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Accordo da 23 milioni di euro per Cta+


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Crediti: Inaf

Martedì 5 novembre, presso la Sede centrale dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), alla presenza del presidente Roberto Ragazzoni, del direttore generale Gaetano Telesio e con l’intervento del presidente del Consiglio di amministrazione di Cimolai S.p.A. Marco Sciarra e del rappresentante di Ohb Digital Connect Germania Fabrice Scheid, è stato dato formale avvio alle attività che porteranno alla realizzazione di due telescopi del tipo Large Size Telescope (Lst) nell’ambito del progetto Pnrr “Cherenkov Telescope Array Plus (Cta+)”, finanziato dal Mur nel contesto del “Fondo per la realizzazione di un sistema integrato di infrastrutture di ricerca e innovazione”. L’appalto ha un valore di 23 milioni di euro e il più alto mai assegnato dall’Inaf.

Per il volume del finanziamento ricevuto (oltre 71 milioni di euro), questo è il principale progetto dell’Inaf nell’ambito del Pnrr ed è finalizzato ad aumentare in maniera sostanziale il contributo italiano alla costruzione del grande osservatorio internazionale Cherenkov Telescope Array (Cta), che svelerà i segreti del cosmo alle altissime energie scrutando il cielo nei raggi gamma. Cta+ è coordinato dall’Inaf in collaborazione con l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), le università di Bologna, Bari, Siena e Palermo e con il Politecnico di Bari e alcuni partner internazionali.

I due telescopi sono strutture da 24 metri di diametro e dal peso di quasi cento tonnellate ognuno, capaci di muoversi così velocemente da poter raggiungere qualsiasi parte del cielo in pochi secondi. Questi saranno installati nel deserto cileno, dove avrà sede il sito sud dell’Osservatorio Cta.

I partner industriali dell’Inaf in questa avventura rappresentano un’eccellenza nel campo della realizzazione delle strutture meccaniche per l’astronomia. Cimolai S.p.A., leader nel settore delle grandi infrastrutture, sta già realizzando per conto dell’Eso l’Extremely Large Telescope (Elt), un telescopio ottico di ben 40 metri di diametro, mentre Ohb Digital Connect Germania ha partecipato alla realizzazione dei radiotelescopi dell’osservatorio Alma, sempre dell’Eso.

«L’avvio di questo ambizioso progetto rappresenta un passo fondamentale non solo per l’Inaf ma per tutta la comunità scientifica internazionale», dice il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni. «L’accordo ci permette di rafforzare il contributo alla costruzione di Cta e di consolidare il nostro ruolo di protagonisti nella ricerca astrofisica di frontiera. Questo è il frutto della collaborazione tra istituti di ricerca italiani e partner industriali di eccellenza, che confermano l’Italia come leader nelle grandi infrastrutture scientifiche. Siamo orgogliosi di contribuire a una nuova era nella scoperta dell’universo».


Nessun pianeta attorno a Vega


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Hubble ha acquisito questa immagine del disco circumstellare intorno alla stella Vega utilizzando lo Space Telescope Imaging Spectrograph (Stis). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, S. Wolff (Università dell’Arizona), K. Su (Università dell’Arizona), A. Gáspár (Università dell’Arizona)

Nel film Contact tratto dal romanzo di Carl Sagan, la protagonista – la scienziata Ellie Arroway, interpretata dall’attrice Jodi Foster – imbocca un tunnel spaziotemporale per raggiungere Vega. Uscita dal tunnel, emerge all’interno di una tempesta di detriti che circondano la stella, dove non sono visibili pianeti. Ecco, a distanza di quasi 30 anni, oggi possiamo dire che i registi ci avevano visto giusto.

Situata nella costellazione della Lira, Vega è una delle stelle più luminose del cielo boreale. È leggendaria perché ha offerto la prima evidenza di materiale in orbita attorno a una stella. Ora, un team di astronomi della Università dell’Arizona, a Tucson, ha utilizzato i telescopi spaziali Hubble e James Webb per osservare, con un livello di dettaglio senza precedenti, il disco di detriti di quasi cento miliardi di chilometri di diametro che circonda Vega.

Webb ha visto il bagliore infrarosso di un disco di particelle grandi come sabbia che vortica intorno alla stella bianco-blu, 40 volte più luminosa del Sole. Hubble ha catturato un alone esterno a questo disco di particelle della consistenza di quelle che caratterizzano il fumo, che riflettono la luce della stella.

La grande sorpresa di queste osservazioni è che non ci sono prove evidenti di uno o più grandi pianeti, che attraversando il disco lascerebbero dei caratteristici solchi, un po’ come quelli dei trattori da neve.

La distribuzione della polvere nel disco di detriti di Vega è stratificata radialmente perché la pressione della luce stellare spinge verso l’esterno i grani più piccoli, più velocemente di quelli più grandi. «Il fatto di vedere la suddivisione delle particelle di polvere in base alle dimensioni può aiutarci a capire le dinamiche sottostanti ai dischi circumstellari», commenta Schuyler Wolff, primo autore dell’articolo che presenta i risultati di Hubble.

Il disco osservato presenta una sottile lacuna, a circa 60 unità astronomiche dalla stella (due volte la distanza di Nettuno dal Sole), ma per il resto è molto regolare, fino a perdersi nel bagliore della stella. Questo dimostra che non ci sono pianeti di massa almeno pari a quella di Nettuno che circolano su grandi orbite, come nel Sistema solare.

«Stiamo vedendo in dettaglio quanta varietà ci sia tra i dischi circumstellari e come questa varietà sia legata ai sistemi planetari sottostanti. Stiamo scoprendo molte cose sui sistemi planetari, anche quando non riusciamo a vedere quelli che potrebbero essere pianeti nascosti», aggiunge Kate Su dell’Università dell’Arizona, autrice principale dell’articolo che presenta i risultati di Webb. «Ci sono ancora molte incognite nel processo di formazione dei pianeti e credo che queste nuove osservazioni di Vega contribuiranno a vincolare i modelli di formazione dei pianeti».

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Webb ha acquisito questa immagine del disco circumstellare intorno alla stella Vega utilizzando lo strumento Miri (Mid-Infrared Instrument). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, S. Wolff (Università dell’Arizona), K. Su (Università dell’Arizona), A. Gáspár (Università dell’Arizona)

L’architettura del sistema di Vega risulta insolita, quindi, nettamente diversa da quella del Sistema solare, dove pianeti giganti come Giove e Saturno impediscono alla polvere di diffondersi come avviene in questo caso.

Per fare un confronto, c’è una stella vicina – Fomalhaut – che è circa alla stessa distanza, età e temperatura di Vega. Ma l’architettura circumstellare di Fomalhaut è molto diversa da quella di Vega, avendo tre fasce detritiche annidate. Si ipotizza che i pianeti siano i corpi in grado di “costringere” gravitazionalmente la polvere in anelli, anche se non è stato ancora identificato alcun pianeta. Data la somiglianza fisica tra Vega e Fomalhaut, perché Fomalhaut sembra essere stata in grado di formare pianeti e Vega no? Qual è la differenza? È stato l’ambiente circumstellare o la stella stessa a creare questa differenza?

Era il 2005 quando il telescopio spaziale Spitzer della Nasa mappò un anello di polvere intorno a Vega, confermato successivamente da osservazioni effettuate con telescopi submillimetrici, tra cui il Caltech Submillimeter Observatory su Mauna Kea, nelle Hawaii, e anche l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) in Cile, e il telescopio spaziale Herschel dell’Esa (Agenzia Spaziale Europea). Tuttavia, nessuno di questi telescopi è riuscito a vedere molti dettagli. «Le osservazioni di Hubble e Webb insieme forniscono così tanti dettagli da dirci qualcosa di completamente nuovo sul sistema Vega, che nessuno conosceva prima», conclude Rieke.

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Cometa Tsuchinshan, l’Apod è prodotta in Cadore


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“Comet Tsuchinshan-Atlas over the Dolomites”, la foto di Alessandra Masi scelta dalla Nasa come Apod, Astronomy Picture of Day. Crediti & copyright: Alessandra Masi

Da quando è apparsa in cielo è stata immortalata praticamente da ogni angolo della Terra. Astrofotografi, appassionati, curiosi: non c’è persona che non abbia alzato gli occhi al cielo per ammirarla. Nel nostro emisfero, la luminosità di Venere e la stella Arturo – la quarta più brillante del cielo notturno osservabile e una delle prime visibili al tramonto – ci hanno aiutato ad individuarla. L’avrete capito: stiamo parlando della regina indiscussa dei cieli di queste ultimi mesi: la cometa non periodica C/2023 A3 Tsuchinshan-Atlas, ribattezzata dai media come “la cometa del secolo”. Osservata per la prima volta nel gennaio 2023 dallo Zǐjīn Shān Astronomical Observatory, la cometa ci è venuta a trovare dopo aver lasciato la remota nube di Oort, che circonda il Sistema solare, raggiungendo il perielio, cioè la minima distanza dalla nostra stella, il 27 settembre del 2024, divenendo visibile in tutto il suo splendore anche a occhio nudo. Da allora l’abbiamo vista ritratta mentre solcava il cielo sopra luoghi e paesaggi suggestivi in migliaia di scatti mozzafiato. Scatti come quello che vedete nell’immagine d’apertura, scelto oggi, mercoledì 6 novembre, dalla Nasa come Apod, Astronomy Picture of Day.

L’autrice della fotografia è Alessandra Masi, astrofotografa di professione, socia dell’Associazione astronomica Cortina e fotografa sostenitrice della Fondazione Dolomiti Unesco, che nel suo palmarès conta già diversi riconoscimenti: un’altra sua foto è stata la Apod del 19 gennaio 2021 – la stessa poi pubblicata l’11 febbraio come Epod (Earth Science Picture of the Day) – e il suo scatto scatto “Luna eclissata tramonta vicino alla Rocchetta di Prendera” si è aggiudicato il primo posto nella categoria eclissi lunare totale al concorso fotografico Iau Oae Astrophotography Contest.

L’Apod di oggi, scattata a metà ottobre, mostra il cielo illuminato dalla lunga coda di polveri e ioni della cometa che puntano verso l’alto, lontano dal Sole. Ma mostra anche una caratteristica rara e interessante della cometa: la presenza di un’anticoda che punta verso il basso, quasi verso il Sole appena tramontato. Si tratta di una scia di particelle di polveri più grandi, prodotte dall’elevata velocità di espulsione dei materiali dal nucleo, visibile solo quando la Terra passa attraverso il piano orbitale della cometa.

«In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di riprendere diverse comete ed è sempre entusiasmante seguire la loro evoluzione», dice Masi a Media Inaf. «Il loro aspetto muta ogni giorno e ogni ora in modo imprevedibile suscitando in me stupore e curiosità, spingendomi a pianificare luoghi e postazioni adatte per poterle osservare e riprendere al meglio».

A rendere lo scatto dell’astrofotografa ancora più suggestivo c’è poi il paesaggio: la vista del borgo di Tai di Cadore, in primo piano, con le imponenti montagne dolomitiche, patrimonio dell’Unesco, sullo sfondo. A causa del maltempo, ottenere la foto non è stato semplice, ma alla fine la pazienza ha ripagato l’autrice dello scatto.

«Anche nel caso di questa cometa avevo scelto delle postazioni che mi consentissero di ritrarla nell’ambiente vicino a casa, ma il maltempo sembrava non concedere tregua», ricorda Masi. «La sera del 15 ottobre delle nuvole dense oscuravano il cielo generando in me la preoccupazione di un’altra deludente uscita. Ho cominciato a scattare sperando di individuarla in mezzo alle nuvole e finalmente eccola comparire. Pian piano il cielo si è aperto, permettendomi di vederla ad occhio nudo e di poterla aspettare nella posizione che avevo immaginato, in un suggestivo scenario sopra il paese di Tai di Cadore, una frazione di Pieve di Cadore, per poi tramontare velocemente dietro Monte Pelmo, che per me rappresenta una delle meraviglie delle Dolomiti».

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L’astrofotografa Alessandra Masi, autrice dello scatto “Comet Tsuchinshan-Atlas over the Dolomites”, scelto dalla Nasa come foto astronomica del giorno

La foto – scattata con una Canon R6, obiettivo Canon 24/105 a 55mm, 3200 Iso 4 sec. F5.6 – è frutto di esposizioni multiple per recuperare le luci del paese. Il risultato finale rivela tutta la passione di Alessandra Masi per l’astrofotografia paesaggistica, in particolare per quella del paese in cui vive.

«Sono sorpresa d’essere riuscita, nonostante le luci del paese e la forte luminosità della Luna, che hanno rappresentato la difficoltà maggiore, a catturare la lunghissima coda con l’anticoda della cometa, che hanno contribuito a creare un’immagine interessante, tanto da suscitare l’interesse per questo prestigioso riconoscimento», continua Masi. «Un riconoscimento che, come il precedente, ritrae il paese in cui vivo e al quale sono profondamente legata, e del quale sono lieta di avere l’opportunità di condividere la bellezza».

«Esplorare il cielo notturno è una passione che cresce in me a ogni uscita», conclude l’astrofotografa. «L’emozione di catturare gli oggetti celesti e incorniciarli nell’ambiente in cui vivo, nel suggestivo scenario delle Dolomiti, è un’esperienza indimenticabile che per me ha una doppia valenza: ricordarmi i bellissimi momenti emozionali al cospetto di tanta bellezza e rendere l’idea della prospettiva e delle dimensioni proporzionali degli oggetti osservati. L’amore per il territorio dolomitico, riconosciuto dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità, mi ha ispirata nella ricerca della fotografia paesaggistica e ad avvicinarmi, come fotografa sostenitrice, alla fondazione Unesco. Inoltre, la frequentazione dell’Associazione astronomica Cortina Stelle ha rappresentato un passo importante per appassionarmi alla conoscenza e alla ripresa del cielo stellato, permettendomi di ottenere dei riconoscimenti anche a livello internazionale».


All’origine della texture dei mondi senz’aria


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Canalicoli curvilinei, depositi dalla forma lobata. E ancora: scarpate e terreni butterati. Sono solo alcune delle caratteristiche geomorfologiche osservate sulle superfici di mondi senza atmosfera come l’asteroide 4 Vesta e il pianeta nano Cerere. Uno dei misteri che gli astronomi vogliono chiarire è cosa possa aver plasmato questa morfologia di superficie. Un team di ricercatori guidati dal Southwest Research Institute, negli Usa, pare ora aver trovato la risposta. Secondo quanto riportato nell’articolo che descrive la ricerca, pubblicato il mese scorso sulla rivista The Planetary Science Journal, a scolpire queste enigmatiche caratteristiche di superficie potrebbero essere state delle salamoie transitorie, ovvero flussi d’acqua salmastra prodotta per liquefazione di ghiaccio d’acqua sotto-superficiale in seguito all’impatto di un corpo celeste.

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Immagine del cratere Cornelia sulla superficie dell’asteroide 4 Vesta che mostra depositi lobati (a destra) e canaloni curvilinei (evidenziati dalle frecce bianche, a sinistra). Secondo Michael J. Poston e colleghi, a produrre queste caratteristiche superficiali su Vesta, come in altri mondi senza atmosfera, potrebbe essere stato lo scorrere di salamoie temporanee prodotte dallo scioglimento di ghiaccio sotto-superficiale provocato da impatti meteorici. Crediti: Courtesy of Jet Propulsion Laboratory

L’idea alla base di questo lavoro di ricerca, già proposta dai ricercatori in un lavoro precedente, è che le caratteristiche superficiali dei corpi senza atmosfera siano la diretta conseguenza di impatti meteorici in grado di portare in superficie e sciogliere depositi contenenti ghiaccio d’acqua eventualmente presenti nel sottosuolo. Il flusso temporaneo del liquido così prodotto creerebbe i canali e i depositi multiformi osservati all’interno dei crateri di nuova formazione.

«Volevamo indagare l’ipotesi, precedentemente proposta, secondo cui il ghiaccio sotto la superficie di un mondo senza atmosfera potrebbe essere portato in superficie e sciolto da un impatto, e il liquido risultante scorrere lungo le pareti del cratere per formare caratteristiche superficiali distinte», spiega Jennifer EC Scully, ricercatrice al Jet Propulsion Laboratory (Jpl) e co-autrice della pubblicazione.

I ricercatori hanno tentato di spiegare la presenza delle misteriose caratteristiche di flusso presenti sulle superfici di corpi celesti simulando degli impatti, indagando poi per quanto tempo il liquido prodotto dallo scioglimento del ghiaccio avrebbe potuto potenzialmente scorrere in superficie, prima di ricongelarsi sotto le pressioni dell’atmosfera transitoria creata dalla collisione. Per fare ciò, gli scienziati hanno condotto esperimenti di laboratorio nei quali hanno simulato le pressioni a cui è sottoposto un ipotetico strato di ghiaccio su 4 Vesta, uno degli asteroidi più grandi del Sistema solare, dopo l’impatto di un meteoroide.

L’apparecchiatura sperimentale utilizzata per la ricerca si chiama Dustie (Dirty Under-vacuum Simulation Testbed for Icy Environments), si trova presso il Jpl della Nasa ed è un camera per il vuoto grande quanto una botte di vino, costruita proprio per simulare specifiche condizioni di pressione atmosferica.

I parametri sperimentali impostati dai ricercatori, che dovevano simulare il flusso di un liquido prodotto da un impatto su un corpo senza aria, includevano pressione atmosferica e temperatura attorno al cratere d’impatto. I campioni di liquido testati erano acqua pura e una salamoia di cloruro di sodio (NaCl), ciascuno miscelato con perle di vetro o con un simulante della regolite di varie dimensioni, pompati nell’apparecchiatura da una anticamera collegata alla camera principale del simulatore.

I campioni sono stati caricati nell’anticamera più piccola con la valvola della camera principale chiusa, isolando così la pressione interna dell’anticamera da quella della camera principale. Successivamente, dall’anticamera è stata pompata fuori l’aria così da provocarne il degassamento, per simulare le condizioni del liquido appena fuso dall’impatto del meteoroide. Infine, l’apertura della valvola della camera a vuoto principale ha simulato la rapida diminuzione di pressione sul liquido che si è formato dai depositi ghiacciati del sottosuolo.

«Attraverso i nostri impatti simulati», spiega Michael J. Poston, ricercatore al Southwest Research Institute e primo autore dello studio, «abbiamo scoperto che l’acqua pura si è congelata nel vuoto troppo rapidamente per apportare cambiamenti significativi, ma le miscele di acqua e sale, le cosiddette salamoie, sono rimaste liquide e hanno continuato a scorrere per almeno un’ora».

Alla luce di questi risultati, i ricercatori ritengono che una salamoia di cloruro di sodio sia fondamentale per la longevità del flusso di liquidi che creano le caratteristiche superficiali di corpi come Vesta e Cerere. Nel nostro esperimento, spiegano i ricercatori, nelle condizioni atmosferiche transitorie indotte dall’impatto, le salamoie di pochi centimetri di spessore sono rimaste liquide per un tempo sufficiente a produrre diverse caratteristiche morfologiche, mentre l’aggiunta di particolato ai campioni ha accelerato i tempi di solidificazione.

I risultati di questo studio potrebbero aiutare a spiegare le origini di alcune caratteristiche osservate su corpi distanti, come le pianure lisce di Europa e la caratteristica struttura a forma di ragno al centro del suo cratere Manannán. La ricerca, inoltre, potrebbe far luce sui vari canali e depositi di detriti a forma di ventaglio su Marte. Pur circoscritti alle condizioni post-impatto su Vesta e Cerere, i risultati contribuiscono alla crescente mole di lavori scientifici che sfruttano esperimenti di laboratorio per comprendere il tempo di vita dei liquidi su una varietà di mondi senza aria. In linea con gli studi su altri mondi senza atmosfera, emerge che le salamoie prodotte dallo scioglimento di ghiacci a seguito di impatti sembrano rimanere liquide per la durata necessaria a scolpire le superfici dei corpi senza aria, formando caratteristiche geomorfiche distintive, come appunto quelle viste su Vesta e Cerere.

«Se questi risultati si rivelassero coerenti in tutti i corpi aridi e privi di aria o con atmosfera rarefatta», conclude Poston, «ciò vorrebbe dire che su questi mondi in un recente passato c’era acqua. E forse c’è ancora, il che significa che potrebbe essere espulsa dagli impatti».

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Tempeste spaziali estreme negli anelli degli alberi


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Ogni anno crescono aggiungendo uno strato di legno nel proprio tronco. Gli alberi, in questi “cerchi di vita”, racchiudono informazioni preziose, comprese quelle sulle tempeste solari e altre attività spaziali estreme accadute nel lontano passato. Secondo Amy Hessl, docente di geografia alla West Virginia University (Wvu), analizzare questi anelli di accrescimento è come consultare una sorta di archivio naturale costruito nell’arco di centinaia di anni.

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Lo studio degli anelli degli alberi può aiutare a prepararsi a eventi meteorologici spaziali che potrebbero minacciare satelliti e astronauti. Amy Hessl, docente di geografia alla West Virginia University, è a capo di un progetto per il loro studio finanziato dalla National Science Foundation. Crediti: Wvu

Le particelle energetiche solari, spiega Hessl, attraverso una cascata di reazioni danno origine ad atomi di radiocarbonio nell’atmosfera. Gli alberi assorbono il carbonio presente nell’atmosfera e il legno trattiene così le tracce di radiocarbonio integrandolo nei propri anelli annuali. Gli anelli possono così offrire una registrazione dell’attività solare e cosmica.

Alcuni fenomeni estremi in particolare, noti come “eventi di Miyake”, si caratterizzano per un aumento rapido e significativo di radiocarbonio in atmosfera, e sono stati osservati per la prima volta negli anelli degli alberi vissuti nel 774 e nel 993 d.C. In seguito sono stati identificati altri sette eventi nel corso degli ultimi 14mila anni. «Se un evento simile si verificasse oggi e voi foste su un volo ad alta latitudine diretto in Norvegia, probabilmente ricevereste la dose di radiazioni di tutta una vita», dice Hessl. «Alcuni di questi eventi sono stati davvero estremi, e sarebbero devastanti per i nostri attuali sistemi di telecomunicazioni. Certo, è un tipo di evento molto raro, ma non si può escludere. Dipendiamo dai satelliti e, se si verificasse oggi, probabilmente metterebbe fuori uso la maggior parte delle nostre reti di telecomunicazioni, richiedendo fino 15 anni per riprendersi».

Secondo i ricercatori, gli anelli degli alberi possono aiutarci a quantificare questi rischi e, in definitiva, a stimare quando e come questi eventi potranno verificarsi nuovamente: studiare come queste “registrazioni naturali” avvengano potrebbe offrire un’importante testimonianza storica dell’attività solare e cosmica, fondamentale per la previsione e la gestione dei futuri rischi spaziali.

Ora un progetto finanziato dalla National Science Foundation (Nsf) statunitense, guidato dalla stessa Hessl, si propone di esaminare gli alberi per capire quanto radiocarbonio hanno assimilato. Ogni albero può infatti reagire in modo diverso e, in realtà, ci sono molte variabili che possono influenzare quanto fedelmente un albero registri i livelli atmosferici nel tempo. «Fino a poco tempo fa, gli scienziati davano per scontato che gli alberi assorbissero il radiocarbonio in modo uniforme. Per molti anni, abbiamo considerato gli alberi come se fossero strumenti scientifici, ma non lo sono. Sono molto variabili e differenti nel modo in cui assorbono il radiocarbonio», spiega Hessl. «Stiamo dunque studiando perché specie diverse di alberi o alberi in luoghi diversi non assorbono il radiocarbonio allo stesso modo».

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Bristlecone Pine Cedar Breaks National Monument nello Utah. Il team di ricerca ha scoperto che i pini settembrini (bristlecone pines) possono conservare in modo unico le fluttuazioni del radiocarbonio, diventando così le specie più affidabili per la ricostruzione dell’attività atmosferica. Crediti: Wikipedia/G. Longenecker

Grazie al finanziamento della Nsf, e collaborando con esperti della Northern Arizona University e della Montana State University, il team guidato da Hessl esaminerà tre specie arboree provenienti da tre località degli Stati Uniti: i longevi pini settembrini (bristlecone pines) dello Utah, i longevi cipressi calvi della Carolina del Nord e le querce fossilizzate del Missouri, ciascuno dei quali può fornire un punto di vista unico su questi eventi atmosferici.

I ricercatori sperano di comprendere le modalità con cui ogni specie arborea registra il radiocarbonio e, di conseguenza, quali alberi possono essere considerati testimoni affidabili degli eventi cosmici passati.

Ogni esemplare verrà analizzato attraverso il metodo della datazione incrociata, che consente di associare ogni anello a un anno specifico, garantendo un elevato grado di precisione nella correlazione con gli eventi di Miyake. Dopo aver prelevato un campione di carota grande come una matita – o una sezione trasversale, se l’albero è morto – i ricercatori dateranno ogni anello utilizzando la “datazione incrociata”, una tecnica di datazione indipendente che consente di confermare l’anno di formazione di ogni anello. Qualsiasi albero vivo durante un evento di Miyake, registrerebbe tale accadimento nella chimica dei propri anelli. Con questo metodo, sarà quindi possibile analizzare come e se, nelle piante di regioni diverse, sono stati registrati eventi estremi o altre anomalie solari e se i vari modelli coincidono. In sostanza, si proveranno a indagare le ambiguità e le incertezze della relazione fra anelli ed eventi di space weather.

I dati raccolti finora mostrano, in effetti, che alberi diversi assorbono il radiocarbonio atmosferico in modo non uniforme e che specie longeve, come ad esempio i pini settembrini, mostrano segni chiari delle fluttuazioni di radiocarbonio, diventando così le specie più affidabili per la ricostruzione dell’attività atmosferica. Tuttavia, alcune specie potrebbero immagazzinare il carbonio incorporandolo nei propri anelli solo successivamente, rendendo i dati potenzialmente meno accurati.

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Il meteo spaziale può interferire con l’elettronica dei satelliti, le comunicazioni radio e i segnali GPS, le orbite dei veicoli spaziali e persino, in casi estremi, con le reti elettriche sulla Terra. Crediti: Nasa

«Stiamo cercando di definire quanto siano stati estremi questi eventi, quando si sono verificati esattamente e per quanto tempo il radiocarbonio è rimasto nell’atmosfera. Dobbiamo essere sicuri di utilizzare registratori attendibili», sottolinea Hessl. «Ciò che vorremmo capire adesso è: quanto sono attendibili questi alberi nel registrare i livelli di radiocarbonio nell’atmosfera?».


Prima analisi cinematica in 3D d’ammassi globulari


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Galleria di immagini dei 16 ammassi globulari analizzati in ordine di differenza delle proprietà cinematiche osservate tra le popolazioni stellari multiple. Crediti: Esa/Hubble; Eso; Sdss

Uno studio pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics apre nuove prospettive sulla nostra comprensione della formazione ed evoluzione dinamica delle popolazioni stellari multiple negli ammassi globulari, agglomerati di stelle di forma sferica, molto compatti, formati tipicamente da 1-2 milioni di stelle. Un gruppo di ricercatori, dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Università di Bologna e dell’Università dell’Indiana negli Usa, ha infatti condotto la prima analisi cinematica 3D (tridimensionale) delle popolazioni stellari multiple per un campione rappresentativo di 16 ammassi globulari nella nostra galassia, fornendo una descrizione osservativa pionieristica del modo in cui le stelle si muovono al loro interno e della loro evoluzione dall’epoca di formazione fino allo stato presente.

«La comprensione dei processi fisici alla base della formazione ed evoluzione iniziale degli ammassi globulari», spiega Emanuele Dalessandro, ricercatore all’Inaf di Bologna, primo autore dell’articolo e coordinatore del gruppo di lavoro, «è una delle più affascinanti e discusse domande astrofisiche degli ultimi 20-25 anni. I risultati del nostro studio forniscono la prima evidenza concreta che gli ammassi globulari si siano generati attraverso molteplici eventi di formazione stellare e pongono vincoli fondamentali sul percorso dinamico seguito dagli ammassi nel corso della loro evoluzione. Questi risultati sono stati possibili grazie a un approccio multi-diagnostico e alla combinazione di osservazioni e simulazioni dinamiche allo stato dell’arte». Lo studio evidenzia che le differenze cinematiche tra le popolazioni multiple sono estremamente utili per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione di queste antiche strutture.

Con età che possono arrivare a 12-13 miliardi di anni (quindi fino all’alba del cosmo), gli ammassi globulari sono tra i primi sistemi a essersi formati nell’universo e rappresentano una popolazione tipica di tutte le galassie. Sono sistemi compatti – con masse di alcune centinaia di migliaia di masse solari e dimensioni di pochi parsec – e osservabili anche in galassie lontane.

«La loro rilevanza astrofisica è enorme», dice Dalessandro, «perché non solo ci aiutano a verificare i modelli cosmologici della formazione dell’Universo grazie alla loro età, ma ci offrono anche laboratori naturali per studiare la formazione, l’evoluzione e l’arricchimento chimico delle galassie».

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Il satellite Gaia dell’Esa che mappa le stelle della Via Lattea. Crediti: Esa/Atg medialab; background: Eso/S. Brunier

Nonostante gli ammassi stellari siano stati studiati per oltre un secolo, risultati osservativi recenti dimostrano che la loro conoscenza è ancora incompleta.

«Risultati ottenuti negli ultimi due decenni hanno inaspettatamente dimostrato che gli ammassi globulari sono composti da più di una popolazione di stelle: una primordiale, con proprietà chimiche simili a quelle di altre stelle nella galassia, e una con abbondanze chimiche anomale di elementi leggeri quali elio, ossigeno, sodio, azoto», ricorda Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Bologna e associato Inaf, tra gli autori dello studio. «Nonostante il gran numero di osservazioni e modelli teorici finalizzati a caratterizzare le proprietà di queste popolazioni, i meccanismi che regolano la loro formazione non sono tutt’ora compresi».

Lo studio si basa sulla misura delle velocità nelle tre dimensioni, ovvero sulla combinazione di moti propri e velocità radiali, ottenuti dal telescopio dell’Esa Gaia e da dati ottenuti tra gli altri con il telescopio Vlt dell’Eso principalmente nell’ambito della survey Mikis (Multi Instrument Kinematic Survey), una survey spettroscopica specificamente indirizzata all’esplorazione della cinematica interna degli ammassi globulari. L’utilizzo di questi telescopi, dallo spazio e da terra, ha garantito una visione 3D senza precedenti della distribuzione di velocità delle stelle negli ammassi globulari selezionati.

Dalle analisi emerge che le stelle con differenti abbondanze di elementi leggeri sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti, come la velocità di rotazione e la distribuzione delle orbite.

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Il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso durante alcune osservazioni. Crediti: Eso/S. Brunier

«In questo lavoro abbiamo analizzato nel dettaglio come si muovono all’interno di ogni ammasso migliaia di stelle», aggiunge Alessandro Della Croce, studente di dottorato presso l’Inaf di Bologna. «È risultato subito chiaro che stelle appartenenti a diverse popolazioni sono caratterizzate da proprietà cinematiche differenti: le stelle con composizione chimica anomala tendenzialmente ruotano all’interno dell’ammasso più velocemente delle altre e si diffondono progressivamente dalle regioni centrali verso quelle più esterne».

L’intensità di queste differenze cinematiche dipende all’età dinamica degli ammassi globulari. «Questi risultati sono compatibili con l’evoluzione dinamica a “lungo termine” di sistemi stellari in cui le stelle con abbondanze chimiche anomale si formano più centralmente concentrate e più rapidamente rotanti di quelle standard. Ciò di conseguenza suggerisce che gli ammassi globulari si siano generati attraverso eventi multipli di formazione stellare e fornisce un tassello importante nella definizione dei processi fisici e dei tempi-scala alla base della formazione ed evoluzione di ammassi stellari massicci», conclude Dalessandro.

Questa nuova visione tridimensionale del moto delle stelle all’interno degli ammassi globulari fornisce un quadro inedito e affascinante sulla formazione ed evoluzione dinamica di questi sistemi, contribuendo a chiarire alcuni dei misteri più complessi riguardanti l’origine di queste antichissime strutture.

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Dieci milioni di euro per studiare i misteri del cosmo


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Sono stati annunciati oggi, martedì 5 novembre, alle ore 12 dal Consiglio europeo della ricerca (Erc) i vincitori degli Erc Synergy Grant 2024 e il progetto Recap (Reionization Complementary Approach Project) si è aggiudicato un finanziamento da dieci milioni di euro. Guidato da un team internazionale composto da quattro scienziate, di cui tre italiane, Recap promette di studiare in dettaglio l’epoca della reionizzazione, uno dei periodi fondamentali per comprendere l’evoluzione dell’universo. Laura Pentericci e Valentina D’Odorico dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) coordinano due dei team coinvolti nel progetto.

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Le ricercatrici che compongono il team Recap. Da sinistra a destra: Kirsten Kraiberg Knudsen, Laura Pentericci, Benedetta Ciardi e Valentina D’Odorico

L’epoca della reionizzazione rappresenta l’ultima importante fase di transizione attraversata dall’universo, iniziata circa 100-200 milioni di anni dopo il Big bang e protrattasi per molte centinaia di milioni di anni. Il suo nome è dovuto al fatto che in quel periodo il gas presente tra le galassie è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Recap si propone di sviluppare simulazioni tridimensionali e osservazioni multi-frequenza sfruttando dati raccolti dal James Webb Space Telescope, dal Very Large Telescope e dall’Osservatorio Alma, e l’obiettivo è comprendere questa complessa fase dell’universo, la natura delle prime sorgenti e l’impatto sulla successiva evoluzione del cosmo.

Recap è un progetto sviluppato da un team interdisciplinare composto da quattro scienziate che lavorano tra l’Italia, la Svezia e la Germania. Oltre a Laura Pentericci e Valentina D’Odorico dell’Inaf il team comprende anche Benedetta Ciardi dell’Istituto Max Planck for Astrophysics a Garching in Germania e Kirsten Kraiberg Knudsen della Chalmers University of Technology di Göteborg. Le diverse esperienze e specializzazioni delle quattro ricercatrici, che vanno dall’osservazione di oggetti celesti lontanissimi alla realizzazione di modelli numerici, permetteranno al team di affrontare lo studio della reionizzazione con una nuova prospettiva ad ampio spettro. Recap è uno dei 57 progetti finanziati nel 2024 dal Consiglio europeo della ricerca nell’ambito dei Synergy Grant, tra quasi 550 proposte pervenute.

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Rappresentazione artistica della porzione di timeline dell’universo attorno all’epoca della reionizzazione, il processo che ha ionizzato la maggior parte della materia presente nel cosmo. Crediti: Esa/C. Carreau

«Il nostro progetto nasce dalla voglia di combinare le nostre capacità diverse e complementari, per affrontare insieme uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna, cioè l’epoca della reionizzazione», spiega Pentericci. «Sarà sicuramente entusiasmante e stimolante lavorare con le altre colleghe: unendo le forze saremo in grado di svelare quest’epoca remota e affascinante della storia del nostro universo, quando si sono formate le prime galassie e finalmente è terminata la cosiddetta “età oscura”».

Il finanziamento stanziato copre un periodo di sei anni e prevede l’assunzione di ricercatori e studenti di dottorato che forniranno il loro contributo ai lavori di simulazione e osservazione. L’intenzione è quella di creare un’eredità scientifica duratura, che guiderà le campagne osservative delle infrastrutture di nuova generazione, come l’Extremely Large Telescope e l’Osservatorio Ska. I risultati ottenuti contribuiranno ad arricchire le conoscenze della comunità scientifica, che potrà programmare in maniera ottimale i futuri progetti di osservazione, dotandosi di nuovi strumenti all’avanguardia.

«Sono molto soddisfatta e orgogliosa di questo risultato», dice D’Odorico. «Abbiamo lavorato molto per raggiungerlo e credo che la sinergia fra di noi, sia scientifica che umana, abbia giocato un ruolo fondamentale già nella preparazione della proposta e dell’interview. Questo progetto ci permetterà di allargare i nostri gruppi di ricerca proprio per dedicare il tempo necessario a combinare i nostri risultati e riuscire a rispondere ad alcune delle domande fondamentali legate al processo di reionizzazione cosmica».


Codex in viaggio verso la Stazione spaziale


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È partito alle 3.29 di questa mattina (ora italiana) dal Kennedy space center della Nasa, in Florida (le 21.29 di ieri sera ora locale), a bordo di una navicella Dragon di SpaceX, lo strumento Codex, un coronografo solare che verrà installato sulla Stazione spaziale internazionale per raccogliere importanti informazioni sul vento solare e sulla sua formazione. Si tratta della 31esima missione di rifornimento commerciale operata da SpaceX verso il laboratorio orbitante. La navicella, che porta anche il rifornimento di cibo e attrezzature per gli astronauti e altri esperimenti, dovrebbe attraccare al modulo Harmony della Iss alle 14.45 di oggi pomeriggio, martedì 5 novembre.

Liftoff of Dragon’s 31st Commercial Resupply Services mission to the @Space_Station! pic.twitter.com/MPRoutKS3t

— SpaceX (@SpaceX) November 5, 2024

Codex, lo dicevamo, è un coronografo, ovvero uno strumento che blocca la luce intensa proveniente dalla superficie del Sole per riuscire a vedere i dettagli nella sua regione più esterna, la corona. Lo strumento è una collaborazione tra il Goddard Space Flight Center della Nasa e il Korea Astronomy and Space Science Institute (Kasi). L’Inaf ha contribuito alla calibrazione dello strumento nel suo laboratorio spaziale OpSys (Optical Payload System), a Torino, e collaborerà anche all’analisi delle immagini coronali.

Ad assistere al lancio c’era dunque anche Silvano Fineschi dell’Inaf di Torino, che ha inviato nella notte a Media Inaf le sue impressioni a caldo. «Il lancio notturno è stato spettacolare: il bagliore degli scarichi dei motori del razzo si è riflesso sulle acque della laguna e ha illuminato il cielo a giorno. Qualche secondo dopo, il rombo dei motori ha scosso il terreno fino al sito d’osservazione del lancio. In quel momento, è stata grande l’emozione di vedere anni di lavoro messi in gioco in quei pochi secondi. La notte è serena e si può seguire l’ascesa del Falcon fino al distacco del primo stadio e all’accensione del secondo stadio che continua veloce nella sua entrata in orbita. Poi, improvvisamente, un altro bagliore illumina il cielo: è il primo stadio de Falcon che finito il suo lavoro sta ritornando a terra, controllato dagli stessi motori che un momento prima lo hanno fatto staccare da terra. Atterra a pochi chilometri dalla rampa che aveva lasciato solo alcuni minuti prima. A differenza dei vettori a razzo tradizionali “usa e getta”, una volta rifornito, sarà pronto per un’altra missione. Domani un’altra emozione: alle ore 10 ora della Florida la capsula Dragon attraccherà alla Stazione spaziale».

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Lo strumento Codex durante la calibrazione nel Laboratorio Spaziale “Optical Payload System” (OPSys) a Torino. Crediti: INAF/Maria Laura Fineschi

Codex è diverso dai precedenti coronografi della Nasa, perché è dotato di filtri speciali in grado di fornire dettagli sulla temperatura e sulla velocità del vento solare. In genere, un coronografo solare cattura immagini della densità del plasma che si allontana dal Sole. Codex potrà quindi fare un passo in più nella determinazione delle condizioni fisiche del vento solare, poiché combinerà le stime di temperatura e velocità del vento solare con la tradizionale misura della densità. In questo modo sarà possibile vedere l’evoluzione delle strutture nel vento solare, da quando si formano dalla corona del Sole fino a quando fluiscono verso l’esterno e diventano il vento solare. Lo scopo? Ad esempio, capire che cosa riscalda il vento solare fino a una temperatura di circa un milione di gradi – circa 175 volte più caldo della superficie della nostra stella – e lo fa uscire dal Sole a più di 1.6 milioni di chilometri all’ora.

«L’Inaf di Torino ha una lunga esperienza nello studio della corona solare dallo spazio», continua Fineschi. «Attualmente è anche coinvolto nella missione dell’Esa Solar Orbiter, con il coronografo italiano Metis. L’osservazione simultanea della corona solare con Codex e con Metis fornirà informazioni uniche sui parametri fisici dell’atmosfera solare, quali velocità del vento solare e temperature del plasma coronale. Questo permetterà una maggiore comprensione dell’atmosfera del Sole e delle sue tempeste, dalle quali anche la Terra è investita, soprattutto in questo periodo in cui il loro ciclo undecennale di attività è al massimo».

Ricordiamo infine che Codex non è l’unico esperimento a bordo della navicella Dragon nel quale siano coinvolti ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica: ci sono anche alcuni campioni di materiale del progetto Ema (Euro Material Ageing), al quale partecipano ricercatori dell’Inaf di Bologna e dell’Inaf di Catania, destinato a essere condotto nella piattaforma Bartolomeo della Stazione spaziale internazionale. In particolare, sono stati inclusi nel piano dei test – finalizzati a verificare gli effetti dell’esposizione alle condizioni estreme dello spazio sui cristalli usati per le ottiche e per i rivelatori dei futuri telescopi per raggi gamma – tre tipi di materiali, basati su germanio, silicio e cadmio-zinco-tellurio.

Guarda su MediaInaf Tv il servizio video del 2023 su Codex:

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Buchi neri come fonte dell’energia oscura


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Il buco nero Cygnus X-1. Crediti: Nasa/ Cxc/ M.Weiss

Secondo la teoria dell’inflazione cosmologica, quasi 14 miliardi di anni fa – nelle primissime fasi del Big Bang – un’energia misteriosa ha guidato l’espansione esponenziale dell’universo. Quell’antica energia condivideva le caratteristiche principali dell’attuale energia oscura, che rappresenta il più grande mistero del nostro tempo. Infatti, sappiamo che costituisce la maggior parte dell’universo – circa il 70 per cento – ma non sappiamo cosa sia.

«Se ci domandiamo in quale punto dell’universo riscontriamo una gravità così forte come all’inizio dell’universo, la risposta è al centro dei buchi neri», fa notare Gregory Tarlé, professore di fisica all’Università del Michigan e coautore dello studio. «È possibile che ciò che è accaduto durante l’inflazione avvenga al contrario: la materia di una stella massiccia diventa di nuovo energia oscura durante il collasso gravitazionale, come un piccolo Big Bang riprodotto al contrario».

In un nuovo studio pubblicato su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, Tarlé e colleghi rafforzano l’ipotesi di questo scenario con i recenti dati del Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), uno strumento composto da 5mila occhi robotici montati sul telescopio Mayall dell’Osservatorio Nazionale di Kitt Peak. «Se i buchi neri contengono energia oscura, possono accoppiarsi e crescere con l’universo in espansione, causandone l’accelerazione», dichiara Kevin Croker, primo autore dello studio, dell’Arizona State University. «Non riusciamo a capire nei dettagli come questo avvenga, ma possiamo vedere le prove che sta accadendo».

In sostanza, dai dati del primo anno della survey quinquennale di Desi si evince che la densità dell’energia oscura è aumentata nel tempo. Questo risultato, riferiscono i ricercatori, fornisce un indizio convincente a sostegno dello scenario suddetto, perché l’aumento osservato nel tempo è in linea con l’aumento del numero e della massa dei buchi neri.

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Immagine della NirCam di Jwst del protoammasso di formazione stellare PHz G191.24+62.04, risalente a 11 miliardi di anni fa, quando l’universo stava raggiungendo il suo picco di formazione stellare. Queste prime galassie sono tra le galassie a formazione stellare più attive osservate tra 10,5 e 11,5 miliardi di anni fa. Ogni galassia visibile in questa immagine sta quindi producendo molti buchi neri che, secondo l’ipotesi dei buchi neri cosmologicamente accoppiati, stanno convertendo la materia in energia oscura. Questa immagine mostra i due “moduli” di Jwst NirCam: il modulo più a sinistra contiene il protocluster, mentre il modulo più a destra è un campo vuoto adiacente. Ogni modulo osserva migliaia di galassie. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Maria Polletta (Inaf), Hervé Dole (Paris), Brenda Frye (UofA), Jordan C. J. D’Silva (Uwa), Anton M. Koekemoer (STScI), Jake Summers (Asu), Rogier Windhorst (Asu)

Per cercare le prove dell’energia oscura proveniente dai buchi neri, il team ha utilizzato decine di milioni di galassie distanti misurate da Desi. Lo strumento scruta miliardi di anni nel passato e raccoglie dati che possono essere utilizzati per determinare con precisione la velocità di espansione dell’universo. A loro volta, questi dati possono essere utilizzati per dedurre come la quantità di energia oscura stia cambiando nel tempo. Il team ha confrontato questi dati con il numero di buchi neri che si formano alla morte di stelle massicce nel corso della storia dell’universo.

«I due fenomeni sono risultati coerenti l’uno con l’altro: man mano che si creavano nuovi buchi neri alla morte di stelle massicce, la quantità di energia oscura nell’universo aumentava nel modo giusto», riporta Duncan Farrah, professore associato di fisica all’Università delle Hawaii e coautore dello studio. «Questo rende più plausibile l’ipotesi che i buchi neri siano la fonte dell’energia oscura».

La ricerca si inserisce in una letteratura in crescita che studia la possibilità di un accoppiamento cosmologico nei buchi neri. Uno studio del 2023, che ha visto la partecipazione di molti degli autori di questo articolo, ha riportato l’accoppiamento cosmologico nei buchi neri supermassicci all’interno dei centri galattici. Quello studio ha incoraggiato altri team a cercare l’effetto in tutti i luoghi in cui è possibile trovare i buchi neri nell’universo.

Una differenza fondamentale del nuovo lavoro è che la maggior parte dei buchi neri in questione sono più giovani di quelli esaminati in precedenza. Questi buchi neri sono nati in un’epoca in cui la formazione stellare era ben avviata, anziché appena iniziata. «Questo si verifica molto più tardi nell’universo e si basa sulle recenti misurazioni della produzione e della crescita dei buchi neri osservate con i telescopi spaziali Hubble e Webb», afferma Rogier Windhorst, scienziato del Jwst e professore alla Arizona State University.

A prescindere dalle osservazioni future, il lavoro che si sta svolgendo ora rappresenta un cambiamento epocale nella ricerca sull’energia oscura, sostengono i ricercatori. «Fondamentalmente, se i buchi neri sono energia oscura, accoppiati all’universo che abitano, non è più solo una questione teorica», conclude Tarlé. «Ora è una domanda sperimentale».

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Mai s’era visto un buco nero ingozzarsi così


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I buchi neri supermassicci, quelli che si trovano al centro della maggior parte delle galassie, continuano negli ultimi tempi a essere osservati dai telescopi moderni in epoche sorprendentemente precoci dell’evoluzione dell’universo. È difficile capire come questi buchi neri siano riusciti a diventare così grandi e così rapidamente. Ma con la scoperta – pubblicata oggi su Nature Astronomy – di un buco nero supermassiccio di bassa massa che si nutre di materiale a una velocità estrema, osservato appena un miliardo e mezzo di anni dopo il Big Bang, gli astronomi dispongono ora di nuovi, preziosi, indizi sui meccanismi di crescita rapida di questi buchi neri nell’universo primordiale.

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Rappresentazione artistica di una galassia nana all’inizio dell’universo nella cui regione centrale alberga un buco nero (riquadro in alto a destra) che si alimenta rapidamente. Crediti: NoirLab / Nsf / Aura / J. Da Silva / M. Zamani

Lo studio su Lid-568, questo il nome della galassia che ospita il precoce e vorace buco nero, è stato condotto da un team di ricercatori guidato da Hyewon Suh, astronoma dell’International Gemini Observatory/Nsf NoirLab. Gli autori della scoperta – fra i quali anche quattro ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica: Federica Loiacono, Giorgio Lanzuisi, Stefano Marchesi e Roberto Decarli – hanno utilizzato il James Webb Space Telescope (Jwst) per osservare un campione di galassie della survey Cosmos del Chandra X-ray Observatory. Si tratta di galassie molto luminose in banda X ma invisibili nell’ottico e nel vicino infrarosso. Non però del tutto invisibili per Jwst, la cui sensibilità senza rivali all’infrarosso gli consente – come vedremo – di rilevare anche emissioni debolissime come queste.

All’interno del campione, Lid-568 si distingueva per la sua intensa emissione di raggi X. «Il mio contributo», dice a questo proposito Lanzuisi, «ha riguardato proprio l’analisi della sua emissione in banda X. Essendo la sorgente nel campo Cosmos, le osservazioni profonde ottenute col telescopio Chandra – e lo spettro X di questa sorgente in particolare – erano nei nostri archivi già dal 2016, ma prima dell’osservazione con Jwst il redshift era molto incerto e, soprattutto, non conoscevamo la massa del buco nero al centro di questa galassia».

Osservare Lid-568 anche con Jwst ha però richiesto accorgimenti particolari. L’emissione X non era sufficiente a consentire di determinarne, da sola, la posizione esatta, e dunque a garantire una corretta centratura del bersaglio nel campo visivo del telescopio. Gli scienziati del team di supporto strumentale di Jwst hanno dunque suggerito a Suh e colleghi di utilizzare, al posto della tradizionale spettroscopia a fenditura, lo spettrografo a campo integrale (Ifu) di NirSpec: uno strumento di Jwst in grado di ottenere uno spettro per ogni pixel del campo visivo, invece di limitarsi a una fenditura ristretta.

«A causa della sua debolezza, l’individuazione di Lid-568 sarebbe stata impossibile senza Jwst. L’uso dello spettrografo a campo integrale», spiega un altro dei coautori dello studio, Emanuele Farina, astronomo dell’International Gemini Observatory/Nsf NoirLab, «è stato innovativo e necessario per compiere questa osservazione».

Lo strumento NirSpec di Jwst ha infatti permesso al team di ottenere una visione completa del bersaglio e della regione circostante, portando alla scoperta inaspettata di potenti deflussi di gas intorno al buco nero centrale. La velocità e le dimensioni di questi deflussi – outflows, in inglese – hanno portato il team a dedurre che una frazione sostanziale della crescita di massa del buco nero al centro di Lid-568 potrebbe essersi verificata in un singolo episodio di rapido accrescimento.

«Questo risultato, che si è rivelato un caso fortuito, ha aggiunto una nuova dimensione alla nostra comprensione del sistema e ha aperto interessanti strade di indagine», dice Suh. In particolare, lei e il suo team sono rimasti sorpresi nello scoprire che Lid-568 sembra nutrirsi di materia a una velocità quaranta volte superiore al suo limite di Eddington: una soglia legata alla luminosità massima che un buco nero può raggiungere, e alla velocità con cui può assorbire materia, mantenendo un equilibrio tra la forza gravitazionale – verso l’interno – e la pressione – verso l’esterno – generata dal calore della materia compressa in caduta verso il buco nero stesso. Quando gli autori dello studio hanno visto che la luminosità di Lid-568 era molto al di là di questa soglia, e dunque molto più alta di quanto teoricamente possibile, subito si sono resi conto di avere fra le mani dati sorprendenti.

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I quattro ricercatori dell’Inaf che hanno preso parte allo studio pubblicato su Nature Astronomy. Da sinistra: Roberto Decarli, Stefano Marchesi, Federica Loiacono e Giorgio Lanzuisi. Crediti: Inaf

«I dati in banda X sono stati cruciali nel derivare la luminosità totale emessa dal materiale che accresce sul buco nero, corretta per il forte assorbimento presente in questa sorgente molto rossa (in quanto “arrossata” dalla polvere) e compatta», sottolinea Lanzuisi. «Questa luminosità molto alta – circa mille volte quella della nostra intera galassia – insieme alla massa relativamente ridotta del buco nero – tre milioni di masse solari, un valore piuttosto piccolo per un buco nero supermassiccio – sono servite a determinare il tasso di accrescimento rispetto al limite di Eddington, risultato appunto oltre quaranta volte quello teorico. Le osservazioni multibanda dal medio infrarosso (con Spitzer) al millimetrico (con Alma) hanno poi permesso di confermare questa alta luminosità totale».

«Questo buco nero sta banchettando», riassume un’altra coautrice dello studio, Julia Scharwächter, dell’International Gemini Observatory/Nsf NoirLab. «Si tratta di un caso estremo che dimostra come un meccanismo di alimentazione rapida al di sopra del limite di Eddington possa rappresentare una delle possibili spiegazioni del perché vediamo questi buchi neri molto massicci già presenti così presto nella vita dell’universo».

Un risultato, dunque, che fornisce nuovi indizi sulla formazione dei buchi neri supermassicci a partire da “semi” fatti di buchi neri più piccoli, semi che secondo le teorie attuali deriverebbero dalla morte delle prime stelle dell’universo (semi leggeri) oppure dal collasso diretto di nubi di gas (semi pesanti). Finora queste teorie non trovavano conferme osservative. «La scoperta di un buco nero “super-Eddington” in accrescimento suggerisce che una porzione significativa dell’aumento di massa possa avvenire durante un singolo e rapido episodio di “nutrimento”, indipendentemente dal fatto che il buco nero abbia avuto origine da un seme leggero o pesante», conclude Suh.

La scoperta di Lid-568 dimostra anche che è possibile che un buco nero superi il suo limite di Eddington, offrendo per la prima volta agli astronomi l’opportunità di studiare come ciò avvenga. È possibile che i potenti deflussi osservati in Lid-568 agiscano come una valvola di sfogo per l’energia in eccesso generata dall’accrescimento estremo, impedendo al sistema di diventare troppo instabile. Per studiare ulteriormente i meccanismi in gioco, il team sta già pianificando ulteriori osservazioni con Jwst.

Per saperne di più:

Guarda il video sul canale YouTube del NoirLab:

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Nell’occhio del maelstrom dei buchi neri


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Fonte: sito web CP3-Origins

I buchi neri continuano a suscitare grande interesse tra gli scienziati: sono oggetti puramente gravitazionali, estremamente semplici, ma capaci di nascondere misteri che sfidano la nostra comprensione delle leggi naturali. La maggior parte delle osservazioni finora si è concentrata sulle loro caratteristiche esterne e sull’ambiente circostante, lasciando ancora in gran parte inesplorata la loro natura interna. Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori della University of Southern Denmark, della Charles University di Praga, della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) e della Victoria University of Wellington (Nuova Zelanda), pubblicato venerdì su Physical Review Letters, ha esaminato un aspetto comune della regione più interna di molti spaziotempi che descrivono i buchi neri, suggerendo che la nostra comprensione di questi oggetti potrebbe richiedere ulteriori approfondimenti.

Per Raúl Carballo-Rubio, ricercatore postdoc presso il CP3-Origins della University of Southern Denmark e corresponding author dello studio, il punto centrale è che “le dinamiche interne dei buchi neri, ancora in gran parte sconosciute, potrebbero cambiare radicalmente il nostro modo di osservarli, anche da una prospettiva esterna”.

La soluzione di Kerr delle equazioni della Relatività generale è la più accurata descrizione conosciuta dei buchi neri rotanti osservati in astrofisica gravitazionale. Essa rappresenta un buco nero come un maelstrom, cioè un vortice, nello spaziotempo caratterizzato da due orizzonti: uno esterno, che segna il limite oltre il quale nulla può sfuggire alla sua attrazione gravitazionale, e uno interno, che racchiude una singolarità ad anello, una regione dove lo spaziotempo per come lo conosciamo cessa di esistere. Questo modello è compatibile con le osservazioni, poiché le deviazioni dalla teoria di Einstein all’esterno del buco nero sono controllate dai parametri della nuova fisica, che regolano le dimensioni del nucleo e che sono attese essere genericamente estremamente piccole.

Tuttavia, un recente studio condotto dal suddetto gruppo internazionale ha evidenziato una criticità riguardante l’interno di questi oggetti: mentre era noto che un orizzonte interno statico è caratterizzato da un’accumulazione infinita di energia, lo studio dimostra che anche per più realistici buchi neri dinamici questo orizzonte è soggetto a una forte instabilità in tempi relativamente brevi. Questa instabilità è dovuta a un’accumulazione di energia che cresce esponenzialmente nel tempo fino a raggiungere un valore finito, ma estremamente grande, in grado di influenzare significativamente la geometria globale del buco nero e quindi cambiarla.

Il risultato finale di questo processo dinamico non è ancora chiaro, ma lo studio implica che un buco nero non possa stabilizzarsi nella geometria di Kerr, almeno su lunghe scale temporali, anche se la rapidità e l’entità delle deviazioni dallo spaziotempo di Kerr rimangono oggetto di indagine. Come spiega uno degli autori dello studio, Stefano Liberati, professore alla Sissa, «questo risultato suggerisce che la soluzione di Kerr – contrariamente a quanto finora presupposto – non possa descrivere esattamente i buchi neri osservati, almeno sulle scale temporali tipiche della loro esistenza».

Comprendere il ruolo di questa instabilità è quindi fondamentale per affinare i modelli teorici dell’interno dei buchi neri e la loro relazione alla struttura globale di questi oggetti. In questo senso, potrebbe fornire un collegamento mancante tra i modelli teorici e le possibili osservazioni di fisica oltre la Relatività generale. In conclusione, questi risultati aprono nuove prospettive per lo studio dei buchi neri, offrendo l’opportunità di approfondire la nostra comprensione della loro natura interna e del loro comportamento dinamico.

Fonte: press release Sissa

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Dialogo sopra una massima del caso


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Tommaso Maccacaro e Claudio M. Tartari. La necessità del caso. Dialogo semiserio sui molti modi della scienza. Edizioni Clichy 2024,, 208 pagine. 19 euro

Ogni ‘mpidimentu è giovamentu (ogni impedimento è giovamento), recita un famoso detto siciliano. Una massima da utilizzare nei momenti imprevedibili della vita. Ma è davvero così? Errore e casualità possono essere alleati della ricerca? Tommaso Maccacaro, astrofisico nonché presidente dell’Inaf dal 2008 al 2011, e Claudio Maria Tartari, storico medievalista specializzato in paleografia e divulgatore, nel loro saggio La necessità del caso, edito da Edizioni Clichy, provano a snocciolare una riflessione affascinante e originale sul ruolo del caso nel progresso scientifico.

L’agile volume combina l’approccio scientifico con un tono narrativo leggero, creando una frattura con il classico stile saggistico e coinvolgendo il lettore in un dialogo tra amici di vecchia data. I due autori spiegano come la scienza non sia solo pianificazione e metodo, ma anche apertura al caso e all’imprevedibilità. Maccacaro racconta la sua esperienza nella ricerca astronomica e nella divulgazione, e Tartari offre una visione storica, raccogliendo le tracce del caso in episodi storici memorabili, come la scoperta dell’America.

Il caso, protagonista del libro, si manifesta quale elemento invisibile, una forza – come spiegano gli stessi autori – che influenza e devia il percorso della ricerca non solo scientifica. Ecco che si parla della scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte di Arno Penzias e Robert Wilson, un esempio tanto famoso quanto eclatante: il segnale, inizialmente interpretato come un semplice disturbo, è oggi considerato uno dei pilastri dell’astrofisica moderna e la prova del modello del Big Bang. I temi trattati nei vari capitoli includono anche avvenimenti culturali e tecnologici, quali il tardivo sviluppo delle macchine a vapore e delle biciclette, o la nascita della radioastronomia.

L’elemento chiave del saggio rimane tuttavia la scelta del metodo narrativo. Gli autori muovono tutte le loro riflessioni attraverso dialoghi interattivi e vivaci, quasi a voler invitare il lettore a seguire un’amichevole conversazione tra esperti. Si alternano aneddoti personali, fatti storici e analisi scientifiche, il tutto condito da un’ironia centrata e pulita che riesce a rendere accessibili anche a chi non ha una formazione scientifica argomenti talvolta complessi. La narrazione è arricchita da dettagli storici che trasformano la lettura in un’esperienza didattica estremamente appagante e divertente.

Emerge una visione della scienza non come mera accumulazione di dati, rigida e lineare, ma come un insieme di intuizioni e coincidenze. Una grande caccia al tesoro nella quale la destinazione finale non è sempre scontata e dove il caso si intreccia alla determinazione degli scienziati. Una visione che si distanzia dalla retorica della perfezione scientifica, mostrando quanto sia essenziale per il progresso non solo l’abilità tecnica, ma anche la capacità di accogliere l’imprevisto. Un equilibrio tra dedizione e adattamento, dove anche i fallimenti e le intuizioni fortuite contribuiscono a creare conoscenza.

In un’epoca in cui l’incertezza è spesso considerata qualcosa da cui tenersi alla larga, La necessità del caso ricorda che il disordine e l’imprevisto possono invece portare a incredibili scoperte e innovazioni.


Ecologia e spazio, un legame profondo


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La copertina del volume “Life: 100 Photographs that Changed The World” (2003). Crediti: Wikimedia Commons

È la sera del 24 dicembre 1968 e gli astronauti della missione Apollo 8 sono i primi esseri umani a sorvolare l’emisfero nascosto del nostro satellite. L’equipaggio è formato dal comandante Frank Borman, al suo secondo volo, dal pilota del modulo di comando James Lowell, al terzo volo, e dal pilota del modulo lunare William Anders al suo primo volo. Dopo avere passato i tre giorni del viaggio sempre in vista della Terra, gli astronauti, che hanno il compito di fotografare la superficie della Luna, si sentono isolati. Per questo, quando il moto della loro navicella li porta fuori dall’ombra della Luna, accolgono con gioioso stupore la vista dell’emisfero della Terra illuminata dal Sole. La registrazione della loro conversazione ci fa capire che è Anders il primo a farsi stregare dalla Terra scintillante. Inutilmente il comandante Borman cerca di dissuaderlo dal perdere tempo per una attività non programmata. Anders ride, chiede a Jim Lowell di sbrigarsi a passargli la macchina fotografica con il rullino a colori e immortala la visione della Terra che sorge. La Nasa la chiamerà Earthrise e penso andrebbe dedicata proprio a Bill Anders che, novantenne, ci ha lasciato il 7 giugno schiantandosi con il suo aereo. Oltre ad essere entrata a fare parte della lista delle 100 foto che hanno cambiato il mondo, compilata dalla rivista Life nel 2003, la Terra che sorge ha avuto l’onore della copertina di quel numero della rivista.

Benché l’esplorazione del nostro satellite abbia avuto importantissime ricadute scientifiche e tecnologiche, tutti gli astronauti lunari sono stati concordi nel dire che quello che li aveva colpiti di più era stato vedere la Terra così brillante e così isolata nel buio dello spazio. Eugene Cernan, comandante della missione Apollo 17, ha dichiarato: “siamo andati ad esplorare la Luna ma abbiamo scoperto la Terra”.

Sono in molti a pensare, probabilmente con ragione, che la foto della Terra che sorge, nella sua esplicita semplicità, abbia contribuito alla sviluppo della sensibilità ecologista. È un’immagine che muove le coscienze e certamente fa venire voglia di difendere il nostro pianeta, vaste aree del quale sono inquinate dalle attività industriali, dalle emissioni delle auto, dagli scarichi indiscriminati. Sarà questa la ragione di essere del primo Earth Day, organizzato il 22 aprile 1970 sotto la spinta del senatore democratico Gaylord Nelson, che pensò di dare voce alla preoccupazione delle giovani generazioni per lo stato dell’ambiente. Il pubblico rispose in massa: si contarono venti milioni di persone, una cifra enorme, pari al 10 per cento della popolazione americana dell’epoca. Un chiaro segnale per la politica Usa che, negli anni successivi, approvò le leggi per il controllo della qualità dell’aria e dell’acqua e per la protezione delle specie animali a rischio. Per i primi venti anni lo Earth Day è stata un’iniziativa esclusivamente americana, poi, nel 1990, è diventata globale coinvolgendo 200 milioni di persone in 141 paesi. Da allora non ha mai smesso di crescere rivolgendo la sua attenzione al cambiamento climatico, oltre che alla salvaguardia dell’ambiente.

Ecologia spaziale @Hoepli_1870 – un estratto del nuovo libro su la Domenica del @sole24ore pic.twitter.com/dMmIYZFyEf

— Patrizia Caraveo (@CaraveoPatrizia) October 27, 2024

Sappiamo benissimo che l’attività dell’uomo interferisce con gli equilibri ecologici locali e globali e questo è particolarmente vero per i beni comuni, quelli che il diritto romano chiamava res communes perché per loro natura non possono essere privatizzate, come l’atmosfera o gli oceani. Dal momento che sono a disposizione di tutti, ma non appartengono a nessuno, le res communes sono particolarmente esposte alle conseguenze di un eccessivo sfruttamento.

Se vogliamo lasciare un pianeta in buona salute alle generazioni future occorre promuovere un uso consapevole e sostenibile delle risorse globali della Terra, ma fino a dove ci dobbiamo spingere? In altre parole, quale sono i confini dell’ambiente che vogliamo proteggere? Dove finisce quello che ci circonda e ci permette di vivere e di operare? Gli esseri umani svolgono attività nello spazio dal 1957 e tradizionalmente si dava per scontato che le attività spaziali fossero confinate nello spazio. Oggi la situazione è radicalmente cambiata: la qualità della nostra vita dipende dalla possibilità di utilizzare servizi offerti da satelliti e, per venire incontro alla domanda del pubblico, il numero degli strumenti in orbita sta letteralmente esplodendo.

Il nostro pianeta è circondato da satelliti che svolgono un lavoro straordinario nello studiare i cambiamenti climatici, salvare vite umane e mitigare le conseguenze di disastri naturali, fornire servizi di comunicazione e navigazione globali e aiutarci a rispondere a importanti domande scientifiche.

Di sicuro i rapidi sviluppi tecnologici sono stati accompagnati da applicazioni innovative a beneficio della società. Purtroppo, però, stanno emergendo impatti negativi, come l’inquinamento luminoso, il pericolo di collisioni in orbita, il deposito di gas tossici nella nostra atmosfera ed i rischi di incidenti causati da detriti in caduta libera.

Ci siamo resi conto che lo spazio circumterrestre è un bene comune dell’umanità. Le sue dimensioni sono grandi, ma non infinite e rischia il sovraffollamento. Parliamo di un ambiente prezioso che è necessario preservare imparando a utilizzarlo in modo consapevole e sostenibile.

Generalizzando il concetto di ecosistema ad includere anche lo spazio circumterrestre dove orbitano i satelliti, stiamo completando un lungo cammino che è iniziato oltre 60 anni fa, grazie alla foto della Terra che sorge.

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Scienza al cinema, l’Inaf premia U Are The Universe


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La grafica ufficiale del Trieste Science+Fiction Festival 2024 disegnata da ZeroCalcare. Crediti: Trieste Science+Fiction Festival

Giunto alla sua 24esima edizione, Trieste Science+Fiction Festival riunisce ogni anno appassionati e professionisti della fantascienza e del fantastico nel capoluogo giuliano. Oltre cinquanta anteprime internazionali e tre concorsi hanno arricchito quest’anno la manifestazione, con la partecipazione di registi, attori e autori provenienti da ogni angolo del mondo. Come ogni anno, un ventaglio di opere di fantascienza che affrontano tematiche contemporanee si sono affiancate a prospettive immaginative e spesso distopiche.

Tra i film più attesi troviamo storie che riflettono le paure e le speranze del presente: dalla minaccia del cambiamento climatico all’impatto dell’intelligenza artificiale – tema al centro dell’evento, rappresentato quest’anno nel manifesto ideato da Zerocalcare. Grazie alla varietà di generi, dai racconti cyberpunk e post-apocalittici ai thriller psicologici e agli horror sci-fi, il festival offre uno spaccato delle preoccupazioni sociali del nostro tempo, esplorate attraverso le infinite possibilità del cinema fantastico.

In questa cornice, l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), partner storico e patrocinatore del Festival, ha conferito il premio Inaf-Event Horizon al film U Are The Universe del regista ucraino Pavlo Ostrikov. Il riconoscimento, istituito nel 2023 in occasione dei 60 anni dal primo Festival internazionale del film di fantascienza di Trieste, viene assegnato da una giuria dell’Inaf – composta da un gruppo di ricercatori, giornalisti e cinefili di spessore – al lungometraggio che meglio esplora tematiche innovative e profonde legate alla scienza e alla condizione umana.

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Una scena del film “U are the Universe” con il protagonista Volodymyr Kravchuk. Crediti: Trieste Science+Fiction Festival

«U Are The Universe si distingue per la capacità di trasportare gli spettatori nell’immensità e nella solitudine del cosmo, affrontando con tocco leggero un tema profondo: come restare umani in tempi e condizioni estreme», dice Stefano Cristiani, presidente della giuria composta da Vincenzo Cardone, Fabrizio Fiore, Paolo Soletta, Paolo Tozzi e da chi scrive.

La giuria ha voluto premiare l’abilità di Ostrikov «per aver realizzato uno sci-fi che coniuga ironia, romanticismo, avventura, tragedia, citazioni filmiche, con una scrittura intelligente che evita i cliché e affronta le grandi domande che hanno sempre plasmato il genere: la condizione umana nello spazio, cosa significhi realmente agire come umani, la mortalità, l’isolamento, il bisogno di connessioni. Ostrikov e il suo team affrontano questi temi con mezzi narrativi minimalisti, un’ambientazione vintage, la fotografia funzionale di Nikita Kuzmenko, la performance di Volodymyr Kravchuk, concentrandosi sui conflitti e lo sviluppo del personaggio camionista-spaziale, che deve aprirsi ad un’altra persona proprio quando – specchio dell’attualità – si chiude l’orizzonte sul mondo che conosce. Il delicato equilibrio della linea narrativa produce con successo un’allegoria della speranza nei momenti più bui».

Un tema secondario ma rilevante è l’idea che lo spazio venga utilizzato come discarica per i rifiuti terrestri, quali ad esempio i materiali nucleari. Questa scelta narrativa aggiunge spessore alla trama e invita il pubblico a riflettere sulla fragilità del pianeta Terra e le conseguenze delle nostre azioni sul cosmo, mostrando la scienza e la fantascienza come potenti strumenti di sensibilizzazione.

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La locandina ufficiale del film premiato. Crediti: Trieste Science+Fiction Festival

Con il premio Event Horizon, l’Inaf conferma così il suo impegno nella promozione di un cinema di fantascienza che non solo intrattiene, ma stimola il pensiero, celebrando l’incontro tra scienza e immaginazione. La cerimonia di premiazione del film è avvenuta ieri, sabato 2 novembre, alla presenza del regista e di Fabrizio Fiore, direttore dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Trieste, che insieme a Cristiani ha consegnato il premio.

«Spesso la fantascienza anticipa la scienza, influenzando il nostro modo di percepire e metabolizzare i concetti scientifici», dice Fiore. «Questo premio è stato ideato proprio per onorare quelle opere che non si limitano a ricorrere ai soliti stereotipi fantascientifici, ma che affrontano, con intelligenza e sensibilità, il progresso scientifico e l’innovazione tecnologica, anche in relazione a questioni etiche e filosofiche». U Are The Universe si colloca perfettamente in questa tradizione, offrendo al pubblico una visione a tutto tondo della condizione umana nello spazio.

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Guarda il trailer di U Are The Universe:

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Attenti al lupo nella nebulosa


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Immagine Vst della Dark Wolf Nebula. Crediti: Eso/Vphas+ team

Oltre alle storie di creature fantastiche e vorticosi inseguimenti celesti che l’umanità tramanda da millenni in ogni angolo del globo, la volta stellata racchiude un’infinità di forme singolari, visibili solo al telescopio, che si celano tra gli astri e il materiale interstellare. È il caso della Nebulosa del lupo scuro (in inglese, Dark Wolf Nebula), immortalata dal telescopio italiano Vst (Vlt Survey Telescope) in una spettacolare immagine resa pubblica oggi dallo European Southern Observatory (Eso) in occasione di Halloween.

La nebulosa, che è parte di una nube interstellare ancora più vasta, chiamata Gum 55, si trova in direzione della costellazione dello Scorpione, verso il centro della Via Lattea, a circa 5300 anni luce da noi. Nell’immagine, composta da 283 milioni di pixel, la polvere cosmica nelle porzioni più scure della nebulosa assorbe la luce proveniente dai corpi celesti situati dietro di essa, creando l’illusione di una silhouette la cui forma ricorda quella di un lupo. Si tratta di una nebulosa oscura, che spicca sullo sfondo, brulicante di stelle e tinto di rosso dall’emissione diffusa del gas idrogeno, eccitato dalla radiazione ultravioletta che le giovani stelle rilasciano nei dintorni.

Individuare figure fantasiose nelle nubi scure che solcano la Via Lattea, anziché tracciando linee immaginarie tra le stelle come nel caso delle costellazioni, è una tradizione di lunga data di molti popoli indigeni. Ne è un esempio la Nebulosa Sacco di Carbone, visibile a occhio nudo nell’emisfero sud, che è nota presso il popolo Mapuche come ‘pozoko’ (pozzo d’acqua) mentre dagli Inca veniva chiamata ‘yutu’ (un uccello simile alla pernice).

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Una serie di dettagli all’interno dell’enorme Nebulosa del lupo scuro: la “testa” del lupo si riconosce nell’immagine in alto al centro. I “pilastri” nelle immagini a destra si formano quando l’intensa radiazione delle stelle giovani incontra dense sacche di polvere e gas, erodendo e spazzando via il materiale circostante. Crediti: Eso/Vphas+ team

Il Vst, gestito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) presso l’osservatorio Eso di Cerro Paranal, sulle Ande Cilene, ha un grande campo di vista, pari a un grado quadrato, equivalente a circa quattro volte l’area della luna piena in cielo. Il telescopio è stato progettato e costruito dall’Inaf di Napoli per scansionare in maniera efficace grandi porzioni del cielo dell’emisfero sud. Questa immagine è stata realizzata nell’ambito del progetto Vst Photometric Hα Survey of the Southern Galactic Plane and Bulge (Vphas+), una collaborazione di ricerca internazionale a guida britannica che sfrutta il potente telescopio italiano per studiare, su grande scala, le regioni della Via Lattea in cui nascono le stelle.

«Nonostante i suoi dodici anni di vita, il Vst continua a funzionare in maniere efficiente, regalando immagini spettacolari come questa», commenta Enrichetta Iodice, ricercatrice Inaf a Napoli e responsabile del Centro italiano di coordinamento per Vst. «Il grande campo di vista e l’alta risoluzione angolare della fotocamera OmegaCam, che opera sul Vst, sono le caratteristiche fondamentali che ci permettono di coprire grandi aree di cielo e scrutare le strutture dell’universo vicino con dettagli eccellenti».


Da Firenze allo spazio, con due ambasciatori


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Sofia Randich e Pietro Ubertini alla premiazione. Crediti: Inaf

Si è tenuta oggi, giovedì 31 ottobre, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, nel cuore di Firenze, la cerimonia di premiazione del Florence Ambassador Award: tra i nuovi quattordici “Ambasciatori della Città di Firenze” ci sono anche due astrofisici dell’Istituto nazionale di astrofisica, Sofia Randich e Pietro Ubertini. Motivazione: avere promosso lo svolgimento della 44ma assemblea generale del Comitato internazionale sullo spazio Cospar (Committee on Space Research), che si terrà a Firenze dall’1 al 9 agosto 2026. Il Cospar promuove lo scambio di risultati, informazioni e dibattiti nel campo della ricerca spaziale internazionale, ed è un forum aperto a tutti gli scienziati del mondo dal 1958, anno della sua fondazione.

L’iniziativa Florence Ambassador Award è promossa dal Comune di Firenze e organizzata dalla Fondazione Destination Florence all’interno del Florence Academic Leader Program per individuare figure di spicco del mondo accademico, scientifico, medico e aziendale che propongono la città di Firenze per ospitare importanti eventi internazionali.

«La missione del Cospar è assicurare un contesto di altissimo livello in un’ottica di apertura e inclusione, senza impedimenti dovuti a tensioni di carattere geopolitico o differenze di alcun tipo», spiega Ubertini, che del Cospar è vicepresidente, ed è alla guida del comitato organizzatore di Florence2026 con Sofia Randich, direttrice fino allo scorso anno dell’Osservatorio Inaf di Arcetri.

«È un onore ricevere questo riconoscimento. Riportare a Firenze nel 2026 l’Assemblea scientifica Cospar, già ospitata nel 1961 e 1964», ricorda Randich, «è certamente un bel successo, frutto di un eccellente lavoro di squadra, che ci ha visto impegnati come Inaf insieme ad Aim Group International, con il supporto del Comune di Firenze e di molti istituti di ricerca, fra i quali l’Università di Firenze, la sezione fiorentina dell’Infn, alcuni istituti del Cnr e l’Asi. Da una parte si consolida un legame storico fra Firenze e la comunità scientifica internazionale; dall’altra, l’evento, che porterà a Firenze migliaia di scienziati ed esperti avrà un impatto significativo sia per gli addetti ai lavori e i ricercatori, in particolare i giovani, che per la città nel suo insieme».

«Durante l’assemblea del Cospar ad Atene, nel 2022, abbiamo presentato la candidatura di Firenze al Council per il 2026. È stato un testa a testa mozzafiato, con Firenze selezionata con soli tre voti di vantaggio rispetto a Praga. Nell’ultimo anno Firenze è diventata la mia città di adozione, con frequenti visite prima per la redazione della proposta e poi per l’organizzazione di Florence2026. Pur essendo romano, sono molto orgoglioso che la città di Firenze, culla del Rinascimento europeo, mi onori riconoscendomi un suo ambasciatore», conclude Ubertini. «Riportare a Firenze l’Assemblea Cospar dopo sessant’anni è un grandissimo onore».


The Catcher in the Strewn Field


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Infografica sulla terminologia che descrive le varie fasi dell’ingresso in atmosfera di un oggetto dallo spazio. Crediti: Sorvegliati spaziali/Inaf

Strewn field, in italiano area di dispersione: così gli astronomi chiamano la porzione di terreno nella quale si suppone siano cadute le meteoriti – dunque i frammenti giunti a terra – provenienti da un singolo asteroide. Qualora l’ingresso in atmosfera del meteoroide sia stato intercettato da una rete di telecamere all-sky, come l’italiana Prisma per esempio, triangolando le tracce del bolide (fireball) durante la caduta si può arrivare a stimare lo strewn field con una precisione notevole, tale da consentire il successivo recupero di meteoriti, come è avvenuto più volte negli ultimi anni, anche in Italia: nel 2020 a Cavezzo, con la “meteorite di Capodanno”, e nel 2023 a Matera, con la “meteorite di San Valentino”.

Ma le reti di camere all-sky non sono disponibili ovunque, dunque non sempre è possibile disporre dei dati necessari per una triangolazione. Si può comunque tentare di circoscrivere lo strewn field anche in questi casi? La risposta arriva ora da uno studio, in uscita su Icarus, guidato da Albino Carbognani dell’Istituto nazionale di astrofisica. Ed è una risposta positiva: adottando un semplice modello di frammentazione accoppiato a un profilo atmosferico reale, si legge nell’abstract, è possibile stimare lo strewn field partendo direttamente dai dati orbitali dell’asteroide. La precisione è ovviamente minore – anche se non di molto, come vedremo – rispetto a quella ottenibile con la triangolazione delle tracce del fireball, però offre un vantaggio non trascurabile: il tempo. Essendo l’orbita dell’asteroide nota – grazie a osservazioni telescopiche dal suolo – ben prima dell’impatto in atmosfera (ab initio, come dice il titolo dell’articolo), si aprono scenari in cui diventa possibile sapere in anticipo dove cadranno gli eventuali frammenti di meteorite.

Con quanta precisione, Carbognani?

«Nel nostro articolo mostriamo che, ipotizzando un range per la coesione del meteoroide da 0,5 a 5 MPa, per gli asteroidi 2024 BX1, 2023 CX1 e 2008 TC3, che sono i casi con lo strewn field meglio noto e studiato, lo strewn field osservato e quello nostro teorico coincidono entro un’incertezza dell’ordine di 1 km o anche meno: una distanza perfettamente percorribile a piedi dalle squadre di ricerca. Incertezza che diminuisce all’aumentare dell’inclinazione della traiettoria del fireball rispetto alla superficie terrestre. Quindi con la prossima caduta asteroidale, se andrà a finire sulla terraferma, si potrà conoscere in anticipo e con buona approssimazione dove sarà lo strewn field e organizzarsi per il recupero delle meteoriti prima della caduta dell’asteroide – da qui il titolo del paper».

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Albino Carbognani, ricercatore all’Inaf Oas Bologna, collaboratore di Media Inaf e primo autore dello studio sul calcolo “ab initio” dello strewn field in uscita su Icarus, qui davanti a un monitor con lo strewn field di 2024 BX1. Crediti: Inaf

Con range di coesione intendete la “compattezza” del meteoroide?

«Sì, il range per la coesione del meteoroide indica proprio quanto sia compatto o fragile il corpo alle pressioni dovute alla caduta in atmosfera. Se il meteoroide è fragile perché la roccia è ricca di crepe si frammenterà a una quota più elevata, mentre se è più compatto si frammenterà più in basso, vicino al suolo. La quota della frammentazione principale determina il rimanente cammino in atmosfera dei frammenti – più lungo per i meteoroidi fragili, più breve per quelli compatti – e di conseguenza la posizione dello strewn field teorico. È un po’ come avere due autobus per arrivare in stazione a prendere il treno: il primo fa scendere i passeggeri (che fanno le veci dei frammenti) più lontano, mentre il secondo li fa scendere vicino alla stazione. Nel primo caso le persone devono fare a piedi un tratto maggiore con il rischio di perdere il treno, nel secondo caso si arriva subito camminando per un pezzo molto più breve rispetto al primo».

Torniamo all’incertezza nella delimitazione dello strewn field: con il vostro metodo, diceva, è dell’ordine di un chilometro. Quant’è, invece, nei casi in cui è possibile seguire il fireball con una rete di camere all-sky?

«Con una rete tipo Prisma e supponendo di triangolare il fireball durante la caduta del meteoroide, si può arrivare a un’incertezza sulla posizione dello strewn field di alcune centinaia di metri. Tuttavia anche con Prisma bisogna ipotizzare le masse delle meteoriti per campionare la zona di caduta. Il vantaggio di Prisma è che permette di misurare con maggiore precisione il punto di inizio del volo buio da cui dipende la posizione dello strewn field».

Ma solo “a fatto compiuto”, dicevamo, mentre invece con il metodo da voi proposto lo si può scoprire prima dell’impatto. Quanto tempo prima?

«Dipende da quanto tempo passa fra la scoperta dell’asteroide e la collisione. Considerato che si tratta di oggetti metrici – vale a dire, con un diametro nell’ordine del metro – siamo nell’ordine di circa 24 ore prima della caduta. Ma ci sono stati casi in cui le ore erano molte di meno».

Ventiquattro ore non sono poche, e un chilometro mi pare un margine d’incertezza relativamente contenuto: arriverà dunque il giorno in cui sarà possibile recarsi sul posto e attendere l’arrivo d’una meteorite?

«Sì l’idea è proprio questa: con il calcolo preventivo dei possibili strewn field si potrà attendere l’arrivo al suolo dei frammenti. Usando telescopi di grande diametro come quello in dotazione al Vera C. Rubin Observatory, un piccolo asteroide potrebbe essere scoperto alcuni giorni prima della caduta e ci si potrebbe recare sul posto con tutta calma, diminuendo il tempo che passa dalla caduta alla raccolta, minimizzando così la contaminazione terrestre».
O magari, se si è proprio fortunati, trovandosi nel punto giusto intendo, si potrebbe persino acchiappare una meteorite “al volo”… Nel caso potrebbe bastare un buon guantone da baseball – come quello d’un catcher, il ricevitore – per prenderla senza farsi male, o sarebbe troppo rischioso?

«L’acchiappo dei frammenti del meteoroide al volo sarebbe rischioso, non tanto per la temperatura – perché di norma arrivano a terra già raffreddati, a una temperatura di poco superiore a quella ambientale – ma per la velocità tipica di impatto al suolo, che è dell’ordine di 200-300 km/h. Si rischia di farsi davvero male».


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Primi fotoni per il Vera Rubin


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Il telescopio Vera Rubin durante la sua prima osservazione in cielo con la camera di prova da 144 megapixel, chiamata “commissioning camera”, nella notte del 24 ottobre 2024. Crediti: RubinObs / Nsf / Doe / NoirLab / Slac / Aura / W. O’Mullane

Lo scorso 24 ottobre, per la prima volta, la cupola che ospita il Vera Rubin si è aperta, il telescopio si è posizionato in direzione della finestra di cielo e i primi fotoni hanno completato il percorso che dalle profondità del cosmo li ha fatti rimbalzare sullo specchio primario, quindi sul secondario e infine sul terziario, per poi essere raccolti e misurati dalla commissioning camera, un detector di prova a bassa risoluzione installato proprio per eseguire alcuni test prima dell’installazione della camera scientifica definitiva.

«Non si tratta ancora di “prima luce”, quella avverrà quando la camera scientifica LsstCam sarà installata al telescopio l’anno prossimo», dice a Media Inaf Gabriele Rodeghiero dell’Istituto nazionale di astrofisica, in questi giorni al Vera Rubin insieme a Luca Rosignoli, studente di dottorato dell’Università di Bologna, «ma letteralmente della prima immagine presa in cielo: i primi fotoni rimbalzati tra i tre specchi del telescopio fino a entrare nella ComCam, la commissioning camera, una versione ridotta di quella scientifica, del tutto rispettabile con il suo campo di vista che copre un diametro di due lune piene».

Il processo di acquisizione dei primi dati di Rubin con la commissioning camera è iniziato ben prima del tramonto, con la preparazione del telescopio, della cupola e degli specchi. Come consuetudine prima di qualunque osservazione di carattere scientifico, anzitutto sono state effettuate le calibrazioni crepuscolari, mentre il cielo era ancora in penombra, e in seguito il telescopio è stato puntato verso una stella luminosa per verificare la precisione di puntamento e la messa a fuoco. Alle 21:53 ora locale, in Cile, con il cielo completamente buio, il team ha dato il comando alla commissioning camera di scattare un’esposizione di 30 secondi.

Photons, meet the Commissioning Camera

On October 24, Rubin staff successfully completed the first end-to-end on-sky test of the full telescope system using the testing camera — from capturing the night sky to transferring data to @SLAClab!

: t.co/r1HgWt2LcZ pic.twitter.com/NGurTXOmrx

— Rubin Observatory (@VRubinObs) October 29, 2024

«La prima immagine doveva essere uno sky flat, un’immagine a luce diffusa del cielo crepuscolare», continua Rodeghiero, responsabile per il Vera Rubin del team Ina-S21, una squadra di ricercatori e tecnologi che oltre a Rodeghiero e Rosignoli comprende anche Rodolfo Canestrari, Enrico Giro e Felice Cusano, tutti dell’Inaf, e che lavora con il Rubin System Engineering team alla validazione e verifica dei requisiti del Rubin Observatory, «ma già si possono scorgere i primi donuts, le tipiche ciambelline create dalle stelle fuori fuoco. Ci guardiamo tutti stupiti, e capiamo che siamo già molto vicini ad un’immagine di buona qualità. Dopo alcuni altri tentativi che mandano in fault il telescopio, ecco che compare sullo schermo l’immagine di una nebulosa planetaria con una nitidezza ed un fuoco praticamente perfetti, ben oltre ogni ragionevole aspettativa».

Questo esercizio end-to-end di funzionalità del telescopio e delle sue ottiche ha dimostrato, in via definitiva, che il Vera Rubin è funzionante e performante, ed è pronto per la sua prossima fase. La commissioning camera di Rubin è stata progettata per essere fisicamente delle stesse dimensioni della definitiva Lsst Camera – che presto la sostituirà – ma con un rivelatore circa 20 volte più piccolo: solo 144 megapixel rispetto ai 3200 megapixel della camera scientifica. La camera di prova servirà ancora per verificare tutte le componenti chiave del sistema e scovare qualsivoglia problema prima dell’installazione della camera vera e propria che sarà utilizzata per la scienza.

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Da sinistra, Gabriele Rodeghiero (Inaf) e Luca Rosignoli (Unibo), presenti al Vera Rubin la notte della ricezione dei primi fotoni. Crediti: Inaf

I prossimi passi riguarderanno l’allineamento e la sagomatura degli specchi per garantire una qualità ottimale delle immagini con la commissioning camera. Verrà poi testata le pipeline di elaborazione dei dati di Rubin, che verranno anche resi disponibili agli scienziati. L’installazione di Lsst Camera al telescopio è prevista per gennaio 2025. Seguirà un periodo di messa in funzione di circa sei mesi, che porterà alla prima pubblicazione di immagini di Rubin, prevista per metà del 2025.

«Cinquant’anni fa una giovane Vera Cooper Rubin scopriva la prima evidenza di materia oscura sviluppando le lastre fotografiche del cielo sopra il Cerro Tololo Inter-american Observatory, 20 km a ovest da dove ci troviamo stasera», ricorda Rodeghiero. «Oggi, grazie a un passaggio di testimone generazionale, è l’inizio di una nuova pagina dell’astronomia che porta il suo nome. Rubin ci mostrerà la forma del cielo modellato dalla materia ed energia oscura, e il suo carattere transiente in luminosità e posizione con una profondità senza precedenti. Sappiamo che il prossimo anno sarà estremamente impegnativo per raggiungere il livello di affidabilità e stabilità necessario affinché la survey decennale di Rubin possa iniziare. Ma ora ci gustiamo questa notte fantastica, i sorrisi, gli applausi, gli occhi rossi e lucidi di chi ha investito mezza carriera in questo progetto ed ora sa che forma ha il primo fotone».


Un oceano sotterraneo per Miranda


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La luna ghiacciata di Urano, Miranda, immortalata dalla sonda spaziale Voyager 2 della Nasa il 24 gennaio 1986. Crediti: Nasa/Jet Propulsion Laboratory-Caltech

Miranda è il più piccolo e il più interno dei cinque satelliti principali di Urano. A oggi, le uniche immagini spazialmente risolte che abbiamo della luna sono quelle che ci ha inviato nel 1986 la sonda Voyager 2, il primo oggetto costruito dall’uomo a sorvolare il sistema di Urano.

Le spettacolari istantanee di Miranda restituite dalla sonda spaziale – la più longeva della Nasa – hanno mostrato sull’emisfero australe della luna – l’unico che abbiamo visto – la presenza di molteplici strutture superficiali. Le coronae (grandi regioni di forma poligonale, più scure della superficie circostante), le creste concentriche e le faglie sono alcune di queste formazioni geologiche. Secondo gli scienziati, tali strutture sono la prova di un’intensa attività geologica, avvenuta probabilmente in tempi geologicamente recenti. La domanda che si pongono gli astronomi è: cosa può averle prodotte?

Secondo una nuova ricerca condotta da un team di ricercatori guidato dalla Johns Hopkins University, i cui risultati sono pubblicati sulla rivista The Planetary Science Journal, la risposta potrebbe essere l’esistenza, in un passato non molto remoto, di un vasto oceano d’acqua sotto la superficie ghiacciata della luna. Un oceano che, secondo i ricercatori, in parte potrebbe ancora essere presente. Al pari delle lune di Saturno Encelado e Titano, della luna di Giove Europa e del pianeta nano Plutone, Miranda potrebbe dunque essere stata – e forse lo è tutt’ora – un mondo oceanico. Iwows, Interior Water Ocean Worlds: è così che gli addetti ai lavori chiamano questi corpi.

Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno passato al setaccio tutte le immagini della luna inviateci dalla sonda Voyager 2, con l’obiettivo primario di mappare le caratteristiche geologiche di superficie – crateri, creste e solchi – impresse in queste istantanee. La mappatura si è concentrata in particolare su due delle tre grandi coronae presenti ai lati opposti dell’emisfero australe della luna: la corona Arden e la corona Elsinore.

Una volta definita la distribuzione geografica delle caratteristiche superficiali di queste aree, il team ha utilizzato un sofisticato codice di simulazione per testare quale configurazione interna della luna, tra le diverse possibili, possa aver prodotto tali strutture, forgiando l’attuale geologia della superficie.

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Una mappa del polo sud di Miranda che mostra le caratteristiche superficiali individuate dai ricercatori all’interno delle formazioni geologiche Elsinore Coronae (in blu), Arden Coronae (in arancio) e Inverness Coronae (in verde). Crediti: Caleb Strom et al., Psj, 2024

Dando come input al sistema diversi stress a cui il satellite naturale è sottoposto (mareale, di ispessimento del guscio di ghiaccio, di ri-orientamento planetario), l’unico modello che ha prodotto le caratteristiche superficiali della luna ha richiesto la presenza di qualcosa di inaspettato: l’esistenza sotto la superficie ghiacciata di Miranda di un vasto oceano di acqua liquida. I risultati della simulazione suggeriscono che l’oceano sia esistito negli ultimi 100-500 milioni di anni di storia del satellite, che fosse profondo almeno cento chilometri – riempiendo quasi metà della luna – e che fosse nascosto sotto una crosta ghiacciata spessa non più di trenta chilometri.

«Trovare prove di un oceano all’interno di un piccolo oggetto celeste come Miranda è incredibilmente sorprendente», dice Tom Nordheim, scienziato planetario del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory (Apl), negli Usa, e co-autore dello studio. «Ciò ci aiuta a costruire una storia secondo cui attorno a uno dei pianeti più distanti del Sistema solare potrebbero esserci diversi mondi oceanici, il che è sia interessante che bizzarro».

La domanda a questo punto è: come si sarebbe formato un simile oceano d’acqua liquida all’interno della luna? I ricercatori un’idea se la sono fatta: ritengono che alla base della sua origine vi siano le forze di marea tra Miranda e le lune vicine. Tali forze mareali – forze di natura gravitazionale che un corpo può subire interagendo con altri – possono essere amplificate dalle risonanze orbitali delle lune, configurazioni per cui il periodo di rivoluzione di ogni luna attorno a Urano è un intero esatto dei periodi di rivoluzione delle altre.

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La struttura interna di Miranda ipotizzata dai ricercatori. Crediti: Caleb Strom et al., Psj, 2024

Secondo i ricercatori, la risonanza e le conseguenti forze di marea tra i satelliti di Urano potrebbero aver deformato Miranda, causandone il riscaldamento mareale. Questo riscaldamento non solo sarebbe alla base della produzione e del mantenimento di un oceano sotterraneo, ma avrebbe provocato anche uno stress tale da produrre crepe in superficie, generando le caratteristiche geologiche osservate da Voyager 2. A un certo punto, durante la storia evolutiva di Miranda, la risonanza orbitale tra le lune si è interrotta, rallentando il processo di riscaldamento. Ciò avrebbe causato il raffreddamento della luna, e con esso il solidificarsi dell’acqua liquida. Le simulazioni condotte dai ricercatori avallano questa ipotesi, indicando che Miranda e le sue lune vicine probabilmente hanno avuto in passato una tale risonanza, offrendo un potenziale meccanismo che potrebbe aver fornito al satellite il calore necessario per produrre e mantenere acqua liquida sotto-superficiale.

La naturale conseguenza del processo sopra descritto è che l’oceano presente all’interno di Miranda col tempo si sarebbe completamente congelato. Tuttavia, i ricercatori pensano che parte di quell’oceano possa esistere ancora oggi, nascosto sotto la pelle ghiacciata della luna. Se l’oceano si fosse completamente congelato, sottolinea a questo proposito Nordheim, la luna si sarebbe espansa. Ciò avrebbe causato crepe rivelatrici sulla superficie. Crepe che però non ci sono, aggiunge lo scienziato. Questo suggerisce che Miranda probabilmente si stia ancora raffreddando, e che potrebbe dunque avere ancora oggi un oceano sotterraneo. In ogni caso, sia che c’è l’abbia tutt’ora o che l’abbia avuto in passato, ciò rende Miranda un mondo interessante – un potenziale futuro obiettivo astrobiologico, dicono i ricercatori.

«Non sapremo per certo se Miranda ha o meno un oceano sotterraneo finché non raccoglieremo più dati», conclude Nordheim. «Stiamo “spremendo” le immagini di Voyager 2 per ottenere l’ultimo pezzo di scienza possibile. Siamo entusiasti per questa possibilità e impazienti di tornare a studiare Urano e le sue potenziali lune oceaniche in modo approfondito».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “Constraining Ocean and Ice Shell Thickness on Miranda from Surface Geological Structures and Stress Modeling” di Caleb Strom, Tom A. Nordheim, D. Alex Patthoff e Sherry K. Fieber-Beyer


Antichi quasar solitari dalle origini oscure


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Questa immagine, scattata dal telescopio spaziale James Webb della Nasa, mostra un antico quasar (cerchiato in rosso) con un numero di galassie vicine (sfere luminose) inferiore al previsto, sfidando la comprensione dei fisici su come si sono formati i primi quasar e i buchi neri supermassicci. Crediti: Christina Eilers/Eiger team

Un quasar è il nucleo estremamente luminoso di una galassia che ospita nel suo centro un buco nero supermassiccio attivo. Il gas e la polvere che circondano il buco nero, attirati dalla sua gravità, emettono un’enorme quantità di energia, rendendo i quasar tra gli oggetti più luminosi dell’universo. Questi incredibili oggetti sono stati osservati già qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang, ed è tuttora un mistero come siano potuti diventare così luminosi e massicci in un lasso di tempo cosmico così breve. Secondo gli scienziati, i primi quasar sono nati da regioni eccessivamente dense di materia, che avrebbero prodotto anche molte altre galassie più piccole nell’ambiente circostante.

Tuttavia, in un nuovo studio condotto dal Massachusetts Institute of Technology (Mit), gli astronomi hanno osservato alcuni antichi quasar che sembrano essere sorprendentemente soli nell’universo primordiale. In particolare, hanno usato il James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa per scrutare indietro nel tempo, più di 13 miliardi di anni, per studiare i dintorni cosmici di cinque antichi quasar conosciuti, trovando una sorprendente varietà nei loro dintorni, o “campi di quasar”. Mentre alcuni quasar risiedono in campi molto affollati con più di cinquanta galassie vicine, come previsto da tutti i modelli, altri sembrano andare alla deriva nel vuoto cosmico, con solo poche galassie vaganti nelle loro vicinanze.

Questi quasar solitari stanno sfidando la comprensione dei fisici su come tali oggetti luminosi possano essersi formati così presto nell’universo, senza una fonte significativa di materia circostante per alimentare la crescita del loro buco nero. «Contrariamente a quanto si pensava in precedenza, abbiamo scoperto che in media questi quasar non si trovano necessariamente nelle regioni a più alta densità dell’universo primordiale. Alcuni di essi sembrano trovarsi nel bel mezzo del nulla», spiega Anna-Christina Eilers del Mit. «È difficile spiegare come questi quasar possano essere cresciuti così tanto se non sembrano avere nulla da cui alimentarsi».

C’è la possibilità che non siano così solitari come sembrano, ma siano invece circondati da galassie avvolte dalla polvere e quindi nascoste alla vista. Eilers e i suoi colleghi sperano di mettere a punto le loro osservazioni per cercare di vedere attraverso la polvere cosmica, al fine di capire come i quasar siano cresciuti così tanto e così velocemente nell’universo primordiale. Intanto, hanno pubblicato i loro risultati in un articolo uscito su The Astrophysical Journal.

I cinque quasar appena osservati sono tra i più antichi osservati finora. Con un’età di oltre 13 miliardi di anni, si pensa che gli oggetti si siano formati tra i 600 e i 700 milioni di anni dopo il Big Bang. I buchi neri supermassicci che alimentano i quasar sono un miliardo di volte più massicci del Sole e più di mille miliardi di volte più luminosi. Grazie alla loro estrema luminosità, la luce di ogni quasar è in grado di viaggiare abbastanza da raggiungere i rilevatori altamente sensibili del Jwst.

Il team ha analizzato le immagini dei cinque quasar riprese da Jwst tra agosto 2022 e giugno 2023. Le osservazioni di ciascun quasar comprendevano più immagini “a mosaico” che sono state unite per produrre un’immagine completa della periferia di ciascun quasar. Con il telescopio è stato anche possibile effettuare misurazioni della luce in diverse lunghezze d’onda nel campo di ogni quasar, che il team ha poi elaborato per determinare se un determinato oggetto nel campo fosse una galassia vicina e, nel caso, quanto distante fosse dal quasar centrale, molto più luminoso.

La diversità riscontrata nei campi intorno ai quasar lascia perplessi. Si pensa che l’universo primordiale, poco dopo il Big Bang, abbia formato filamenti di materia oscura che hanno agito come una sorta di strada gravitazionale, attirando gas e polvere lungo la rete. Nelle regioni troppo dense di questa rete, la materia si sarebbe accumulata per formare oggetti più massicci. Gli oggetti primordiali più luminosi e massicci, come i quasar, si sarebbero formati nelle regioni a più alta densità della rete, che avrebbero anche sfornato molte altre galassie più piccole. Ma i quasar solitari sembrano vivere in regioni dello spazio relativamente vuote. Se i modelli cosmologici dei fisici sono corretti, queste regioni “sterili” implicano che ci doveva essere poca materia oscura per la formazione di stelle e galassie. Come sono nati allora i quasar estremamente luminosi e massicci?

«I nostri risultati mostrano che manca ancora un pezzo significativo del puzzle di come questi buchi neri supermassicci crescono», conclude Eilers. «Se non c’è abbastanza materiale in giro perché alcuni quasar possano crescere continuamente, significa che ci deve essere un altro modo in cui possono crescere, che dobbiamo ancora scoprire».

Per saperne di più:


Torturando Ariel


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Modello strutturale di Ariel (cliccare per ingrandire). Crediti: Airbus

Ha avuto inizio negli stabilimenti dell’Airbus Defence and Space di Tolosa, in Francia, con l’assemblaggio del modello strutturale del veicolo spaziale, la fase di costruzione della sonda spaziale Ariel dell’Esa. Si tratta di un importante passo avanti per questa missione progettata per ispezionare meticolosamente le atmosfere di un migliaio di pianeti extrasolari e scoprirne la natura.

Nell’immagine qui a fianco vediamo il modello strutturale di Ariel in fase di assemblaggio nelle facilities di Airbus. È un modello che riproduce l’ossatura meccanica del veicolo spaziale e la massa delle sue varie unità per una prima batteria di test impegnativi. In particolare, il modello è costituito da due componenti principali: una replica simile al modello di volo del modulo di servizio (riquadro in basso a destra) e un mock-up meccanico semplificato del modulo del carico utile (riquadro in alto a destra). Lo scopo è imitare la struttura del veicolo spaziale, nel quale gli strumenti scientifici costituiscono il carico utile, mentre il modulo di servizio ospita i componenti essenziali per il funzionamento della sonda, dai propulsori ai sistemi di alimentazione e comunicazione.

L’obiettivo è ora quello di completare entro fine anno la campagna di test meccanici del modello strutturale del veicolo spaziale. Ciò garantirà che il progetto di Ariel sia conforme alle specifiche e in grado di sopportare le sollecitazioni meccaniche previste durante il lancio.

La fase di collaudo comprenderà campagne di test di vibrazione e acustici. Durante i test di vibrazione, il modello – collocato su un piano vibrante, detto “shaker” – subirà sollecitazioni meccaniche progressivamente sempre più intense. Nel corso dei test acustici, invece, il modello sarà collocato all’interno di una camera riverberante e “bombardato” con un rumore molto intenso, analogo a quello che subirà durante il lancio.

Questo modello strutturale sarà poi utilizzato anche per valutare la distribuzione dei carichi e per eseguire un primo test di “separazione e shock” utilizzando lo stesso sistema di montaggio che sarà impiegato per montare il veicolo spaziale a bordo del vettore Ariane 6.2 con il quale verrà lanciato verso il punto lagrangiano secondo (L2), a un milione e mezzo di km dalla Terra. Da lì Ariel osserverà in dettaglio le atmosfere di mondi remoti.


Un mega idrocarburo nella nube del Toro


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Gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) sono una classe di composti organici costituiti da atomi di carbonio e idrogeno arrangiati a formare una struttura ciclica, che si ripete nella molecola due o più volte. Sono molecole alla base di un’ipotesi speculativa, conosciuta come “ipotesi del mondo a Ipa”, secondo cui queste sostanze avrebbero svolto un ruolo importante nell’origine della vita, fungendo – in un altrettanto ipotetico stadio della nostra storia evolutiva, noto come “stadio del mondo a Rna” – da precursori della sintesi di acido ribonucleico, una macromolecola fondamentale per la vita come la conosciamo.

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llustrazione artistica realizzata con Adobe AI che mostra alcune molecole di cianopirene, in primo piano, e una nube molecolare, sullo sfondo. Crediti: Media Inaf

Sul nostro pianeta gli Ipa sono molecole molto comuni e abbondanti, prodotte principalmente dalla combustione incompleta di materiale organico. Ma si trovano anche nello spazio, motivo per cui molti scienziati ipotizzano che siano la fonte di gran parte del carbonio che ha formato il Sistema solare. Sono stati scoperti Ipa nelle meteoriti, negli asteroidi e nelle comete. E sono stati scoperti Ipa anche nel mezzo interstellare, lo spazio tra le stelle di una galassia. All’interno di un agglomerato di polveri e gas interstellare già noto per la scoperta di queste molecole, un team di ricercatori guidato dal Mit, il Massachusetts Institute of Technology, ha ora individuato uno dei più grandi Ipa mai scoperti.

La molecola in questione è l’1-cianopirene (C17H9N), un idrocarburo policiclico prodotto per sostituzione dell’idrogeno (H) del carbonio in posizione 1 del pirene con un gruppo ciano (-CN). La nube di polveri e gas interstellari all’interno della quale la sostanza è stata rivelata è Tmc-1 (Taurus Molecular Cloud 1), una nube molecolare distante 430 anni luce dalla Terra, situata all’interno della Nube molecolare del Toro (o Nube del Toro-Auriga), in direzione della costellazione del Toro. L’articolo che descrive la scoperta è pubblicato sulle pagine della rivista Science.

Ciò che ha spinto gli scienziati a condurre questo studio sono stati i risultati di una ricerca pubblicata nel 2023, sempre su Science. La ricerca in questione, portata avanti da un team di ricercatori del Caltech, ha permesso di rivelare la presenza di pirene nei campioni dell’asteroide Ryugu riportati sulla Terra dalla missione Hayabusa-2. Nello studio, oltre a individuare grandi quantità della sostanza, i ricercatori suggeriscono che la maggior parte degli Ipa presenti nell’asteroide siano stati sintetizzati in ambienti interstellari freddi. Poiché le nubi molecolari presenti nel mezzo interstellare sono per antonomasia luoghi freddi, i ricercatori hanno deciso di cercare la molecola all’interno di Tmc-1, una delle nube molecolari più vicine alla Terra.

Per individuare la molecola, Gabi Wenzel, ricercatrice al Mit e prima autrice dello studio, e colleghi hanno condotto le indagini in due fasi. Nella prima fase, gli scienziati hanno sintetizzato il cianopirene in laboratorio. Successivamente, hanno acquisito gli spettri rotazionali e vibrazionali delle molecole sintetiche, in modo da ottenere una sorta di “impronta digitale” della molecola; una firma che la molecola lascia di sé quando emette o assorbe a specifiche frequenze. L’osservazione della nube e il confronto degli spettri simulati con quelli reali è stata la seconda fase della ricerca.

Puntata la parabola da cento metri di diametro del Green Bank Telescope (Gbt) verso Tmc-1, i ricercatori hanno trovato le firme spettrali simulate della molecola in tutta la nube molecolare. Non solo: hanno anche scoperto che il cianopirene rappresenta circa lo 0,1 per cento di tutto il carbonio trovato nella nube. Sembra poco, ma è una quantità significativa – dicono gli autori dello studio – se si considerano le migliaia di tipologie di molecole contenenti carbonio che esistono nello spazio.

«Si tratta di un’abbondanza assolutamente massiccia», sottolinea Brett McGuire, ricercatore al Mit e co-autore dell’articolo. «Si tratta di una sorgente di carbonio quasi incredibile».

Tmc-1 è una nube molecolare simile alla nube primordiale da cui si è formato il nostro Sistema solare, spiegano i ricercatori. La scoperta dell’1-cianopirene al suo interno, insieme alla presenza di grandi quantità della molecola nell’asteroide Ryugu, suggerisce che essa possa essere stata la fonte di gran parte del carbonio che oggi troviamo nel nostro vicinato cosmico.

L’abbondanza della molecola indica che la chimica degli Ipa nelle mezzo interstellare favorisca la produzione di pirene, concludono gli autori dello studio, suggerendo che parte del carbonio fornito ai giovani sistemi planetari sia trasportato da queste sostanze che hanno origine nelle fredde nubi molecolari.

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Detection of interstellar 1-cyanopyrene: A four-ring polycyclic aromatic hydrocarbon” di Gabi Wenzel, Ilsa R., P. Bryan Changala, Edwin A. Bergin, Shuo Zhang https, Andrew M. Burkhardt, Alex N. Byrne, Steven B. Charnley, Martin A. Cordiner, Miya Duffy, Zachary T. P. Fried, Harshal Gupta, Martin S. Holdren, Andrew Lipnicky, Ryan A. Loomis, Hannah Toru Shay, Christopher N. Shingledecker, Mark A. Siebert, D. Archie Stewart, Reace H. J. Willis, Ci Xue, Anthony J. Remijan, Alison E. Wendlandt, Michael C. McCarthy e Brett A. McGuir


Un resto di supernova a dente di leone in 3D


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Rappresentazione artistica del resto di supernova Pa 30, ciò che resta di un’esplosione di supernova osservata dalla Terra nell’anno 1181. Insoliti filamenti di zolfo sporgono oltre un guscio polveroso di materiale espulso. I resti della stella originale che è esplosa, ora una stella calda e gonfia che potrebbe raffreddarsi fino a diventare una nana bianca, sono visibili al centro del resto. Il Keck Cosmic Web Imager dell’Osservatorio W.M. Keck alle Hawaii ha mappato gli strani filamenti in 3D e mostrato che si stanno muovendo verso l’esterno a circa 1.000 chilometri al secondo. Crediti: W.M. Keck Observatory/Adam Makarenko

Nel 1181, per sei mesi una nuova stella brillò nella costellazione di Cassiopea, per poi scomparire. Questo evento, all’epoca registrato come guest star da osservatori cinesi e giapponesi, ha lasciato perplessi gli astronomi per secoli. Si tratta di una delle poche supernove documentate prima dell’invenzione dei telescopi, ed è rimasta “orfana” a lungo, ossia nessuno degli oggetti celesti visibili ai giorni nostri sembrava poterle essere associato. Fino al 2021, quando il mistero è stato risolto e il resto di supernova associato è stato rintracciato nella nebulosa Pa 30, trovata nel 2013 dall’astronoma amatoriale Dana Patchick esaminando un archivio di immagini del telescopio Wise nell’ambito di un progetto di citizen scientist. Oggi questa supernova è nota come supernova Sn 1181.

Ma questa nebulosa non è un tipico resto di supernova. Infatti, nel suo centro è sopravvissuta una “stella zombie”: un resto all’interno del resto. Si pensa che la supernova 1181 si sia verificata allorché un’esplosione termonucleare è stata innescata su una nana bianca. In genere, in questo tipo di esplosioni – chiamate supernove di tipo Iax – la nana bianca viene completamente distrutta, ma in questo caso una parte della stella è sopravvissuta, lasciandosi dietro una sorta di stella zombie. Ancora più intrigante è il fatto che da questa stella zombie si siano sprigionati strani filamenti, simili ai petali del fiore conosciuto come dente di leone. Ora, Ilaria Caiazzo dell’Ista e Tim Cunningham della Nasa hanno ottenuto una visione ravvicinata senza precedenti di questi strani filamenti.

Il team di Cunningham e Caiazzo ha potuto studiare in dettaglio questo strano resto di supernova grazie al Keck Cosmic Web Imager (Kcwi) del Caltech. Il Kcwi è uno spettrografo situato a 4mila metri di altezza presso l’Osservatorio W. M. Keck alle Hawaii, vicino alla cima del vulcano Mauna Kea, la vetta più alta delle Hawaii.

Come indica il suo nome, Kcwi è stato progettato per rilevare alcune delle sorgenti più deboli e oscure dell’universo, conosciute come ragnatela cosmica, o cosmic web. Inoltre, Kcwi è così sensibile e progettato in modo così intelligente che può catturare informazioni spettrali per ogni pixel di un’immagine. Può anche misurare il movimento della materia in un’esplosione stellare, creando qualcosa di simile a un filmato 3D di una supernova. Il Kcwi lo fa esaminando il modo in cui la lunghezza d’onda della luce si sposta mentre si avvicina o si allontana da noi, un processo fisico simile al familiare spostamento Doppler a cui siamo abituati quando passa un’ambulanza.

Così, invece di vedere solo la tipica immagine statica di uno spettacolo pirotecnico comune alle osservazioni delle supernove, i ricercatori hanno potuto creare una mappa 3D dettagliata della nebulosa e dei suoi strani filamenti. Inoltre, hanno potuto dimostrare che il materiale dei filamenti viaggiava a circa mille chilometri al secondo. «Questo significa che il materiale espulso non è stato rallentato o accelerato dopo l’esplosione», spiega Cunningham. «Quindi, grazie alle velocità misurate, guardando indietro nel tempo abbiamo potuto localizzare l’esplosione quasi esattamente nell’anno 1181».

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L’astrofisica Ilaria Caiazzo dell’Ista. Crediti: Ista

Oltre ai filamenti a forma di dente di leone e alla loro espansione “balistica”, la forma complessiva della supernova è molto insolita. Il team ha potuto dimostrare che il materiale eiettato – quello all’interno dei filamenti che viene espulso dal luogo dell’esplosione – è insolitamente asimmetrico. Ciò suggerisce che l’asimmetria deriva dall’esplosione iniziale stessa. Inoltre, i filamenti sembrano avere un bordo interno netto, mostrando un “vuoto” interno che circonda la stella zombie.

«La nostra prima caratterizzazione dettagliata in 3D della velocità e della struttura spaziale di un resto di supernova ci dice molto su un evento cosmico unico, che i nostri antenati hanno osservato secoli fa. Ma solleva anche nuove domande e pone nuove sfide agli astronomi», conclude Caiazzo.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Expansion properties of the young supernova type Iax remnant Pa 30 revealed” di Tim Cunningham, Ilaria Caiazzo, Nikolaus Z. Prusinski, James Fuller, John C. Raymond, S. R. Kulkarni, James D. Neill, Paul Duffell, Chris Martin, Odette Toloza, David Charbonneau, Scott J. Kenyon, Zeren Lin, Mateusz Matuszewski, Rosalie McGurk, Abigail Polin e Philippe Z. Yao


Starship manda in orbita la competizione


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Lancio di Europa Clipper. Crediti: Nasa

All’International Astronautical Congress (Iac 2024), che dal 14 al 18 ottobre ha richiamato a Milano quasi 12mila tra scienziati ed ingegneri coinvolti in attività spaziali insieme a centinaia di industrie e agenzie che occupavano una sterminata area espositiva, saltava all’occhio l’assenza di SpaceX.

A chi lo cercava veniva detto che c’era qualcosa nello stand della Nasa, a riprova che SpaceX vuole adottare una strategia industriale e di comunicazione diversa da quella di tutte le altre industrie spaziali.

Di sicuro, la loro presenza è già così pervasiva che non sentono il bisogno di mettersi in mostra. Tutto il mondo parla di loro dopo il lancio di Hera, la sonda Esa per la difesa planetaria, seguito, dopo l’uragano, da quello di Europa Clipper, la sonda della Nasa verso la luna di Giove. Tuttavia, quello che ha colpito di più l’immaginario collettivo è stato il successo eclatante del test del nuovo lanciatore pesante Starship, che ha trasformato domenica 13 ottobre in una data memorabile nella storia dello spazio. In verità, Starship era pronto sulla rampa di lancio da agosto in attesa dell’autorizzazione della Federal Aviation Administration. Causa del ritardo erano state le preoccupazioni per i danni prodotti dalla nuvola di polvere e dal boom sonico dei lanci alla riserva naturalistica che circonda la base di Boca Chica. Ricevute assicurazioni sulla volontà di SpaceX di adottare misure per proteggere i nidi degli uccelli migratori, la Faa ha dato il suo ok.

Con la rapidità che caratterizza il management di SpaceX, ricevuta l’agognata autorizzazione nella giornata di sabato, il lancio è stato programmato per domenica mattina.

Si trattava del quinto lancio di prova di Starship e, questa volta, SpaceX voleva provare la due enormi “braccia” della torre di lancio, chiamate scherzosamente chopsticks (bacchette), che sono state progettate per sostenere e movimentare il lanciatore mentre viene montato e per acchiappare al volo il primo stadio che torna a terra dopo il lancio subito pronto per essere riutilizzato in breve tempo. La scorsa volta, a giugno, il booster aveva effettuato la manovra di ritorno a terra ma era stato fatto cadere nel golfo del Messico. Domenica, invece, doveva essere il battesimo delle bacchette. La manovra del rientro del primo stadio è stata spettacolare con una prima accensione dei motori seguita da una caduta libera ed una seconda accensione per frenare il tubo lungo 70 m e largo 9 che, fiammeggiante, si è appoggiato con grazia alle bacchette che lo hanno accolto. Un primo tentativo di presa al volo a dir poco perfetto. Intanto Starship era entrata in orbita e stava seguendo la sua traiettoria che prevedeva il rientro nell’atmosfera e la manovra di atterraggio nell’oceano indiano al largo della coste dell’Australia dove era già notte.

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Tuttavia, questo non ha impedito di vedere la conclusione della missione. Infatti, nel luogo previsto per l’ammaraggio di Starship c’era qualche natante, certamente a guida autonoma, che la stava aspettando e ha ripreso la scena illuminata dai motori accesi per l’ultima frenata. Certamente il recupero e riutilizzo della capsula Starship è un altro tassello della strada verso il lanciatore totalmente riutilizzabile e sono sicura che lo vedremo in uno dei prossimi lanci, perché è grazie al riutilizzo di tutte le parti del lanciatore e della navetta che SpaceX pianifica di abbattere i costi di lancio. Elon Musk parla di 200 dollari per ogni chilogrammo di materiale lanciato in orbita bassa. Un prezzo irrisorio se paragonato ai 50mila dollari dello storico Shuttle, ma anche molto inferiore ai circa 2-3mila dollari del Falcon 9 di Space X.

Disporre di un lanciatore potente, con una grande capacità di carico ed economico promette di rivoluzionare l’industria spaziale. Peccato che nessuno dei suoi concorrenti riesca a stargli dietro, e ora la preoccupazione è palpabile. Fino al recupero del booster che abbiamo visto in diretta, erano in molti a pensare (o forse bisognerebbe dire a sperare?) che le bacchette non avrebbero mai funzionato. Invece la torre di lancio che sembra uscita da un libro di fumetti, piuttosto che da un manuale di ingegneria aerospaziale, ha dato una perfetta prova della sua funzionalità. I pessimisti e i conservatori sono pregati di rivedere le loro posizioni.


Osservatori astronomici per una transizione verde


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Le infrastrutture astronomiche di nuova generazione spingono il loro sguardo al cielo con sempre maggiore dettaglio, alla ricerca di risposte ai misteri ancora irrisolti del cosmo. Affinché le osservazioni del cielo possano essere disturbate il meno possibile dalle luci e dalla turbolenza atmosferica, è necessario costruire i telescopi nelle zone più remote e buie del pianeta. È possibile farlo con un occhio di riguardo verso l’ambiente, e ancora meglio, contribuendo al fabbisogno energetico del territorio e delle comunità locali? In che modo i sistemi energetici per gli osservatori astronomici possono diventare rinnovabili e inclusivi? A rispondere a queste domande è uno studio pubblicato l’11 ottobre su Nature Sustainability, che suggerisce un modello virtuoso di comunità energetica e contribuisce ad aprire la strada a uno sviluppo win-win dei nuovi progetti di infrastrutture astronomiche.

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L’impianto solare di Chañares nel deserto cileno di Atacama, in Cile. Crediti: Enel Green Power

Guidato dall’università di Oslo, lo studio dimostra che l’integrazione di fonti di energia rinnovabile nella realizzazione del telescopio AtLast (Atacama Large Aperture Submillimeter Telescope) – nel deserto di Atacama, in Cile – permetterebbe non solo alla comunità astronomica dell’altopiano di Chajnantor di usufruire di sistemi energetici più sostenibili, ma coprirebbe il 66 per cento del fabbisogno energetico della comunità vicina di San Pedro de Atacama. Questo tipo di soluzione energetica ridurrebbe la dipendenza locale dai combustibili fossili e fornirebbe energia rinnovabile, favorendo quindi il processo di transizione energetica verso fonti sostenibili.

L’altopiano di Chajnantor nel deserto di Atacama – con altitudini comprese tra i 3500 e i 5200 metri – è un punto di riferimento astronomico a livello mondiale, sede di osservatori come l’Atacama Pathfinder Experiment (Apex) e l’Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array (Alma). A causa dell’isolamento di questa zona, le strutture astronomiche sono spesso scollegate dalla rete elettrica nazionale e si affidano a generatori diesel e a gas per alimentare le proprie attività. Queste includono il raffreddamento criogenico degli strumenti, i movimenti della struttura del telescopio durante il puntamento e l’inseguimento dei target astronomici. Per garantire che gli strumenti siano costantemente raffreddati, è necessario inoltre evitare le interruzioni di corrente. Analogamente agli osservatori, anche la città e le aree circostanti hanno dovuto soddisfare il proprio fabbisogno energetico esclusivamente con tipo di generatori a combustibili fossili, risentendo anche di frequenti interruzioni di corrente e un costo dell’energia molto più alto rispetto a zone meno remote del Cile.

Il deserto di Atacama risulta un luogo ideale per lo sfruttamento dell’energia solare, per via degli alti livelli di irraggiamento solare (tra i maggiori a livello globale, secondo un report dell’American Meteorological Society del 2023). Qui, la comunità astronomica ha individuato la possibilità di utilizzare l’energia in eccesso prodotta per il telescopio AtLast con i pannelli solari per alimentare San Pedro de Atacama, una delle destinazioni turistiche più importanti del Cile dopo la Patagonia, lontana circa cento chilometri dalla rete elettrica nazionale. Il nuovo telescopio AtLast è il primo osservatorio che include sorgenti di energia rinnovabile già in fase di progettazione.

Questo modello virtuoso si basa sull’idea di “comunità energetiche”: una sorta di consorzio tra enti locali pubblici, privati e commerciali che investono o condividono infrastrutture energetiche o forniscono a loro volta servizi energetici, basato su un processo decisionale comunitario ed equo per tutte le parti coinvolte. Per favorire la collaborazione nella comunità energetica, i ricercatori hanno promosso veri e proprio workshop in cui i residenti locali e le altre parti coinvolte potessero condividere il loro punto di vista sulle sfide e le opportunità di un sistema energetico più sostenibile nell’area di San Pedro.

«Consentire a coloro che sono interessati a partecipare alla discussione di influenzare concretamente il processo decisionale è essenziale per arrivare a soluzioni eque e applicabili a livello locale, facendo in modo che la transizione energetica possa essere più giusta e socialmente accettata, perché vengono ridistribuiti anche i benefici», spiega Guillermo Valenzuela Venegas dell’università di Oslo, primo autore dello studio. «La nostra ricerca dimostra che l’astronomia può dare l’esempio nell’urgente transizione verso un mondo equo a zero emissioni, mantenendo il nostro pianeta abitabile e garantendo che nessuno venga lasciato indietro».

Più nel dettaglio, lo studio ha combinato un modello di sistema energetico con un’analisi partecipata di diversi soggetti in base a criteri multipli di valutazione. I dati raccolti hanno messo in evidenza che i soggetti coinvolti – tra cui i residenti locali, il comune, l’azienda elettrica locale esistente e gli osservatori astronomici – danno priorità alla riduzione delle emissioni, alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico e alla riduzione dei costi dell’elettricità. Questo tipo di approccio mira a promuovere l’integrazione dei sistemi di energia rinnovabile con tutte le parti locali interessate, che vengono coinvolte nel processo decisionale, condividendo sia i benefici che gli sforzi di riduzione delle emissioni.

Lo studio sottolinea che replicare sistemi energetici simili nei telescopi vicini potrebbe ridurre la produzione di energia da combustibili fossili di 30 GWh all’anno, riducendo le emissioni di 18-24 migliaia di tonnellate di anidride carbonica equivalente (CO2e è l’unità di misura della carbon footprint) e contribuendo all’accesso a fonti di energia rinnovabile a prezzi convenienti anche per le comunità locali.

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Le 66 antenne di Alma, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, nel paesaggio desolato del deserto Atacama in Cile. Crediti: A. Caproni/Eso

In generale, la comunità astronomica è attiva nel proporre soluzioni per ridurre la propria carbon footprint. Alcuni telescopi si sono recentemente attivati per integrare fonti energetiche rinnovabili nelle loro strutture. Per esempio, il sito osservativo di La Silla (sempre in Cile) è alimentato per oltre il 50 per cento da energia solare dal 2016, mentre nel 2022 il Very Large Telescope (Vlt) e l’Extremely Large Telescope (Elt) in Cile hanno commissionato un parco fotovoltaico da 9 MW per evitare 1700 tonnellate di CO2 equivalente emesse all’anno.

La necessità di ridurre le emissioni di carbonio in astronomia è diventata un punto cardine, con progressivi investimenti in tecnologie energetiche rinnovabili e una parziale riduzione ai viaggi aerei per le riunioni internazionali (Nature, 2020). Le emissioni di CO2 equivalente del settore astronomico sono infatti sempre più studiate e discusse anche includendo considerazioni sulla giustizia energetica, compreso l’impatto sociale delle infrastrutture astronomiche sulle comunità locali.

E l’Inaf?

«L’auspicio è che il modello di Valenzuela-Venegas et al. sia solo l’inizio di una strada che tutti gli osservatori seguano il prima possibile, sia per i telescopi che per le strutture di ricerca», dice l’astronoma Cristiana Spingola a nome del gruppo Inaf Green, che nasce proprio con lo scopo di sostenere attivamente il percorso di miglioramento delle performance dell’Inaf nell’eco-sostenibilità. Il gruppo di lavoro è chiamato infatti a promuovere azioni in materia di tutela ambientale ed efficientamento energetico. «Stiamo lavorando a una programmazione sistematica di attività che portino il più possibile verso una carbon neutrality dell’Ente, riducendo l’inquinamento generato anche dall’attività lavorativa quotidiana. Questo percorso è molto complesso, per l’Inaf, a causa della significativa diversità del patrimonio immobiliare esteso su tutto il territorio nazionale, ma la risposta degli istituti sembra essere molto promettente. In alcuni casi, infatti, la transizione green è già iniziata da tempo, come per i radiotelescopi di Medicina e Noto (rispettivamente a Bologna e Siracusa)».

Grazie alla loro influenza a livello internazionale, le osservazioni astronomiche possono quindi fungere da leva non solo per il progresso scientifico e tecnologico, ma anche per lo sviluppo delle comunità locali, fornendo un ottimo esempio nella transizione ormai urgente verso un mondo a zero emissioni, con l’obiettivo di mantenere il nostro pianeta abitabile.

Per saperne di più:


Un prototipo dorato per le onde gravitazionali


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Gli specchi dorati, ormai, hanno fatto tendenza nello spazio. Dopo il telescopio spaziale Webb, con la sua enorme matrice di lingotti esagonali, arriva la squadra di piccoli telescopi per la missione dell’Agenzia spaziale europea Lisa, l’osservatorio spaziale per onde gravitazionali previsto per il lancio nel 2035. Sei piccoli telescopi con uno specchio dorato da 46 mm di diametro, rivestito d’oro: ne potete vedere un prototipo nell’immagine qui sotto, realizzato dalla Nasa e mostrato pubblicamente pochi giorni fa.

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Il prototipo realizzato dalla Nasa di uno dei sei telescopi spaziali che costituiranno la missione Lisa, il primo interferometro spaziale per onde gravitazionali. Crediti: Nasa/Dennis Henry

L’Esa, dunque, si appoggerà all’agenzia spaziale americana per costruire questa formazione di piccoli telescopi per il primo interferometro spaziale. Il 20 maggio scorso, il prototipo in scala reale per la missione Lisa, ancora nel suo telaio di spedizione, è stato spostato all’interno di una camera bianca del Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, nel Maryland. Qui, è stato sottoposto a un’ispezione successiva alla consegna e a una serie di altri test di verifica. L’intero telescopio è realizzato in vetroceramica Zerodur di colore ambrato, che resiste alle variazioni di forma in un ampio intervallo di temperature, mentre la superficie dello specchio è rivestita in oro.

La missione Lisa prevede tre veicoli spaziali che voleranno in formazione. Insieme formeranno un triangolo equilatero con lati di 2,5 milioni di chilometri disegnati da raggi laser, e seguiranno la Terra durante la sua orbita intorno al Sole come fossero un corpo unico. Gli specchi dei telescopi – che saranno due in ciascun veicolo spaziale – serviranno semplicemente a ricevere e riflettere raggi di luce laser, collegando così i vertici del triangolo. Al passaggio di un’onda gravitazionale, la deformazione dello spazio-tempo indotta dalla stessa accorcerà e allungherà i lati del triangolo, come si può vedere nell’infografica qui di seguito.

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Infografica che mostra il metodo di rilevazione delle onde gravitazionali dell’osservatorio spaziale Lisa. La distanza fra i tre vertici del triangolo equilatero cambia al passaggio di un’onda gravitazionale, e viene rilevata attraverso delle piccole masse di prova “fluttuanti” poste su ciascun vertice. Crediti: Esa/Atg Medialab

In particolare, il passaggio dell’onda gravitazionale verrà rilevato misurando la variazione di distanza fra due cubi d’oro “fluttuanti” – chiamati masse di prova – posti su ciascuna navicella. Con questo metodo, sarà possibile misurare distanze con una precisione dei picometri – miliardesimi di millimetro – e rilevare le onde gravitazionali provenienti da fenomeni come la fusione fra oggetti estremamente compatti (come buchi neri e stelle di neutroni), e stabilirne la provenienza.

«I telescopi gemelli a bordo di ogni navicella trasmetteranno e riceveranno raggi laser a infrarossi per seguire i loro compagni, e la Nasa sta lavorando per fornirli tutti e sei alla missione Lisa», dice Ryan DeRosa, ricercatore al Goddard Space Flight Center. «Il prototipo, chiamato Engineering Development Unit Telescope, ci guiderà nella costruzione dell’hardware di volo».


Non si finisce mai di conoscere un buco nero


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Rappresentazione artistica del sistema binario V404 Cygni, con una terza stella sullo sfondo. Crediti: Jorge Lugo

Non si finisce mai di conoscere qualcuno… Quante volte abbiamo sentito dire questa frase. Nulla di più vero per un buco nero in particolare che è sempre stato considerato vivere in coppia, e che invece oggi – dopo più di trent’anni di conoscenza (la conferma della sua esistenza risale al 1992) e circa 1300 articoli pubblicati che lo riguardano – si scopre essere in un sistema triplo. E non è scoperta da poco, dato che sarebbe il primo nel suo genere. L’articolo che ne parla è stato pubblicato su Nature.

Buchi neri in coppia ce n’è una valanga. Questi sistemi binari comprendono un buco nero e un oggetto secondario – come una stella, una stella di neutroni o un altro buco nero – che ruotano a spirale l’uno intorno all’altro, attirati dalla gravità del buco nero a formare una stretta coppia orbitale. E così era conosciuto anche il buco nero V404 Cygni, a circa 8mila anni luce dalla Terra, circondato com’è da una piccola stella che gli orbita intorno ogni 6,5 giorni circa e che si sta lentamente arrendendo alla sua attrazione gravitazionale, cedendo materia ed emettendo un segnale luminoso inconfondibile.

Osservando alcune immagini d’archivio del sistema, però, Kevin Burdge – ricercatore al Dipartimento di fisica del Massachusetts Institute of Technology (Mit), a Cambridge negli Stati uniti, e primo autore dell’articolo – ha notato un secondo bagliore di luce poco distante e mai considerato in alcuno studio in precedenza. Si tratterebbe di una stella a 3.500 unità astronomiche (Ua) di distanza dal buco nero. Considerando che 1 Ua è la distanza media tra la Terra e il Sole, ovvero circa 150 milioni di chilometri, la stella esterna si trova a una distanza dal buco nero pari a circa 100 volte la distanza tra Plutone e il Sole. Cento sistemi solari più in là, se si fa coincidere il confine del nostro sistema con l’ultimo dei corpi di dimensioni planetarie che orbitano attorno al Sole (confine che non ha senso di esistere, ma utile in questo caso come esercizio di immaginazione).

Vedere una stella nelle “vicinanze” di un buco nero, però, non basta. Per capire se sussista effettivamente una debole corda gravitazionale a unire i tre corpi gli autori hanno analizzato i moti delle stelle circostanti negli ultimi 10 anni usando i dati di Gaia, un satellite che dal 2014 traccia con precisione i moti di tutte le stelle della galassie. Hanno notato che le tre, negli ultimi dieci anni, sembrano proprio muoversi in tandem: difficilmente una coincidenza può durare così a lungo. La stella più esterna, anzi, orbiterebbe attorno al buco nero con un periodo di 70 mila anni.

Ora, il fatto che il buco nero sembri avere una presa gravitazionale su un oggetto così lontano solleva ulteriori domande sulle origini del buco nero stesso. I buchi neri di origine stellare (non i buchi neri supermassicci al centro delle galassie, per intenderci) si formano in seguito alla violenta esplosione di una stella morente – un processo noto come supernova, in cui una stella rilascia un’enorme quantità di energia e luce in un’esplosione finale prima di collassare in un buco nero invisibile. L’energia rilasciata prima del collasso, però, è tale che difficilmente un oggetto che si trova in periferia, come la terza stella intorno a V404 Cygni, resiste. Viene piuttosto “soffiato via”. Un’ipotesi più verosimile circa la formazione di un sistema triplo con un buco nero al centro, invece, è il collasso diretto, un processo in cui una stella semplicemente si chiude su sé stessa, formando un buco nero senza esplosioni sceniche. Un’origine delicata, che difficilmente riuscirebbe a disturbare oggetti lontani ma comunque legati.

Burdge e colleghi hanno dunque effettuato decine di migliaia di simulazioni per vedere come un sistema triplo analogo a questo avrebbe potuto evolversi mantenendo la stella esterna. Le pedine di partenza di ogni simulazione sono tre stelle (une delle quali è il buco nero, prima di diventare tale). Ognuna delle simulazioni mette in scena un copione leggermente diverso su come la stella centrale avrebbe potuto diventare un buco nero, influenzando di conseguenza i moti delle altre due. Fra questi copioni, anche l’esplosione in una supernova e il collasso diretto di cui parlavamo prima. Fra tutti, lo scenario che funzionava meglio e più somigliava al sistema osservato era sempre quello che prevedeva il collasso diretto.

Infine, un’ultima domanda. Da quanto esiste questo sistema? Una domanda di difficile risposta, specie quando si ha a che fare con sistemi datati come quello in questione. La presenza della stella esterna ha aiutato anche in questo: sembrerebbe infatti in procinto di diventare una gigante rossa, una fase che si verifica alla fine della principale fase di vita di una stella, la sequenza principale. Una transizione, questa da stella di sequenza a gigante rossa, che ha consentito di determinarne un’età di circa 4 miliardi di anni. E dato che stelle vicine, appartenenti a una stessa popolazione stellare, sono nate più o meno tutte nello stesso periodo, si può affermare – concludono gli autori – che anche il triplo buco nero abbia 4 miliardi di anni.

«Non eravamo mai stati in grado di ottenere una stima d’età per un vecchio buco nero, prima d’ora», conclude Burdge. «Ora, grazie a questa scoperta, sappiamo che V404 Cygni fa parte di un sistema triplo, che potrebbe essersi formato per collasso diretto e che si è formato circa 4 miliardi di anni fa».

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Vecchia dentro, giovane fuori


Confronto fra una galassia ellittica attuale (a sinistra) e la galassia protagonista della scoperta, nel riquadro. Crediti: Jades collaboration
Un fitto addensarsi di abitazioni nelle zone centrali che si fanno via via più rade nelle periferie. Grossomodo così appaiono le città quando le si osserva dal finestrino di un aeroplano. Eppure, tale parvenza non sarebbe una prerogativa dei grandi centri abitati. Anche certe galassie avrebbero un aspetto simile. A dircelo è un gruppo di astronomi guidato da William M. Baker e Sandro Tacchella dell’Università di Cambridge in Inghilterra. Il loro studio è uscito questo mese su Nature Astronomy.

I ricercatori, avvalendosi di immagini e spettri ottenuti con il telescopio spaziale James Webb, hanno studiato una galassia settecento milioni di anni dopo il Big Bang, che appare proprio così: densa nelle zone centrali e diffusa in quelle periferiche, con queste ultime che si stanno espandendo formando nuove stelle. Si tratterebbe dell’evidenza più antica di crescita dall’interno verso l’esterno (“inside-out growth”) per una galassia. Questa modalità di crescita, secondo la quale si formano prima le regioni centrali delle galassie e successivamente quelle più esterne, è prevista dai modelli teorici e grazie a Webb adesso è possibile osservarla direttamente. Conoscere come le galassie accrescono la loro massa nel corso del tempo cosmico è uno degli interrogativi centrali dell’astrofisica moderna.

Nell’universo di oggi le galassie crescono attraverso due modalità: l’accrescimento di gas dal mezzo intergalattico – ovvero il gas che si trova all’esterno delle galassie stesse – o attraverso la fusione con galassie più piccole. Se questi o altri meccanismi fossero già in atto nell’universo primordiale è una questione aperta sulla quale si spera di fare luce utilizzando i dati di Webb.

«La domanda su come le galassie evolvono nel corso del tempo è molto importante in astrofisica”, dice Tacchella, co-primo autore dell’articolo. «Abbiamo avuto una miriade di dati eccezionali per gli ultimi dieci milioni di anni e per le galassie nel nostro angolo di universo, ma ora con Webb possiamo ottenere dati osservativi di miliardi di anni fa, che testimoniano il primo miliardo di anni della storia cosmica, aprendo nuove domande di ogni sorta». La galassia, denominata Jades-Gs+53.18343−27.79097, è stata osservata nell’ambito del programma Jwst Advanced Extragalactic Survey (Jades). Interpretando la luce da essa prodotta con opportuni modelli è stato possibile vincolare le età delle popolazioni stellari, che risultano più vecchie nelle zone nucleari a differenza delle regioni esterne, che ospitano stelle giovani disposte in un disco e un’intensa attività di formazione stellare. «Una delle tante ragioni per cui Webb è così rivoluzionario per noi astronomi è che ora siamo in grado di osservare ciò che prima era stato previsto dai modelli», afferma Baker, l’altro co-primo autore dell’articolo e studente di dottorato presso il Cavendish Laboratory di Cambridge. «È come poter controllare i compiti a casa.»

Confronto fra una galassia ellittica attuale (a sinistra) e la galassia protagonista della scoperta, nel riquadro. Crediti: Jades collaboration

La galassia in questione sarebbe dieci volte più piccola della Via Lattea ma tremendamente più attiva. I ricercatori hanno stimato infatti che, al ritmo forsennato con cui le regioni più esterne stanno formando stelle, Jades-Gs+53.18343−27.79097 raddoppierebbe la massa stellare delle regioni periferiche ogni dieci milioni di anni – per fare un confronto, la Via Lattea ha bisogno di dieci miliardi di anni per duplicare la sua massa. Inoltre, si ritiene che sia estremamente compatta, con una densità simile a quella delle galassie ellittiche attuali, che però hanno un numero di stelle mille volte maggiore. Che cosa può dirci lo studio dettagliato di una galassia rispetto ai meccanismi evolutivi delle galassie nell’universo primordiale? «Certamente questa è una sola galassia, perciò abbiamo bisogno di sapere cosa stavano facendo le altre galassie della stessa epoca», conclude Tacchella. «Se tutte le galassie erano come questa? Stiamo analizzando ora dati simili di altre galassie. Guardando galassie diverse nel corso della storia cosmica, potremmo riuscire a ricostruire il ciclo di crescita delle galassie e dimostrare come esse raggiungono le loro dimensioni attuali».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A core in a star-forming disc as evidence of inside-out growth in the early Universe” di William M. Baker, Sandro Tacchella, Benjamin D. Johnson, Erica Nelson, Katherine A. Suess, Francesco D’Eugenio, Mirko Curti, Anna de Graaff, Zhiyuan Ji, Roberto Maiolino, Brant Robertson, Jan Scholtz, Stacey Alberts, Santiago Arribas, Kristan Boyett, Andrew J. Bunker, Stefano Carniani, Stephane Charlot, Zuyi Chen, Jacopo Chevallard, Emma Curtis-Lake, A. Lola Danhaive, Christa DeCoursey, Eiichi Egami, Daniel J. Eisenstein, et al.


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Giganti ghiacciati. Sulle orme delle sonde Voyager alla scoperta di Urano e Nettuno. Prefazione di Piero Bianucci. Edizioni Dedalo, 2023 (euro 17).

È tra i dieci libri da non perdere nel 2024, categoria pubblicazioni divulgative di scienze matematiche, fisiche a naturali, secondo la giuria del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi. Parliamo del libro di Luca Nardi e Fabio Nottebella “Giganti ghiacciati”, edito da Dedalo nel 2023 nella collana ScienzaFacile (con prefazione di Piero Bianucci). Il sottotitolo ne dà già un assaggio, e suona un po’ come una promessa: sulle orme delle sonde Voyager, alla scoperta di Urano e Nettuno.

Si tratta infatti del primo libro che si occupi in modo esclusivo di mondi ghiacciati, sdoganando ulteriormente con il grande pubblico l’idea che l’acqua non sia una specialità terrestre. Se vi siete mai chiesti cosa succede nel Sistema solare dopo Saturno, l’ultimo pianeta visibile a occhio nudo, “Giganti ghiacciati” potrebbe fare al caso vostro.

Il libro si articola in due sezioni e undici capitoli, per un totale di 220 pagine. Nella prima sezione, sulle orme delle Voyager, si parte dagli anni Settanta del secolo scorso per seguire le rotte delle sonde Voyager della Nasa. Il grand tour planetario ha spinto le due Voyager “là dove nessuno era mai giunto prima”, per guardare per la prima volta da vicino i quattro pianeti giganti del Sistema solare: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Nella seconda sezione del libro si parla di vita (e vita è proprio il titolo della sezione), dalla definizione suoi ingredienti fondamentali fino alle principali sfide dell’astrobiologia. E a questo proposito, per individuare la cosiddetta fascia di abitabilità, la presenza di acqua liquida si rivela sempre un elemento cruciale. È ormai noto che nell’universo l’acqua è molto diffusa, e il fatto che allo stato liquido sia un solvente ideale per trasportare molecole complesse la rende centrale nella ricerca della vita, presente, passata, o di quelli che si ritengono esserne i precursori.

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I due pianeti più esterni del Sistema solare, Urano e Nettuno. Crediti: Nasa

Con lo scorrere delle pagine, il discorso ci riporta sempre più nel dettaglio al titolo, con il mirino sempre più focalizzato sugli ultimi due pianeti del Sistema solare, Urano e Nettuno, con le loro lune e i loro anelli. I due giganti ghiacciati sono definiti dagli autori “perle azzurre”, e si rivelano man mano anche per i lettori tra i mondi più estremi e interessanti del nostro sistema planetario. Nardi e Nottebella sottolineano a più riprese come Urano e Nettuno restino i due pianeti più trascurati del Sistema solare, e rivolgono a più riprese un appello affinché nuove missioni spaziali possano tornare a osservarli per cercare di risolvere i misteri ancora racchiusi – senza una risposta – sotto la coltre di ghiaccio di questi giganti lontani.

Terminato il viaggio spaziale nel Sistema solare, gli autori non si sono fermati ma hanno proseguito il viaggio nella dimensione temporale, chiedendosi come finiranno quei mondi e quelle lune, coinvolti e sottoposti all’evoluzione del Sole e, più in grande, di tutto l’Universo.

E tutto sembra finire come è iniziato, nel ghiaccio e nell’oscurità, sentenziano gli autori parafrasando il noto astrofisico Nanni Bignami: «le teorie sulla fine dell’universo, e quindi sulla vita, sono cose per palati forti».

Giganti ghiacciati è dedicato a un pubblico curioso e appassionato di fatti astronomici, che si avvicina anche per la prima volta a un testo scientifico, data la totale assenza di formule e tecnicismi. Non è in ogni caso un libro per bambini, l’età consigliata per la lettura è dai 14 anni in su, considerata anche la densità delle nozioni che si susseguono in modo abbastanza incalzante.
Rende sicuramente più agile la lettura un ottimo indice che permette di identificare i punti di interesse senza perdersi tra le pagine, e un’ampia bibliografia per chi volesse avere dei riferimenti per approfondire o anche come prova metodologica della solidità delle affermazioni contenute nel testo. Quest’ultima merita infatti una nota di riguardo per gli autori, la cui sistematicità nella raccolta delle fonti (la maggior parte delle volte internazionali) permette anche di sottolineare come un buon testo che parli di fatti annessi alla scienza, anche senza l’ambizione di raggiungere il pubblico degli esperti in materia, non possa prescindere da una buona letteratura di riferimento.

Insomma, se non avete letto “Giganti ghiacciati” sotto l’ombrellone, potrete farlo nelle vacanze nel periodo invernale, aspettando la cerimonia conclusiva del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi, in programma il prossimo 12 dicembre.


Un’amica per Betelgeuse


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Betelgeuse è una supergigante rossa circa 100.000 volte più luminosa e oltre 400 milioni di volte più grande del Sole. È la decima stella più luminosa nel cielo notturno. Situata a circa 600 anni luce dalla Terra nella costellazione di Orione, è una stella la cui luminosità varia nel tempo. Stelle variabili, è così che le chiamano gli addetti ai lavori. Betelgeuse, in particolare, va incontro a complessi cicli di variazione di luminosità che sono impressi nella sua curva di luce e che si verificano su scale temporali differenti: un ciclo di variabilità che copre un periodo di poco più di un anno, 416 giorni per essere precisi, e un ciclo più lungo, di 2170 giorni. Uno di questi due cicli è dovuto alla pulsazione della stella. Si tratta di una variazione intrinseca della luminosità dovuta a successive espansioni e contrazioni degli strati superficiali della stella stessa – quello che gli astronomi chiamano modalità di pulsazione fondamentale, la cui durata dà indicazioni sullo stadio evolutivo nel quale si trova. La domanda è: quale dei due cicli costituisce la modalità fondamentale di Betelgeuse? E cosa ci dice circa la sua evoluzione?

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Illustrazione artistica che mostra Betelbuddy in orbita attorno a Betelgeuse. Crediti: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

Se il ciclo di 2.170 giorni fosse dovuto alla pulsazione intrinseca della stella, ciò collocherebbe l’attuale stadio evolutivo di Betelgeuse in una fase avanzata della sua vita, il che significherebbe che la stella sarebbe pronta ad esplodere come supernova entro le prossime decine o centinaia di anni. Viceversa, se la modalità fondamentale è il ciclo di 416 giorni, la stella non sarebbe destinata ad esplodere se non fra centinaia di migliaia di anni.

Diversi studi suggeriscono che quest’ultima ipotesi sia quella più plausibile: per vedere esplodere la stella dovremmo dunque aspettare ancora a lungo. La domanda a questo punto è: a cosa è dovuto il periodo di variazione della luminosità di 2.170 giorni della stella? Un team di ricercatori guidati dal Flatiron Institute, negli Usa, pare abbia trovato la risposta: ad essere responsabile dello schema di luminosità – chiamato dagli addetti ai lavori periodo secondario lungo, Long secondary period (Lsp) in inglese – potrebbe essere la presenza di una stella compagna che le orbita attorno.

I ricercatori hanno chiamato questa ipotetica stella “Betelbuddy“, amica di Betelgeuse in italiano, e nel sistema agirebbe come uno spazzaneve: mentre orbita attorno a Betelgeuse lungo la nostra linea di vista, la stella – denominata formalmente Alpha Ori B – spazzerebbe via le polveri che la circondano, impedendogli di bloccare la luce in arrivo e facendo apparire ciclicamente Betelgeuse più luminosa.

Nello studio, accettato per la pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal, i ricercatori hanno indagato diversi meccanismi e circostanze in grado di causare la variabilità a lungo termine della luminosità di Betelgeuse: celle convettive giganti, rotazione differenziale, magnetismo, e persino la presenza di una stella compagna.

Dopo aver combinato i dati di osservazioni dirette di Betelgeuse con modelli computerizzati avanzati che simulano l’attività della stella, il team ha concluso che l’esistenza di “Betelbuddy” è di gran lunga la spiegazione più probabile. Betelgeuse, dunque, potrebbe far parte di un sistema binario.

«Non ha funzionato nient’altro», dice Jared Goldberg, ricercatore al Flatiron Institute e primo autore dello studio. «Se non c’è Betelbuddy, allora significa che c’è qualcosa di molto più strano in atto, qualcosa di impossibile da spiegare con la fisica attuale».

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Infografica che descrive come Betelbuddy potrebbe influenzare la luminosità apparente di Betelgeuse. Crediti: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

I ricercatori devono ancora stabilire cosa sia esattamente Betelbuddy, ma presumono che si tratti di una stella con una massa pari a quasi due volte quella del Sole, distante da Betelgeuse circa 1 miliardo e 300 milioni di chilometri.

«A parte i vincoli orbitali e di massa, è difficile dire cosa sia effettivamente la stella compagna» sottolinea Meridith Joyce, ricercatrice dell’Università del Wyoming, negli Usa, e co-autrice dello studio. «Una stella simile al Sole è il tipo di compagna più probabile, ma questa non è affatto una risposta definitiva. Un’ipotesi più esotica che personalmente mi piace» aggiunge a questo proposito la ricercatrice, «è che la compagna sia una stella di neutroni, ovvero il nucleo di una stella che è già esplosa come supernova. Se così fosse, potremmo ottenere delle evidenze con delle osservazioni in banda X, che però non abbiamo. Dovremmo dunque guardarci di nuovo».

Con il miglioramento della sensibilità degli strumenti dotati di potenti coronografi e di sistemi di ottica adattiva progettati per la ricerca di pianeti, concludono i ricercatori, possiamo essere ottimisti sul fatto che in futuro la stella compagna sarà rilevabile. Attualmente, dicono, la migliore possibilità di confermare o confutare la sua esistenza è mediante osservazioni radio-interferometriche mirate, ripetute e continue durante tutto il ciclo di variabilità a lungo termine.

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Concorso “A Gianni Rodari”, il tema è la Luna


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Crediti: Wikimedia Commons

Dopo il successo delle precedenti edizioni, l’Istituto nazionale di astrofisica rilancia il concorso “A Gianni Rodari, via Lattea, quaraquarinci” dedicato alle studentesse e agli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado, che possono partecipare sia in maniera individuale che per classi. L’iniziativa parte ufficialmente oggi, mercoledì 23 ottobre, in occasione dei 100 più 4 anni dalla nascita di Gianni Rodari, e sarà aperta fino alle ore 20 di lunedì 23 dicembre 2024.

Il concorso è a cura di Elena Zucca, Adamantia Paizis, Federica Duras, Anna Wolter e Giuliana Giobbi del Gruppo storie dell’Inaf, che dal 2020 si occupa della valorizzazione del patrimonio artistico e letterario dell’Ente e della creazione di nuovi progetti. Per l’edizione di quest’anno, le organizzatrici hanno selezionato un tema affascinante, misterioso e di grande attualità: partire dalle parole di Rodari per sviluppare un racconto, in prosa o in versi, sulla Luna. Di accattivante non c’è solo il tema: la sfida di quest’anno ruota intorno a un indovinello, da inventare e rendere parte integrante del componimento.

«Questo concorso è un’iniziativa molto creativa, non solo per chi partecipa ma anche per noi dell’organizzazione», dice Elena Zucca, «ogni anno è una bella prova pensare a un tema astronomico e a una nuova sfida in stile rodariano, che possano coinvolgere e appassionare le giovani menti».

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Locandina del Concorso Rodari. Crediti: E. Bussolati

I partecipanti potranno trovare ispirazione per le proprie opere attingendo al materiale sulla Luna scritto appositamente per il concorso ospitato nelle pagine di EduInaf e, novità di quest’anno, anche ascoltando le parole di due esperti del tema. Infatti, il 22 novembre, a partire dalle 15:30, il ricercatore dell’Inaf di Roma Federico Tosi e Meganne Christian, membro della riserva degli astronauti e astronaute dell’agenzia spaziale europea, parleranno della Luna e del futuro della sua esplorazione spaziale, offrendo spunti e stimolando la curiosità di chi accetterà di lanciarsi in questa sfida.

Tutti i dettagli, le istruzioni, il materiale per partecipare e le informazioni sulla diretta saranno disponibili su EduInaf a partire dal 23 ottobre. Come gli scorsi anni, le opere presentate in conformità con le richieste del bando saranno pubblicate al termine del concorso sulle pagine del magazine. Le opere saranno valutate da una giuria di esperti composta da Elena Zucca, Sandro Bardelli, Francesca Brunetti, Marco Castellani e Laura Paganini del Gruppo storie Inaf e da due membri esterni, ormai fedeli all’iniziativa sin dalla prima edizione: Emanuela Bussolati, autrice, illustratrice e ideatrice di libri e collane per bambini, e Cesare Sottocorno, docente e conoscitore dell’opera di Gianni Rodari. Per quanto riguarda i premi, ogni testo vincente si aggiudicherà un bellissimo libro (uno per opera) e un quaderno tascabile dedicato al Concorso Rodari (uno per autrice-autore dell’opera vincitrice).

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Giochi e sfide astronomiche sbarcano a Genova


Grafica ufficiale 2024. Crediti: Festival della Scienza
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La grafica ufficiale della 22esima edizione del Festival. Crediti: Festival della Scienza

Laboratori interattivi, spettacoli teatrali, conferenze e giochi anni ‘90: dal 24 ottobre al 3 novembre a Genova, raggi gamma, onde gravitazionali, stelle, pixel, buchi neri, e tante altre affascinanti curiosità scientifiche e astronomiche, saranno protagonisti degli eventi promossi dall’Istituto Nazionale di Astrofisica alla 22esima edizione del Festival della Scienza. Parola chiave “sfide”, per trasformare di nuovo la città di Genova nel cuore pulsante della divulgazione scientifica.

Il tema di quest’anno invita a riflettere sulle grandi domande scientifiche e le difficoltà da affrontare per svelare i misteri del cosmo. Grazie agli appuntamenti proposti dall’Inaf il Festival diventa un’occasione imperdibile per mettere in luce le sfide e le scoperte dell’astrofisica moderna. Tra gli eventi di punta di quest’anno vi segnaliamo i laboratori di astronomia proposti da Inaf per tutte le due settimane della kermesse. Con “A caccia di fotoni gamma: Gli eventi più violenti dell’Universo, il pubblico può viaggiare nel deserto di Atacama, in Cile, e alle Isole Canarie, dove è in costruzione il Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO), un imponente insieme di oltre 60 telescopi progettati per studiare i raggi gamma, particelle di altissima energia prodotte dalle esplosioni cosmiche più potenti.

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Il laboratorio sui raggi gamma e il Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO) propone viaggi nella realtà virtuale. Crediti: Inaf

Questo laboratorio interattivo, arricchito dalla realtà virtuale, permette ai visitatori di esplorare da vicino le sorgenti celesti che emettono fotoni gamma, “toccando con mano” modelli delle sorgenti cosmiche e partecipando a un gioco scientifico che riproduce il lavoro dei ricercatori: identificare la fonte cosmica responsabile dell’emissione dei raggi gamma. Il laboratorio, a cura di Indaco – Inaf per la Divulgazione di Astri e Cta Observatory, include anche l’affascinante esperienza del planetario gonfiabile, per poter osservare la volta celeste comodamente seduti a terra.

E ora, vi ricordate il pulcino virtuale del tamagotchi? Negli anni ’90 era una vera e propria mania…bene, togliete il pulcino, e metteteci protostelle, supernove e buchi neri. A Palazzo Ducale, sempre dal 24 ottobre al 3 novembre, il laboratorio “Astro-Tamagotchi”, ideato dal gruppo Play Inaf, invita bambini e adulti a partecipare a un’avventura cosmica dove è possibile assistere alla nascita e alla crescita di una stella, partendo da una nube di gas e polvere interstellare. I partecipanti devono prendersi cura della ”stella neonata”, guidandola attraverso le diverse fasi della sua evoluzione. Ogni fase di crescita è un’occasione per imparare divertendosi, in un contesto immersivo che unisce gioco e scienza, grazie al coding e alla realtà virtuale.

Anche “PIXEL – Picture (of) the Universe” è un laboratorio declinato come un gioco educativo, che esplora il concetto di risoluzione delle immagini astronomiche e che spiega come le immagini a bassa o alta risoluzione possono influenzare la nostra comprensione dell’universo. Allestito a Palazzo del Principe, e curato da Inaf in collaborazione con il Game Science Research Center, il laboratorio è un’occasione unica per sperimentare il processo di indagine scientifica e comprendere l’importanza del dettaglio nelle immagini celesti.

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La grafica in stile “steam punk” del laboratorio “Astro Tamagotchi” ideato dal gruppo Play Inaf. Crediti: Daniela Paoletti/Inaf

Per una serata diversa, magari tra stelle e musica, vi consigliamo lo spettacolo-conferenza “Donne in ascolto del cosmo: La rivoluzione multimessaggera in voci e musica”, previsto per il 26 ottobre alle 21.00 a Palazzo Ducale. Silvia Piranomonte dell’Inaf, e Pia Astone dell’Infn, tra le scienziate protagoniste della scoperta delle onde gravitazionali, saranno al centro della narrazione, accompagnata da immagini spettacolari dell’universo e dalla musica – una musica creata “sonificando” dati reali. Un’esperienza imperdibile unire scienza e arte. L’evento è stato ideato in collaborazione con Ego, lo European Gravitational Observatory, e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Andrà invece scena il 30 ottobre al Teatro della Tosse “Crazy Space. Viaggio improvvisato nello spazio spettacolo” con Debora Fedrigucci, Carlo Felici, Alessio Granato, Francesca Panessa (dell’Inaf) e Tiziano Storti: uno spettacolo che unisce divulgazione scientifica e improvvisazione teatrale. A bordo di un’astronave, una troupe guidata dalla “Capitana” esplorerà il Sistema Solare e la Via Lattea, arrivando fino a un misterioso pianeta extrasolare. Il viaggio è imprevedibile e interattivo: ogni tappa prevede un gioco d’improvvisazione in cui il pubblico è direttamente coinvolto, diventando parte della narrazione.

Se non siete ancora sazi di scienza, cosmo e missioni spaziali, vi proponiamo l’intero calendario di eventi e appuntamenti a tema astronomico nella sezione EduInaf dedicata al Festival.

Insomma, che si tratti di esplorare l’universo attraverso la realtà virtuale, coccolare una stella o ascoltare le voci dei nostri ricercatori e delle nostre ricercatrici, l’esperienza offerta è un invito a guardare il cielo con occhi nuovi.

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Tre famiglie di asteroidi all’origine delle meteoriti


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Dai dati dei satelliti militari statunitensi sappiamo che, in media, ogni due settimane un piccolo meteoroide dell’ordine di un metro di diametro cade nell’atmosfera terrestre. Questa tipologia di corpi sono per la stragrande maggioranza di natura rocciosa e, arrivando in atmosfera a velocità di circa 15-20 km/s, creano un’onda d’urto in cui l’aria viene compressa, riscaldata e ionizzata a spese dell’energia cinetica del meteoroide. Il plasma atmosferico ad alta temperatura riscalda e vaporizza la superficie del meteoroide che va incontro a un fenomeno di perdita di massa, noto come ablazione. A un certo punto, quando la pressione dell’onda d’urto supera la forza di coesione (in inglese strength) del corpo, si possono verificare una o più frammentazioni e ogni frammento macroscopico prosegue in modo indipendente la caduta verso il suolo continuando a perdere velocità. Quando i frammenti arrivano alla velocità di circa 3 km/s inizia la fase di volo buio e, sballottati dai venti della troposfera, cadono in un’area al suolo nota come area di dispersione (in inglese strewn field). I frammenti superstiti del meteoroide originario sono le meteoriti che possiamo ammirare nei musei. In nove casi questi piccoli meteoroidi sono stati scoperti con i telescopi adibiti alle survey degli asteroidi near-Earth (Nea) poche ore prima di collidere con la Terra, e hanno ricevuto una designazione asteroidale. Il primo caso è stato 2008 TC3 nell’ottobre 2008, associato alla meteorite Almahata Sitta, mentre uno degli ultimi è stato l’asteroide 2024 BX1, caduto nel gennaio 2024 e associato alla meteorite Ribbeck. Delle circa 70.000 meteoriti raccolte sulla terra, solo di una cinquantina si conosce l’orbita che aveva il meteoroide prima di cadere. Si tratta sempre di orbite di tipo asteroidale: non ci sono meteoriti associate a un’orbita cometaria.

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Rappresentazione artistica della collisione catastrofica fra due asteroidi della Fascia Principale, il meccanismo alla base della formazione delle famiglie di asteroidi. Crediti Nasa/Jpl.

Secondo il paradigma attuale, i meteoroidi genitori delle meteoriti si sono formati milioni di anni fa in seguito a collisioni tra gli asteroidi della Fascia Principale (che si trova nella regione di spazio compresa fra le orbite dei pianeti Marte e Giove), che hanno dato origine alle diverse famiglie di asteroidi: gruppi di corpi che hanno parametri orbitali e spettrali simili, e che con molta probabilità un tempo facevano parte dello stesso asteroide andato incontro a collisione catastrofica con un altro asteroide. In seguito, a causa delle risonanze orbitali di moto medio con Giove e dell’effetto Yarkovsky, i frammenti della collisione sono stati immessi su orbite di tipo Nea, che li hanno portati a cadere sulla Terra e a generare le meteoriti. Questa è la stessa origine che hanno avuto gli asteroidi near-Earth: i meteoroidi responsabili delle meteoriti sono i “fratellini minori” della popolazione dei Nea. In effetti, se si considera la distribuzione delle dimensioni, non c’è discontinuità fra i meteoroidi metrici e i Nea di dimensioni decimetriche o chilometriche. Provengono tutti dall’evoluzione collisionale della Fascia Principale. In generale, anche conoscendo l’orbita dei meteoroidi metrici, è difficile identificare con certezza quali siano le famiglie di asteroidi della Fascia Principale progenitori delle meteoriti, anche se circa un 25% dei meteoroidi genitori può avere un’origine collisionale direttamente dalla popolazione dei Nea. Il problema è che le orbite dei Nea sono caotiche, quindi propagando l’orbita del meteoroide indietro nel tempo si arriva a un punto in cui non si sa più da dove provenga l’asteroide. Questo determina il mistero sull’origine delle meteoriti: sappiamo che provengono dalla Fascia Principale, ma non conosciamo quali siano le famiglie di origine, anche per le categorie più numerose. Solamente per il 6 per cento delle circa 70.000 meteoriti è stato possibile identificare il corpo progenitore in base alla composizione chimica: parliamo delle acondriti provenienti da Luna, da Marte o dall’asteroide Vesta, uno dei più grandi della Fascia Principale. La fonte dell’altro 94% delle meteoriti, la maggior parte dei quali sono condriti ordinarie, è ancora non identificata.

Le condriti ordinarie sono divise in tre categorie distinte dal punto di vista chimico e mineralogico, in base al loro contenuto di ferro. Le condriti H (che sono il 42,5% delle condriti ordinarie) hanno la quantità più elevata di ferro, le condriti L (che rappresentano il 46,2%) hanno una quantità intermedia di ferro, mentre le condriti LL (che sono solo l’11,3%) hanno la quantità più bassa di ferro. Già da questa variazione della quantità di ferro è chiaro che le condriti ordinarie devono aver avuto origine almeno da tre corpi progenitori distinti, che hanno generato poi i gruppi H, L e LL. Tuttavia, c’è subito un enigma da risolvere, che deriva dall’incoerenza fra il numero di Nea con una certa composizione e quella delle condriti ordinarie. I Nea simili alle condriti di tipo L sono sette volte meno abbondanti delle loro controparti simili alle condriti LL, però – come abbiamo visto – le meteoriti del tipo condrite L sono un fattore 4,5 più abbondante delle condriti LL. Come si può conciliare questa apparente contraddizione? Alcune condriti di tipo L venivano associate all’asteroide (161) Athor, mentre la numerosa famiglia Flora, che si trova nella parte interna della fascia principale e ha un’età di circa 200 milioni di anni, è un buon candidato per essere l’origine delle condriti ordinarie di tipo LL. La probabile fonte delle condriti ordinarie di tipo H è invece il grande asteroide (6) Hebe (diametro 195 km), situato adiacente sia alla risonanza secolare ν6 con Saturno che alla risonanza di moto medio 3:1 con Giove, una condizione che permette il rapido trasferimento verso il Sole di eventuali frammenti da collisione.

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Differenza fra le famiglie di asteroidi nuove (alto) e vecchie (basso): le prime sono molto più ricche di polvere e meteoroidi metrici, mentre nelle seconde restano solo gli gli asteroidi chilometrici, che diventano NEA con tempi scala maggiore dei corpi più piccoli. Crediti: Nature, 2024.

Questo era lo stato della conoscenza recente, ma la ricerca va avanti e due team guidati da Miroslav Brož (Institute of Astronomy, Prague, Czech Republic) e Michael Marsset (Eso, Mit), hanno mostrato che la maggior parte delle condriti ordinarie hanno avuto origine da poche e giovani famiglie di asteroidi, il che significa che sono i frammenti di collisioni avvenute solo milioni o poche decine di milioni di anni fa. I due articoli sono strettamente intrecciati, anche i team si sovrappongono parzialmente, e sono stati pubblicati sullo stesso numero di Nature.

Il team di Brož ha iniziato considerando l’età di esposizione ai raggi cosmici delle meteoriti (cosmic-ray exposure o Cre) che, grosso modo, indica da quanto tempo il meteoroide si è staccato dal corpo genitore prima di collidere con la Terra, e confrontandola con le età delle famiglie asteroidali note nella Fascia Principale. Circa il 40% di tutte le condriti H hanno una Cre relativamente bassa, compresa nell’intervallo 5-8 milioni di anni. Questa giovane età (per una meteorite), indica una frammentazione molto recente. La famiglia di Karin, una parte della famiglia di Koronis, è l’unica famiglia nota ad avere un’età di 5,8 milioni di anni e cade in questo intervallo. Anche se questa questa famiglia può spiegare una parte delle condriti ordinarie di tipo H, difficilmente può spiegare le età delle condriti ordinarie più antiche e abbondanti che cadono nel range 7-8 milioni di anni. Andando alla ricerca di altre possibili famiglie di asteroidi per giustificare la Cre più elevata delle H i ricercatori hanno identificato tre cluster di asteroidi sempre all’interno della famiglia di Koronis con un’età di 7,6 milioni di anni, un valore adeguato per spiegare le H più vecchie. La famiglia di Karin e Koronis2 hanno l’inclinazione orbitale giusta (circa 2,1°), per spiegare le bande di polvere scoperte dal satellite infrarosso Iras nel 1983. Molto probabilmente queste bande di polvere sono state create in seguito alla formazione recente delle due famiglie e la presenza di polvere e meteoroidi è coerente con la giovane età stimata in base alla dispersione degli elementi orbitali. Per determinare se il numero di questi corpi di dimensioni metriche supera il numero di corpi presenti nelle più grandi famiglie di tipo S presenti nella Fascia Principale (Agnia, Eunomia, Flora, Gefion, Juno, Koronis, Massalia, Maria, Merxia, Nysa e Phocaea), è stato utilizzato un modello collisionale con un approccio statistico del tipo Monte Carlo, per estrapolare la frequenza delle dimensioni fino a un metro di diametro, quello tipico dei meteoroidi associati alle meteoriti. Con il modello è stata riprodotta l’evoluzione orbitale delle famiglie di asteroidi di tipo S (tenendo conto delle perturbazioni gravitazionali dei pianeti, degli asteroidi maggiori e dell’effetto Yarkowsky) e si è trovato che le famiglie di Karin e Koronis2 sono in grado di fornire un numero di meteoroidi metrici che possono colpire la Terra che è un fattore 10 superiore alle altre famiglie. L’abbondanza dei meteoroidi metrici risulta maggiore del numero totale di Nea di dimensioni metriche provenienti dalle famiglie Vesta e Flora, in accordo con le statistiche sulla caduta di meteoriti. In sostanza, dalle simulazioni risulta che solo le famiglie più recenti, con età non superiore a 40 milioni di anni, e generate dalla distruzione di asteroidi con almeno 30 km di diametro possono dare un effettivo contributo alla popolazione di asteroidi metrici e quindi alle meteoriti. Le famiglie più vecchie si sono già impoverite della popolazione più piccola e numerosa e possono contribuire solo con i frammenti maggiori che però sono pochi e quindi (per nostra fortuna), cadono raramente sulla Terra. Per Nea di dimensioni chilometriche, le famiglie Phocaea, Juno e Flora sono di gran lunga le principali fonti di asteroidi di tipo H, L e LL, rispettivamente. Per dimensioni metriche, le famiglie Karin (H), Koronis2 (H), Massalia2 (L) e Flora (LL) sono di gran lunga le principali fonti di meteoriti di tipo H, L e LL. Da dove esce la famiglia Massalia2? Questa domanda ci porta al secondo articolo.

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Un confronto fra i NEA di tipo S e le meteoriti. Le popolazioni simulate con il modello hanno una composizione che concorda con quanto osservato, sia per i NEA di tipo S, sia per le meteoriti. Crediti: Broz et al., Nature 2024.

Il team di Marsset si è concentrato sull’origine delle condriti ordinarie di tipo L. Studi sulle micrometeoriti presenti nei calcari del medio Ordoviciano e i crateri da impatto sulla Terra indicano che il nostro pianeta ha subito un massiccio bombardamento di condriti ordinarie di tipo L circa 466 milioni di anni fa. Viene logico supporre che questo evento sia dovuto alla frammentazione di un grande asteroide nella Fascia Principale, e ancora oggi i frammenti di questa collisione sono dominanti perché le condriti L sono le più abbondanti. Per identificare l’asteroide genitore delle condriti L, il team ha condotto osservazioni spettroscopiche per tutte le principali famiglie di asteroidi di tipo S presenti nella Fascia Principale. Gli spettri medi di ciascuna famiglia di asteroidi sono stati de-arrossati utilizzando una funzione di arrossamento empirica per tenere conto dello space weatering, ossia dell’invecchiamento della superficie dovuto all’esposizione al bombardamento di micrometeoroidi, raggi cosmici e alla radiazione UV e X solare.

I risultati hanno confermato quanto già si conosceva sulla mineralogia delle famiglie di tipo S. In particolare, è stato confermato che le famiglie Merxia, Agnia, Maria e Koronis hanno una mineralogia molto simile alle condriti di tipo H, Gefion alle condriti di tipo L, mentre Juno sembra essere intermedia tra L e LL, infine Flora ed Eunomia corrispondono meglio a una mineralogia di tipo condrite LL. Ci sono, tuttavia, due notevoli eccezioni rispetto agli studi precedenti: le famiglie Phocaea e Massalia. Il membro più grande della famiglia Phocaea, l’asteroide (25) Phocaea, è coerente con la composizione delle condriti LL e, molto probabilmente, si tratta di un intruso in una famiglia dominata dal tipo H. Al contrario, il membro più grande della famiglia Massalia, l’asteroide (20) Massalia (145 km di diametro), come composizione rientra nel picco della distribuzione delle condriti di tipo H. Tuttavia, l’analisi degli spettri rivela che i membri minori della famiglia hanno una composizione coerente con le condriti L. La scoperta di piccoli asteroidi della famiglia Massalia con una composizione simile alle condriti di tipo L li rende il candidato principale a essere la sorgente di queste meteoriti. Questa famiglia infatti è vicino alla risonanza secolare ν6 e alla risonanza di moto medio 3:1 con Giove, due risonanze molto efficaci nel portare asteroidi verso il Sistema Solare interno. L’identificazione di Massalia2 come fonte delle condriti di tipo L e l’associazione della famiglia con la banda di polvere scoperta da Iras con inclinazione di 1,4° risolve l’enigma sulle abbondanze asteroide-meteorite che abbiamo visto nel caso delle condriti di tipo L e LL. L’apparente contraddizione è spiegata dal fatto che Massalia2 è più giovane e ha un’abbondanza di meteoroidi metrici maggiore rispetto alla famiglia di Flora, quindi i meteoroidi di tipo L sono maggiori degli LL e di conseguenza lo sono le meteoriti, mentre i Nea più grandi provengono in ugual modo da Massalia e Flora. Quanto detto è confermato analizzando numericamente l’evoluzione della famiglia di Massalia: il team ha trovato un’età di circa 450 milioni di anni, in accordo con le ricerche precedenti. Tuttavia, la presenza della banda di polvere con inclinazione di 1,4° ci dice che (20) Massalia deve avere subito una seconda collisione più recente che le simulazioni pongono a circa 40 milioni di anni fa, in accordo con l’esposizione ai raggi cosmici delle condriti di tipo L. Se il risultato è corretto, su (20) Massalia ci si aspetta di trovare due grandi bacini da impatto, ognuno responsabile di una famiglia, in modo analogo a quello che è stato trovato su (4) Vesta. A quando una missione spaziale verso questo intrigante asteroide?

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Vado al massimo: siamo all’apice del ciclo solare


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La scorsa settimana la Nasa, la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) e l’International Solar Cycle Prediction Panel hanno annunciato che il Sole ha raggiunto il periodo di massimo solare, che potrebbe continuare anche il prossimo anno.

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Immagini del Solar Dynamics Observatory della Nasa che confrontano il Sole durante un periodo di minimo dell’attività (dicembre 2019), con l’attuale periodo di massimo (maggio 2024). Le immagini sulla riga superiore, in luce visibile, mostrano l’aumento delle macchie solari con l’intensificarsi dell’attività magnetica; mentre le due immagini sulla riga in basso, ottenute alle frequenze dell’ultravioletto estremo, mostrano le regioni attive sulla superficie del Sole, anch’esse in aumento durante il massimo. Crediti: NASA/SDO

Per capire di cosa stiamo parlando, vi basterà guardare le immagini qui a fianco. Le due viste del Sole sulla sinistra sono state scattate nel dicembre 2019, quando il Sole si trovava al minimo del proprio ciclo di attività, mentre le due sulla destra sono state scattate a maggio di quest’anno, al massimo dell’attività. Le prime due immagini del Sole, quelle sul pannello più alto, sono state scattate dal Solar Dynamics Observatory della Nasa, e mostrano l’aumento nel numero di macchie solari al variare dell’attività solare, uno dei metodi che gli scienziati usano per tracciare proprio il progredire del ciclo solare. Anche le seconde due viste del Sole, nel pannello più in basso, sono state scattate dalla sonda della Nasa, ma questa volta usando un filtro che lascia passare le frequenze dell’ultravioletto estremo, attraverso le quali si possono vedere le regioni in attività sulla superficie della nostra stella. La vista, in questo caso, già dice tutto su quale sia la differenza fra il minimo e il massimo.

Ma torniamo un attimo indietro, e vediamo cos’è e quanto dura il ciclo di attività del Sole.

Si tratta di un ciclo naturale originato dal variare dell’attività magnetica del Sole attraversa. Circa ogni 11 anni, al culmine del ciclo solare – coincidente con il culmine dell’attività magnetica del Sole – i poli magnetici del Sole si invertono e il Sole passa da uno stato di calma a uno stato attivo e tempestoso. Sulla Terra sarebbe come se i poli Nord e Sud si scambiassero di posto ogni decennio. La Nasa e il Noaa, per determinare e prevedere l’andamento del ciclo solare tengono traccia delle macchie solari. Tornando alle prime due immagini, le macchie solari sono quelle zone scure sulla superficie del Sole (visibili nel primo pannello, in alto a destra). Sono regioni più fredde che nascono quando si verifica una concentrazione di linee di campo magnetico. Le macchie solari sono la componente visibile delle regioni attive, cioè quelle aree in cui il campo magnetico è particolarmente intenso e complesso e dal quale scaturiscono le eruzioni solari.

«Durante il massimo solare, il numero di macchie solari e quindi l’attività solare aumentano», spiega Jamie Favors, direttore del programma meteorologico spaziale presso la sede centrale della Nasa a Washington. «Questo aumento dell’attività offre un’entusiasmante opportunità di conoscere la nostra stella più vicina, ma provoca anche effetti reali sulla Terra e in tutto il nostro Sistema solare».

Ebbene sì, l’attività magnetica del Sole si ripercuote nello spazio – quello che in gergo viene definito space weather – e può influenzare i satelliti e gli astronauti nello spazio, nonché i sistemi di comunicazione e navigazione (come radio e Gps) e le reti elettriche sulla Terra. Quando il Sole è più attivo, gli eventi meteorologici spaziali sono più frequenti. Per citarne uno, negli ultimi mesi c’è stato un aumento della visibilità delle aurore e a impatti su satelliti e infrastrutture.

Nel maggio 2024, una raffica di grandi brillamenti solari e di espulsioni di massa coronale ha lanciato nubi di particelle cariche e campi magnetici verso la Terra, creando la tempesta geomagnetica più forte degli ultimi vent’anni – e forse una delle più forti aurore degli ultimi 500 anni. Tuttavia, non è detto che il picco di questo ciclo solare sia già stato raggiunto, anzi, gli scienziati non saranno in grado di determinare l’esatto picco di questo periodo di massimo solare per molti mesi, poiché l’unico modo per identificarlo è osservare un declino costante dell’attività solare dopo il picco. Quello che si sa, per ora, è che negli ultimi due anni il Sole si trova in una fase attiva, osservabile chiaramente nel numero di macchie solari sempre elevato. Secondo le previsioni, questa fase di massimo durerà ancora un anno circa, dopodiché il Sole entrerà in una fase di declino, e giungerà al minimo.

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Infografica sullo space weather realizzata dal progetto Sorvegliati spaziali dell’Inaf. Crediti: Inaf, Sorvegliati spaziali

«L’attuale Ciclo Solare è stato e continua a essere una sorpresa: si pensava che sarebbe stato di intensità media e simile al ciclo precedente, invece ha superato le aspettative. Il fatto che le luci aurorali si siano manifestate per ben quattro volte in Italia a partire da novembre 2023 ne è stato testimone e ci ricorda quanto siamo connessi a tale attività», dice a Media Inaf Daria Guidetti, ideatrice e coordinatrice del progetto Sorvegliati spaziali dell’Inaf. «Le aurore ne sono le manifestazioni belle, ma poi possono esserci anche effetti meno piacevoli provocati da flussi elevati di particelle solari e radiazione elettromagnetica entrambi di alta energia: disturbi e/o danni alla strumentazione dei satelliti, rischi per gli astronauti, interruzioni nelle comunicazioni radio e del sistema Gps. Effetti spiacevoli possono esserci anche a terra, per esempio a causa di correnti elettriche indotte in grado di danneggiare i trasformatori di alta tensione che a loro volta possono causare interruzioni nella distribuzione dell’energia elettrica. Sorvegliati spaziali ha recentemente ampliato il suo team e, oltre ai bollettini solari quotidiani e mensili che già forniamo, stiamo preparando un nuovo prodotto dedicato proprio a sensibilizzare il pubblico sulle attività solari e sulle conseguenze pratiche nella vita di tutti i giorni. Stay tuned».

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Pianeta roccioso in orbita attorno a una nana bianca


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Rappresentazione artistica di pianeta roccioso in orbita attorno a una nana bianca. Crediti: W. M. Keck Observatory/Adam Makarenko

Magari arrivare alla sua età in quello stato… Quante volte lo abbiamo pensato, incontrando persone lucidissime e in perfetta forma nonostante gli anni. Lo stesso potrebbe dire ora la Terra osservando a quattromila anni luce da noi, in direzione della costellazione del Sagittario, il pianeta roccioso Kmt-2020-Blg-0414Lb: quanto di più vicino sia mai stato scoperto a ciò che potrebbe essere il nostro pianeta fra otto miliardi di anni.

Di massa analoga a quella della Terra, molti miliardi di anni fa questo lontano mondo si trovava infatti in orbita attorno a una stella simile al Sole. Stella andata poi incontro alla sorte che accomuna tutti gli astri di massa analoga: esaurito il suo combustibile nucleare, è diventata una nana bianca. Non senza però attraversare prima una fase breve e concitata da gigante rossa, che l’ha vista espandersi in modo esagerato fino a lambire, se non addirittura superare, un’orbita corrispondente a quella della Terra. Ecco dunque la buona notizia: nonostante questi trascorsi tumultuosi e potenzialmente fatali, il pianeta è ancora lì. E questo dà qualche speranza anche al nostro, di pianeta, che fra qualche miliardo di anni si troverà inevitabilmente ad affrontare un’odissea simile.

La scoperta, guidata dalle università californiane di San Diego e Berkeley e pubblicata a fine settembre su Nature Astronomy, ha richiesto parecchio impegno e l’aiuto di una piccola lente gravitazionale. Anzi, il pianeta stesso e la sua stella (nome in codice, Kmt-2020-Blg-0414L), che si trovano a circa quattromila anni luce da noi, hanno fatto da “lente”, ingrandendo e distorcendo la luce di un’altra stella sulla sfondo, a circa 25mila anni luce. Ed è stato proprio questo fenomeno d’ingrandimento – detto evento di microlensing – ad aver tradito la nana bianca e il suo mondo sopravvissuto, svelandone la presenza, nel 2020, a una rete coreana di telescopi: osservando l’effetto indotto sulla luce proveniente dalla stella più remota, è emerso che attorno alla nana bianca in primo piano c’erano in orbita almeno due corpi, uno dei quali – il protagonista della nostra storia, appunto – di massa pari ad appena 1.6 volte quella della Terra.

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Il lontano sistema planetario, situato vicino al rigonfiamento al centro della nostra galassia, ha attirato l’attenzione degli astronomi nel 2020, quando transitando davanti a una stella sullo sfondo l’ha ingrandita di un fattore 1000 (pannello b) rispetto a come appare nelle osservazioni precedenti (a) e successive (c). Nel corso dell’evento di microlensing, la gravità del sistema ha agito come una lente, focalizzando e amplificando la luce della stella di fondo. Crediti: Ogle, Cfht, Keck Observatory

Già in passato, va detto, erano stati osservati, attorno a nane bianche, oggetti sopravvissuti alla fase di gigante rossa. Ma erano mondi molto più grandi e presumibilmente distanti, giganti gassosi come Giove e Saturno. Oppure frammenti di mondi che furono, come le 65 nubi di detriti planetari viste attorno alla stella Wd1054-226, o il planetesimo scoperto da astronome e astronomi dell’Inaf nel 2019. Questo descritto ora su Nature Astronomy è invece in assoluto primo potenziale mondo roccioso osservato in orbita attorno a una nana bianca.

Va detto che, se anche il pianeta è sopravvissuto, lo stesso non si può certo dire per eventuali forme di vita un tempo lì presenti, viste le condizioni estreme alle quali è stato sottoposto. A questo proposito il primo autore dello studio, Keming Zhang della Uc San Diego, osserva però che se la Terra, tra qualche miliardo di anni, dovesse essere inghiottita durante la fase di gigante rossa del Sole, l’umanità potrebbe magari trovare rifugio in alcune delle lune del Sistema solare esterno, in particolare Europa, Callisto, Ganimede o Encelado.

«Quando il Sole diventerà una gigante rossa, la zona abitabile si sposterà intorno all’orbita di Giove e Saturno e molte di queste lune diventeranno pianeti oceano», prevede Zhang. «Penso che, in questo caso, l’umanità potrebbe migrare lì».

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Guarda l’animazione sul canale YouTube dell’’Università di Berkeley:

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Nuove frontiere dell’ingegneria medica sulla Iss


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Quattro bioreattori “Tissue Orb” brevettati all’interno di un hardware per il volo spaziale. Questa configurazione sarà lanciata nello spazio e installata nella Stazione spaziale internazionale durante il primo esperimento di volo nel febbraio 2025. Crediti: Tammy T. Chang

L’ingegneria tissutale e la rigenerazione degli organi sono il futuro della pratica chirurgica. In particolare, la generazione di nuovi tessuti a partire da cellule staminali pluripotenti potrebbe, in alcuni casi, diventare una soluzione alternativa al trapianto o consentire l’impianto di organi ingegnerizzati ex vivo. Questo il riassunto di quanto scrive, a proposito del proprio lavoro di ricerca, Tammy T. Chang, professoressa di chirurgia al Chang Laboratory for Liver Tissue Engineering della University of California, San Francisco. In questi giorni, all’American College of Surgeons Clinical Congress 2024, Chang sta presentando il progetto di nuovi test di laboratorio che potrebbero segnare una svolta nel settore. Il laboratorio in questione, però, non è il suo, ma quello della Stazione spaziale internazionale (International Space Station, Iss), in cui Chang e il suo gruppo intendono sfruttare la microgravità far crescere nuove cellule epatiche superando alcuni limiti imposti dai laboratori terrestri.

«I nostri risultati indicano che le condizioni di microgravità consentono lo sviluppo di tessuti epatici con una migliore differenziazione e funzionalità rispetto a quelli coltivati sulla Terra», dice Chang. «Questo rappresenta un passo fondamentale verso la creazione di impianti di tessuto epatico praticabili che potrebbero servire come alternativa o aggiunta ai trapianti di fegato tradizionali».

Gli esperimenti di autoassemblaggio di tessuto epatico già condotti da Chang in microgravità, così come quelli che verranno portati nella Iss, utilizzano cellule staminali pluripotenti indotte (induced pluripotent stem cells, ipsc). Queste cellule si creano a partire da cellule umane normali riprogrammate per agire come cellule staminali embrionali. Significa che le ipsc possono trasformarsi in molti tipi diversi di cellule. Nel caso specifico, queste cellule sono state fatte crescere in tessuti epatici in microgravità che funzionano come un fegato più piccolo e più semplice. A differenza dei metodi di ingegneria tissutale sulla Terra, che si basano su matrici esogene o piastre di coltura, la microgravità consente alle cellule di fluttuare liberamente e di organizzarsi in modo naturale, dando vita a tessuti fisiologicamente più accurati. Non solo, l’uso di matrici artificiali per fornire una struttura su cui far crescere le cellule porta con sé dei lati negativi, perché l’introduzione di materiali esterni può alterare la funzione cellulare.

Per far crescere queste cellule in microgravità sulla Iss, il team di Chang ha sviluppato un bioreattore ad hoc, chiamato “Tissue Orb”, progettato proprio per facilitare l’autoassemblaggio dei tessuti nell’ambiente senza peso dello spazio. Il bioreattore è dotato di un vaso sanguigno artificiale e di uno scambio automatico di fluidi, per simulare il naturale processo di flusso sanguigno dei tessuti umani.

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Immagine a immunofluorescenza di un organoide epatico derivato da cellule staminali pluripotenti indotte (ipsc) umane e sviluppato nel bioreattore “Tissue Orb”. Crediti: Tammy T. Chang

Una volta generati i nuovi tessuti epatici nello spazio, però, come si possono riportare in maniera sicura e senza alterarli sulla Terra? Anche su questo, ci sono degli avanzamenti.

Il bioreattore ideato dal team di ricerca include anche un metodo di crioconservazione innovativo per trasportare in modo sicuro i tessuti ingegnerizzati dallo spazio alla Terra. Si chiama superraffreddamento isocoro, e funziona mantenendo i tessuti al di sotto della temperatura di congelamento senza danneggiarli, prolungandone la durata di conservazione e potenzialmente applicabile anche a interi organi.

«Il nostro obiettivo è sviluppare tecniche di conservazione robuste che ci permettano di riportare i tessuti funzionali sulla Terra, dove potranno essere utilizzati per una serie di applicazioni biomediche, tra cui la modellazione di malattie, la sperimentazione di farmaci e, infine, l’impianto terapeutico», conclude Chang. Il lancio dell’esperimento spaziale del Laboratorio Chang è previsto per il febbraio 2025. Sentiremo sicuramente parlare degli esiti di questi esperimenti.

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Marte scolpito da ghiacci e venti


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La regione di Marte nota come Australe Scopuli, nella regione polare meridionale di Marte. L’area delineata dal riquadro bianco più grande è quella ripresa dalla High Resolution Stereo Camera a bordo dell’orbiter Mars Express dell’Esa il 2 aprile 2024, mentre il riquadro bianco più piccolo mostra la parte di superficie presenatta nel nuovo set di immagini. Crediti: Nasa/Mgs/Mola Science Team

Uno sguardo più ravvicinato su Marte e i suoi “terreni criptici”. Questo è quanto ci ha recentemente regalato l’orbiter Mars Express dell’Esa scattando immagini del Pianeta rosso con la sua High Resolution Stereo Camera (Hrsc) di bordo. Le formazioni di ghiaccio e polvere osservate nella regione polare ci offrono una finestra su un mondo tanto diverso quanto simile alla Terra, in cui il ghiaccio e il vento continuano a scolpire paesaggi suggestivi e affascinanti.

La superficie polare di Marte è coperta da calotte stagionali composte principalmente da ghiaccio di anidride carbonica, con una piccola parte di ghiaccio d’acqua. Durante l’inverno, questo ghiaccio si accumula, coprendo ampie zone del pianeta, mentre con l’arrivo della primavera sublima – passa direttamente da solido a gas senza diventare liquido – liberando grandi quantità di gas nell’atmosfera marziana. Questo ciclo di gelo e disgelo, particolarmente pronunciato nelle regioni polari, modella il terreno e crea formazioni di grande interesse scientifico.

Le immagini catturate dalla sonda mostrano depositi stratificati di ghiaccio con quantità variabili di polvere intrappolata all’interno e un terreno più liscio e uniforme sulla destra. Tuttavia, al centro della scena emergono aree scure e particolarmente curiose, dal comportamento stagionale finora poco conosciuto. Con l’arrivo della primavera, infatti, gli strati di ghiaccio invernale si sciolgono parzialmente, facendo emergere tratti di superficie marziana in contrasto netto con il paesaggio circostante. Originariamente soprannominate “terreno criptico”, queste zone per molti anni hanno intrigato i ricercatori, che non riuscivano a capire il motivo per cui fossero molto più scure rispetto al resto della calotta glaciale.

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Immagine della superficie di Marte. Una serie di strati chiari e scuri esposti sul fianco di una ripida scogliera si snoda dal centro a sinistra dell’immagine fino al centro in basso. La parte inferiore sinistra e destra dell’immagine è liscia e ondulata. Al centro dell’immagine domina un motivo a chiazze di poligoni scuri di forma irregolare, i cui bordi sono ricchi di ghiaccio brillante. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

Uno degli aspetti più caratteristici delle nuove immagini è la presenza di terreni poligonali. I poligoni, visibili anche in altre aree di Marte, ricordano le formazioni periglaciali nelle regioni artiche e antartiche del nostro pianeta. Su Marte, invece, questi poligoni si formano attraverso cicli ripetuti di congelamento e disgelo del terreno nel corso di diversi anni o addirittura secoli: lo studio di questo processo aiuta i ricercatori a decifrare la storia climatica e geologica del pianeta.

Le immagini ad alta risoluzione fornite dal Trace Gas Orbiter dell’Esa, ad esempio, mostrano magnificamente la presenza di ghiaccio persistente ai bordi dei poligoni all’interno e intorno a un cratere da impatto, in una fredda mattina di primavera.Oltre a raccontare la storia del ghiaccio marziano, queste formazioni suggeriscono la presenza di ghiaccio d’acqua nel sottosuolo di Marte: ciò è particolarmente importante per comprendere l’evoluzione del pianeta e la possibilità che vi siano stati ambienti abitabili in passato.

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Questa immagine mostra un terreno poligonale sfrangiato dal gelo in una fredda mattina di primavera alle medie latitudini meridionali di Marte, osservato dallo strumento Cassis (Colour and Stereo Surface Imaging System) del Trace Gas Orbiter di ExoMars, dell’Esa. I poligoni si formano a causa di ripetuti cicli di gelo e disgelo. Crediti: Esa/Tgo/Cassis

Un’altra sorprendente peculiarità mostrata dalle immagini è la presenza di depositi a forma di “ventaglio”, che si formano quando la luce del Sole penetra nel ghiaccio traslucido di anidride carbonica all’inizio della primavera marziana. Il calore del Sole provoca la sublimazione del ghiaccio alla base, intrappolando gas sotto la superficie. Quando la pressione aumenta, il ghiaccio si spacca, rilasciando getti di gas che portano con sé polvere scura, la quale viene poi modellata dai venti prevalenti. Questo fenomeno, che avviene solo dopo l’inverno marziano, dà origine a depositi scuri visibili in superficie. Col tempo, la polvere scura assorbe più calore rispetto al ghiaccio circostante, più luminoso e riflettente, riscalda il ghiaccio su cui è depositata e i suoi grani scuri affondano gradualmente nello strato ghiacciato, accelerando la sublimazione e creando nuovi “ventagli luminosi” – le cui dimensioni variano da decine a diverse centinaia di metri – che vanno a sostituirsi a quelli più scuri iniziali.

Ma il contributo di Mars Express non si limita alla sola regione polare: la sonda ha esplorato vaste aree del pianeta, mappando crateri, vulcani, canali fluviali e antiche pozze di lava. Con una suite di strumenti avanzati, tra cui la Hrsc, la missione ha fornito una panoramica completa della geologia marziana e ha contribuito a risolvere numerosi enigmi sulla sua atmosfera e composizione. Inoltre, la longevità delle missioni spaziali come Mars Express, in orbita attorno al Pianeta rosso dal 2003, consente agli scienziati di osservare come le stagioni influenzino continuamente la superficie del pianeta e quali siano i processi dinamici che lo modellano nel corso degli anni: due aspetti fondamentali per la pianificazione di future missioni di esplorazione marziane.

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Vista prospettica obliqua di una porzione della regione polare meridionale Australe Scopuli di Marte. Presenta una serie di forme periglaciali, tra cui strati esposti di ghiaccio e polvere (che attraversano l’immagine dal basso a sinistra verso destra), una miscela di ventagli luminosi e scuri (nella metà superiore dell’immagine e soprattutto verso sinistra) e un terreno scuro modellato (appena visibile sul bordo superiore dell’immagine). Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

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Avanzano i preparativi verso Apophis


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La missione europea Ramses (illustrazione). Crediti: Ohb Italia

Sull’onda del successo del lancio del 7 ottobre scorso della missione Hera, la prima missione europea rivolta agli asteroidi, si guarda già con decisione al prossimo obiettivo.

Il 13 aprile 2029, l’asteroide di 375 metri Apophis passerà a circa 32mila chilometri dalla superficie terrestre, a meno di un decimo della distanza tra la Terra e la Luna. Questo evento estremamente raro attirerà l’attenzione di tutto il mondo e offrirà un’opportunità di ricerca unica nell’ambito scientifico e in quello di difesa planetaria.

Un veicolo spaziale in sorvolo ravvicinato su Apophis potrebbe svelare molte informazioni sulla composizione e la struttura dell’asteroide, e capire come un asteroide risponde alle forze esterne, proprietà fondamentale per aiutarci a mandare fuori orbita un asteroide pericoloso in una rotta di collisione con la Terra.

Con questo intento dovrebbe essere lanciata nel 2028 la missione europea Ramses (Rapid Apophis Mission for Space Safety), in modo da arrivare nei dintorni di Apophis in tempo per studiare l’asteroide nel suo passaggio ravvicinato alla Terra. Una missione di sicurezza planetaria che deve essere messa a punto nei prossimi tre anni e verso la quale ci si muove già a passo spedito.

«Forti del lancio di Hera avvenuto il 7 ottobre da Cape Canaveral con SpaceX, adesso ci concentriamo sulla partenza di una nuova avventura: la missione Ramses, che andrà a incontrare l’asteroide Apophis nel 2029», spiega Monica Lazzarin dell’Università di Padova, principal investigator di Ramses, che ha presentato ufficialmente la missione a Milano in occasione del 75° Congresso internazionale aeronautico (Iac), in corso questa settimana, a cui partecipano oltre ottomila addetti al settore spazio, tra istituzioni scientifiche e industrie.

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Da sinistra: Patrick Michel (principal investigator della missione Hera dell’Esa), Roberto Aceti (amministratore delegato di Ohb Italia), Josef Aschbacher (direttore generale dell’Esa), Monica Lazzarin (principal investigator della missione Ramses dell’Esa) e Franco Ongaro (capo del Coordinamento Spazio nel gruppo Leonardo). Crediti: Esa

«Ieri è stata presentata al meeting Iac la missione Ramses ed è stato formalmente siglato l’accordo tra Esa e Ohb Italia grazie al finanziamento dell’Agenzia spaziale italiana, che in questa missione è attualmente il principale finanziatore», dice Lazzarin, sottolineando l’impegno concreto delle agenzie spaziali in attesa della decisione definitiva, che avverrà nel 2025, quando l’Agenzia spaziale europea (Esa) interrogherà il Consiglio ministeriale riguardo alla possibilità di approvazione e di finanziamento della missione. Ramses rappresenterebbe infatti un’ulteriore operazione di difesa planetaria all’interno del programma di sicurezza spaziale dell’Agenzia. Nel frattempo infatti gli Stati membri dell’Esa hanno approvato l’uso dei fondi dell’Agenzia esistenti per iniziare i lavori preparatori della fase 1 di consolidamento e implementazione preventiva della missione. Questo lavoro garantirà la possibilità di mettere a punto la missione entro le tempistiche rigorosamente stabilite, qualora la missione Ramses riceva pieno sostegno da parte del Consiglio ministeriale. I fondi sono stati messi a disposizione tramite i programmi di Tecnologia di supporto generale e di sicurezza spaziale, entrambi tra l’Esa e l’industria.

A sottolineare un intento già molto più che teorico, il direttore generale dell’Esa Josef Aschbacher e l’amministratore delegato di Ohb Italia Roberto Aceti hanno firmato un contratto del valore di 63 milioni di euro che decreta un impegno concreto all’avvio dei lavori sulla missione. La firma è avvenuta ieri, giovedì 17 ottobre a Milano, sempre durante Iac 2024. Questi fondi saranno utilizzati per avviare il processo di approvvigionamento di alcune apparecchiature critiche o di lunga durata, nonché per finalizzare la progettazione complessiva del veicolo spaziale, considerando le opportunità di cooperazione internazionale attualmente in discussione.

«Le operazioni preparatorie devono essere molto rapide perché tutto deve essere pronto entro tre anni, e si tratta quindi di un importante banco di prova anche per capire quanto velocemente siamo in grado di preparare una missione per andare a incontrare un oggetto pericoloso. La fase preliminare degli accordi con l’industria è già stata avviata proprio per accelerare il processo, con il pieno accordo delle delegazioni dei vari stati membri dell’Esa, in vista della presa in carico definitiva della missione – come ci auguriamo – in occasione delle prossime Ministeriali Esa nel 2025», conclude Lazzarin.

Guarda su MediaInaf Tv l‘intervista a Paolo Martino (Esa) su Ramses:

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Hubble domina il tempo di R Aquarii


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Quando il Telescopio spaziale Hubble ci ha messo per la prima volta gli occhi sopra era il 1990. In quella occasione, l’immagine che ci ha restituito mostrava i dettagli interni del sistema. La vista che ci regala adesso, frutto di osservazioni condotte dal 2014 al 2023, mette in luce la sua rapida e drammatica evoluzione; immortalando uno fenomeni più affascianti dell’universo. Il sistema in questione è R Aquarii, l’evento cosmico immortalato: una nova, un’impressionante esplosione paragonabile a quella prodotta dalle bombe a idrogeno.

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Il sistema binario R Aquarii durante una nova. L’immagine è stata acquisita dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Matthias Stute, Margarita Karovska, Davide De Martin (Esa/Hubble), Mahdi Zamani (Esa/Hubble)

R Aquarii è un sistema binario di stelle situato a circa 700 anni luce di distanza dalla Terra. È una delle binarie più vicine note per “sparare” nello spazio grandi quantità di materia stellare a oltre un milione e mezzo di km all’ora: una velocità che permetterebbe di coprire la distanza Terra-Luna in soli 16 minuti. Appartenente a una classe di stelle doppie chiamate binarie simbiotiche, il sistema è costituito da una gigante rossa – una stella vecchia e pulsante, 400 volte più grande e mille volte più luminosa del Sole – e da una nana bianca – una stella piccola, densa e molto compatta; ciò che resta di una stella simile al Sole dopo aver perso i suoi strati esterni. Sebbene le due stelle siano compagne, il rapporto che intercorre tra i due è però tutt’altro che idilliaco. In un inquietante atto di cannibalismo stellare, la nana bianca sottrae infatti materia alla compagna più grande, che si accumula sulla superficie della nana bianca stessa. Con il progredire dell’accumulo, questa materia può raggiungere valori di temperatura e densità tali da innescare potenti esplosioni termonucleari, la cui energia alimenta l’espulsione di plasma dalla nana bianca sotto forma di getti, filamenti, e deboli nebulose. Gli astronomi chiamano queste esplosioni – che si ripetono ciclicamente finché tutta la materia della stella compagna non sarà consumata – novae.

La portata di questi fenomeni è straordinaria: il materiale eiettato nello spazio può essere tracciato fino a 400 miliardi di chilometri di distanza, ovvero 24 volte il diametro del Sistema solare. Le immagini catturate recentemente da Hubble mostrano proprio una di queste esplosioni. Si vede chiaramente il plasma emergere dal sistema binario come un geyser in flussi contorti e spiralizzati dalla forza dell’esplosione. Incanalati verso l’alto e verso l’esterno dai forti campi magnetici presenti, i filamenti di plasma brillano di luce visibile perché energizzati dalla potente esplosione.

Come dicevamo in apertura, il telescopio Hubble ha messo gli occhi su R Aquarii in diverse occasioni dal 2014 al 2023. Utilizzando cinque istantanee catturate durante le osservazioni, il team di Hubble ha creato un timelapse – lo trovate qui in basso – che permette di visualizzare la rapida e drammatica evoluzione della stella binaria e della nebulosa circostante a seguito dell’esplosione. Oltre al plasma spiraleggiante espulso verso l’esterno dalla nova, il breve video mostra il cambiamento di luminosità del sistema a causa delle forti pulsazioni nella stella gigante rossa. Le osservazioni di sorgenti variabili come R Aquarii, commenta il team, evidenziano il valore delle osservazioni ottiche ad alta risoluzione di Hubble nell’ambito dell’astronomia del dominio del tempo.

Guarda il timelapse dell’evoluzione di R Aquarii sul canale YouTube dell’Esa:

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Pareva una nana bruna, invece erano due


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Le nane brune sono state per decenni l’anello mancante tra i pianeti e le stelle: si ipotizzava esistessero, ma nessuno le aveva mai osservate. Troppo grandi per essere considerati pianeti e troppo piccoli per essere vere e proprie stelle, questi ipotetici corpi furono chiamati inizialmente stelle nere o stelle infrarosse. Successivamente, nel 1975, l’astrofisica Jill C. Tarter le ribattezzò “nane brune”. Il nome è un po’ fuorviante: una nana bruna appare infatti rossa, non marrone, ma il nome “nana rossa” era già stato preso per descrivere stelle con meno della metà della massa del Sole. La ricerca intensiva di questi corpi iniziò negli anni ’80, ma fu solo negli anni ‘90 che gli astronomi trovarono la prima prova indiscussa della loro esistenza, scoprendo il capostipite di questa classe di oggetti celesti: Gliese 229B.

Scoperta nelle immagini del telescopio da 1,5 metri dell’Osservatorio di Palomar nel 1994 e confermata dal telescopio spaziale Hubble nel 1995, Gliese 229B è leggermente più piccola di Giove, ma dieci volte più calda e circa 70 volte più massiccia. Inoltre, è legata gravitazionalmente alla nana rossa Gliese 229A, dalla quale dista più di sei miliardi di chilometri. Da quando è stata scoperta, la “stella fallita” – come vengono anche chiamati questi oggetti – è stata ampiamente studiata. Ciò nonostante, sul suo conto esiste ancora un mistero legato alla luminosità dell’oggetto: è infatti troppo flebile per essere così massiccio.

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Illustrazione artistica che mostra le due nane brune recentemente scoperte, Gliese 229Ba e Gliese 229Bb. I ricercatori sono riusciti a risolvere distintamente i due corpi celesti grazie alle indagini condotte utilizzando due diversi strumenti installati presso l’Osservatorio di Paranal dell’Eso. Crediti: K. Miller, R. Hurt (Caltech/Ipac)

Un team di ricercatori guidato dal Caltech ha ora risolto il dilemma: quella che fino a oggi si credeva fosse un solo oggetto celeste in realtà è un sistema costituito due nane brune compagne, dal peso di 38 e 34 masse gioviane, che orbitano l’una intorno all’altra ogni 12 giorni. Close binary: è così che gli addetti ai lavori chiamano in gergo questi sistemi.

«Gliese 229B è stata considerata l’emblema delle nane brune», sottolinea Jerry Xuan, ricercatore al California Institute of Tecnology e primo autore dello studio, pubblicato ieri su Nature, che riporta i risultati della scoperta. «Finora non siamo stati in grado di risolvere oggetti così ravvicinati. Ora sappiamo che ci siamo sempre sbagliati sulla sua natura: non è una nana bruna, ma sono due».

«La scoperta che Gliese 229B è una binaria non solo risolve le incongruenze osservate tra la sua massa e la luminosità, ma approfondisce notevolmente la nostra comprensione delle nane brune, oggetti che si trovano a metà strada tra le stelle e i pianeti giganti», aggiunge Dimitri Mawet, ricercatore al Jpl e co-autore della pubblicazione.

Per risolvere i due oggetti, i ricercatori hanno utilizzato due strumenti diversi, entrambi installati all’Osservatorio Paranal dell’Eso, in Cile. Il primo è lo strumento Gravity, un interferometro che combina la luce dei quattro telescopi che formano il Very Large Telescope, una struttura di punta per l’astronomia da terra. Lo strumento fornisce immagini con una risoluzione di quattro milli-arcosecondi e può misurare le posizioni e i movimenti di stelle e altri oggetti celesti con una precisione di alcune decine di micro-arcosecondi. Il suo utilizzo è stato fondamentale per risolvere spazialmente i due oggetti. L’altro strumento è Crires+, uno spettrografo ad alta risoluzione, che ha permesso di rilevare le firme spettrali distinte dei due oggetti celesti.

Le osservazioni, condotte dai ricercatori nell’arco di sei mesi, hanno permesso di calcolare che la coppia di nane brune, ora chiamate Gliese 229Ba e Gliese 229Bb, orbitano l’una intorno all’altra ogni 12 giorni. La distanza che le separa è di circa 6 milioni di chilometri, 16 volte la distanza che separa la Terra dalla Luna. Insieme, orbitano intorno a nana rossa Gliese 229A ogni 250 anni.

«Questa è la scoperta più interessante e affascinante degli ultimi decenni nel campo dell’astrofisica sub-stellare», dice Rebecca Oppenheimer, astrofisica all’American Museum of Natural History, co-autrice della pubblicazione e componente del team che nel 1995 scoprì Gliese 229B. «Questi due mondi che si orbitano a vicenda hanno un raggio inferiore a quello di Giove», aggiunge la ricercatrice. «Se nel Sistema solare avessimo qualcosa di simile, sembrerebbero piuttosto strani».

La domanda alla quale vogliono rispondere adesso i ricercatori riguarda la formazione di simili coppie di nane brune. Una possibilità è che si formino dalla frammentazione in due pezzi del disco di materia che circonda le stelle in formazione. Le due parti potrebbero fungere da semi di nane brune che, una volta formate, si legherebbero gravitazionalmente dopo un incontro ravvicinato.

«Il fatto che la prima nana bruna conosciuta sia un sistema binario di nane brune è di buon auspicio per gli sforzi in corso volti a trovarne altre», conclude Xuan.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The cool brown dwarf Gliese 229 B is a close binary” di Jerry W. Xuan, A. Mérand, W. Thompson, Y. Zhang, S. Lacour, D. Blakely, D. Mawet, R. Oppenheimer, J. Kammerer, K. Batygin, A. Sanghi, J. Wang, J.-B. Ruffio, M. C. Liu, H. Knutson, W. Brandner, A. Burgasser, E. Rickman, R. Bowens-Rubin, M. Salama, W. Balmer, S. Blunt, G. Bourdarot, P. Caselli, G. Chauvin, R. Davies, A. Drescher, A. Eckart, F. Eisenhauer, M. Fabricius, H. Feuchtgruber, G. Finger, N. M. Förster Schreiber, P. Garcia, R. Genzel, S. Gillessen, S. Grant, M. Hartl, F. Haußmann, T. Henning, S. Hinkley, S. F. Hönig, M. Horrobin, M. Houllé, M. Janson, P. Kervella, Q. Kral, L. Kreidberg, J.-B. Le Bouquin, D. Lutz, F. Mang, G.-D. Marleau, F. Millour, N. More, M. Nowak, T. Ott, G. Otten, T. Paumard, S. Rabien, C. Rau, D. C. Ribeiro, M. Sadun Bordoni, J. Sauter, J. Shangguan, T. T. Shimizu, C. Sykes, A. Soulain, S. Spezzano, C. Straubmeier, T. Stolker, E. Sturm, M. Subroweit, L. J. Tacconi, E. F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Widmann, E. Wieprecht, T. O. Winterhalder e J. Woillez