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Einstein ed Eulero messi alla prova


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Crediti: Hubble Space Telescope / Nasa

Il cosmo è un laboratorio unico per testare le leggi della fisica, in particolare quelle di Eulero e di Einstein: il primo descrisse il moto degli oggetti celesti, mentre il secondo descrisse il modo in cui gli oggetti celesti distorcono il tessuto dell’universo, lo spaziotempo. I fisici hanno testato queste equazioni in tutti i modi, e finora si sono rivelate efficaci. Tuttavia, due scoperte continuano a mettere alla prova questi modelli: l’accelerazione nell’espansione dell’universo e l’esistenza della materia oscura, che si ritiene rappresenti circa l’85 per cento di tutta la materia nel cosmo. Questi misteriosi fenomeni obbediscono alle equazioni di Einstein ed Eulero? Un team dell’Università di Ginevra ha sviluppato il primo metodo per scoprirlo. Per riuscirci, ha considerato una misura mai usata prima: la distorsione temporale. I risultati dello studio sono stati pubblicati oggi su Nature Astronomy.

«Il problema è che i dati cosmologici attuali non ci permettono di distinguere tra una teoria che infrange le equazioni di Einstein e una che infrange l’equazione di Eulero. Nel nostro studio dimostriamo proprio questo. Inoltre, presentiamo un metodo matematico per risolvere questo problema. Questo è il culmine di dieci anni di ricerca», spiega Camille Bonvin del Dipartimento di fisica teorica dell’Università di Ginevra, prima autrice dello studio.

I ricercatori non sono stati in grado di riscontrare la validità di queste due equazioni ai confini dell’universo perché, apparentemente, manca un “ingrediente”: la misurazione della distorsione temporale. «Fino a ora, sapevamo solo come misurare la velocità degli oggetti celesti e la somma della distorsione del tempo e dello spazio. Abbiamo sviluppato un metodo per ottenere questa misurazione aggiuntiva, ed è la prima volta», dice Bonvin.

Se la distorsione temporale non fosse pari alla somma di tempo e spazio – cioè il risultato prodotto dalla teoria della relatività generale – significherebbe che il modello di Einstein non funziona. Se la distorsione temporale non corrispondesse alla velocità delle galassie calcolata con l’equazione di Eulero, significherebbe che quest’ultima non è valida. «Questo ci permetterà di scoprire se nell’universo esistono nuove forze o materia che violano queste due teorie», spiega Levon Pogosian, professore al Dipartimento di fisica della Simon Fraser University, in Canada, coautore dello studio.

Questi risultati daranno un contributo fondamentale a diverse missioni il cui scopo è determinare l’origine dell’espansione accelerata dell’universo e la natura della materia oscura. Tra queste il telescopio spaziale Euclid, che sarà lanciato il primo luglio 2023 dall’Agenzia spaziale europea (Esa), e il Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), che ha iniziato la sua missione quinquennale nel 2021 in Arizona. Inoltre c’è Ska, lo Square Kilometer Array, in Sud Africa e Australia, che inizierà le osservazioni nel 2028/29.

«Il nostro metodo sarà integrato in queste diverse missioni. È già stato fatto con Desi, di cui siamo diventati collaboratori esterni grazie a questa ricerca», conclude Bonvin. I ricercatori hanno testato con successo il modello su cataloghi sintetici di galassie. La fase successiva prevede la sperimentazione utilizzando i primi dati forniti da Desi, nonché l’individuazione degli ostacoli e la minimizzazione degli effetti sistematici che potrebbero ostacolarne l’applicazione.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Modified Einstein versus Modified Euler for Dark Matter”, di Camille Bonvin e Levon Pogosian


Duecento anni fa il buco nero centrale s’è svegliato


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Ottenuta dall’Event Horizon Telescope (Eht) nel 2022, questa è la prima immagine di Sgr A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea. Crediti: Eht Collaboration

Non passa giorno che il telescopio Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer) della Nasa, realizzato in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana, non invii sulla Terra informazioni che fanno riscrivere i testi di astronomia e che dimostrano l’efficacia dell’innovativa suite di rivelatori che compongono la sua strumentazione, sviluppati, realizzati e testati dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). La sua ultima scoperta riguarda Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea – un oggetto molto meno luminoso di altri buchi neri al centro di altre galassie osservate fino ad oggi. Questo dimostrerebbe che il buco nero centrale della nostra galassia non ha assorbito attivamente materiale attorno a sé. Ixpe suggerisce invece che l’antico gigante addormentato si sia svegliato di recente, circa 200 anni fa, per divorare gas e altri detriti cosmici nei suoi dintorni.

Sagittarius A* si trova a più di 25mila anni luce dalla Terra, ed è il buco nero supermassiccio più vicino a noi, con una massa stimata milioni di volte quella del Sole. Spesso abbreviato dai ricercatori in Sgr A*, si trova nella costellazione del Sagittario, proprio al centro della Via Lattea.

Gli scienziati si sono rivolti a Ixpe per uno sguardo più da vicino, dato che studi precedenti hanno rilevato emissioni nei raggi X relativamente recenti di gigantesche nubi di gas nelle sue vicinanze. Visto che la maggior parte delle nubi cosmiche, chiamate nubi molecolari, sono fredde e scure, i raggi X provenienti da queste nubi sarebbero dovuti essere deboli. Invece, brillavano luminosi.

«Uno degli scenari per spiegare perché queste gigantesche nubi molecolari sono così brillanti è che, in effetti, riecheggiano un lampo di luce a raggi X scomparso da tempo, indicando che il nostro buco nero supermassiccio non era così quiescente alcuni secoli fa», dice Frédéric Marin, astronomo all’Osservatorio astronomico di Strasburgo, in Francia, e autore principale del nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature.

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Rappresentazione artistica di Ixpe. Crediti: Nasa

Ixpe, progettato per misurare la polarizzazione della luce nei raggi X, ovvero la direzione e l’intensità media del campo elettrico delle onde luminose, ha osservato queste nubi molecolari due volte nel 2022, nei mesi di febbraio e marzo. Quando gli astronomi hanno combinato i dati ottenuti con le immagini del satellite X Chandra della Nasa, confrontandoli con le osservazioni d’archivio della missione Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), hanno potuto isolare il segnale nei raggi X riflesso e scoprirne il punto di origine esatto.

«Le osservazioni di Sgr A* sono state tra le più esigenti, in termini di tempo richiesto, nel primo anno di vita operativa di Ixpe. Questo al fine di ottenere dati sufficientemente accurati per misurare la polarizzazione dei raggi X nella regione del centro galattico per “far luce” sul mistero legato all’attività pregressa del buco nero», spiega Imma Donnarumma, project scientist Asi della missione Ixpe.

«L’angolo di polarizzazione agisce come una bussola, indicandoci la misteriosa sorgente dell’illuminazione scomparsa da tempo», aggiunge Riccardo Ferrazzoli, ricercatore all’Inaf di Roma. «E cosa c’è in quella direzione? Nient’altro che Sagittarius A*».

Analizzando i dati, il team ha scoperto che i raggi X delle gigantesche nubi molecolari sono in realtà luce riflessa prodotta da un bagliore intenso e di breve durata che ha origine nelle vicinanze di Sagittarius A*, probabilmente causato dall’accrescimento di parte del gas di quelle nubi da parte del buco nero.

«I dati hanno anche aiutato i ricercatori a stimare la luminosità e la durata del bagliore originale, suggerendo che l’evento si è verificato circa 200 anni fa, più o meno all’inizio del 19esimo secolo. Il prossimo obiettivo del team è quello di ripetere l’osservazione e ridurre le incertezze della misurazione», conclude Steven Ehlert, project scientist di Ixpe presso il Marshall Space Flight Center della Nasa a Huntsville, in Alabama. «I nuovi dati potrebbero migliorare la stima dell’origine temporale e dell’intensità del bagliore originale al suo apice. Aiuteranno inoltre a determinare la distribuzione tridimensionale delle gigantesche nubi molecolari che circondano il buco nero quiescente. Ancora più importante, tali studi aiutano i ricercatori a ottenere una nuova comprensione dei processi fisici necessari per risvegliare Sagittarius A* di nuovo, anche se solo temporaneamente, dal suo sonno inquieto».

Per saperne di più:


Tre scatti per il terzo flyby di BepiColombo


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“Il nostro team che gestisce le operazioni di volo di BepiColombo conferma che ieri sera il flyby di Mercurio è andato come previsto”. Quando il team della missione BepiColombo ha twittato questo messaggio erano le 8 e 23 di ieri, martedì 20 giugno, il day after del terzo dei sei sorvoli di Mercurio necessari alla sonda Esa/Jaxa per aggiustare la sua traiettoria e inserirsi, entro dicembre 2025, nell’orbita del pianeta. Il tweet continua così: “Ora aspettiamo di vedere le immagini e i dati raccolti dai nostri strumenti”.

A trio of images to highlight #BepiColombo's 3rd #MercuryFlyby, featuring a newly named crater and various geological and tectonic curiosities. Enjoy this first-look taste of our flyby!
Details & images👉t.co/kaQ7zqQ1aZ#ExploreFarther pic.twitter.com/5J0tlGdNvb

— BepiColombo (@BepiColombo) June 20, 2023

Non passa molto e alle 18 e 02 dello stesso giorno arriva quanto promesso: un trio di spettacolari immagini del flyby – le prime di decine di immagini che la sonda ha scattato – che ci permettono di dare uno sguardo più da vicino al pianeta, mostrandoci numerose caratteristiche geologiche uniche.

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La minima distanza di BepiColombo dal pianeta, circa 236 km, è stata raggiunta alle 21 e 34 ora italiana di lunedì 19 giugno. L’incontro è avvenuto con il lato non illuminato del pianeta, ma pochi minuti dopo, 12 per l’esattezza, alcune caratteristiche del pianeta iniziano ad apparire dall’ombra oltre il terminatore – la linea immaginaria che separa il lato diurno da quello notturno d’un pianeta. A questo punto la sonda si trova a circa 1.800 km dalla superficie. Passa ancora qualche minuto e la sonda – a questo punto lontana 2.536 km – ha davanti a sé il pianeta illuminato in maniera ottimale per scattare delle foto ricordo di questa avventura. A farle è la M-Cam 3 – una delle tre camere di monitoraggio di cui è dotata la sonda.

7837283La prima immagine ottenuta la vedete qui a fianco. Nell’angolo alto a sinistra si nota la parte posteriore dell’antenna ad alto guadagno del Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa, una delle due sonde – l’altra è il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo) della Jaxa – della missione. In alto a destra si vede invece uno scorcio della superficie ampiamente craterizzata di Mercurio, con in risalto alcune caratteristiche geologiche interessanti.

Una di queste caratteristiche – visibile appena sotto e a destra dell’antenna – è un cratere da impatto largo 218 km, al quale il 13 giugno scorso il Working Group for Planetary System Nomenclature dell’Unione astronomica internazionale ha assegnato il nome di cratere Manley, in onore dell’artista giamaicana Edna Manley. La natura del materiale scuro presente in questo e altri crateri sarà studiata da BepiColombo una volta che sarà entrato nell’orbita di Mercurio, cercando di misurare il contenuto di carbonio e altri minerali al fine di saperne di più sulla storia geologica del pianeta.

Poco sopra e a sinistra del cratere è visibile un’altra caratteristica della superficie, una delle più alte e lunghe scarpate che siano mai state osservate: Beagle Rupes. Scoperta nel 2008 dalla missione Messenger della Nasa durante il suo primo sorvolo, la struttura geologica – il risultato di una faglia inversa – è lunga circa 600 km e attraversa un caratteristico cratere dalla forma allungata chiamato cratere Sveinsdóttir. L’immagine permette di cogliere a pieno la complessità della topografia di questa regione, con ombre accentuate in prossimità del terminatore che danno un’idea delle altezze e delle profondità delle varie caratteristiche.

«Questa è una regione incredibile per studiare la storia della tettonica di Mercurio», sottolinea Valentina Galluzzi, geologa planetaria all’Inaf Iaps di Roma, nel team dello strumento Simbio-Sys a bordo della missione. «La complessa interazione tra queste scarpate ci mostra che quando il pianeta si è raffreddato e si è contratto ha causato lo scivolamento e lo slittamento della crosta superficiale, creando una varietà di caratteristiche curiose che studieremo più in dettaglio una volta in orbita».

Ma non è finita. L’immagine ci mostra infatti altre strutture, come il cratere Lange, così chiamato in onore della fotografa americana Dorothea Lange, e il cratere Izquierdo, un bacino d’impatto di dimensioni modeste che deve il nome alla pittrice messicana María Izquierdo. L’ultima caratteristica degna di nota è rappresentata dal cratere Raditladi. Si tratta di un cratere largo 260 chilometri, relativamente giovane, a proposito del quale gli scienziati si chiedono come si sia formata la materia fusa di cui è fatto: dall’impatto di corpi celesti o da successive eruzioni vulcaniche separate nel tempo geologico dall’impatto. I dati raccolti da BepiColombo quando sarà in orbita attorno a Mercurio saranno fondamentali per risolvere questo mistero.

7837285Questa che vedete qui accanto è invece la seconda immagine del flyby, catturata da BepiColombo quando la navicella si trovava a poco più di 4000 km dalla superficie del pianeta. Come la prima, è stata scattata dalla M-Cam del Mercury Transfer Module, e mostra anch’essa l’antica superficie fortemente craterizzata del pianeta. Ma in questo caso la visuale più ampia permette di scorgere un altro particolare della superficie: il cratere Eminescu, un cratere del tipo peak ring (cioè con un picco centrale) largo 125 km formatosi circa un miliardo di anni fa.

L’ultima immagine della triade è una sorta di “abbraccio” a Mercurio, con la sonda che sembra avvolgere il pianeta. Quando è stata scattata, alle 22 e 29 del 19 giugno, la sonda si trovava a 11.780 km.

«Le immagini catturate durante questo sorvolo, le migliori fatte dalle M-Cam finora, gettano le basi per un’entusiasmante missione», dice Jack Wright, scienziato planetario dell’Esa e membro dell’M-Cam imaging team di BepiColombo. «Con la dotazione completa di strumenti scientifici studieremo il suo nucleo, i processi superficiali, il suo campo magnetico e l’esosfera, per comprendere meglio l’origine e l’evoluzione del pianeta del Sistema solare più vicino alla sua stella madre.

Oltre a scattare immagini, durante questo sorvolo la sonda BepiColombo ha condotto anche diverse operazioni scientifiche. Con 13 su 16 strumenti accesi e operativi, la sonda ha “scansionato” l’ambiente che lo circonda da luoghi normalmente non accessibili durante una missione orbitale.

Il prossimo sorvolo di Mercurio da parte BepiColombo è in programma per il 5 settembre 2024. Fino ad allora il team di controllo missione avrà un gran da fare. La missione, infatti, entrerà a breve in una parte molto impegnativa del suo viaggio, durante la quale aumenterà gradualmente l’uso della propulsione elettrica per contrastare l’enorme attrazione gravitazionale del Sole che la accelera verso di esso.


Euclid, lancio in calendario per sabato primo luglio


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Euclid, si lancia. È stata fissata la data per la partenza di una delle missioni scientifiche più ambiziose della storia, ideata e realizzata dall’Agenzia spaziale europea. L’ente l’ha resa pubblica oggi, in un comunicato stampa e con un post su Twitter: sarà il 1° luglio alle 17:12 ora italiana, mentre la data di lancio di riserva è il 2 luglio. Nel frattempo, la navicella è stata rifornita del carburante che le serve per arrivare nel suo punto di parcheggio, il punto lagrangiano secondo del sistema solare (L2). Le operazioni sono cominciate nella giornata del 19 giugno in un impianto Astrotech vicino a Cape Canaveral, in Florida, dove il satellite verrà lanciato a bordo di un razzo Falcon 9 fornito da Space X.

🚨We have a targeted launch date of 1 July for the #ESAEuclid launch, with July 2nd as the current back-up launch date

Join us on launch day on #ESAWebTV

👉How-to-follow information in a few days#StayTuned

— ESA’s Euclid mission (@ESA_Euclid) June 21, 2023

Euclid viaggerà con due tipi di propellente: idrazina e azoto gassoso. Dieci propulsori che funzionano a idrazina forniranno la propulsione chimica che lo guiderà fino al punto L2 di Lagrange del sistema Sole-Terra, che gli consentirà di eseguire le manovre mensili per rimanere in orbita e, infine, che servirà a smaltire la navicella al termine della missione. In tutto, sono 140 i chili di idrazina immagazzinati nel serbatoio centrale. L’operazione di rifornimento della navicella è delicata perché il carburante a base di idrazina è altamente tossico. Gli esperti che devono eseguirla, pertanto, come si vede nell’immagine, indossano ciascuno una tuta protettiva di isolamento atmosferico chiamata “scape” (Self-Contained Apparatus Protective Ensemble).

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Euclid durante le operazioni di rifornimento carburante avvenute lo scorso lunedì 19 giugno, giugno in un impianto Astrotech vicino alla base di lancio di Cape Canaveral, dalla quale il satellite partirà il prossimo 1 luglio. Crediti: Esa

L’azoto gassoso, invece, verrà utilizzato per far funzionare dei micropropulsori che garantiranno a Euclid un puntamento sempre preciso e stabile durante le osservazioni. Questo è fondamentale, dal momento che la riuscita scientifica della missione non può prescindere dalla capacità del telescopio di acquisire immagini di altissima qualità. I propulsori sono sei, e l’azoto necessario ad alimentarli – 70 kg in totale – è immagazzinato in quattro serbatoi ad alta pressione: questo quantitativo dovrebbe bastare per l’intera durata (nominale) della missione.

Euclid ci metterà circa un mese per raggiungere la sua destinazione. Durante il viaggio, il telescopio e gli strumenti saranno accesi, il telescopio sarà messo a fuoco e gli strumenti testati. Dopo una successiva fase di calibrazione di due mesi, Euclid inizierà le operazioni scientifiche che dovrebbero durare circa sei anni.

«Dopo 12 anni di sviluppo tecnico e di preparazione scientifica», dice Yannick Mellier, responsabile del consorzio Euclid e astrofisico presso l’Institut d’astrophysique de Paris (Iap) in Francia, «siamo arrivati alla seconda fase della missione, quella che ci dirà qual è la natura dell’energia oscura».


Trappist-1 c, una super-terra nuda


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Illustrazione artistica che mostra Trappist-1c, in primo piano, in orbita attorno alla stella nana ultra-fredda Trappist-1. La misurazione da parte di Jwst della luce emessa nel medio infrarosso da Trappist-1 c suggerisce che il pianeta sia un corpo roccioso privo di atmosfera o con un’atmosfera di anidride carbonica molto sottile. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joseph Olmsted (Stsci)

Fino ad oggi sono stati scoperti ben 4.063 sistemi planetari. Tra questi, uno dei più studiati è Trappist-1. Situato a 40 anni luce di distanza dalla Terra in direzione della costellazione dell’Acquario, il sistema è costituito da sette pianeti legati gravitazionalmente a Trappist-1, un tipo di stella – nane rosse ultra-fredde, le definiscono gli astronomi – molto meno calda del Sole e di dimensioni ridotte.

I sette pianeti del sistema sono Trappist-1 b, c, d, e, f, g ed h, mondi su cui nel tempo hanno messo gli occhi diversi telescopi spaziali, tra cui Spitzer, Kepler e Hubble. Più recentemente a studiare il sistema planetario è stato il telescopio spaziale James Webb.

Il primo obiettivo verso cui gli scienziati hanno puntato il telescopio Nasa/Esa è stato Trappist-1 b, il più interno dei sette pianeti. Ora un team di ricercatori guidati dal Max Planck Institute for Astronomy ha utilizzato il telescopio dallo specchio placcato oro per studiare un altro dei pianeti del sistema: Trappist-1 c, il secondo pianeta in ordine di distanza dalla stella. Scoperto nel 2016 insieme a Trappist-1 b e d con il metodo dei transiti, Trappist-1 c è una super-Terra molto vicina alla sua stella ospite: dista solo 0,0158 unità astronomiche (circa due milioni di chilometri), impiegando 2.4 giorni per completare un’orbita.

I ricercatori hanno puntato Jwst verso Trappist-1 c per un motivo ben preciso: comprendere se al di sopra della superficie rocciosa di questo mondo – simile per massa e dimensioni ai pianeti interni del nostro Sistema solare, in particolare a Venere – vi fosse un’atmosfera. I risultati dello studio, pubblicato ieri sulle pagine della rivista Nature, suggeriscono che Trappist-1 c non possiede un’atmosfera, e se ce l’ha è estremamente sottile.

«Vogliamo sapere se i pianeti rocciosi hanno atmosfere o meno», dice Sebastian Zieba, ricercatore presso il Max Planck Institute for Astronomy, in Germania, e primo autore dello studio. «In passato, potevamo davvero studiare solo pianeti con atmosfere spesse e ricche di idrogeno. Con il telescopio James Webb possiamo finalmente iniziare a cercare atmosfere dominate da ossigeno, azoto e anidride carbonica».

«Trappist-1 c è interessante perché è fondamentalmente un gemello di Venere», aggiunge Laura Kreidberg, anche lei ricercatrice al Max Planck Institute e tra i firmatari dello studio. «Il pianeta ha all’incirca le stesse dimensioni e riceve una quantità di radiazione dalla sua stella ospite simile a quella che Venere riceve dal Sole. Pensavamo dunque che, come Venere, potesse avere un’atmosfera densa di anidride carbonica».

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Curva di luce che mostra la variazione di luminosità del sistema Trappist-1 quando il pianeta Trappist-1 c si sposta dietro la stella. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joseph Olmsted (Stsci)

Per rivelare la presenza di un involucro gassoso attorno al pianeta, il team ha utilizzato il Mid-Infrared Instrument (Miri) di Jwst, uno strumento sensibile alle lunghezze d’onda del medio infrarosso, grazie al quale è possibile determinare la temperatura d’un pianeta. Poiché la temperatura di un esopianeta è influenzata dalla presenza di un’atmosfera, l’utilizzo dello strumento permette di vincolare le proprietà di questi involucri gassosi.

Più in dettaglio, nello studio i ricercatori hanno osservato il sistema Trappist-1 in quattro diverse occasioni durante delle eclissi secondarie: un fenomeno che si verifica quando un pianeta transita dietro alla sua stella ospite. Durante questi eventi, l’emissione termica del pianeta non contribuisce allo spettro della luce osservata, che dipende solo dalla luce della stella. Alla fine dell’eclissi le cose però cambiano: in questo caso, infatti, la luce rivelata è la somma della luce della stella e del pianeta messi insieme. Sottraendo dalla luminosità rivelata alla fine dell’eclissi (stella più pianeta) la luminosità durante l’eclissi (solo stella), i ricercatori hanno calcolato il contributo in emissione del solo pianeta e quindi derivato la temperatura del lato diurno, ottenendo così informazioni sulla sua atmosfera.

Con una temperatura di circa 106 gradi Celsius, Trappist-1 c è l’esopianeta roccioso più freddo che sia mai stato caratterizzato sulla base della sua emissione termica, sottolineano i ricercatori.

«I nostri risultati suggeriscono che il pianeta sia una roccia nuda senza atmosfera, o che il pianeta abbia un’atmosfera di CO2 molto sottile (più sottile della Terra e persino di Marte) e senza nuvole», spiega Zieba. «Se il pianeta avesse una spessa atmosfera di CO2, avremmo osservato eclissi secondarie molto deboli, o non l’avremmo osservate affatto. Questo perché la CO2 avrebbe assorbito tutta la luce nel medio infrarosso, quindi non avremmo rivelato alcuna emissione provenire dal pianeta».

I dati mostrano dunque che è improbabile che il pianeta abbia un’atmosfera simile a quella di Venere. Inoltre, l’assenza di una densa atmosfera suggerisce che il pianeta si sia formato con relativamente poca acqua e altri componenti necessari per renderlo abitabile.

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Grafico che mette a confronto la luminosità misurata di Trappist-1 c con i dati di luminosità simulati per tre diversi scenari. La misurazione (indicata nel grafico dal rombo rosso) è coerente con un pianeta roccioso privo di atmosfera (linea verde) o con un pianeta con un’atmosfera di anidride carbonica molto sottile senza nuvole (linea blu). Una densa atmosfera ricca di anidride carbonica con nubi di acido solforico, simile a quella di Venere (linea gialla), è molto improbabile. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joseph Olmsted (Stsci)

La sensibilità richiesta per distinguere tra vari scenari atmosferici su un pianeta così piccolo e così lontano come Trappisti-1 c è davvero notevole, aggiungono i ricercatori. La diminuzione della luminosità che Jwst ha rilevato durante l’eclissi secondaria è stata dello 0,04 per cento, equivalente a guardare un insieme di 10mila minuscole lampadine e notare che solo quattro sono spente.

«Da decenni ormai ci si chiede se i pianeti rocciosi siano in grado di mantenere atmosfere», conclude Kreidberg. «La capacità del James Webb Space telescope ci permette di iniziare a confrontare i sistemi di esopianeti con il nostro Sistema solare in un modo che non abbiamo mai fatto prima».

Lo studio in questione è stato condotto come parte del programma General Observers (Go) di Jwst, ed è uno degli otto programmi previsti nel primo anno di attività scientifiche del telescopio progettati per aiutare a caratterizzare il sistema planetario Trappist-1. Il prossimo anno, i ricercatori condurranno un’indagine di follow-up per osservare le orbite di Trappist-1 b e Ttrappist-1 c. Ciò, oltre a consentire di vedere come cambiano le temperature dei due pianeti dal giorno alla notte, fornirà ulteriori vincoli sulla presenza o meno di atmosfere.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “No thick carbon dioxide atmosphere on the rocky exoplanet TRAPPIST-1 c”, di Sebastian Zieba, Laura Kreidberg, Elsa Ducrot, Michaël Gillon, Caroline Morley, Laura Schaefer, Patrick Tamburo, Daniel D. B. Koll, Xintong Lyu, Lorena Acuña, Eric Agol, Aishwarya R. Iyer, Renyu Hu, Andrew P. Lincowski, Victoria S. Meadows, Franck Selsis, Emeline Bolmont, Avi M. Mandell e Gabrielle Suissa


Pulsar che non sono stelle di neutroni


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L’emissione periodica di J1912-4410 registrata da MeerKat a 1,28 GHz. Crediti: Dr. Ian Heywood

A 773 anni luce da noi c’è una piccola trottola che ruota su se stessa. Si chiama J1912−4410 ed è una stella fatta di materiale ultra-denso: se potessimo portarne un cucchiaino qui sulla Terra, peserebbe 15 tonnellate. E come un faro emette luce pulsante al ritmo d’un segnale ogni cinque minuti circa: ogni 318.2 secondi, a voler essere precisi – questo è il suo periodo di rotazione. Sembrerebbe la descrizione di una strana pulsar, insolitamente lenta e – per quanto densa rispetto ai nostri standard – molto leggera. E in effetti è una pulsar. Ma di un tipo rarissimo, tanto che con questa appena scoperta se ne conoscono solo due: l’oggetto pulsante non è infatti una stella di neutroni, bensì una nana bianca. Rara al punto che – oltre a questa appena scoperta, descritta la settimana scorsa su Nature Astronomy – se ne conosce un’altra soltanto: AR Scorpii (o AR Sco), scoperta nel 2016.

Più precisamente, in queste pulsar nane bianche a pulsare è un sistema binario, formato da una nana bianca – ovvero una stella di piccola massa che ha esaurito tutto il suo combustibile – e dalla sua compagna nana rossa in rotazione l’una attorno all’altra. Nel caso appena scoperto, il periodo di rivoluzione del sistema è di circa quattro ore. Avvolte da un campo magnetico fortissimo (un miliardo di volte il campo magnetico terrestre), queste nane bianche, ruotando su sé stesse ogni pochi minuti, inondano periodicamente le compagne nane rosse con potenti fasci di particelle cariche e radiazioni, facendo sì che l’intero sistema sembri – appunto – pulsare, illuminandosi e affievolendosi drasticamente in modo ciclico. La maggior parte dell’energia di questi sistemi, spiegano i ricercatori, è alimentata dal rallentamento della nana bianca in rotazione, dovuto a sua volta alla resistenza esercitata dal suo forte campo magnetico.

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Rappresentazione artistica di una pulsar nana bianca. Crediti: Mark Garlick//University of Warwick

Ma cosa c’è all’origine di questi campi magnetici così forti? Una teoria chiave per spiegarne la presenza è quella del “modello della dinamo”: dinamo (ovvero, generatori elettromagnetici) presenti nel nucleo delle nane bianche – come in quello della Terra, ma molto più potenti. Per verificare questa teoria è però necessario confermarne le previsioni su un ampio campione di pulsar nane bianche.

Ecco dunque l’importanza della scoperta di questo secondo esemplare, con implicazioni anche per lo studio dell’evoluzione stellare. A causa della loro età, infatti, le nane bianche del sistema “pulsante” dovrebbero essere fredde. Al tempo stesso, le loro compagne devono essere abbastanza vicine da far sì che l’attrazione gravitazionale della nana bianca sia stata, in passato, forte a sufficienza da sottrarre massa alla compagna, causando una rotazione veloce. Ebbene, tutte queste ipotesi si sono rivelate valide per la nuova pulsar nana bianca appena scoperta: la nana bianca è più fredda di 13mila gradi kelvin, ha un periodo di rotazione di circa cinque minuti e l’attrazione gravitazionale della nana bianca – così come la radiazione emessa – esercita un forte effetto sulla stella compagna.

«L’origine dei campi magnetici è una grande questione aperta in molti campi dell’astronomia, e questo è particolarmente vero per le nane bianche. I campi magnetici delle nane bianche possono essere oltre un milione di volte più forti del campo magnetico del Sole, e il modello della dinamo aiuta a spiegarne il motivo. La scoperta di J1912-4410 ha rappresentato un passo avanti fondamentale in questo campo», spiega la prima autrice dello studio, Ingrid Pelisoli, della University of Warwick (Regno Unito). «Abbiamo utilizzato i dati raccolti da numerosi telescopi alla ricerca di potenziali pulsar nane bianche, concentrandoci su quelle che avevano caratteristiche simili ad AR Sco. Dopo aver osservato una ventina di candidate, ne abbiamo trovata una che mostrava variazioni di luce molto simili a quelle di AR Sco».

«Questa ricerca è un’eccellente dimostrazione del fatto la scienza funziona: possiamo fare previsioni e metterle alla prova, ed è così che ogni scienza progredisce», conclude Pelisoli.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A 5.3-min-period pulsing white dwarf in a binary detected from radio to X-rays”, di Ingrid Pelisoli, T. R. Marsh, David A. H. Buckley, I. Heywood, Stephen. B. Potter, Axel Schwope, Jaco Brink, Annie Standke, P. A. Woudt, S. G. Parsons, M. J. Green, S. O. Kepler, James Munday, A. D. Romero, E. Breedt, A. J. Brown, V. S. Dhillon, M. J. Dyer, P. Kerry, S. P. Littlefair, D. I. Sahman e J. F. Wild


Deep Sensing: al Meet la radioastronomia si fa arte


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Rasa Šmite e Raitis Šmits. Crediti: Kristine Madjare. Fonte: rixc.org

Appuntamento giovedì 22 giugno a Milano, nella sala immersiva del Meet Digital Culture Center, in viale Vittorio Veneto 2, per l’opening di Deep Sensing, un’opera d’arte immersiva basata sulla visualizzazione di dati dall’universo e sistemi di intelligenza artificiale, realizzata dagli artisti del Rixc, The Center for New Media Culture (Riga), Rasa Šmite e Raitis Šmits. Accompagnata da un testo curatoriale di Maria Grazia Mattei, fondatrice e presidente di Meet, e Patrizia Caraveo, astrofisica, l’installazione prende spunto dallo storico radiotelescopio RT-32 di Irbene, nella Lettonia occidentale, che dopo il 1994 è diventato uno strumento a servizio degli scienziati. La gigantesca antenna di 32 metri è stata progettata per ricevere segnali dalle profondità dello spazio.

Vent’anni dopo un famoso convegno sull’astronomia, “RT-32. Acoustic Space Laboratory” (2001), tornando al radiotelescopio di Irbene, Rasa Šmite e Raitis Šmits hanno lavorato a un progetto di ricerca artistica per affrontare questioni socio-ecologiche. Deep Sensing è un’opera d’arte che riflette sulla storia, sull’evoluzione del radiotelescopio e sul ruolo che questo impianto ha avuto e continua ad avere nella ricerca spaziale. Nell’installazione, la storica antenna diventa una nuvola di punti immateriali, una visualizzazione di dati sonori dall’universo. L’esperienza immersiva permette al pubblico di visualizzare la convergenza delle radiazioni cosmiche e delle onde elettromagnetiche che arrivano dal Sole e dagli altri pianeti, così come da stelle di altre galassie e da misteriosi buchi neri inesplorati.

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Lo storico radiotelescopio RT-32, struttura fondata nel 1974 dai militari sovietici e rimasta segreta fino al 1993. Fonte: Wikipedia

«Nello spazio vuoto i suoni non possono propagarsi. Eppure gli oggetti celesti cantano – o più precisamente vibrano – e noi possiamo trasformare queste vibrazioni in suono dopo averle registrate», spiega Patrizia Caraveo. «Collegando un altoparlante ai loro telescopi, i radioastronomi possono convertire in suono i segnali che ricevono. Il processo di sonificazione si applica facilmente a tutti i fenomeni ciclici, perché i periodi vengono immediatamente trasformati in frequenze sonore. L’idea non è nuova: interpretare i moti ritmici dei pianeti in un contesto musicale era forse un passatempo di Pitagora, e certamente lo applicò Keplero quando scrisse il trattato intitolato Harmonices Mundi, in cui faceva corrispondere a ogni pianeta una forma geometrica solida e un’armonia musicale. La sonificazione è un modo diverso di addentrarsi nell’intimità degli oggetti celesti e, oltre ai suoi usi scientifici, può assumere anche un inaspettato valore artistico. Ci immergeremo in un’esperienza multimediale costruita a partire dai dati raccolti da un radiotelescopio, collegando il cielo e la Terra alla ricerca di una nuova armonia».

Rasa Šmite e Raitis Šmits sono artisti con sede a Riga (Lettonia) e Karlsruhe (Germania), co-fondatori del Rixc Center for New Media Culture di Riga, in Lettonia, co-curatori del Rixc Art and Science Festival e redattori capo di Acoustic Space. Insieme creano opere d’arte visionarie: dai pionieristici esperimenti di internet radio negli anni ’90, alle indagini artistiche sullo spettro elettromagnetico e alle collaborazioni con i radioastronomi, fino alle più recenti esplorazioni “tecno-ecologiche”. I loro progetti hanno avuto diverso nomination (Purvitis Prize 2019, 2021, International Public Arts Award – Eurasian region 2021), sono stati premiati (Ars Electronica 1998, Falling Walls – Science Breakthrough 2021) ed esposti ampiamente in varie istituzioni tra cui la Biennale di architettura di Venezia, il Museo nazionale delle arti della Lettonia, House of Electronic Arts di Basilea, Ars Electronica Festival di Linz e in altre sedi, mostre e festival in Europa, Stati Uniti, Canada e Asia.

Ingresso gratuito con prenotazione.


BepiColombo a 236 km da Mercurio


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“Promemoria! Questa sera effettueremo il nostro terzo Flyby di Mercurio, avvicinandoci al lato notturno del pianeta entro i 240 km di altitudine. Prevediamo di scattare immagini del lato illuminato circa 13 minuti dopo, pronte per essere condivise domani pomeriggio. Rimanete sintonizzati”.

Queste che avete appena letto sono le parole con cui il team della missione BepiColombo annuncia su Twitter il terzo assist gravitazionale offerto da Mercurio alla sonda Esa/Jaxa. La distanza minima del veicolo dalla superficie del pianeta sarà raggiunta intorno alle 21:34 ora italiana di oggi, lunedì 19 giugno.

❗️Reminder! We're making our 3rd #MercuryFlyby tonight, approaching on the nightside within 240 km altitude. We expect to take illuminated images from ~13+ mins later, ready to share tomorrow afternoon #StayTuned

Full flyby details👉t.co/pA00D4jiYO #ExploreFarther pic.twitter.com/ltbgsFCEM3

— BepiColombo (@BepiColombo) June 19, 2023

Dopo quello del 2 ottobre 2021 e del 23 giugno scorso, per la terza volta da quando è stata lanciata – il 20 ottobre 2018 – BepiColombo si appresta dunque a sorvolare il suo obiettivo. Come i due precedenti sorvoli di Mercurio, l’obiettivo di questo flyby è di utilizzare la gravità del pianeta per vincere l’enorme attrazione gravitazionale esercitata dal Sole, in modo che la sonda perda abbastanza energia, rallenti gradualmente la sua corsa e si inserisca, entro dicembre 2025, nell’orbita di Mercurio.

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Cronoprogramma della missione Esa/Jaxa BepiColombo. Crediti: Esa

Stasera il team della missione farà in modo che BepiColombo “sfiori” il pianeta esattamente alla giusta distanza, con la giusta angolazione e velocità. Per riuscirci la squadra di controllo missione lo scorso e 19 maggio ha eseguito la più grande manovra di propulsione – guidata dal sistema di propulsione solare elettrica – che la sonda abbia mai effettuato, con lo scopo di correggere gli errori nell’orbita accumulati durante il suo viaggio e i precedenti sorvoli. Si tratta di manovre di routine, spiegano i ricercatori, senza le quali la sonda si troverebbe troppo lontano da Mercurio e dalla parte sbagliata del pianeta.

Al momento dell’avvicinamento a Mercurio, BepiColombo accelererà fino a 5.4 km/s grazie all’attrazione gravitazionale del pianeta. Il passaggio ravvicinato ridurrà poi la velocità della navicella rispetto al Sole di 0.8 km/s, cambiandone la direzione di 2.6 gradi. «Quando inizierà a sentire l’attrazione gravitazionale di Mercurio, BepiColombo viaggerà a una velocità di 3.6 km/s rispetto al pianeta. Questa è poco più della metà della velocità con cui si è avvicinato durante i due precedenti passaggi ravvicinati», spiega Frank Budnik, responsabile della dinamica di volo di BepiColombo. «Il nostro veicolo spaziale è partito dalla Terra con una elevata energia. Inoltre, come il nostro pianeta, sta orbitando intorno al Sole. Affinché la sonda sia catturata da Mercurio, dobbiamo rallentarla. Stiamo usando la gravità della Terra, di Venere e Mercurio per fare proprio questo», aggiunge Budnik.

La missione BepiColombo studierà Mercurio sotto molti punti di vista. I dati raccolti dalla missione consentiranno agli scienziati di studiare l’interno e la composizione del pianeta, la geologia e la morfologia della superficie. Ma anche il campo magnetico e la storia della sua formazione ed evoluzione. Per fare ciò BepiColombo ha a bordo in tutto 16 tra strumenti ed esperimenti, alcuni dei quali sono già stati attivati durante la fase di crociera. Questo flyby è il primo durante il quale verranno attivati altri due strumenti della sonda. Il primo è il BepiColombo Laser Altimeter (Bela) e studierà la morfologia di Mercurio. Il secondo – insieme a Isa, Serena e Simbio-sys uno dei quattro strumenti a guida italiana – è il Mercury Orbiter Radio-science Experiment (More) e studierà invece il campo gravitazionale e il nucleo del pianeta.

Come anticipato, durante il sorvolo di oggi BepiColombo sarà all’ombra di Mercurio. Ciò significa che non ci saranno immagini illuminate dell’approccio più vicino al pianeta. Ma non temete, perché istantanee che mostrano i dettagli della superficie di Mercurio verranno catturate a partire dal 13mo minuto dopo il flyby, quando la parte illuminata del pianeta entrerà nel campo visivo della navicella, che a quel punto si troverà circa 1.840 km di distanza. A ottenere le immagini saranno le telecamere di monitoraggio della sonda, che forniscono istantanee in bianco e nero con una risoluzione di 1024 x 1024 pixel. Mentre BepiColombo oltrepassa Mercurio, vedremo il pianeta apparire nelle immagini della M-Cam 3 – una delle tre camere di monitoraggio di cui è dotata la sonda – in alto a destra e poi spostarsi in basso a sinistra. Le immagini saranno scaricate entro un paio d’ore dal flyby e dovrebbero essere disponibili per il rilascio pubblico già a partire dal pomeriggio di domani.

Dopo questo sorvolo, la missione entrerà in una parte molto impegnativa del viaggio verso Mercurio, durante la quale il team che gestisce la missione si servirà più frequentemente della propulsione elettrica alimentata da energia solare. In particolare, il controllo missione effettuerà una serie di prolungate accensioni del sistema di propulsione elettrica solare per frenare ulteriormente la sonda, contrastando l’enorme attrazione gravitazionale del Sole che la accelera verso di esso. BepiColombo ha già effettuato un sorvolo della Terra, due di Venere e due di Mercurio; tre con quello in programma per oggi. Se tutto andrà secondo i piani, BepiColombo dovrebbe inserirsi nell’orbita di Mercurio entro dicembre del 2025. Non prima, però, d’aver effettuato altri tre sorvoli del pianeta, in programma il 5 settembre e il 2 dicembre 2024, e il 9 gennaio 2025 rispettivamente.


L’inferno di Fu Orionis


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Una simulazione delle prime fasi del processo. Un gioviano caldo, spintosi troppo vicino alla sua stella, inizia a evaporare spargendo i suoi strati esterni nel disco circostante. Il materiale extra rende il disco molto più caldo. Quando il pianeta perde la maggior parte della sua massa, viene completamente distrutto tramite il processo di spaghettificazione, lo stesso che si verifica nei buchi neri supermassicci. Crediti: Sergei Nayakshin/Vardan Elbakyan, University of Leicester

Nel 1937, la luminosità di una giovane stella a 1.200 anni luce da noi – Fu Orionis (o Fu Ori), nella costellazione di Orione – aumentò di un centinaio di volte. Per molto tempo si è creduto che fosse un oggetto unico nel suo genere, finché nel 1970 ne venne scoperto un altro con un comportamento molto simile. Da allora ne sono stati scoperti diversi ed è stata quindi introdotta una nuova classe di stelle variabili: le variabili Fu Orionis. Si tratta di stelle estremamente giovani, che non hanno ancora raggiunto la sequenza principale e dunque si trovano ancora in fase di formazione, caratterizzate da improvvisi fenomeni eruttivi.

Quella prima stellina che ha dato il nome alla classe, e che ancora oggi non è tornata alla luminosità normalmente prevista, è stata recentemente oggetto di studio da parte di un gruppo di ricercatori guidati dall’Università di Leicester e finanziati dal Science and Technology Facilities Council (Stfc) del Regno Unito, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Monthly Notice della Royal Astronomical Society.

Si è sempre pensato che l’aumento della luminosità di Fu Ori fosse dovuto a materiale in caduta sulla protostella proveniente dal suo disco protoplanetario, ma i dettagli non sono mai stati chiariti. Ora, gli scienziati hanno suggerito che la causa dell’aumento di luminosità rilevato 85 anni fa sia da ricercarsi in un pianeta dieci volte più massiccio di Giove che sta “evaporando” vicino alla protostella, che strappa materiale dal pianeta e lo inghiotte, generando vigorosi brillamenti stellari. I ricercatori hanno chiamato questo nuovo processo evaporazione estrema di giovani pianeti giganti gassosi, che si verifica in dischi con temperature medie superiori a 30mila gradi.

I ricercatori hanno sviluppato una simulazione per Fu Ori, modellando un pianeta gigante gassoso formatosi nella parte esterna di un disco. La simulazione mostra come un tale seme planetario possa migrare verso la stella ospite molto rapidamente, attratto dalla sua forza gravitazionale. Quando raggiunge l’equivalente di un decimo della distanza tra la Terra e il Sole, il materiale attorno alla stella è così caldo da incendiare gli strati esterni dell’atmosfera del pianeta. Il pianeta diventa quindi una fonte imponente di materiale “fresco” che alimenta la stella e la fa crescere e brillare più luminosa.

«Questa è stata la prima stella in cui si è osservato questo tipo di bagliore. Ora abbiamo un paio di dozzine di esempi di tali brillamenti in altre giovani stelle che si stanno formando nel nostro angolo della Galassia. Mentre gli eventi Fu Ori sono estremi rispetto alle normali giovani stelle, dalla durata e dall’osservabilità di tali eventi si può concludere che la maggior parte dei sistemi solari che si stanno formando “esplodono” in questo modo una dozzina di volte mentre il disco protoplanetario li circonda», afferma Vardan Elbakyan, co-autore dello studio.

«Se il nostro modello è corretto, allora potrebbe avere profonde implicazioni per la nostra comprensione della formazione di stelle e pianeti. I dischi protoplanetari sono spesso definiti vivai di pianeti. Ma ora scopriamo che questi vivai non sono luoghi tranquilli come immaginavano i ricercatori del Sistema solare, sono invece luoghi tremendamente violenti e caotici dove molti giovani pianeti – forse la maggior parte – vengono bruciati e mangiati dalle loro stelle», conclude Sergei Nayakshin della School of Physics and Astronomy dell’Università di Leicester. «Ora è importante capire se altre stelle del genere possono davvero essere spiegate con lo stesso scenario».

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Cento oggetti near-Earth confermati dalle Madonie


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Alessandro Nastasi è l’astronomo che ha curato l’automatizzazione del Galhassin Robotic Telescope e che gestisce le osservazioni dei Neo. Crediti: Gal Hassin

Gli impatti meteoritici hanno certamente svolto un ruolo fondamentale nel plasmare la Terra e il suo ecosistema nel corso del tempo. Tuttavia, il rischio di impatti non riguarda solo il passato del nostro pianeta. In particolare, i Near-Earth Objects (Neo) costituiscono una famiglia di asteroidi che richiede un monitoraggio costante.

Tecnicamente, un Neo viene definito come un oggetto che orbita attorno al Sole a una distanza compresa tra 0.98 e 1.3 unità astronomiche (Ua, pari a 150 milioni di km, ossia la distanza media tra la Terra e il Sole). Di conseguenza, questi oggetti orbitano a distanze ravvicinate rispetto al nostro pianeta. Tra i Neo, quelli considerati ad alto rischio di impatto (Pha, Potentially Hazardous Objects) sono quelli la cui orbita raggiunge una distanza minima dall’orbita terrestre di 0.05 Ua (determinata dal parametro di minima distanza all’intersezione delle orbite, o Moid), o che hanno dimensioni di almeno 140 metri. A oggi si contano più di 30mila Neo, tra i quali circa 2.300 sono classificati come Pha. Gli oggetti scoperti recentemente, in attesa di una classificazione definitiva, vengono inseriti nella Confirmation Page del Minor Planet Center. Le osservazioni di questi oggetti devono essere tempestive, per permetterne la classificazione prima che si corra il rischio di perderli.

Le principali agenzie spaziali hanno da tempo avviato campagne di osservazione e monitoraggio dei Neo, utilizzando telescopi di vario tipo. Un ruolo fondamentale in questo lavoro è svolto da siti di osservazione con piccoli telescopi distribuiti in diverse aree della Terra. I dati delle osservazioni dei Neo vengono successivamente resi pubblici e divulgati su portali come NeoDyS.

Da alcuni anni, la stazione osservativa del Gal Hassin – situata nel territorio del comune di Isnello (PA), nel cuore delle Madonie – partecipa attivamente alle osservazioni dei Neo con il suo telescopio riflettore Galhassin Robotic Telescope (Grt), che ha un’apertura di 400 mm e un rapporto focale f3.8. Il Grt consente osservazioni su un ampio campo di vista di 83×83 arcominuti, corretto grazie allo spianatore integrato. L’efficacia del Grt nelle osservazioni dei Neo è testimoniata dal finanziamento ottenuto nel 2019, assegnato dal Planetary Society di Pasadena (California) come parte dello Shoemaker Neo Grant 2019.

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Distribuzione di magnitudine e velocità apparente dei cento Neo osservati con il Grt (cliccare per ingrandire). “L34” è il codice attribuito al Grt dal Minor Planet Center

In questi giorni, il Gal Hassin celebra il centesimo Neo la cui natura è stata confermata attraverso osservazioni effettuate con il Grt. I cento Neo osservati con il Grt presentano una magnitudine V compresa tra 15 e 20 e una velocità apparente compresa tra 0.1 e 200 arcosecondi al minuto. Per fare un confronto con altre strutture dedicate alle osservazioni dei Neo, le osservazioni del Grt si sono posizionate tra le prime tre in Europa per il 70 per cento di questi Neo e sono state le prime in assoluto nel 40 per cento dei casi. Il Grt è inoltre rientrato tra i primi venti osservatori al mondo per il contributo fornito alle osservazioni di Neo nel mese di maggio 2022, secondo la classifica stabilita da NeoDyS a ogni lunazione. Il ruolo di primo piano svolto dai telescopi del Gal Hassin – gestiti dall’astronomo Alessandro Nastasi – nel monitoraggio dei Neo continuerà anche in futuro, anche grazie al supporto di Giovanni Valsecchi (Inaf Roma) e Mario Di Martino (Inaf Torino).

«È cruciale riuscire a osservare i Neo-Cp, ossia inseriti nella Confirmation Page, subito dopo la loro scoperta», spiega Nastasi a Media Inaf, «per evitare che vengano persi a causa dell’incertezza iniziale – e crescente con il tempo – nella loro posizione, e per confermare che siano oggetti reali. E sono osservazioni che vanno fatte entro poche ore – o al massimo giorni – dalla prima osservazione, prima che escano dalla Neo-Cp e venga loro assegnata una designazione provvisoria. Grazie al suo grande campo e focale ridotta, il Grt – il nostro telescopio robotico riflettore – è ideale per l’osservazione di oggetti veloci e con un’elevata incertezza nella posizione: esattamente le caratteristiche dei Neo-Cp».

In un futuro prossimo, al Gal Hassin sarà operativo anche il Wide-Field Mufara Telescope, un telescopio a primo fuoco con un’apertura di un metro installato sulla vetta del Monte Mufara, a 1650 metri.


Perdendo l’oscurità


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La città di Chicago, vista dall’alto attraverso nuvole sparse, con la costa del lago Michigan in basso. È visibile un ampio inquinamento luminoso proveniente da fonti quali lampioni, edifici commerciali, veicoli e strutture ricreative. La luce che si propaga verso il cielo (e non verso il basso) non svolge alcuna funzione utile, ma è abbastanza luminosa da rivelare la pianta della città e penetrare attraverso le nuvole. Crediti: Science

La vista della Via Lattea è ormai un lusso che pochi, al mondo, possono concedersi. Persino in montagna o in mezzo al mare, dove le stelle hanno sempre riempito il cielo notturno, le luci provenienti dalle città vicine impediscono l’oscurità. E se da un lato l’illuminazione notturna ha molti vantaggi dei quali hanno beneficiato cittadini e attività umane, dall’altro troppo spesso i tempi e i luoghi illuminati sono eccessivi, invadenti e dannosi: provocano inquinamento luminoso.

“Hello darkness my old friend, I’ve come to talk with you again”, cantavano i Simon and Garfunkel. Ma il rischio, se continuiamo a illuminare le nostre città, è che l’oscurità, vecchia amica, non la conosceremo più.

E non è solo una questione di vista: l’assenza di oscurità influenza il bioritmo, confonde molte specie animali e vegetali, ha conseguenze sulla salute di cui si discute da tempo. Tanto che la rivista Science ha deciso di dedicare a questo problema un numero speciale che esamina gli effetti dell’inquinamento luminoso sul mondo naturale, sulla salute umana e sul cielo notturno, e discute di come si possa misurare il livello di inquinamento luminoso e di cosa si possa fare per diminuirlo.

Non è la prima volta che Science presta attenzione alla questione del cielo notturno. All’inizio di quest’anno, infatti, aveva pubblicato un articolo in cui gli autori avevano analizzato l’andamento della luminosità del cielo negli ultimi 11 anni, a cui seguivano previsioni preoccupanti per il futuro. Se vogliamo continuare a vedere le stelle, occorre agire subito sulla regolamentazione dell’illuminazione notturna: questa la conclusione. A questo si aggiunge anche l’inquinamento provocato dalle costellazioni di satelliti in orbita bassa, di cui si era discusso in una serie di articoli dedicati allo stesso tema e pubblicati, stavolta, dalla rivista Nature Astronomy.

L’aspetto positivo dell’inquinamento luminoso è che, a differenza dell’inquinamento atmosferico, non si accumula. Basta spegnere le luci e il nastro si riavvolge immediatamente. Un ulteriore beneficio della riduzione dell’illuminazione notturna, poi, è la diminuzione degli sprechi in termini di energia elettrica, e quindi dei relativi costi finanziari e delle emissioni di gas serra associate. Sebbene i lampioni siano la forma più evidente di illuminazione esterna, l’inquinamento luminoso deriva spesso da edifici, veicoli, pubblicità, impianti sportivi e molte altre fonti. E spesso i responsabili di queste fonti di illuminazione non si rendono conto di provocare un inquinamento che danneggia l’ambiente. Un’attenta progettazione, un uso appropriato della tecnologia e una regolamentazione efficace possono assicurarci di mantenere i benefici della luce artificiale di notte, riducendo al minimo i suoi effetti nocivi.

Ma veniamo agli articoli pubblicati su Science. Uno per uno, passano in rassegna tutti coloro che, a causa dell’inquinamento luminoso, subiscono dei danni. In un primo contenuto l’attenzione è rivolta a piante, animali e interi ecosistemi: la perdita del cielo notturno sta causando la perdita di habitat, l’interruzione delle reti alimentari e il declino delle popolazioni di insetti. Nell’articolo si evidenzia come le specie rispondano all’inquinamento luminoso in vari modi, spesso diversi da quelli delle altre specie, rendendo difficile lo sviluppo di metodi universali per mitigare gli impatti negativi della luce in un ecosistema.

Avrete poi certamente sentito parlare del ritmo circadiano, quella specie di orologio interno di cui siamo dotati (noi esseri umani, così come gli animali e le piante), e che naturalmente regola la veglia, il sonno e la produzione di ormoni sulla base del momento della giornata e delle attività che, naturalmente, gli sarebbero consone. Peccato che, sempre più spesso, si lavora invece di riposare, si dorme mentre fuori è pieno giorno, e molte palestre, supermercati e locali sono aperti 24 ore al giorno, per consentirci di non perdere nemmeno un’occasione nella giornata. Ebbene, secondo un altro studio in cui si discute la risposta del corpo umano alla luce notturna, si mettono in evidenza le disuguaglianze nelle risposte fisiologiche di diverse popolazioni al variare dei livelli di esposizione all’inquinamento luminoso. Si parla, in particolare, degli effetti sul sistema visivo, circadiano e neurocomportamentale dovuti all’esposizione ai lampioni urbani, alle arene sportive all’aperto e alla pubblicità illuminata. Il risultato: l’esposizione continua alle luci notturne affatica il sistema visivo, altera la fisiologia circadiana, sopprime la secrezione di melatonina, compromette il sonno e aumenta il rischio di sviluppare patologie croniche.

E veniamo finalmente a chi, a causa dell’inquinamento luminoso, vede un sensibile peggioramento delle proprie possibilità lavorative: gli astronomi. Professionisti, ma anche amatori e divulgatori. Qui la regolamentazione è più che mai urgente, scrivono gli autori dello studio. Tra le fonti di inquinamento in rapido aumento per gli astronomi ci sono le grandi costellazioni di satelliti in orbita, le interferenze a radiofrequenza e la diffusione dell’illuminazione a Led che produce più luce blu rispetto alle tecnologie precedenti. Senza contare che molti dei luoghi in cui sono collocati i telescopi sono anche luoghi turistici in cui le fonti di inquinamento luminoso garantiscono anche maggiori servizi in questo settore, inasprendo il conflitto di interessi.

Infine, gli ultimi due articoli riguardano aspetti più pratici e tecnici, che considerano gli attuali limiti nella misurazione dell’inquinamento luminoso e le leggi attualmente in vigore. Fra i punti sollevati, ad esempio, c’è che per studiare nuove strategie di mitigazione occorre migliorare il metodo di misura e rilevazione dell’inquinamento – attualmente troppo influenzato dalle condizioni meteorologiche – in modo da inquadrare meglio il problema e le sue cause. Una questione di non secondaria importanza, quando si parla delle leggi e delle norme attualmente in vigore per regolamentare l’inquinamento luminoso, è la percezione del problema da parte dei cittadini – ovvero dei fruitori dell’illuminazione – e dei decisori politici: secondo quanto riportato nell’ultimo articolo della serie, una migliore comunicazione delle emissioni di carbonio e degli sprechi economici dell’inquinamento luminoso, che ponga enfasi sui livelli sicuri ma non eccessivi di illuminazione esterna, potrebbe convincere il pubblico e gli utenti commerciali a ridurre l’inquinamento luminoso che generano.

Per saperne di più:

Leggi su Science gli articoli della special issue Losing the darkness:


Da un liceo della Calabria alla stratosfera


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Il versante ionico della Calabria settentrionale, il centro della Calabria e l’altopiano della Sila ripresi dalla sonda. Crediti: Mocris 2

È decollata mercoledì 14 giugno dallo stadio comunale di Paola, in provincia di Cosenza, la sonda Mocris 2, un esperimento didattico per il rilevamento e lo studio dei raggi cosmici nell’atmosfera del territorio calabrese realizzato dal Liceo scientifico di Cariati (Cs). Il pallone ha raggiunto un’altitudine di 33mila metri, rilevando anche ozono e radiazione ultravioletta oltre a scattare immagini della Calabria e regioni limitrofe dalla stratosfera.

Gli allievi delle classi quarta e quinta del liceo sono stati coinvolti in tutte le fasi della progettazione e realizzazione della sonda, il cui obiettivo principale è la misura del flusso di raggi cosmici in funzione della quota.

«Abbiamo avuto l’onore di capire che la fisica apre la mente e soprattutto ci da la possibilità di guardare oltre, di chiederci sempre il perché delle cose e non fermarci davanti alle apparenze», commenta Ilaria Straface, studentessa del Liceo scientifico di Cariati che ha partecipato al progetto. «La fisica riesce a spiegarci come funziona il mondo e grazie a esperimenti come questi cogliamo sempre meglio la sua importanza», aggiunge la compagna Angelica Aiello, «senza sottovalutare quanto, grazie a queste esperienze, migliori anche il legame con docenti e compagni».

La scoperta dei raggi cosmici – particelle altamente energetiche provenienti dallo spazio – risale al 1912, quando il fisico Victor Hess lanciò un esperimento a bordo di un pallone fino a una quota di 5300 metri, misurando un flusso fino a tre volte maggiore rispetto a quello rilevato a livello del mare. Negli anni Trenta, Erich Regener e Georg Pfotzer scoprirono che questo flusso cresce con l’aumento dell’altitudine fino a circa 20mila metri, raggiungendo un massimo, per poi diminuire nuovamente. Si era aperta così, grazie anche al fondamentale contributo di fisici italiani come Domenico Pacini e Bruno Rossi, una nuova finestra sul cosmo: finestra oggi sfruttata per studiare alcuni tra gli acceleratori di particelle più potenti nell’universo, come i resti di supernova e i getti relativistici lanciati dai buchi neri supermassicci.

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Gli allievi del Liceo scientifico di Cariati, presso lo stadio comunale di Paola in occasione del lancio della sonda Mocris 2 (cliccare per ingrandire).

Mocris 2 ha misurato il flusso di raggi cosmici secondari – generati dagli sciami atmosferici, prodotti a loro volta dai raggi cosmici primari, di origine extraterrestre – mediante due rivelatori di particelle ArduSipm forniti dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) di Roma, dotati di un fotorivelatore al silicio, uno scintillatore per la rivelazione di particelle e una scheda Arduino. Mettendo in relazione il numero di conteggi alle misure di pressione e alla quota, determinata dal sistema Gps integrato nella sonda, gli studenti possono rilevare le variazioni di flusso e il massimo di Regener-Pfotzer; quest’ultimo può essere poi studiato anche in relazione all’attività solare.

«Senz’altro la più bella e coinvolgente esperienza svolta dalla mia classe nei cinque anni di liceo» nota un altro studente, Giovanni Rovito. «In particolare, l’analisi dei dati registrati dai rilevatori della sonda mi ha fatto capire quanto sia potente la statistica e l’analisi affiancata alla fisica. Queste esperienze mi hanno portato a scegliere il corso di Statistica per Data Science e mi hanno chiarito le idee sulla professione che vorrò svolgere in futuro».

«L’aspetto che più mi ha colpito è sicuramente l’uso di sistemi informatici ed elettronici nella sonda, per garantire la coordinazione dei vari apparati sperimentali, il tracking del pallone sonda e successivamente l’elaborazione dei dati», sottolinea il compagno Giuseppe Vaglica. «Questo ha solidificato la mia scelta di studiare ingegneria informatica».

Il progetto, realizzato in collaborazione con l’Infn, l’Università della Calabria, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria e Ada Project, sviluppa e consolida l’esperienza dell’esperimento Mocris 1, lanciato nel 2019. Il lancio è stato realizzato dall’azienda calabrese AbProject Space, che ha collaborato con gli studenti sugli aspetti teorici e pratici del pallone sonda e del suo volo stratosferico.

«Gli studenti hanno dimostrato una grande passione nel condurre esperimenti nello spazio vicino», afferma il professor Domenico Liguori del Liceo scientifico di Cariati, promotore del progetto. «I dati raccolti durante il volo della sonda offrono una preziosa finestra sul mondo dell’astronomia e dell’atmosfera terrestre, oltre la Terra, per scrivere nuove pagine del nostro futuro».


Trovato un mattone della vita su Encelado


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Il pennacchio che sbuffa dalla superficie ghiacciata di Encelado, la piccola luna di Saturno, contiene grani di acqua oceanica ghiacciata, alcuni dei quali vanno a formare l’anello E di Saturno. Tali granelli, analizzati dalla sonda Cassini, hanno rivelato le impronte di sali di fosfato. Crediti: Cassini Imaging Team/Ssi/Jpl/ Swri/ Freie Universität Berlin

La ricerca della vita al di fuori della Terra ha appena compiuto un importante passo avanti: su Encelado, la piccola luna ghiacciata di Saturno, è stato trovato fosforo – uno degli elementi chimici essenziali per la vita, almeno per come la conosciamo – sotto forma di fosfati di sodio.

Un team internazionale di scienziati, provenienti da dieci istituti sparsi in tutto il mondo, ha effettuato questa sensazionale scoperta analizzando i dati di Cassini, la missione di esplorazione robotica congiunta tra Nasa, Esa e Asi, che ha esplorato il sistema di Saturno dal 2004 al 2017. Nonostante un suggestivo tuffo finale nell’atmosfera del gigante gassoso abbia posto fine alla missione ormai sei anni fa, la preziosa eredità dei dati che Cassini ha inviato sulla Terra consente ancora oggi ai ricercatori di effettuare nuove decisive scoperte come questa. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 14 giugno sulla rivista Nature.

Encelado, uno dei maggiori satelliti naturali di Saturno, è già da tempo fra i candidati più promettenti per la ricerca di vita extraterrestre. Infatti, al di sotto della crosta ghiacciata che lo ricopre, risiede un oceano di acqua liquida, al cui interno precedenti studi avevano già confermato la presenza di una vasta gamma di composti reattivi e talvolta complessi contenenti carbonio. Al polo sud di Encelado, enormi geyser sparano nello spazio particelle di ghiaccio provenienti direttamente dall’oceano stesso. I ricercatori hanno scoperto che questi geyser sono in gran parte responsabili dell’accrescimento dell’anello E di Saturno, posto esternamente rispetto agli altri e composto principalmente da particelle di ghiaccio e polvere.

Proprio grazie all’analisi di una classe di grani di ghiaccio ricchi di sale effettuata dallo strumento Cosmic Dust Analyzer della sonda Cassini, i ricercatori hanno identificato il fosforo sotto forma di fosfati di sodio. Per determinare la composizione chimica dei grani il team ha utilizzato una struttura specializzata a Berlino che riproduce i dati generati da un granello di ghiaccio che colpisce lo strumento. Provando diversi campioni di differenti composizioni e concentrazioni chimiche, i ricercatori hanno tentato di far corrispondere le firme spettroscopiche ancora sconosciute nelle osservazioni della sonda. «Ho preparato diverse soluzioni di fosfati, ho effettuato le misurazioni e abbiamo fatto centro. La corrispondenza con i dati spaziali era perfetta», racconta Fabian Klenner, co-autore dello studio e ricercatore in scienze della Terra e dello spazio all’Università di Washinghton.

È la prima volta che in un oceano al di fuori del nostro pianeta vengono trovati i fosfati, composti essenziali per la creazione del Dna e dell’Rna, delle molecole che trasportano energia, delle membrane cellulari, delle ossa e dei denti di uomini e animali e persino per il plancton.

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Gli scienziati hanno dedotto che, all’interno di Encelado, un oceano contenente carbonato di sodio e/o bicarbonato di sodio interagisce geochimicamente con un nucleo roccioso. La modellazione geochimica e gli esperimenti di laboratorio indicano che questa interazione porta alla dissoluzione dei minerali fosfatici, rendendo il fosfato prontamente disponibile per potenziali forme di vita. La scoperta dei fosfati da parte di Cassini supporta fortemente il paradigma secondo cui l’oceano di Encelado è abitabile. Crediti: Southwest Research Institute

Il team ha inoltre scoperto che questi composti sono presenti nell’oceano di Encelado a livelli almeno cento volte superiori a quelli degli oceani terrestri. «Gli esperimenti geochimici e la modellazione dimostrano che queste alte concentrazioni di fosfato derivano da una maggiore solubilità dei minerali fosfatici, in Encelado e forse in altri mondi del Sistema solare con oceani ghiacciati», spiega Christopher Glein del Southwest Research Institute. Gli esperimenti per comprendere il motivo di una così alta concentrazione sono stati condotti da un team in Giappone guidato dal secondo autore Yasuhito Sekine presso il Tokyo Institute of Technology, e da un team negli Stati Uniti guidato da Glein presso il Southwest Research Institute di San Antonio, Texas.

La combinazione della presenza di elementi bio-essenziali, di un oceano sotto superficiale di acqua liquida e di ambienti idrotermali posti sui fondali oceanici, sono elementi che combinati fanno di Encelado uno degli obiettivi del Sistema solare più promettenti per la ricerca di vita extraterrestre. «Ora sappiamo che l’oceano di Encelado soddisfa quello che è generalmente considerato il requisito più rigoroso per la vita. Il prossimo passo è chiaro: dobbiamo tornare su Encelado per vedere se l’oceano è effettivamente abitato», conclude Glein.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Detection of Phosphates Originating from Enceladus’ Ocean” di Frank Postberg, Yasuhito Sekine, Fabian Klenner, Christopher R. Glein, Zenghui Zou, Bernd Abel, Kento Furuya, Jon K. Hillier, Nozair Khawaja, Sascha Kempf, Lenz Noelle, Takuya Saito, Juergen Schmidt, Takazo Shibuya, Ralf Srama & Shuya Tan


Cos’hanno in comune samurai, maharaja e navajo?


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Poster di “One Sky Project”. Crediti: NOIRLab

È possibile navigare nel cosmo, attraversare tre continenti e incontrare diverse genti, lingue, tradizioni e culture stando comodamente seduti all’interno di un planetario? A primo impatto sembrerebbe impossibile. In realtà, è ciò che avviene “immergendosi” nei racconti di samurai, maharaja, indiani d’America e altri protagonisti dei cortometraggi per planetari realizzati nell’ambito di One Sky Project, la collaborazione internazionale nata per mettere in luce l’importanza e la storia dell’astronomia indigena e per mostrare come tutte le popolazioni umane, di diverse etnie, religioni, culture, abbiano da sempre condiviso lo stesso cielo.

Nel tentativo di promuovere una maggiore comprensione della connessione esistente tra l’intera umanità e l’universo, One Sky Project – guidato da ‘Imiloa Astronomy Center alle Hawaii e sostenuto dalla California Academy of Sciences, dal Franklin Institute, dal NoirLab della National Science Foundation americana e dal Thirty Meter Telescope – ha pubblicato sette brevi filmati full dome 2D e un lungometraggio incentrati sulle applicazioni storiche e moderne dell’astronomia culturale e indigena sparse in almeno tre continenti. Lo scopo del progetto è riuscire a creare connessioni interculturali e aumentare la comprensione delle diverse dinamiche sociali indigene, sfruttando il tema del cielo e del cosmo, così come sono stati visti in differenti epoche e tradizioni locali.

Fin dai tempi più antichi, infatti, le popolazioni di tutto il mondo hanno guardato al cielo per navigare, per misurare il tempo, per fare previsioni e per condividere un senso di identità comune. Grazie ai risultati del progetto One Sky, oggi possiamo capire come, nel corso dei millenni, la conoscenza del cielo abbia aiutato gli esseri umani a sopravvivere, a raggiungere nuove terre, a fare nuove scoperte e a fare tesoro dell’importanza culturale di un cielo condiviso sopra le proprie teste. Con questi presupposti e per garantire la massima diffusione di questa eredità storica nelle società moderne, i film immersivi realizzati nell’ambito del progetto possono essere scaricati gratuitamente e utilizzati nei planetari di tutto il mondo.

Una risorsa divulgativa preziosa. Dall’ideazione del format iniziata nel 2016, alla scrittura delle sceneggiature e, infine, all’uscita dei video finali: per 30 mesi One Sky Project ha sviluppato questi cortometraggi attraverso un processo altamente collaborativo che ha coinvolto un team internazionale di astronomi, professionisti dei planetari, educatori ed esperti culturali provenienti da Canada, Cina, India, Giappone e Stati Uniti. I partner della collaborazione sono stati parte integrante nella selezione dei contenuti dei film, nella stesura delle sceneggiature e nel collegamento tra il gruppo di produzione con i vari artisti, musicisti e narratori. L’esperienza del team creativo di Sébastien 360, premiata società di produzione di video fulldome con sede a Montréal e guidata da Sebastien Gauthier, ha consentito ai contenuti scientifici e alle idee di prender vita in modo straordinario nella forma di sette filmati da circa una decina di minuti ciascuno.

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Un fotogramma fulldome del film One Sky Project, raccolta di cortometraggi su costellazioni, strumenti astronomici e conoscenze scientifiche di varie culture nel mondo. Crediti: oneskyproject.org/

Dalle canoe canadesi alle bussole, dalle tribù Navajo alle divinità greche. Ogni cortometraggio racchiude il punto di vista di una cultura o società indigena, in una breve storia, per un racconto a sé stante, o in combinazione con gli altri filmati, per una narrazione più lunga: il tutto centrato intorno ai temi dell’osservazione della volta celeste, alla ricerca di schemi interpretativi, allo sviluppo di strumenti, o semplicemente, del “cercare lontano”. «Penso che il nostro universo sia così enorme ed esteso che sarebbe impossibile e riduttivo concepire un solo modo per connettersi a esso», afferma Ka’iu Kimura, direttore esecutivo del ʻImiloa Astronomy Center. «Far conoscere al pubblico generico come altri popoli si connettono al cosmo, aggiunge vivacità e profondità al nostro mondo e alle molte prospettive astronomiche che vi sono rappresentate».

D’accordo anche Ryan Wyatt, sceneggiatore principale dei cortometraggi, Senior Director al Morrison Planetarium and Science Visualization presso la California Academy of Sciences: «Con One Sky Project speriamo di dare forma al modo in cui queste storie importanti vengono narrate. La comunità internazionale dei planetari ha la responsabilità di amplificare le conoscenze indigene rispettando l’autenticità. Questo progetto fa del suo meglio per immergersi in questo ruolo».

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I sette cortometraggi incentrati sul racconto del cielo secondo alcune popolazioni indigene. L’iconografia utilizzata rimanda agli stili tradizionali di ogni cultura. Crediti: oneskyproject.org/

Ancora oggi le conoscenze e le pratiche tradizionali continuano a influenzare l’esplorazione dell’universo. Per questo motivo, One Sky Project intende riconoscere le numerose culture e comunità di tutto il mondo che hanno sviluppato un forte legame con l’astronomia, onorare quelle società e quegli esploratori indigeni pionieri nell’osservazione del cosmo, cercando di costruire relazioni tra tutti i popoli che condividono un unico cielo.

In occasione delle otto anteprime di One Sky Project programmate nel corso degli anni 2022 e 2023, è stata inoltre diffusa un’ulteriore iniziativa. Si chiama 1000s Wishes upon a Star mille desideri per una stella un progetto partecipativo per condividere i desideri del pubblico con altri in tutto il mondo, scrivendoli in diverse lingue su pannelli o su social media (Twitter e Instagram) con il tag #OneSkyProject. «Spero che, tramite questo progetto, si possa dare maggiore ascolto alle tante voci provenienti dalle popolazioni indigene, anche nell’ambito della comunità scientifica internazionale», conclude Ka’iu Kimura.

One Sky Project è stato premiato nel 2022 come il miglior fulldome 2D al Fulldome Festival di Brno nella Repubblica Ceca, e ha ricevuto una menzione speciale al Dome Under Festival del 2023 in Australia. I titoli dei cortometraggi (in lingua inglese), che hanno già ottenuto apprezzamenti da pubblico e critica, sono:

  • Canoa celeste (Terra Innu, Canada) – I popoli primitivi di quello che oggi è il Canada settentrionale osservavano il lento girare di una canoa nel cielo, che indicava il cambiamento delle stagioni sulla terraferma. Questa canoa celeste li guidava in un periodo dell’anno particolarmente impegnativo.
  • Navigatori hawaiani (Hawaii, USA) – Un giovane navigatore hawaiano descrive come il cielo fornisca una bussola e un calendario utili per questo popolo di mare nei loro viaggi tra le isole dell’Oceano Pacifico.
  • Il sogno di Jai Singh (India) – Nel caos politico dell’India del XVIII secolo, un grande sovrano portò l’ordine del cielo sulla Terra. I suoi giganteschi strumenti permettevano di misurare con precisione le stelle, i pianeti e lo scorrere del tempo. Gli osservatori astronomici da lui creati sono in funzione ancora oggi.
  • I samurai e le stelle (Giappone) – Per molte persone, le stelle offrono conforto e consolazione. Per il nostro narratore giapponese, le immagini del cielo, persino i colori delle stelle, riportano alla mente ricordi di musica, storia e infanzia.
  • Thunderbird (Terra Navajo, USA) – Il cielo è un potente strumento di misurazione del tempo e per il popolo Diné, o Navajo, l’uccello del tuono trascende lo spazio e il tempo, rivelando il passaggio delle stagioni e collegando Terra e cielo.
  • La fucina di Artemide (Grecia) – Nell’antica Grecia, Orione era un cacciatore potente ma non particolarmente popolare. La sua costellazione brilla luminosa con una forma familiare alle persone di tutto il mondo. Perché la dea Artemide lo ha immortalato nel cielo?
  • Un cielo – Epilogo – Film conclusivo della serie di cortometraggi del Progetto One Sky.

Per saperne di più:

  • Consulta il sito web del progetto One Sky Project
  • Scarica i filmati fulldome gratuiti e utilizzabili nei planetari a questo link


Navigare sottoterra e sott’acqua con i muoni


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Infografica che mostra il funzionamento della localizzazione con i muoni. Ciascun livello indica uno dei sei piani dell’edificio utilizzato e quello più basso il piano interrato, dove è stato effettuato l’esperimento con il navigatore. I quattro ricevitori di riferimento sono indicati con delle linee sul piano più alto. La linea rossa rappresenta il percorso del “navigatore”, mentre la linea bianca con i punti mostra il percorso registrato dal MuWns. Crediti: 2023 Hiroyuki K.M. Tanaka

Dove non arriva il Gps, arrivano i muoni. La navigazione estrema, sott’acqua, sottoterra o più semplicemente in luoghi non raggiungibili da un classico segnale, potrebbe diventare possibile grazie a una classe di particelle elementari super veloci e in grado di attraversare le barriere naturali (o artificiali) che i sistemi di localizzazione odierni percepiscono come ostacoli. I muoni, appunto. Particelle, o più specificamente leptoni, prodotti in gran quantità e continuità dai raggi cosmici provenienti dallo spazio, quando interagiscono con l’atmosfera del nostro pianeta.

A livello teorico, la possibilità di costruire un sistema di posizionamento muometrico era stata discussa in un articolo pubblicato su Nature alla fine del 2020, ma oggi, su iScience, gli scienziati raccontano com’è andato il primo test sul campo. In particolare, grazie a una nuovissima versione wireless del ricevitori, sono riusciti a ricostruire a posteriori e con buona precisione un percorso eseguito sotto un edificio di sei piani.

Lungi dall’essere pratico ed economico quanto un Gps – uno strumento di navigazione consolidato che offre un ampio elenco di applicazioni positive, dalla sicurezza dei viaggi aerei alla mappatura della posizione in tempo reale – il navigatore a muoni è tutt’altro che un capriccio. Le sue applicazioni infatti potrebbero complementare l’utilizzo dei tradizionali navigatori dove questi si rivelano deboli o inaccessibili. Il segnale Gps è molto debole alle elevate latitudini, ad esempio, dove può facilmente incorrere in errori e imprecisioni, viene riflesso da superfici come i muri e schermato in presenza di molti alberi, o ancora non riesce a passare attraverso edifici, rocce e acqua. Al contrario, i muoni sono noti per le loro capacità di vedere all’interno dei vulcani, dei cicloni e persino delle piramidi. E, oltretutto, ce ne sono in abbondanza: ne cadono circa diecimila per metro quadro al minuto. Ovunque. Esistono solo per 2,2 microsecondi prima di decadere, ma poiché viaggiano alla velocità della luce nel vuoto (300mila chilometri al secondo), hanno abbastanza tempo per raggiungere la Terra dall’atmosfera e penetrare in profondità nel suolo. La loro capacità di penetrazione fa sì che continuino a viaggiare sempre alla stessa velocità, indipendentemente dal materiale che stanno attraversando.

Il sistema di posizionamento muometrico, ideato all’università di Tokyo poco meno di tre anni fa, era stato inizialmente concepito per aiutare a rilevare i cambiamenti del fondale marino causati da vulcani sottomarini o movimenti tettonici. Utilizza quattro stazioni di riferimento per la rilevazione dei muoni in superficie che forniscono le coordinate a un ricevitore per la rilevazione dei muoni nel sottosuolo. La novità dell’ultima versione, quella utilizzata in questo studio, è che utilizzando orologi al quarzo per sincronizzare tutti i ricevitori coinvolti, i ricercatori sono stati in grado di creare un dispositivo wireless e di testarlo sul campo.

L’hanno chiamato Muometric wireless navigation system (MuWns). Hanno posizionato i rilevatori di riferimento al sesto piano di un edificio, mentre il navigatore era in mano a due sperimentatori che lo portavano a spasso (lentamente) nel piano interrato. Il sistema di localizzazione funziona, sostanzialmente, come una triangolazione calcolata dai ricevitori in superficie, che misurano il tempo di volo dei muoni dalla superficie al sottosuolo. Per questo è importante che la sincronizzazione fra i dispositivi sia precisissima. Il sistema, comunque, non è ancora in grado di navigare in tempo reale, e in questo studio sono raccolte le misurazioni effettuate durante lo spostamento per calcolare a posteriori il percorso e confermare la strada intrapresa.

«L’accuratezza attuale di MuWns è compresa tra 2 e 25 metri, con una portata fino a 100 metri, a seconda della profondità e della velocità della persona che cammina. Si tratta di una precisione pari, se non superiore, a quella del posizionamento Gps in un punto singolo e in superficie nelle aree urbane», dice Hiroyuki Tanaka, professore del centro di ricerca Muographix all’università di Tokyo e primo autore dello studio. «Ma è ancora lontano dall’essere utilizzabile a livello pratico. Le persone hanno bisogno di una precisione di un metro, e la chiave per questo è la sincronizzazione temporale».

Per migliorare la sincronizzazione temporale, l’ideale sarebbe utilizzare orologi atomici come i cosiddetti Csac, già disponibili in commercio e due ordini di grandezza migliori degli orologi al quarzo. Sono però molto costosi al momento. Quanto ai possibili impieghi dei sistemi di navigazione a muoni, lo accennavamo prima, potrebbero andare dalla navigazione di robot che lavorano sott’acqua alla guida di veicoli autonomi nel sottosuolo, e potrebbero diventare supporti fondamentali per guidare le operazioni di soccorso in situazioni di emergenza, come il crollo di un edificio o di una miniera, il recupero sottomarino, e in generale tutte le attività che vedano coinvolte squadre di ricerca e soccorso.

Per saperne di più:

  • Leggi su iScience l’articolo “First navigation with wireless muometric navigation system (MuWNS) in indoor and underground environments” di Hiroyuki K. M. Tanaka, Giuseppe Gallo, Jon Gluyas, Osamu Kamoshida, Domenico Lo Presti, Takashi Shimizu, Sara Steigerwald, Koji Takano, Yucheng Yang, Yusuke Yokota.


Quanta fotosintesi con un quanto di luce


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Illustrazione artistica di un ecosistema terrestre. Crediti: Jenny Nuss/Berkeley Lab

Sei molecole di anidride carbonica più sei molecole di acqua più luce, che danno una molecola di glucosio e sei molecole di ossigeno. Quella che avete appena letto è la formula della fotosintesi clorofilliana ossigenica, senza dubbio il più importante processo bio-chimico che avviene da circa 3,5 miliardi di anni a questa parte sulla Terra. Conosciuta ai più semplicemente col nome di fotosintesi, il processo prevede una serie di reazioni di ossido-riduzione attraverso le quali piante, alghe e alcune specie di batteri – organismi chiamati collettivamente fotoautotrofi – ottengono energia chimica, immagazzinata nella materia organica, a partire dall’energia della luce della nostra stella, il Sole.

Una delle domande che gli scienziati si pongono da tempo riguardo a questo processo di sintesi è quale sia la quantità minima di energia richiesta per avviarlo. Una risposta al quesito arriva ora grazie a una recente ricerca condotta all’interno del Lawrence Berkeley National Laboratory, negli Usa, da un team di scienziati dell’Università della California – Berkeley.

I risultati dello studio, pubblicato ieri sulle pagine della rivista Nature, suggeriscono che la fotosintesi sia sensibile alla più piccola quantità di energia possibile, ovvero all’energia contenuta nel singolo quanto di luce visibile che chiamiamo fotone. Si tratta di una scoperta non di poco conto, che oltre a consolidare la nostra attuale comprensione del processo fotosintetico migliora la nostra conoscenza circa il funzionamento degli organismi complessi su piccola scala, permettendo di entrare in un “dominio” della scienza dove la fisica quantistica e la biologia si intrecciano.

Sulla base dell’efficienza del processo nel convertire la luce solare in molecole organiche ricche di energia, gli scienziati hanno a lungo ipotizzato che un singolo fotone di luce visibile fosse tutto ciò che servisse per innescare le reazioni di trasferimento di elettroni tra le molecole coinvolte nella fotosintesi, creando infine gli ingredienti necessari per la produzione di sostanze organiche, principalmente carboidrati. Tuttavia, spiegano i ricercatori, fino ad ora nessuno ha mai sostenuto tale ipotesi con una dimostrazione. La gran parte degli studi sull’argomento hanno infatti riguardato principalmente le fasi successive del processo fotosintetico.

«Un’enorme quantità di lavori scientifici, teorici e sperimentali, sono stati condotti in tutto il mondo per capire cosa succede nel processo fotosintetico dopo l’assorbimento di un fotone. Nessuno di essi, tuttavia, ha preso in considerazione il primo step, ovvero l’attivazione della catena di reazioni» dice a questo proposito Graham Fleming, scienziato della Uc Berkeley e co-autore dello studio in questione «Questa, dunque, era ancora una domanda a cui occorreva dare una risposta dettagliata».

Inoltre, aggiungono i ricercatori, la maggior parte dei lavori scientifici condotti finora sono stati effettuati utilizzando impulsi laser e non luce solare. «C’è un’enorme differenza di intensità tra la luce laser e la luce solare» spiega Quanwei Li, ricercatore alla Uc Berkeley, tra gli autori dello studio. «Un tipico raggio laser focalizzato è un milione di volte più luminoso della luce solare. E anche se si riuscisse a produrre un raggio laser con un’intensità pari a quella della luce solare, esso sarebbe ancora molto diverso a causa di una proprietà quantistica della luce chiamata statistica dei fotoni. Inoltre, dal momento che in nessuno degli studi condotti finora è stato visto il fotone essere assorbito, non sappiamo cosa comporti l’utilizzo dell’uno o dell’altro tipo di fotone».

Per dimostrare che un singolo fotone fosse effettivamente in grado di avviare la fotosintesi, Fleming, Birgitta Whaley, ricercatrice al Berkeley Lab, e i loro rispettivi gruppi di ricerca hanno messo in piedi un esperimento che mescola principi di fisica quantistica e conoscenze approfondite di biologia cellulare e molecolare. Più nel dettaglio, i ricercatori hanno utilizzato una nuova tecnica di ottica quantistica che hanno applicato a campioni di molecole fotosensibili. La tecnica in questione è la conversione parametrica spontanea, un processo che porta alla generazione di coppie di fotoni entangled (chiamati fotone annunciatore e fotone annunciato). Molecole di Lh2 (light harvesting 2), uno dei due complessi proteici (l’altro è Lh1) che formano l’apparato di raccolta della luce (o fotosistema) dei batteri viola, costituivano invece il campione oggetto dell’indagine.

I batteri viola sono una classe di microrganismi che fanno fotosintesi clorofilliana anossigenica, un tipo di fotosintesi che differisce dalla “classica” fotosintesi ossigenica perché non utilizza come ingredienti di partenza acqua e, come suggerisce il nome, non produce ossigeno. A parte questi dettagli, per il resto il processo non è dissimile da quello che avviene negli altri organismi, e ciò perché tutti gli esseri fotosintetici condividono un antenato comune. L’utilizzo dei batteri viola come modello sperimentale è dunque utile per la comprensione del processo fotosintetico in generale.

Durante l’esperimento, il primo step è stato quello di creare la coppia di fotoni per conversione parametrica spontanea. A questo punto, bisognava sparare i due fotoni verso il campione ed essere certi che uno dei due lo colpisse. L’osservazione del primo fotone della coppia – chiamato fotone annunciatore (Herald photon, in inglese) – con un rivelatore altamente sensibile è stata la conferma che il secondo fotone – chiamato fotone annunciato – era in viaggio verso il campione in esame. Un altro rivelatore vicino al campione ha infine misurato il fotone a più bassa energia emesso dal complesso proteico Lh2 dopo l’assorbimento: la conferma che la molecola era stata attivata.

Per garantire che le osservazioni potessero essere attribuite all’assorbimento di un singolo fotone e che nessun altro fattore stesse influenzando i risultati, gli scienziati hanno analizzato in tutto più di 17 miliardi di eventi di rivelamento di fotoni annunciatori e oltre 1.5 milioni di eventi di rivelamento di fotoni fluorescenti.

«Questo lavoro ha dimostrato che si possono effettivamente fare molti esperimenti con i singoli fotoni. E questo è un punto molto, molto importante», conclude Whaley. «A questo punto dobbiamo chiederci cos’altro possiamo fare. Il nostro prossimo obiettivo è studiare il trasferimento di energia dai singoli fotoni lungo il complesso fotosintetico alle più brevi scale temporali e spaziali possibili».

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Il ruolo delle galassie nell’universo primordiale


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Il telescopio spaziale James Webb della Nasa ci ha regalato immagini nel vicino infrarosso straordinariamente dettagliate di galassie che esistevano quando l’universo aveva solo 900 milioni di anni, comprese strutture mai viste prima. Queste galassie lontane sono grumose, spesso allungate e stanno attivamente formando nuove stelle. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Simon Lilly (Eth Zürich), Daichi Kashino (Nagoya University), Jorryt Matthee (Eth Zürich), Christina Eilers (Mit), Rob Simcoe (Mit), Rongmon Bordoloi (Ncsu), Ruari Mackenzie (Eth Zürich); Image Processing: Alyssa Pagan (StScI), Ruari Macke

Nei primi anni dopo il Big Bang, l’universo era così caldo e denso che luce e materia erano fortemente accoppiate. Non esisteva l’una senza l’altra. Continuando a espandersi, si raffreddò fino a raggiungere una temperatura di circa 3mila gradi. Fu allora, circa 380mila anni dopo l’inizio di tutto, che i nuclei di idrogeno ed elio riuscirono finalmente a catturare gli elettroni liberi per formare atomi neutri. Così, tra un atomo e l’altro, la radiazione riuscì a fuggire e a propagarsi liberamente, non più intrappolata nel plasma primordiale.

Quella radiazione, che di fatto rappresenta la prima “istantanea” dell’universo, è conosciuta come radiazione cosmica di fondo a microonde, o radiazione fossile, e porta con sé l’impronta della materia primordiale, di come all’epoca era distribuita nello spazio.

Successivamente, si formarono le prime stelle e galassie ma il gas neutro continuava a nasconderle. Ci volle un altro miliardo di anni perché il gas fosse nuovamente ionizzato, e l’universo poté finalmente diventare trasparente. Questa fase cruciale dell’evoluzione è chiamata epoca della reionizzazione. Ma quali sono state le sorgenti responsabili della reionizzazione? Come hanno cambiato il volto dell’universo?

Un nuovo studio basato sulle osservazioni del telescopio spaziale James Webb ha fornito delle risposte sorprendenti a queste domande, riportate in tre articoli pubblicati su The Astrophysical Journal il 12 giugno scorso.

Lo studio è stato coordinato da Simon Lilly del Politecnico federale di Zurigo (Eht), che ha sfruttato la potenza del telescopio Webb per creare un mosaico di immagini ad alta risoluzione che ha permesso di guardare molto indietro nel tempo, fino a un’epoca risalente alla fine della reionizzazione, circa 900 milioni di anni dopo il Big Bang. In quel momento l’universo era abbastanza trasparente da permettere alla luce di passare; tuttavia, erano ancora presenti regioni di gas opaco che bloccavano la radiazione.

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Analizzando le nuove osservazioni del James Webb Space Telescope della Nasa, un team guidato da Simon Lilly dell’Eth di Zurigo, in Svizzera, ha trovato prove che le galassie che esistevano 900 milioni di anni dopo il Big Bang hanno ionizzato il gas intorno a loro, facendolo diventare trasparente. Hanno anche usato Webb per misurare con precisione il gas attorno alle galassie, riuscendo a capire che le “bolle” di gas ionizzato hanno un raggio di 2 milioni di anni luce attorno alle minuscole galassie. Nel corso dei successivi cento milioni di anni, le bolle sono diventate sempre più grandi, fino a fondersi e rendere trasparente l’intero universo. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Simon Lilly (Eth Zürich), Daichi Kashino (Nagoya University), Jorryt Matthee (Eth Zürich), Christina Eilers (Mit), Rob Simcoe (Mit), Rongmon Bordoloi (Ncsu), Ruari Mackenzie (Eth Zürich); Image Processing: Alyssa Pagan (StScI) Ruari Macken

Al centro del mosaico spicca il quasar J0100+2802, un buco nero supermassiccio attivo ed estremamente luminoso. Questo quasar si trova a 12,8 miliardi di anni luce e funge da faro cosmico per illuminare il gas intergalattico lungo la nostra linea di vista. La radiazione che vediamo ha potuto attraversare regioni di spazio in cui il gas l’ha parzialmente bloccata, e altre in cui l’universo già trasparente ha permesso alla luce di passare liberamente. «Illuminando il gas lungo la nostra linea di vista, il quasar ci fornisce ampie informazioni sulla composizione e sullo stato del gas», spiega Anna-Christina Eilers del Mit di Cambridge, Massachusetts, prima autrice di una delle tre pubblicazioni.

I ricercatori hanno poi osservato un campione di galassie risalenti alla fine dell’epoca della reionizzazione, posizionate lungo la linea della radiazione emessa dal quasar. L’incredibile potenza di Webb ha consentito di osservare che, proprio intorno a quelle galassie, sono presenti “bolle” di gas trasparente. «Non solo Webb mostra chiaramente che queste regioni trasparenti si trovano intorno alle galassie, ma abbiamo anche misurato quanto sono grandi», racconta Daichi Kashino dell’Università di Nagoya in Giappone, autore principale del primo articolo del team. Queste regioni di gas trasparente, dal raggio medio di 2 milioni di anni luce, sono gigantesche rispetto alle galassie, che hanno dimensioni relativamente ridotte. In altre parole, Webb ha osservato le galassie nel processo di pulizia dello spazio intorno a loro, alla fine dell’epoca di reionizzazione. Queste bolle trasparenti sono via via diventate più grandi, si sono unite e infine, nei cento milioni di anni successivi, l’universo è diventato completamente trasparente alla radiazione elettromagnetica.

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Più di 13 miliardi di anni fa, durante l’epoca della reionizzazione, l’universo era un posto molto diverso. Il gas tra le galassie era in gran parte opaco alla luce, rendendo difficile osservare le giovani galassie. Grazie a Jwst, i ricercatori hanno scoperto che le galassie sono in gran parte responsabili della reionizzazione. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joyce Kang (StScI)

Il team ha così dimostrato che le responsabili della reionizzazione del gas sono state proprio le galassie, grazie anche alla loro turbolenta attività di formazione stellare, che ha riscaldato e ionizzato il gas opaco. «Queste galassie sono più caotiche di quelle dell’universo vicino», afferma Jorryt Matthee del Politecnico di Zurigo e primo autore del secondo lavoro del team. «Webb dimostra che stavano formando attivamente stelle e devono aver generato molte supernove. Hanno avuto una giovinezza piuttosto movimentata».

Lo studio ha dimostrato anche la potenza unica di combinare le immagini convenzionali della NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb con i dati della spettroscopia a largo campo dello stesso strumento, che fornisce uno spettro di ogni oggetto presente nelle immagini.

I ricercatori osserveranno altri cinque campi grandi come questo, in ognuno dei quali è presente un quasar al centro. A dire il vero, l’osservazione di più campi sarebbe servita proprio per ottenere una prova definitiva di quanto osservato in prima battuta, cioè che le galassie sono responsabili della reionizzazione. Ma i risultati ottenuti già dalla prima analisi sono stati così convincenti che il team ha deciso di voler da subito condividere la scoperta. «Ci aspettavamo di identificare qualche decina di galassie che esistevano durante l’era della reionizzazione, ma siamo riusciti a individuarne 117», conclude Kashino. «Webb ha superato le nostre aspettative».

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50 candeline per il telescopio Copernico


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Fotografia aerea del telescopio Copernico di Asiago

Sono passati cinquant’anni da quando ebbe inizio l’attività scientifica del telescopio Copernico, chiamato così in onore del grande studioso polacco Niccolò Copernico che rivoluzionò la nostra conoscenza dell’universo.

L’idea di costruire un nuovo telescopio di più grandi dimensioni rispetto allo storico telescopio Galileo, con un diametro di 122 centimetri, venne, verso la fine degli anni Sessanta, a Leonida Rosino, direttore dell’Osservatorio astronomico di Padova. Lo studio di oggetti sempre più deboli e lontani richiedeva infatti l’impiego di uno strumento di più grandi dimensioni, che avrebbe permesso all’Osservatorio astrofisico di Asiago di rimanere in linea con i maggiori istituti astronomici d’Europa. Tuttavia, l’espansione urbanistica della piccola cittadina montana in provincia di Vicenza aveva iniziato a danneggiare notevolmente il lavoro notturno dei telescopi. Pertanto, dopo varie discussioni e analisi, la scelta del luogo dove installare il nuovo sito osservativo ricadde su cima Ekar, a 1370 metri di quota e a circa 5 chilometri in linea d’aria da Asiago, e quindi un po’ riparato dalle luci del paese, ma allo stesso tempo facilmente raggiungibile. Così nel 1969 iniziarono i lavori di costruzione del telescopio di 182 centimetri che divenne, ed è tuttora, il più grande strumento ottico sul suolo nazionale.

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Immagine della nebulosa del Granchio realizzata a partire da osservazioni eseguite al telescopio Copernico. Immagini acquisite da Paolo Ochner ed elaborate da Simone Zaggia

Nella sua lunga e proficua attività, il telescopio Copernico ha permesso a ricercatori provenienti da tutto il mondo di sviluppare ricerche astronomiche di punta, di sperimentare nuove tecniche osservative e di testare nuove tecnologie. Infatti, grazie alla ricca strumentazione montata nel fuoco del telescopio, sono stati studiati importanti fenomeni celesti come nove e supernove, ammassi stellari, stelle variabili pulsanti, galassie attive, quasar e molto altro.

«Nell’ultimo decennio il telescopio Copernico è stato ulteriormente modernizzato» commenta Roberto Ragazzoni, Direttore dell’Osservatorio astronomico di Padova. «Una scelta che ha consentito di continuare una ricerca scientifica che non si è mai fermata, neanche nei momenti più complicati della pandemia.» Infatti, il telescopio Copernico è sempre stato, e continua a essere, un insostituibile banco di prova per nuove tecnologie, dai primi sensori elettronici fino alle più moderne tecniche di ottiche adattive.

Per celebrare al meglio il mezzo secolo di attività del telescopio Copernico, oggi – 14 giugno 2023 – verrà scoperta una targa celebrativa dei 50 anni di attività collocata direttamente al telescopio a Cima Ekar. Inoltre, dal 14 al 16 giugno si svolgerà un congresso scientifico volto a raccontare la storia e descrivere il futuro di uno dei più importanti strumenti ottici italiani. Le tre giornate di studi, rivolte principalmente ai professionisti, saranno accompagnate da eventi per il grande pubblico, tra cui visite ai telescopi e una conferenza pubblica che si terrà il 15 giugno alle ore 21 presso il teatro Millepini di Asiago. Un fitto programma di eventi per raccontare i grandi successi del più grande telescopio sul suolo italiano.


L’astrofisica premiata da L’Oréal e Unesco


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Le ricercatrici premiate con il Presidente e AD di L’Oréal Italia Emmanuel Goulin. Crediti: L’Oréal Italia / Unesco

L’Oréal Italia ha annunciato ieri, lunedì 12 giugno 2023, le sei vincitrici della XXI edizione italiana del Premio L’Oréal Unesco “Per le Donne e la Scienza”. Durante la cerimonia è intervenuta anche l’On. Eugenia Maria Roccella Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità con un messaggio video. Anche in questa edizione, sono state assegnate sei borse di studio del valore di 20mila euro ciascuna ad altrettante ricercatrici under 35, sulla base dell’eccellenza riconosciuta ai loro progetti in tutti i campi della scienza e della tecnologia. Il bando di questa edizione ha raccolto oltre 200 candidature da tutta Italia.

La giuria, composta da un panel di illustri professori universitari ed esperti scientifici italiani e presieduta da Lucia Votano, Dirigente di Ricerca affiliata presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dopo un’attenta valutazione ha selezionato le sei ricercatrici più meritevoli per i loro progetti. Due di loro grazie a questa borsa di studio rientreranno in Italia dopo aver dato il loro contributo presso istituti all’estero.

Sono state premiate Francesca Berti per il progetto “Design innovativo di stent prodotti mediante manifatture additive per patologie cardiache congenite” (Politecnico di Milano, Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “G. Natta”); Alessandra Biancolillo per il progetto “ResilientGrain Project: Sviluppo di metodi analitici avanzati e non distruttivi per la caratterizzazione e la tracciabilità di grani antichi e popolazioni evolutive di grani e dei loro prodotti derivati” (Università degli Studi dell’Aquila); Alice Borghese per il progetto “Esplorare i magneti più potenti dell’Universo (Istituto nazionale di astrofisica, Osservatorio astronomico di Roma (Inaf Oar); Gloria Delfanti per il progetto “Terapia cellulare con cellule T Natural Killer per il trattamento delle metastasi epatiche da carcinoma colo rettale” (Ospedale San Raffaele, Divisione di Immunologia Trapianti e Malattie Infettive); Martina Fracchia per il progetto “Ossidi ad alta entropia come elettrocatalizzatori sostenibili e innovativi per la reazione di elettrolisi dell’acqua” (Università degli studi di Pavia, Dipartimento di Chimica, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Chimica) e Arianna Renzini per il progetto “Svelando il fondo di onde gravitazionali: un nuovo modo di misurare e caratterizzare la popolazione di fondo di buchi neri binari con LIGO e Virgo” (Università Milano Bicocca).

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Alice Borghese, 33 anni, si è laureata con lode in Fisica all’Università di Padova nel 2014. Ha concluso il dottorato di ricerca nel 2018 presso l’Anton Pannekoek Institute for Astronomy ad Amsterdam. Attualmente, è una ricercatrice postdoc all’Institute of Astrophysics of the Canary Islands a Tenerife. Crediti: A. Borghese / L’Oreal / Unesco

Media Inaf ha raggiunto Alice Borghese, astrofisica all’Institute of Astrophysics of the Canary Islands a Tenerife, destinataria di una delle sei borse di studio, che svolgerà il suo progetto all’Inaf di Roma. «Sono molto orgogliosa di essere una delle 6 vincitrici del premio l’Oréal-Unesco For Women In Science della XXI edizione italiana», commenta la ricercatrice. «La mia passione per l’astrofisica è nata grazie al mio professore di fisica del liceo. Con questo premio spero di essere anch’io fonte di ispirazione per le generazioni future, soprattutto per le giovani donne che si avvicinano alla ricerca. Il premio mi permetterà di approfondire ulteriormente la mia ricerca sulle magnetar in un team molto preparato e dinamico come quello guidato dal Prof. Gian Luca Israel all’Inaf Osservatorio astronomico di Monte Porzio».

Sin dal 1998 il programma L’Oréal-Unesco “For Women in Science” si impegna per permettere a un numero sempre maggiore di scienziate di superare le barriere all’avanzamento di carriera e contribuire a risolvere le grandi sfide dei nostri tempi, a beneficio di tutti. In 25 anni il programma ha sostenuto oltre 4.100 ricercatrici di oltre 110 paesi, premiando l’eccellenza scientifica e ispirando le generazioni di giovani donne a perseguire la loro carriera. Cinque di queste scienziate, dopo aver vinto il premio L’Oréal-Unesco, sono state insignite del premio Nobel: tra loro Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, vincitrici del Nobel per la Chimica nel 2020.

«Sono molto orgoglioso di poter premiare anche quest’anno sei giovani e brillanti ricercatrici che contribuiranno al progresso scientifico nel nostro Paese», dichiara Emmanuel Goulin, Presidente e Amministratore Delegato di L’Oréal Italia. «Il Premio L’Oréal-Unesco “Per le Donne e la Scienza”, giunto quest’anno alla sua ventunesima edizione, si conferma così una delle iniziative del Gruppo più consolidate in Italia, perché il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne».

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Una boccata di ossigeno per future missioni spaziali


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Rappresentazione di quella che potrebbe essere una futura base lunare. Crediti: Esa/Foster + Partners

L’attuale decennio potrebbe vedere l’inizio di una presenza umana a lungo termine sulla Luna. Il prossimo decennio potrebbe invece essere quello in cui vedremo la presenza stabile dell’essere umano su Marte. Queste, almeno, sono le intenzioni della Nasa e del patron di SpaceX, Elon Mask, rispettivamente. L’esplorazione a lungo termine di questi corpi celesti pone tuttavia molteplici sfide, che dovranno essere affrontate per garantire il successo delle missioni. Una di queste è la necessità di produrre autonomamente in loco ossigeno per la sopravvivenza degli astronauti.

In uno studio pubblicato di recente su Nature Communications, un team di scienziati guidati dall’Università di Warwick descrive un nuovo dispositivo in grado di risolvere il problema dell’approvvigionamento della preziosa molecola a partire da una fonte di energia verde, rinnovabile e inesauribile, almeno per i prossimi circa 5 miliardi di anni: l’energia della nostra stella, il Sole.

Selezionato tra le tante proposte inserite nella Open Space Innovation Platform (Osip) e finanziato dall’Agenzia spaziale europea, il dispositivo in questione è una sorta di cella fotoelettrochimica al cui interno avviene la produzione, assistita dalla luce del Sole, di ossigeno a partire da anidride carbonica e acqua. In pratica, si tratta di uno strumento che è in grado di fare ciò che sulla Terra le piante fanno di “mestiere” con la fotosintesi clorofilliana: convertire, appunto, l’acqua e l’anidride carbonica in ossigeno utilizzando la luce solare.

Non solo. Secondo i ricercatori la tecnologia potrebbe essere utilizzata anche per produrre una varietà di molecole a base di carbonio come ad esempio il metano, sostanza utilizzata per la propulsione dei razzi alimentati da ossigeno e metano liquido (Lox/LCH4).

«L’esplorazione umana dello spazio deve affrontare la stessa sfida che stiamo affrontando sulla Terra riguardo alla transizione verso l’uso di energia verde: l’utilizzo di fonti di energia sostenibili» dice Katharina Brinkert, ricercatrice all’Università di Warwick e co-autrice dello studio. «In questo lavoro» aggiunge Brinkert, «abbiamo mostrato che la luce solare, così abbondantemente disponibile nello spazio, potrebbe essere utilizzata per raccogliere energia – come fanno le piante sulla Terra – per i sistemi di supporto vitale necessari per i viaggi spaziali a lungo termine, garantendo un’ampia produzione di ossigeno e il riciclaggio di anidride carbonica sia sulla Luna che su Marte».

Ma non è tutto. A detta dei ricercatori, infatti, a differenza degli attuali sistemi per la produzione di ossigeno – come l’Oxygen Generator Assembly (Oga) utilizzato sulla Stazione spaziale internazionale – questi “dispositivi di fotosintesi artificiale”, oltre ad avere il vantaggio di utilizzare direttamente l’energia solare piuttosto che la corrente prodotta tramite fotovoltaico, hanno un ulteriore punto di forza: avendo un peso e un ingombro molto minore, sono molto più facili da utilizzare per le future missioni spaziali a lungo termine, rendendole inoltre più efficienti.

«In questo studio abbiamo finalmente quantificato il potenziale di tali dispositivi per l’uso extra-terrestre» conclude Sophia Haussener, ricercatrice alla Scuola politecnica federale di Losanna (Epfl), in Svizzera, e anche lei tra i firmatari dello studio. «In questo modo abbiamo potuto fornire le linee guida per la loro potenziale implementazione nei nuovi sistemi di supporto vitale»

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Meglio di Tatooine, due pianeti per Bepop-1


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Illustrazione che celebra la scoperta del pianeta circumbinario BEBOP-1c con il metodo della velocità radiale, grazie agli spettrografi ESPRESSO del Very Large Telescope in Cile e HARPS del telescopio da 3,6 m dell’Eso, sempre in Cile. Crediti: Amanda Smith / University of Birmingham

Due stelle e almeno due pianeti, così appare il sistema planetario Bepop-1, o Toi-1338. È un sistema multiplanetario circumbinario, per usare una definizione astronomica specifica, ed è appena il secondo scoperto nel suo genere. La notizia è quindi la conferma dell’esistenza di un secondo pianeta nel sistema, Bepop-1c, un gigante gassoso percepito dagli strumenti grazie alla perturbazione che induce nel moto orbitale delle due stelle. Gli autori della scoperta ne hanno parlato, paragonando il sistema al celebre Tatooine di Star Wars e con tutti i dettagli di cui si dispone, in un articolo uscito oggi su Nature Astronomy.

La particolarità di questo sistema, lo dicevamo, è che si tratta di un sistema binario, e che a orbitare attorno alle due stelle c’è più di un pianeta. Si conoscono in tutto una dozzina di sistemi circumbinari – che si formano, cioè, attorno a un sistema binario di stelle – ma solamente in due di questi è stata confermata la presenza di più di un pianeta. A questi sistemi sta lavorando un gruppo di ricercatori grazie al progetto europeo Bepop, acronimo di Binaries Escorted By Orbiting Planet, dal quale prendono anche il nome i sistemi scoperti. In questo caso, il secondo pianeta di Bepop-1, Bepop-1c, è stato osservato con gli spettrografi Harps ed Espresso (rispettivamente al telescopio di 3.6 metri di La Silla, e al Very Large Telescope dell’Eso, nel deserto di Atacama in Cile), mentre il primo, Toi-1338b, era già stato visto transitare di fronte alle due stelle nel 2020 dal telescopio spaziale Tess della Nasa.

La scoperta, però, è stata casuale: gli scienziati del progetto stavano osservando il sistema alla ricerca del primo pianeta, utilizzando i due spettrografi per applicare la tecnica di rilevamento delle velocità radiali, che sfrutta l’effetto Doppler per scorgere variazioni nelle orbite delle stelle causate dalla presenza di pianeti non visibili direttamente. In particolare, stavano cercando di misurare, grazie a questa tecnica, la massa del pianeta individuato da Tess. Non ci sono riusciti: hanno invece trovato il secondo pianeta, e ne hanno persino misurato la massa. Bepop-1c ha un periodo orbitale di 215 giorni e una massa 65 volte superiore a quella della Terra, e circa cinque volte inferiore a quella di Giove.

Sebbene rari, i pianeti circumbinari sono importanti per approfondire la comprensione di ciò che accade quando nasce un pianeta. «I pianeti nascono in un disco di materia che circonda una giovane stella, dove la massa si raccoglie progressivamente in pianeti», spiega la Lalitha Sairam, ricercatrice all’Università di Birmingham e seconda autrice dello studio. «Nel caso delle geometrie circumbinarie, il disco circonda entrambe le stelle. Quando entrambe le stelle orbitano l’una intorno all’altra, agiscono come una gigantesca pagaia che disturba il disco e impedisce la formazione di pianeti, tranne che nelle regioni tranquille e lontane dalla binaria. È più facile individuare la posizione e le condizioni di formazione dei pianeti nei sistemi circumbinari rispetto alle stelle singole come il Sole».

Ricapitolando, per quanto ne sappiamo oggi il sistema è formato da due stelle e da due pianeti: del primo pianeta si conoscono le dimensioni, ma non la massa, del secondo invece si conosce la massa ma non le dimensioni. Per quest’ultimo, i ricercatori hanno in programma un tentativo di osservarne il transito in modo da misurare anche il raggio. Per quanto riguarda il primo, invece, sebbene non sia nota con certezza, i ricercatori sono riusciti a definire un limite superiore per la massa. Conoscere entrambi questi parametri, per un pianeta, è fondamentale per stimarne la densità e, quindi, la tipologia e la composizione. Nel caso di Toi-1338b, il grado di approssimazione raggiunto ha già consentito di capire che la sua densità è più bassa (ma simile) a quella del pan di spagna: una rarità che lo rende un candidato interessante per ulteriori approfondimenti con il telescopio spaziale James Webb, grazie al quale si riuscirà a dire qualcosa di più anche sulla chimica dell’ambiente in cui si è formato il sistema.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Radial-velocity discovery of a second planet in the TOI-1338/BEBOP-1 circumbinary system” di Matthew R. Standing, Lalitha Sairam, David V. Martin, Amaury H. M. J. Triaud, Alexandre C. M. Correia, Gavin A. L. Coleman, Thomas A. Baycroft, Vedad Kunovac, Isabelle Boisse, Andrew Collier Cameron, Georgina Dransfield, João P. Faria, Michaël Gillon, Nathan C. Hara, Coel Hellier, Jonathan Howard, Ellie Lane, Rosemary Mardling, Pierre F. L. Maxted, Nicola J. Miller, Richard P. Nelson, Jerome A. Orosz, Franscesco Pepe, Alexandre Santerne, Daniel Sebastian, Stéphane Udry & William F. Welsh


Majis ha completato i test in volo


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Lo strumento Majis a bordo della sonda Juice. Crediti: Leonardo

Fra gli strumenti di telerilevamento a bordo della sonda Juice (Jupiter Icy Moon Explorer) dell’Agenzia spaziale europea (Esa), lo spettrometro a immagine Majis (Moons and Jupiter Imaging Spectrometer), operante nel visibile e vicino infrarosso (0.5-5.5 μm), assume un particolare rilievo per la sua capacità di fornire misure importanti per l’intera gamma di indagini che riguardano il pianeta Giove e i suoi maggiori satelliti.

Majis, come anche Janus, Rime e 3Gm – tutti realizzati con il finanziamento dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) – sono stati precedentemente accesi e testati nello spazio con successo dimostrando il perfetto funzionamento di tutti gli strumenti realizzati, interamente o in parte, dal nostro paese.

Giuseppe Piccioni, Co-Principal Investigator dello strumento Majis per l’Inaf di Roma, spiega: «La scorsa settimana, lo specchio di scansione e l’otturatore sono stati attivati e azionati in modo impeccabile. Sono state poi eseguite osservazioni delle sue lampade di calibrazione interne, confermando le eccellenti prestazioni dello strumento in linea con la calibrazione a terra. Majis è quindi pronto per compiere la sua missione, ovvero studiare la composizione della superficie e l’esosfera delle lune ghiacciate, e caratterizzare la composizione e la dinamica dell’atmosfera di Giove».

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La figura confronta due immagini Majis acquisite durante la calibrazione dello strumento (in alto) e la messa in servizio in volo (in basso) utilizzando la lampada di calibrazione interna. Da queste immagini vengono estratti due profili che mostrano che il segnale preso in volo (verde) è simile a quello acquisito durante la calibrazione in condizioni criogeniche simili. Crediti: Inaf

Tra gli obiettivi di Majis rivestono la massima importanza la determinazione e mappatura della composizione superficiale delle lune Ganimede, Callisto ed Europa, con particolare enfasi sui composti diversi dal ghiaccio d’acqua già noti da precedenti osservazioni o previsti dai modelli, come sali minerali idrati, volatili e composti organici, e la mappatura composizionale dell’atmosfera di Giove, inclusa la densità delle nubi e la morfologia delle aurore. In questo contesto, il progetto Majis si propone di valorizzare e sviluppare ulteriormente le competenze maturate durante il progetto Jovian InfraRed Auroral Mapper (Jiram) attualmente operante attorno a Giove a bordo della missione Nasa Juno.

«Il completamento dei primi test in volo dello strumento Majis è un passo importantissimo e che instilla grande ottimismo per il prosieguo della missione Juice», dichiara Raffaele Mugnuolo, responsabile di Unità di esplorazioni, infrastrutture orbitanti e di superficie e satelliti scientifici di Asi. «Lo spettrometro Majis conferma la grande e consolidata capacità italiana in questo ambito, sia per la parte ingegneristica che per la parte scientifica. Il coordinamento esercitato dall’Asi si è rivelato efficace sia nei rapporti con il Cnes che verso Esa e ha consentito il completamento di uno strumento complicatissimo che ripagherà in termini di ritorno scientifico senza precedenti».

Majis è stato costruito da un consorzio franco-italiano guidato dall’Institut d’Astrophysique Spatiale (Ias) di Orsay, in Francia, e finanziato dal Centre National d’études Spatiales (Cnes) e dall’Asi. L’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) ha coordinato la proposta originale dello strumento, selezionata da Esa a febbraio 2013, e in qualità di Istituto Co-PI ha poi seguito lo sviluppo del sostanziale contributo hardware italiano che riguarda la testa ottica costituita da telescopio e spettrometro, realizzati presso Leonardo (Campi Bisenzio, Firenze), e la valutazione delle performance attese. Lo strumento è stato assemblato e calibrato inizialmente presso Leonardo, poi presso Ias-Orsay. Infine, è stato alloggiato a bordo del satellite Juice a dicembre 2021. I laboratori belgi supportati da Belspo sono stati coinvolti nella caratterizzazione dei rivelatori Majis.


Galassie con la coda: è lunga 1,5 milioni di anni luce


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A circa 340 milioni di anni luce dalla Terra un’immersione galattica sta causando scompiglio. Qui risiede l’ammasso della Chioma, un’enorme struttura composta da migliaia di galassie tenute insieme dalla gravità. Questa gigantesca rete galattica possiede una massa complessiva talmente elevata da essere un attrattore irresistibile per le strutture nelle vicinanze. Una delle vittime è Ngc 4839, un piccolo gruppo di galassie posto sul bordo dell’ammasso che sta inevitabilmente cedendo alla potenza attrattiva del fratello maggiore, dirigendosi verso il suo centro all’incredibile velocità di circa 4,8 milioni di chilometri orari.

L’ammasso della Chioma e il gruppo Ngc 4839 non sono composti però esclusivamente da galassie. Attorno a loro è presente una grande quantità di gas caldo che, seppur relativamente diffuso e sottile, contribuisce in maniera importante alla massa delle due strutture. Mentre Ngc 4839 si tuffa nell’ammasso, il gas caldo che circonda il piccolo gruppo viene strappato via fino a lasciare una lunghissima coda. Utilizzando i dati del telescopio per raggi X Chandra della Nasa, del telescopio Xmm Newton dell’Esa e della Sloan Digital Sky Survey, un team di ricercatori dell’Università dell’Alabama a Huntsville è riuscito a confermare che si tratta della coda di gas caldo proveniente da un gruppo di galassie più lunga mai osservata, raggiungendo la dimensione record di 1,5 milioni di anni luce. I risultati dello studio sono stati pubblicati in un articolo apparso recentemente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e presentati da uno degli autori, Stephen Walker, durante il 242° meeting dell’American Astronomical Society ad Albuquerque, nel Nuovo Messico.

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Crediti: X-Ray: Chandra: Nasa/Sao/Univ. of Alabama/M. S. Mirakhor et al.; Xmm: Esa/Xmm-Newton; Optical: Sdss; Image Processing: N. Wolk

I risultati ottenuti stanno offrendo ai ricercatori l’opportunità di comprendere diversi aspetti riguardanti l’evoluzione degli ammassi di galassie e la fisica del gas della coda, prima che questo si immerga completamente in quello dell’ammasso e quindi diventi troppo debole per essere distinto. Utilizzando il telescopio spaziale per raggi x Chandra, il team ha individuato un’onda di shock davanti a Ngc 4839 dovuta allo scontro tra il gas che lo circonda e quello intorno all’ammasso della Chioma. I ricercatori hanno anche condotto studi sulla turbolenza, scoprendo che il gas ne è caratterizzato solo da una lieve quantità, il che implica che la conduzione del calore in Ngc 4839 è bassa. Inoltre, sono state individuate potenziali prove della presenza di strutture chiamate instabilità di Kelvin-Helmholtz. Esse sono causate da differenze di velocità tra strati adiacenti di gas o fluidi in movimento: fenomeni osservati dagli scienziati anche qui sulla Terra, per esempio nelle nuvole, quando l’aria più vicina al suolo si muove a una velocità diversa rispetto all’aria sopra di essa, e porta alla formazione di onde e vortici. La presenza di instabilità di Kelvin-Helmholtz in Ngc 4839 suggerisce che il gas nella coda abbia un campo magnetico debole o un basso livello di viscosità.

Nelle due immagini qui sopra abbiamo rispettivamente una ripresa a campo largo che comprende l’ammasso della chioma insieme al gruppo Ngc 4839 e una ripresa che mostra in dettaglio il gruppo Ngc 4839 con la sua coda di gas caldo.

L’immagine a sinistra mostra l’ammasso della Chioma ai raggi x ripreso con il telescopio Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (blu), insieme ai dati ottici della Sloan Digital Sky Survey (giallo). In blu è rappresentato il gas che circonda l’ammasso, che al suo centro presenta numerosi puntini, ognuno dei quali è una distinta galassia. Il gruppo di galassie Ngc 4839 si trova nell’angolo in basso a destra dell’immagine.

L’immagine a destra è una ripresa in dettaglio del gruppo Ngc 4839, effettuata ai raggi x dal telescopio spaziale Chandra della Nasa. La testa del gruppo di galassie Ngc 4839 si trova sul lato sinistro e contiene la galassia più luminosa del gruppo e il gas più denso. La coda di gas caldo si trascina verso destra. Nella zona sottostante la testa del gruppo si può notare l’onda di shock, mentre nella zona superiore è presente il bordo della struttura di gas caratterizzato dall’instabilità di Kelvin-Helmholtz.

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Poker di mini-Nettuni per Cheops


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Rappresentazione artistica di Cheops, il satellite dedicato allo studio degli esopianeti dell’Esa, in orbita sopra la Terra. In questa vista la copertura del telescopio del satellite è aperta. Crediti: Esa / Atg Medialab

La missione Cheops dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha confermato l’esistenza di quattro esopianeti caldi in orbita attorno ad altrettante stelle nella Via Lattea. Le dimensioni di questi pianeti sono comprese tra la dimensione della Terra e quella di Nettuno, e orbitano attorno alle loro stelle più vicino di Mercurio attorno al Sole.

Questi cosiddetti mini-Nettuni sono diversi da qualsiasi pianeta del Sistema solare e costituiscono il “collegamento mancante” tra i pianeti simili alla Terra e quelli simili a Nettuno. Si tratta di oggetti molto comuni e piuttosto misteriosi: sono più piccoli, più freddi e più difficili da trovare rispetto ai cosiddetti gioviani caldi, dei quali esistono moltissimi esempi. Mentre i gioviani caldi orbitano attorno alla loro stella in poche ore o giorni, e in genere hanno temperature superficiali superiori a 1000 °C, i mini-Nettuni caldi impiegano più tempo a orbitare attorno alle loro stelle e hanno temperature superficiali più fredde, di soli 300 °C circa.

Il primo segno dell’esistenza di questi quattro nuovi esopianeti è stato trovato dalla missione Tess della Nasa. Tuttavia, Tess ha indagato ciascuna stella solo per 27 giorni, nei quali ha individuato un accenno relativo a un solo transito per ognuno, confermato da un passaggio successivo nella missione estesa.

Gli scienziati hanno calcolato i periodi orbitali più probabili e hanno indicato a Cheops le stelle nel momento in cui si aspettavano il transito dei pianeti. È così che anche Cheops è stato in grado di misurare un transito per ciascuno degli esopianeti, confermando la loro esistenza, scoprendo i loro veri periodi orbitali e facendo il passo successivo verso la loro caratterizzazione.

I quattro pianeti appena confermati hanno orbite comprese tra 21 e 53 giorni attorno alle quattro diverse stelle. La loro scoperta è importante perché avvicina il nostro campione di esopianeti conosciuti a orbite più lunghe, che troviamo nel Sistema solare.

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La missione Cheops ha confermato l’esistenza di quattro esopianeti caldi in orbita attorno ad altrettante stelle nella Via Lattea. Questi cosiddetti mini-Nettuni sono diversi da qualsiasi pianeta del Sistema solare e forniscono un “collegamento mancante” tra i pianeti simili alla Terra e quelli simili a Nettuno che non è ancora stato compreso. I mini-Nettuni sono tra i tipi più comuni di esopianeti conosciuti e gli astronomi stanno iniziando a trovarne sempre di più, in orbita attorno a stelle luminose. Crediti: Esa (work performed by Atg under contract for Esa)

Una delle domande in sospeso sui mini-Nettuni è di cosa sono fatti. Si ipotizza che abbiano un nucleo ferroso-roccioso con spessi strati esterni di materiale più leggero. Diverse teorie prevedono diversi strati esterni: hanno oceani profondi di acqua liquida, un’atmosfera gonfia di idrogeno ed elio o un’atmosfera di puro vapore acqueo?

Scoprire la loro composizione è importante per comprendere la storia della formazione di questo tipo di pianeta. I mini-Nettuni ricchi d’acqua probabilmente si sono formati nelle regioni ghiacciate del loro sistema planetario prima di migrare verso l’interno, mentre da combinazioni di roccia e gas si potrebbe inferire che siano rimasti nello stesso posto in cui si sono formati.

Le nuove misurazioni di Cheops hanno contribuito a determinare il raggio dei quattro esopianeti, mentre la loro massa si può determinare utilizzando le osservazioni dei telescopi terrestri. Combinando la massa e il raggio si ottiene una stima della densità complessiva, che può a sua volta dare una prima stima della massa del nucleo ferro-roccioso. Sebbene queste nuove informazioni sulla densità rappresentino un importante passo avanti nella comprensione dei mini-Nettuni, non sono sufficienti per offrire una conclusione per quanto riguarda gli strati esterni.

I quattro esopianeti recentemente confermati orbitano attorno a stelle luminose, il che li rende candidati perfetti per un follow-up da parte del telescopio spaziale James Webb o della futura missione Ariel dell’Esa. Queste missioni spettroscopiche potrebbero scoprire cosa contengono le loro atmosfere e fornire una risposta definitiva alla composizione dei loro strati esterni.

È necessaria una caratterizzazione completa per capire come si sono formati questi corpi. Conoscere la composizione di questi pianeti ci dirà con quale meccanismo si sono formati e questo a sua volta ci aiuterà a comprendere meglio le origini e l’evoluzione del Sistema solare.

I risultati delle osservazioni dei quattro esopianeti sono stati pubblicati ieri in quattro articoli su Astronomy & Astrophysics e Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, che vedono tra gli autori numerosi astronomi degli osservatori Inaf di Catania e di Padova.

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Chi dà il nome a tutti i luoghi e tutti i laghi di Marte


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Dopo oltre due anni di attività e più di 18 chilometri e mezzo percorsi, Perseverance ha attraversato, superato e visto moltissimi luoghi inediti nel cratere Jezero. Per ricordare i più interessanti, i ricercatori della missione hanno dato più di 850 nuovi nomi a rocce marziane, obiettivi di perforazione e altri luoghi. E ne serviranno molti altri. Un piccolo esempio lo trovate nell’immagine qui sotto, divisa in quadranti nominati ispirandosi a diversi parchi nazionali sulla Terra. Se prendessimo luoghi più vasti, o singole rocce, potremo trovare nomi di città o addirittura nomi di personaggi dei cartoni animati. Nomi ufficiali e nomi confidenziali.

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Mappa che mostra i vari temi ai quali si ispirano i nomi dei quadranti nelle vicinanze del rover Perseverance Mars della Nasa, che attualmente si trova nel quadrante delle Rocky Mountain. Il team del rover ha scelto i temi dei quadranti ispirandosi a vari parchi nazionali della Terra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Università dell’Arizona

«Proprio come sulla Terra, i geologi di Marte si affidano a nomi familiari su una mappa per capire il paesaggio e comunicare tra loro le rocce viste dai rover», spiega Tina Seeger, geologa della Nasa coinvolta nelle missioni marziane con i rover. «Curiosity e Perseverance si trovano in crateri diversi, a più di duemila miglia di distanza l’uno dall’altro, e chiamano le rocce di questi crateri con nomi di luoghi della Terra. Curiosity ha appena perforato Ubajara, che prende il nome da un parco nazionale in Brasile. E Perseverance sta studiando il cratere Belva. Belva è una città della Virginia Occidentale che prende il nome da Belva Ann Lockwood, una delle prime donne a candidarsi alla presidenza».

Chi decide, quindi, i nomi su Marte? Bisogna, innanzitutto, fare un distinguo fra i nomi ufficiali e quelli non ufficiali: mentre i primi vengono assegnati dall’Unione astronomica internazionale, che ha linee guida rigorose per la nomenclatura di qualunque luogo nel Sistema solare e registra i nomi nel Gazetteer of Planetary Nomenclature, gli elementi più piccoli, come le rocce, le scogliere, le meteoriti e addirittura i campioni di roccia prelevati da Perseverance, ricevono soprannomi scelti dalle squadre dei rover.

Il criterio, per quanto riguarda i nomi ufficiali, è chiaro. I crateri di dimensioni superiori a 60 chilometri prendono il nome di scienziati famosi o di autori di fantascienza, mentre i crateri più piccoli si chiamano come alcune città con popolazione inferiore a centomila abitanti. Il cratere Jezero in cui si sta muovendo Perseverance, ad esempio, prende il nome da una città bosniaca. Sono più di duemila le località su Marte che portano nomi ufficiali, ma sono i soprannomi non ufficiali ad andare per la maggiore.

«Negli anni Novanta si inventavano nomi al volo», continua la geologa. «Ed è per questo che ci sono nomi sciocchi come Barnacle Bill, o Indiana Jones. Ma ora compiliamo in anticipo un elenco di nomi basati su temi diversi. Disegniamo una griglia sulla mappa dove ogni quadrato è un quadrante diverso che rappresenta un tema diverso».

Curiosity, ad esempio, ha usato nomi presi da località del Sud America o della Scozia, mentre Perseverance usa nomi dei parchi nazionali di tutto il mondo, proprio come si vede nella mappa qui sopra.

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La “bacon strip” vista dallo spazio, a cui si fa riferimento nel testo. Crediti: Nasa Jet Propulsion Laboratory

«Uno dei miei obiettivi preferiti di Curiosity si chiama Bonanza King, e prende il nome dalla formazione rocciosa Bonanza King vicino alla Death Valley. Qui [nell’immagine riportata a fianco, ndr] vediamo un’area che, osservata dallo spazio, assomiglia a una striscia di pancetta. Così l’abbiamo chiamata scherzosamente “the bacon strip”».

Non ci sono solo Perseverance e Curiosity ad attribuire nomi al suolo marziano, comunque. Anche Opportunity e Insight, negli anni, hanno fatto lo stesso, usando nomi commemorativi, storici, o ispirati a personaggi di spicco, dal tono scherzoso o serio. Una carrellata meno recente ma più esaustiva di appellativi e motivazioni si può trovare in un articolo dedicato nel sito del Jet Propulsion Laboratory della Nasa.


Webb mappa l’atmosfera di Wasp-18b


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Il team ha ottenuto lo spettro di emissione termica di Wasp-18b misurando la quantità di luce che emette nell’intervallo di lunghezze d’onda dello strumento Niriss Soss 0,85 – 2,8 micron del telescopio Webb, catturando il 65% dell’energia totale emessa dal pianeta. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Un team internazionale di astronomi ha identificato tracce di vapore acqueo nell’atmosfera dell’esopianeta Wasp-18b e ha realizzato una mappa della temperatura del pianeta durante una eclissi secondaria. Mentre il pianeta scivola dietro alla sua stella, e successivamente riappare dal lato opposto, è infatti possibile rilevare la luce combinata della stella e del pianeta, e affinare le misurazioni solo dalla stella mentre il pianeta si muove dietro di essa.

Wasp-18b è noto per avere un periodo di rivoluzione molto breve, di circa 24 ore, e una massa equivalente a 10 volte quella di Giove, di poco inferiore alla linea di divisione tra pianeti e nane brune. Si trova a circa 3 milioni di chilometri dalla stella, lontana circa 325 anni luce dalla Terra. Così come accade per la Luna rispetto alla Terra, anche Wasp-18b ha un lato “diurno” sempre rivolto verso la sua stella. La mappa della temperatura dell’esopianeta mostra un enorme cambiamento di temperatura – fino a 1.000 gradi – dal punto più caldo di fronte alla stella al terminatore, la linea di demarcazione dove il lato diurno e quello notturno del pianeta si incontrano in un crepuscolo permanente.

«Jwst ci sta dando la sensibilità per creare mappe molto più dettagliate di pianeti giganti caldi come Wasp-18b. Questa è la prima volta che un pianeta è stato mappato con Jwst, ed è davvero emozionante vedere che parte di ciò che i nostri modelli hanno previsto, come un brusco calo della temperatura lontano dal punto del pianeta direttamente di fronte alla stella, è effettivamente osservato nei dati», afferma Megan Mansfield dell’Università dell’Arizona, coautrice dello studio pubblicato su Nature.

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Questa infografica spiega come gli astronomi usano i transiti degli esopianeti e le eclissi per saperne di più su questi mondi lontani. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/R. Hurt

Il team ha mappato il gradiente di temperatura attraverso il lato diurno del pianeta e, visto quanto è più freddo al terminatore, c’è probabilmente qualcosa che impedisce ai venti di ridistribuire in modo efficiente il calore verso il lato notturno. Ma cosa sia questo “qualcosa” è ancora un mistero. Una possibilità è che si tratti di un forte campo magnetico, che costringe i venti a soffiare dall’equatore del pianeta verso i poli invece che da est a ovest, come ci si aspetterebbe. I ricercatori hanno anche registrato variazioni di temperatura a diverse altitudini degli strati di atmosfera del gigante gassoso, riscontrando variazioni di centinaia di gradi.

Lo spettro dell’atmosfera del pianeta mostra chiaramente caratteristiche legate alla presenza di acqua, piccole ma misurate con precisione, presenti nonostante le temperature estreme di quasi 2.700 gradi Celsius. La temperatura è così elevata da fare a pezzi la maggior parte delle molecole d’acqua, e riuscire a vedere la sua presenza evidenzia la straordinaria sensibilità di Webb. Le quantità registrate nell’atmosfera di Wasp-18b indicano che il vapore acqueo è presente a varie altezze.

La grande massa dell’esopianeta e la sua vicinanza, sia rispetto alla sua stella sia rispetto alla Terra, ha contribuito a rendere Wasp-18b un obiettivo intrigante: è uno dei mondi più massicci di cui è possibile studiare l’atmosfera.

«Analizzando lo spettro di Wasp-18b, non solo impariamo a conoscere le varie molecole che si possono trovare nella sua atmosfera, ma anche il modo in cui si è formato. Dalle nostre osservazioni scopriamo che la composizione di Wasp-18b è molto simile a quella della sua stella, il che significa che molto probabilmente si è formato dal gas residuo che era presente subito dopo la nascita della stella», spiega Louis-Philippe Coulombe dell’Università di Montréal. «Questi risultati sono molto preziosi per avere un quadro chiaro di come siano nati strani pianeti come Wasp-18b, che non hanno una controparte nel nostro Sistema solare».

«Risulta oramai appurato che l’ampia copertura in lunghezze d’onda e l’elevata precisione spettrale del Jwst offrono molte opportunità per lo studio e la caratterizzazione dettagliata della composizione chimica e dei processi delle atmosfere dei pianeti extrasolari», conclude Luigi Mancini dell’Università di Roma Tor Vergata e associato Inaf. «In questo lavoro, abbiamo dimostrato come le osservazioni di eventi di occultazione (eclissi secondarie) degli esopianeti ad alto segnale-rumore, come nel caso di Wasp-18b, ci consentono di ottenere una mappatura tridimensionale delle loro atmosfere, per mezzo della quale possiamo misurare lo spettro della radiazione termica del lato diurno dei pianeti, oltre alle abbondanze molecolari».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A broadband thermal emission spectrum of the ultra-hot Jupiter WASP-18b” di Louis-Philippe Coulombe, Björn Benneke, Ryan Challener, Anjali A. A. Piette, Lindsey S. Wiser, Megan Mansfield, Ryan J. MacDonald, Hayley Beltz, Adina D. Feinstein, Michael Radica, Arjun B. Savel, Leonardo A. Dos Santos, Jacob L. Bean, Vivien Parmentier, Ian Wong, Emily Rauscher, Thaddeus D. Komacek, Eliza M.-R. Kempton, Xianyu Tan, Mark Hammond, Neil T. Lewis, Michael R. Line, Elspeth K. H. Lee, Hinna Shivkumar, Ian J. M. Crossfield, Matthew C. Nixon, Benjamin V. Rackham, Hannah R. Wakeford, Luis Welbanks, Xi Zhang, Natalie M. Batalha, Zachory K. Berta-Thompson, Quentin Changeat, Jean-Michel Désert, Néstor Espinoza, Jayesh M. Goyal, Joseph Harrington, Heather A. Knutson, Laura Kreidberg, Mercedes López-Morales, Avi Shporer, David K. Sing, Kevin B. Stevenson, Keshav Aggarwal, Eva-Maria Ahrer, Munazza K. Alam, Taylor J. Bell, Jasmina Blecic, Claudio Caceres, Aarynn L. Carter, Sarah L. Casewell, Nicolas Crouzet, Patricio E. Cubillos, Leen Decin, Jonathan J. Fortney, Neale P. Gibson, Kevin Heng, Thomas Henning, Nicolas Iro, Sarah Kendrew, Pierre-Olivier Lagage, Jérémy Leconte, Monika Lendl, Joshua D. Lothringer, Luigi Mancini, Thomas Mikal-Evans, Karan Molaverdikhani, Nikolay K. Nikolov, Kazumasa Ohno, Enric Palle, Caroline Piaulet, Seth Redfield, Pierre-Alexis Roy, Shang-Min Tsai, Olivia Venot & Peter J. Wheatley


Come produrre il lampo gamma del secolo


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I raggi X del lampo gamma Grb 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della Nasa. Crediti: Nasa/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Quando ne parlammo per la prima volta su Media Inaf – era trascorsa meno di una settimana dalla sua rilevazione, avvenuta il 9 ottobre 2022 – lo chiamammo “il lampo gamma del secolo”. Man mano che accumulavano conferme della sua incredibile intensità, e soprattutto man mano che – con il trascorrere delle settimane, poi dei mesi – la sua luce residua (il cosiddetto afterglow) continuava a persistere a varie lunghezze d’onda, gli astronomi si sono poi spinti oltre, fino ad affibbiargli il soprannome “Boat”, acronimo per l’inglese brightest of all time: ovvero il più luminoso di tutti i tempi.

Stiamo parlando di Grb 221009A, il lampo di raggi gamma più luminoso mai registrato. Emesso a 2.4 miliardi di anni luce da noi dal collasso di una stella di grande massa in un buco nero, è un evento talmente energetico da mettere in crisi i modelli che descrivono questi fenomeni. Uno studio pubblicato ieri su Science Advances, guidato da Brendan O’Connor della University of Maryland e della George Washington University (Usa), propone però uno scenario che sembrerebbe riuscire a far tornare i conti: l’esplosione iniziale era orientata direttamente verso la Terra, sostengono gli autori, e trascinava nella sua scia una quantità insolitamente grande di materia stellare. Non solo: la sua conformazione era alquanto particolare, più complessa della forma a cono di gelato che di solito si associa ai getti relativistici.

«Il lento affievolirsi dell’afterglow non è caratteristico di un getto di gas molto collimato, e questo ci ha fatto supporre che ci fosse un’ulteriore ragione per l’intensità dell’esplosione. I nostri modelli matematici l’hanno confermato: il nostro lavoro», dice uno dei coautori dello studio, Hendrik Van Eerten della University of Bath (Regno Unito), «mostra chiaramente che il Grb aveva una struttura unica, con osservazioni che hanno gradualmente rivelato un getto stretto inserito in un flusso di gas più ampio, là dove normalmente ci si aspetterebbe un getto isolato».

«Questo evento ci ha aiutato a risolvere un mistero decennale. Di solito la radiazione che segue un lampo gamma scompare nel giro di qualche giorno», spiega a Media Inaf la seconda autrice dell’articolo, Eleonora Troja dell’Università di Roma Tor Vergata, «ma nel caso di lampi brillanti come Grb 221009A la vediamo persistere per mesi, se non anni. Questo comporta dei seri problemi energetici: anche se fossimo in grado di estrarre tutta l’energia di un buco nero, comunque non raggiungeremmo l’energia sprigionata da Grb 221009A. Grazie alle proprietà estreme di Grb 221009A siamo riusciti a comprendere che questa longevità della radiazione elettromagnetica era legata al getto relativistico e alla sua forma particolare, caratterizzata da ali molto ampie. Gran parte dell’energia però è concentrata in una regione molto stretta al centro del getto e questo riduce drasticamente il bilancio energetico dell’esplosione, permettendoci di rientrare nei limiti della nostra comprensione».

Allo studio ha preso parte anche il ricercatore dell’Inaf Roberto Ricci, occupandosi in particolare dell’analisi dei dati alle lunghezze d’onda radio, fondamentali per convalidare l’ipotesi che Grb 221009A sia stato un getto fuori dal comune.

Per saperne di più:

  • Leggi su Science Advances l’articolo “A structured jet explains the extreme GRB 221009A”, di B. O’Connor, E. Troja, G. Ryan, P. Beniamini, H. van Eerten, J. Granot, S. Dichiara, R. Ricci, V. Lipunov, J. H. Gillanders, R. Gill, M. Moss, S. Anand, I. Andreoni, R. L. Becerra, D. A. H. Buckley, N. R. Butler, S. B. Cenko, A. Chasovnikov, J. Durbak, C. Francile, E. Hammerstein, A. J. van der Horst, M. Kasliwal, C. Kouveliotou, A. S. Kutyrev, W. H. Lee, G. Srinivasaragavan, V. Topolev, A. M. Watson, Y. H. Yang e K. Zhirkov


Gas e sregolatezza: così crebbero le galassie di Jwst


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Questa fotografia dell’ammasso di galassie Smacs 0723 è stata la prima immagine rilasciata dal James Webb Space Telescope, nel luglio 2023. I cinque zoom sono ciascuno di circa 19mila anni luce e mostrano galassie viste circa 13 miliardi di anni indietro nel tempo. Un’attenta analisi di queste galassie rivela che se non riusciamo a risolvere una galassia, potremmo sottostimare pesantemente la massa totale delle sue stelle. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI / Giménez-Arteaga et al. (2023), Peter Laursen (Cosmic Dawn Center)

Galassie esagerate, già massicce nell’universo primordiale. La loro esistenza è la più spiazzante fra le tante sorprese che ci ha portato il James Webb Space Telescope nel corso del suo primo anno di attività. Parliamo di galassie da decine di miliardi di masse solari, osservate a un’epoca nella quale l’universo non aveva nemmeno 500 milioni di anni. Un po’ come entrare in un asilo nido e imbattersi in bebè che pesano mezzo quintale. Gli astronomi sono rimasti basiti: ce n’è abbastanza da mettere in crisi gli attuali modelli cosmologici e di formazione delle strutture.

Come spiegare questo eccesso di galassie cresciute precocemente? Una possibile spiegazione arriva ora da un team di astrofisici della Hebrew University, l’università ebraica di Gerusalemme. Illustrata in un articolo pubblicato a fine maggio su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’ipotesi dei ricercatori israeliani è che il processo di formazione di queste galassie sia stato molto più efficiente di quanto non avvenga di solito. In particolare, il processo di formazione stellare (starburst) sarebbe avvenuto senza innescare i tipici meccanismi retroattivi (feedback) che in condizioni normali moderano la conversione del gas in stelle, primo fra tutti l’espulsione di grandi masse di gas a seguito delle esplosioni di supernove. Venendo meno questo meccanismo di autoregolazione – si parla infatti di feedback-free starbursts – ecco che la formazione stellare sarebbe stato molto più efficiente.

A consentire l’assenza di feedback nelle galassie primordiali è una finestra d’opportunità (window of opportunity, la chiamano gli autori dello studio) di circa un milione di anni: un ritardo temporale che intercorrerebbe tra la formazione delle stelle massicce e la loro successiva esplosione come supernove. Ritardo reso possibile dall’alta densità del gas presente nell’universo primordiale: gas ancora privo degli elementi pesanti prodotti dalle stelle, e con una densità tale da rendere molto più rapido del normale il collasso che dà origine alle stelle. Anticipandone così la formazione, e consentendo – appunto – l’apertura della finestra temporale da un milione di anni di produzione sregolata, libera dal meccanismo di feedback.

«La pubblicazione di questa ricerca segna un importante passo avanti nella comprensione della formazione delle galassie massive primordiali nell’universo e senza dubbio darà il via a ulteriori ricerche e scoperte», conclude il primo autore dello studio, l’astrofisico Avishai Dekel, del Racah Institute of Physics della Hebrew University. «Confronteremo le previsioni del nostro modello con le nuove osservazioni del telescopio spaziale Webb, ma alcune sembrerebbero già confermate».

Lo scenario che prevede una finestra di opportunità in cui la formazione stellare può avvenire in assenza di feedback, sottolineano infine gli autori dello studio, potrebbe inoltre aiutare a sciogliere un ulteriore enigma: la sorprendente presenza di buchi neri supermassicci – da un miliardo di masse solari – osservati nel cuore delle galassie mezzo miliardo di anni più tardi.

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Una nova fuori dal comune


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Rappresentazione artistica di V1674 Herculis, una nova classica ospitata in un sistema stellare binario costituito da una nana bianca e una stella compagna nana. Gli scienziati che studiano questa nova hanno rilevato emissioni non termiche, piuttosto insolito rispetto alla credenza storica secondo cui questi sistemi producono solo emissioni termiche. Crediti: B. Saxton (Nrao/Aui/Nsf)

Mentre studiava le nove classiche utilizzando il Very Long Baseline Array (Vlba) del National Radio Astronomy Observatory, Montana Williams, giovane ricercatrice al New Mexico Tech, ha scoperto che V1674 Herculis potrebbe essere stata erroneamente classificata come semplice. Le nuove osservazioni – presentate in questi giorni a una conferenza stampa durante il 242esimo meeting dell’American Astronomical Society ad Albuquerque, nel New Mexico – hanno infatti evidenziato emissioni non termiche.

V1674 Herculis è la nova classica più veloce mai registrata, dove il sistema binario è formato da una nana bianca e da una compagna nana. Mentre la studiava con il Vlba, Williams ha confermato una inaspettata emissione non termica proveniente dalla nova stessa. «Le nove classiche sono state storicamente considerate semplici esplosioni, che emettono principalmente energia termica», spiega Williams. «Tuttavia, sulla base di recenti osservazioni con il Fermi Large Area Telescope (Fermi-Lat), questo semplice modello non è del tutto corretto. Sembra che siano un po’ più complicate. Utilizzando il Vlba, siamo stati in grado di ottenere un quadro molto dettagliato di una delle principali complicazioni, l’emissione non termica».

I rilevamenti di interferometria di lunghissima base (Vlbi) di nove classiche con compagne nane come V1674Her sono rari. Sono così rari che questo stesso tipo di rilevamento, con componenti radio di sincrotrone risolti, a oggi è stato segnalato solo un’altra volta. Ciò è in parte dovuto alla presunta natura delle nove classiche. «I rilevamenti Vlbi delle nove sono diventati possibili solo di recente grazie ai miglioramenti delle tecniche Vlbi, in particolare la sensibilità degli strumenti e l’aumento della larghezza di banda o la quantità di frequenze che possiamo registrare in un dato momento», afferma Williams. «Inoltre, a causa della precedente teoria delle nove classiche, non si pensava che fossero obiettivi ideali per gli studi Vlbi. Ora sappiamo che questo non è vero a causa delle osservazioni a più lunghezze d’onda che indicano uno scenario più complesso».

Questa rarità rende le nuove osservazioni un passo importante nella comprensione delle nove classiche e di ciò che alla fine porta al loro comportamento esplosivo. «Studiando le immagini del Vlba e confrontandole con altre osservazioni del Very Large Array (Vla), Fermi-Lat, Nustar e Nasa-Swift, possiamo determinare quale potrebbe essere la causa dell’emissione e anche apportare modifiche al precedente modello semplice», continua Williams. «In questo momento, stiamo cercando di determinare se l’energia non termica proviene da grumi di gas che si scontrano con altri gas ammassati che producono shock o qualcos’altro».

Poiché le osservazioni di Fermi-Lat e NuStar avevano già indicato che potrebbero esserci emissioni non termiche provenienti da V1674Her, ciò ha reso la nova classica un candidato ideale per lo studio, ancora più interessante a causa della sua evoluzione iperveloce e perché, a differenza delle supernove, il sistema ospite non viene distrutto durante quell’evoluzione, bensì rimane quasi completamente intatto e immutato dopo l’esplosione. «Molte sorgenti astronomiche non cambiano molto nel corso di un anno o addirittura di 100 anni. Ma questa nova è diventata 10mila volte più luminosa in un solo giorno, poi è tornata al suo stato normale in circa 100 giorni», conclude il ricercatore. «Poiché i sistemi ospiti delle nove classiche rimangono intatti, possono essere ricorrenti, il che significa che potremmo vederla esplodere, o esplodere dolcemente, ancora e ancora, dandoci maggiori opportunità di capire perché e come ciò avviene».


Gli ultimi tre pianeti di Kepler


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L’ultima campagna osservativa del telescopio spaziale Kepler della Nasa è durata solo un mese. Quando il veicolo spaziale iniziò a esaurire il carburante per il controllo dell’assetto, non riuscì a mantenere la sua posizione abbastanza a lungo da raccogliere osservazioni utili. Alla fine, gli astronomi avevano solo circa sette giorni di dati di alta qualità. Un gruppo di ricerca ha lavorato con un gruppo di cittadini scienziati e astronomi professionisti e ha trovato tre pianeti nell’ultimo bit di dati. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech (K. Walbolt)

Un team di astrofisici e cittadini scienziati – o citizen scientist – ha identificato quelli che potrebbero essere stati gli ultimi tre pianeti osservati dal telescopio spaziale Kepler della Nasa. Il trio di esopianeti ha dimensioni comprese tra quella della Terra e quella di Nettuno. «Sono pianeti abbastanza nella media nel grande schema delle osservazioni di Kepler», spiega Elyse Incha dell’Università del Wisconsin-Madison. «Ma sono entusiasmanti perché Kepler li ha osservati durante i suoi ultimi giorni di operazioni. È una dimostrazione di quanto Kepler fosse bravo nel dare la caccia ai pianeti, anche alla fine della sua vita». L’articolo che descrive la scoperta è stato pubblicato il 30 maggio sulla rivista Monthly Notice della Royal Astronomical Society.

Kepler è stato lanciato nel marzo 2009 con l’obiettivo di monitorare con continuità un pezzo di cielo nelle costellazioni settentrionali del Cigno e della Lira. Questo lungo periodo di osservazioni ha permesso al satellite di tracciare i cambiamenti nella luminosità stellare causati dai pianeti in transito davanti alle loro stelle. Dopo quattro anni, il telescopio aveva osservato oltre 150mila stelle e identificato migliaia di potenziali esopianeti. Ricordiamo che Kepler è stata la prima missione della Nasa a trovare un mondo delle dimensioni della Terra in orbita all’interno della zona abitabile della sua stella, ossia a una distanza tale da consentire la presenza di acqua liquida sulla sua superficie.

Nel 2014, il veicolo spaziale ha riscontrato problemi meccanici che hanno temporaneamente interrotto le osservazioni ma il team di Kepler ha escogitato una soluzione che gli ha permesso di riprendere le operazioni, cambiando il suo campo di vista all’incirca ogni tre mesi. Questa nuova missione, chiamata K2, è durata altri quattro anni e ha esaminato oltre 500mila stelle. Quando Kepler è andato in pensione nell’ottobre 2018, aveva contribuito alla scoperta di oltre 2.600 esopianeti confermati e molti altri candidati.

L’ultima campagna della missione K2, la numero 19, è durata solo un mese. Quando il veicolo spaziale iniziò a esaurire il carburante per il controllo dell’assetto, non riuscì a mantenere la sua posizione abbastanza a lungo da raccogliere osservazioni utili. Alla fine, gli astronomi sono riusciti a ottenere circa sette giorni di dati di alta qualità dalla Campagna 19.

Incha e il suo team hanno lavorato con il Visual Survey Group, una collaborazione tra cittadini scienziati e astronomi professionisti, per scansionare questo set di dati alla ricerca di esopianeti. I cittadini scienziati hanno cercato segnali caratteristici di pianeti in transito davanti alle loro stelle su tutte le curve di luce della Campagna 19.

Tom Jacobs, ex ufficiale della Marina degli Stati Uniti e membro del team del Visual Survey Group, e altri hanno identificato un transito nel set di dati di alta qualità per ciascuno dei tre pianeti candidati, ciascuno in orbita attorno a una stella diversa. Dopo la loro scoperta iniziale, anche Incha e il suo team sono tornati indietro e hanno esaminato i dati di qualità inferiore della Campagna 19, trovando un ulteriore transito per due delle tre stelle in questione.

«I secondi transiti di questi due pianeti candidati ci hanno aiutato a confermare la loro scoperta», racconta Andrew Vanderburg del Kavli Institute for Astrophysics and Space Research presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Cambridge. «Nessuno aveva mai trovato pianeti in questo set di dati prima, ma la nostra collaborazione è riuscita a trovarne tre. E stiamo davvero spingendo verso gli ultimi giorni, gli ultimi minuti, delle osservazioni raccolte da Kepler».

Utilizzando le informazioni sui transiti, Incha e il suo team hanno calcolato le potenziali dimensioni e i periodi orbitali dei pianeti. Il pianeta più piccolo, K2-416 b, è circa 2,6 volte più grande della Terra e orbita attorno a una nana rossa circa ogni 13 giorni. Anche K2-417 b, poco più di tre volte la dimensione della Terra, orbita attorno a una stella nana rossa, ma completa un’orbita ogni 6,5 giorni. L’ultimo pianeta non confermato, Epic 246251988 b, è quasi quattro volte più grande della Terra e orbita intorno a una stella simile al Sole in circa 10 giorni.

Anche il Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa, lanciato nell’aprile 2018, utilizza il metodo dei transiti. Durante agosto e settembre 2021, Tess ha osservato la zona di spazio in cui sono presenti gli ultimi tre pianeti di Kepler e gli astronomi sono così stati in grado di rilevare altri due potenziali transiti per K2-417 b.

«In molti modi, Kepler ha passato la torcia della caccia al pianeta a Tess», conclude Knicole Colón del Goddard Space Flight Center della Nasa, che ha lavorato alla missione Kepler per diversi anni. «Il set di dati di Kepler continua a essere un tesoro per gli astronomi e Tess ci aiuta a darci nuove informazioni sulle sue scoperte».

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Webb sente puzza di fumo a 12 miliardi di anni luce


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Scoperte grazie al telescopio Webb tracce di molecole organiche complesse in una galassia distante più di 12 miliardi di anni luce. La galassia si allinea quasi perfettamente con una seconda galassia distante solo 3 miliardi di anni luce vista dalla nostra prospettiva. In questa immagine in falsi colori prodotta da Webb, la galassia in primo piano è mostrata in blu, mentre la galassia sullo sfondo è rossa. Le molecole organiche sono evidenziate in arancione. Crediti: J. Spilker / S. Doyle, Nasa, Esa, Csa

Il telescopio spaziale James Webb (Jwst) ha rilevato le molecole organiche complesse più distanti finora osservate, all’interno della galassia SPT0418-47, distante circa 12 miliardi di anni luce da noi. I composti individuati dai ricercatori sono idrocarburi policiclici aromatici (Pah), un tipo di molecole a noi molto familiari qui sulla Terra. Le troviamo per esempio nel fumo, nella fuliggine e nello smog, in particolare nei gas di scarico prodotti dai motori a combustione o dagli incendi boschivi.

Il team internazionale autore della ricerca, fra cui scienziati dell’Università dell’Illinois e della Texas A&M University, è riuscito a distinguere i segnali infrarossi prodotti dalle molecole di idrocarburi da quelli di alcuni fra i grani di polvere più massicci e più grandi presenti nella galassia. I risultati dello studio sono stati pubblicati questa settimana sulla rivista Nature.

La rilevazione di queste complesse molecole organiche a una distanza così elevata è stata possibile solo grazie a una perfetta combinazione di due elementi: la straordinaria potenza di Jwst e un fenomeno noto come lente gravitazionale. La galassia SPT0418-47 si trova infatti in perfetto allineamento con la Terra e con un’altra galassia, posta nel mezzo, a circa 3 miliardi di anni luce da noi. La gravità di quest’ultima causa un vero e proprio effetto lente: la luce della galassia sullo sfondo – quella oggetto dello studio – viene distorta fino a formare un cosiddetto anello di Einstein, un fenomeno previsto dalla relatività generale. Distorta e ingrandita: in questo caso, di un fattore 30-35. «Combinando le straordinarie capacità di Webb con una “lente d’ingrandimento cosmica”, siamo riusciti a vedere ancora più dettagli di quanto avremmo potuto fare altrimenti», dice il primo autore della ricerca, Justin S. Spilker, del Dipartimento di fisica e astronomia della Texas A&M University.

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La galassia osservata da Webb mostra un anello di Einstein, prodotto da un fenomeno noto come lensing gravitazionale, che si verifica quando due galassie, rispetto all’osservatore, sono quasi perfettamente allineate. La gravità della galassia in primo piano provoca una distorsione e un ingrandimento della luce della galassia sullo sfondo, come se si guardasse attraverso lo stelo di un calice. Grazie all’ingrandimento, il lensing consente agli astronomi di studiare galassie molto distanti in modo più dettagliato di quanto sarebbe altrimenti possibile. Crediti: S. Doyle / J. Spilker

Questo risultato è di fondamentale importanza per comprendere i complessi processi chimici che coinvolgono la formazione stellare nell’universo primordiale. Infatti, la galassia oggetto dello studio è osservata com’era quando l’universo aveva meno di 1,5 miliardi di anni, circa il 10 per cento dell’età attuale. «Quello che la nostra ricerca ci sta ora dicendo – e ancora stiamo imparando – è che possiamo vedere tutte le regioni in cui si trovano questi grani di polvere più piccoli, regioni che non avremmo mai potuto vedere prima di Jwst», dice Kedar Phadke dell’Università dell’Illinois, fra gli autori della ricerca. «I nuovi dati spettroscopici ci permettono di osservare la composizione atomica e molecolare della galassia, fornendoci così importanti informazioni sulla formazione delle galassie, sul loro ciclo di vita e sulla loro evoluzione».

Gli astronomi pensano che molecole organiche complesse di questo tipo siano indicative della presenza di regioni di formazione stellare, ma le nuove osservazioni del Webb stanno modificando queste ipotesi, almeno per quanto riguarda l’universo primordiale. «Grazie alle immagini ad alta definizione di Webb, abbiamo trovato molte regioni con fumo ma senza formazione stellare, e altre con nuove stelle in formazione ma senza fumo», spiega Spilker. «Non vediamo l’ora di capire se è proprio vero che, dove c’è fumo, c’è fuoco. Forse saremo anche in grado di trovare galassie così giovani che molecole complesse come queste non hanno ancora avuto il tempo di formarsi nel vuoto dello spazio: galassie tutte fuoco e niente fumo. L’unico modo per saperlo con certezza è osservare altre galassie, possibilmente ancora più lontane di questa».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Spatial variations in aromatic hydrocarbon emission in a dust-rich galaxy”, di Justin S. Spilker, Kedar A. Phadke, Manuel Aravena, Melanie Archipley, Matthew B. Bayliss, Jack E. Birkin, Matthieu Béthermin, James Burgoyne, Jared Cathey, Scott C. Chapman, Håkon Dahle, Anthony H. Gonzalez, Gayathri Gururajan, Christopher C. Hayward, Yashar D. Hezaveh, Ryley Hill, Taylor A. Hutchison, Keunho J. Kim, Seonwoo Kim, David Law, Ronan Legin, Matthew A. Malkan, Daniel P. Marrone, Eric J. Murphy, Desika Narayanan, Alex Navarre, Grace M. Olivier, Jeffrey A. Rich, Jane R. Rigby, Cassie Reuter, James E. Rhoads, Keren Sharon, J. D. T. Smith, Manuel Solimano, Nikolaus Sulzenauer, Joaquin D. Vieira, David Vizgan, Axel Weiß e Katherine E. Whitaker


L’Italia si candida a ospitare l’Einstein Telescope


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Crediti: Francesca Aloisio/Inaf

L’Italia entra ufficialmente nella gara per ospitare l’Einstein Telescope, il più potente strumento mai costruito per catturare le onde gravitazionali, fino a spingersi quasi al Big Bang che ha dato origine all’universo. La candidatura ufficiale, con il sito di Sos Enattos, in Sardegna, è stata presentata oggi a Roma dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. «Volevo offrire con la mia presenza l’attenzione, la volontà, la dedizione che il governo italiano intende mettere sulla candidatura dell’Italia a ospitare l’Einstein Telescope, volevo che questa volontà fosse chiara», ha detto la premier. Ospitare in Italia questo strumento senza precedenti è «per la scienza, un enorme balzo in avanti nella nostra capacità di comprendere il cosmo; per la politica è un modo per far tornare la ricerca italiana ed europea centrali», ha aggiunto. «Ce la metteremo assolutamente tutta: è un segnale all’Italia e al ruolo che l’Italia può giocare nel mondo».

Con il governo e il ministero della Ricerca, la candidatura è sostenuta dalla Regione Sardegna e coordinata scientificamente dall’Istituto nazionale di fisica nucleare in collaborazione con enti di ricerca e università di tutta Italia. Certamente l’Italia dovrà affrontare una «concorrenza agguerrita», ha osservato il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Antonio Tajani, riferendosi alla candidatura dei Paesi Bassi a ospitare lo strumento. Dalla sua, il sito italiano nell’area della ex miniera metallifera di Sos Enattos, nel nord-est della Sardegna, ha il silenzio. Si trova infatti in una zona scarsamente abitata e con un basso rumore sismico, dovuto al fatto che la Sardegna non è connessa alle zone tettoniche più attive e quindi non è interessata da fenomeni di sismicità e di deformazione della crosta terrestre. Il sito olandese si trova invece in un’area più popolata, al confine tra Paesi Bassi, Belgio e Germania. È una gara aperta, sulla quale si deciderà nel 2025, dopodiché il governo italiano dovrà pensare a un investimento per questo progetto dal costo stimato in 1,9 miliardi di euro e la cui realizzazione richiederà nove anni.

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Il sito di Sos Enattos, candidato dall‘Italia a ospitare l’Einstein Telescope. Crediti: Einstein Telescope Italy

«L’investimento per l’Einstein Telescope ci sarà» e l’impegno del governo in questo progetto «è chiaro e palese», ha detto la ministra per l’Università e la Ricerca, Anna Maria Bernini. Da parte dei Paesi Bassi, ha aggiunto, «non c’è un appostamento di bilancio, ma un impegno pari a quello italiano».

Non ha dubbi fin da adesso il presidente della Regione Sardegna Christian Solinas: «siamo disposti a uno stanziamento importante per creare reti accademiche e di istituzioni di ricerca nazionali e internazionali, con l’aiuto della diplomazia scientifica».

Sono importanti anche le ricadute economiche e in termini di occupazione: «oggi il costo stimato per la costruzione è di 1,7 miliardi e l’impatto complessivo stimato è di 6 miliardi nei 9 anni previsti per la costruzione, con più di 36mila unità di forza lavoro», ha osservato la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Elvira Calderone.

L’Einstein Telescope potrebbe diventare, in Europa e nel mondo, quello che il Cern è per la fisica delle particelle, con almeno 1400 persone attive al suo interno, provenienti da 23 Paesi e 221 istituti di ricerca. Quanto alle ricadute economiche, uno studio dell’Università di Sassari stima che ogni euro speso per l’Einstein Telescope genererà 3,2 euro e un incremento del Pil di 1,6 euro. Anche le attese scientifiche sono grandissime perché, come ha detto il Nobel Giorgio Parisi, uno strumento come l’Einstein Telescope permette di «andare molto indietro nel tempo e, potendo esplorare l’epoca vicina al Big Bang, è possibile che ci siano tante sorprese, difficili da prevedere». Sarà un viaggio alla scoperta dei segreti dell’universo, ha osservato il presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, Antonio Zoccoli, e si tratta di un’impresa senza precedenti anche per il presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, Marco Tavani.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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“Ho dovuto imparare come non arrossire”


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Jocelyn Bell Burnell. Crediti: Chiara Badia/inaf

Irlandese di origini, Jocelyn Bell Burnell, oggi professoressa alla Oxford University, durante il suo dottorato in Scozia, nel 1967, ha osservato la prima radio pulsar, poi successivamente identificata come stella di neutroni. L’anomalo segnale registrato proveniva da Psr B1919+21. Denominata all’inizio con la sigla Cp 1919, dove ‘Cp’ sta per Cambridge pulsar, la pulsar nella costellazione della Volpetta è stato il primo oggetto astronomico di questo tipo mai scoperto, e la potenza e la regolarità del suo segnale radio fecero per un breve periodo pensare che tale segnale fosse in realtà inviato da una qualche civiltà extraterrestre. Per questo motivo, la sorgente del segnale – che poi si scoprì essere appunto una pulsar – fu battezzata Lgm (e in seguito Lgm-1), dalle iniziali di little green men.

Autrice di una delle principali scoperte dell’astrofisica, Bell Burnell non ricevette però il Premio Nobel, che fu invece assegnato al suo supervisore di tesi. Per le sue indiscutibili qualità e conoscenze scientifiche, Bell Burnell, nominata “Dame of the British Empire”, ha ricoperto numerosi incarichi prestigiosi, è stata presidente della Royal Astronomical Society, presidente dell’Institute of Physics, e vincitrice del Breakthrough Prize in fisica fondamentale nel 2018 e della Copley Medal nel 2021. Una carriera ricca di sfide e di conquiste, tra aneddoti e racconti che hanno reso speciale la vita di Jocelyn – così vuol essere semplicemente chiamata –, che martedì scorso, in una mattinata di fine maggio quasi invernale, in occasione della “Conferenza internazionale supernova”, ospitata dai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn, ha concesso un’intervista in esclusiva per Media Inaf.

Jocelyn, lei è spesso chiamata Lady of pulsars, quindi considerata un po’ come la mamma delle stelle pulsar. Quando è perché ha deciso di studiare fisica? Ha sempre sognato di diventare una scienziata?

«A partire dall’età di 13-14 anni sapevo già di voler fare l’astronoma. Non sapevo bene quale tipo di astronomia, perché, avendo necessità di dormire, quella ottica non mi sembrava una buona idea. Poi ho scoperto la radioastronomia e deciso che avrei lavorato in quel campo, indirizzando così i miei studi scolastici e universitari verso la di fisica e la matematica per poter diventare un radioastronomo».

Ha ricevuto sostegno dalla sua famiglia o c’erano, per le figlie, altre aspettative a quei tempi?

«La mia famiglia mi ha sostenuto molto, ma la società in generale no. A quel tempo nell’Irlanda del Nord, dove vivevo, le ragazze erano destinate a diventare casalinghe, mogli e madri, e non avevano bisogno di molta istruzione, erano i ragazzi ad averne bisogno e a riceverla. La mia scuola aveva stabilito che le ragazze ricevessero lezioni per imparare a cucinare e a ricamare e i ragazzi lezioni di scienze. I miei genitori lottarono contro le decisioni della scuola, e finì che a 12 anni ero in una classe di scienze tutta maschile ma con tre ragazze».

Lei ha iniziato a studiare fisica a Glasgow nel 1961, molti anni fa ormai e in una società differente da quella odierna. Ha dei ricordi e aneddoti di quegli anni?

«A Glasgow ho frequentato Honors Physics, il corso avanzato di fisica, e mi sono ritrovata a essere l’unica donna della classe assieme a 49 uomini. Ovviamente ero sotto la lente di ingrandimento, tutti i docenti sapevano chi ero e controllavano se stavo andando bene o male. A quel tempo a Glasgow era tradizione che quando una donna entrava in aula tutti gli uomini fischiassero e facessero cat calling, muovendo i banchi contro il pavimento e facendo più rumore possibile. Generalmente in quei casi le donne si radunavano fuori dall’aula, aspettando e entrando poi insieme; essendo l’unica donna del corso ho dovuto affrontare tutto ciò da sola cercando di non arrossire. E sai cosa ho scoperto? Che si possono controllare le proprie reazioni e non arrossire. Così ho imparato a controllare il mio rossore in viso quando entravo in aula e affrontavo tutti quei rumori e richiami volgari».

In qualche modo, arrossire era inteso come essere più debole agli occhi dei compagni?

«Certo, sicuramente li incoraggiava a fare ancora più rumore e caos».

Poi è andata a Cambridge e le sue ricerche, durante il dottorato, erano dedicate allo studio e alla registrazioni dei segnali dall’universo…

«In quegli anni ero un’addetta alla radioastronomia, una dottoranda, e avevo passato due anni ad aiutare a costruire un grande radiotelescopio e per diversi mesi sono stata l’unica persona ad usare quel telescopio a Cambridge. Ero molto spaventata, non c’erano tante donne oltre me, gli uomini sembravano tutti molto intelligenti e molto sicuri di sé. Ogni giorno pensavo che avessero sbagliato sul mio conto mi dicevo “Non sono abbastanza intelligente. Non avrebbero dovuto darmi un posto, lo scopriranno e mi butteranno fuori, ma finché non mi butteranno fuori lavorerò sodo, farò del mio meglio”. E così, mentre esaminavo attentamente i dati provenienti dal radiotelescopio che stavo usando, notai un segnale di circa cinque millimetri che non aveva senso, non riuscivo a comprenderlo».

Spesso noi veniamo a conoscenza di una scoperta ma ne ignoriamo il lungo viaggio che precede, gli sforzi che ci sono dietro. Lei ha passato molto tempo all’osservatorio, a Cambridge, e anche molti giorni lavorando sul campo, magari anche con il maltempo. Quale era la sua routine di una giornata tipica in quel periodo?

«Per i primi due anni ho aiutato a costruire il radiotelescopio, quindi lavoravo nel sito dell’osservatorio per mettere le spine ai cavi, martellare i pali nel terreno… potevo brandire una grande martello pesante tre o quattro chili. Sono letteralmente diventata molto forte fisicamente, c’era molto freddo e umido. Molto esercizio, poco cervello, diciamo. Ero anche responsabile di tutti quei cavi, e nei radiotelescopi ci sono chilometri di cavi. Ho quindi passato due anni ad aiutare a costruire il radiotelescopio e poi, quando finito, le altre cinque o sei persone che erano con me hanno iniziato a lavorare su altri progetti. Sono così rimasta da sola a gestire e far funzionare il radio telescopio».

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Jocelyn Bell Burnell (a destra) con Chiara Badia al termine dell’intervista. Crediti: Chiara Badia/Inaf

Ora vorrei farle una domanda più personale. Subito dopo la scoperta lei ha deciso di sposarsi e mettere su famiglia. Come questa scelta ha influenzato la sua carriera?

«Sì, mi sono sposata dopo la consegna della mia tesi di dottorato e prima della sua discussione. Quando mi sono sposata, avevo da poco finito gli studi a Cambridge. Da quel momento ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse difficile trovare un buon lavoro per due persone nello stesso posto e ho finito per cambiare più volte lavoro. Quando a mio marito veniva offerta altrove una promozione, io cercavo di capire quale ricerca in astronomia avrei potuto fare in quella nuova parte del Paese. Così sono passata dalla radioastronomia all’astronomia dei raggi gamma, dai raggi gamma ai raggi X, poi agli infrarossi e all’astronomia millimetrica. Infine, il mio matrimonio è finito e ho deciso che avrei studiato le stelle compatte a qualsiasi lunghezza d’onda utile per l’avanzamento della conoscenza».

La sua carriera quindi ha dovuto adattarsi spesso alle esigenze della vita privata quindi. Ha qualche rimpianto?

«Sono un po’ infastidita dal fatto che sia sempre il lavoro della donna a essere compromesso. Mentre l’uomo può avere una carriera normale, quella di una donna se ha dei figli viene compromessa. Purtroppo ciò è legato a come funziona la società e la comunità scientifica, dove è il modello maschile a essere la regola».

Nella moderna astronomia e in astrofisica – oltre alla sua, ovviamente – quale scoperta l’ha maggiormente colpita?

«Mi sono divertita particolarmente quando lavoravo nell’astronomia a raggi X, alla fine degli anni ’70. Il mio lavoro consisteva nel controllare i dati che arrivavano dal satellite Ariel 5 e nel pianificare il programma di osservazione. Poiché arrivavano tantissimi dati sulla mia scrivania, potevo vedere che oltre a quell’ammasso di galassie c’era magari dell’altro, quindi correvo a cercare qualche giovane studente di riserva che controllasse i dati. Così, di settimana in settimana, succedeva sempre qualcosa di nuovo: magari stavamo osservando un quasar e si scopriva un’altra sorgente transitoria. L’astronomia dei raggi X si è rivelata molto più eccitante di quanto mi aspettassi, perché ci sono molte cose che cambiano d’intensità, transienti che esplodono e muoiono, periodicità inaspettate nei dati, stelle di neutroni e tanto altro».

Secondo lei, quale scoperta ci attende dietro l’angolo?

«Se me l’avessi chiesto qualche anno fa, avrei detto le onde gravitazionali: ci ho creduto fin da quando ero studentessa. Sono stata fortunata durante l’ultimo anno a Glasgow ad avere come tutor il professor Ronald Drever, uno scienziato entusiasta, e mi dicevo: “Sarò attenta a ogni nuovo campo in cui Ron Drever farà ricerca”. Infatti, poco dopo iniziò a dedicarsi alle onde gravitazionali, seguendone gli studi. Sapevo che ci sarebbe stata una rivelazione di onde gravitazionali, ma non ero sicura che sarei stata ancora qui in vita per vederne la scoperta».

«Torniamo alle discriminazioni che ha incontrato lungo il suo percorso di studi, dall’inizio fino alla mancata consegna del Nobel, forse proprio perché scienziata donna: ci sono stati altri episodi? E cosa è avvenuto negli anni successivi?

«La situazione migliora continuamente. Non so abbastanza sul ruolo delle donne in questo Paese, ma nel mio è cambiato molto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Durante la guerra le donne lavoravano perché gli uomini erano fuori a combattere, quando la guerra finì fu difficile riportare le donne in case e considerarle di nuovo solo come mogli e madri. In Gran Bretagna le donne hanno gradualmente conquistato un proprio posto nel mondo del lavoro».

Nobel mancato, ma lei ha poi ricevuto il più ambito e ricco Breakthrough Prize per la fisica dal valore di 3 milioni di dollari. Premio che ha deciso di usare come fondo per aiutare donne, appartenenti a minoranze e rifugiati nel loro percorso per diventare ricercatori in fisica. Una causa che le sta molto a cuore…

«Ho deciso che dovevo sbarazzarmi di quel denaro molto rapidamente, altrimenti il telefono non avrebbe mai smesso di squillare! Credo ci siano due aspetti strettamente connessi alla mia scoperta delle pulsar: l’essere donna, quindi una minoranza, e il fatto di aver dovuto lavorare più duramente degli uomini per giustificare il mio posto nella società e nel mondo scientifico. Così ho pensato che finanziando altri giovani appartenenti a delle minoranze forse anche loro, lavorando con impegno, potrebbero un giorno fare nuove scoperte. Quindi il premio è stato utilizzato dal nostro istituto per borse di studio in fisica per studenti che provengono da realtà difficili o dimenticate, per esempio di differenti etnie, di genere femminile, persone con disabilità e tutte le minoranze in genere».

Lei è considerata una figura d’ispirazione per le nuove generazioni, una role model per scienziate e ricercatrici, un simbolo di lotta contro le discriminazioni di genere. Chi le è stato d’ispirazione?

«Non credo di aver avuto un modello di riferimento, non c’era una persona del genere ai miei tempi. Mio padre mi ha sostenuto molto, il che è stato positivo, ma credo che per la maggior parte del tempo abbia dovuto fare il mio percorso da sola, ci sono state pochissime altre donne. Sono stata io a tracciare il sentiero».


È possibile ascoltare l’intervista originale (in lingua inglese):
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Alla ricerca di segnali alieni nel cuore della Galassia


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Rendering artistico. Crediti: Breakthrough Listen / Danielle Futselaar

«Dove sono tutti quanti?» è la ormai celebre frase pronunciata – così narra la leggenda – dal fisico italiano Enrico Fermi più di 70 anni fa nella mensa dei laboratori di Los Alamos, New Mexico, durante una conversazione con alcuni colleghi sulla possibilità di esistenza di vita nell’universo. Con questa domanda egli intendeva: dato l’enorme numero di stelle e pianeti nell’universo, e quindi l’alta probabilità che, teoricamente, solo nella nostra galassia si possano essere sviluppate civiltà tecnologicamente avanzate, perché non abbiamo ricevuto ancora alcun segnale da queste? Si tratta del famoso paradosso di Fermi.

Nonostante gli sforzi dedicati e le enormi quantità di dati analizzati dagli scienziati in ascolto ormai da decenni, finora non è stata trovata alcuna prova definitiva di segnali provenienti da civiltà aliene. Tuttavia, l’indagine continua e nuovi metodi per migliorare la sensibilità e la copertura delle ricerche sono costantemente allo studio. Una collaborazione di ricercatori della Cornell University, del Seti Institute e del progetto Breakthrough Listen ha avviato una nuova impresa scientifica denominata Breakthrough Listen Investigation for Periodic Spectral Signals (Blipss) che combina alcuni elementi del tutto innovativi nell’ambito di questo tipo di ricerca. Akshay Suresh e i suoi collaboratori illustrano i primi risultati del progetto in un articolo pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Astronomical Journal.

Il progetto Blipss si concentra su uno specifico tipo di segnali, quelli periodici e a banda stretta. «Finora il Seti – acronimo di Search for Extra-Terrestrial Intelligence (Ricerca di Intelligenza Extraterrestre) – ha dedicato i suoi sforzi principalmente alla ricerca di segnali continui», spiega Vishal Gajjar, astronomo del Seti Institute e uno dei consulenti di Suresh per il progetto. «Il nostro studio fa luce sulla notevole efficienza energetica di un treno di impulsi come mezzo di comunicazione interstellare su grandi distanze. In particolare, questo studio segna il primo tentativo completo di condurre una ricerca approfondita di questi segnali». Il team focalizzerà l’attenzione sulla regione centrale della Via Lattea, una zona dove stelle ed esopianeti potenzialmente abitabili abbondano, oltre che essere, secondo i ricercatori, un potenziale punto strategico per il posizionamento di un “faro” da parte di una civiltà aliena che volesse trasmettere segnali nella galassia. Il team ha inoltre sviluppato un software basato sul Fast Folding Algorithm (Ffa), un algoritmo particolarmente efficiente per la ricerca di segnali periodici a banda stretta. «Il nostro software open-source utilizza un Ffa per analizzare oltre 1,5 milioni di serie temporali di segnali periodici in circa 30 minuti» afferma Suresh.

I primi test sono stati effettuati su una fonte ormai nota di impulsi periodici: le pulsar, stelle di neutroni in rapida rotazione e dal campo magnetico estremo. Dopo aver confermato il corretto funzionamento dell’algoritmo, i ricercatori hanno rivolto l’indagine su un ampio insieme di scansioni del centro galattico effettuate nell’ambito del Breakthrough Listen al Green Bank Telescope (Gbt) da 100 metri in West Virginia. A differenza delle pulsar, che emettono su un’ampia fascia di frequenze radio, Blipss cerca segnali ripetuti su una gamma di frequenze più ristretta, che copre meno di un decimo della larghezza di una stazione radio FM media.

«La combinazione di queste larghezze di banda relativamente strette e di schemi periodici potrebbe essere indicativa di attività tecnologiche deliberate di civiltà intelligenti», dichiara il coautore Steve Croft, scienziato del progetto Breakthrough Listen. «Breakthrough Listen cattura enormi volumi di dati e la tecnica di Akshay fornisce un nuovo metodo per aiutarci a cercare in quel pagliaio gli aghi che potrebbero fornire prove allettanti di forme di vita extraterrestri avanzate».

Che questo possa essere un vero punto di svolta nella ricerca di segnali di civiltà avanzate non è certo, ma le nuove tecnologie e il costante miglioramento degli approcci a questo tipo di ricerca potrà certamente aprire nuove possibilità in questo affascinante ambito.

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Motore a magnetar alimenta i lampi gamma nel cosmo


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Visione artistica di un magnetar. Crediti: Esa/Christophe Carreau

Un team italiano di ricercatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e della Stony Brook University (Usa) ha dimostrato per la prima volta che una magnetar appena formata e rapidamente rotante, cioè una stella di neutroni con un campo magnetico elevatissimo che ruota su se stessa molte centinaia di volte al secondo, può spiegare in modo dettagliato le diverse fasi dell’emissione dei lampi di raggi gamma, dalla loro violenta accensione fino allo spegnimento definitivo. Il risultato è stato ottenuto confrontando le previsioni teoriche con un ricco insieme di dati nella banda dei raggi X e gamma. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

I lampi di raggi gamma (in inglese gamma-ray burst, o Grb) sono brevi eventi esplosivi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Si ritiene che i Grb siano originati nel processo di formazione di un buco nero di massa stellare, in seguito al collasso gravitazionale di una stella alla fine del suo ciclo evolutivo, o alla collisione e fusione di due stelle di neutroni. Negli ultimi anni è stata sviluppata un’altra ipotesi: i Grb, o almeno una frazione rilevante di essi, potrebbero essere prodotti dalla formazione di una magnetar che ruota su sé stessa molte centinaia di volte al secondo. Le magnetar, come le altre stelle di neutroni, hanno una massa simile a quelle del Sole concentrata in un volume dalle dimensioni comparabili con quelle di una grande città, ma posseggono campi magnetici elevatissimi. Scoperte nella nostra galassia negli anni ’90 del secolo scorso, sono caratterizzate da un’intensa emissione di origine magnetica in raggi X e gamma, punteggiata da ricorrenti episodi parossistici di breve durata ed enorme luminosità. La loro origine è ad oggi un mistero tra i più studiati nell’astrofisica degli oggetti compatti.

Il nuovo lavoro combina conoscenze acquisite nello studio delle magnetar e delle stelle di neutroni che catturano materia con le principali caratteristiche dei Grb, dimostrando come una magnetar appena formata e rapidamente rotante possa spiegare le proprietà di alcuni tra i Grb più studiati meglio di un buco nero.

«Il nostro studio spiega in modo quantitativo le diverse fasi dell’emissione di un lampo gamma e del suo graduale spegnimento», dice Simone Dall’Osso, ricercatore Infn, associato Inaf e primo autore dell’articolo. «I processi fisici coinvolti sono gli stessi che operano in altri sistemi contenenti stelle magnetiche in rotazione quali nane bianche, stelle di neutroni ordinarie (non magnetar) ed anche stelle ordinarie in fase di formazione. Applicati ad una magnetar appena formata e rapidamente rotante questi stessi processi portano al rilascio di enormi quantità di energia in tempi brevissimi, con segni distintivi identificabili».

«Per poter fornire una spiegazione organica delle diverse fasi dei lampi gamma», aggiunge Giulia Stratta, ricercatrice Inaf, associata Infn e membro del cluster di ricerca Elements presso la Goethe University di Francoforte, «è stato necessario basarsi sui Grb per i quali abbiamo le informazioni più complete da osservazioni in banda ottica, X e gamma. Si tratta di una dozzina di casi in tutto, frutto di un lungo lavoro di ricerca tra molte centinaia».

Lo scenario teorizzato nel lavoro del team italiano suggerisce che, in una prima fase, la magnetar catturi parte della materia che ancora sta cadendo a seguito del collasso gravitazionale o della collisione tra stelle di neutroni. Questo genera la parte iniziale e più brillante del Grb, liberando un’enorme quantità di energia gravitazionale in poche decine di secondi. Quando l’afflusso di materia diminuisce, la rotazione del campo magnetico della magnetar inizia a respingere la materia stessa fiondandola via – un po’ come un’elica che gira – e una quantità via via più piccola di energia gravitazionale viene rilasciata, causando un graduale calo della luminosità. Infine, quando non vi è più materia che cade, la magnetar si comporta come una stella di neutroni isolata e dissipa progressivamente la sua energia rotazionale.

Secondo Rosalba Perna, professoressa ordinaria alla Stony Brook University e co-autrice dello studio, «questo risultato getta una nuova luce su due misteri cosmici, suggerendo un probabile legame tra di essi: ‘che cos’è che produce un lampo gamma?’ e ‘dove si formano le magnetar e in quali speciali condizioni, tali da differenziarle dalle altre stelle di neutroni?’».

«Appena formate, le magnetar, come anche i buchi neri di massa stellare, possono essere motori astrofisici di eccezionale potenza», sottolinea Luigi Stella, dirigente di ricerca all’Inaf di Roma e autore anch’egli dello studio, «capaci di alimentare l’emissione dei lampi gamma, ma anche di generare forti onde gravitazionali, come abbiamo dimostrato in alcuni studi precedenti».

«Nel prossimo futuro», conclude Dall’Osso, «un’ulteriore e definitiva conferma della formazione di una magnetar potrà venire proprio dalla rivelazione di un segnale in onde gravitazionali».

Per ulteriori informazioni:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Magnetar central engines in gamma-ray bursts follow the universal relation of accreting magnetic stars”, di Simone Dall’Osso, Giulia Stratta, Rosalba Perna, Giovanni De Cesare e Luigi Stella


Decifrato messaggio da Marte: ora l’interpretazione


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Il Trace Gas Orbiter della missione ExoMars. Crediti: Esa/D. Ducros

Il messaggio arrivato da Marte per simulare il contatto con una civiltà extraterrestre è stato finalmente decodificato: ciò significa che il pacchetto di dati che lo contiene è stato estratto dal segnale ricevuto dai radiotelescopi la sera del 24 maggio.

La sfida, aperta tutti, è ora quella di interpretarne il contenuto. Lo rende noto l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che ha realizzato l’iniziativa A sign in space da un’idea dell’artista Daniela de Paulis in collaborazione con Agenzia spaziale europea, Seti Institute e Green Bank Observatory.

«È stato annunciato sulla piattaforma Discord che il messaggio è stato correttamente decodificato: si tratta di un file binario che contiene 8212 bit», spiegano gli esperti dell’Inaf. «A identificarlo è stato un vasto gruppo di utenti – i nickname dei principali collaboratori sono BatchDrake, kikuchiyo, indes99, skywalker e HaileyStorm – che hanno postato un messaggio su Discord alle 3:40 italiane della notte del primo giugno. Alle 9:20 è arrivata la conferma da parte di Daniel Estévez, ingegnere informatico e matematico spagnolo, a nome del team di A Sign in Space».

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L’annuncio sulla piattaforma Discord

Ora che è stato decodificato il messaggio, inizia la fase di interpretazione del contenuto per capire che vuol dire. Tutti possono accedere alla piattaforma Discord e cimentarsi nell’impresa, perché non servono abilità tecniche specifiche di informatica o radiocomunicazioni.

Guarda la diretta dedicata a “A sign in space” su EduInaf:

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Così Encelado annaffia Saturno e il suo sistema


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L’immagine e lo spettro di Encelado raccolto dagli strumenti NirCam e NirSpec del telescopio spaziale James Webb (cliccare per ingrandire). Si possono distinguere le varie componenti del pennacchio, del toro, e della superficie del corpo stesso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, L. Hustak (Stsci), G. Villanueva (Nasa’s Goddard Space Flight Center)

Un pennacchio di vapore acqueo proveniente dalla luna di Saturno Encelado, che si estende per oltre 9600 chilometri – una lunghezza che va dall’Irlanda al Giappone –, è stato individuato dal telescopio spaziale James Webb. È la prima volta che un’espulsione d’acqua così imponente viene osservata a una distanza così grande, ed è anche la prima occasione per i ricercatori di collegare questa emissione all’intero approvvigionamento idrico del sistema di Saturno e dei suoi anelli. Secondo uno studio accettato per la pubblicazione su Nature Astronomy lo scorso 17 maggio, Encelado – orbitando intorno a Saturno in appena 33 ore – innaffia d’acqua e alimenta un toro di materiale (soprattutto acqua) che si estende lungo tutta la sua scia.

Encelado è un mondo oceanico grande circa il quattro per cento della Terra, ha un diametro di soli 505 chilometri, ed è uno degli obiettivi scientifici più interessanti per la ricerca della vita nel Sistema solare. Tra la crosta esterna ghiacciata della luna e il suo nucleo roccioso, infatti, si trova un’enorme riserva di acqua salata. Vulcani simili a geyser spruzzano getti di particelle di ghiaccio, vapore acqueo e sostanze chimiche organiche dalle fessure della superficie lunare, in un fenomeno chiamato informalmente “strisce di tigre”. Nel 2005, diversi strumenti a bordo della sonda Cassini hanno scoperto un pennacchio di gas (prevalentemente vapore acqueo) e grani di ghiaccio che emergevano da fessure nella regione polare meridionale di Encelado, mentre il telescopio spaziale Herschel, che osserva nel sub-millimetrico, ha visto un toro d’acqua lungo l’orbita di Encelado. Prima d’ora, però, non era stato possibile stabilire chiaramente un legame fra i due.

L’ha fatto il telescopio spaziale James Webb, grazie agli spettri di Encelado che ha ottenuto in pochi minuti di integrazione il 9 novembre 2022. Le osservazioni hanno campionato direttamente le emissioni di vapore d’acqua dal pennacchio, riuscendo a stabilire che si estende fino a circa diecimila km dalla superficie della luna, una distanza che vale ben 40 volte il suo raggio. La temperatura dell’emissione è di circa -248 °C e il tasso di degassamento osservato è di circa 300 chili (o litri) al secondo: un getto che potrebbe riempire una piscina olimpionica in un paio d’ore. In confronto, per farlo con un tubo da giardino sulla Terra ci vogliono più di due settimane. Questo valore è simile a quello derivato dalle osservazioni ravvicinate effettuate con Cassini 15 anni fa, e anche la densità del toro stimata da Webb è coerente con le misurazioni che Herschel aveva fatto 13 anni fa, a dimostrazione che il vigore dell’eruzione di gas da Encelado è rimasto relativamente stabile per oltre un decennio. Per questo gli scienziati si sbilanciano nell’affermare che Encelado è la principale fonte di acqua del sistema saturniano.

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L’immagine di Encelado presa dal James Webb Space Telescope e, in alto a sinistra, quella scattata dalla sonda Cassini. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, G. Villanueva (Nasa’s Goddard Space Flight Center), A. Pagan (Stsci)

«Gli spettri osservati, una volta “ripuliti” dalle righe spettrali del vapor d’acqua, hanno anche consentito di evidenziare la composizione della superficie del satellite», aggiunge Giovanni Strazzulla, ricercatore all’Inaf di Catania e coautore dello studio. «La superficie è dominata dalla presenza di acqua ghiacciata prevalentemente cristallina e a bassa temperatura (20-30 K). Non ci sono invece evidenze della presenza di anidride carbonica e ammoniaca. Una debole banda sembrerebbe indicare la presenza di acqua ossigenata (H2O2)».

Non solo. Analizzando le emissioni molecolari a grandi distanze da Encelado, gli autori del nuovo studio sono riusciti a mappare la distribuzione dell’acqua degassata, e a stabilire un collegamento diretto fra il pennacchio e la nube estesa di materiale al di là di questo, che probabilmente si è accumulata nel corso di più orbite. In altre parole, poiché Encelado orbita rapidamente intorno a Saturno con un periodo di soli 1,37 giorni terrestri (circa 33 ore), il vapore acqueo espulso si diffonde lungo e intorno alla sua orbita, formando un grande toro intorno a Saturno e in corrispondenza del suo anello E. Più precisamente, i dati indicano che circa il 30 per cento dell’acqua rimane all’interno del toro, mentre il restante 70 per cento fuoriesce per rifornire d’acqua il resto del sistema saturniano.

«In attesa di una possibile nuova missione spaziale verso il sistema di Saturno», conclude Strazzulla, «Jwst potrà dare ulteriori importanti contributi andando a cercare ad esempio acqua deuterata e misurando quindi il rapporto fra l’abbondanza di deuterio e quella di idrogeno, o osservando nell’intervallo spettrale del medio infrarosso dove potrebbero essere osservabili alcuni composti dello zolfo. Anche ulteriori osservazioni analoghe a quella presentata qui saranno utilissime per evidenziare possibili variazioni nella composizione chimica e nelle condizioni fisiche dei pennacchi e della superficie del satellite. Personalmente sono molto legato, come ricercatore, al satellite Encelado che espelle i suoi maestosi pennacchi di vapore ma anche, come catanese, al mitologico gigante Encelado che, dopo essere precipitato negli abissi marini, non ne può uscire perché impedito dal peso della Sicilia, e col suo respiro infuocato è causa dei sontuosi pennacchi di fumo dell’Etna».

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dell’articolo accettato per la pubblicazione su Nature Astronomy “JWST molecular mapping and characterization of Enceladus’ water plume feeding its torus“, di L. Villanueva, H. B. Hammel, S. N. Milam, V. Kofman, S. Faggi, C. R. Glein, R. Cartwright, L. Roth, K. P. Hand, L. Paganini, J. Spencer, J. Stansberry, B. Holler, N. Rowe-Gurney, S. Protopapa, G. Strazzulla, G. Liuzzi, G. Cruz-Mermy, M. El Moutamid, M. Hedman, K. Denny


Buchi bianchi, là dove il tempo cambia di segno


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Carlo Rovelli, “Buchi Bianchi. Dentro l’orizzonte”, Adelphi, 2023, 144 pagine, 14 euro

I buchi neri sono con noi da sempre, praticamente dall’inizio dell’evoluzione dell’universo, eppure abbiamo avuto prove certe della loro presenza solo mezzo secolo fa. In effetti, la loro possibile esistenza era stata sospettata da Karl Schwarzschild quando, nel dicembre 1915, in trincea, lesse il lavoro di Einstein e risolse le equazioni della relatività generale. Dal suo lavoro discende il concetto del raggio di Schwarzschild, altrimenti noto come orizzonte degli eventi. Si tratta della superficie immaginaria che divide lo spazio intorno al buco nero tra il “fuori” ed il “dentro” dal quale nulla, nemmeno la luce, sfugge alla gravità. Einstein ne fu ammirato, ma il concetto di singolarità dovette aspettare mezzo secolo per acquisire credibilità, almeno dal punto di vista matematico, grazie al lavoro di Roger Penrose, negli anni ’60. All’epoca, le singolarità si chiamavano stelle oscure oppure stelle congelate, il termine buchi neri è nato nel 1967 ad opera di John Archibald Wheeler.

Allora erano solo entità matematiche, ma la neonata astronomia X si apprestava a dare loro consistenza osservativa. Avvenne per caso, nel 1964, con il primo volo suborbitale di un contatore X che avrebbe dovuto misurare l’emissione X della Luna. Inaspettatamente, si scoprì un’intensissima sorgente la cui posizione corrispondeva a quella di una stella brillante, ma troppo normale per poter essere responsabile dell’emissione. Osservazioni accurate, però, rivelarono che la stella si muoveva ritmicamente, danzando intorno ad una compagna invisibile. Usando le leggi di Keplero, le stesse che governano il moto dei pianeti nel Sistema solare, si misurò la massa della compagna invisibile che risultò essere 15 volte quella del Sole. Avrebbe dovuto essere una stella molto brillante, invece non emetteva niente. Senza cercarlo, si era scoperto il primo buco nero stellare in un sistema binario. Da allora se ne sono scoperti decine che brillano nei raggi X ma più di recente ne abbiamo visti centinaia attraverso le onde gravitazionali prodotte nel corso di catastrofiche collisioni. Sempre nel genere interazioni catastrofiche, abbiamo più volte assistito alla disintegrazione di stelle che si erano avvicinate troppo alla pericolosa singolarità. La fine della stella produce incredibili fuochi d’artificio.

Ma il buco nero più mediatico è certamente un mostro di 6 miliardi di masse solari che domina la galassia M87. Qualche anno fa, l’immagine dell’ombra del buco nero nel mezzo di una ciambella brillante è andata sulle prime pagine di tutti i giornali. Ora, nuovi dati hanno evidenziato come dalla ciambella abbia origine il getto di particelle di alta energia che è una delle caratteristiche più spettacolari della galassia.

Mentre gli astrofisici, che raccolgono dati sui buchi neri, si devono fermare al muro invalicabile dell’orizzonte degli eventi, i fisici teorici si possono permettere di andare al di là per scoprire cosa c’è (o ci potrebbe essere) dentro un buco nero. È questo il compito che si è prefissato Carlo Rovelli, che nel suo Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte propone esperimenti mentali (non potrebbe essere diversamente) per farci entrare nell’orizzonte degli eventi. Schwarzschild ci insegna che si tratta di una linea invalicabile attraverso la quale non c’è scambio di informazioni, ma Rovelli propone un viaggio concettuale ispirandosi ad altri viaggiatori che hanno sfidato l’impossibile, a cominciare da Dante, che viene citato spesso. È un viaggio attraverso un territorio inesplorato, che inizia da una conversazione con un giovane collega. Così nasce un’idea, una scintilla che accende l’entusiasmo del fisico teorico impegnato da anni a cercare di unire relatività generale e fisica quantistica. Visto che si ispira a Dante, anche per Rovelli è essenziale avere una guida: il suo Virgilio saranno le equazioni di Einstein, sulle quali lavora da sempre. Per aiutare a visualizzare concetti non banali, che espone in tono colloquiale con un linguaggio semplice, Rovelli utilizza un imbuto lunghissimo e sempre più stretto. È questa per lui la migliore descrizione dell’interno del buco nero e compare decine di volte nel libro perché è percorrendo l’imbuto che il viaggiatore si avvicina, o pensa di avvicinarsi, alla singolarità, per scoprire che quello che cerca accade dopo e, per andare oltre, il tempo deve essere ribaltato. Non è un processo banale, richiede una capriola gravitazional-quantistica, ma è l’essenza alla base del buco bianco. Le equazioni di Einstein sono sempre le stesse, ma la variabile tempo cambia di segno. Questo significa che, mentre dal buco nero nulla può uscire, nel buco bianco nulla può entrare perché c’è solo l’uscita ed è a senso unico. Il problema è che tutte le scivolate nell’imbuto e le capriole nella gravità quantistica avvengono all’interno dell’orizzonte degli eventi e noi, che per nostra fortuna siamo fuori, non ce ne possiamo rendere conto. In verità, questo semplifica la gestione dello scorrere del tempo che sarebbe molto diverso tra dentro e fuori.

Con grande lucidità, Rovelli fa notare che tutto questo potrebbe essere sbagliato, anche perché non ha neanche lontanamente idea di come potrebbe essere possibile andare a cercare la prova dell’esistenza dei buchi bianchi. Tuttavia, non dobbiamo perdere le speranze. I buchi neri ci hanno messo mezzo secolo per passare dall’essere una realtà matematica a diventare oggetti celesti studiati e osservati. L’universo non ha fretta, ha tutto il tempo che vuole.


Astro-incontri per prepararci all’estate


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Immagine composita di Venere ottenuta con diversi scatti dalla sonda spaziale giapponese Akatsuki. Crediti: Jaxa / Isas / Darts / Damia Bouic

In questo mese, Venere continua a essere ben visibile nel cielo ovest al tramonto. Il 4 giugno sarà alla sua massima elongazione Est e quindi alla massima distanza apparente dal Sole. In questo giorno la fase di Venere dovrebbe essere esattamente al primo quarto, anche se a causa della sua atmosfera potrebbe non apparire tale. Infatti le spesse nubi di Venere, con la loro ombra e la frastagliatura della superficie del pianeta, possono alterare la percezione visiva della sua fase. Questa differenza tra la fase che ci si aspetta e quella che si osserva si chiama “anomalia della fase”, non presente per la Luna perché non ha atmosfera.

Prepariamoci per l’estate, cercando in cielo dopo il tramonto e verso Est il triangolo estivo definito dalle stelle Deneb, Vega e Altair. E prepariamoci anche ad alcuni apparenti e interessanti incontri tra gli astri che si osservano in questo mese.

Nei primi tre giorni di giugno, Marte incontrerà l’ammasso aperto del presepe (M44) nella costellazione del Cancro. Sarà visibile quando il cielo sarà sufficientemente scuro e prima del tramonto dei due astri a Ovest, tra le nove e mezza di sera e mezzanotte circa. Da seguire giorno dopo giorno con un binocolo, o meglio con un piccolo telescopio.

Per chi ama la vita notturna, il 10 giugno la Luna, all’ultimo quarto, e Saturno saranno vicini e visibili dalle 2 del mattino fino al sorgere del Sole.

Tra il 12 e il 15 giugno sarà il turno di Venere a incontrare M44. Anche in questa occasione sarà difficile osservarlo a causa della luminosità del cielo che rischiara l’ammasso di stelle. Cercatelo con un binocolo o un piccolo telescopio tra le 10 e le 11 di sera, sempre a ovest.

Il 22 del mese ci sarà una bellissima serata: appena dopo il tramonto, la Luna, Venere e Marte saranno molto vicini tra loro. Sarà un’occasione per goderci una serata alla luce di questi tre astri.

La Luna sarà piena il 4 giugno, all’ultimo quarto il 10, Luna nuova il 18 giugno e al primo quarto il 26 del mese. Da segnalare in particolare che la Luna piena sarà vicino ad Antares, la stella principale della costellazione dello Scorpione, stella supergigante rossa situata a circa 600 anni luce da noi e con un raggio circa 850 volte il raggio del Sole. Il nome Antares significa opposto, rivale di Marte, per il suo simile colore rossastro, mentre in arabo Calbalacrab, significa il cuore dello scorpione.

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L’ammasso globulare M13 nella costellazione di Ercole, disegnato da Peter Kiss (deepeye.hu) osservando con un telescopio da 10 cm di diametro a 40 ingrandimenti.

Sono tante le costellazioni interessanti osservabili in questo mese, belle da vedere e riconoscibili facilmente in cielo. Volgendo lo sguardo verso Sud, sarà ben visibile in alto la costellazione del Boote con la stella Arturo, facile da trovare prolungando il timone del Grande Carro. Vicino a Boote si potrà osservate la costellazione della Corona Boreale e quella di Ercole, quest’ultima riconoscibile dal suo trapezio. Spostandosi poi verso Est salterà all’occhio la costellazione della Lira, un piccolo rombo sovrastato dalla sua stella brillante Vega, oltre ovviamente anche la bellissima costellazione del Cigno.

È d’obbligo puntare il telescopio verso l’ammasso globulare M13 nella costellazione di Ercole. Visibile anche con un binocolo come una piccola stella sfuocata, è in realtà un ricco ammasso di stelle dalla forma sferoidale e compatto. Gli ammassi globulari circondano la nostra galassia e sono oggetti celesti molto antichi. In questo mese, oltre a M13 già citato, è possibile osservare anche M92 sempre nella costellazione di Ercole, e se ne possono osservare altri nella costellazione dell’Ofiuco (quali M10 e M12) e nella costellazione dello Scorpione (M4) .

Non perdete l’occasione di viaggiare con un binocolo o un telescopio verso il centro della Via Lattea, zona ricca di oggetti celesti come altri ammassi globulari, nebulose e ammassi aperti.

Guarda il servizio su Media Inaf Tv:

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Il primo catalogo dei brillamenti solari di Agile


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Pubblicato il primo catalogo di brillamenti solari di Agile. I dati provengono da oltre 15 anni di osservazioni svolte dalla piccola missione scientifica italiana. Crediti: Asi / Agile

I brillamenti solari sono intense eruzioni di materia e radiazione elettromagnetica che avvengono nelle regioni più esterne dell’atmosfera solare. La frequenza con la quale si verificano, così come l’energia che rilasciano, sono parametri fondamentali per controllare l’attività solare e monitorare il ciclo undecennale del Sole.

Questo fenomeno è stato osservato dalla missione Agile (Astrorivelatore Gamma a Immagini Leggero, una piccola missione scientifica dell’Agenzia Spaziale Italiana con la partecipazione di Infn, Inaf/Iasf e Cifs) e con i dati raccolti in oltre 15 anni di lavoro è stato realizzato il primo catalogo dei brillamenti solari. Questa mappatura sarà pubblicata prossimamente sulla rivista scientifica The Astrophysical Journal Letter Supplement.

Il nuovo catalogo di Agile include più di 5000 brillamenti solari rivelati dal lancio del satellite, avvenuto il 23 aprile 2007, fino al 2022, e contiene informazioni riguardanti la loro durata complessiva, la loro fase di crescita e decrescita e l’energia da essi rilasciata.

Sul sito dello Space Science Data Center dell’Asi è stata pubblicata anche una pagina interattiva che fornisce accesso a prodotti aggiuntivi, in particolare ai dati relativi alle curve di luce dei brillamenti, sia in formato immagine che in formato testo.

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Istogramma dei brillamenti avvenuti tra il 2007 e il 2022, suddivisi per categoria. Crediti: A. Ursi et al. 2023

I brillamenti solari rilasciano una grande quantità di radiazione elettromagnetica a tutte le lunghezze d’onda, dalle energie cosiddette più “basse” (onde radio) fino alle energie più “alte” (raggi X e gamma). La stragrande maggioranza dei brillamenti sono stati e sono tuttora rivelati e raccolti dai satelliti Goes, che osservano il Sole da un’orbita geostazionaria (36mila chilometri dal suolo terrestre) nella banda di energia dei cosiddetti raggi X “molli”. D’altro canto, sono poche le missioni in grado di osservare questi eventi ad energie più alte, ossia nella banda dei raggi X “duri” e dei raggi gamma. Una di queste è appunto Agile, la cui Anti-Coincidenza di bordo, sensibile nella banda 80-200 keV (kiloelettronvolt), ha permesso di raccogliere una grande quantità di brillamenti nelle alte energie. In particolare, il catalogo contiene più di 1400 eventi “sfuggiti” ai satelliti Goes, fornendo un ulteriore campione di brillamenti che va a integrare i cataloghi solari già esistenti.

Una prima analisi degli eventi osservati da Agile sembra supportare un meccanismo di accelerazione degli elettroni nell’atmosfera solare articolato in due fasi, già suggerito sul finire degli anni ’70.

Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The First AGILE Solar Flare Catalog” di Alessandro Ursi, Nicolò Parmiggiani, Mauro Messerotti, Alberto Pellizzoni, Carlotta Pittori, Francesco Longo, Francesco Verrecchia, Andrea Argan, Andrea Bulgarelli, Marco Tavani, Patrizio Tempesta, Fabio D’Amico