle di grande massa. A oggi, Ashes ha dato accesso alla più vasta popolazione di nuclei prestellari scoperti in regioni di formazione stellare ad alta massa, attraverso la combinazione di osservazioni del continuo termico della polvere e di diversi traccianti molecolari. Il primo data-release Ashes ha già dimostrato che anche le regioni di formazione stellare molto giovani possono ospitare una frazione significativa di nuclei con formazione stellare già attiva. Con questo nuovo lavoro guidato da Kaho Morii, abbiamo appreso che solo una piccola frazione di questi nuclei, meno del 1%, ha una massa sufficiente per formare stelle massicce. Questi risultati supportano l’idea che il meccanismo di formazione delle stelle ad alta massa debba essere diverso da quello delle stelle simili al Sole. Ashes non è ancora concluso e ha ancora molto da raccontarci. È una grande soddisfazione personale essere coinvolto in questo grande progetto internazionale».

Per saperne di più:


Terra calda o giovane Venere, questo è il dilemma


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Illustrazione artistica che mostra la possibile evoluzione dell’esopianeta Lp 890-9c da una Terra calda a un Venere desolato. Crediti: Carl Sagan Institute/R. Payne

Quanto può essere vicino alla sua stella un pianeta roccioso per continuare ancora a sostenere la presenza di acqua e di vita? E ancora: qual è il processo evolutivo che porta un pianeta simile alla Terra a trasformarsi in un mondo inospitale simile a Venere?

Un team di ricercatori guidati dalla Cornell University ha provato a rispondere a queste domande simulando l’evoluzione di una super-Terra situata al confine della zona abitabile della sua stella.

Il pianeta in questione è Lp 890-9c, in orbita attorno a Lp 890-9, una nana rossa situata a 105 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione dell’Eridano. Scoperto nel 2022 con il metodo dei transiti, Lp 890-9c (conosciuto anche col nome di Speculoos-2c) è circa il 40 per cento più grande della Terra e orbita a sei milioni di chilometri dalla sua stella, impiegando otto giorni e mezzo per completare una rivoluzione.

Il pianeta riceve dalla stella una quantità di luce – un parametro chiamato flusso di radiazione stellare incidente – simile a quella che riceve la Terra dal Sole, il che lo colloca nel bordo interno della zona abitabile conservativa della sua stella. Poiché i pianeti rocciosi situati in questa zona forniscono informazioni sui possibili percorsi evolutivi dei pianeti rocciosi caldi, i ricercatori hanno scelto Lp 890-9c per esplorare la loro evoluzione climatica; evoluzione che potrebbe rappresentare il percorso che porta da una eso-Terra a un eso-Venere. Non solo. I ricercatori hanno scelto questa super-Terra come oggetto del loro studio anche per rispondere a una domanda specifica: dal punto di vista dell’abitabilità, Lp 890-9c è più simile a una Terra calda o a un giovane Venere?

«Studiare questo pianeta ci dirà cosa sta accadendo sul bordo interno della zona di abitabilità della sua stella e per quanto tempo un pianeta roccioso può mantenere l’abitabilità quando su di esso inizia a fare caldo. Ma non solo: ci insegnerà anche qualcosa di fondamentale su come i pianeti rocciosi si evolvono con l’aumentare della luce che giunge dalle loro stelle e su cosa accadrà, un giorno, a noi e alla Terra», dice Lisa Kaltenegger, professoressa alla Cornell University e autrice principale dello studio, pubblicato di recente sulle pagine della rivista Monthly Notice of the Royal Astronomical Society: Letters, che riporta i risultati della ricerca.

Per dare una risposta a questi quesiti, i ricercatori hanno modellato differenti scenari climatici, coprendo tutti i possibili stadi evolutivi dell’atmosfera di un mondo roccioso posto sul bordo interno della zona di abitabilità della sua stella. I modelli vanno da una Terra calda dove la vita potrebbe essere ancora possibile a un Venere desolato con un’atmosfera di anidride carbonica. Nel mezzo ci sono poi le fasi che la Terra sperimenterà – non prima di un miliardo di anni e mezzo/due da ora – quando il Sole, ormai nella fase di gigante rossa, diventerà più luminoso, causando la graduale evaporazione degli oceani fino a farli scomparire completamente.

Più nel dettaglio, i modelli utilizzati dai ricercatori sono in tutto sette: due modelli di un’eso-Terra calda, una con un’atmosfera ricca di CO2 e l’altro senza; tre modelli di pianeti simili a Venere caratterizzati da un elevato effetto serra; un modello di un eso-Venere con un’atmosfera dominata da CO2 e un altro di un eso-Venere la cui pressione superficiale è quella attualmente presente su Venere.

I risultati delle simulazioni suggeriscono che Lp 890-9c non abbia un’atmosfera e non ospiti forme di vita. Tutt’al più, spiegano i ricercatori, è possibile che il pianeta assomigli a Venere, con un’atmosfera caratterizzata da spesse nubi che bloccherebbero la riflessione della luce.

Distinguere tra gli scenari climatici considerati in questo studio ci ha permesso di ottenere informazioni fondamentali sulla velocità con cui i pianeti simili alla Terra perdono la loro acqua, sull’evoluzione dei pianeti rocciosi situati sul bordo interno della zona di abitabilità e sull’evoluzione del nostro pianeta, sottolineano i ricercatori, ma per saperne di più occorrerà studiare l’atmosfera di questo pianeta con il telescopio spaziale James Webb.

E che Jwst sia in grado effettivamente di esplorare le atmosfere di questi rari pianeti in orbita attorno a stelle nane rosse lo dimostra un altro articolo – pubblicato sempre su Monthly Notice of the Royal Astronomical Society: Letters a corredo di quello in questione – nel quale gli autori, tra i quali c’è la stessa Kaltenegger, hanno quantificato la rilevabilità delle molecole in ciascuno dei possibili scenari atmosferici di Lp 890-9 c, dimostrando l’importanza di osservare questo pianeta con il telescopio targato Nasa/Esa.

Pensavamo che questo esopianeta potesse essere un eccellente bersaglio di Jwst, concludono i ricercatori. Ora abbiamo dimostrato questa ipotesi e che Lp 890-9c potrebbe potenzialmente rivelare se la vita è possibile al confine della zona di abitabilità di una stella.

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Disco dance per l’universo oscuro


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Il disegno vincitore del contest #CosmicMistery Crediti: Esa

Canzoni, ricami all’uncinetto, animazioni, abiti, dipinti, dolci e torte. Spiccata è stata la creatività degli oltre 90 partecipanti che hanno accettato la sfida di visualizzare in modo artistico quanto sappiamo e non sappiamo dell’universo e di spiegare il #CosmicMystery che la missione Euclid dell’Esa inizierà presto a indagare. A vincere la possibilità di partecipare alle prossime operazioni di lancio del satellite Euclid, previste il primo luglio da Cape Canaveral, è stato il video del disegno della danese Mette Bybjerg Brock incentrato sul parallelismo tra il percorso della nostra vita, con diverse fasi nel corso degli anni, e la nostra conoscenza dell’universo.

Le proporzioni numeriche 5-25-70 – relative, rispettivamente, alla materia conosciuta, alla materia oscura e all’energia oscura – sono così diventate metafora delle diverse età di crescita e apprendimento dell’individuo. «Come scienziata che ha subito il fascino della cosmologia fin da giovane, il disegno è stato per me molto emozionante», dice Guadalupe Canas Herrera, ricercatrice dell’Esa per la missione Euclid. «Da un lato, trasmette in modo molto autentico, l’essenza della ricerca scientifica, cioè il tentativo di comprendere il nostro posto nell’universo ed evolvere come genere umano. Dall’altro, rappresenta il fatto che molti degli scienziati di Euclid dedicano e dedicheranno forse l’intera propria vita alla missione, quindi un suggestivo richiamo al viaggio personale».

La vincitrice del contest, Mette, parteciperà all’evento del lancio presso il Centro europeo per le operazioni spaziali (Esoc) di Darmstadt, in Germania, assistendo alla trasmissione del lancio, all’acquisizione del segnale e alla presa di controllo del veicolo spaziale da parte degli operatori della missione Esa.

Riceveranno una goodie bag con i gadget dell’Esa, invece, i nove secondi classificati selezionati dalla giuria per i loro interessanti ed ispirati lavori artistici. Tra questi, c’è anche il delizioso lavoro all’uncinetto con dettaglio della mappa dell’universo primordiale fornita dal telescopio spaziale Planck e una miniatura della navicella spaziale Euclid realizzato dall’italiana Silvia Molinini.

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La cover del brano originale composto dall’italiano Kevin Wolz che ha ricevuto la menzione speciale della giuria Esa. Crediti: Esa

Sempre dall’Italia arriva la canzone “Cosmic Mistery” composta da Kevin Wolz, che ha ricevuto la menzione speciale da parte della giuria, particolarmente colpita dal ritmo incalzante e dai testi scientifici utilizzati. Non è solo una canzone orecchiabile che ascolterete a ripetizione, come hanno fatto alcuni membri del nostro team, spiega l’Esa, ma è anche piena di dettagli e riferimenti preziosi, come la registrazione dell’appello di uno dei lanci dell’Agenzia: una canzone con un testo tutto da studiare e un ritmo da ballare.

La hit in vero stile disco dance è disponibile su Soundcloud ed è stata realizzata suddividendo il brano in tre porzioni – lunghe rispettivamente il 5, il 25 e il 70 per cento della durata totale del brano – ognuna segnata dal ticchettio di un orologio. La prima parte “Materia visibile” (da 0:00 a 0:15) utilizza suoni e armonie calde e rilassanti, cercando di catturare la bellezza dell’universo visibile. Segue “Materia oscura” (da 0:15 a 1:00) con un ritmo più groove e atmosfera funky/rocky. La linea di basso rappresenta l’influenza gravitazionale della materia oscura e il protagonista che canta cerca delle risposte: quali sono le proprietà della materia oscura? Riusciremo a comprendere meglio la gravità? L’invito è a ballare insieme, addentrandosi nei misteri dell’universo oscuro alla ricerca di risposte. Conclude il brano il finale “Energia oscura” (da 1:00 a 3:00), con la sensazione di espansione cosmica accelerata e, in sottofondo, un’illusione sonora in continua ascesa. Questa parte della canzone è ancora più energica e ballabile e rappresenta il movimento continuo a cui è soggetto l’universo, noto come il “flusso di Hubble” citato nel ritornello. Infine una curiosità: l’autore del brano ha incluso un campione di un vero audio dell’Esa con gli auguri per il successo della missione del satellite Euclid. Anche la grafica è stata pensata per rappresentare le proporzioni 5-25-70. L’artwork della canzone presenta infatti un disco in vinile diviso in tre cerchi neri che riflettono numerose galassie sparse nello spazio, mentre il cerchio più interno mostra la vista proiettata degli specchi primari e secondari di Euclid.

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Foto delle dieci creazioni selezionate dall’Esa. Crediti: Esa

Presentati su social media con l’hashtag #CosmicMistery, gli elaborati e la lista completa dei nomi di vincitore e secondi classificati al concorso lanciato lo scorso maggio sono: prima classificata: Mette Bybjerg Brock (Danimarca) con il video disegno; secondi classificati: Kevin Wolz (Italia) con il brano musicale “Cosmic Mistery Song”; Cynthia Weippert (Germania) -con un dipinto su canvas con logo Esa; Silvia Molinini (Italia) con un ricamo all’uncinetto crochet; Valeriya Korol (Germania) con le cioccolate cosmiche e ricettario; Tamara Smit (Grecia) con un abito sull’espansione dell’universo; David Toth (Paesi Bassi) con una torta alla frutta; Soraya Sanchez Santamaria (Spagna) con un’illustrazione; Guillaume Truong (Francia) con un poster in stile art nouveu; e Katarzyna Krawiec (Polonia) con un gilet di Euclid ricamato.


Webb scopre una miccia per la chimica organica


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Queste immagini di Webb mostrano una parte della Nebulosa di Orione. L’immagine più grande, a sinistra, proviene dallo strumento NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb. In alto a destra, il telescopio è focalizzato su un’area più piccola utilizzando Miri (Mid-Infrared Instrument) di Webb. Al centro dell’area di Miri c’è un giovane sistema stellare con un disco protoplanetario chiamato d203-506. L’immagine in basso a destra mostra questo giovane sistema combinando le osservazioni di NirCam e Miri. Crediti: Esa/Webb, Nasa, Csa, M. Zamani (Esa/Webb) e il team Pdrs4All Ers

C’è un pezzo di universo dentro ognuno di noi. Il nostro corpo, così come il mondo che conosciamo, è costituito da elementi che vengono sintetizzati dalle stelle. Ma qual è la chiave che attiva questo processo? Esplorando i vivai stellari della Nebulosa di Orione, distante da noi circa 1350 anni luce, il telescopio spaziale Webb conquista un altro primato, rilevando una molecola che potrebbe avere un ruolo importante nell’evoluzione della vita: il catione metile (CH3+). I ricercatori teorizzavano da tempo che la chimica organica in fase gassosa nel mezzo interstellare potesse avere inizio proprio dal catione metile, ma finora la presenza di questo composto non era ancora stata osservata al di fuori del Sistema solare.

Come riporta lo studio condotto dal team di ricerca guidato da Olivier Berné del Cnrs e dell’Università di Tolosa (Francia), pubblicato ieri su Nature, i due potenti occhi agli infrarossi di Webb NirCam (Near-Infrared Camera) e Miri (Mid-Infrared Instrument) hanno scoperto la molecola nel disco protoplanetario del giovane sistema stellare d203-506, nella Nebulosa di Orione.

Secondo lo studio, nonostante la stella di d203-506 sia una piccola nana rossa, il sistema risulta costantemente bombardato dall’irradiazione ultravioletta proveniente da altre stelle lì attorno, più calde, giovani e massicce. Queste radiazioni fornirebbero, in primo luogo, la fonte di energia necessaria per la formazione di CH3+ e, successivamente, attiverebbero ulteriori reazioni chimiche in grado di sintetizzare molecole di carbonio più complesse. «Questo dimostra chiaramente che la radiazione ultravioletta può cambiare completamente la chimica di un disco protoplanetario», spiega Berné. «Potrebbe effettivamente svolgere un ruolo fondamentale nelle prime fasi chimiche delle origini della vita»

Gli scienziati sostengono che radiazioni ultraviolette così intense investano la maggior parte dei dischi di formazione planetaria attorno alle stelle giovani, poiché le stelle tendono a formarsi in gruppi che spesso includono anche stelle più massicce e in grado di produrre raggi Uv.

«Questo rilevamento non solo convalida l’incredibile sensibilità di Webb», sottolinea Marie-Aline Martin-Drumel dell’Università di Parigi Saclay (Francia) e co-autrice dello studio, «ma conferma anche l’importanza centrale di CH3+ nella chimica interstellare».

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Soundcheck, un’antenna gravitazionale sulla Luna


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7940716L’Agenzia spaziale europea (Esa) ha incluso la missione scientifica Soundcheck – guidata da diversi istituti di ricerca italiani, tra cui il Gran Sasso Science Institute (Gssi), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – in una ristretta lista di esperimenti europei che potrebbero nei prossimi anni essere eseguiti sulla Luna. Nei giorni scorsi l’Esa ha infatti comunicato che Soundcheck è stata selezionata all’interno del Reserve Pool of Science Activities for the Moon. Al progetto partecipano anche diversi enti di ricerca internazionali.

La missione si pone diversi obiettivi scientifici: migliorare la comprensione della struttura interna della Luna, esplorare l’ambiente geofisico all’interno di una regione permanentemente in ombra e ottenere le prime osservazioni sul satellite di onde gravitazionali nella banda 1mHz – 1Hz. Soundcheck ha inoltre lo scopo di dimostrare la realizzabilità tecnologica della Lunar Gravitational-Wave Antenna (Lgwa), un esperimento rivoluzionario che ha come scopo quello utilizzare la Luna come un’enorme antenna per la rivelazione di onde gravitazionali.

L’elemento chiave che rende la Luna un luogo ideale per una possibile rivelazione di questi segnali è che possiede le regioni più tranquille e fredde del Sistema solare. Le onde gravitazionali, perturbazioni dello spazio-tempo che si propagano nel cosmo, possono essere osservate solo in un ambiente il più possibile scevro da rumori esterni. La lettura del segnale ricevuto dalla Luna con sensori di vibrazione di alta precisione resta comunque una sfida tecnologica formidabile. La collaborazione Lgwa sta lavorando allo sviluppo di questi sensori, che un giorno potranno contribuire ad aprire una finestra su una parte ancora sconosciuta dell’universo. Oggi la collaborazione Lgwa conta quasi 200 membri provenienti da 18 Paesi, tra cui tutte le principali nazioni dotate di programma spaziale.

I ricercatori delle istituzioni e delle università italiane costituiscono il gruppo nazionale più numeroso nella collaborazione Lgwa e contribuiscono con importanti competenze agli sviluppi tecnologici e agli studi scientifici. Il professor Jan Harms del Gssi è il principal investigator di Lgwa e autore principale della proposta Soundcheck. Nei prossimi anni saranno create strutture sperimentali presso il Gssi e i Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn per lo sviluppo e l’assemblaggio del modulo di carico (ossia gli apparati necessari alla missione) e per testare i sensori di Soundcheck e Lgwa. L’obiettivo di Soundcheck è di avere un modulo di carico qualificato pronto per il 2028.

Nel 2022 l’Esa aveva invitato la comunità scientifica a presentare attività di ricerca innovative che potessero essere intraprese sulla Luna. «Le attività selezionate», spiega Harms, «consentiranno di rispondere in modo adeguato e tempestivo alle emergenti opportunità di volo lunare a breve termine. La selezione da parte dell’Esa è un traguardo importante per noi, raggiunto anche con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana. Ora dobbiamo concentrarci sullo sviluppo del modulo di carico. Non vedo l’ora di collaborare con le agenzie spaziali nostre partner».


Perseverance e Ingenuity ora anche formato Lego


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Un selfie di Perseverance e Ingenuity eseguito dal rover utilizzando la fotocamera posta sul braccio robotico, il 6 aprile 2021. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss

Il trasferimento tecnologico formato Lego ha dato vita a due nuove e originalissime costruzioni: Perseverance e Ingenuity. La coppia di esploratori marziali – il rover e il suo elicotterino – è a zonzo su Marte, e per la precisione nel cratere Jezero, da febbraio 2021 per analizzare e raccogliere – il primo – materiale interessante per la ricerca di tracce di vita passata su Marte, e per dimostrare – il secondo – la possibilità di eseguire voli autonomi su un altro pianeta. La Nasa li ha scelti per continuare la sua storica collaborazione con l’azienda Lego e produrre, quindi, due inediti modellini da costruire dai dieci anni in su: 1132 pezzi totali per il duo marziano. Se vi piace l’idea, li trovate sul sito dell’azienda.

Nasa e Lego lavorano insieme per stimolare l’interesse verso l’esplorazione spaziale sin dagli anni ’90, sviluppando non solo creazioni come questa, ma anche progetti educativi e informativi. Alla base, un assiduo scambio di conoscenza e competenza fra scienziati e ingegneri della Nasa, con progettisti e disegnatori Lego: tutti i modellini creati, compresi Perseverance e Ingenuity, si basano sui disegni e i progetti reali dell’agenzia spaziale statunitense. In questo caso, è il Jet Propulsion Laboratory (Jpl), l’istituto della Nasa che ha costruito e gestisce le operazioni del rover Perseverance e dell’elicottero Ingenuity, a guidare l’azienda nella costruzione. Il kit, infatti, non prende meramente le sembianze dei due esploratori marziani, ma è davvero una miniatura del reale. Contiene infatti tutte le caratteristiche chiave di Perseverance, come il sistema di mobilità e gli strumenti scientifici, e grazie alla realtà aumentata permette di vedere i dati restituiti dal rover, e di conoscere tutti i dettagli della missione e del suo viaggio di esplorazione su Marte. Il modellino del rover, si legge nelle specifiche contenute nel sito dell’azienda, è dotato di uno sterzo, di un braccio mobile, e di sospensioni completamente articolate che consentono al veicolo di mantenere la trazione su tutte e sei le ruote e di muoversi su superfici irregolari proprio come se fosse sul Pianeta rosso. Ci sono poi anche altri dettagli da costruire, come l’unità di alimentazione, le antenne, le telecamere e persino gli strumenti scientifici. Il tutto, in un giocattolino grande appena 23 cm di altezza e larghezza, e 32 cm di lunghezza.

Costruire collaborazioni di questo tipo è importante per far conoscere le missioni spaziali al grande pubblico, e creare entusiasmo verso la scienza dell’esplorazione spaziale rendendola accessibile.

«Le nostre missioni su Marte sono iniziate decenni fa con un’idea così grande che molti pensavano fosse impossibile. Oggi siamo riusciti a far atterrare con successo dei rover e persino un elicottero su Marte per esplorare il clima, la geologia e la possibilità di vita sul Pianeta rosso», commenta Laurie Leshin, direttore del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. «Al Jpl sogniamo in grande e ci spingiamo oltre i limiti, cercando di rispondere a domande scientifiche straordinarie. Spero che questo tipo di giocattoli susciti nei bambini lo stesso spirito di esplorazione che abbiamo qui».


Cinque attosecondi: il segnale più breve mai creato


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Il compressore del set-up sperimentale. Crediti: J. Thurner

Quando si dice cavalcare l’onda. È con un processo che richiama questa nota metafora che tre fisici dell’Università di Costanza, in Germania, sono riusciti a produrre uno dei segnali più brevi mai creati dall’uomo, utilizzando impulsi laser accoppiati per comprimere una serie di impulsi di elettroni in un periodo di soli 0,000000000000000005 secondi – o, in altre parole, cinque miliardesimi di nanosecondo.

I risultati del loro studio sperimentale sono stati riportati recentemente sulla rivista Nature Physics.

In natura, i processi che si verificano nelle molecole o nei solidi a volte si svolgono su scale temporali di femtosecondi – milionesimi di miliardesimo di secondo – o di attosecondi, cioè milionesimi di milionesimi di milionesimi di secondo. Le reazioni nucleari sono addirittura più veloci.

Ora, Maxim Tsarev, Johannes Thurner e Peter Baum hanno utilizzato un nuovo apparato sperimentale per ottenere segnali della durata di attosecondi, che apre nuove prospettive nel campo dei fenomeni ultraveloci. Nemmeno le onde luminose possono raggiungere una tale risoluzione temporale, perché una singola oscillazione richiede troppo tempo (la luce visibile va da 430 a 770 THz, dove un terahertz equivale a millesimi di nanosecondo). In questo caso ci vengono in aiuto gli elettroni, che consentono di ottenere una risoluzione temporale significativamente più elevata.

Nella loro configurazione sperimentale, i ricercatori di Costanza utilizzano coppie di lampi di luce a femtosecondi da un laser per generare impulsi di elettroni estremamente brevi, collimati in un fascio che si propaga nello spazio libero.

Ma come ci sono riusciti?

Analogamente alle onde dell’acqua, anche le onde luminose possono sovrapporsi per creare creste e avvallamenti di onde stazionarie o mobili. I fisici hanno scelto gli angoli di incidenza e le frequenze in modo che gli elettroni in co-propagazione, che viaggiano nel vuoto alla metà della velocità della luce, si sovrappongano alle creste e avvallamenti delle onde ottiche della stessa velocità. La forza ponderomotrice spinge gli elettroni nella direzione della depressione dell’onda successiva. Pertanto, dopo una breve interazione, viene generata una serie di impulsi elettronici estremamente brevi nel tempo, specialmente nel mezzo del treno di impulsi, dove i campi elettrici sono molto intensi.

Per un breve periodo, la durata temporale degli impulsi elettronici è solo di circa cinque attosecondi. Per comprendere questo processo, i ricercatori misurano la distribuzione della velocità degli elettroni che rimane dopo la compressione. «Invece di una velocità molto uniforme degli impulsi di uscita, si vede una distribuzione molto ampia che risulta dalla forte decelerazione o accelerazione di alcuni elettroni durante la compressione», spiega Thurner. «Ma non solo: la distribuzione non è uniforme. Consiste invece in migliaia di step di velocità, poiché solo un numero intero di coppie di particelle di luce alla volta può interagire con gli elettroni».

Secondo lo scienziato, questa è una sovrapposizione temporale (interferenza) degli elettroni con sé stessi come descritto dalla meccanica quantistica, dopo che hanno subito la stessa accelerazione in diversi periodi. Per gli esperimenti che coinvolgono la meccanica quantistica, come quelli che coinvolgono l’interazione di elettroni e luce, questo effetto è importante.

Il fatto che gli elettroni pesanti e una particella leggera (fotone) con una massa a riposo nulla non possano conservare la loro energia e quantità di moto totale rende straordinario che le onde elettromagnetiche piane come un raggio di luce possano alterare la velocità degli elettroni nel vuoto in modo permanente. L’effetto Kapitza-Dirac, che consente a due fotoni di esistere contemporaneamente in un’onda che si muove più lentamente della velocità della luce, risolve questo problema.

Per Baum, professore di fisica e capo del Light and Matter Group presso l’Università di Costanza, questi risultati rientrano ancora nella ricerca di base, ma ne sottolinea il grande potenziale per la ricerca futura: «Se un materiale venisse colpito da due dei nostri brevi impulsi a un intervallo di tempo variabile, il primo impulso potrebbe innescare un cambiamento e il secondo impulso potrebbe essere utilizzato per l’osservazione, simile al flash di una macchina fotografica». A suo avviso, il vantaggio principale è che non viene utilizzato alcun materiale e tutto si svolge nello spazio libero. In teoria, in futuro potrebbero essere utilizzati laser di qualsiasi potenza per ottenere una compressione ancora maggiore. «La nostra nuova compressione a due fotoni ci consente di spostarci in nuove dimensioni del tempo e forse anche di filmare le reazioni nucleari», conclude Baum.

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È del Grb di Capodanno il record di luminosità


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Rappresentazione artistica di un Grb (gamma-ray burst). Crediti: Eso/A. Roquette

Un team di ricerca a cui partecipa anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è riuscito a osservare le primissime fasi di un lampo di raggi gamma (Grb, dall’inglese gamma-ray burst) risultato essere il più luminoso nelle bande ottiche rilevato finora. I Grb sono fenomeni transienti esplosivi al centro di continue rivoluzioni scientifiche e l’Inaf è impegnato sia sul piano osservativo-interpretativo che con la partecipazione a grandi missioni dallo spazio per rilevarli e studiarli. I lampi di raggi gamma sono eventi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Nello specifico, i ricercatori hanno studiato Grb 220101A, il cui segnale – come dice la sigla – è stato rilevato per la prima volta il primo gennaio del 2022.

Gli autori dello studio, guidati dal Purple Mountain Observatory (Cina), hanno utilizzato un nuovo metodo sviluppato per ricavare una fotometria affidabile da fonti “catturati” dall’Ultraviolet and Optical Telescope (Uvot), uno dei tre strumenti a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory, osservatorio spaziale della Nasa con una importante partecipazione italiana dell’Asi e dell’Inaf.

«Questa scoperta rivela le diverse origini dei brillamenti ultravioletti/ottici estremamente energetici», dice Stefano Covino, ricercatore presso l’Inaf di Milano e unico italiano tra gli autori dello studio, «e dimostra la necessità dell’osservazione ad alta risoluzione temporale nei primi istanti di evoluzione del fenomeno. Ogni evento Grb mostra dei comportamenti originali, ma in generale troviamo che anche i casi più estremi rientrano comunque nella stessa fenomenologia. Grb 220101A non fa eccezione. Non si tratta quindi di una nuova categoria di Grb ma plausibilmente di un caso estremo fra quelli già noti».

Perché allora è un caso monstre? «Il motivo è probabilmente duplice», spiega Covino. «Da una parte semplicemente accumulando più osservazioni si possono identificare casi più rari che normalmente ci sarebbe bassa probabilità di poter osservare. E in aggiunta c’è una questione tecnica che consiste nell’avere definito una procedura per poter ottenere informazioni affidabili dalle osservazioni da satellite anche quando, come in questo caso, i dati sono, come si dice tecnicamente, saturi. Questo ci ha permesso di poter avere informazioni nella primissima fase di questo evento e quindi identificare l’impressionante picco in luminosità di cui parliamo».

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Rappresentazione artistica di un lampo gamma (Grb). Crediti: Esa/Ecf

Grb 220101A è stato osservato da Swift, ma anche da altri telescopi spaziali come Fermi e Agile. «Come sempre quando Swift identifica un Grb si ripuntano gli strumenti di bordo, come Uvot, e si ottengono dati pochi secondi dall’identificazione dell’evento di alte energie – il Grb vero e proprio. Un ottimo risultato per uno strumento che ormai vola dal 2004”, dice Covino. «Non appena l’alert per l’identificazione è arrivato a terra, anche i telescopi ground-based hanno cominciato a osservare, e il telescopio cinese di Xinglong, da 2,2 metri, ha ottenuto la misura di distanza, tramite uno spettro, che è risultata essere il notevole valore di z=4,6. All’epoca dell’evento che ha generato questo Grb l’universo aveva poco più di un miliardo d’anni».

«Dobbiamo prima di tutto immaginare che un telescopio ottico, qualunque, riceve la radiazione luminosa da un oggetto celeste e la converte in un’immagine sul suo rivelatore. Ora, quello che accade è che, in dipendenza dalle caratteristiche del telescopio, l’immagine che si crea per un oggetto puntiforme, come le stelle o anche un Grb a distanze cosmologiche, ha una forma matematica ben precisa (tecnicamente è la Psf). Per visualizzarla», spiega il ricercatore, sottolineando il grande lavoro tecnico fatto su questo Grb, «possiamo immaginare un cappello a punta, tipo quello dei maghi, con la punta in alto e delle larghe falde intorno. Fare fotometria significa misurare bene l’estensione e l’altezza di questo ipotetico cappello. In pratica però, per eventi così brillanti, la parte centrale del “cappello” è cancellata, come tagliata, e quindi non è possibile ottenere le informazioni necessarie. Tuttavia esistono delle relazioni ben precise fra l’altezza del “cappello” e le faglie, che dipendono per telescopi nello spazio (cioè senza l’effetto dell’atmosfera) solo dalle caratteristiche tecniche del telescopio stesso. Con un lavoro davvero certosino siamo riusciti a misurare i parametri di queste relazioni e quindi a ricostruire a posteriori la forma del “cappello” in modo da ottenere le informazioni fotometriche complete. Anche questo può essere un esempio di come, anche con uno strumento che vola dal 2004, non si smetta mai di migliorare».

Nonostante i decenni di studio, i Grb continuano a mostrare sorprese. «Sembra quasi che siano un serbatoio inesauribile di comportamenti estremi ed ovviamente grandemente interessanti. Dal punto vista più modellistico ci mostrano come determinate combinazioni di parametri che portano alla prodigiosa luminosità in ottico osservata sono realmente possibili nel mondo reale. Questo ha importanti conseguenze ad esempio nel valutare l’impatto dei Grb nell’ambiente delle galassie che li ospitano», conclude Covino.

Uno dei co-autori del paper, Hao Zhou, e il primo autore, Zhi-Ping Jin, del Purple Mountain Observatory, hanno un forte legame con l’Italia. Jin è stato postdoc a Merate proprio con Covino, mentre Zhou, un giovane alla fine del suo dottorato, è attualmente in visita nella sede Inaf di Merate dove lavora con Covino.

Per ulteriori informazioni:


Arriva Noos, il successore di Superquark


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Alberto Angela nello studio di Noos

Giovedì 29 giugno alle 21.25 su Rai1 Alberto Angela presenta “Noos – L’avventura della conoscenza”: la nuova serie in 6 puntate di Rai Cultura dedicata alla divulgazione scientifica e ai diversi campi della conoscenza.

“Noos – L’avventura della conoscenza” prende il posto storicamente occupato da “Superquark” di Piero Angela ed è un programma completamente nuovo pur mantenendo molti dei punti di forza del suo predecessore. A cominciare dalla scelta del titolo stesso, difatti ‘Noos’ – antica forma greca che sta per ‘intelletto” – è il nome dell’astronave con la quale Piero Angela esplorava lo spazio profondo nel suo storico programma “Viaggio nel cosmo”.

Il cuore del programma continua ad essere quello dei servizi dedicati alle più importanti novità scientifiche. Le ultime scoperte nei campi della medicina, della genetica, delle neuroscienze, della biologia. Ma con un occhio anche all’archeologia, alla paleontologia, alle più importanti innovazioni tecnologiche, energetiche e ambientali. Il tutto sempre spiegato in maniera comprensibile da uno storico gruppo di autori al quale si sono aggiunte anche nuove collaborazioni. Tornano gli interventi di esperti come Massimo Polidoro, per le fake news nell’informazione, Elisabetta Bernardi per l’alimentazione ed Emmanuele Jannini per la sessualità.

A far da scenario alla nuova trasmissione uno studio immersivo che è allo stesso tempo un occhio sulla natura e sulla tecnologia grazie ad immagini di altissima qualità che permettono ad Alberto Angela di muoversi in ogni momento in ambienti diversi. Non mancano inoltre gli splendidi documentari dedicati alla Natura, con una novità: ad accompagnare il pubblico attraverso le spettacolari immagini degli animali nel loro ambiente naturale è lo stesso Alberto Angela.

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L’astrofisica Edwige Pezzulli nello studio di Noos. Crediti: Barbara Ledda

Ospiti prestigiosi come Alessandro Barbero, Telmo Pievani e Carlo Lucarelli portano all’interno di questo studio momenti di approfondimento sui temi della storia, dell’evoluzione e dei grandi enigmi legati alla scienza e all’investigazione.

Per parlare di spazio è presente in studio in ogni puntata l’astronauta Samantha Cristoforetti, che si confronta con Alberto Angela sulle tematiche più interessanti relative alle prossime sfide dell’esplorazione spaziale. Il giornalista ed esperto di geopolitica Dario Fabbri affronta il tema della distribuzione delle risorse nel pianeta e delle conseguenze che ha nei rapporti tra stati.

Spazio anche ai giovani studiosi di materie scientifiche che in passato sono stati la rivelazione di “Superquark+”, lo spin-off per RaiPlay della trasmissione capostipite. L’astrofisico Luca Perri ci conduce attraverso una divertente analisi scientifica di celebri scene del cinema, la fisica Giuliana Galati e il chimico Ruggero Rollini ci mostrano alcuni fenomeni della fisica e della chimica osservabili anche tra le mura domestiche e l’astrofisica Edwige Pezzulli ci guida nello spazio mostrandoci le più belle immagini riprese dal telescopio James Webb.


Aspettando l’Asteroid Day con Sorvegliati spaziali


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Scarica la locandina dell‘evento

Venerdì 30 giugno è la Giornata mondiale degli asteroidi. Un tema del quale negli ultimi due anni l’Inaf si è occupato in modo sistematico – insieme ad altre potenziali minacce planetarie – grazie al progetto Sorvegliati spaziali. Dedicato allo studio degli eventi celesti che possono avere effetti sul nostro pianeta, Sorvegliati spaziali, in vista della ricorrenza di venerdì, ha organizzato un evento aperto al pubblico lungo cinque giorni. Sarà anche l’occasione per presentare gli ultimi due prodotti sfornati dal prolifico team che sta dietro al progetto: un’elegantissima brochure cartacea e una app dedicata. Ne parliamo con la responsabile scientifica, nonché anima e ideatrice di Sorvegliati spaziali, Daria Guidetti, astronoma all’Inaf di Bologna.

Anzitutto facciamo il punto: come sono andati questi primi due anni di Sorvegliati spaziali?

«È stato un periodo intenso durante il quale abbiamo raggiunto quasi tutti gli obiettivi che ci siamo proposti: la realizzazione di una delle prime campagne al mondo di sensibilizzazione pubblica sulla difesa planetaria coordinata da un ente di ricerca, lo sviluppo di prodotti divulgativi multimediali all’avanguardia, e abbiamo presentato il progetto a vari congressi internazionali. Tra i nostri prodotti ci sono news, video, infografiche, un glossario, bollettini astronomici, animazioni, eventi per il pubblico. Il tutto viene pubblicato sul sito web sorvegliatispaziali.inaf.it, lanciato a ottobre 2021, che rappresenta il prodotto principe del progetto. Finora 30mila utenti singoli hanno visitato il sito web, con un’ottima distribuzione di genere (55 per cento uomini, 45 per cento donne) per un tempo medio di permanenza sul sito di poco più di due minuti. Circa un terzo del pubblico ha età compresa tra i 25 e i 35 anni.
Siamo soddisfatti di questi numeri, considerando che si tratta di un sito web relativamente nuovo, scientifico, specialistico e interamente grafico e soprattutto senza advertising».

Veniamo alla Giornata degli asteroidi: leggo che avete dato appuntamento a tutti gli appassionati a Bologna, dal 26 al 30 giugno. Cosa avete in programma?

«Varie attività per grandi e piccini. Si inizia con una mostra di meteoriti e reperti degli eventi di impatto di Tunguska e Chelyabinsk. Il pubblico potrà maneggiare, pesare e osservare al microscopio alcune delle meteoriti; poi proponiamo esperienze in realtà aumentata per simulare eventi astronomici nella stanza, quali l’impatto di un asteroide ai nostri piedi, e un laboratorio per bambine e bambini (8+) sui crateri da impatto. L’evento culmina il 30 giugno alle 18 con una tavola rotonda moderata con ricercatori Inaf e con proiezioni di scene del film Don’t Look up (2021), che commenteremo insieme per definire il confine tra scienza e fantascienza. All’incontro partecipa anche la cagnolina Pimpa, che ha permesso il ritrovamento della meteorite a Cavezzo (MO), nel 2020, grazie ai calcoli della rete Prisma dell’Inaf. Infine, tra il pubblico della tavola rotonda verranno poi estratti tre fortunati che riceveranno una meteorite in omaggio. Per la tavola rotonda è necessaria la prenotazione».

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Daria Guidetti, ricercatrice all’Inaf di Bologna e responsabile del progetto Sorvegliati spaziali

Tornando a Sorvegliati spaziali: già avete un sito “spaziale”, ora anche una app. Come mai? Cosa offre di diverso?

«L’app Sorvegliati spaziali è un applicazione per la realtà aumentata (app AR) che sarà disponibile nei prossimi giorni per iOS e Android (per smartphone e tablet). Combinando il mondo reale con elementi creati in computer grafica 3D, permette di creare eventi astronomici sovrapposti all’ambiente dell’utente, in questo caso legati alle tematiche di Sorvegliati spaziali: per esempio l’esplosione di un asteroide in atmosfera, con tanto di boato e frammenti che arrivano ai nostri piedi, o di un’aurora sopra la nostra testa. Sarà anche possibile scattare delle fotografie alle esperienze in AR con la fotocamera del dispositivo mobile. Crediamo che la realtà aumentata abbia un grosso potenziale per comunicare la scienza in modo coinvolgente, accessibile e più tangibile, in particolare alle nuove generazioni, che oggigiorno hanno grosse aspettative dalla comunicazione digitale anche perché è un settore con molta competizione».

L’evento di Bologna è anche l’occasione per presentare – e immagino distribuire – la vostra nuova brochure. Di che si tratta?

«Si tratta di un pieghevole informativo, in italiano e in inglese, curato nei dettagli grafici e dal design coerente con quello del sito web che, su carta, fornisce informazioni concise sul progetto e sulle tematiche di cui si occupa : asteroidi e comete near-Earth, rifiuti spaziali, meteorologia spaziale, meteore e meteoriti. Ma, oltre ai contenuti testuali, propone esperienze interattive attivabili tramite l’app AR e altri testi di approfondimento. Confidiamo di poterla distribuire presto al pubblico in formato deluxe. Ma abbiamo anche l’intenzione di renderla disponibile online sul sito web».

Tante iniziative per un progetto che ha coinvolto moltissimi appassionati e, dietro le quinte, anche un nutrito numero di ricercatrici e ricercatori dell’Inaf. Continuerà anche in futuro, Sorvegliati spaziali?

«Speriamo di sì, anche perché sarebbe un peccato interrompere il progetto, a cui magari si sarà affezionato un certo pubblico. Certo servono fondi dedicati. Ma intanto pensiamo al presente: stiamo finalizzando altri prodotti e altre collaborazioni bollono in pentola. Restate sintonizzati».


Per saperne di più:

Guarda il teaser di presentazione della realtà aumentata di Sorvegliati spaziali:

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Il Pianeta rosso in ultravioletti


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Marte ripreso dallo strumento Iuvis nel luglio del 2022. Crediti: Credits: Nasa/Lasp/Cu Boulder

La missione Maven (Mars Atmosphere and Volatile Evolution) della Nasa ha acquisito nuove immagini ultraviolette di Marte. In particolare, lo strumento che ha ottenuto le due viste mozzafiato che vedete in questa pagina è Iuvis, che rileva lunghezze d’onda comprese tra 110 e 340 nanometri, al di fuori dello spettro visibile. Per rendere queste lunghezze d’onda visibili all’occhio umano e più facili da interpretare, le immagini sono state renderizzate partendo dalle intensità a tre lunghezze d’onda ultraviolette rappresentate dai colori rosso, verde e blu. Con questa combinazione di colori, l’ozono atmosferico appare viola, mentre le nuvole e le nebbie appaiono bianche o blu. La superficie può apparire marrone chiaro o verde, a seconda di come le immagini sono state ottimizzate per aumentare il contrasto e mostrare i dettagli.

La prima immagine è stata scattata nel luglio 2022 durante la stagione estiva dell’emisfero australe, che si verifica quando Marte passa vicino al Sole. Argyre Basin, uno dei crateri più profondi di Marte, appare in basso a sinistra, ricoperto di foschia atmosferica (in rosa pallido). I profondi canyon della Valles Marineris appaiono in alto a sinistra pieni di nuvole (di colore marrone chiaro). La calotta polare meridionale è visibile in basso (in bianco), e la sua estensione è visibilmente ridotta dal calore estivo. Il riscaldamento estivo e le tempeste di polvere spingono il vapore acqueo ad altitudini molto elevate, spiegando la maggiore perdita di idrogeno in questo periodo dell’anno rilevata dalla sonda.

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Marte ripreso dallo strumento Iuvis nel gennaio del 2023. Crediti: Credits: Nasa/Lasp/Cu Boulder

La seconda immagine è dell’emisfero settentrionale del pianeta ed è stata scattata nel gennaio 2023, dopo che Marte aveva superato il punto più lontano dal Sole della sua orbita. Il rapido cambiamento delle stagioni nella regione polare settentrionale provoca un’abbondanza di nubi bianche. I profondi canyon di Valles Marineris sono evidenti in basso a sinistra, insieme a molti crateri. L’ozono, che qui appare magenta, si è accumulato durante le fredde notti polari dell’inverno settentrionale. Viene quindi distrutto nella primavera settentrionale da reazioni chimiche con il vapore acqueo, che in questo periodo dell’anno è limitato alle basse altitudini dell’atmosfera.

Ricordiamo che la sonda Maven è stata lanciata nel novembre 2013 ed è entrata nell’orbita di Marte nel settembre 2014: siamo quindi vicini a celebrare il suo decimo anno. L’obiettivo della missione è esplorare l’atmosfera superiore del pianeta, la ionosfera e le interazioni con il Sole e il vento solare, per cercare di capire come e perché il Pianeta rosso abbia perso buona parte della sua atmosfera.


Anche le stelle possono scontrarsi


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C’è talmente tanto vuoto, nella maggior parte degli ambienti che esistono nell’universo, che raramente il moto dei corpi celesti che li abitano viene interrotto da incidenti. Non pensiamo alle superfici dei corpi celesti del Sistema solare, dei pianeti e dei satelliti, che un tempo erano letteralmente bombardati da meteoriti che vi cadevano sopra, bensì a quasi tutti i sistemi stellari che la fisica descrive come “non collisionali”. Le galassie, ad esempio.

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Rappresentazione artistica dell’esplosione di un gamma ray burst all’interno di una galassia. Crediti: NoirLab

Anche qui, però, vi sono delle eccezioni. Vicino al centro di alcune galassie molto massicce, in prossimità del buco nero centrale, si possono raggiungere densità di stelle talmente elevate, che lo scontro diventa inevitabile. Solo una questione di tempo. L’avevano ipotizzato da molto tempo gli astronomi, e ora finalmente l’hanno visto: un lungo lampo di luce gamma (o gamma ray burst) prodotto dallo scontro fra due corpi stellari (o fra i resti di questi). La notizia è stata pubblicata su Nature Astronomy.

Si tratta, per usare le parole degli autori, della prima esplosione di raggi gamma di origine “dinamica”. Oppure, per dirla in parole semplici, di un nuovo modo in cui possono morire – prematuramente – due stelle. La fine della vita di una stella comincia quando essa termina il suo primo combustibile per la fusione, l’idrogeno, e può durare molto tempo. Si dice, in quel momento, che la stella esce dalla sequenza principale: quel che accade dopo dipende dalla sua massa. Stelle poco massicce, stelle abbastanza massicce, stelle molto massicce. In base a questo la fine può essere catastrofica, come l’esplosione di una supernova che lascia come resto stellare una stella di neutroni o addirittura un buco nero, oppure può essere più quieta, come quella a cui andrà incontro il Sole. Anche i tempi di vita si decidono sulla base della massa: più lunghi per le stelle meno massicce, più brevi per quelle molto massicce. Il tutto, partendo dal presupposto che nulla intervenga a disturbare o alterare i processi fisici coinvolti. Cosa che non è successa nel caso analizzato qui.

Il lungo gamma ray burst identificato dal telescopio Gemini Sud del NoirLab, infatti, dimostra che alcune stelle che vivono in regioni particolarmente caotiche come il centro di una galassia, possono incontrare la loro fine in una collisione. E diventare, fra l’altro, una sorgente di energia come un lampo gamma o addirittura emettere onde gravitazionali.

Ma vediamo, più in dettaglio, com’è andata. I primi indizi di un evento di questo tipo sono stati osservati il 19 ottobre 2019, quando l’Osservatorio Swift della Nasa ha rilevato un lampo di raggi gamma poco più lungo di un minuto. Qualunque gamma ray burst che duri più di due secondi è considerato “lungo”. In generale, la maggior parte di questi deriva dal collasso di stelle massicce, mentre una piccola parte dalla fusione di oggetti compatti. In seguito alla segnalazione, i ricercatori hanno utilizzato il telescopio Gemini South per effettuare osservazioni dell’afterglow (il bagliore che segue l’esplosione) e indagare sulle sue origini. In questo modo, è stato possibile individuare la posizione dell’evento in una regione a meno di cento anni luce dal nucleo di un’antica galassia (una galassia, cioè, che ha terminato da molto tempo di formare stelle), molto vicino al suo buco nero supermassiccio. Ed è stato anche possibile comprendere che il burst è stato causato, con ogni probabilità, dalla fusione di due oggetti compatti. In questa regione, infatti, la densità di stelle è così grande da provocare occasionali collisioni stellari, soprattutto dal momento che l’influenza gravitazionale del buco nero supermassiccio può perturbare molto i moti delle stelle. Stelle che finiscono per intersecare le loro orbite e fondersi, innescando un’esplosione che porta informazione di sé fino a grandi distanze.

È possibile, secondo gli autori, che eventi del genere si verifichino di routine in altre regioni altrettanto affollate dell’universo, ma che fino a questo momento siano passati inosservati. Come mai nessuno se n’è mai accorto? Forse perché i centri galattici sono pieni di polvere e gas, che oscurano sia il lampo di luce gamma iniziale sia il bagliore che ne deriva – l’afterglow, appunto. Questo particolare evento, identificato come Grb 191019A, potrebbe rappresentare una rara eccezione. Ma anche creare un precedente. Soprattutto perché, come accennavamo prima, scontri come questo nascondono una nuova possibilità: quella di essere sorgenti di onde gravitazionali.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A long-duration gamma-ray burst of dynamical origin from the nucleus of an ancient galaxy“, di Andrew J. Levan, Daniele B. Malesani, Benjamin P. Gompertz, Anya E. Nugent, Matt Nicholl, Samantha R. Oates, Daniel A. Perley, Jillian Rastinejad, Brian D. Metzger, Steve Schulze, Elizabeth R. Stanway, Anne Inkenhaag, Tayyaba Zafar, J. Feliciano Agüí Fernández, Ashley A. Chrimes, Kornpob Bhirombhakdi, Antonio de Ugarte Postigo, Wen-fai Fong, Andrew S. Fruchter, Giacomo Fragione, Johan P. U. Fynbo, Nicola Gaspari, Kasper E. Heintz, Jens Hjorth, Pall Jakobsson, Peter G. Jonker, Gavin P. Lamb, Ilya Mandel, Soheb Mandhai, Maria E. Ravasio, Jesper Sollerman e Nial R. Tanvir

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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La gravità quantistica potrebbe rallentare i neutrini


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Giovanni Amelino-Camelia

In uno studio pubblicato su Nature Astronomy, un team di ricercatori e ricercatrici dell’Università di Napoli “Federico II”, dell’Università di Wroclaw e dell’Università di Bergen ha esaminato un modello di gravità quantistica in cui la velocità delle particelle ultrarelativistiche diminuisce al crescere dell’energia. Questo effetto dovrebbe essere estremamente piccolo, proporzionale al rapporto tra l’energia delle particelle e la scala di Planck, ma quando si osservano sorgenti astrofisiche molto distanti, può accumularsi fino a livelli osservabili.

L’indagine ha utilizzato lampi gamma osservati dal telescopio spaziale Fermi e neutrini ad altissima energia rilevati da IceCube, verificando l’ipotesi che alcuni neutrini e alcuni lampi gamma possano avere un’origine comune ma siano osservati in momenti diversi come risultato della riduzione della velocità dipendente dall’energia.

Ne abbiamo parlato con il primo autore, Giovanni Amelino-Camelia, professore di fisica teorica, modelli e metodi matematici del Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli “Federico II”.

Professore, negli ultimi anni uno degli effetti della gravità quantistica più studiati è la dispersione nel vuoto, una presunta dipendenza energetica della velocità delle particelle ultrarelativistiche. Di cosa si tratta?

«È dispersione nel vuoto solo nel senso che la sua unica causa sarebbero proprietà intrinseche dello spaziotempo. I familiari casi in cui si verifica dispersione sono per la propagazione in un mezzo materiale. Ma una delle ipotesi centrali di molti approcci allo studio della gravità quantistica è che anche lo spaziotempo abbia dei gradi di libertà quantistici e che quindi possa avere effetti sulla propagazione delle particelle in un qualche senso simili a quello che accade per la propagazione in mezzi materiali. In particolare, questi effetti potrebbero introdurre piccolissime modifiche alla velocità delle particelle».

In che modo i neutrini ci danno informazioni sullo spaziotempo e sulla gravità quantistica?

«I neutrini sono chiaramente la sonda ideale per le proprietà microscopiche dello spaziotempo perché le loro interazioni ordinarie sono debolissime e quindi si crea una opportunità per osservare i piccoli effetti prodotti dalle proprietà quantistiche dello spaziotempo. Per un elettrone, ad esempio, altri effetti sovrasterebbero quelli prodotti dallo spaziotempo. Per i fotoni ci sono comunque gli effetti di interazione col fondo cosmico di fotoni di basse energie, che in particolare rendono il nostro universo opaco per fotoni di alta energia. I neutrini invece viaggiano indisturbati dalla sorgente ai nostri telescopi».

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Illustrazione del telescopio spaziale Fermi. Crediti: Nasa/Fermi and Aurore Simonnet, Sonoma State University

Cosa avete trovato nei neutrini di IceCube? E come fate a essere certi che siano stati generati da lampi gamma?

«Quando IceCube era in fase di progettazione ci si aspettava che avrebbe potuto vedere numerosi neutrini da Gamma Ray Burst (Grb). E invece in oltre un decennio di attività non ne ha visto nessuno. Un’ipotesi plausibile è che le proprietà quantistiche dello spaziotempo abbiano interferito con i criteri che IceCube usa per cercare neutrini provenienti da Grb: IceCube usa la coincidenza temporale per stabilire se un neutrino proviene da un Grb, ma se le proprietà quantistiche dello spaziotempo rallentano anche solo minutamente quei neutrini, la coincidenza temporale non sarà mai trovata. Ci siamo chiesti quanto spesso era possibile associare un neutrino a un Grb se si tiene conto del ritardo ipotizzato da alcuni modelli di gravità quantistica e abbiamo trovato una decina di possibili associazioni tra un Grb e un neutrino. Ovviamente il rischio è che le associazioni che abbiamo trovato siano fortuite (un neutrino che non c’entra nulla col Grb può capitare che finisca nella giusta finestra temporale per associarlo a quel Grb), ma l’analisi della significance statistica mostra che è piuttosto improbabile che le nostre associazioni siano fortuite. Parliamo di “evidenza preliminare” perché la situazione attuale è incoraggiante ma le nostre stesse analisi statistiche lasciano aperta la possibilità che con l’accumulo di più dati l’evidenza non venga confermata. Come sempre in scienza l’unico modo di progredire è accumulare più dati».

Quali sono gli errori sistematici che potrebbero inficiare l’analisi?

«È un’analisi piuttosto immune a errori sistematici. Come dicevo poco fa, la residua vulnerabilità sta nel fatto che l’evidenza è statistica e per ora non conclusiva, incoraggiante ma non conclusiva (e quindi solo accumulando più dati, col conseguente aumento di sensibilità della statistica, potremo stabilire come stanno davvero le cose)».

Quindi la gravità quantistica può di fatto rallentare i neutrini?

«Come spiegavo sopra, la gravità quantistica potrebbe rallentare i neutrini, ma questa non va vista come una predizione univoca della nostra area di ricerca: i modelli di gravità quantistica sono tanti e nessuno di questi modelli ha per ora nemmeno una singola “conferma” sperimentale. Stiamo appunto cercando di osservare per la prima volta una qualche manifestazione della gravità quantistica, che sarebbe una svolta epocale. Un’area di ricerca in cui le idee teoriche abbondano e i dati scarseggiano ovviamente non produce predizioni generiche… la dispersione nel vuoto c’è in alcuni modelli e non c’è in altri».

Come intendete proseguire o affinare l’analisi?

«La nostra analisi usa solo una parte dei neutrini di IceCube, i cosiddetti shower events. Per questi neutrini shower, IceCube produce una stima dell’energia piuttosto affidabile e quello è cruciale per gli studi di effetti di dispersione nel vuoto, che sono proprio proporzionali all’energia (l’energia è essenzialmente la “carica gravitazionale” di una particella e dovrebbe governare l’intensità del suo accoppiamento con le proprietà quantistiche dello spaziotempo). Per altri neutrini di IceCube si ha una stima molto più grossolana dell’energia e finora li abbiamo dovuti scartare. Stiamo provando a sviluppare tecniche di analisi statistica che possano far uso di tutti i neutrini di IceCube ma assegnando peso statistico diverso a neutrini diversi a seconda dell’accuratezza della determinazione dell’energia».


Per saperne di più:


Cinque esperimenti per la prossima eclissi solare


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L’eclissi del 2017 immortalata dal Chasing the Eclipse I project. Crediti: Swri / Nasa / Daniel B. Seaton

Più di un secolo fa, il 29 maggio 1919, un’eclissi totale di Sole cambiò la storia della fisica. Pochi anni prima, nientemeno che Albert Einstein aveva presentato al mondo la teoria della relatività generale, proponendo una visione completamente nuova dei concetti di spazio, tempo e gravità, e sconvolgendo definitivamente la fisica classica. Quello che mancava per poter consacrare definitivamente Einstein nell’olimpo delle menti più brillanti di tutti i tempi era quel consenso scientifico che avrebbe spazzato via ogni dubbio sulla validità della sua teoria. In definitiva, c’era bisogno di una prova sperimentale.

Fu l’astrofisico inglese Arthur Eddington a proporre un esperimento che avrebbe poi consentito di ottenere proprio quella prova: osservare un’eclissi totale di Sole. Così organizzò due avventurose spedizioni fino alle remote località dove sarebbe stato possibile osservare l’inconsueto evento celeste: Sobral, in Brasile, e l’Isola di Principe, al largo delle coste africane. In realtà, in quel caso, quello a cui gli scienziati erano interessati non era né il Sole né la Luna. Piuttosto, il buio. L’obiettivo era infatti quello di sfruttare l’eclissi per osservare le stelle intorno al Sole, la cui luce, qualora la relatività generale fosse stata corretta, avrebbe dovuto trovarsi in posizioni leggermente diverse da quelle in cui generalmente, senza l’influenza della gravità del Sole, si trovava. E fu proprio quello che osservarono. L’eclissi fu quindi di fondamentale importanza per ottenere la prima prova diretta di una delle teorie più importanti della fisica.

Oggi, nonostante la relatività abbia superato a pieni voti tutti i numerosi test a cui è stata sottoposta, gli scienziati sono ancora estremamente interessati alle eclissi di Sole. Infatti, questo straordinario e inusuale evento consente di aprire una finestra unica per osservare fenomeni altrimenti impossibili da studiare. Oltre che, naturalmente, avere il potere di far alzare al cielo gli occhi meravigliati di migliaia di persone – sempre con le dovute protezioni!

In particolare, l’eclissi totale – cioè il fenomeno per cui la Luna, passando in prospettiva esattamente davanti al Sole, lo oscura completamente, lasciandone visibile solo la rarefatta atmosfera esterna, la corona – rappresenta un evento che consente di studiare la nostra stella e le sue interazioni con la Terra in modo unico. È per questo che la Nasa, in collaborazione con vari istituti di tutto il mondo, ha già programmato una serie di esperimenti da effettuare durante i pochi minuti a disposizione della prossima eclissi totale di Sole, che sarà visibile in una stretta fascia del Nord America l’8 aprile del 2024.

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L’aereo Nasa WB-57F al Johnson Space Center in Houston. Crediti: Nasa’s Johnson Space Center / Norah Moran

Gli esperimenti sono in totale cinque e coinvolgono non solo ricercatori e istituti di ricerca, ma anche normali cittadini e amatori.

I cinque esperimenti proposti dalla Nasa

Utilizzando l’aereo di ricerca ad alta quota WB-57 della Nasa, un progetto catturerà immagini dell’eclissi da un’altitudine di 50mila piedi (poco più di 15 km). I ricercatori, scattando le foto al di sopra della maggior parte dell’atmosfera terrestre, sperano di poter catturare nuovi dettagli della media e bassa corona solare.

Le osservazioni, effettuate con una fotocamera in grado di ottenere immagini ad alta risoluzione e ad alta velocità nell’infrarosso e nel visibile, dovrebbero anche consentire di studiare un anello di polvere intorno al Sole e cercare asteroidi che orbitano nelle vicinanze.

Durante l’evento ci sarà anche un party per radioamatori. Il “Solar Eclipse Qso Party” vedrà infatti coinvolti numerosi appassionati che cercheranno di stabilire il maggior numero possibile di contatti radio con altri operatori in diverse località. Gli operatori registreranno la forza e la distanza dei loro segnali per osservare come cambia la ionosfera terrestre durante le eclissi. Esperimenti simili in passato hanno dimostrato che i cambiamenti nella ionosfera dovuti alle eclissi solari hanno un impatto significativo sul modo in cui viaggiano le onde radio.

La parte più scura dell’ombra di questa eclissi attraverserà diverse località dotate di radar SuperDarn. Il Super Dual Auroral Radar Network monitora le condizioni meteorologiche spaziali negli strati superiori dell’atmosfera terrestre, per cui l’eclissi offre un’opportunità unica di studiare l’impatto della radiazione solare sugli strati superiori dell’atmosfera terrestre durante l’eclissi.

Un ulteriore esperimento osserverà le regioni solari attive – le regioni magneticamente complesse che si formano sopra le macchie solari – mentre la Luna si sposta su di esse. Il passaggio graduale della Luna sul Sole blocca porzioni diverse di queste regioni attive in tempi diversi, consentendo agli scienziati di distinguere i segnali luminosi provenienti da una porzione rispetto a un’altra. Verrà utilizzato il Goldstone Apple Valley Radio Telescope (Gavrt) di 34 metri per misurare i sottili cambiamenti nelle emissioni radio. La tecnica, utilizzata per la prima volta durante le eclissi anulari del maggio 2012, ha rivelato dettagli del Sole che il telescopio non avrebbe potuto rilevare altrimenti.

Appuntamento quindi al prossimo anno per assistere, dal vivo – anche Media Inaf cercherà di avere uno o due inviati sul posto – o da remoto, allo spettacolare evento.


Il mistero delle Geminidi


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Lo sciame meteorico delle Geminidi è fra i più intensi che si possano vedere nei cieli terrestri, ma è molto meno famoso dello sciame delle Perseidi – visibili nelle notti attorno al 12-13 agosto (popolarmente chiamate “Lacrime di San Lorenzo“) – perché il picco delle Geminidi si verifica il 14 dicembre. A differenza degli altri sciami meteorici che sono, per lo più, di origine cometaria, il corpo progenitore dei meteoroidi delle Geminidi è l’asteroide near-Earth (2300) Phaethon che, con il suo diametro di 5 km, è nell’elenco dei circa mille Neo noti con un diametro superiore a 1 km.

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Una rappresentazione schematica della corrente di meteoroidi che, intersecando l’orbita terrestre, da luogo allo sciame meteorico delle Geminidi. Crediti: Nasa/Johns Hopkins Apl/Ben Smith

Considerato che la temperatura superficiale di Phaethon arriva a circa 750 °C durante il passaggio al perielio, è chiaro che ogni elemento volatile in superficie è stato perso da tempo nello spazio e non può essere responsabile dell’emissione dei meteoroidi che va a rifornire la corrente delle Geminidi, come accadrebbe per una classica cometa. Per questo motivo sono stati ideati meccanismi alternativi in grado di espellere meteoroidi nello spazio, come la fratturazione termica delle rocce oppure la sublimazione del sodio presente nella matrice rocciosa del corpo, che farebbe le veci del ghiaccio d’acqua in una cometa tradizionale. Tuttavia lo sciame delle Geminidi può essere associato anche agli asteroidi (155140) 2005 UD e (225416) 1999 YC, entrambi con un diametro di circa 1 km. La presenza di questi corpi di grandi dimensioni associati alle Geminidi – e quindi a Phaethon – apre la possibilità che, nel recente passato, Phaethon sia andato soggetto a una collisione che l’ha frammentato, creando la corrente di meteoroidi e gli altri due asteroidi associati.

Recentemente la genesi delle Geminidi è stata l’oggetto della ricerca di Wolf Cukier e Jamey Szalay della Princeton University, fatta utilizzando i dati raccolti dalla Parker Solar Probe (Psp). La Psp è una sonda della Nasa lanciata il 12 agosto 2018 per lo studio della corona solare, ma è passata vicino al centro della corrente di meteoroidi delle Geminidi in prossimità del perielio, fornendo dati utili per capirne l’origine. Infatti, già nel novembre 2018 la Psp aveva ripreso una scia di polvere che seguiva Phaethon lungo la sua orbita con una massa complessiva paragonabile a quella della corrente delle Geminidi, e molto più elevata di quanto l’asteroide potrebbe mai fornire in base ai meccanismi di attività noti. Inoltre la scia di polvere rilevata dalla Psp era per lo più localizzata all’esterno all’orbita dell’asteroide. La Psp ha anche rilevato degli impatti di grani di polvere sulla sua superficie provenienti in parte dalla polvere zodiacale e in parte da una sorgente ignota che poteva essere lo sciame delle Geminidi. L’identificazione di questa sorgente di grani di polvere ha indotto Cukier e Szalay ad approfondire l’analisi per cercare di capire se fossero davvero i meteoroidi delle Geminidi.

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Due diversi modelli per la genesi delle Geminidi a confronto. A sinistra il modello cometario, a destra quello violento. Il confronto con le misure della Parker Solar Probe ci dice che il secondo è quello più vicino alla realtà, ma molto lavoro resta ancora da fare. Crediti: Nasa/Johns Hopkins Apl/Ben Smith

I ricercatori hanno ricostruito al computer l’evoluzione dei meteoroidi in base a tre possibili scenari di formazione e poi li hanno confrontati con quanto si osserva. Il primo scenario è stato chiamato modello base: considera il rilascio di meteoroidi in tutte le direzioni dalla superficie di Phaethon durante il passaggio al perielio e con velocità relativa nulla rispetto all’asteroide. Questo modello rappresenta un’emissione di meteoroidi in seguito a una collisione a bassa velocità con Phaethon. Il secondo scenario è il modello violento: ha le stesse condizioni del base, ma qui la velocità relativa di emissione è di 1 km/s, come conseguenza di un impatto energetico su Phaethon. Infine il terzo scenario è il modello cometario, in cui il rilascio di meteoroidi dalla superficie di Phaethon avviene con un tasso inversamente proporzionale alla distanza dal Sole. Per ogni modello è stata simulata l’evoluzione orbitale di diecimila o centomila meteoroidi virtuali di diversa dimensione, ed è stato fatto un confronto fra le orbite ottenute con quelle osservate delle Geminidi.

Nel modello base i meteoroidi sono distribuiti lungo tutta l’orbita di Phaethon, ma la densità di particelle varia radialmente: il numero maggiore di particelle è interno all’orbita, mentre all’esterno il numero di particelle è minore. Come previsto, le particelle che orbitano più vicino all’orbita di (3200) Phaethon sono generalmente le più massicce e la massa caratteristica diminuisce quando ci si allontana dall’orbita del corpo genitore. Nel modello violento le particelle sono ancora distribuite lungo l’orbita di Phaethon, ma in modo più diffuso per via della velocità iniziale diversa da zero. Inoltre le particelle di dimensioni diverse appaiono maggiormente mescolate rispetto al modello base. Infine, nel modello cometario i meteoroidi si muovono in prevalenza all’interno dell’orbita di Phaethon. Questo accade perché, essendo emesse lungo tutta l’orbita di Phaethon quindi anche all’afelio, le particelle sentono poco la pressione della radiazione e perdono momento angolare per l’effetto Poynting–Robertson che diventa dominante. In queste condizioni le particelle tendono a cadere verso il Sole diminuendo così il semiasse maggiore dell’orbita.

Confrontando il flusso di meteoroidi che hanno colpito la Psp in funzione del tempo con quello atteso in base ai tre scenari simulati, è risultato che il migliore accordo si ha con il modello violento, anche se il numero di impatti simulati per unità di tempo è inferiore a quello effettivamente misurato di un fattore pari a un milione. Inoltre tutti e tre gli scenari falliscono nel riprodurre la data di incontro con la Terra dei meteoroidi simulati: c’è una differenza di circa un giorno, il che non è poco. Certo, dimostrare che la nascita dei meteoroidi delle Geminidi è dovuta a un violento impatto avrebbe il vantaggio di spiegare anche la presenza di 2005 UD e 1999 YC come frammenti del proto-Phaethon. Per capire come siano andate le cose sarà necessario osservare ulteriormente la morfologia del flusso di meteoroidi tramite imaging diretto per risolverne la struttura spaziale sia usando la Psp, sia con altre missioni future. In questo modo, probabilmente, saremo in grado di limitare in modo significativo i possibili meccanismi di formazione: molto lavoro resta ancora da fare per comprendere la genesi della corrente di meteoroidi delle Geminidi.

Per saperne di più:


Anomalia nell’interferenza quantistica


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Rappresentazione dei percorsi dei fotoni nell’esperimento descritto nell’articolo. Crediti: Ursula Cardenas Mamani

Se consideriamo due fotoni completamente indistinguibili che attraversano una superficie semi-riflettente e non ci concentriamo sulla loro traiettoria, sappiamo che tenderanno a seguire lo stesso percorso. Questo fenomeno peculiare della fisica quantistica si chiama photon bunching e ha le sue radici proprio nell’indistinguibilità di fotoni identici. Un team di ricerca del Center for Quantum Information and Communication – Ecole polytechnique de Bruxelles dell’Université libre de Bruxelles ha messo in luce un comportamento inaspettato che mette in discussione la nostra comprensione dell’interferenza multi particellare nella zona grigia tra bosoni (tali sono i fotoni) indistinguibili e le particelle classiche. I risultati dello studio di questo inaspettato controesempio sono stati pubblicati recentemente su Nature Photonics.

Una delle pietre miliari della fisica quantistica è il principio di complementarità di Niels Bohr, ovvero il fatto che le particelle possono comportarsi o come corpuscoli o come onde. Il dualismo onda-particella della materia è ben illustrato nell’ esperimento della doppia fenditura, descritto dal fisico Richard Feynman che lo ha definito nelle sue celebri lezioni di fisica come “[…] il cuore della meccanica quantistica, che in realtà ne contiene l’unico mistero” (The Feynman lectures of Physics, 1964).

Nemmeno la luce sfugge a questa dualità: può essere descritta come un’onda elettromagnetica oppure può essere intesa come costituita da particelle prive di massa che viaggiano alla velocità della luce, appunto i fotoni. Il fenomeno del bunching si può già osservare con due fotoni che impattano ciascuno su un lato di uno specchio semitrasparente, che divide la luce in arrivo in due possibili percorsi associati alla luce riflessa e trasmessa. L’effetto effetto Hong-Ou-Mandel ci dice che i due fotoni in uscita escono sempre insieme dallo stesso lato dello specchio, come conseguenza di un’interferenza ondulatoria tra i loro percorsi. Questo effetto di raggruppamento non può essere compreso in una visione classica del mondo in cui pensiamo ai fotoni come a sfere, ognuna delle quali segue un percorso ben definito. Se seguissimo la logica, ci si aspetterebbe che il bunching diventi meno pronunciato non appena siamo in grado di distinguere i fotoni e di ricostruire i loro percorsi. Questo è esattamente ciò che si osserva sperimentalmente se i due fotoni incidenti sullo specchio semitrasparente hanno, per esempio, una polarizzazione distinta o colori diversi (e sono quindi riconoscibili): si comportano come sfere classiche e non si raggruppano più. Si assume che questa interazione tra il bunching dei fotoni e la distinguibilità rifletta una regola generale: il bunching deve essere massimo per fotoni completamente indistinguibili e diminuire gradualmente quando i fotoni vengono resi sempre più riconoscibili.

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Prototipo di computer quantistico. Crediti: Ibm

I ricercatori dell’università di Bruxelles hanno considerato uno specifico scenario teorico in cui sette fotoni impattano su un grande interferometro. L’effetto di bunching dovrebbe logicamente essere più forte quando tutti e sette i fotoni hanno la stessa polarizzazione poiché questo li rende completamente indistinguibili, fatto che implica che non otteniamo alcuna informazione sui loro percorsi nell’interferometro. In modo del tutto sorprendente, i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di alcuni casi in cui il photon bunching viene sostanzialmente rafforzato – anziché indebolito – rendendo i fotoni parzialmente distinguibili attraverso un modello di polarizzazione noto a priori.

Sfruttando una specifica congettura matematica hanno potuto dimostrare che è possibile migliorare ulteriormente il raggruppamento dei fotoni regolando in modo preciso la polarizzazione. Oltre a essere intrigante per la fisica fondamentale dell’interferenza tra fotoni, questo fenomeno di bunching anomalo dovrebbe avere implicazioni per le tecnologie fotoniche quantistiche, che sono al centro di molte attenzioni e di rapidi progressi negli ultimi anni.

La comprensione delle sottigliezze di questi effetti legati alla natura quantistica bosonica dei fotoni è quindi un passo significativo nella prospettiva di sviluppare calcolatori quantistici sempre più performanti.

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Einstein ed Eulero messi alla prova


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Crediti: Hubble Space Telescope / Nasa

Il cosmo è un laboratorio unico per testare le leggi della fisica, in particolare quelle di Eulero e di Einstein: il primo descrisse il moto degli oggetti celesti, mentre il secondo descrisse il modo in cui gli oggetti celesti distorcono il tessuto dell’universo, lo spaziotempo. I fisici hanno testato queste equazioni in tutti i modi, e finora si sono rivelate efficaci. Tuttavia, due scoperte continuano a mettere alla prova questi modelli: l’accelerazione nell’espansione dell’universo e l’esistenza della materia oscura, che si ritiene rappresenti circa l’85 per cento di tutta la materia nel cosmo. Questi misteriosi fenomeni obbediscono alle equazioni di Einstein ed Eulero? Un team dell’Università di Ginevra ha sviluppato il primo metodo per scoprirlo. Per riuscirci, ha considerato una misura mai usata prima: la distorsione temporale. I risultati dello studio sono stati pubblicati oggi su Nature Astronomy.

«Il problema è che i dati cosmologici attuali non ci permettono di distinguere tra una teoria che infrange le equazioni di Einstein e una che infrange l’equazione di Eulero. Nel nostro studio dimostriamo proprio questo. Inoltre, presentiamo un metodo matematico per risolvere questo problema. Questo è il culmine di dieci anni di ricerca», spiega Camille Bonvin del Dipartimento di fisica teorica dell’Università di Ginevra, prima autrice dello studio.

I ricercatori non sono stati in grado di riscontrare la validità di queste due equazioni ai confini dell’universo perché, apparentemente, manca un “ingrediente”: la misurazione della distorsione temporale. «Fino a ora, sapevamo solo come misurare la velocità degli oggetti celesti e la somma della distorsione del tempo e dello spazio. Abbiamo sviluppato un metodo per ottenere questa misurazione aggiuntiva, ed è la prima volta», dice Bonvin.

Se la distorsione temporale non fosse pari alla somma di tempo e spazio – cioè il risultato prodotto dalla teoria della relatività generale – significherebbe che il modello di Einstein non funziona. Se la distorsione temporale non corrispondesse alla velocità delle galassie calcolata con l’equazione di Eulero, significherebbe che quest’ultima non è valida. «Questo ci permetterà di scoprire se nell’universo esistono nuove forze o materia che violano queste due teorie», spiega Levon Pogosian, professore al Dipartimento di fisica della Simon Fraser University, in Canada, coautore dello studio.

Questi risultati daranno un contributo fondamentale a diverse missioni il cui scopo è determinare l’origine dell’espansione accelerata dell’universo e la natura della materia oscura. Tra queste il telescopio spaziale Euclid, che sarà lanciato il primo luglio 2023 dall’Agenzia spaziale europea (Esa), e il Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), che ha iniziato la sua missione quinquennale nel 2021 in Arizona. Inoltre c’è Ska, lo Square Kilometer Array, in Sud Africa e Australia, che inizierà le osservazioni nel 2028/29.

«Il nostro metodo sarà integrato in queste diverse missioni. È già stato fatto con Desi, di cui siamo diventati collaboratori esterni grazie a questa ricerca», conclude Bonvin. I ricercatori hanno testato con successo il modello su cataloghi sintetici di galassie. La fase successiva prevede la sperimentazione utilizzando i primi dati forniti da Desi, nonché l’individuazione degli ostacoli e la minimizzazione degli effetti sistematici che potrebbero ostacolarne l’applicazione.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Modified Einstein versus Modified Euler for Dark Matter”, di Camille Bonvin e Levon Pogosian


Duecento anni fa il buco nero centrale s’è svegliato


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Ottenuta dall’Event Horizon Telescope (Eht) nel 2022, questa è la prima immagine di Sgr A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea. Crediti: Eht Collaboration

Non passa giorno che il telescopio Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer) della Nasa, realizzato in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana, non invii sulla Terra informazioni che fanno riscrivere i testi di astronomia e che dimostrano l’efficacia dell’innovativa suite di rivelatori che compongono la sua strumentazione, sviluppati, realizzati e testati dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). La sua ultima scoperta riguarda Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea – un oggetto molto meno luminoso di altri buchi neri al centro di altre galassie osservate fino ad oggi. Questo dimostrerebbe che il buco nero centrale della nostra galassia non ha assorbito attivamente materiale attorno a sé. Ixpe suggerisce invece che l’antico gigante addormentato si sia svegliato di recente, circa 200 anni fa, per divorare gas e altri detriti cosmici nei suoi dintorni.

Sagittarius A* si trova a più di 25mila anni luce dalla Terra, ed è il buco nero supermassiccio più vicino a noi, con una massa stimata milioni di volte quella del Sole. Spesso abbreviato dai ricercatori in Sgr A*, si trova nella costellazione del Sagittario, proprio al centro della Via Lattea.

Gli scienziati si sono rivolti a Ixpe per uno sguardo più da vicino, dato che studi precedenti hanno rilevato emissioni nei raggi X relativamente recenti di gigantesche nubi di gas nelle sue vicinanze. Visto che la maggior parte delle nubi cosmiche, chiamate nubi molecolari, sono fredde e scure, i raggi X provenienti da queste nubi sarebbero dovuti essere deboli. Invece, brillavano luminosi.

«Uno degli scenari per spiegare perché queste gigantesche nubi molecolari sono così brillanti è che, in effetti, riecheggiano un lampo di luce a raggi X scomparso da tempo, indicando che il nostro buco nero supermassiccio non era così quiescente alcuni secoli fa», dice Frédéric Marin, astronomo all’Osservatorio astronomico di Strasburgo, in Francia, e autore principale del nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature.

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Rappresentazione artistica di Ixpe. Crediti: Nasa

Ixpe, progettato per misurare la polarizzazione della luce nei raggi X, ovvero la direzione e l’intensità media del campo elettrico delle onde luminose, ha osservato queste nubi molecolari due volte nel 2022, nei mesi di febbraio e marzo. Quando gli astronomi hanno combinato i dati ottenuti con le immagini del satellite X Chandra della Nasa, confrontandoli con le osservazioni d’archivio della missione Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), hanno potuto isolare il segnale nei raggi X riflesso e scoprirne il punto di origine esatto.

«Le osservazioni di Sgr A* sono state tra le più esigenti, in termini di tempo richiesto, nel primo anno di vita operativa di Ixpe. Questo al fine di ottenere dati sufficientemente accurati per misurare la polarizzazione dei raggi X nella regione del centro galattico per “far luce” sul mistero legato all’attività pregressa del buco nero», spiega Imma Donnarumma, project scientist Asi della missione Ixpe.

«L’angolo di polarizzazione agisce come una bussola, indicandoci la misteriosa sorgente dell’illuminazione scomparsa da tempo», aggiunge Riccardo Ferrazzoli, ricercatore all’Inaf di Roma. «E cosa c’è in quella direzione? Nient’altro che Sagittarius A*».

Analizzando i dati, il team ha scoperto che i raggi X delle gigantesche nubi molecolari sono in realtà luce riflessa prodotta da un bagliore intenso e di breve durata che ha origine nelle vicinanze di Sagittarius A*, probabilmente causato dall’accrescimento di parte del gas di quelle nubi da parte del buco nero.

«I dati hanno anche aiutato i ricercatori a stimare la luminosità e la durata del bagliore originale, suggerendo che l’evento si è verificato circa 200 anni fa, più o meno all’inizio del 19esimo secolo. Il prossimo obiettivo del team è quello di ripetere l’osservazione e ridurre le incertezze della misurazione», conclude Steven Ehlert, project scientist di Ixpe presso il Marshall Space Flight Center della Nasa a Huntsville, in Alabama. «I nuovi dati potrebbero migliorare la stima dell’origine temporale e dell’intensità del bagliore originale al suo apice. Aiuteranno inoltre a determinare la distribuzione tridimensionale delle gigantesche nubi molecolari che circondano il buco nero quiescente. Ancora più importante, tali studi aiutano i ricercatori a ottenere una nuova comprensione dei processi fisici necessari per risvegliare Sagittarius A* di nuovo, anche se solo temporaneamente, dal suo sonno inquieto».

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Tre scatti per il terzo flyby di BepiColombo


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“Il nostro team che gestisce le operazioni di volo di BepiColombo conferma che ieri sera il flyby di Mercurio è andato come previsto”. Quando il team della missione BepiColombo ha twittato questo messaggio erano le 8 e 23 di ieri, martedì 20 giugno, il day after del terzo dei sei sorvoli di Mercurio necessari alla sonda Esa/Jaxa per aggiustare la sua traiettoria e inserirsi, entro dicembre 2025, nell’orbita del pianeta. Il tweet continua così: “Ora aspettiamo di vedere le immagini e i dati raccolti dai nostri strumenti”.

A trio of images to highlight #BepiColombo's 3rd #MercuryFlyby, featuring a newly named crater and various geological and tectonic curiosities. Enjoy this first-look taste of our flyby!
Details & images👉t.co/kaQ7zqQ1aZ#ExploreFarther pic.twitter.com/5J0tlGdNvb

— BepiColombo (@BepiColombo) June 20, 2023

Non passa molto e alle 18 e 02 dello stesso giorno arriva quanto promesso: un trio di spettacolari immagini del flyby – le prime di decine di immagini che la sonda ha scattato – che ci permettono di dare uno sguardo più da vicino al pianeta, mostrandoci numerose caratteristiche geologiche uniche.

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La minima distanza di BepiColombo dal pianeta, circa 236 km, è stata raggiunta alle 21 e 34 ora italiana di lunedì 19 giugno. L’incontro è avvenuto con il lato non illuminato del pianeta, ma pochi minuti dopo, 12 per l’esattezza, alcune caratteristiche del pianeta iniziano ad apparire dall’ombra oltre il terminatore – la linea immaginaria che separa il lato diurno da quello notturno d’un pianeta. A questo punto la sonda si trova a circa 1.800 km dalla superficie. Passa ancora qualche minuto e la sonda – a questo punto lontana 2.536 km – ha davanti a sé il pianeta illuminato in maniera ottimale per scattare delle foto ricordo di questa avventura. A farle è la M-Cam 3 – una delle tre camere di monitoraggio di cui è dotata la sonda.

7837283La prima immagine ottenuta la vedete qui a fianco. Nell’angolo alto a sinistra si nota la parte posteriore dell’antenna ad alto guadagno del Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa, una delle due sonde – l’altra è il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo) della Jaxa – della missione. In alto a destra si vede invece uno scorcio della superficie ampiamente craterizzata di Mercurio, con in risalto alcune caratteristiche geologiche interessanti.

Una di queste caratteristiche – visibile appena sotto e a destra dell’antenna – è un cratere da impatto largo 218 km, al quale il 13 giugno scorso il Working Group for Planetary System Nomenclature dell’Unione astronomica internazionale ha assegnato il nome di cratere Manley, in onore dell’artista giamaicana Edna Manley. La natura del materiale scuro presente in questo e altri crateri sarà studiata da BepiColombo una volta che sarà entrato nell’orbita di Mercurio, cercando di misurare il contenuto di carbonio e altri minerali al fine di saperne di più sulla storia geologica del pianeta.

Poco sopra e a sinistra del cratere è visibile un’altra caratteristica della superficie, una delle più alte e lunghe scarpate che siano mai state osservate: Beagle Rupes. Scoperta nel 2008 dalla missione Messenger della Nasa durante il suo primo sorvolo, la struttura geologica – il risultato di una faglia inversa – è lunga circa 600 km e attraversa un caratteristico cratere dalla forma allungata chiamato cratere Sveinsdóttir. L’immagine permette di cogliere a pieno la complessità della topografia di questa regione, con ombre accentuate in prossimità del terminatore che danno un’idea delle altezze e delle profondità delle varie caratteristiche.

«Questa è una regione incredibile per studiare la storia della tettonica di Mercurio», sottolinea Valentina Galluzzi, geologa planetaria all’Inaf Iaps di Roma, nel team dello strumento Simbio-Sys a bordo della missione. «La complessa interazione tra queste scarpate ci mostra che quando il pianeta si è raffreddato e si è contratto ha causato lo scivolamento e lo slittamento della crosta superficiale, creando una varietà di caratteristiche curiose che studieremo più in dettaglio una volta in orbita».

Ma non è finita. L’immagine ci mostra infatti altre strutture, come il cratere Lange, così chiamato in onore della fotografa americana Dorothea Lange, e il cratere Izquierdo, un bacino d’impatto di dimensioni modeste che deve il nome alla pittrice messicana María Izquierdo. L’ultima caratteristica degna di nota è rappresentata dal cratere Raditladi. Si tratta di un cratere largo 260 chilometri, relativamente giovane, a proposito del quale gli scienziati si chiedono come si sia formata la materia fusa di cui è fatto: dall’impatto di corpi celesti o da successive eruzioni vulcaniche separate nel tempo geologico dall’impatto. I dati raccolti da BepiColombo quando sarà in orbita attorno a Mercurio saranno fondamentali per risolvere questo mistero.

7837285Questa che vedete qui accanto è invece la seconda immagine del flyby, catturata da BepiColombo quando la navicella si trovava a poco più di 4000 km dalla superficie del pianeta. Come la prima, è stata scattata dalla M-Cam del Mercury Transfer Module, e mostra anch’essa l’antica superficie fortemente craterizzata del pianeta. Ma in questo caso la visuale più ampia permette di scorgere un altro particolare della superficie: il cratere Eminescu, un cratere del tipo peak ring (cioè con un picco centrale) largo 125 km formatosi circa un miliardo di anni fa.

L’ultima immagine della triade è una sorta di “abbraccio” a Mercurio, con la sonda che sembra avvolgere il pianeta. Quando è stata scattata, alle 22 e 29 del 19 giugno, la sonda si trovava a 11.780 km.

«Le immagini catturate durante questo sorvolo, le migliori fatte dalle M-Cam finora, gettano le basi per un’entusiasmante missione», dice Jack Wright, scienziato planetario dell’Esa e membro dell’M-Cam imaging team di BepiColombo. «Con la dotazione completa di strumenti scientifici studieremo il suo nucleo, i processi superficiali, il suo campo magnetico e l’esosfera, per comprendere meglio l’origine e l’evoluzione del pianeta del Sistema solare più vicino alla sua stella madre.

Oltre a scattare immagini, durante questo sorvolo la sonda BepiColombo ha condotto anche diverse operazioni scientifiche. Con 13 su 16 strumenti accesi e operativi, la sonda ha “scansionato” l’ambiente che lo circonda da luoghi normalmente non accessibili durante una missione orbitale.

Il prossimo sorvolo di Mercurio da parte BepiColombo è in programma per il 5 settembre 2024. Fino ad allora il team di controllo missione avrà un gran da fare. La missione, infatti, entrerà a breve in una parte molto impegnativa del suo viaggio, durante la quale aumenterà gradualmente l’uso della propulsione elettrica per contrastare l’enorme attrazione gravitazionale del Sole che la accelera verso di esso.