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Astro-incontri per prepararci all’estate


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Immagine composita di Venere ottenuta con diversi scatti dalla sonda spaziale giapponese Akatsuki. Crediti: Jaxa / Isas / Darts / Damia Bouic

In questo mese, Venere continua a essere ben visibile nel cielo ovest al tramonto. Il 4 giugno sarà alla sua massima elongazione Est e quindi alla massima distanza apparente dal Sole. In questo giorno la fase di Venere dovrebbe essere esattamente al primo quarto, anche se a causa della sua atmosfera potrebbe non apparire tale. Infatti le spesse nubi di Venere, con la loro ombra e la frastagliatura della superficie del pianeta, possono alterare la percezione visiva della sua fase. Questa differenza tra la fase che ci si aspetta e quella che si osserva si chiama “anomalia della fase”, non presente per la Luna perché non ha atmosfera.

Prepariamoci per l’estate, cercando in cielo dopo il tramonto e verso Est il triangolo estivo definito dalle stelle Deneb, Vega e Altair. E prepariamoci anche ad alcuni apparenti e interessanti incontri tra gli astri che si osservano in questo mese.

Nei primi tre giorni di giugno, Marte incontrerà l’ammasso aperto del presepe (M44) nella costellazione del Cancro. Sarà visibile quando il cielo sarà sufficientemente scuro e prima del tramonto dei due astri a Ovest, tra le nove e mezza di sera e mezzanotte circa. Da seguire giorno dopo giorno con un binocolo, o meglio con un piccolo telescopio.

Per chi ama la vita notturna, il 10 giugno la Luna, all’ultimo quarto, e Saturno saranno vicini e visibili dalle 2 del mattino fino al sorgere del Sole.

Tra il 12 e il 15 giugno sarà il turno di Venere a incontrare M44. Anche in questa occasione sarà difficile osservarlo a causa della luminosità del cielo che rischiara l’ammasso di stelle. Cercatelo con un binocolo o un piccolo telescopio tra le 10 e le 11 di sera, sempre a ovest.

Il 22 del mese ci sarà una bellissima serata: appena dopo il tramonto, la Luna, Venere e Marte saranno molto vicini tra loro. Sarà un’occasione per goderci una serata alla luce di questi tre astri.

La Luna sarà piena il 4 giugno, all’ultimo quarto il 10, Luna nuova il 18 giugno e al primo quarto il 26 del mese. Da segnalare in particolare che la Luna piena sarà vicino ad Antares, la stella principale della costellazione dello Scorpione, stella supergigante rossa situata a circa 600 anni luce da noi e con un raggio circa 850 volte il raggio del Sole. Il nome Antares significa opposto, rivale di Marte, per il suo simile colore rossastro, mentre in arabo Calbalacrab, significa il cuore dello scorpione.

M13
L’ammasso globulare M13 nella costellazione di Ercole, disegnato da Peter Kiss (deepeye.hu) osservando con un telescopio da 10 cm di diametro a 40 ingrandimenti.

Sono tante le costellazioni interessanti osservabili in questo mese, belle da vedere e riconoscibili facilmente in cielo. Volgendo lo sguardo verso Sud, sarà ben visibile in alto la costellazione del Boote con la stella Arturo, facile da trovare prolungando il timone del Grande Carro. Vicino a Boote si potrà osservate la costellazione della Corona Boreale e quella di Ercole, quest’ultima riconoscibile dal suo trapezio. Spostandosi poi verso Est salterà all’occhio la costellazione della Lira, un piccolo rombo sovrastato dalla sua stella brillante Vega, oltre ovviamente anche la bellissima costellazione del Cigno.

È d’obbligo puntare il telescopio verso l’ammasso globulare M13 nella costellazione di Ercole. Visibile anche con un binocolo come una piccola stella sfuocata, è in realtà un ricco ammasso di stelle dalla forma sferoidale e compatto. Gli ammassi globulari circondano la nostra galassia e sono oggetti celesti molto antichi. In questo mese, oltre a M13 già citato, è possibile osservare anche M92 sempre nella costellazione di Ercole, e se ne possono osservare altri nella costellazione dell’Ofiuco (quali M10 e M12) e nella costellazione dello Scorpione (M4) .

Non perdete l’occasione di viaggiare con un binocolo o un telescopio verso il centro della Via Lattea, zona ricca di oggetti celesti come altri ammassi globulari, nebulose e ammassi aperti.

Guarda il servizio su Media Inaf Tv:

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Il primo catalogo dei brillamenti solari di Agile


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Pubblicato il primo catalogo di brillamenti solari di Agile. I dati provengono da oltre 15 anni di osservazioni svolte dalla piccola missione scientifica italiana. Crediti: Asi / Agile

I brillamenti solari sono intense eruzioni di materia e radiazione elettromagnetica che avvengono nelle regioni più esterne dell’atmosfera solare. La frequenza con la quale si verificano, così come l’energia che rilasciano, sono parametri fondamentali per controllare l’attività solare e monitorare il ciclo undecennale del Sole.

Questo fenomeno è stato osservato dalla missione Agile (Astrorivelatore Gamma a Immagini Leggero, una piccola missione scientifica dell’Agenzia Spaziale Italiana con la partecipazione di Infn, Inaf/Iasf e Cifs) e con i dati raccolti in oltre 15 anni di lavoro è stato realizzato il primo catalogo dei brillamenti solari. Questa mappatura sarà pubblicata prossimamente sulla rivista scientifica The Astrophysical Journal Letter Supplement.

Il nuovo catalogo di Agile include più di 5000 brillamenti solari rivelati dal lancio del satellite, avvenuto il 23 aprile 2007, fino al 2022, e contiene informazioni riguardanti la loro durata complessiva, la loro fase di crescita e decrescita e l’energia da essi rilasciata.

Sul sito dello Space Science Data Center dell’Asi è stata pubblicata anche una pagina interattiva che fornisce accesso a prodotti aggiuntivi, in particolare ai dati relativi alle curve di luce dei brillamenti, sia in formato immagine che in formato testo.

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Istogramma dei brillamenti avvenuti tra il 2007 e il 2022, suddivisi per categoria. Crediti: A. Ursi et al. 2023

I brillamenti solari rilasciano una grande quantità di radiazione elettromagnetica a tutte le lunghezze d’onda, dalle energie cosiddette più “basse” (onde radio) fino alle energie più “alte” (raggi X e gamma). La stragrande maggioranza dei brillamenti sono stati e sono tuttora rivelati e raccolti dai satelliti Goes, che osservano il Sole da un’orbita geostazionaria (36mila chilometri dal suolo terrestre) nella banda di energia dei cosiddetti raggi X “molli”. D’altro canto, sono poche le missioni in grado di osservare questi eventi ad energie più alte, ossia nella banda dei raggi X “duri” e dei raggi gamma. Una di queste è appunto Agile, la cui Anti-Coincidenza di bordo, sensibile nella banda 80-200 keV (kiloelettronvolt), ha permesso di raccogliere una grande quantità di brillamenti nelle alte energie. In particolare, il catalogo contiene più di 1400 eventi “sfuggiti” ai satelliti Goes, fornendo un ulteriore campione di brillamenti che va a integrare i cataloghi solari già esistenti.

Una prima analisi degli eventi osservati da Agile sembra supportare un meccanismo di accelerazione degli elettroni nell’atmosfera solare articolato in due fasi, già suggerito sul finire degli anni ’70.

Per saperne di più:

  • Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The First AGILE Solar Flare Catalog” di Alessandro Ursi, Nicolò Parmiggiani, Mauro Messerotti, Alberto Pellizzoni, Carlotta Pittori, Francesco Longo, Francesco Verrecchia, Andrea Argan, Andrea Bulgarelli, Marco Tavani, Patrizio Tempesta, Fabio D’Amico


La supernova Sn 2023ixf osservata al Tng


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Immagine della galassia M101 presa con lo strumento Lrs al Tng prima dell’esplosione della supernova Sn 2023ixf (filtri BVR). La regione della supernova è sulla sinistra. Crediti: Tng

Il 19 maggio 2023, in una delle più belle galassie del catalogo di MessierM101, conosciuta anche come galassia Girandola o Pinwheel Galaxy – è stata scoperta una supernova di tipo II, un tipo di supernova che si forma a partire dal collasso di una stella di massa superiore ad almeno nove volte la massa del Sole, e dalla sua conseguente violenta esplosione.

La galassia si trova a 21 milioni di anni luce dalla terra, nella costellazione dell’Orsa Maggiore. È una delle galassie più vicine alla Terra ed è circa il doppio della Via Lattea. La sua vicinanza consente osservazioni dettagliate della supernova in oggetto – chiamata Sn 2023ixf – una delle più luminose osservate negli ultimi decenni, raggiungendo una magnitudine apparente di 10,8 nello spettro visibile.

Dal 21 maggio, l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac) hanno avviato insieme una campagna osservativa presso il Telescopio Nazionale Galileo (Tng), al fine di seguire l’evento della supernova e raccogliere dati fondamentali.

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Lo spettro di Sn 2023ixf, ottenuto grazie alle caratteristiche uniche dello spettrografo ad alta risoluzione Harps-N, dove sono evidenti le righe di emissione e assorbimento di idrogeno, elio, carbonio, sodio e calcio. Crediti: D. Aguado (Iac)

Le osservazioni vengono condotte utilizzando lo spettrografo ad alta risoluzione, Harps-n, che opera nell’intervallo di lunghezze d’onda visibili, nonché il Near Infrared Camera Spectrometer (Nics). L’elevata luminosità dell’oggetto astrofisico consente di catturare con gli strumenti del Tng spettri e immagini della supernova con un dettaglio senza precedenti, consentendo un’analisi completa delle sue proprietà e della sua evoluzione.

Gli spettri mostrano un distinto continuum blu, che indica una temperatura della fotosfera superiore a 10mila kelvin. In particolare, si osserva la presenza di strette righe di emissione che suggeriscono velocità di espansione relativamente basse, di circa mille chilometri al secondo, significativamente inferiori alle velocità tipiche del materiale espulso dalle supernove, che comunemente superano i 10mila chilometri al secondo.

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Un’altra immagine della galassia M101 con la supernova Sn 2023xif vista dal telescopio Schmidt a Cima Ekar, Asiago (Italia). Nel riquadro, un’immagine infrarossa presa dallo strumento Nics al Tng. Crediti: Andrea Reguitti (visible), Giorgio Valerin (infrarosso).

Questa differenza significa che ciò che si sta osservando direttamente non è il materiale espulso durante l’esplosione della stella. Gli spettri rivelano l’interazione tra il materiale in rapida espansione e un guscio di gas denso e lento che è stato espulso dalla stella morente anni o decenni prima della sua esplosione finale. L’interazione tra il materiale espulso velocemente e il guscio di gas circostante rilascia una notevole quantità di energia, svolgendo un ruolo fondamentale nel plasmare l’evoluzione di Sn 2023ixf. Inoltre, le linee di emissione della serie Balmer sono abbastanza ampie da escludere una contaminazione da idrogeno proveniente dalle regioni H II all’interno della galassia ospite, M101.

La campagna osservativa vede coinvolti Giorgio Valerin dell’Inaf, David Aguado di Iac, Nuria Alvarez Crespo dell’Universidad Complutense de Madrid e lo staff del Tng, coordinati da Marco Pedani di Inaf.


Anche Inaf presente all’Etna Comics


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7445190Da giovedì 1 a domenica 4 giugno, si terrà a Catania l’Etna Comics – il Festival Internazionale del fumetto, del gioco e della Cultura Pop, dove quest’anno troverete, per la prima volta, anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Si tratta del più grande festival del settore nel sud Italia e uno dei più grandi di tutto il territorio nazionale. Giunto alla sua undicesima edizione, si tiene annualmente a Catania, presso il centro fieristico le Ciminiere e si articola in 13 aree tematiche, dedicate ad appassionati di fumetti, cinema, cinema d’animazione, giochi da tavolo, videogiochi e non solo.

Inaf sarà presente nell’area Family and Games con numerose attività ludiche per tutte le età. In particolare, nell’area ludoteca si potrà giocare a Pixel – Image (of) the Universe, il gioco da tavolo sviluppato dal gruppo nazionale per la didattica innovativa di Inaf autore della piattaforma Play Inaf, con la collaborazione del Game Science Research Center. Pixel è un gioco di strategia che unisce la bellezza delle immagini astronomiche che si formano nel corso della partita sotto gli occhi dei giocatori, con un contesto e una meccanica di gioco che simulano l’ambiente della ricerca. Per chi ha voglia di giocare, ci saranno anche il labirinto virtuale del CodyMaze Astrofisico, il Solametro per ricostruire un Sistema solare in scala, e il quiz Chi vuole essere astrofisico.

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Copertina del fumetto di Angelo Adamo di Inaf “Uno, nessuno, centomila fotoni; una, nessuna, centomila particelle”. Crediti: A. Adamo

Sarà inoltre possibile seguire la conferenza “Dove i telescopi (ancora) non vedono – Saturno e la Luna nelle illustrazioni di Scriven Bolton, Etienne Trouvelot, Lucien Rudaux, Chesley Bonezstell e nei fumetti di Hergé” a cura di Angelo Adamo, ricercatore tecnologo dell’Inaf Iasf di Palermo e autore del fumetto “Uno, nessuno, 100mila fotoni; una, nessuna, centomila particelle”; la presentazione del gioco Pixel “Genesi (atipica) di un board game” a cura di Valentina La Parola e Giovanni Contino dell’Inaf Iasf di Palermo e la conferenza di presentazione della mostra di astrofotografia di Dario Giannobile, con la partecipazione di Giuseppe Cutispoto dell’Inaf Osservatorio astrofisico di Catania.

«Siamo molto contenti di partecipare a questa manifestazione che da anni riscuote un incredibile successo presso un pubblico di giovani e meno giovani», commenta Cutispoto. «Sarà un’occasione eccezionale per fare conoscere a tantissimi il nostro ente e le nostre attività di ricerca e di divulgazione».

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Pixel – Image (of) the Universe, il gioco da tavolo sviluppato dal gruppo nazionale per la didattica innovativa Play Inaf, con la collaborazione del Game Science Research Center

Etna Comics si aggiunge agli altri eventi del settore, del calibro di PLAY – Festival del Gioco a Modena e Lucca Comics&Games, che già da qualche anno vedono la partecipazione di Inaf, soprattutto con le attività sviluppate da Play Inaf secondo il principio del Play to learn – learn to play.

«L’obiettivo non è trasmettere nozioni ma mostrare, attraverso il gioco, come funziona il processo scientifico», conclude La Parola. «Si tratta di attività in cui non è importante avere conoscenze pregresse di astronomia, perché ciò che serve sapere – sia esso il concetto di risoluzione angolare, la capacità di seguire delle istruzioni in codice o anche il semplice (per così dire) processo di tentativo ed errore – si sviluppa in modo naturale nello svolgimento del gioco».

Ci vediamo a Catania!


Un terzo degli esopianeti nella zona abitabile


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Impressione artistica di un esopianeta visto dalla sua Luna. Crediti: IAU/L. Calçada

Lo studio degli esopianeti, ovvero dei pianeti che orbitano attorno a stelle diverse dal Sole, è sempre stato, fin dalla prima conferma della scoperta di un esopianeta nel 1992, di grande interesse per la comunità astronomica. In primo luogo, studiare questi remoti mondi ci permette di comprendere meglio anche il nostro; ad esempio come si sia formato e quale potrebbe essere il suo destino. In aggiunta, lo studio degli esopianeti è spesso collegato a una delle questioni aperte più importanti della scienza: esiste vita al di fuori della Terra?

Secondo i ricercatori, uno dei fattori fondamentali da cui partire per rispondere a questa domanda è capire se un pianeta orbita in una precisa zona attorno alla sua stella, detta zona abitabile. Si tratta della zona orbitale teoricamente adatta a far sì che sul pianeta possa esserci acqua liquida in superfice. È proprio quella dove si trova la Terra, né troppo vicina da essere arrostita dal Sole, né troppo lontana da essere ghiacciata.

Naturalmente, questo non è l’unico fattore che conta per la presenza della vita. Anzi, a quanto ne sappiamo, devono verificarsi innumerevoli condizioni perché il miracolo accada. Inoltre, la vita potrebbe formarsi anche in ambienti che non si trovano nella zona abitabile, come le lune ghiacciate dei giganti gassosi del Sistema solare. Tuttavia, la zona abitabile è una buona base di partenza per cercare la vita come la conosciamo.

Secondo un recente studio che verrà pubblicato il 2 giugno sui Proceedings of the National Academy of Sciences, un terzo dei pianeti extrasolari più comuni potrebbe trovarsi nella zona abitabile della stella che li ospita e avere quindi le condizioni necessarie per consentire acqua liquida in superficie.

Partiamo dal fatto che, nella nostra galassia e verosimilmente nell’universo, il tipo di stelle di gran lunga più comuni sono molto diverse dal Sole. Si tratta delle nane rosse, piccole e relativamente fredde, con al massimo metà della massa del Sole. I pianeti che orbitano attorno a questo tipo di stelle sarebbero quindi molto più numerosi di quelli che orbitano attorno ad altri tipi di stelle. Tuttavia, per trovarsi nella zona abitabile, data la natura più debole delle nane rosse, questi pianeti devono orbitare molto vicino alla loro stella, in modo da ricevere il calore sufficiente. Questo causerebbe, nella maggior parte dei casi, un grande ostacolo per la presenza di acqua, e quindi, potenzialmente, di vita: le forze di marea estreme. Infatti, se un pianeta orbita abbastanza vicino alla stella, all’incirca alla distanza a cui orbita Mercurio dal Sole, l’eccentricità – che può essere considerata come la misura di quanto l’orbita sia deviata da un cerchio – produce un fenomeno noto come riscaldamento mareale: la forza gravitazionale subita dal pianeta varia in maniera significativa durante il suo percorso orbitale, causando un continuo stiramento e allungamento, e l’attrito che ne deriva riscalda il pianeta. Forme estreme di questo fenomeno posso arrivare a “cuocere” il pianeta, spazzando via ogni possibilità di acqua liquida su di esso.

Sarah Ballard e Sheila Sagear, ricercatrici dell’Università della Florida e autrici dello studio in questione, hanno misurato, grazie ai dati del telescopio Kepler della Nasa e del telescopio Gaia dell’Esa, l’eccentricità di un campione di oltre 150 pianeti intorno a queste stelle nane. I dati ottenuti suggeriscono che due terzi dei campioni osservati potrebbero essere caratterizzati proprio da queste forze di marea estreme, e quindi non adatti a supportare acqua. Tuttavia, il restante terzo potrebbe seguire orbite abbastanza vicine e “delicate” da essere potenzialmente in grado di trattenere acqua liquida, e avere quindi la possibilità di ospitare la vita. Questo significa che, dato il numero enorme di nane rosse presenti nella Via Lattea, solo nella nostra galassia potrebbero esserci centinaia di milioni di obiettivi promettenti da sondare per trovare segni di vita al di fuori del Sistema solare.

Sagear e Ballard hanno scoperto anche che le stelle con più pianeti sono quelle che hanno maggiori probabilità di avere il tipo di orbita circolare che permette loro di trattenere l’acqua liquida. Le stelle con un solo pianeta hanno invece maggiori probabilità di causare maree estreme che “sterilizzano” la superficie del pianeta.

«Penso che questo risultato sia davvero importante per il prossimo decennio di ricerca sugli esopianeti, perché gli occhi si stanno spostando su questa popolazione di stelle», conclude Sagear. «Queste stelle sono obiettivi eccellenti per cercare piccoli pianeti in un’orbita in cui è ipotizzabile che ci sia acqua liquida, e quindi il pianeta potrebbe essere abitabile».

Per saperne di più:


Colpo di fulmine o batterio?


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Quale ruolo hanno avuto i fulmini nella nascita della vita primordiale sulla Terra?

Come spesso accade per la durata degli amori estivi, il ruolo dei fulmini nel rendere disponibile l’azoto per la vita sulla Terra potrebbe essere stato relativamente breve. Sebbene i fulmini siano stati considerati come una delle principali fonti di azoto biodisponibile per la vita sulla Terra primitiva, un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience dai ricercatori del Centre for Exoplanet Science della University of St Andrews, dimostrerebbe infatti che la biosfera del nostro pianeta natale è diventata rapidamente indipendente da questa fonte di nutrimento.

L’azoto è un elemento chiave per l’origine e l’evoluzione della vita come la conosciamo, ma nell’atmosfera della Terra primitiva era presente principalmente sotto forma di molecole N2 non reattive, difficili da sfruttare come risorsa nutritiva. La fissazione dell’azoto atmosferico (azotofissazione) consiste nella riduzione dell’azoto molecolare in azoto ammonico (NH3), alla base di importanti molecole biologiche quali gli amminoacidi, le proteine, le vitamine e gli acidi nucleici.

Oggi conosciamo microrganismi azotofissatori, soprattutto batteri, in grado di convertire il gas N2 in forme biodisponibili, ma prima della comparsa di forme biologiche dotate di tale metabolismo era necessario l’intervento di qualche altro processo energetico. Così i fulmini sono diventati i perfetti candidati responsabili della rottura delle molecole di N2 e della presenza di azoto nella biosfera primordiale.

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Schema rappresentativo dell’esperimento condotto dal team di Patrick Barth con miscele di “atmosfera primordiale” e scariche elettriche. Crediti: Nature Geoscience

Per comprendere come i fulmini possano avere reso disponibile l’azoto per la nascita della vita sulla Terra, i ricercatori dell’università scozzese, insieme ai colleghi dello Space Research Institute (IWF), dell’Austrian Academy of Sciences di Graz e della Brown University negli Stati Uniti, hanno condotto una serie di esperimenti utilizzando scariche elettriche. In particolare, hanno ricreato le atmosfere della Terra moderna e primitiva riempiendo ampolle con acqua e diverse miscele di gas, successivamente sottoposte a una scarica elettrica di quasi 50mila Volt. Misurando la composizione della miscela di gas e dell’acqua dopo la scossa, i ricercatori hanno rilevato un aumento delle concentrazioni di ossido nitrico, nitrito e nitrato. «I nostri risultati mostrano che i fulmini possono produrre in modo efficiente ossidi di azoto nell’atmosfera ricca di CO2 che probabilmente esisteva sulla Terra primitiva», spiega Patrick Barth, primo autore dello studio e dottorando presso il St Andrews Centre for Exoplanet e presso l’Iwf. «Ciò potrebbe aver costituito una potenziale fonte di nutrienti per la vita di allora e per i pianeti al di fuori del nostro Sistema solare».

Ma la composizione isotopica trovata dai ricercatori negli esperimenti con le scintille non corrisponde a quella dell’azoto archiviato nelle rocce della Terra primitiva. Questa discrepanza indicherebbe non solo che i fulmini non sono stati la fonte principale di azoto durante l’evoluzione della vita microbica, ma anche che i microrganismi sono stati in grado di convertire il gas N2 in forme biodisponibili per più di tre miliardi di anni.

Tuttavia esistono alcuni campioni della cintura di rocce verdi di Isua situata nella parte sud-occidentale della Groenlandia, risalenti a quasi 3,8 miliardi di anni fa, la cui composizione isotopica potrebbe essere spiegata da contributi di azoto provenienti da fulmini. «Questo suggerisce che i fulmini potrebbero aver sostenuto le primissime forme di vita sulla Terra all’inizio», afferma Eva Stüeken della School of Earth and Environmental Sciences e membro del St Andrews Centre for Exoplanet Science. «Ora che abbiamo stabilito la firma isotopica del fulmine, possiamo utilizzarla per indagare sull’origine dei depositi di nitrato su Marte». Il gruppo di ricerca è infatti convinto che i risultati ottenuti contribuiranno prossimamente a identificare la fonte dei depositi di nitrati anche su altri pianeti e lune del Sistema solare.

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Il video di Patrick Barth nella mostra scientifica divulgativa a Vienna. Crediti: sito web Steiermark Schau 2023

I fulmini, che da tempo affascinano l’essere umano, sono stati oggetto di studio non solo del team di ricercatori, ma anche di vari artisti che hanno collaborato per creare una mostra utile nel comunicare l’impatto della scoperta. Alla mostra ATMOSPHÄREN, Ricerca su arte, clima e spazio – ospitata a Vienna nel padiglione mobile del festival austriaco Show Styria – è presente anche un video di Barth sulla ricerca da lui guidata e in particolare sulla possibilità di studiare i fulmini sugli esopianeti.

La ricerca ha anche ispirato il racconto A Spark in a Flask pubblicato nell’antologia di fantascienza Around Distant Suns, dove si racconta la storia di un robot che si occupa di esperimenti con scosse elettriche e scintille sulla Luna. «Per comunicare la scienza, è importante riflettere sulla straordinaria unicità dell’atmosfera terrestre nel contesto astronomico», conclude Christiane Helling, co-fondatrice del St Andrews Centre for Exoplanet Science e direttrice dell’Iwf.

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La Via Lattea sul paese delle meraviglie turchese


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Nasa Apod del 29 maggio 2023: la Via Lettea sopra un paese delle meraviglie turchese. Crediti: Petr Horálek / Institute of Physics in Opava, Soneva Jani

La ApodAstronomy Picture of the Day – della Nasa di oggi ci regala uno scorcio notturno davvero suggestivo, fotografato su un’isola delle Maldive, in cui a brillare non è solo il cielo ma anche il mare, grazie al fenomeno della bioluminescenza. In particolare, il merito è della Noctiluca scintillans, plancton unicellulare stimolato dalle onde che la lambiscono. Il plancton usa il suo bagliore per spaventare e illuminare i predatori.

Ma anche il cielo in questa immagine dà spettacolo, con il disco della Via Lattea che lo attraversa in diagonale. Verso sinistra si vede l’ammasso globulare Omega Centauri, il più luminoso osservabile dalla Terra, nella costellazione del Centauro. Nonostante si tratti di un ammasso di milioni di stelle, la sua luminosità è talmente elevata che inizialmente si pensava fosse una stella, tant’è che nel suo nome appare una lettera greca, come in uso per le stelle. Solo nel 1677 Edmond Halley lo riconobbe come di natura non stellare e successivamente, nel 1827, James Dunlop lo descrisse come un globo di stelle che gradualmente si concentrano verso il centro.

Al centro è visibile l’asterismo della Croce del Sud, la più piccola delle 88 costellazioni, ma anche una delle più famose e appariscenti. Per via della sua luminosità e della sua forma inconfondibile, la si trova spesso raffigurata nelle bandiere delle nazioni situate nell’emisfero australe, come l’Australia, il Brasile e la Nuova Zelanda.

Infine, nell’immagine sono ben evidenti anche la Nebulosa della Carena, leggermente a destra rispetto al centro, e la grande Nebulosa di Gum, in alto a destra, una delle nebulose più grandi conosciute della Via Lattea.


L’Italia a bordo della missione Ema degli Emirati


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Illustrazione della Emirates Mission to the Asteroid Belt (Ema). Crediti: Uae Space Agency

Ampliare la nostra comprensione sulle origini e sull’evoluzione degli asteroidi primordiali ricchi di acqua e gettare le basi per una possibile futura estrazione di risorse. Questi gli obiettivi principali della missione dell’Agenzia spaziale degli Emirati arabi uniti Ema (Emirates Mission to the Asteroid Belt), sulla quale volerà lo spettrometro italiano Mist-A (Mwir Imaging Spectrometer for Target-Asteroids), finanziato dall’Agenzia spaziale italiana in collaborazione con l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che guida il team scientifico italiano e con la nostra industria.

Il lancio della missione, selezionata nel 2022 dal governo federale degli Emirati Arabi Uniti, è attualmente previsto il 3 marzo 2028 con destinazione la cintura degli asteroidi. Saranno sei gli asteroidi osservati durante altrettanti flyby ravvicinati. Dopo un viaggio di 6 anni, Ema raggiungerà il settimo asteroide, 269 Justitia, un oggetto di circa 53 chilometri di diametro, e per circa 7 mesi la missione orbiterà attorno a esso per compiere un’esplorazione della sua superficie e per la selezione dei possibili siti di atterraggio del modulo di superficie.

Giuseppe Sindoni, responsabile Asi per le attività industriali legate allo sviluppo di Mist-A, commenta: «Questa missione rappresenta una grande opportunità per il nostro Paese, essendo la prima collaborazione con gli Emirati arabi uniti nel campo dell’esplorazione del Sistema solare. Ancora una volta, l’esperienza e le capacità dell’industria italiana sono in prima fila nell’esplorazione spaziale attraverso la partecipazione ad importanti missioni internazionali».

«La comunità scientifica italiana coinvolta nella missione sfrutterà la propria esperienza maturata nel corso degli anni da progetti passati, per massimizzare il ritorno scientifico sia in termini di avanzamento nella conoscenza di corpi primordiali del nostro Sistema solare, attraverso la caratterizzazione fisica e chimica delle superfici osservate, che nell’ottica di un futuro sfruttamento di risorse minerarie», aggiunge Alessandra Tiberia, responsabile Asi per le attività scientifiche di Mist-A.

Lo strumento italiano Mist-A avrà il compito di caratterizzare la composizione della superficie e le proprietà fisiche degli asteroidi primordiali target della missione, eseguendo la mappatura spettrale nel medio infrarosso tra 2 e 5 micron delle loro superfici illuminate e raggiungendo una risoluzione spaziale al suolo inferiore ai 20 m/px su 269 Justitia. Mist-A condivide il design e alcuni componenti ben collaudati con lo strumento dell’Asi Jiram, attualmente in funzione a bordo della missione Juno della Nasa su Giove.

«269 Justitia è particolarmente intrigante poiché mostra delle proprietà spettrali inconsuete rispetto agli altri oggetti della main belt: la sua bassa riflettanza in luce visibile ed il colore fortemente arrossato lo rendono infatti più simile agli oggetti trans-nettuniani che orbitano oltre l’orbita di Nettuno piuttosto che agli altri asteroidi», commenta Gianrico Filacchione, ricercatore Inaf a Roma, principal investigator dello strumento Mist-A. «Inoltre, orbitando tra 300 e 450 milioni di chilometri dal Sole evolve ciclicamente attraverso la frost-line, la distanza al di sotto della quale il ghiaccio d’acqua sublima a causa dell’innalzamento della radiazione solare instaurando un’attività simile a quanto avviene nelle comete. Queste evidenze portano a supporre che 269 Justitia possa essere un oggetto formatosi nelle regioni più esterne del Sistema solare e successivamente trasferito nella fascia degli asteroidi. Con queste premesse, possiamo aspettarci molte sorprese».

Quali? Come aggiunge Mauro Ciarniello, ricercatore Inaf a Roma e deputy principal investigator, «Diversi asteroidi primitivi fin qui esplorati dalle missioni spaziali (Dawn, Hayabusa, OsirisRex) hanno mostrato le segnature spettrali di carbonati, fillosilicati, sali ammoniati e materiale organico. Tutti questi minerali sono identificabili dallo spettrometro Mist-A grazie alla sua elevata sensibilità nella banda infrarossa. Infine, le misure nell’intervallo spettrale a lunghezze d’onda comprese tra circa 3,5 e 5 micron saranno di interesse per poter ricavare la temperatura superficiale degli asteroidi a diverse ore locali e quindi di inferire le proprietà termofisiche delle superfici».


La camera Janus apre gli occhi


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La camera Janus prima di essere stata installata a bordo della sonda Juice. Crediti: Leonardo, Dlr, Iaa

Lo strumento Jovis, Amorum ac Natorum Undique Scrutator (Janus) ha superato a pieni voti la fase di commissioning, vale a dire un vero e proprio collaudo durante il quale – a 8 milioni di km dalla Terra – ha aperto i suoi “occhi” elettronici inviando ai tecnici e ai ricercatori la cosiddetta “prima luce”, cioè la sua prima serie di immagini. La camera ottica, che viaggia ormai da poco più di un mese a bordo della sonda Esa Jupiter Icy Moon Explorer (Juice), è stata progettata per studiare la morfologia ed i processi globali regionali e locali delle lune ghiacciate di Giove e per eseguire la mappatura delle nubi del gigante gassoso. Lo strumento è stato realizzato da Leonardo sotto la responsabilità dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e con il contributo e la guida scientifica dell’Università Parthenope di Napoli e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).

La scorsa settimana, la camera Janus è stata messa in funzione e comandata quasi in tempo reale dall’European Space Operation Center (Esoc) a Darmstadt, per verificare tutte le sue funzionalità hardware e software. Lo strumento italiano è equipaggiato con un sistema di 13 filtri (5 a banda larga e 8 a banda stretta) distribuiti nell’intervallo spettrale dal visibile al vicino infrarosso (0.34 – 1.08 micron). Il sistema catadiottrico del telescopio definisce un campo di vista rettangolare di 1.29° × 1.72° e permette di raggiungere la risoluzione spaziale di 7 metri nella fase orbitale intorno a Ganimede a 500 km dalla superficie, e di circa 10 km per le immagini dell’atmosfera di Giove. Janus permetterà dunque l’acquisizione di immagini multispettrali a una risoluzione e con una estensione 50 volte migliore che in passato, garantendo notevoli passi in avanti nella conoscenza di questi mondi esotici. La camera include anche un computer con un software che controlla tutte le funzionalità dello strumento, riceve i comandi e invia telemetria e dati a terra attraverso un’interfaccia satellitare.

«Janus è stato progettato per rispondere a molte domande scientifiche della missione Juice», afferma Pasquale Palumbo (Inaf di Roma), Principal Investigator del team che ha progettato, testato e calibrato la fotocamera. «Lo strumento è molto flessibile, possiamo ottimizzare i parametri di acquisizione per i diversi obiettivi, requisiti di osservazione e condizioni che la camera dovrà affrontare».

Janus è ottimizzato per lo studio della morfologia globale, regionale e locale della superficie delle lune ghiacciate di Giove e per il monitoraggio dell’atmosfera del pianeta. Con Janus sarà inoltre possibile studiare gli strati esterni (fino alla troposfera) dell’atmosfera di Giove e approfondire lo studio della magnetosfera in cui Giove e i suoi satelliti sono inseriti e le complesse interazioni che avvengono nel sistema.

Le attività svolte durante la fase di commissioning hanno incluso un controllo completo dell’hardware, con tutti i sottosistemi attivati e monitorati attraverso le relative telemetrie, il comando di diverse impostazioni di configurazione e l’esecuzione di operazioni scientifiche per verificare le condizioni nominali della catena di acquisizione (dal rivelatore all’interfaccia con il veicolo spaziale).

Barbara Negri, Responsabile Unità Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’Asi, commenta: «Janus ha rappresentato una significativa evoluzione tecnologica delle camere ottiche impiegate nelle missioni di esplorazione del sistema solare. La realizzazione di questo strumento è stata molto complessa e sfidante, ma la società Leonardo ha centrato pienamente l’obiettivo, che permetterà di fare notevoli passi avanti nella conoscenza di queste lune, candidate ad ospitare eventuali forme di vita».

Il comportamento del sistema ottico è stato verificato anche osservando un campo stellare attorno a eta Cyg, una stella binaria visibile nella costellazione del Cigno a circa 135 anni luce dal Sistema solare. La serie di “scatti” fotografici ha confermato il buono stato dell’allineamento ottico critico di Janus e l’integrità degli elementi ottici. «Un rapido sguardo ai dati acquisiti suggerisce che quasi tutto era nominale. Dopo questa intensa sessione sul campo, possiamo dire: abbiamo uno strumento (completamente commissionato)!», conclude Palumbo.

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Nel breve video una sequenza di immagini acquisite da Janus su un’area di cielo di 1,3 x 1,7 gradi intorno a eta Cyg (la dodicesima stella in ordine di luminosità nella costellazione del Cigno) e molte altre stelle che appaiono man mano che il tempo di integrazione aumenta da circa 2 a 200 millisecondi. Crediti: team Janus/Inaf


Tanto tempo fa, in una galassia debole e minuscola


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Immagine dell’ammasso di galassie Abell 2744 ottenuta con lo strumento NirCam di Jwst. Le macchie chiare sono galassie che appartengono all’ammasso; sullo sfondo, galassie molto più distanti, osservate attraverso la lente gravitazionale dell’ammasso. Nei riquadri indicati con le lettere A, B e C sono indicate le tre immagini della galassia Jd1, di cui in alto sono mostrati anche gli ingrandimenti. Le linee colorate rappresentano i modelli gravitazionali dell’ammasso (cliccare per ingrandire). Crediti: Roberts-Borsani et al. 2023

Individuare le prime galassie della storia dell’universo è tra gli obiettivi scientifici per cui è stato prima sognato, poi costruito e infine lanciato il James Webb Space Telescope (Jwst). E già nel primo anno di operazioni, il potente osservatorio spaziale sta mantenendo le promesse, aiutando gli astrofisici a catturare e analizzare la luce di galassie lontanissime, formatesi a solo qualche centinaio di milioni di anni dal Big bang.

Studiare queste galassie, molto diverse da quelle che popolano l’universo odierno, oltre 13 miliardi di anni dopo, è cruciale anche per comprendere meglio uno dei passaggi più enigmatici della cronologia del cosmo: la reionizzazione. Si tratta dell’epoca in cui la luce emessa dalle primissime stelle e galassie ha iniziato a scindere gli atomi che allora formavano il gas interstellare e intergalattico, ionizzandoli e trasformandoli nuovamente in protoni ed elettroni. Con questa fase, di cui si conoscono gli effetti ma ancora non la dinamica in dettaglio, termina l’era cosmica chiamata in inglese the dark ages per assonanza con i “secoli bui” del medioevo umano, poiché l’universo divenne così “trasparente” alla luce, non più assorbita dagli atomi sparsi qua e là.

Alcuni tra i primi risultati di Jwst hanno svelato alcune di queste galassie primordiali, mettendo in luce la loro capacità di reionizzare l’universo. Si è aggiunto ora un nuovo studio, pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Nature, che tra queste galassie lontane e antichissime ha scovato quella che, ad oggi, appare come la meno brillante di tutte.

«Con Jwst siamo riusciti a confermare e studiare una delle galassie più lontane dell’universo, e certamente la meno luminosa di quelle trovate nei primi instanti dopo il Big Bang», spiega a Media Inaf Guido Roberts-Borsani, ricercatore anglo-italiano, di origini liguri (come attesta la passione, oltre che per l’astronomia, per la focaccia genovese) oggi impegnato presso la University of California, Los Angeles. «La galassia, chiamata Jd1, si trova dietro a un ammasso di galassie vicine e massicce che servono come una lente gravitazionale che amplifica e distorce la luce di Jd1 di un fattore tredici. È grazie solo a questo – e al potere di un telescopio come Jwst – che riusciamo a vederla e studiarla. Questo è molto importante perché Jd1 è tipica delle prime generazioni di galassie meno luminose, che hanno reso l’universo trasparente nel primo miliardo di anni dopo il Big bang, ma che fino ad ora non sono state confermate o studiate».

Questa piccola galassia è stata dapprima avvistata in una serie di immagini realizzate con NirCam, la fotocamera multibanda a bordo del potente osservatorio spaziale. Complice Abell 2744, meglio noto come ammasso di Pandora, che come il nome suggerisce offre un potpourri di poderosi fenomeni cosmici alla convergenza di almeno quattro massicci ammassi di galassie, e che con la sua grande massa piega il tessuto spaziotemporale e forza la luce proveniente da galassie ancora più distanti su percorsi non rettilinei ma curvi e deformati. Agendo come una lente gravitazionale, l’ammasso deforma l’aspetto di queste galassie lontane e ne amplifica la luce, rendendo osservabili oggetti flebili come Jd1.

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Guido Roberts-Borsani, ricercatore presso Ucla, negli Stati Uniti

Già confrontando le immagini ottenute con diversi filtri di NirCam, Roberts-Borsani e collaboratori sospettavano che si trattasse di una galassia molto lontana. A conferma di ciò, anche un confronto con dati d’archivio del decano dei telescopi spaziali, Hubble space telescope, sembrava indicare una distanza molto elevata. Infine, la prova del nove: 73 minuti di osservazioni spettroscopiche con un altro degli strumenti a bordo di Jwst: l’europeo NirSpec.

«Con NirSpec siamo riusciti a ottenere uno spettro che ci ha permesso di confermare la sua distanza: solo 480 milioni di anni dopo il Big Bang» aggiunge il ricercatore, «e anche di calcolare la sua età, la sua massa stellare, e la sua evoluzione chimica, rivelando che questa è una galassia non molto massiccia ma che sta formando tante stelle giovani, e che ha già cominciato il suo viaggio chimico».

Quando l’allineamento tra il corpo celeste che funge da lente e la sorgente più remota è particolarmente propizio, il fenomeno del lensing gravitazionale può produrre addirittura immagini multiple della sorgente: in questo caso, nelle osservazioni di NirCam la galassia Jd1 appare ben tre volte, in tre punti diversi dell’immagine. Analizzando i dati con l’aiuto di un modello gravitazionale dell’ammasso, è stato possibile tracciare a ritroso la luce della galassia e risalire alla sua posizione e forma originale: questo ha permesso al team di rivelare un oggetto molto piccolo e compatto. Certo, non sempre si ha a disposizione un telescopio potente come Jwst e una coincidenza cosmica come quella facilitata dall’ammasso di Pandora, e così di galassie simili ai primordi dell’universo se ne conoscono ancora poche.

«L’ingrandimento dato dalla lente gravitazionale ci ha permesso di identificare piccole regioni stellari interne a Jd1, ancora in formazione, di dimensione inferiore ai 300 anni luce», nota Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica a Bologna e co-autore del lavoro. «È la prima volta che possiamo studiare regioni stellari minuscole in un oggetto così distante nello spazio e lontano nel tempo. Potrebbe proprio appartenere alla tipologia di sorgenti che pensiamo siano dominanti nella fase di reionizzazione dell’universo».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The nature of an ultra-faint galaxy in the cosmic dark ages seen with Jwst” di Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Wenlei Chen, Takahiro Morishita, Eros Vanzella, Adi Zitrin, Pietro Bergamini, Marco Castellano, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Patrick L. Kelly, Emiliano Merlin, Themiya Nanayakkara, Diego Paris, Piero Rosati, Lilan Yang, Ana Acebron, Andrea Bonchi, Kit Boyett, Maruša Bradač, Gabriel Brammer, Tom Broadhurst, Antonello Calabró, Jose M. Diego, Alan Dressler, Lukas J. Furtak, Alexei V. Filippenko, Alaina Henry, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Matthew A. Malkan, Charlotte Mason, Amata Mercurio, Benjamin Metha, Laura Pentericci, Justin Pierel, Steven Rieck, Namrata Roy, Paola Santini, Victoria Strait, Robert Strausbaugh, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Lifan Wang, Xin Wang & Rogier A. Windhorst


Nelle grotte dello Yorkshire come fosse Marte


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Immaginare di vivere all’interno di una serie di cunicoli sotterranei, senza luce naturale, aria fresca, o passeggiate in natura potrebbe non essere così desiderabile. Ma forse è la soluzione che gli scienziati hanno trovato per sopravvivere per lunghi periodi in altri pianeti come Marte, o sulla Luna. Soluzione che stanno testando, sottoterra, nello Yorkshire. Il progetto si chiama Bio-Sphere (Biomedical Sub-surface Pod for Habitability and Extreme-environments Research in Expeditions) e sfrutta una rete di circa 3 mila metri cubi di tunnel adiacenti a quelli del laboratorio di fisica particellare di Boulby.

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Composizione di immagini delle strutture presenti all’interno del Laboratorio di Boulby, a Cleveland, nello Yorkshire. Crediti: Boulby Laboratory/Università di Birmingham

Qui, complice l’ambiente geologico formato da depositi di salgemma risalenti a 250 milioni di anni fa, i ricercatori hanno potuto ricreare, appunto, le condizioni operative che sperimenterebbero lavorando in caverne simili sulla Luna o su Marte. Condizioni come la lontananza, l’accesso limitato a nuovi materiali e le difficoltà di spostamento delle attrezzature pesanti. Trovarsi nel sottosuolo in ambienti meno protetti dall’atmosfera come la Luna o Marte, però, porta con sé anche vantaggi vitali: la schermatura offerta dalla roccia sovrastante consente infatti di proteggere gli equipaggi dalle radiazioni dello spazio profondo e da altri pericoli come la caduta di detriti di meteoriti, che danneggerebbero non solo le persone, ma anche le infrastrutture di supporto. In generale, comunque, sperimentare direttamente questo ambiente offre l’opportunità di simulare vari scenari di missione e di condurre attività scientifiche interdisciplinari all’avanguardia, che vanno dagli effetti degli ambienti estremi sui parametri biologici e fisico-chimici e sulle infrastrutture mediche, fino allo studio di come le risorse disponibili “in situ” – come la pressione, la temperatura e la geologia – possano essere utilizzate per vivere e costruire un habitat.

La prima struttura che verrà inaugurata nell’ambito del progetto sarà un modulo di simulazione largo 3 metri e progettato specificamente per testare alcune procedure biomediche di medicina rigenerativa, necessarie a preparare i materiali per il trattamento di ferite nello spazio profondo. Il progetto è stato presentato in un articolo pubblicato su Nature microgravity.

«Questa nuova struttura aiuterà a raccogliere informazioni che possono fornire consigli sui sistemi di supporto vitale, sui dispositivi e sui biomateriali che potrebbero essere utilizzati nelle emergenze mediche e nella riparazione dei tessuti in seguito a danni nelle missioni nello spazio profondo», dice Alexandra Iordachescu, ricercatrice alla School of Chemical Engineering dell’Università di Birmingham e prima autrice dello studio. «Questi parametri possono guidare la progettazione del sistema e aiutare a valutare le esigenze scientifiche e i tempi accettabili nelle operazioni di bioingegneria considerando i vincoli imposti dagli ambienti isolati, come gli habitat spaziali. I dati porteranno probabilmente numerosi benefici anche per le applicazioni terrestri, come la realizzazione di interventi biomedici in aree remote o in ambienti pericolosi e, più in generale, la comprensione dei flussi di lavoro biomedici in questi ambienti non ideali».

Per saperne di più:


Al congresso con bebè a bordo


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La ricercatrice Daria Dall’Olio con la figlia di quattro mesi dinanzi al suo poster, premiato con il ‘best poster award’ al congresso Protostars and Planets VII a Kyoto, Giappone

Intraprendere una carriera di ricerca è una sfida notevole, tra gli impegni incessanti, la competizione sfrenata e la precarietà imperante che caratterizzano l’ingresso in questa professione. Un canale importante – se non addirittura essenziale – per progredire in questo ambiente tanto affascinante quanto arduo è la partecipazione a congressi internazionali, che permette non solo di presentare i propri risultati a una platea di specialisti ma anche di aggiornarsi sullo stato dell’arte della propria disciplina e fare networking con colleghi di tutto il mondo. Eppure recarsi a un congresso, magari dall’altro capo del pianeta, non è di facile accesso per tutti.

I genitori – e in particolare le mamme – di figli piccoli sono tra i gruppi che, a causa delle responsabilità di cura familiare, incontrano maggiori barriere alla partecipazione a questi eventi, trovandosi spesso davanti a un dilemma che può avere ricadute non trascurabili sulla carriera nel breve e lungo termine. Per ovviare a questo tipo di ostacoli, di cui risente soprattutto la carriera delle ricercatrici madri, alcuni congressi hanno iniziato a implementare misure di accoglienza verso i bambini, anche i più piccoli, invogliando alla partecipazione anche chi ha un bebè a carico e contribuendo così a rendere più equa e inclusiva quella particolare comunità di ricerca.

È il caso del convegno Protostars and Planets VII, tenutosi lo scorso aprile a Kyoto, in Giappone. Si tratta di un meeting che si tiene solitamente ogni sette anni, in cui parecchie centinaia di ricercatrici e ricercatori da tutto il mondo si ritrovano per discutere degli sviluppi raggiunti sul tema della formazione di stelle e pianeti nell’ultimo decennio. Ne parliamo con Daria Dall’Olio, ricercatrice post-doc all’Osservatorio spaziale di Onsala, in Svezia, e associata presso la sede di Arcetri dell’Istituto nazionale di astrofisica, che si occupa di radioastronomia e studia la formazione stellare. A metà aprile, Dall’Olio ha partecipato a questo convegno e ha deciso di andarci con un’accompagnatrice molto speciale: la figlia di quattro mesi.

Non deve essere stato facile decidere di andare a un convegno con un bebè di quattro mesi, per giunta in un altro continente. Cosa l’ha aiutata in questa scelta?

«Partecipare a questo congresso per me era di fondamentale importanza, perché è uno dei più importanti nel mio settore, e mi avrebbe dato una grossa possibilità di fare networking. Avevo anche vinto una borsa della fondazione svedese Åforsk per parteciparvi, e siccome il congresso era stato rimandato più volte per via della pandemia, avevo anche dovuto chiedere una proroga della scadenza della borsa. Così quando le date del congresso sono state finalmente fissate, andarci con la bimba era l’unica possibilità. Allora ho pensato che sarebbe stato utile leggere le testimonianze di altre mamme che avessero già provato l’esperienza di andare a un congresso con una neonata. Così ho cercato su Google “andare a un congresso con una bimba” e sono venute fuori due o tre esperienze, con qualche suggerimento. Alcuni sono stati utili, altri no, e dalla mia esperienza ne aggiungerei altri ancora. Ma leggere queste esperienze e quei consigli è stato importante per me: mi sono sentita meno folle e più incoraggiata».

Ha contattato gli organizzatori in anticipo?

«Sì, ed è stato molto importante perché così si sono attivati per supportarmi in modi che non avrei mai pensato. Avevo un po’ paura che mi dicessero di non partecipare per non disturbare gli altri partecipanti, invece si sono mostrati immediatamente disponibili e gentilissimi. Già dalla prima mail hanno accolto mia figlia a braccia aperte, e questo mi ha tranquillizzato moltissimo».

Che tipo di supporto ha incontrato al congresso?

«Il comitato di organizzazione locale (local organizing committee, o Loc) è stato fantastico. Avevano organizzato un servizio di asilo (childcare), ma io sto ancora allattando e la bimba è ancora troppo piccola per essere lasciata lontana da me a lungo, quindi ho seguito le presentazioni con lei in fascia. Il Loc mi ha dato tantissimo supporto, per esempio ha cercato e mostrato i bagni con i fasciatoi del centro congressi. Ogni giorno mi chiedeva se andava tutto bene, e mi ha fatto tenere nell’ufficio dedicato al personale organizzatore una borsa con i pannolini e i ricambi di emergenza di mia figlia, così da non dover portare sempre appresso tutto ogni giorno».

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Il bagno attrezzato con fasciatoio presso il Kyoto International Conference Center, Giappone. Crediti: D. Dall’Olio

Come ha reagito sua figlia?

«Per la maggior parte del tempo ha dormito, oppure si guardava attorno curiosa. Durante le sessioni dedicate ai poster è stata incredibilmente tranquilla, dandomi la possibilità di interagire e parlare con gli altri ricercatori. A volte qualche ricercatrice o qualche ricercatore si fermava per chiacchierare e per fare i complimenti perché la bimba era bravissima e tanto buona… e ovviamente lei elargiva gran sorrisi. Ma non è sempre stata così, ci sono stati anche dei “momenti no”, in cui era più agitata, non ne voleva sapere di stare in fascia e l’unico modo per tenerla buona era camminare. Ho seguito alcune sessioni del congresso stando in piedi, dondolandola, oppure andando avanti e indietro nelle retrovie della sala. E poi ci sono stati anche momenti di panico quando la bimba ha deciso che doveva assolutamente parlare, fare urletti… o piangere! Le prime volte per non disturbare troppo gli altri partecipanti, correvo fino al corridoio o, nei casi più estremi, sono proprio uscita fuori. Fortunatamente il centro congressi era circondato da un meraviglioso parco, popolato da moltissime famiglie e bambini, e quindi le sue urla non hanno mai destato gran interesse. Poi il comitato organizzatore è stato molto solerte e gentile e avendo notato le mie corse quando la bimba piangeva, mi ha offerto di seguire i talk dalle loro postazioni: avevano montato alcuni monitor in due aree esterne alla sala conferenze, con il collegamento Zoom per seguire in diretta il congresso mentre loro si occupavano dell’organizzazione. Piccole cose che però hanno significato tanto».

Ha incontrato anche qualche ostacolo?

«Quando si viaggia con dei bambini, bisogna tenere conto che serve più tempo per fare tutto e si possono presentare anche contrattempi, come un pianto inconsolabile che necessita di trovare un angolo più tranquillo dove ritrovare la calma, oppure un cambio pannolino nel momento più improbabile che richiede uno stop imprevisto. La mia tabella di marcia doveva tener conto anche delle esigenze della bimba e quindi l’organizzazione di tutto il viaggio ha richiesto un grande sforzo di pianificazione, non solo per gli spostamenti ma anche per le giornate del congresso. Per esempio, gli orari del congresso erano molto lunghi ed è stato impossibile poter seguire tutte le sessioni. Quindi ho dovuto fare una selezione di ciò che volevo assolutamente seguire e programmare tutto con grande anticipo. Ho cercato di prevedere i possibili imprevisti e le possibili soluzioni, e comunque nonostante tutti gli sforzi, in un paio di occasioni ho dovuto rinunciare ai miei piani e ho “perso” due interventi».

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La ricercatrice Daria Dall’Olio (seconda da destra, con la figlia piccola in fascia) sul palco del congresso per il ‘best poster award’. Crediti: Protostars and Planets VII

Dal punto di vista scientifico, ne è valsa la pena?

«L’esperienza è stata faticosa, ma assolutamente positiva. Ha portato contatti di lavoro nuovi, ho potuto rendere visibile la mia ricerca mostrandola a tantissimi colleghi: queste cose sono fondamentali per proseguire nella carriera accademica. Inoltre, sono stata la prima classificata fra gli otto vincitori del best poster award, che per un congresso con 780 partecipanti e seminari dedicati solo alle review non è male. Mi hanno invitato a dare una presentazione sul mio argomento di ricerca, i campi magnetici delle protostelle massicce, portando mia figlia con me sul palco, dicendomi che se poi avesse pianto l’avrebbero presa loro mentre io finivo il mio intervento».

E poi com’è andata?

«Mia figlia era sveglia e carica come una molla. È stata buona e tranquilla fino a che non ho iniziato a parlare e le hanno sparato in faccia i faretti. Per lei è stato come il segnale per scatenare l’inferno: lascio a voi immaginare il resto! Ho cercato di sdrammatizzare e la platea l’ha presa sul ridere. Ma per fortuna c’era una delle organizzatrici che l’ha presa in braccio mentre ho tenuto il mio intervento, che comunque è stato breve».

Un’esperienza globalmente positiva, dunque. C’è qualcosa che si può ancora migliorare?

«Sì decisamente positiva e senza dubbio si può migliorare. Per esempio sul tema allattamento. Io ho cercato di non dare troppo peso alla cosa e alla fine ho allattato dove mi capitava, ma mi sono trovata a pensare che forse col mio gesto potevo urtare la sensibilità delle altre persone, e a volte non ero proprio a mio agio. Forse è solo una mia paranoia data da tanti condizionamenti mentali, forse no, non lo so. Allora ho pensato che magari avere un posto più riservato, una stanza, anche piccola, ad esclusiva delle mamme potrebbe essere un’idea interessante da proporre ai congressi. In fin dei conti spesso, nei centri congressi si offrono salette ad uso dei partecipanti per poter svolgere mini riunioni e workshop. Una di queste potrebbe essere dedicata alle neo-mamme (o neo-papà), da usare quando ne hanno bisogno. La mamma potrebbe seguire il congresso attraverso uno schermo installato nella stanza con connessione Zoom e nel contempo potrebbe rilassarsi. Se deve allattare, nessuno la vede, nessuno la giudica. Se deve muovere un sonaglino per dieci minuti o cantare una canzoncina per calmare un pianto, non disturba altri partecipanti».

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Daria Dall’Olio presenta il suo poster al congresso Protostars and Planets VII in Giappone, mentre una delle organizzatrici tiene in braccio sua figlia. Crediti: Giulia Perotti

Qual è stata invece la cosa più family-friendly che ha trovato al convegno?

«Il primissimo pensiero è andato ai bagni super attrezzati e spaziosi, con fasciatoi nuovi e facili da manovrare, considerando che magari si tiene in braccio una bimba urlante che vuole essere cambiata e si divincola. Ma a essere sincera ci sono state anche alcune persone, oltre al Loc, che hanno contribuito a creare momenti di serenità a misura di mamma. Per esempio, dopo il mio intervento sul palco, un paio di ricercatrici si sono avvicinate porgendomi un bicchier d’acqua e offrendosi di tenere un poco la bimba per darmi un attimo di pausa. Un gesto che sia io che mia figlia abbiamo apprezzato tantissimo, e che conferma una cosa: oltre la pura organizzazione degli spazi, a creare l’ambiente a misura di famiglia contribuiscono tantissimo le persone che ci circondano».

Secondo lei, si tratta di un caso particolare, magari legato anche al contesto specifico locale, oppure di un format esportabile anche in altri convegni?

«Secondo me si può esportare tranquillamente, il più è la volontà di farlo. Innanzitutto occorre che ci sia più consapevolezza delle difficoltà che affrontano le mamme ricercatrici e più in generale i genitori ricercatori, spesso precari e il cui curriculum viene poi valutato in base al numero degli articoli scritti e alla partecipazione ai congressi, non solo per passare da un postdoc all’altro ma anche per accedere a fondi e borse. La partecipazione ai congressi è fondamentale per la carriera. Una volta chiarito questo, il format migliore può essere costruito ascoltando le esigenze dei genitori ma anche consultando qualche esperto. Vengo dalla Svezia dove ho apprezzato molto la politica di wellness sul lavoro e sulla famiglia. Le due realtà devono poter convivere e c’è molto lavoro da fare ancora, ma guardare ai buoni esempi è un buon punto di partenza. Credo che questo congresso sia stato reso accessibile e inclusivo. E credo che il Loc abbia fatto un ottimo lavoro e abbia dato un ottimo esempio, mostrando buona volontà per far andare bene le cose e impegnandosi tanto per aiutarmi. Già essere neo-mamma è difficile, se si aggiunge anche il lavoro di ricercatrice che ti obbliga a stare sempre sul pezzo, posso dire che ho apprezzato tantissimo il lavoro del Loc che ha reso il congresso accessibile anche ai bimbi così piccini. Alla fine, tutte queste piccole cose sono “attenzioni” fondamentali che rientrano nelle buone pratiche per il raggiungimento del famoso obiettivo 5 dello sviluppo sostenibile dettato dall’Onu: l’uguaglianza di genere. Con la buona volontà di tutti le cose possono cambiare ed essere più facili. A fine congresso, alcune persone mi hanno fermato e mi hanno detto che ho fatto bene a portarmi dietro mia figlia e che sperano che il mio gesto possa essere di esempio e di ispirazione per altre mamme».

Aveva mai notato questo tipo di attenzioni in altri congressi?

«Sinceramente no, ma è anche vero che siamo appena usciti dalla pandemia e da un periodo in cui le relazioni sociali e il networking con i colleghi sono state sostituite da videoconferenze a distanza. Il mio primo figlio è nato pochi mesi prima del lockdown e la discussione del mio dottorato è avvenuta in piena pandemia. Prima non avevo figli anche se avevo avuto modo di notare e apprezzare in altri congressi la presenza del childcare per bimbi più grandi, a disposizione dei genitori e a pagamento, ma mamme (o papà) con bebè appresso non ne avevo mai viste».

A valle di questa esperienza, cosa consiglia a chi organizza un congresso, sia nella logistica che nella comunicazione, per invogliare anche chi ha figli molto piccoli a partecipare?

«Secondo me è molto importante cercare di dedicare alcuni spazi ai neo genitori, oltre a implementare il servizio di childcare per i bambini più grandi. Come minimo bisognerebbe offrire una stanza dedicata all’allattamento da cui si possa comunque continuare a seguire il congresso, adibire uno spazio per lasciare l’occorrente per il cambio bebè e garantire la presenza di fasciatoi, sia nei bagni per donne che per uomini. Poi, e mi rendo conto che si tratta di un punto critico ma saliente che gli enti di ricerca dovranno prima o poi affrontare, occorre ripensare la politica della famiglia anche nella stessa struttura della ricerca. Per esempio, quando si va al congresso i costi del childcare gravano sui genitori, anche se si sono recati al congresso per lavoro. Non credo sia giusto. Ho visto pochissimi congressi offrire grant per coprire le spese relative alla famiglia, e quindi i genitori si trovano svantaggiati, perché si va a gravare ulteriormente sulle finanze personali. In ogni caso la comunicazione è fondamentale, sia da parte degli organizzatori sia da parte dei genitori. Gli organizzatori al momento di pubblicizzare un congresso potrebbero sottolineare esplicitamente che verrà offerta non solo la presenza di childcare ma anche di spazi dedicati a genitori di bambini più piccoli. E i genitori non devono aver timore di far presenti le loro esigenze contattando gli organizzatori. Infine, mi è piaciuto molto un articolo sulla rivista Pnas che credo sia un buon punto di partenza da tenere presente».


Qui precipitò Hakuto-R


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L’11 Dicembre 2022 partiva dalla Terra una missione che avrebbe potuto segnare un passo importante nella storia dell’esplorazione spaziale. L’azienda giapponese ispace tentava di far atterrare il primo lander privato sulla Luna, dopo il fallimento della prima missione privata dell’azienda israeliana Israel Aerospace Industries nel 2019.

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Animazione che mostra il confronto tra le immagini del sito d’impatto prima e dopo. La freccia A indica la variazione di riflettanza rispetto alle rocce superficiali vicine lungo il lato destro dell’inquadratura. Le frecce B, C e D indicano altri cambiamenti intorno al sito di impatto. La barra di scala in basso a destra misura 50 metri. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center/Arizona State University

Il lander giapponese della missione Hakuto-R, durante il suo viaggio di svariati mesi, dopo aver raggiunto 1,376 milioni di km di distanza dal nostro Pianeta – il punto più lontano mai raggiunto da un veicolo spaziale privato – avrebbe dovuto allunare il 26 Aprile nei pressi del cratere Atlas. Ma qualcosa è andato storto, e la comunicazione con il lander si è interrotta durante le ultime fasi di atterraggio per non essere più recuperata. Secondo quanto dichiarato da ispace, gli ultimi dati ricevuti indicavano che la velocità di Hakuto-R aveva cominciato ad aumentare anziché diminuire, ed è quindi molto probabile che, invece di eseguire un atterraggio morbido, il lander si sia schiantato sulla superficie.

Quello stesso giorno, il Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro), satellite Nasa, in orbita attorno alla Luna dal 2009, ha acquisito 10 immagini del sito di atterraggio con le sue Narrow Angle Cameras. Utilizzando anche un’immagine acquisita prima del tentativo di atterraggio, il team scientifico di Lro ha iniziato a cercare il lander.

Confrontando le immagini il team ha notato delle variazioni superficiali proprio nel punto di atterraggio previsto. La foto post-impatto mostra almeno quattro pezzi di detriti e diversi altri piccoli cambiamenti sulla superficie. La freccia A mostrata nell’immagine animata qui sopra indica un’importante modifica della superficie caratterizzata da una riflettanza maggiore in alto a sinistra e minore in basso a destra. L’opposto di quanto succede nei vicini massi lunari, il che suggerisce che potrebbe trattarsi di un piccolo cratere o di diverse parti del corpo del lander. Le frecce B, C e D indicano altri cambiamenti intorno al sito di impatto. Nei prossimi mesi, Lro avrà l’opportunità di effettuare ulteriori osservazioni del sito in varie condizioni di illuminazione e con diversi angoli di osservazione.

Il piccolo lander di ispace raggiungeva un’altezza di 2,3 metri, era largo 2,6 metri, pesava complessivamente circa 1000 chili e aveva una capacità di carico di circa 30 kg. A bordo si trovava un piccolo rover di 10 kg, Rashid, realizzato dagli Emirati Arabi Uniti, che avrebbe dovuto avere il compito di analizzare la superficie lunare con fotocamere ad alta risoluzione, tra cui una microscopica e una termica, e un piccolo robot sferico sviluppato dall’agenzia spaziale giapponese Jaxa, anch’esso per lo studio del suolo lunare.


Possibile meteorite nel cremonese


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La notte fra il 23 e il 24 maggio potrebbe essere ricordata come “la notte dei fireball”. Il primo evento, un fireball di magnitudine assoluta -9, si è verificato alle 22:21 UT del 23 maggio ed è stato triangolato dalla rete Prisma nei cieli del nord Italia. Il secondo fireball invece, con la stessa luminosità del primo, è stato catturato alle 02:32 UT del 24 maggio nei cieli della Sardegna. Mentre il meteoroide di quest’ultimo evento si è disintegrato completamente durante l’attraversamento dell’atmosfera, il primo meteoroide era più lento e probabilmente alcuni frammenti sono giunti al suolo dando luogo a una caduta o fall.

Il fireball delle 22:21 UT (00:21 ora locale del 24 maggio), è stato ripreso dalle camere Prisma di Pino Torinese, Rovigo, Piacenza, Felizzano, Codogno, Cecima, Merate, Savignano, Montelupo Fiorentino, Chianti e Ravenna. I calcoli preliminari eseguiti dagli astronomi di Prisma indicano che il fireball è stato ripreso a partire da 75 km di quota, quando aveva una velocità di 15,8 km/s e si è estinto a 25 km di altezza con una velocità di circa 5 km/s. Nel complesso l’evento ha avuto una durata di circa 6 s. La velocità in atmosfera è tipica di un oggetto di origine asteroidale; in effetti l’orbita eliocentrica è quella caratteristica di un asteroide Apollo, con afelio poco oltre l’orbita di Marte e perielio fra le orbite di Venere e della Terra.

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Il bolide del 23 maggio 2023 alle 22:21 UT ripreso dalla camera Prisma di Piacenza. Crediti: Prisma/Inaf

La traiettoria del fireball proiettata al suolo indica una direzione di caduta quasi esattamente da sud verso nord, con inizio in prossimità del borgo di Miscoso (Appennino reggiano), e termine vicino a San Secondo Parmense, in piena Pianura Padana.

Dopo la fine della fase di fireball il probabile residuo del meteoroide originario ha proseguito la corsa verso il suolo nella fase di volo buio o dark flight. Dai calcoli preliminari, tenendo conto della direzione e intensità del vento al variare della quota, la parte più consistente del meteoroide dovrebbe essere caduta nel comune di Sospiro (a est di Cremona) mentre altri frammenti più piccoli, dovuti a una frammentazione, potrebbero essere disseminati dal Po verso Sospiro in senso nord-sud, nel territorio dei comuni di San Daniele Po e di Pieve d’Olmi.

Nel caso di effettivo ritrovamento, sarebbe la terza meteorite italiana di cui si conosce l’orbita, dopo la meteorite Cavezzo il cui recupero è avvenuto ai primi di gennaio del 2020 e la meteorite Matera, caduta la sera del 14 febbraio di quest’anno. Sulle circa 70.000 meteoriti recuperate sulla Terra solo di 45 si conosce l’orbita e fino a pochi anni fa, prima di Prisma, l’Italia era assente da questo elenco.

Adesso gli esperti di Prisma raffineranno i calcoli e cercheranno di circoscrivere l’area interessata dalla possibile caduta, il cosiddetto “strewn field”, generalmente un’ellissi estesa per qualche km lungo i due assi principali. Nel caso i calcoli rafforzassero l’ipotesi di una caduta al suolo verranno organizzate in loco squadre di ricerca aperte anche a volontari che verranno appositamente formati e che potranno affiancare gli esperti nella “caccia al meteorite di mezzanotte”, per cercare di recuperare qualche frammento del piccolo asteroide responsabile del fireball.

Nel frattempo, se passate dalle parti di Sospiro e vi capita di vedere al suolo una pietra scura o un frammento metallico di qualche centimetro di diametro con i bordi arrotondati e una patina tipo fuliggine, allora potete contattare direttamente Daniele Gardiol, coordinatore nazionale del progetto Prisma, ai seguenti riferimenti: daniele.gardiol@inaf.it – tel. 3491977591.


Un mini-mouse per MeerKat


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Una porzione del campo centrato su Grs 1915+105 visto dal radiotelescopio MeerKat a 1.28 GHz. Crediti: Motta et al., 2023.

Tante sono le scoperte importanti avvenute per caso. Si parla di serendipità, o serendipity. È per caso che un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto un oggetto tanto interessante quanto raro: una pulsar wind nebula. In realtà, il caso è stato aiutato da un meticoloso studio osservativo e il risultato ottenuto è un esempio della combinazione di ricerca, contingenza e conoscenza. Per sapere i dettagli della scoperta Media Inaf ha raggiunto Sara Elisa Motta dell’Inaf, prima autrice dello studio che verrà presto pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Ci può raccontare com’è avvenuta la scoperta?

«La scoperta è avvenuta, come spesso accade, per caso. Il target delle nostre osservazioni era Grs 1915+105, una binaria X contenente un buco nero localizzata nella nostra Galassia, e nota per essere una sorgente radio piuttosto brillante. Dato che la sorgente era attiva, insieme ai miei colleghi della collaborazione ThunderKat abbiamo deciso di monitorarla per diversi mesi con cadenza settimanale con l’interferometro radio MeerKat, che si trova in Sudafrica. Le immagini che si estraggono dai dati radio MeerKat coprono quasi un grado quadrato di cielo, per cui insieme al target prescelto si possono osservare moltissime altre strutture che per la maggior parte non hanno niente a che fare con il target. Sfruttando il grande campo di vista di MeerKat abbiamo quindi deciso di creare una immagine profonda del campo usando tutte le osservazioni che avevamo accumulato, per una esposizione totale di circa 15 ore. Dall’immagine profonda che abbiamo ottenuto è emersa una struttura con una peculiare forma lineare, o “a scia di cometa” qualche decina di arcominuti a est del nostro target. Questa struttura lineare sembrava essere connessa con un debolissimo resto di supernova. Né la struttura, che si è rivelata essere una pulsar wind nebula, né il resto di supernova erano presenti nei cataloghi radio esistenti».

Perché l’avete chiamata Mini Mouse?

«La configurazione scia+resto di supernova ricordava da vicino una struttura simile osservabile in direzione del Centro Galattico, e soprannominata the Mouse a causa della sua morfologia. Per cui, ipotizzando che quello che vedevamo era un versione più piccola (perché più distante) del Mouse originale, abbiamo soprannominato la nostra pulsar wind nebula The Mini Mouse».

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Sara Elisa Motta, dottorata all’Università dell’Insubria. Ha lavorato due anni e mezzo all’agenzia Spaziale Europea, nella sede di Madrid (Esac), poi si è spostata a Oxford dove ha lavorato per quasi sei anni, per poi rientrare in Italia nel 2020. Attualmente è ricercatrice all’Inaf osservatorio astronomico di Brera, sede di Merate. Crediti: S. Motta

Di cosa si tratta?

«Quando abbiamo scoperto il Mini Mouse, abbiamo osservato che la posizione della “testa” del Mini Mouse era consistente con la posizione di una debole pulsar scoperta dal radio telescopio cinese Fast, che però l’aveva localizzata con bassa precisione angolare. Così abbiamo richiesto due ulteriori osservazioni MeerKat finalizzate alla detection di pulsar, e che quindi sono state effettuate con una modalità di osservazione apposita. Abbiamo così migliorato sensibilmente la posizione della pulsar e abbiamo verificato che era effettivamente associata alla testa del Mini Mouse. Per questo abbiamo potuto concludere che il Mini Mouse era stato prodotto da una debole pulsar che viaggia a centinaia di Km/s nel mezzo interstellare lasciando una scia dietro di sé (emissione di sincrotrone da materiale shockato), allontanandosi dal resto di supernova che segna tuttora la posizione in cui la pulsar è nata».

L’avete osservata con MeerKat, nelle onde radio, ma è osservabile anche in altre bande dello spettro elettromagnetico?

«Abbiamo cercato tracce del Mini Mouse anche in banda X, dato che non è inusuale osservare queste strutture anche in questa banda, ma purtroppo non abbiamo trovato niente nel catalogo X prodotto dal satellite Swift, che aveva accumulato circa 10ks di osservazione serendipity della posizione dove il Mini Mouse è osservato in radio, né in altri cataloghi X».

Erano già stati osservati nell’universo casi simili?

«Il Mini Mouse è il quarto oggetto di questo genere, ma è il primo scoperto da MeerKat. Precedentemente era stato scoperto il famoso Mouse, la frying pan e la associata pulsar, e la cannon ball, anch’essa con la propria pulsar».

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Il radiotelescopio MeerKat, in Sud Africa. Crediti: E. Sacchetti

Cosa avete in programma adesso?

«Sicuramente ci occuperemo di raffinare la misura del periodo di spin della pulsar e della sua derivata prima, che permette una valutazione più precisa della (giovane) età della pulsar che ha prodotto il Mini Mouse. Poi osserveremo il Mini Mouse ad alta risoluzione angolare mediante osservazioni radio Vlbi per chiarire la struttura della nebula su scale più piccole di quelle che possono essere esplorate con MeerKat. Da ultimo, cercheremo strutture simili al Mini Mouse nell’archivio MeerKat, che costituisce una vera miniera d’oro che indubbiamente porterà a numerose altre scoperte serendipite di questo genere».


Per saperne di più:


Ecco la galassia passiva più lontana


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La galassia scoperta con James Webb Space Telescope. L’immagine nel riquadro bianco mostra uno zoom della sua forma sferoidale e il colore rossastro dovuto a stelle già vecchie nonostante l’universo in quell’epoca fosse ancora molto giovane. Il riquadro a sfondo bianco mostra invece lo spettro (cioè la scomposizione della luce della galassia alle lunghezze d’onda infrarosse) da cui è possibile estrarre informazioni sulla massa, sull’età delle stelle e sulla presenza e caratteristiche del buco nero centrale. Crediti: Adam C. Carnall et a., Nature, 2023

Un tempo di vita di alcune centinaia di milioni di anni è quanto l’universo ha concesso alla galassia Gs-9209. Nonostante questo, è riuscita a mettere insieme velocemente una massa di 400 miliardi di soli e, all’epoca in cui gli astronomi l’hanno osservata, mentre nell’universo tutto stava appena cominciando, era già vecchia. Era quiescente, per usare il termine di chi studia l’evoluzione delle galassie, e che indica una galassia che ha già finito il suo combustibile per formare nuove stelle ed è destinata a evolvere passivamente diventando sempre più rossa e debole. Tanto che, prima di Webb, era impossibile studiarla in dettaglio. Gs-9209 è una galassia dieci volte più piccola della Via Lattea, ma compatta, perché contiene circa lo stesso numero di stelle. Gli astronomi l’hanno osservata appena 1.25 miliardi di anni dopo il Big bang, e ne hanno parlato in un articolo pubblicato ieri su Nature.

Non è la prima volta che il telescopio James Webb, con la sua capacità di guardare in profondità nel cosmo, ci stupisce mostrandoci galassie mature nell’universo primordiale. Infatti, da quando il telescopio ha iniziato a osservare si è diffusa l’idea che durante le prime fasi di vita dell’universo, l’evoluzione di alcune galassie abbia seguito un ritmo molto veloce.

Negli ultimi anni, altri studi avevano visto in Gs-9209 una potenziale galassia primordiale, massiccia e già passiva, ma prima di Webb non esistevano strumenti che riuscissero a osservarla in dettaglio e rivelarne con precisione la natura, né la distanza. A Webb, invece, sono bastate poche ore di integrazione con lo strumento NirSpec, il 16 novembre 2022. I dati spettroscopici hanno permesso non solo di stimarne con precisione la distanza, ma anche di calcolarne la massa, di verificare che essa non stesse più formando nuove stelle e, infine, di ricostruire la storia passata.

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Le frecce indicano alcuni esempi di galassie sferoidali di grande massa. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, F. Pacaud, D. Coe

Il primato di Gs-9209 è che si tratta della più lontana nel suo genere, ovvero la più lontana galassia sferoidale e passiva. Dall’analisi, poi, è emerso che la sua formazione è avvenuta tra 600 e 800 milioni di anni dopo il Big Bang, dopodiché il processo di formazione di nuove stelle al suo interno si è fermato. All’epoca in cui è stata osservata, per la precisione, gli autori hanno stimato che avesse interrotto la formazione di nuove stelle da circa 500 milioni di anni.

Infine, la galassia primordiale contiene anche un buco nero supermassiccio. È quasi una regola per le galassie averne uno, è vero, ma la particolarità è che questo è molto più grande di quanto ci si aspetterebbe per una simile galassia. Una scoperta che ha aperto subito la possibilità che vi sia proprio questo oggetto dietro l’interruzione della formazione di nuove stelle.

«Lo stato di quiescenza in cui si trova Gs-9209 è strettamente correlato alla presenza, nel centro della galassia, di un buco nero supermassiccio con una massa tra mezzo miliardo e un miliardo di volte la massa del Sole», spiega Andrea Cimatti, direttore del Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. «Si tratta di una massa cinque volte più grande di quanto ci si potrebbe aspettare in relazione al numero di stelle presente nella galassia: un dato che potrebbe spiegare perché il processo di formazione stellare si è interrotto».

Secondo gli autori, infatti, crescendo il buco nero supermassiccio al centro ha rilasciato enormi quantità di radiazioni ad alta energia, che hanno riscaldato e spinto il gas fuori dalla galassia. Gas che serve da combustibile essenziale per la formazione stellare.

La particolarità di questa galassia, comunque, non è che una bella sorpresa per gli studiosi dell’evoluzione delle galassie, in quanto conferma alcune delle ipotesi finora formulate sulla nascita delle galassie sferoidali. Quelle che conosciamo nell’universo vicino e a cui diamo questo nome sono in generale molto massicce, popolate da stelle molto vecchie e rosse (con età fino a 13 miliardi di anni) e con un buco nero supermassiccio al centro. Per spiegare queste caratteristiche, quindi, era necessario ipotizzare che la formazione stellare fosse avvenuta molto tempo fa e molto rapidamente, e che qualche processo l’avesse poi improvvisamente arrestata. Esattamente quanto accaduto, secondo questo studio, a Gs-9209.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A massive quiescent galaxy at redshift 4.658“, di Adam C. Carnall, Ross J. McLure, James S. Dunlop, Derek J. McLeod, Vivienne Wild, Fergus Cullen, Dan Magee, Ryan Begley, Andrea Cimatti, Callum T. Donnan, Massissilia L. Hamadouche, Sophie M. Jewell e Sam Walker


Dal Gateway alla Luna con il lander di Blue Origin


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Rappresentazione artistica del lander Blue Moon. Crediti: Blue Origin

Dopo SpaceX, la ormai ben nota azienda di Elon Musk, sarà Blue Origin, capitanata da Jeff Bezos, a sviluppare, per conto della Nasa, un sistema di atterraggio umano per le missioni Artemis, che porteranno di nuovo l’uomo sulla Luna. L’azienda progetterà, svilupperà, testerà e verificherà il suo lander Blue Moon per soddisfare i requisiti del sistema di atterraggio umano della Nasa per le spedizioni di astronauti sulla superficie lunare. Tra questi anche l’aggancio con il Gateway, una stazione spaziale che orbiterà intorno alla Luna come punto di appoggio tra il nostro pianeta e la superficie lunare. Il valore totale del contratto è di 3,4 miliardi di dollari.

Oltre al lavoro di progettazione e sviluppo, il contratto prevede una missione dimostrativa senza equipaggio sulla superficie lunare, e in seguito una dimostrazione con equipaggio nella missione Artemis V, che dovrebbe partire nel 2029. In questa missione, il potente razzo Space Launch System (Sls) della Nasa lancerà quattro astronauti a bordo della navicella Orion, progettata anch’essa dalla Nasa, con un importante contributo europeo per il modulo di servizio. Una volta arrivati in orbita lunare, sarà la stazione spaziale Gateway ad accoglierli. Da qui, la crew si trasferirà nel sistema di atterraggio di Blue Origin, che dopo un viaggio della durata di circa una settimana, consentirà loro di allunare nella regione del polo sud, dove gli astronauti condurranno attività scientifiche ed esplorative.

L’obiettivo del programma Artemis della Nasa è quello di inviare astronauti – tra cui la prima donna e la prima persona di colore – a esplorare la Luna per scoperte scientifiche, ritorni economici e per costruire le basi per le future missioni con equipaggio su Marte.

«Siamo in un’epoca d’oro per il volo spaziale umano, reso possibile dalle partnership commerciali e internazionali della Nasa. Insieme, stiamo facendo un investimento nell’infrastruttura che aprirà la strada all’atterraggio dei primi astronauti su Marte», ha dichiarato l’amministratore della Nasa Bill Nelson.

«Avere due distinti progetti di lander lunari, con approcci diversi per soddisfare le esigenze di missione della Nasa, offre maggiore solidità e garantisce una cadenza regolare di atterraggi sulla Luna», dice Lisa Watson-Morgan, manager del programma Human Landing System presso il Marshall Space Flight Center della Nasa a Huntsville, in Alabama. «Questo approccio competitivo spinge all’innovazione, riduce i costi e investe nelle capacità commerciali per far crescere le opportunità di business e promuovere un’economia lunare».

Blue Origin, fondata nel 2000 da Jeff Bezos, fondatore anche di Amazon, è attiva nello sviluppo di motori a razzo, razzi avanzati, veicoli spaziali e veicoli di lancio per carichi pesanti. Il lander lunare sviluppato dall’azienda, Blue Moon, è attualmente in fase di sviluppo da parte di un consorzio guidato da Blue Origin e comprendente Lockheed Martin, Draper, Boeing, Astrobotic e Honeybee Robotics.


Buchi neri intermedi, ecco l’anello mancante


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L’antichissimo ammasso di galassie Messier 4 (M4). Crediti: Esa/Gaia/Dpac. Acknowledgement: T. Roegiers, making use of Aladin Lite

In uno studio pubblicato oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un gruppo di ricercatori guidati dallo Space Telescope Science Institute (StscI) ha sfruttato i dati raccolti dal satellite dell’Esa Gaia, nello specifico quelli della Data Release 3, e altri ottenuti dal telescopio spaziale Hubble (Nasa ed Esa) per studiare – all’interno dell’antichissimo ammasso stellare Messier 4 (M4), il più vicino alla Terra – qualcosa di insolito: un’enorme massa oscura al centro dell’ammasso, 800 volte più massiccio del nostro Sole, che potrebbe essere un buco nero di massa intermedia.

«Utilizzando gli ultimi dati di Gaia e Hubble», spiega Eduardo Vitral, primo autore dell’articolo e ricercatore presso lo Space Telescope Science Institute, «era impossibile distinguere tra una popolazione di resti stellari e una singola sorgente puntiforme più grande. Quindi una delle possibili teorie è che invece di essere tanti piccoli oggetti separati, questa massa scura potrebbe essere un buco nero di medie dimensioni».

Gli astronomi stanno cercando di risolvere il mistero dei buchi neri di massa intermedia da oltre due decenni. La maggior parte dei buchi neri che conosciamo sono i resti più piccoli di stelle giganti (fino a cento volte la massa del Sole) o i “nuclei” supermassicci di grandi galassie, con masse che possono arrivare a miliardi di volte quella del Sole. Con un “peso” compreso tra 100 e 1 milione di soli, i buchi neri di massa intermedia sarebbero l’anello di congiunzione tra le due tipologie.

«I dati Gaia della Data Release 3 sul moto proprio delle stelle nella Via Lattea sono stati essenziali in questo studio», sottolinea Timo Prusti, project scientist della missione Gaia. «I dati che verranno pubblicati in futuro e gli studi di follow-up dei telescopi spaziali Hubble e James Webb potrebbero fare ulteriore luce su questo mistero».

«Nel prossimo futuro», aggiunge Luigi Bedin, ricercatore all’Inaf di Padova e co-autore dell’articolo, «avremo modo di caratterizzare meglio questo eccesso di massa grazie a un’analisi di 120 orbite di dati Hubble e soprattutto grazie a nuove osservazioni del James Webb di M4 appena raccolte (lo scorso 9 aprile 2023, sotto il programma GO-1979, del quale sono il principal investigator), dati specificamente disegnati per questo tipo di survey, ma non utilizzati in questo lavoro».

Alla ricerca hanno partecipato anche Mattia Libralato e Andrea Bellini, due astronomi italiani ricercatori allo Stsci

Per saperne di più:


E se ricevessimo un messaggio alieno?


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Banner del progetto ‘A sign in space’

Che cosa accadrebbe se ricevessimo un messaggio da una civiltà extraterrestre? Che cosa significherebbe per l’umanità? Sono le domande che si pone Daniela de Paulis, artista multimediale e operatrice radio italiana residente nei Paesi Bassi, che attualmente ricopre il ruolo di artist in residence presso il Seti Institute e il Green Bank Observatory negli Stati Uniti. Per affrontare questi interrogativi, l’artista ha riunito un team di esperti internazionali che comprende anche ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), per mettere in scena un progetto unico nel suo genere: ‘A Sign in Space’.

Con il titolo che strizza l’occhio al racconto ‘Un segno nello spazio’ delle Cosmicomiche di Italo Calvino, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, il progetto prevede una performance spaziale che coinvolge una sonda interplanetaria, tre radiotelescopi e – potenzialmente – tutti gli abitanti del pianeta Terra. Il 24 maggio, l’ExoMars Trace Gas Orbiter (Tgo) dell’Agenzia spaziale europea (Esa) in orbita attorno a Marte, trasmetterà verso il nostro pianeta un messaggio codificato per simulare la ricezione di un segnale proveniente da una civiltà extraterrestre. Il messaggio sarà catturato dalla parabola da 32 metri della stazione radioastronomica di Medicina, gestita dall’Inaf, insieme a due radiotelescopi negli Stati Uniti: l’Allen Telescope Array del Seti Institute, in California, e il Robert C. Byrd Green Bank Telescope presso il Green Bank Observatory (Gbo), West Virginia.

Il contenuto del messaggio, sviluppato da de Paulis insieme a un team interdisciplinare, è attualmente segreto: la ricezione segna così l’inizio di una sfida planetaria che coinvolgerà il pubblico di tutto il mondo nella decodifica del messaggio e nell’interpretazione del suo contenuto. Questo processo richiede una cooperazione globale, aprendo una conversazione tra scienza e società sui temi legati al Seti, ovvero la ricerca di intelligenza extraterrestre (in inglese, search for extra-terrestrial intelligence) che abbraccia molteplici culture e discipline.

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La parabola da 32 metri presso la stazione radioastronomica di Medicina. Crediti: Inaf/Renato Cerisola

«Nel corso della storia, l’umanità ha cercato un significato in fenomeni potenti e trasformativi», afferma Daniela de Paulis, principal investigator del progetto ‘A Sign in Space’. «Ricevere un messaggio da una civiltà extraterrestre sarebbe un’esperienza profondamente trasformativa per tutta l’umanità. ‘A Sign in Space’ offre l’opportunità senza precedenti di provare in modo tangibile e prepararsi a questo scenario attraverso la collaborazione globale, promuovendo una ricerca di significato senza termine prestabilito, che coinvolge tutte le culture e discipline».

Il Tgo dell’Esa trasmetterà il messaggio il 24 maggio alle 21:00 ora italiana, con ricezione sulla Terra prevista circa 16 minuti dopo. A partire dalle 20:15 ora italiana, il Seti Institute trasmetterà l’evento in diretta streaming (in inglese) con interviste ai membri chiave del team, inclusi scienziati e ingegneri dell’Inaf, condotto da Franck Marchis del Seti Institute e da Victoria Catlett del Gbo.

Germano Bianchi, tecnologo Inaf presso la stazione radioastronomica di Medicina, commenta: «Andremo finalmente a testare la nostra tecnologia, che abbiamo realizzato per la ricerca Seti, ricevendo un segnale ‘reale’. In questo modo, simuleremo perfettamente tutta la procedura come se ricevessimo un segnale artificiale proveniente da una civiltà intelligente, dall’acquisizione del dato alla condivisione delle informazioni con la comunità Seti. Una opportunità quindi unica».

Chiunque volesse partecipare al challenge potrà, subito dopo la trasmissione del Seti Institute, scaricare i dati per cercare di decodificare il messaggio e interpretarne il contenuto, unendosi alla discussione sul sito web del progetto e sulla piattaforma online Discord. Nelle settimane successive, sono previsti una serie di webinar (in inglese) per guidare il pubblico nell’impresa. Il 31 maggio alle 16:00 ora italiana, una diretta in italiano andrà in onda sui canali del magazine EduInaf, con la partecipazione dell’artista insieme ai protagonisti Inaf del progetto per guidare il pubblico nell’impresa e fare il punto sui primi tentativi di decodifica e interpretazione del messaggio.

Guarda il servizio su Media Inaf Tv:

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Trovato un potenziale nuovo mondo vulcanico


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Rappresentazione artistica di Lp 791-18 d, un mondo delle dimensioni della Terra a circa 90 anni luce di distanza. Gli astronomi hanno scoperto e studiato il pianeta utilizzando i dati del telescopio spaziale Spitzer e di Tess della Nasa, insieme a molti altri osservatori. Crediti: Goddard Space Flight Center della Nasa/Chris Smith (KRBwyle)

Immaginate un mondo dominato dai vulcani. Un continuo e terrificante spettacolo di violente eruzioni che raggiungono chilometri di altezza e impetuose colate laviche che si fanno spazio sulla superficie. Potrebbe sembrare un girone dell’inferno, ma posti di questo tipo esistono nella realtà, e alcuni di questi li abbiamo osservati. Per esempio, la luna di Giove Io, il cui interno viene riscaldato dalla forza gravitazionale esercitata dal gigante gassoso e dalle altre lune, e l’energia termica viene poi rilasciata attraverso un’intensa attività vulcanica che coinvolge tutta la superficie.

Una dinamica simile sembra avvenire su un esopianeta coperto da vulcani, recentemente scoperto da un team di ricercatori guidato da Merrin Peterson, dell’Istituto Trottier per la ricerca sugli esopianeti (iREx) con sede all’Università di Montreal. Lp 791-18 d – questo il suo nome – è stato identificato utilizzando i dati del Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess), del telescopio spaziale Spitzer, ormai in pensione dal 2020, e di diversi osservatori terrestri. Il team autore della ricerca, pubblicata la scorsa settimana su Nature, ha riscontrato che il pianeta in questione, che orbita attorno a una nana rossa a circa 90 anni luce da noi, in direzione della costellazione meridionale del Cratere, possiede dimensioni e massa simili a quelle terrestri.

Lp 791-18 d percorre il suo cammino attorno alla piccola e fredda stella insieme ad altri due compagni, già scoperti in precedenza. Il più esterno di questi, Lp 791-18 c, un cosiddetto mininettuno, è circa 2,5 volte più grande della Terra e possiede una massa sette volte maggiore. Questo pianeta – che come si può dedurre dal nome che lo classifica è molto simile al nostro vicino Nettuno, ma possiede dimensioni inferiori – ha un percorso orbitale che passa a breve distanza dal nuovo scoperto Lp 791-18 d. La spinta gravitazionale causata dal passaggio ravvicinato rende l’orbita di Lp 791-18 d ellittica, e questo causa una leggera deformazione del pianeta ogni volta che orbita intorno alla stella. A sua volta, la deformazione crea una sorta di attrito che scalda l’interno del pianeta, e produce un’intensa attività vulcanica sulla superficie.

Se questo mondo fosse geologicamente attivo come i ricercatori sospettano, potrebbe mantenere un’atmosfera. Inoltre, Lp 791-18 d si trova nel bordo interno della zona abitabile della stella, la zona all’interno della quale è ritenuta possibile la presenza di acqua liquida in superficie. Acqua che, stando allo studio, potrebbe condensare su un lato del pianeta. Infatti, Lp 791-18 d rivolge sempre la stessa faccia alla sua stella, un po’ come avviene per la Luna nei confronti della Terra. Questo significa che un lato potrebbe essere troppo caldo per mantenere l’acqua allo stato liquido, mentre il lato opposto, costantemente al buio e al riparo dalla radiazione della stella, sarebbe sufficientemente temperato da consentirne la presenza.

«Una grande domanda dell’astrobiologia, il campo che studia in generale le origini della vita sulla Terra e oltre, è se l’attività tettonica o vulcanica sia necessaria per la vita», dice il coautore dello studio Jessie Christiansen, ricercatore presso l’Exoplanet Science Institute della Nasa al California Institute of Technology di Pasadena. «Oltre a consentire potenzialmente un’atmosfera, questi processi potrebbero far emergere materiali che altrimenti sprofonderebbero e rimarrebbero intrappolati nella crosta, compresi quelli che riteniamo importanti per la vita, come il carbonio».

Il pianeta c è già stato inserito in lista per essere osservato dal James Webb Space Telescope, e il team ritiene che anche il pianeta d sia un candidato eccezionale per i dettagliati studi atmosferici del telescopio.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A temperate Earth-sized planet with tidal heating transiting an M6 star” di S. Peterson, Björn Benneke, Karen Collins, Caroline Piaulet, Ian J. M. Crossfield, Mohamad Ali-Dib, Jessie L. Christiansen, Jonathan Gagné, Jackie Faherty, Edwin Kite, Courtney Dressing, David Charbonneau, Felipe Murgas, Marion Cointepas, Jose Manuel Almenara, Xavier Bonfils, Stephen Kane, Michael W. Werner, Varoujan Gorjian, Pierre-Alexis Roy, Avi Shporer, Francisco J. Pozuelos, Quentin Jay Socia, Ryan Cloutier, Jeremy Dietrich, Jonathan Irwin, Lauren Weiss, William Waalkes, Zach Berta-Thomson, Thomas Evans, Daniel Apai, Hannu Parviainen, Enric Pallé, Norio Narita, Andrew W. Howard, Diana Dragomir, Khalid Barkaoui, Michaël Gillon, Emmanuel Jehin, Elsa Ducrot, Zouhair Benkhaldoun, Akihiko Fukui, Mayuko Mori, Taku Nishiumi, Kiyoe Kawauchi, George Ricker, David W. Latham, Joshua N. Winn, Sara Seager, Howard Isaacson, Alex Bixel, Aidan Gibbs, Jon M. Jenkins, Jeffrey C. Smith, Jose Perez Chavez, Benjamin V. Rackham, Thomas Henning, Paul Gabor, Wen-Ping Chen, Nestor Espinoza, Eric L. N. Jensen, Kevin I. Collins, Richard P. Schwarz, Dennis M. Conti, Gavin Wang, John F. Kielkopf, Shude Mao, Keith Horne, Ramotholo Sefako, Samuel N. Quinn, Dan Moldovan, Michael Fausnaugh, Gábor Fűűrész & Thomas Barclay


Centomila lenti gravitazionali in un batter d’occhio


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Lenti gravitazionali simulate per addestrare Lemon. Le prime 4 lenti gravitazionali in alto simulano le immagini ottenute con Hubble, mentre le altre 4 quelle che in futuro otterrà Euclid. Crediti: F. Gentile et al., Mnras, 2023

Le galassie nascono, crescono, si incontrano con altre galassie, vivono in ambienti diversi. Le loro proprietà, la forma, la dimensione, il contenuto di gas e polveri, di stelle e di materia oscura, la composizione chimica, o la massa variano col tempo, anche in funzione di altre proprietà. Gli astronomi studiano quelle che si chiamano relazioni di scala, e cioè mettono in correlazione varie proprietà galattiche, e le confrontano con modelli e simulazioni, in funzione del tempo cosmico e dell’ambiente nel quale le galassie vivono (ad esempio negli ammassi o isolate), per poter estrarre informazioni sui processi fisici che hanno guidato la loro formazione ed evoluzione. La massa totale delle galassie è principalmente ottenuta attraverso la misura dei moti delle stelle, o attraverso curve di rotazione in galassie a spirale, oppure misurando la dispersione dei moti stellari in galassie con moti caotici, come le ellittiche massive. Ma questo tipo di osservazioni è spesso difficile da effettuare, soprattutto per galassie molto distanti. Il fenomeno delle lenti gravitazionali fornisce una stima di massa alternativa, basata sulle predizioni della relatività generale di Einstein.

Si forma una lente gravitazionale quando dietro a una galassia più vicina (che chiameremo “lente”) si trova un’altra galassia (di fondo). Infatti, la lente, attraverso la sua gravità, modifica i percorsi della luce emessa dalla galassia di fondo. Il risultato di questo fenomeno è spettacolare come un miraggio, generando immagini multiple della sorgente di fondo, o distorcendo la luce della sorgente, proprio come uno specchio che deforma la nostra immagine. Quello che gli astronomi osservano è quindi una galassia (la lente) circondata da immagini multiple della stessa sorgente di fondo. Oppure osservano la lente circondata da un anello o da archi, che sono l’immagine distorta di quella galassia di fondo. Trovare queste lenti gravitazionali in gran numero e poterle modellare velocemente consentirà di poter studiare il contenuto di materia e di materia oscura in funzione del tempo cosmico per un numero enorme di galassie. Un gruppo di ricerca che comprende ricercatori dell’Inaf, di università italiane e internazionali ha applicato le reti neurali per modellare le lenti gravitazionali con scopo ultimo di stimarne le masse totali.

«Durante la mia tesi triennale», dice a Media Inaf Fabrizio Gentile, dottorando all’Università di Bologna e primo autore dello studio pubblicato questo mese su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (Mnras), «ho iniziato a lavorare alle lenti gravitazionali applicando un metodo, basato sulle reti neurali convoluzionali, per scovarle nei dati presi con il telescopio Vst, ideato a Napoli e situato sulle Ande Cilene. Queste reti neurali sono perfette per riconoscere pattern nelle immagini, e durante la mia tesi magistrale abbiamo mostrato che possono anche essere utilizzate per stimare parametri caratteristici delle lenti, come la forma della galassia e il cosiddetto raggio di Einstein». L’anello di Einstein è un particolare caso di lente gravitazionale che si forma quando sorgente di fondo e galassia lente sono perfettamente allineate, e la sorgente di fondo viene vista come un anello che circonda la lente. «Abbiamo investigato ulteriormente questa tecnica e ne abbiamo pubblicato i risultati in un articolo su Mnras. Abbiamo chiamato la nostra rete Lemon, acronimo di Lens modelling with neural network».

«Abbiamo iniziato questo percorso qualche anno fa, sviluppando a Groningen delle reti neurali che si sono dimostrate efficientissime nel trovare nuove lenti gravitazionali», ricorda il coordinatore del progetto, Crescenzo Tortora, ricercatore all’Inaf di Napoli, «e il lavoro è poi proseguito anche assieme a collaboratori cinesi. Non siamo i soli a lavorare in questo campo, ma stiamo fornendo il nostro contributo per poter sfruttare le potenzialità di questi algoritmi in astrofisica e in particolare nello studio delle proprietà delle galassie. Infatti, il passo successivo è stato quello di estrarne le proprietà, di modellarle, per arrivare poi a una stima di massa, utilizzando le enormi potenzialità delle reti neurali, capaci di performare quanto tecniche usuali, ma al contempo richiedendo dei tempi computazionali enormemente minori. Le lenti gravitazionali permettono di ottenere la stima più precisa di massa in astrofisica, che dipende dal raggio di Einstein modellato e dalle distanze di lente e sorgente. Queste ultime possono essere determinate attraverso osservazioni spettroscopiche indipendenti».

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I primi tre autori dell’articolo pubblicato su Mnras. Da sinistra, Crescenzo Tortora, Fabrizio Gentile e Giovanni Covone

Ma come funziona Lemon? «Lemon è una rete neurale bayesiana, derivata da una modifica delle reti neurali convoluzionali classiche, utilizzata per determinare i parametri distintivi delle lenti, ma con l’ulteriore vantaggio di fornire anche una stima dell’incertezza sui parametri determinati”, spiega Gentile.

«In fisica e in astronomia, e in qualsiasi processo osservativo, la stima delle incertezze statistiche su una misura o su un parametro è fondamentale per capirne l’affidabilità, la precisione della nostra conoscenza su quella specifica quantità, e quindi capire quanto precise sono le relazioni di scala che utilizzano proprio quei parametri», aggiunge Giovanni Covone, professore all’Università di Napoli Federico II e coautore dell’articolo. «Le reti neurali convoluzionali sono ispirate alle cortecce visive animali, e si sono dimostrate in più occasioni, anche al di fuori dell’astrofisica, tecniche di riconoscimento delle immagini molto efficaci. Queste nuove reti bayesiane consentono, in più, di fornire degli errori sui parametri caratteristici della lente gravitazionale»

«Abbiamo creato delle lenti gravitazionali simulate, emulando le immagini prese dal telescopio spaziale Hubble e quelle che in futuro verranno osservate da Euclid. Una volta creato un campione di lenti simulate, detto campione di addestramento, abbiamo addestrato la rete neurale ad associare a quella particolare lente gravitazionale, con la sua particolare configurazione, quell’insieme di parametri. Una volta addestrata la rete, l’abbiamo applicata a un campione, detto di test, che la rete non aveva mai visto, per appurare che riuscisse, una volta “viste” queste nuove lenti, a stimarne i parametri», continua Gentile. «Quindi, in un secondo momento abbiamo applicato Lemon, addestrata precedentemente, a un campione reale di lenti del campione Slacs, osservate proprio con Hubble, ottenendo delle stime dei parametri in completo accordo con tecniche di analisi più usuali».

Questo tipo di tecniche avrà una estesa applicazione ai dati che verranno. «Siamo coinvolti all’interno della collaborazione Euclid, un telescopio spaziale che verrà lanciato con SpaceX questo luglio. Siamo anche coinvolti direttamente nell’implementazione di Lemon all’interno della pipeline che si occuperà della modellizzazione delle lenti che Euclid scoprirà. Euclid, con i suoi 15mila gradi quadrati osservati, circa un terzo dell’intera volta celeste, ci permetterà di scoprire un enorme numero di lenti gravitazionali, più di centomila, aumentando di oltre cento volte il numero di lenti attualmente conosciute. Seppur raro come evento, su un area di cielo così grande il numero di galassie da analizzare per scoprirle saranno milioni, e quelle da modellizzare saranno decine di migliaia. Lemon permetterà di analizzarle in un batter d’occhio», conclude Tortora.

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Riconoscimento a EduInaf per il Premio “Basile”


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A sinistra, Livia Giacomini, direttrice di EduInaf, mentre ritira la pergamena con la segnalazione di merito del Premio Basile per la sezione “Reti e sistemi formativi”

Il Premio “Filippo Basile”, giunto alla sua 21esima edizione nel 2023, è promosso dall’Associazione italiana formatori (Aif) e ha come obiettivo quello di valorizzare e diffondere le migliori esperienze formative realizzate dalle pubbliche amministrazioni. Il Premio è stato istituito in ricordo di Filippo Basile, dirigente della Regione Sicilia assassinato nel 1999, ed è rivolto a tutte le pubbliche amministrazioni, tra cui comuni, regioni, enti di ricerca, università e istituti scolastici.

La cerimonia di premiazione si è svolta oggi, venerdì 19 maggio, a Roma, nell’Auditorium della Consob, nell’ambito della 19esima edizione del Convegno Aif dedicato alla formazione nella pubblica amministrazione. E fra i progetti premiati c’è anche EduInaf, il magazine di didattica e divulgazione dell’Istituto nazionale di astrofisica, al quale è stata conferita una segnalazione di merito per la formazione nella Pubblica amministrazione nella sezione “Reti e sistemi formativi”. A ritirare il premio è stata Livia Giacomini, direttrice di EduInaf, in rappresentanza di tutta la redazione.

«Siamo molto felici di questa segnalazione di merito, che riconosce l’impegno nel settore della formazione. EduInaf è stato infatti premiato», dice Giacomini, «per la sua natura di network online dedicato alla formazione innovativa di insegnanti, ricercatori, divulgatori e altri formatori nel campo dell’astrofisica e della scienza. Ma EduInaf è solo la punta dell’iceberg e il premio è un riconoscimento di valore per tutta la comunità Inaf che si occupa di didattica e divulgazione, negli istituti, osservatori e musei del nostro ente sparsi in tutta Italia. Sono diverse, le iniziative innovative nate da questa comunità che sono state premiate dalla giuria. Come i concorsi di disegno o scrittura di ispirazione astronomica dedicati alle scuole, come le dirette osservative che portano la bellezza del cielo nei nostri salotti o infine come i “Quaderni didattici”, che propongono a insegnanti di ogni ordine e grado l’astronomia come strumento per appassionare i giovani all’apprendimento e approcciare in modo innovativo le altre materie scolastiche».


Lo strano caso dei pesi supermassimi


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Questa immagine dell’ammasso di galassie Smacs 0723 è stata la prima immagine rilasciata da Jwst nel luglio 2023. I cinque zoom hanno ciascuno un’ampiezza di circa 19mila anni luce e mostrano galassie viste circa 13 miliardi di anni indietro nel tempo. Un’attenta analisi di queste galassie rivela che, se non riusciamo a risolvere l’immagine di una galassia, potremmo sottostimare pesantemente la massa totale delle sue stelle. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI / Giménez Arteaga et al. (2023), Peter Laursen (Cosmic Dawn Center).

Se avete seguito i primi risultati del James Webb Space Telescope (Jwst), probabilmente vi ricorderete dei sei pesi massimi all’alba dell’universo, sei galassie che risalgono a un’epoca in cui l’universo aveva circa 600 milioni di anni, talmente massicce da mettere in discussione la maggior parte degli attuali modelli cosmologici.

Insomma, già dopo pochi giorni dal rilascio delle prime immagini, e ripetutamente nei mesi successivi, sono apparse nuove segnalazioni di galassie sempre più lontane che, in modo inquietante, sembravano essere decisamente “troppo massicce”.

In base al modello cosmologico standard, queste strutture non avrebbero dovuto avere il tempo di formare così tante stelle. Sebbene tale modello non sia certo un Santo Graal indistruttibile, ci sono molte ragioni per essere cauti nel rivendicare un cambio di paradigma: le epoche misurate in cui vediamo le galassie potrebbero essere sottostimate. Le masse stellari potrebbero essere sovrastimate. Oppure, potremmo avere avuto la fortuna di scoprire la più massiccia delle galassie a quell’epoca.

In uno studio appena pubblicato su Astrophysical Journal, Clara Giménez Arteaga, dottoranda presso il Cosmic Dawn Center in Danimarca, propone un effetto che potrebbe aumentare ulteriormente la tensione. In sostanza, la massa stellare di una galassia viene stimata misurando la quantità di luce emessa dalla galassia e calcolando quante stelle sono necessarie per emettere tale luminosità. L’approccio usuale è considerare la luce combinata dell’intera galassia. Tuttavia, esaminando più da vicino un campione di cinque galassie osservato con Webb, Giménez Arteaga ha scoperto che se non si considera la galassia come un grande ammasso di stelle, bensì come un’entità composta da più sorgenti, il quadro che emerge è ben diverso.

«Abbiamo utilizzato la procedura standard per calcolare le masse stellari dalle immagini scattate da James Webb, ma pixel per pixel anziché guardare l’intera galassia», descrive Giménez Arteaga. «In linea di principio, ci si potrebbe aspettare che i risultati siano gli stessi: sommando la luce di tutti i pixel e trovando la massa stellare totale, invece di calcolare la massa di ciascun pixel e sommando tutte le singole masse stellari. Ma non lo sono».

In effetti, le masse stellari dedotte in questo modo si sono rivelate fino a dieci volte più grandi.

La figura sottostante mostra le cinque galassie con le loro masse stellari determinate con i due metodi. Se i due diversi approcci fossero d’accordo, tutte le galassie si troverebbero lungo la diagonale del rettangolo. Ma invece si trovano tutte al di sopra di questa linea. Qual è la ragione per cui le masse stellari risultano essere molto maggiori?

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Le cinque galassie collocate in un diagramma che mostra sia la massa stellare calcolata nel “solito” modo (in blu, sull’asse orizzontale) sia usando il metodo pixel per pixel di Clara Giménez Arteaga (in rosso, sull’asse verticale). In tutti i casi, le masse trovate utilizzando il metodo pixel per pixel sono maggiori. Crediti: Giménez Arteaga et al. (2023), Peter Laursen (Cosmic Dawn Center).

Secondo Giménez Arteaga, «le popolazioni stellari sono un misto di stelle piccole e deboli da un lato e stelle luminose e massicce dall’altro. Se guardiamo solo alla luce combinata, le stelle luminose tenderanno a eclissare completamente le stelle deboli, facendole passare inosservate. La nostra analisi mostra che gli ammassi luminosi che formano stelle possono dominare la luce totale, ma la maggior parte della massa si trova nelle stelle più piccole».

La massa stellare è una delle principali proprietà utilizzate per caratterizzare una galassia, e il risultato di Giménez Arteaga sottolinea l’importanza di poter risolvere le immagini delle galassie. Ma per quelle più lontane e deboli, non è sempre possibile. L’effetto è stato studiato in precedenza, ma solo per epoche molto successive nella storia dell’universo. Occorre cercare firme che non richiedano un’alta risoluzione e che siano correlate con la “vera” massa stellare.

«Anche altri studi in epoche molto successive hanno riscontrato questa discrepanza. Se riusciamo a determinare quanto sia comune e grave l’effetto in epoche precedenti e a quantificarlo, saremo più vicini a poter dedurre le masse stellari di galassie lontane in maniera robusta, che è attualmente una delle principali sfide nello studio delle galassie nell’universo primordiale», conclude Clara Giménez Arteaga.

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Attenti al Lupus 3


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L’immagine ad alta risoluzione della nebulosa Lupus 3, e della nebulosa a riflessione Bernes 149 illuminata dalle due giovani stelle blu HR 5999 e HR 6000. Crediti: Ctio/NoirLab/Doe/Nsf/Aura/ T.A. Rector (University of Alaska Anchorage/Nsf’s NoirLab), D. de Martin & M. Zamani (Nsf’s NoirLab)

Catturata in un unico sguardo dallo specchio di 4 metri del telescopio Víctor M. Blanco a Cerro Tololo, in Cile, e dalla sua Dark Energy Camera da 570 megapixel, la nebulosa oscura Lupus 3 non potrebbe essere più nitida: un vivaio di stelle in formazione, che ha lasciato emergere la sua coppia di neonate più vecchie, due stelle brillanti e blu.

Lupus 3 è una delle almeno nove nubi del massiccio complesso Lupus, dista circa 500 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione del Lupo, e si estende su un’area di cielo ampia come circa 24 diametri di Luna. È completamente oscura. Non fosse per queste due giovani stelle che sono riuscite a emergere dai loro bozzoli di gas e polvere illuminando l’ambiente circostante e creando, proprio per questo, la nebulosa a riflessione Bernes 149, di colore blu brillante. Si chiamano HR 5999 e HR 6000, hanno circa un milione di anni e sono, lo dicevamo, le più vecchie fra le giovani nate. Le uniche, fra tutte le protostelle ancora nascoste nell’oscurità di Lupus 3, ad aver acceso la fusione nucleare al centro e spazzato via il materiale circostante.

Tutte le altre sono ancora in una fase di pre-sequenza e fanno parte della categoria T-tauri: stelle (o quasi) che non hanno ancora acceso la fusione nucleare al centro ma sono alimentate dalla gravità, che comprime e riscalda la materia al loro interno. Utilizzeranno il materiale – la povere e il gas – a disposizione nella nebulosa per acquisire sufficiente massa e accendersi, come hanno fatto le due sorelle luminose.


Scoperta la prima fascia di radiazione extrasolare


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Illustrazione artistica che mostra un’aurora e la cintura di radiazione attorno alla nana bruna Lsr J1835+3259. Crediti: Chuck Carter, Melodie Kao, Heising-Simons Foundation

Le cinture o fasce di radiazioni (in inglese, radiation belts) sono regioni ricche di particelle cariche intrappolate dal campo magnetico di un corpo celeste nella sua magnetosfera. Sino ad oggi queste strutture a forma di ciambella sono state osservate solo attorno ad alcuni pianeti del Sistema solare. Un team di astronomi guidati dall’Università della California a Santa Cruz (Ucsc) ha ora rivelato per la prima volta la presenza di simili regioni attorno a un corpo non planetario fuori dal Sistema solare.

«Abbiamo studiato la magnetosfera del nostro target tracciando le emissioni radio del plasma, – la cintura di radiazione. Ciò non è mai stato fatto prima d’ora per un oggetto delle dimensioni di un gigante gassoso al di fuori del Sistema solare», dice Melodie Kao, ricercatrice all’Università della California a Santa Cruz e prima autrice dello studio, pubblicato questa settimana su Nature, che riporta i dettagli della scoperta.

L’oggetto in questione è la nana ultrafredda LsrJ1835+3259, un corpo celeste a 18 anni luce dalla Terra che ha già fatto parlare di sé per la presenza di un’atmosfera in grado produrre aurore – spettacoli di luce simili a quelli che sulla Terra chiamiamo aurore polari, come le “luci del Nord” nell’emisfero boreale. È proprio la presenza di queste aurore che ha spinto gli astronomi a cercare qualche altra caratteristica interessante di questo oggetto celeste. E l’hanno trovata: una nube di elettroni intrappolata nella magnetosfera della “stella fallita” – espressione usata dagli astronomi per riferirsi alle nane brune – che forma una struttura bilobata molto simile alle fasce di radiazione presenti attorno a Giove. La scoperta è stata effettuata utilizzando l’High Sensitivity Array (Hsa), una schiera di 39 antenne radio sparse tra gli Stati Uniti e la Germania nelle cui immagini ad alta risoluzione è stato possibile rilevare il segnale.

Il nostro pianeta possiede due cinture di radiazione – una più interna e una più esterna – chiamate fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense che per primo ha ottenuto l’evidenza della loro esistenza analizzando i dati di Explorer 1, il primo satellite messo in orbita dalla Nasa. Successivamente sono state scoperte cinture di particelle cariche anche attorno a Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Tutti questi corpi celesti hanno in comune la presenza di un campo magnetico abbastanza forte da trattenere le particelle cariche. Ciò che cambia tra un corpo e l’altro è come il campo magnetico viene generato. Nella Terra, ad esempio, è in gran parte prodotto da un oceano di ferro liquido e vorticoso che costituisce il nucleo esterno. Su Giove, invece, il fluido conduttore è l’idrogeno metallico; la stessa materia degenere che secondo i ricercatori produce il campo magnetico delle nane brune come Lsr J1835+3259.

Abbiamo accennato al fatto che Lsr J1835+3259 mostra attività aurorale. Nello studio gli astronomi sono stati in grado di ottenere immagini ad alta risoluzione che hanno permesso di distinguere tra la posizione dell’aurora e le fasce di radiazione.

«Questo è un primo passo fondamentale per trovare molti altri oggetti simili e affinare le nostre capacità per cercare magnetosfere sempre più piccole, permettendoci infine di studiare quelle di pianeti potenzialmente abitabili delle dimensioni della Terra», sottolinea Evgenya Shkolnik, ricercatrice dell’Arizona State University e coautrice dello studio.

Rimangono però alcune domande aperte. Una è la seguente: qual è la fonte del plasma della fascia di radiazione che cinge la nana ultrafredda? Sulla Terra queste particelle provengono dalla nostra stella con il vento solare. Su Giove la fonte sono le eruzioni vulcaniche della luna Io, il corpo vulcanicamente più attivo del Sistema solare. Secondo i ricercatori, su Lsr J1835+3259 potrebbero provenire da pianeti e lune che orbitano attorno alla stella, probabilmente dalla stessa attività vulcanica che semina queste particelle sul gigante gassoso.

«Ora che abbiamo stabilito che questo particolare tipo di emissione radio traccia le fasce di radiazione nei campi magnetici di questi oggetti, quando osserviamo emissioni simili nelle nane brune – ed eventualmente in giganti gassosi – possiamo dire con maggiore certezza che probabilmente hanno un grande campo magnetico, anche se il nostro telescopio non è abbastanza grande per vederne la forma», conclude Kao. «Non vediamo l’ora che il Next Generation Very Large Array (ngVla), attualmente in fase di sviluppo da parte del National Radio Astronomy Observatory (Nrao), sia operativo, per visualizzare molte più fasce di radiazioni extrasolari».

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Assetati di scienza, torna Pint of Science!


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Grafica dell’edizione Pint 2023, con un tardigrado simbolo di resilienza. Crediti: Pint of Science

Weiss, bionda, rossa, stout… ma soprattutto fisica, biologia, astronomia, neuroscienze, storia, chimica, tecnologia. A Pint of Science, la manifestazione che coniuga pinte di scienza a pinte di birra, c’è n’è davvero per tutti i gusti. Il format è quello vincente che i due scienziati dell’Imperial College di Londra – Michael Motskin e Praveen Paul – hanno lanciato nel 2012: i temi più attuali nel panorama della ricerca scientifica verranno presentati non solo in un luogo informale ma anche in modo completamente informale consentendo al grande pubblico di partecipare, intervenire e appassionarsi alla scienza più facilmente. Nelle tre serate, Pint of Science si svolgerà contemporaneamente in 26 nazioni, con più di duemila scienziati coinvolti in tutti i continenti, rendendola di fatto la più grande manifestazione mondiale del suo genere.

«Gli ultimi anni ci hanno insegnato ancora di più il valore della scienza e della ricerca di avanguardia e ci hanno fatto capire che in Italia c’è sete di conoscenza scientifica», commenta Alessia Tricomi, responsabile nazionale e presidente dell’Associazione culturale Pint Of Science Italia. «E quale modo migliore per colmare questa sete, se non parlarne sorseggiando una buona pinta di birra nei pub?»

In Italia, oltre duecento ricercatori in 23 città italiane – Avellino, Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Ferrara, Frascati, Genova, L’Aquila, Lucca, Messina, Milano, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Pisa, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Siena, Torino e Trieste – incontreranno il pubblico nei 64 pub sparsi in tutta Italia. Sei le differenti aree tematiche in cui si articolano i talk di Pint of Science Italia: Atoms to Galaxies (chimica, fisica e astronomia), Beautiful Mind (neuroscienze, psicologia e psichiatria), Our Body (biologia umana), Planet Earth (scienze della terra, evoluzione e zoologia), Social Sciences (legge, storia e scienze politiche) e Tech Me Out (tecnologia). L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – insieme all’Infn – è sponsor nazionale di Pint of Science Italia e i suoi ricercatori saranno protagonisti in molte città.

A Milano Giacomo Bonnoli (Osservatorio astronomico di Brera) sarà presente con il talk “Da Mercurio al Gps: quando la ricerca sorprende!” e Mariachiara Rossetti (Iasf Milano) con “Indietro tutta: verso le prime galassie con Jwst”

A Torino, “Prisma, la prima rete italiana a caccia di bolidi e meteoriti” di Daniele Gardiol e il “Il Sole come non l’avete mai visto” di Lucia Abbo sono i due appuntamenti proposti dall’Osservatorio astrofisico di Torino.

Il 22 maggio a Genova si parlerà di “I telescopi e ciò che ci si osserva” con Davide Ricci dell’Osservatorio astronomico di Padova.

Trieste ospiterà tre talk firmati Inaf: “Nuove Frontiere al Crocevia tra Astrobiologia e Arte” con Erica Bisesi; “The Dark side of the Universe” con Marius Lepinzan e Federico Rizzo e “Bitcoin: Vires in Numeris” con Eduardo Quintana Miranda.

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Un pub durante l’edizione di Pint of Science a L’Aquila nel 2019

Simone Zaggia dell’Osservatorio Astronomico di Padova sarà “A caccia di stelle magnetiche” alle 20.30 del 22 maggio.

I telescopi del futuro: l’Universo come non l’abbiamo mai visto” è il talk ospitato a Bologna con Federica Loiacono dell’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio (Oas) di Bologna.

A L’Aquila due sono gli interventi dell’Osservatorio astronomico d’Abruzzo: “Venere: il gemello infernale della Terra” con Piero D’Incecco il 22 maggio e “Noi, figli delle stelle: il nostro legame biologico con l’Universo” con Sergio Cristallo il 23 maggio.

Doppio appuntamento Inaf nel Lazio con “Gamma-ray busters: alla caccia dei raggi gamma provenienti da supernove e buchi neri!” di Martina Cardillo (Iaps Roma) a Roma e “A pint of Energy! James Webb Space Telescope e il futuro dell’astronomia multimessaggera” di Silvia Piranomonte e Andrea Melandri dell’Osservatorio astronomico di Roma nel polo di Frascati.

Due proposte dall’Osservatorio astronomico di Capodimonte a Napoli, con Clementina Sasso e “Il lato oscuro del Sole” e Crescenzo Tortora con “Alla scoperta di miraggi gravitazionali: una storia raccontata attraverso il Viaggio dell’Eroe“.

Con un salto si raggiungono le isole dove si potrà conoscere Paolo Romano dell’Osservatorio astrofisico di Catania nel talk “Flare solari e birre stellari: esplorando le connessioni tra il sole e le altre stelle” e prendere un “Souvenir dall’Universo: calamite cosmiche” con il talk di Francesca Loi dell’Osservatorio astronomico di Cagliari.

Se ancora non avrete soddisfatto la vostra sete di stelle, pianeti, universo, particelle, misteri della fisica ci sono tanti altri incontri a tema “From Atoms to Galaxies offerti dal fitto programma di Pint of Science.

Tutti i dettagli, la lista dei pub, gli orari e le date e l’elenco completo dei talk organizzati in questa edizione sono sul sito ufficiale dell’iniziativa, www.pintofscience.it.


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Medicina celebra i primi 40 anni della parabola


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“Moon, Mercury, and Twilight Radio”. Apod Nasa dell’8 ottobre 2016, con protagonista la parabola di Medicina. Crediti & copyright: Pierluigi Giacobazzi

“Life begins at forty”, scriveva John Lennon alla fine del 1979. Questo è anche il titolo, pardon, il sottotitolo del convegno internazionale che si terrà presso l’Area di ricerca territoriale di Bologna dal 22 al 26 maggio, “Bologna Vlbi: Life begins at 40!”, appunto.

L’occasione è un compleanno importante. A spegnere le 40 candeline è la parabola da 32 metri della Stazione radioastronomica Inaf a Medicina, in provincia di Bologna. Un radiotelescopio di eccellenza inaugurato nel 1983, divenuto una presenza iconica nel territorio e inserito in numerosi progetti scientifici internazionali, dove trova impiego sia come antenna singola che per osservazioni interferometriche a lunghissima base con le altre antenne del consorzio Evn (European Vlbi Network) collocate in diversi paesi europei, allo scopo di produrre dati radio ad altissima risoluzione, nel settore della radioastronomia e della geodesia.

Le osservazioni Vlbi hanno raggiunto traguardi eccezionali in campi che spaziano dall’astrofisica relativistica alla fisica fondamentale, con la produzione di immagini dei buchi neri supermassicci alla risoluzione dell’orizzonte degli eventi, la formazione di getti relativistici in seguito alla fusione di stelle di neutroni, la localizzazione di fast radio burst e altro ancora, grazie ai progressi tecnologici nella strumentazione (ricevitori, backend, correlatori) e nel contesto dell’astronomia multi-messaggera.

Quale modo migliore, allora, per festeggiare il compleanno della parabola medicinese se non tramite un convegno con ricercatori e tecnologi da tutto il mondo intenti a discutere i temi più caldi, scientifici e tecnologici, nel settore del Vlbi? A quarant’anni dall’inizio delle attività osservative della parabola di Medicina, il convegno sarà dunque un’occasione per discutere del potenziale scientifico del Vlbi nell’attuale panorama osservativo internazionale, dove strumenti come MeerKat, LoFar, Eht e molti altri stanno ampliando enormemente le frontiere delle nostre conoscenze dell’universo.

Durante il convegno, nel pomeriggio del 24 maggio, i riflettori si sposteranno da Bologna a Medicina, e punteranno proprio su di lei: la parabola, per il momento della sua intitolazione. E con una punta di commozione possiamo anticipare che sarà intitolata alla memoria del professor Gavril Grueff, illustre ricercatore e stimato docente universitario scomparso lo scorso 7 luglio 2022, nonché figura fondamentale della radioastronomia italiana, tra i fondatori ed esecutori del progetto di realizzazione dell’antenna, così come degli altri radiotelescopi italiani, la Croce del Nord, la Parabola di Noto fino al Sardinia Radio Telescope.

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La parabola da 32 metri, in primo piano, e sullo sfondo le antenne della Croce del Nord

«Ora, dopo 40 anni, la parabola avrà finalmente un nome: parabola “Gavril Grueff”. Ed è un grande onore poter ospitare questo congresso internazionale, quarant’anni dopo lo storico e memorabile simposio Iau 110 “Vlbi and Compact Radio Sources”, tenutosi in occasione dell’inaugurazione della parabola di Medicina», ricorda Tiziana Venturi direttrice dell’Istituto di radioastronomia dell’Inaf. «In queste quattro decadi, lo sviluppo scientifico e tecnologico nel campo del Vlbi è stato uno dei principali ambiti di azione dell’Istituto di radioastronomia, ed è una grande soddisfazione riportare l’antenna di Medicina – e più in generale l’attività Vlbi – in Inaf, al centro della scena mondiale».

Per l’occasione era in programma, per la giornata di sabato, un evento aperto al pubblico presso la Stazione radioastronomica di Medicina (con l’intervento delle autorità e uno spettacolo di Roberto Mercadini), rimandato a data da destinarsi a causa dell’emergenza meteorologica e climatica che ha colpito il territorio e per solidarietà alla popolazione dell’Emilia-Romagna. «La nostra stazione radioastronomica si trova nei territori purtroppo danneggiati gravemente dalle conseguenze delle piogge di questi giorni», dice Venturi. «Al momento, grazie alla pronta messa in sicurezza della strumentazione, non si rilevano danni, e la stazione è raggiungibile. Rimane lo sconcerto per quanto accaduto, e la solidarietà di tutto l’Istituto per le persone colpite e per il territorio devastato».


Jwst, selezionati i programmi per il secondo ciclo


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Rappresentazione artistica degli specchi del James Webb Space Telescope. Crediti: Jwst/Nasa/Esa

Il 10 maggio, lo Space Telescope Science Institute (StScI) ha annunciato i programmi selezionati per il secondo ciclo del James Webb Space Telescope (Jwst), o Cycle 2 General Observer (Go). Sono stati circa 5.450 i ricercatori che hanno presentato proposte, da tutto il mondo. I progetti selezionati appaiono ben bilanciati su tanti argomenti scientifici diversi, dai vicini asteroidi alla cosmologia, passando per esopianeti e formazione stellare, con una distribuzione che corrisponde alle proposte presentate.

Il programma Cycle 2 Go include 249 proposte per circa 5.000 ore di prime time e fino a 1.215 ore di tempo parallelo, oltre a 8 proposte di archivio e 8 teoriche. Il 48 per cento del prime time sarà dedicato a piccoli programmi (meno di 25 ore), il 35 per cento a programmi medi (da 25 a 75 ore) e il 17 per cento a programmi di grandi dimensioni (più di 75 ore). Le proposte selezionate sono state preparate da oltre 2.088 ricercatori e ricercatrici provenienti da 41 paesi, e il 10per cento delle proposte è guidato da studenti. Venti delle proposte selezionate sono guidate da ricercatrici e ricercatori italiani, di cui 17 all’estero. Media Inaf ha raggiunto i tre responsabili scientifici in attività sul territorio nazionale per avere qualche informazione in più sui loro programmi.

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Eleonora Troja, professoressa di astrofisica all’Università di Roma Tor Vergata, responsabile del programma “Identifying the fingerprints of heavy r-process elements with the James Webb Telescope”. Crediti: B. Troja

Eleonora Troja dell’Universita di Roma Tor Vergata si è aggiudicata tempo prezioso al telescopio spaziale per osservare uno dei fenomeni cosmici più energetici dell’universo, lo scontro di due stelle di neutroni. «Questo ciclo del Jwst ha ricevuto oltre 1600 proposal che è stato il numero più alto mai ricevuto dalla Nasa, inclusi i 30 cicli di Hubble. Quindi è stata una vera competizione cut-throat», racconta la ricercatrice. «Il mio progetto è stato approvato per un totale di 25 ore e osserverà lo scontro di due stelle di neutroni nell’universo vicino. Queste collisioni producono un bagliore infrarosso che si chiama kilonova e che viene prodotto dal decadimento radioattivo di metalli più pesanti del ferro. Noi abbiamo visto altre kilonovae nel passato ma siamo riusciti a vederne solo la fase iniziale, che dura un paio di settimane e che chiamiamo opaca perché a causa delle alte densità quello che vediamo è principalmente una radiazione di corpo nero. In questa fase ci è difficile capire quali metalli siano stati forgiati dopo la collisione. È solo grazie alla tecnologia di Jwst che ora ci possiamo spingere più in là e iniziare a esplorare l’evoluzione della kilonova nei mesi successivi all’esplosione, quando passa dalla fase opaca a quella trasparente. In questa fase ci aspettiamo di poter identificare alcuni dei metalli prodotti e stabilire definitivamente se gli scontri di stelle di neutroni sono le fucine cosmiche dell’oro e del platino».

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Federico Lelli, ricercatore dell’Inaf Osservatorio di Arcetri, responsabile del programma “Luminous and dark matter in massive galaxies at z=4-5”. Crediti: Federico Lelli, Esa/Hubble & Nasa

Federico Lelli dell’Inaf Osservatorio Astrofisico di Arcetri è il responsabile di un programma che si propone di studiare alcune galassie nell’universo primordiale, nonché di testare in quell’epoca remota teorie gravitazionali alternative. «Il nostro progetto Jwst ha l’obiettivo principale di studiare la materia luminosa e quella oscura in un campione di 16 galassie primordiali, osservate quando l’universo aveva solo un miliardo e mezzo di anni, ovvero circa il 10 per cento della sua età attuale», spiega Lelli. «Il nostro campione, denominato Triceps, è speciale perché negli scorsi anni abbiamo ottenuto e analizzato osservazioni ad altissima risoluzione con il telescopio Alma, che ci permettono di tracciare la distribuzione e cinematica del gas all’interno delle galassie. In particolare abbiamo misurato la cosiddetta curva di rotazione, ovvero la velocità di rotazione del gas rispetto al centro galattico, che è uno strumento fondamentale per studiare l’abbondanza e la distribuzione della materia luminosa (gas e stelle) e di quella oscura. Fino a oggi, però, non avevamo un ingrediente fondamentale per i nostri studi dinamici: la distribuzione della massa stellare delle galassie. Jwst ci permetterà di colmare questa mancanza. Abbiamo richiesto immagini Jwst in varie bande fotometriche che ci permetteranno di vedere – per la prima volta – come sono distribuite le stelle all’interno di queste galassie e in particolare di misurare la loro massa e il loro campo gravitazionale. Utilizzando le informazioni Jwst in sinergia con i dati Alma saremo in grado di stabilire se queste galassie primordiali contengono, oppure no, materia oscura al loro interno. Saremo anche in grado di testare teorie gravitazionali alternative, come ad esempio la teoria Mond, in un’epoca cosmica che finora è rimasta completamente inesplorata».

«Il nostro progetto ha anche importanti obiettivi collaterali», continua Lelli. «Le immagini Jwst ci permetteranno di misurare il tasso di formazione di nuove stelle in diverse regioni di queste galassie, mentre i dati Alma ci forniscono la distribuzione del gas, quindi potremo combinare le due informazioni per studiare le leggi che governano la conversione di gas in stelle in galassie primordiali. Infine, siccome le galassie nel nostro campione sono tra gli oggetti più massicci in questa epoca cosmica, ci aspettiamo che vivano in regioni molto dense dell’universo e che siano circondate da galassie satelliti più piccole, che saremo in grado di identificare e studiare grazie alle nuove immagini Jwst».

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Marco Castellani, ricercatore dell’Inaf Osservatorio Astronomico di Roma, responsabile del programma “Spectroscopic confirmation of an unexpected population of bright galaxies at cosmic dawn”. Crediti: Marco Castellani

Rimanendo nell’ambito dello studio delle galassie, il programma di Marco Castellano dell’Inaf Osservatorio Astronomico di Roma intende studiare dal punto di vista spettroscopico alcune sorgenti ad alto redshift: «Il proposal ha lo scopo di confermare spettroscopicamente con circa 20 ore di osservazioni NirSpec le sorgenti di alto redshift (z~9-12) selezionate nelle osservazioni NirCam della survey Ers Glass-Jwst. Le osservazioni spettroscopiche di queste sorgenti sono estremamente importanti perché Glass-Jwst ha fornito le prime indicazioni di un “eccesso” di galassie brillanti a z>9 rispetto a predizioni teoriche. In particolare, le prime osservazioni Glass-Jwst hanno permesso l’individuazione fotometrica di due sorgenti brillanti a z~10 e z~12, denominate Ghz1/Glass-z11 e Ghz2/Glass-z12, successivamente selezionate da molte altre analisi indipendenti. Un lavoro successivo ha confermato un’alta densità di sorgenti brillanti a z~10 nella regione e trovato indicazioni della possibile presenza di una struttura sovradensa a quel redshift. L’eccesso di sorgenti brillanti ad alto redshift non è però solo relativo al campo Glass, ma è stato confermato anche da altre survey, tanto che diverse spiegazioni teoriche sono state proposte per spiegare queste osservazioni (ad esempio un’alta efficienza di formazione stellare nell’universo primordiale, scarsa polvere, o addirittura necessità di rivedere il modello cosmologico standard). La conferma spettroscopica e la caratterizzazione fisica delle sorgenti di alto redshift dell’area Glass-Jwst è quindi un ingrediente fondamentale per caratterizzare la formazione ed evoluzione delle prime galassie».

«Il programma Cycle 2 inoltre consentirà il follow-up spettroscopico di decine di altri oggetti a redshift intermedio e alto nel campo Glass-Jwst», conclude Castellano, «e acquisirà in parallelo osservazioni imaging NirCam in diverse bande per estendere la selezione fotometrica di sorgenti di alto redshift su un’area più ampia e mappare la possibile struttura sovradensa a z~10 presente nella regione».


Supernova un po‘ così: s’è sentita anche in radio


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Un fotogramma dell’animazione dell’esplosione (vedi a fondo news). Crediti: Adam Makarenko/W. M. Keck Observatory

Dovrebbero essere le esplosioni più prevedibili dell’universo, quelle delle supernove di tipo Ia. È la caratteristica che le rende le “candele standard” per eccellenza, le più gettonate per misurare le distanze su scala intergalattica: l’intensità è sempre la stessa, lo scenario è sempre lo stesso, e si suppone che sia sempre lo stesso – seppur ancora non del tutto chiarito – il processo che le porta al tracollo: una nana bianca sottrae poco a poco massa a una stella compagna fino a che non raggiunge il limite di Chandrasekhar, e a quel punto si verifica l’esplosione. Questo in un universo ideale. In realtà, più le conosciamo e più la lista delle eccezioni si allunga e le sorprese non mancano.

L’ultima a prendere in contropiede gli astronomi è una supernova scoperta il 7 marzo 2020 e descritta oggi sulle pagine di Nature. Si chiama Sn 2020eyj e – fra quelle di tipo Ia – è la prima mai rilevata anche alle lunghezze d’onda radio. Questa insolita caratteristica, sommata alla presenza di righe d’emissione dell’elio, suggerisce che la stella compagna della nana bianca fosse in origine ricca – appunto – di elio.

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La stella compagna, a destra, cede massa – elio compreso – alla nana bianca poco prima dell’esplosione di quest’ultima. Crediti: Adam Makarenko/W. M. Keck Observatory

«Le osservazioni radio, ottiche e infrarosse sono tutte coerenti con uno scenario nel quale la stella compagna abbia ceduto una quantità di massa significativa prima dell’esplosione della nana bianca», dice uno degli autori dello studio, Seppo Mattila, dell’Università di Turku (Finlandia).

«Quando abbiamo osservato la firme di una forte interazione con il materiale della compagna», continua il primo autore dello studio, Erik Kool, ricercatore postdoc all’Università di Stoccolma (Svezia), «abbiamo cercato di rilevarne anche l’emissione radio. Per una supernova di tipo Ia si tratta del primo rilevamento in banda radio – qualcosa che gli astronomi hanno cercato di fare per decenni».

«Si tratta evidentemente di una supernova di tipo Ia molto insolita», conclude un altro degli autori, Joel Johansson, anch’egli ricercatore all’Università di Stoccolma, «ma comunque legata a quelle che utilizziamo per misurare l’espansione dell’universo. Mentre le normali supernove di tipo Ia sembrano esplodere sempre con la stessa luminosità, questa supernova ci dice che ci sono molti percorsi diversi che portano all’esplosione di una nana bianca». Una scoperta, dunque, che consentirà una migliore comprensione delle esplosioni di nane bianche come supernove utilizzate per la misura delle distanze cosmologiche.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A radio-detected type Ia supernova with helium-rich circumstellar material”, di Erik C. Kool, Joel Johansson, Jesper Sollerman, Javier Moldón, Takashi J. Moriya, Seppo Mattila, Steve Schulze, Laura Chomiuk, Miguel Pérez-Torres, Chelsea Harris, Peter Lundqvist, Matthew Graham, Sheng Yang, Daniel A. Perley, Nora Linn Strotjohann, Christoffer Fremling, Avishay Gal-Yam, Jeremy Lezmy, Kate Maguire, Conor Omand, Mathew Smith, Igor Andreoni, Eric C. Bellm, Joshua S. Bloom, Kishalay De, Steven L. Groom, Mansi M. Kasliwal, Frank J. Masci, Michael S. Medford, Sungmin Park, Josiah Purdum, Thomas M. Reynolds, Reed Riddle, Estelle Robert, Stuart D. Ryder, Yashvi Sharma & Daniel Stern

Guarda l’animazione dell’esplosione:

youtube.com/embed/ELiyJaS33nQ?…


Costante di Hubble sotto la lente d’una supernova


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Rappresentazione artistica dell’espansione dell’universo nel corso della sua storia. Crediti: Naoj

Sono poche le cose certe della vita. Una di queste, salvo prova contraria, è che l’universo si sta espandendo. La domanda però è: con quale velocità lo sta facendo? Il valore della costante di Hubble, uno dei termini dell’equazione nota come legge di Hubble-Lemaître, ci dà una stima di questa velocità. Per calcolare questo numero – espresso in chilometri al secondo per megaparsec (km/s/Mpc) – gli astronomi si avvalgono principalmente di due metodi. Il primo utilizza la cosiddetta scala delle distanze cosmiche, e consiste nell’osservazione di sorgenti come le variabili cefeidi e, per distanze maggiori, le esplosioni di supernove. Il secondo utilizza invece parametri cosmologici, e in particolare la misura delle anisotropie del fondo cosmico a microonde, la radiazione fossile dell’universo.

C’è però un problema. I valori stimati attraverso questi due metodi non coincidono: abbiamo 73,0 km/s/Mpc nel primo caso e 67,4 km/s/Mpc nel secondo. La differenza tra i valori ottenuti con i due metodi è di 5,6 km/s/Mpc: una discrepanza che va ben oltre i margini di errore delle due misure, e che gli astronomi chiamano “tensione di Hubble”.

Un modo per cercare di comprendere quale dei due sia il valore “giusto” è quello di ricorrere ad altri metodi di misura indipendenti e confrontare i risultati. È ciò che ha fatto un team di ricercatori guidati dall’Università del Minnesota (Usa) in un recente studio, ottenendo un numero che è più vicino alla misurazione basata sui parametri cosmologici. I risultati della ricerca sono riportati in due articoli scientifici pubblicati la settimana scorsa rispettivamente su Science e The Astrophysical Journal.

«La grande domanda è se c’è un qualche problema con una o entrambe le misurazioni della costante di Hubble», dice Patrick Kelly, ricercatore al Minnesota Institute for Astrophysics e primo autore di entrambi gli articoli. «La nostra ricerca affronta questo problema utilizzando un metodo per misurare il tasso di espansione dell’universo indipendente e completamente diverso». Il metodo utilizzato è quello della time-delay cosmography (cosmografia con tempi di ritardo). Non si tratta di una tecnica nuova: il fenomeno fisico su cui si basa è quello noto delle lenti gravitazionali ed è già stato applicato ai quasar. Ma questa è la prima volta in cui viene applicato a un’altra sorgente variabile: una supernova.

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L’ammasso di galassie Macs J1149.6+2223, a oltre 5 miliardi di anni luce da noi, nella ripresa del telescopio spaziale Hubble. Nel riquadro è indicata l’immagine quadrupla della supernova Refsdal dietro l’ammasso, meglio visibile nell’ingrandimento a destra. Crediti: Nasa, Esa, and S. Rodney (Jhu) and the FrontierSN team; T. Treu (Ucla), P. Kelly (Uc Berkeley), and the Glasss team; J. Lotz (Stsci) and the Frontier Fields team; M. Postman (Stsci) and the Clash team; and Z. Levay (Stsci)

La supernova in questione è conosciuta con il nome di Sn Refsdal. È stata osservata l’11 novembre 2014 a oltre nove miliardi di anni luce da noi da un team internazionale di astronomi guidato dallo stesso Kelly. Ed è la prima supernova ad essere stata scoperta attraverso l’effetto lente gravitazionale, un fenomeno che ha permesso di osservare l’evento a tempi diversi e in quattro posizioni diverse del cielo a causa della gravità di Macs J1149.6+2223, un gigantesco ammasso di galassie frapposto fra noi e la supernova. Quello che è successo è che il campo gravitazionale dell’ammasso di galassie ha deviato parte della luce prodotta dall’esplosione, che è arrivata sulla Terra attraverso percorsi e tempi diversi, producendo così quattro diverse immagini della stessa supernova. Utilizzando i ritardi temporali tra due “apparizioni” della supernova, quella del 2014 e del 2015, i ricercatori sono stati in grado di ottenere una stima del valore della costante di Hubble.

Il numero emerso dallo studio è 66.6 (+ 4.1/- 3.3) km/s/Mpc: un valore molto vicino a quello calcolato utilizzando il fondo cosmico a microonde. Usando gli stessi dati, inoltre, i ricercatori hanno scoperto che alcuni modelli sulla materia oscura negli ammassi di galassie sono maggiormente in accordo con le osservazioni rispetto ad altri. Ciò ha permesso di determinare i modelli più accurati per spiegare la localizzazione di questa sfuggente materia nell’ammasso di galassie.

«La nostra misurazione è in miglior accordo con il valore ottenuto dalle misure della radiazione cosmica di fondo a microonde», conferma Kelly, «anche se non possiamo escludere la bontà del valore misurato con la scala delle distanze cosmiche. Se le osservazioni di future supernove che subiscono l’effetto lente gravitazionale da parte di ammassi di galassie producessero risultati simili, ciò potrebbe significare due cose: o che c’è un problema con quest’ultimo metodo, o che c’è un problema che riguarda la nostra comprensione circa la materia oscura negli ammassi di galassie».

La metodologia che prevede di impiegare le immagini multiple di un’esplosione di supernova per stimare il tasso di espansione dell’universo è stata proposta nel 1964 dall’astronomo norvegese Sjur Refsdal, ma fino ad ora non era mai stata utilizzata. Con la scoperta della supernova Refsdal ciò è stato finalmente possibile.

«È la prima volta che mettiamo in pratica questo metodo, che prevede l’utilizzo di una supernova “lensata” per misurare la costante di Hubble. E lo facciamo nel caso più difficile, quello in cui la lente è un ammasso di galassie», spiega a Media Inaf uno dei coautori dei due studi, l’astrofisico Tommaso Treu, ricercatore italiano oggi all’Università della California a Los Angeles (Ucla) e tra gli autori della scoperta della supernova. «È importante sottolineare che la misura è stata fatta in maniera completamente cieca, cioè abbiamo completato l’analisi senza conoscere la costante di Hubble, svelandone il valore della misura solo alla fine. Questo è un accorgimento che abbiamo preso per evitare il cosiddetto “effetto sperimentatore” (experimenter bias), che può distorcere il risultato finale».

«Al momento attuale la precisione della misura che abbiamo fatto non è sufficiente per risolvere la “tensione di Hubble”» conclude Treu. «Ma la scoperta di altre supernove soggette a lente gravitazionale, ad esempio da parte delle missioni Euclid e Lsst, permetterà di ridurre l’incertezza».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Constraints on the Hubble constant from Supernova Refsdal’s reappearance” di Patrick L. Kelly, Steven Rodney, Tommaso Treu, Masamune Oguri, Wenlei Chen, Adi Zitrin, Simon Birrer, Vivien Bonvin, Luc Dessart, Jose M. Diego, Alexei V. Filippenko, Ryan J. Foley, Daniel Gilman, Jens Hjorth, Mathilde Jauzac, Kaisey Mandel, Martin Millon, Justin Pierel, Keren Sharon, Stephen Thorp, Liliya Williams, Tom Broadhurst, Alan Dressler, Or Graur, Saurabh Jha, Curtis McCully, Marc Postman, Kasper Borello Schmidt, Brad E. Tucker e Anja von der Linden;
  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Magnificent Five Images of Supernova Refsdal: Time Delay and Magnification Measurements” di Patrick L. Kelly, Steven Rodney, Tommaso Treu, Simon Birrer, Vivien Bonvin, Luc Dessart, Ryan J. Foley, Alexei V. Filippenko, Daniel Gilman, Saurabh Jha, Jens Hjorth, Kaisey Mandel, Martin Millon, Justin Pierel, Stephen Thorp, Adi Zitrin, Tom Broadhurst, Wenlei Chen, Jose M. Diego, Alan Dressler, Or Graur, Mathilde Jauzac, Matthew A. Malkan, Curtis McCully, Masamune Oguri, Marc Postman, Kasper Borello Schmidt, Keren Sharon, Brad E. Tucker, Anja von der Linden e Joachim Wambsganss


Saturno e le sue lune: raggiunta quota 145


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Questa immagine composita, scattata dal telescopio spaziale Hubble della Nasa/Esa il 20 giugno 2019, mostra il pianeta anellato Saturno con quattro delle sue 145 lune conosciute. Crediti: Nasa, Esa, A. Simon (Gsfc) e Opal Team

Saturno si riprende la corona rubata da Giove solo pochi mesi fa: sono state identificate attorno al pianeta 62 nuove lune, che portano il numero totale a 145, sorpassando così l’altro gigante del Sistema solare fermo a quota 92.

La scoperta è stata annunciata dal gruppo internazionale guidato dall’Istituto di astronomia e astrofisica dell’Accademia Sinica di Taiwan e getta luce sul passato di questo pianeta: il nuovo gruppo di satelliti, infatti, è probabilmente nato da collisioni tra lune avvenute nel recente passato, circa cento milioni di anni fa. Inoltre, lo studio dimostra anche l’efficacia della tecnica utilizzata, che ha permesso di individuare corpi di soli 2,5 chilometri di diametro.

Localizzare satelliti intorno a Giove e Saturno è molto impegnativo: viste le loro dimensioni, superano in luminosità qualsiasi cosa si trovi intorno. Inoltre, per confermare la presenza di una luna non basta semplicemente individuarla accanto al suo pianeta: l’oggetto deve essere tracciato, idealmente per diverse orbite, in modo che il suo percorso possa essere analizzato per determinare se è stabile.

Per questo, i ricercatori guidati da Edward Ashton si sono affidati allo stesso metodo usato per Urano e Nettuno: le immagini vengono prese in sequenza, in modo da seguire la luna alla stessa velocità con cui si muove, e poi sovrapposte per amplificare i segnali troppo deboli. A questo scopo gli autori dello studio hanno utilizzato il telescopio Canada-Francia-Hawaii, situato all’Osservatorio di Mauna Kea.

«Il monitoraggio delle lune di Saturno mi ha ricordato il gioco per bambini che si fa unendo i puntini», ha detto Ashton. «Abbiamo dovuto collegare le varie apparizioni di questi corpi, ma sembrava di avere contemporaneamente sulla stessa pagina cento giochi diversi, senza sapere a quale schema appartenesse ciascun punto».


Webb trova acqua su una cometa vicina a casa


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Impressione artistica della cometa 238P/Read che mostra la sua sublimazione: il ghiaccio d’acqua si vaporizza mentre il corpo celeste si avvicina al Sole. La sublimazione è ciò che distingue le comete dagli asteroidi, creando la loro caratteristica coda e l’alone. Crediti: Nasa, Esa

Un altro bel colpo messo a segno dal telescopio spaziale James Webb, questa volta rimanendo molto vicino alla Terra. Usando lo strumento NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) di Webb, gli astronomi hanno confermato per la prima volta la presenza di vapore acqueo attorno a una cometa nella fascia principale degli asteroidi – la cometa 238P/Read – confermando che in quella regione può essere conservato ghiaccio d’acqua risalente al Sistema solare primordiale. Tuttavia, il rilevamento dell’acqua è affiancato da un nuovo enigma: a differenza di altre comete, la cometa 238P/Read non presenta anidride carbonica rilevabile.

«Il nostro mondo pieno d’acqua, brulicante di vita e per quanto ne sappiamo unico nell’universo, è qualcosa di misterioso. Non siamo sicuri di come tutta quest’acqua sia arrivata qui», spiega Stefanie Milam, co-autrice dello studio appena pubblicato su Nature che riporta la scoperta. «Comprendere la storia della distribuzione dell’acqua nel Sistema solare ci aiuterà a comprendere altri sistemi planetari e se potrebbero essere sulla buona strada per ospitare un pianeta simile alla Terra».

La cometa Read appartiene alla famiglia delle comete della fascia principale, corpi celesti che risiedono nella fascia principale degli asteroidi ma che periodicamente mostrano alone e coda tipiche delle comete. Questa classificazione è abbastanza nuova e la cometa Read è una delle tre comete utilizzate per definire la categoria. Fino alla scoperta di questa nuova classe di oggetti celesti, avvenuta una trentina di anni fa, si riteneva che le comete risiedessero nella Fascia di Kuiper e nella Nube di Oort, oltre l’orbita di Nettuno, dove i loro ghiacci potevano essere conservati più lontano dal Sole. Il materiale congelato che vaporizza mentre si avvicinano al Sole è ciò che conferisce alle comete il loro caratteristico aspetto caratterizzato da una chioma e da una lunga coda, differenziandole dagli asteroidi. Per molto tempo gli scienziati hanno ipotizzato che il ghiaccio d’acqua potesse essere preservato anche nella fascia più calda degli asteroidi, all’interno dell’orbita di Giove, ma la prova definitiva non è mai arrivata, fino alle osservazioni di Webb.

«In passato, abbiamo visto oggetti nella fascia principale con tutte le caratteristiche delle comete, ma solo con questi precisi dati spettrali di Webb possiamo dire che sì, è sicuramente acqua ghiacciata che sta creando quell’effetto», spiega Michael Kelley dell’Università del Maryland, primo autore dello studio. «Con le osservazioni di Webb della cometa Read, ora possiamo dimostrare che il ghiaccio d’acqua del Sistema solare primordiale può essere conservato nella fascia degli asteroidi.

Il fatto che non sia stata rilevata anidride carbonica è una sorpresa più grande. In genere, l’anidride carbonica costituisce circa il 10 percento del materiale volatile in una cometa e può essere facilmente vaporizzata dal calore del Sole. Nell’articolo, il team scientifico presenta due possibili spiegazioni per la mancanza di anidride carbonica. Una possibilità è che la cometa Read avesse anidride carbonica quando si è formata ma l’abbia persa a causa delle elevate temperature. In alternativa, potrebbe essersi formata in una zona particolarmente calda del Sistema solare, dove non era disponibile anidride carbonica.

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I dati spettrali mostrati nell’immagine evidenziano somiglianze e differenze tra le osservazioni del 2022 della cometa 238P/Read da parte dello strumento NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) e quelle del 2010 della cometa 103P/Hartley 2 effettuate dalla missione Deep Impact, sempre della Nasa. Entrambi gli spettri mostrano un picco associato all’acqua. Trovarlo nella cometa Read è stato un risultato significativo per Webb, poiché la cometa appartiene a una famiglia di comete diversa rispetto a quella della Hartley 2. Tuttavia, la cometa Read non ha mostrato il picco previsto che indica la presenza di anidride carbonica. Crediti: Nasa, Esa, Csa, and J. Olmsted (StScI)

Il prossimo passo sarà studiare le altre comete della famiglia, per vedere se presentano caratteristiche analoghe. «Questi oggetti nella fascia degli asteroidi sono piccoli e deboli, e con Webb possiamo finalmente vedere cosa sta succedendo e trarre alcune conclusioni. Anche le altre comete della fascia principale mancano di anidride carbonica? In entrambi i casi sarà emozionante scoprirlo», afferma Heidi Hammel della Association of Universities for Research in Astronomy (Aura), responsabile del Gto (Guaranteed Time Observations) di Webb per gli oggetti del Sistema solare e coautrice dello studio.

«Ora che Webb ha confermato che c’è dell’acqua conservata vicino alla fascia degli asteroidi, sarebbe affascinante dare seguito a questa scoperta con una missione di raccolta di campioni e scoprire cos’altro possono dirci le comete della fascia principale», conclude Milam, immaginando la possibilità di portare la ricerca ancora più vicino a casa.

Per saperne di più:


Là dove un tempo scorreva impetuoso un fiume


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In un remoto passato, Marte era molto più simile alla Terra di quanto non lo sia oggi. Le prove che sulla sua superficie esistessero un tempo grandi oceani e laghi, e scorressero fiumi, sono numerose. E uno dei principali obiettivi delle missioni di esplorazione robotica di Marte è proprio quello di capire se questi ambienti potessero essere abbastanza ospitali da consentire forme di vita microbica.

Il rover Perseverance, atterrato a febbraio del 2021 nel cratere Jezero, sta continuando il suo cammino sul Pianeta rosso, raccogliendo informazioni preziose per comprenderne il passato. Circa 3,5 miliardi di anni fa, all’interno del cratere Jezero, largo quasi 50 chilometri, era presente un grande lago con annesso delta fluviale. Gli scienziati pensano che nonostante l’acqua sia scomparsa da tempo da questo luogo, il cratere e il delta del fiume possano essere i luoghi ideali per cercare prove dell’esistenza di vita in passato.

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In questo mosaico, il sito di Skrinkle Haven fotografato dalla Mastcam-Z di Perseverance tra il 28 febbraio e il 9 marzo 2023. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss

Attualmente il rover si trova in una zona chiamata “unità curvilinea”, letto ormai arido di un antico fiume. Le immagini scattate sul posto hanno fornito prove che questo corso d’acqua fosse molto più profondo e impetuoso di quanto visto finora in altre zone, per esempio nel cratere Gale, dove il rover Curiosity ha trovato tracce di corsi d’acqua relativamente tranquilli. «La cosa emozionante è che siamo entrati in una nuova fase della storia di Jezero. Ed è la prima volta che vediamo ambienti come questo su Marte», dice Katie Stack Morgan del Jpl, deputy project scientist del progetto Perseverance. «Stiamo pensando a fiumi su una scala diversa rispetto al passato».

Questa zona era già stata osservata in precedenza dallo spazio, risultando da subito molto interessante per la presenza di fasce curve di roccia stratificata (da cui il nome di “unità curvilinea”). Ora gli scienziati, grazie alla Mastcam-Z di Perseverance, fotocamera in grado di comporre mosaici di immagini ad altissima risoluzione, sono in grado di osservarla da vicino. Nei due mosaici ottenuti, un elemento in particolare ha portato il team a dedurre che il fiume che scorreva in quest’area fosse caratterizzato da un potente flusso d’acqua: la presenza di grandi ciottoli e sedimenti. «Indicano un fiume ad alta energia che trasporta molti detriti. Più potente è il flusso d’acqua, più facilmente è in grado di spostare pezzi di materiale più grandi», spiega Libby Ives, ricercatrice al Jpl che gestisce il rover Perseverance.

In una zona dell’unità curvilinea chiamata Skrinkle Haven si notano strati di sedimenti che disegnano nel paesaggio una serie di curve. Gli scienziati pensano che un tempo questi strati dovevano essere molto più alti. Poi, il sabbioso vento marziano li ha scolpiti fino a farli diventare come sono oggi. Questi sedimenti potrebbero essere i resti degli argini del fiume, oppure dei banchi di sabbia che si sono formati all’interno. Quello che il team sta cercando di capire è infatti che tipo di fiume potesse essere quello responsabile di questo paesaggio: uno come il Mississippi, che si snoda serpeggiando nel paesaggio, o un fiume come il Paranà, che trasporta i sedimenti fino a formare piccole isole di banchi di sabbia.

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In questo mosaico, il sito Pinestand. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss

Nel secondo mosaico si può osservare una zona a circa 450 metri da Skrinkle Haven. A Pinestand – questo il nome dell’area – risiede una collina che sta facendo porre ai ricercatori interrogativi sulla sua origine. Sulla collina si notano infatti strati di sedimenti curvati verso l’alto, alcuni alti più di venti metri. «Questi strati sono troppo alti per i fiumi terrestri», dice Ives. «Ma allo stesso tempo, il modo più comune per creare questo tipo di forme di terreno sarebbe attraverso l’azione di un fiume».

Il vivace passato di Marte continua ad essere sotto indagine da parte del team di Perseverance, che grazie ai potenti strumenti del rover può studiare non solo la superficie, ma anche il sottosuolo, utilizzando il radar Rimfax (Radar Imager for Mars’ Subsurface Experiment), alla ricerca di prove che forniscano un quadro sempre più completo della storia del Pianeta Rosso.


All’origine della più grande esplosione cosmica


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Rappresentazione artistica dell’accrescimento di un buco nero. Crediti: John A. Paice

Dieci volte più brillante di qualsiasi supernova conosciuta e cento volte più grande del Sistema solare. È questo il biglietto da visita di At 2021lwx, un’esplosione talmente potente da meritarsi l’appellativo di “Scary Barbie” e, ora, un articolo pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society da un gruppo di ricercatori – guidati dall’Università di Southampton (Regno Unito) – di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica. La deflagrazione dura da più di tre anni, un record insolito rispetto alla maggior parte delle supernove che sono visibilmente luminose solo per pochi mesi, e ha avuto luogo quasi 8 miliardi di anni luce fa, quando l’universo aveva circa 6 miliardi di anni, nella costellazione della Volpetta. Si tratta di un caso di serendipità: gli astronomi si sono imbattuti in questo evento per caso, mentre erano a caccia di un particolare tipo di supernova.

Al suo massimo splendore, questa esplosione era circa duemila miliardi di volte più luminosa del Sole. E anche rispetto all’esplosione in assoluto più luminosa mai registrata – il lampo di raggi gamma Grb 221009A, più luminoso di AT 2021lwx ma durato solo per una frazione del tempo – l’energia complessiva rilasciata dall’esplosione di At 2021lwx è di gran lunga maggiore.

L’evento At 2021lwx è stato rilevato per la prima volta nel 2020 dalla Zwicky Transient Facility (Ztf) in California ed è stato successivamente osservato dall’Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System (Atlas) alle Hawaii. Queste strutture scandagliano il cielo notturno a caccia di oggetti transienti che cambiano rapidamente luminosità, segnalando eventi cosmici come supernove e il passaggio di asteroidi e comete. Fino ad ora, l’entità dell’esplosione era sconosciuta. Il team ha studiato ulteriormente l’oggetto con diversi telescopi: il Neil Gehrels Swift Observatory, il New Technology Telescope in Cile e il Gran Telescopio Canarias a La Palma, in Spagna.

A differenza di quanto ipotizzato dai colleghi della Purdue University, secondo i quali all’origine dell’evento ci sarebbe la disintegrazione di una stella molto massiccia da parte di un buco nero, i ricercatori dell’Università di Southampton ritengono che l’esplosione sia stata causata da una vasta nube di gas, forse migliaia di volte più grande del Sole, che un buco nero supermassiccio ha violentemente disgregato. I frammenti sarebbero stati inghiottiti, emettendo onde d’urto attraverso i suoi resti e in un grande agglomerato di polvere a forma di ciambella che circonda il buco nero. Tali eventi sono rari, e non si era mai assistito a nulla di questa portata.

«L’origine di At 2021lwx rimane abbastanza misteriosa», dice a Media Inaf una delle coautrici del nuovo studio, Francesca Onofri, assegnista di ricerca all’Inaf Abruzzo, «e sono stati esplorati vari scenari per spiegare l’emissione osservata. Nel nostro lavoro abbiamo dimostrato come tale esplosione possa essere spiegata con la violenta distruzione di una vasta nube di gas e/o polveri – migliaia di volte più grande del Sole – da parte di un buco nero supermassiccio. In particolare, frammenti di questa enorme nube sarebbero stati inghiottiti dal buco nero, risvegliandolo e rivelandoci la sua presenza attraverso l’emissione elettromagnetica da noi osservata. Data la peculiarità dell’esplosione, nei mesi successivi l’annuncio abbiamo condotto un’intensa campagna di monitoraggio in multibanda utilizzando tutte le facilities a nostra disposizione. Abbiamo acquisito spettri nell’ottico con il telescopio Ntt, spettri nel vicino infrarosso utilizzando il Gtc, abbiamo studiato la sua evoluzione nell’ultravioletto e nei raggi X con il satellite Swift, e infine abbiamo monitorato anche la sua emissione nel medio infrarosso utilizzando i dati di archivio della survey Wise».

Nei prossimi mesi, per verificare la causa dell’esplosione, il team eseguirà anche simulazioni computazionali. «Con nuove infrastrutture, come il Vera Rubin Observatory, in arrivo nei prossimi anni», conclude il primo autore dello studio, Philip Wiseman, ricercatore all’Università di Southampton, «speriamo di scoprire altri eventi come questo e saperne di più. Potrebbe essere che questi eventi, sebbene estremamente rari, siano così energetici da essere fondamentali nell’evoluzione delle galassie».

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Multiwavelength observations of the extraordinary accretion event AT2021lwx”, di P. Wiseman, Y. Wang, S. Hönig, N. Castro-Segura, P. Clark, C. Frohmaier, M. D. Fulton, G. Leloudas, M. Middleton, T. E. Müller-Bravo, A. Mummery, M. Pursiainen, S. J. Smartt, K. Smith, M. Sullivan, J. P. Anderson, J. A. Acosta Pulido, P. Charalampopoulos, M. Banerji, M. Dennefeld, L. Galbany, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, N. Ihanec, E. Kankare, A. Lawrence, B. Mockler, T. Moore, M. Nicholl, F. Onori, T. Petrushevska, F. Ragosta, S. Rest, M. Smith, T. Wevers, R. Carini, T.-W. Chen, K. Chambers, H. Gao, M. Huber, C. Inserra, E. Magnier, L. Makrygianni, M. Toy, F. Vincentelli e D. R. Young


Vagabonde blu che non sono altro


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In questa immagine di di Ngc 6397 acquisita dal telescopio spaziale Hubble sono presento numerose stelle “vagabonde blu”. Crediti: Esa Hubble/Wikimedia Commons

Le più giovani tra le vagabonde blu preferiscono vivere in ambienti poco affollati. Un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha individuato, per la prima volta, una chiara relazione tra le proprietà fisiche di queste enigmatiche stelle e l’ambiente in cui si formano. Pubblicato su Nature Communications, lo studio è la prima analisi sistematica delle velocità di rotazione delle blue straggler (vagabonde blu), effettuato su un campione di oltre 300 stelle in otto ammassi globulari della Via Lattea.

«I risultati che abbiamo ottenuto indicano come la formazione di blue straggler sia in pieno svolgimento in ammassi di bassa densità, mentre è notevolmente ridotta in ambienti molto densi», spiega Francesco Ferraro, professore al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna e associato Inaf, primo autore dello studio. «La scoperta apre nuovi orizzonti sia per lo studio di queste stelle che per la comprensione dell’evoluzione degli ammassi globulari».

Le vagabonde blu sono stelle affascinanti e misteriose. L’astronomo Allan Sandage, che per primo le scoprì nel 1953, notò che apparivano più calde e più luminose della maggior parte delle altre, suggerendo così una massa più grande e quindi un’età più giovane, dato che le stelle più massicce evolvono più rapidamente. Per questo le battezzò “blue stragglers”, appunto “vagabonde blu”: perché sembravano stelle che si erano perse e non avevano seguito il normale comportamento del “gregge” delle altre stelle, le quale erano invece invecchiate diventando progressivamente più fredde.

Oggi sappiamo che le vagabonde blu sono stelle che stanno vivendo una seconda giovinezza. Il loro aspetto più caldo e più luminoso, e la loro massa maggiore, nasce infatti come esito della fusione di due vecchi astri, che può avvenire o a seguito di una collisione stellare o per fenomeni di vampirismo in sistemi binari, in cui una delle due stelle acquisisce massa a spese della sua compagna.

In entrambi i casi, il risultato di questa fusione è una nuova stella che, rispetto ai suoi progenitori, non solo è più massiccia, più luminosa e più blu, ma gira anche su se stessa come una trottola. Mentre infatti le stelle normali ruotano attorno al proprio asse con velocità inferiori a 20 chilometri al secondo, le blue straggler giovani possono arrivare addirittura fino a 200 chilometri al secondo.

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Francesco Ferraro, professore d’astronomia all’Università di Bologna e primo autore dello studio sulle vagabonde blu pubblicato su Nature Communications

«L’elevata velocità di rotazione è una caratteristica comune delle stelle giovani», dice Ferraro. «Infatti, a causa di fenomeni di frenamento ancora in parte sconosciuti, la velocità di rotazione si riduce progressivamente nel tempo e quindi gli astri più vecchi girano sempre meno velocemente: il nostro Sole, che ha un’età di 4,5 miliardi di anni, è un tipico esempio di rotatore lento, con una velocità di rotazione di due chilometri al secondo».

La velocità di rotazione è quindi un fattore molto utile per distinguere le vagabonde blu appena nate da quelle più anziane. Da qui sono partiti gli studiosi dell’Università di Bologna e dell’Inaf, con un’analisi avviata nel 2006 e condotta principalmente con il Very Large Telescope dell’Eso. I ricercatori hanno preso in considerazione un campione di oltre 300 stelle in otto ammassi globulari della Via Lattea, tutti estremamente vecchi (formatisi 12 miliardi di anni fa), ma con differenti caratteristiche strutturali – sia a bassa densità che ad alta densità stellare –, in modo da tenere conto delle diverse condizioni ambientali in cui possono nascere le vagabonde blu. Non va infatti dimenticato che, proprio perché sono molto vecchi, gli ammassi globulari sono privi di gas, e quindi la nascita delle vagabonde blu è l’unica possibile attività di formazione stellare recente.

L’analisi realizzata ha così permesso di identificare diverse vagabonde blu all’inizio della loro nuova vita, che ruotano fino a cento volte più veloci del Sole. La loro distribuzione non è risultata però la stessa in tutti gli ambienti: l’habitat preferito dalle giovani blu straggler (con velocità di rotazione superiore a 40 km/s) è infatti quello degli ambienti poco affollati.

«Negli ammassi globulari a bassa densità stellare, circa il 40 per cento delle vagabonde blu mostra elevate velocità di rotazione, mentre in ambienti ad alta densità la percentuale di rotatori veloci scende di un fattore 10, per attestarsi attorno al 3-4 per cento», spiega Ferraro. «Questa è la prima chiara relazione mai trovata tra le proprietà fisiche delle blue straggler e l’ambiente in cui si formano».

I risultati ottenuti mostrano che la formazione di vagabonde blu è in pieno svolgimento negli ammassi di bassa densità, mentre è notevolmente ridotta in ambienti molto densi. Inoltre, la scoperta apre la strada alla possibilità di determinare il tasso di formazione di queste stelle (via collisioni o vampirismo) in diversi ambienti, e di calcolare la loro età di formazione attraverso la sola misura della velocità di rotazione.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications l’articolo “Fast rotating blue stragglers prefer loose clusters”, di Francesco R. Ferraro, Alessio Mucciarelli, Barbara Lanzoni, Cristina Pallanca, Mario Cadelano, Alex Billi, Alison Sills, Enrico Vesperini, Emanuele Dalessandro, Giacomo Beccari, Lorenzo Monaco e Mario Mateo


L’età degli anelli di Saturno


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Anelli di Saturno ripresi da Cassini nel 2006. Elaborazione grafica utilizzando immagini calibrate filtrate in rosso, verde e blu. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SSI/Kevin M. Gill

What’s my age again? Come nella canzone rock dei Blink-182, da oltre un secolo gli scienziati si pongono la stessa domanda: quando si sono formati gli anelli di Saturno? La risposta in un nuovo studio della University of Colorado a Boulder che ha fornito la prova evidente: gli anelli di Saturno sono incredibilmente giovani. La ricerca, pubblicata su Science Advances, fissa l’età degli anelli di Saturno a non più di 400 milioni di anni: molto più recenti quindi rispetto a Saturno stesso, che ha circa 4,5 miliardi di anni, e di quanto precedentemente si ipotizzasse.

I ricercatori della University of Colorado di Boulder, guidati da Sascha Kempf del Laboratory for Atmospheric and Space Physics (Lasp), sono arrivati a questa conclusione studiando quello che potrebbe sembrare un soggetto insolito: la polvere. Kempf ha spiegato che minuscoli grani di materiale roccioso, come ad esempio i detriti lasciati da comete, asteroidi o lune che si sono frantumati a causa della forza di attrazione gravitazionale del pianeta, attraversano il Sistema solare terrestre in modo quasi costante. In alcuni casi, questo flusso lascia dietro di sé un sottile strato di polvere sui corpi planetari e sul ghiaccio che costituisce gli anelli di Saturno.

L’intuizione del gruppo di ricerca americano è stata quella di provare a datare gli anelli di Saturno studiando la rapidità con cui si accumula lo strato di polvere, come se si volesse datare un’abitazione misurando quanta polvere si è depositata su mobili e altre superfici. «Pensate agli anelli come al tappeto di casa vostra», dice infatti Kempf. «Se avete un tappeto pulito, perché lo sporco si depositi basta attendere. Lo stesso ragionamento vale per gli anelli».

Dal 2004 al 2017, l’équipe ha utilizzato come “spolverino” lo strumento Cosmic Dust Analyzer a bordo della sonda Cassini della Nasa per analizzare i granelli di polvere che volano intorno a Saturno. In questi 13 anni, i ricercatori hanno prelevato 163 granelli di origine esterna al pianeta. Possono sembrare pochi, ma sono stati sufficienti per eseguire i calcoli e affermare che probabilmente gli anelli di Saturno abbiano iniziato ad accumulare polvere solo da qualche centinaia di milioni di anni. In pratica, gli anelli si sarebbero formati, e potrebbero scomparire, in un battito di ciglia, se ragioniamo in termini cosmici.

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Saturno disegnato da Galileo Galilei nel 1623. Crediti: Museo Galileo – Istituto e museo di storia della scienza

Ma una domanda rimane ancora aperta. «Sappiamo approssimativamente quanti anni hanno gli anelli, ma ciò non risolve gli altri problemi», sottolinea Kemp. «Non sappiamo ancora come siano nati». Un interrogativo che agita e affascina gli scienziati da più di 400 anni. Apparentemente traslucidi, gli anelli di Saturno furono osservati per la prima volta nel 1610 dal telescopio di Galileo, che, pur non sapendo cosa fossero, li disegnò come i manici di una brocca d’acqua. Nel 1800, il fisico matematico scozzese James Clerk Maxwell capì che gli anelli di Saturno non potevano essere solidi, ma composti da tante piccole parti. «In un certo senso, abbiamo risolto una questione iniziata con Maxweell», dice Kempf.

Oggi sappiamo che Saturno ha sette fasce di anelli, ognuna con un suo nome o lettera dell’alfabeto. E che gli anelli sono composti da innumerevoli pezzi di ghiaccio, la maggior parte dei quali non più grandi delle nostre rocce sulla Terra. Complessivamente, questo ghiaccio pesa circa la metà della luna di Saturno Mimas e si estende per coltre 280mila km dalla superficie del pianeta. Proprio a Maxwell è dedicato lo spazio vuoto situato fra l’anello C e l’anello B di Saturno, chiamato “divisione di Maxwell”.

Per la maggior parte del ventesimo secolo, gli scienziati hanno ipotizzato che gli anelli siano nati probabilmente nello stesso periodo in cui prese forma Saturno. Ma questa idea ha sollevato dubbi: gli anelli di Saturno sono troppo puliti e brillanti per essersi formati insieme al pianeta. Le osservazioni suggeriscono infatti che essi siano composti per circa il 98 per cento in volume da puro ghiaccio d’acqua, con solo una piccola quantità di materia rocciosa. Alcuni scienziati hanno ipotizzato che gli anelli di Saturno possano essersi formati quando la gravità del pianeta ha fatto a pezzi una delle sue lune.

Cassini, la sonda arrivata su Saturno nel 2004, per la prima volta ha offerto l’opportunità di stimare l’età degli anelli raccogliendo dati sulla polvere cosmica per oltre 13 anni. Oggi gli ingegneri e gli scienziati del Lasp hanno progettato e costruito un analizzatore di polvere molto più sofisticato per la prossima missione Europa Clipper della Nasa, il cui lancio è previsto per il 2024. Già ricerche precedenti avevano stabilito che gli anelli fossero giovani, ma nessuna includeva misure definitive della polvere presente. Il team di Kempf ha stimato che questa “sporcizia interplanetaria” contribuisce ogni anno con meno di dieci grammi di polvere per ogni metro quadrato degli anelli di Saturno: una spolverata leggera, ma sufficiente per accumularsi nel tempo.

Secondo gli scienziati della Nasa, gli anelli di Saturno potrebbero scomparire. Molti studi sostengono che il ghiaccio sta lentamente diminuendo e che tra 100 milioni di anni degli anelli potrebbe non esserci più traccia. Secondo Kempf, il fatto che queste caratteristiche effimere di Saturno esistessero in un’epoca in cui sia Galileo che la sonda Cassini hanno potuto osservarle sembra quasi troppo bello per essere vero. «Se gli anelli sono di breve durata e dinamici, perché li vediamo ora? È una fortuna troppo grande non tentare di scoprirne anche l’origine».

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Webb osserva l’atmosfera di un sub-nettuniano


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Rappresentazione artistica dell’esopianeta Gj 1214 b. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/R. Ferito (Ipac)

Per più di un decennio, gli astronomi hanno cercato di carpire i dettagli di Gj 1214b, un esopianeta a 40 anni luce dalla Terra, la cui superficie è nascosta da uno spesso strato di foschia. Foschia che però non ha rappresentato un problema per il James Webb Space Telescope (Jwst), la cui tecnologia a infrarossi gli consente di vedere oggetti prima imperscrutabili a causa di nubi, gas e polvere.

Un gruppo di ricercatori è riuscito a osservare l’atmosfera di Gj 1214b misurando il calore che emette mentre orbita attorno alla sua stella ospite. È la prima volta che qualcuno ha rilevato direttamente la luce emessa da un esopianeta sub-nettuniano, una categoria di pianeti più grandi della Terra ma più piccoli di Nettuno. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature il 10 maggio 2023.

Sebbene Gj 1214b sia troppo caldo per essere abitabile, i ricercatori hanno scoperto che la sua atmosfera probabilmente contiene vapore acqueo, forse anche in quantità significative, ed è composta principalmente da molecole più pesanti dell’idrogeno.

I sub-nettuniani sono i pianeti più comuni nella Via Lattea, sebbene non ne esistano nel Sistema solare. Nonostante l’oscurità dell’atmosfera di Gj 1214b, il team di astrofisici guidato da Eliza Kempton dell’Università del Maryland, ha capito che il pianeta rappresentava il miglior candidato per l’osservazione dell’atmosfera di un pianeta di questo tipo, per via della sua piccola ma luminosa stella ospite.

I ricercatori hanno quindi misurato la luce infrarossa emessa da Gj 1214b nel corso di circa 40 ore, il tempo che impiega il pianeta per orbitare attorno alla sua stella. Mentre il giorno lascia spazio alla notte, la quantità di calore che si sposta da un lato all’altro di un pianeta dipende in gran parte dalla composizione della sua atmosfera. «Jwst opera a lunghezze d’onda della luce maggiori rispetto ai precedenti osservatori, il che ci dà accesso al calore emesso dal pianeta e ci consente di creare una mappa della sua temperatura», afferma Kempton. «Finalmente siamo riusciti a vedere Gj 1214b sotto una nuova luce».

La questione se l’esopianeta contenga acqua interessa da tempo gli astronomi. Precedenti osservazioni del telescopio spaziale Hubble hanno suggerito che Gj 1214b potrebbe essere un mondo acquatico, un termine generico per qualsiasi pianeta che contenga una quantità significativa di acqua.

«Sulla base delle nostre osservazioni, Gj 1214b potrebbe essere un mondo acquatico», conferma Kempton. «Crediamo di aver rivelato vapore acqueo, ma è difficile esserne certi perché l’assorbimento del vapore acqueo si sovrappone a quello del metano, quindi non possiamo dire al 100 per cento di aver rilevato vapore acqueo e non metano. Tuttavia, troviamo queste evidenze su entrambi gli emisferi del pianeta, il che aumenta la nostra fiducia che lì ci sia davvero acqua».

Saranno necessari ulteriori studi per determinare l’esatta composizione dell’atmosfera del pianeta, ma Kempton ha affermato che le evidenze trovate sono compatibili con la possibilità di grandi quantità di acqua.

Nel loro studio, i ricercatori hanno fatto un’altra sorprendente scoperta: Gj 1214b è incredibilmente riflettente. Sono arrivati a questa conclusione perché il pianeta non è così caldo come previsto, quindi nella sua atmosfera ci dev’essere qualcosa che sta riflettendo la luce.

Secondo Kempton ci sono molte possibilità per studi di follow-up, compresi quelli che danno uno sguardo più da vicino agli aerosol ad alta quota che formano la foschia – o forse le nubi – nell’atmosfera di Gj 1214b. In precedenza, i ricercatori pensavano che potesse essere una sostanza scura, simile alla fuliggine, che assorbe la luce. Tuttavia, la scoperta che l’esopianeta è riflettente solleva nuove domande. «Qualunque cosa stia creando la foschia o le nubi non è quello che ci aspettavamo. È brillante e riflettente, e questo è strano e sorprendente», conclude la ricercatrice.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “A reflective, metal-rich atmosphere for Gj 1214b from its Jwst phase curve” di Eliza M.-R. Kempton, Michael Zhang, Jacob L. Bean, Maria E. Steinrueck, Anjali A. A. Piette, Vivien Parmentier, Isaac Malsky, Michael T. Roman, Emily Rauscher, Peter Gao, Taylor J. Bell, Qiao Xue, Jake Taylor, Arjun B. Savel, Kenneth E. Arnold, Matthew C. Nixon, Kevin B. Stevenson, Megan Mansfield, Sarah Kendrew, Sebastian Zieba, Elsa Ducrot, Achrène Dyrek, Pierre-Olivier Lagage, Keivan G. Stassun, Gregory W. Henry, Travis Barman, Roxana Lupu, Matej Malik, Tiffany Kataria, Jegug Ih, Guangwei Fu, Luis Welbanks e Peter McGill


Il centro galattico non è per giovani coppie


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Sono quasi tutte non accompagnate, le stelle giovani e massicce che popolano i dintorni di Sgr A*, il buco nero al centro della nostra galassia. È quanto trova uno studio spettroscopico, condotto con i telescopi Keck alle Hawaii, che ha raggiunto una profondità di osservazione (in termini di luminosità minima rilevata) quattro magnitudini migliore rispetto a tutte le indagini precedenti. La frazione di stelle simili che si trova in sistemi binari, se confrontata con quella che si misura nelle vicinanze del Sistema solare, è più del 30 per cento inferiore. Quale sia l’origine della discrepanza e quale il meccanismo fisico che agisce, vicino al buco nero, sono ancora da indagare. I risultati sono pubblicati su The Astrophysical Journal.

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Immagine delle stelle binarie Alpha Centauri A (a sinistra) e Alpha Centauri B, scattata dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa

In prossimità del buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, entro un raggio di circa 800 miliardi di chilometri (un mese luce), si trova un ammasso di stelle chiamate “stelle-S” (dove S sta proprio per Sgr A*, la sorgente emissiva associata al buco nero supermassiccio). Questa popolazione di stelle presenta caratteristiche distinte da quella circostante, ed è composta principalmente di stelle di sequenza principale di classe B, ovvero molto giovani, massicce e calde. E già questo apre le porte al primo interrogativo: come si sono formate? Sono così giovani – circa sei milioni di anni, si legge nello studio, un nonnulla rispetto al tempo di vita di una stella come il Sole – che non si riesce a comprendere come si siano formate, dato che in quella regione la formazione stellare tradizionale sarebbe disturbata dalle forze mareali del buco nero, o come siano potute arrivare fin lì in così poco tempo.

Non solo. Stelle simili, in un ambiente poco disturbato come il nostro vicinato cosmico, si trovano quasi sempre in sistemi binari (circa il 70 per cento), mentre queste sembrano, agli occhi dei telescopi, sole. Esiste però una classe di stelle binarie, le binarie spettroscopiche, che appaiono come una singola stella se osservate con telescopi ottici, ma rivelano la loro natura doppia quando se ne analizza il moto tramite lo spettro. Per verificare che queste stelle fossero effettivamente sole, un gruppo di ricercatori di Ucla ha deciso di seguirle, per circa dieci anni, anche con osservazioni spettroscopiche. Il risultato: tutte e 16 le stelle S analizzate sono risultate sole.

A questo punto, i ricercatori hanno deciso di calcolare, tramite simulazioni, quale sia la frazione di sistemi binari presenti in questa regione. Per farlo hanno calcolato una metrica, chiamata frazione binaria, che definisce quante stelle in una determinata area potrebbero essere in coppia; più alta è la frazione binaria, più stelle potrebbero esistere in coppia. Hanno trovato un numero di molto inferiore rispetto al 70 per cento menzionato qui sopra: circa il 47 per cento. Significa che la vicinanza con il buco nero ostacola la sopravvivenza dei sistemi binari.

«Questa differenza conferma che il centro della nostra galassia è un ambiente incredibilmente interessante da indagare: non abbiamo a che fare con un ambiente normale», commenta Devin Chu, ricercatore a Ucla e primo autore dello studio. «Suggerisce anche che il buco nero spinge queste stelle binarie vicine a fondersi o a separarsi, cosa che avrebbe delle implicazioni importanti sia sulla produzione di onde gravitazionali che di stelle iperveloci espulse dal centro galattico».

La bassa frazione trovata, si legge a conclusione dell’articolo, sarebbe coerente con uno scenario in cui le stelle, che inizialmente appartenevano a un sistema binario, si sono separate in un secondo momento: una delle due è rimasta legata gravitazionalmente, mentre l’altra è stata espulsa come stella iperveloce, attraverso un meccanismo che è stato già osservato nella Via Lattea. Un’altra possibilità è che il sistema in partenza fosse triplo e si sia separato in una componente singola e una doppia. Per confermarlo, però, bisognerà attendere nuove osservazioni che cercheranno di trovare sistemi binari nella regione. Nel frattempo, i ricercatori hanno in programma di confrontare la frazione calcolata con quella che si trova per le stelle simili che vivono più lontane dal buco nero, ma ancora all’interno della sua influenza gravitazionale.

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Vita su Marte? La risposta dall’italiano Ma_Miss


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Dettaglio del trapano e di un campione di test trivellato: si nota la luce che fuoriesce dalla finestra di zaffiro dello strumento Ma_Miss. Crediti: Inaf/Asi/Ma_Miss team

Uno degli strumenti a bordo del rover Rosalind Franklin dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che esplorerà Marte nell’ambito del programma ExoMars, è l’italiano Ma_Miss (Mars Multispectral Imager for Subsurface Studies), realizzato da Leonardo, con il finanziamento e coordinamento dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) e la supervisione scientifica dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). La missione si propone di rispondere a uno degli interrogativi più affascinanti mai affrontati dall’umanità: c’è, o c’è mai stata, vita sul Pianeta rosso?

Ma_Miss è uno spettrometro miniaturizzato a fibra ottica, operante nelle lunghezze d’onda del visibile e del vicino infrarosso, montato all’interno del trapano del rover che perforerà il suolo marziano, per la prima volta, fino a una profondità di due metri. Il suo principale obiettivo scientifico è quello di ricostruire l’evoluzione geologica di Oxia Planum, una delle più estese e antiche pianure argillose del pianeta, selezionata per l’atterraggio e le esplorazioni del rover Rosalind Franklin. Per farlo, Ma_Miss studierà in situ la composizione delle rocce del sottosuolo e le proprietà ottiche e fisiche dei materiali, come ad esempio la dimensione dei grani. Lo strumento contribuirà inoltre alla ricostruzione dei profili verticali dei siti di perforazione per arrivare a definire i processi geologici che hanno caratterizzato l’area di studio, ricavando importanti informazioni come la mineralogia e l’eventuale presenza e distribuzione di acqua e ghiaccio nel sottosuolo. In quest’ottica, la performance dello strumento era stata inizialmente testata solo su campioni geologici per la caratterizzazione di materiale inorganico. Ora un nuovo studio guidato da ricercatori e ricercatrici dell’Inaf, dell’Asi e dell’Università Aix Marseille (Francia), ha dimostrato che Ma_Miss potrà avere un ruolo fondamentale per obiettivi ancora più ampi che rappresentano il focus principale della missione: la ricerca di tracce di vita su Marte. I risultati sono pubblicati sulla rivista Astrobiology.

«Lo strumento Ma_Miss sarà l’unico ad operare realmente in situ nel sottosuolo marziano, perché l’altro spettrometro a bordo del rover (MicrOmega) opererà sul campione prelevato in profondità successivamente ad un trattamento di macinazione, che ne modifica le caratteristiche originarie», spiega Marco Ferrari dell’Inaf, primo autore del lavoro. «Allora ci siamo chiesti se Ma_Miss potesse in qualche modo dare informazioni non solo mineralogiche, ma anche relative alla presenza di sostanze organiche direttamente nel sottosuolo, ovvero prima del prelievo del campione, restituendo così una informazione completa del sottosuolo inalterato. E la risposta è stata affermativa: i dati di Ma_Miss sul sottosuolo inalterato potrebbero essere fondamentali nella scelta della profondità di prelievo dei campioni della missione. L’eventuale rilevamento di materia organica da parte di Ma_Miss risulterebbe quindi cruciale nella selezione del campione di una missione deputata alla ricerca di tracce di vita passata o presente nel sottosuolo marziano».

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Il sistema di misurazione di Davis, il nuovo modello di laboratorio dello strumento Ma_Miss. Crediti: Inaf/Asi/Ma_Miss team

Per questo lavoro, il team ha condotto dapprima un primo studio della composizione di Oxia Planum attraverso dati di missioni precedenti: questo ha permesso la preparazione di una serie di campioni, partendo da analoghi della composizione del suolo marziano con l’aggiunta di sostanze organiche in diverse quantità. In particolare, i campioni analoghi marziani sono stati arricchiti con la glicina (il più semplice tra gli amminoacidi); l’asfaltite (una forma di asfalto, o bitume, presente in natura); il poliossimetilene (un polimero cristallino); e l’acido benzoico (un composto aromatico che si trova naturalmente in molte piante). I ricercatori hanno quindi ottenuto uno spettro dei diversi campioni in laboratorio, utilizzando il modello di laboratorio dello strumento Ma_Miss disponibile presso l’Inaf a Roma, per poi analizzare e interpretare i dati raccolti.

«Questa ricerca mostra le potenzialità dello strumento italiano Ma_Miss nel rilevamento di sostanze organiche all’interno di campioni minerali» aggiunge Maria Cristina De Sanctis dell’Inaf, principal investigator di Ma_Miss e co-autrice del nuovo lavoro. «Solitamente, tramite la spettroscopia, le sostanze organiche vengono rivelate intorno ai 3 micron. Con Ma_Miss invece abbiamo tentato di rivelarle nell’intervallo tra 0.5 e 2.3 micron. Come risultato abbiamo ottenuto che Ma_Miss è in grado di rilevare diverse sostanze organiche all’interno di una miscela minerale quando queste sono presenti fino alla quantità minima dell’1 per cento in peso».

«Inizialmente, il compito di Ma_Miss era quello di fornire un contesto mineralogico per i campioni prelevati nel terreno marziano e che sarebbero poi stati analizzati nel laboratorio analitico presente sul rover», dichiara Eleonora Ammannito, Asi project scientist dello strumento Ma_Miss e co- autrice dello studio. «Con questo studio abbiamo dimostrato che Ma_Miss può fare molto di più cioè, ovvero può fare l’identificazione diretta di alcuni tipi di materiale organico. Questo risultato dimostra la centralità dello strumento Ma_Miss rispetto all’obiettivo primario della missione Rosalind Franklin che è quello di trovare eventuali tracce di vita presente o passata sul pianeta Marte».

Dopo la sospensione e il successivo annullamento del lancio a marzo 2022, l’Esa sta ridefinendo i dettagli della missione ExoMars Rosalind Franklin insieme a partner internazionali e industriali, con nuovi elementi europei. La partenza è attualmente prevista per il 2028.

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Risolto il mistero del buco nero in fuga


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In alto, l’immagine dell’oggetto osservato con il telescopio spaziale Hubble che mostra l’emissione nella parte ultravioletta dello spettro. Al centro, l’immagine ultravioletta di una galassia senza rigonfiamento e osservata di taglio (Ic 5249). Le somiglianze sono evidenti. In basso: la stessa galassia Ic 5249 osservata nella parte visibile dello spettro. Le scale spaziali delle tre immagini sono identiche. Crediti: Hst

Pochi giorni fa una notizia ha sorpreso il mondo dell’astronomia. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, un team di ricercatori guidato da Peter Van Dokkum, astronomo alla Yale University (Usa), ha descritto una scia luminosa presente in un’immagine del telescopio spaziale Hubble come un misterioso fenomeno mai osservato prima. Un buco nero supermassicio in fuga, che dopo essere stato scagliato via da una galassia a seguito di un raro gioco di orbite tra tre buchi neri supermassici, sta viaggiando a grandi velocità nello spazio intergalattico, e scontrandosi con una gigantesca nube di gas sta lasciando dietro di sé una lunga e stretta scia, dove numerose stelle si stanno formando. Tuttavia, nonostante l’innegabile fascino, questa interpretazione ha lasciato molti interrogativi aperti nella comunità astronomica, che infatti ha continuato a indagare sull’oggetto.

In un recente articolo pubblicato su Astronomy and Astrophysics Letters, un team di ricercatori dell’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac) fornisce una spiegazione totalmente differente e meno esotica della prima. Stando allo studio, la scia sembra non essere altro che una galassia, priva del classico rigonfiamento centrale, vista di taglio. Questo tipo di galassie, chiamate anche galassie sottili o piatte, sono relativamente comuni.

A sostegno di questa nuova ipotesi ci sono principalmente due elementi. Il primo è emerso quando gli astronomi hanno misurato le velocità della struttura in questione, notando una netta corrispondenza con le velocità tipiche della rotazione delle galassie. Da questo dato è conseguito il secondo elemento: il team, una volta notata la congruenza delle velocità, ha deciso di confrontare la struttura sotto indagine con una nota galassia molto più vicina, Ic 5249. I dati indicano che la curva di rotazione, la massa stellare, l’estensione, la larghezza e il profilo di luminosità superficiale sono estremamente simili.

«Abbiamo anche esaminato la relazione tra la massa della galassia ipotizzata e la sua velocità massima di rotazione, scoprendo che si tratta effettivamente di una galassia che si comporta come tale» afferma Ignacio Trujillo, un ricercatore dell’Iac che ha partecipato allo studio. «È un oggetto interessante, perché si tratta di una galassia piuttosto grande a una distanza molto elevata dalla Terra, dove la maggior parte delle galassie sono più piccole», aggiunge.

Secondo il team, questi dati osservativi sono difficilmente interpretabili con lo scenario della scia di formazione stellare innescata da un buco nero supermassicio in fuga. Infatti, la scia di un buco nero supermassiccio produce solo piccole perturbazioni nel mezzo esterno, che deve trovarsi in condizioni del tutto eccezionali per collassare gravitazionalmente e formare una lunga traccia di stelle in soli 39 milioni di anni, come affermava il primo studio.

«I movimenti, la dimensione e la quantità di stelle corrispondono a quanto osservato nelle galassie dell’universo locale», spiega Jorge Sanchez Almeida, ricercatore dell’Iac e primo autore dell’articolo. «Il nuovo scenario proposto è molto più semplice di quello precedente. In un certo senso è anche un peccato, perché ci si aspetta l’esistenza di buchi neri in fuga e questo avrebbe potuto essere il primo a essere osservato».

In ogni caso, nello studio vengono analizzati i pro e i contro di entrambe le interpretazioni, e la questione rimane ancora aperta. Questo enigmatico oggetto continua a sfidare la comprensione degli astronomi, ricordandoci che la scienza è un percorso di ricerca continuo e aperto, in cui gli errori sono inevitabili ma fondamentali per correggere e migliorare le nostre conoscenze.

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