Se volete la Luna, andate a Colonia
L’edificio che ospita il simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Inaugurata oggi a Colonia, in Germania, accanto allo European Astronaut Centre dell’Esa, una struttura in grado di simulare l’ambiente lunare: si chiama LUNA – tutta in maiuscolo, por distinguerla dal nostro satellite naturale – ed è gestita congiuntamente dall’Esa e dalla Dlr, l’agenzia aerospaziale tedesca.
Progettata per ricreare la superficie lunare, sarà utilizzata per preparare astronauti, scienziati, ingegneri ed esperti di missioni a vivere e lavorare sulla Luna. Faciliterà la ricerca, lo sviluppo e i test integrati della tecnologia spaziale in condizioni realistiche, fornendo preziose indicazioni per le prossime missioni lunari, come il programma Artemis della Nasa, che invierà astronauti sulla Luna per la prima volta dopo oltre mezzo secolo.
«Non vedo l’ora che LUNA apra i battenti, e di poter tornare allo European Astronaut Centre per ricevere l’addestramento unico che può offrire», dice l’astronauta dell’Esa Luca Parmitano. «Questa struttura è una piattaforma fondamentale per simulare l’ambiente lunare nel suo complesso. Le conoscenze acquisite qui saranno preziose per la collaborazione con le missioni internazionali e per il raggiungimento dei nostri obiettivi con la Nasa e oltre. LUNA non è solo una testimonianza delle nostre ambizioni comuni, ma anche uno strumento fondamentale per far progredire i nostri sforzi collettivi di esplorazione spaziale».
Infografica del simulatore lunare LUNA (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa
LUNA dispone di un’area di 700 metri quadrati che riproduce la superficie lunare grazie a 900 tonnellate di grani e rocce vulcaniche di origine basaltica, lavorate ad hoc per creare un materiale noto come “simulante di regolite”, offrendo così un ambiente di prova unico. Un’area profonda della pavimentazione consentirà la perforazione e il campionamento fino a tre metri sotto la superficie, permettendo ricerche sulla regolite, compreso il suolo lunare congelato.
Interno del simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Nel frattempo, un simulatore del Sole imita i cicli del giorno e della notte sulla Luna, comprese le difficili condizioni di illuminazione che si trovano nelle regioni polari lunari. Presto saranno implementate altre funzioni, come un sistema di scarico della gravità per simulare la gravità della Luna, pari a un sesto di quella terrestre, e una rampa regolabile per testare la mobilità sui pendii lunari.
LUNA è stato progettato come un hub aperto, a disposizione di agenzie spaziali, università, ricercatori, industria spaziale, start-up e piccole e medie imprese di tutto il mondo. «L’apertura di LUNA segna una pietra miliare significativa negli sforzi europei per l’esplorazione spaziale», dice il direttore generale dell’Esa, Josef Aschbacher. «Questa struttura unica, con la sua capacità di riprodurre le condizioni lunari, fa progredire la nostra comprensione della Luna e ci prepara per le missioni future. Siamo orgogliosi di guidare questo progetto, che posiziona l’Europa all’avanguardia nell’esplorazione lunare e oltre, promuovendo al contempo la collaborazione internazionale nella ricerca spaziale».
Non è tutta vita quella che puzza
Una delle sfide più grandi nella ricerca di vita oltre la Terra è l’identificazione di caratteristiche note per essere associate in modo univoco al mondo biologico. Gli addetti ai lavori chiamano queste caratteristiche, biofirme. Siano esse firme chimiche, isotopiche, mineralogiche, strutturali o tecnologiche, sono tutte impronte osservabili che la vita produce.
Poiché la Terra è l’unico pianeta noto per ospitare la vita, la nostra conoscenza delle biofirme rilevabili deriva da questo singolo, limitato esempio. Inoltre, l’onere della prova necessario per verificare che una data caratteristica sia una biofirma è determinato non solo dalla probabilità che sia stata prodotta da un processo biologico, ma anche dall’improbabilità che sia stata prodotta da processi non biologici.
Illustrazione artistica realizzata con Adobe AI che mostra un classico strumento in uso nei laboratori di chimica, in primo piano, e un esopianeta, sullo sfondo. Crediti: Media Inaf
Una delle principali biofirme utilizzate nella ricerca esoplanetaria è rappresentata dai gas atmosferici, specie chimiche volatili prodotte dai sistemi biologici e immesse nell’atmosfera di un pianeta come prodotto di scarto. Tra queste molecole, i gas a base di zolfo sono attualmente considerati tra i più robusti indicatori della presenza di vita su un pianeta. Ne sono alcuni esempi il dimetil solfuro, il solfuro di carbonile e il disolfuro di carbonio, tutte molecole che sulla Terra sono prodotti secondari del metabolismo degli organismi viventi. Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori guidati dalla Boulder Colorado University mette ora in discussione questa idea. Nella ricerca, i cui risultati sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters, gli scienziati sono infatti riusciti a produrre in laboratorio, senza il coinvolgimento di alcun sistema biologico, diversi gas organo-solforati, mettendo in dubbio il ruolo di tali sostanze come biomarcatori forti.
Per ottenere le sostanze in fase gassosa, i ricercatori hanno condotto esperimenti di fotochimica. L’obiettivo? Valutare cosa accade su un pianeta quando i gas reagiscono con la luce per formare la cosiddetta “foschia organica e gas associati”, una sorta di caligine composta da particelle di aerosol prodotte dalle reazioni chimiche che si verificano in atmosfera. Il protocollo sperimentale seguito è stato questo. In breve, all’interno di una camera di miscelazione, utilizzando metano, idrogeno solforato e azoto molecolare come precursori, i ricercatori hanno prodotto miscele di gas che simulavano diverse atmosfere planetarie. Successivamente, attraverso un regolatore di flusso, hanno fatto passare queste miscele in una camera di reazione dotata di una lampada al deuterio in grado di emettere luce nel lontano ultravioletto. Il picco di emissione della lampada era compreso tra 115 e 165 nm, una finestra di lunghezze d’onda della radiazione la cui energia imita la fotolisi del metano nelle atmosfere riducenti del nostro Sistema solare. Hanno quindi acceso la lampada, promuovendo l’irradiazione dei gas e l’avvio di reazioni chimiche simili a quelle che nell’atmosfera di un pianeta sono indotte dalla luce. La raccolta e l’analisi tramite gascromatografia con rivelazione di zolfo a chemiluminescenza – una metodica che permette di identificare e quantificare i composti solforati – è stata l’ultima fase dell’esperimento.
Tra i prodotti di reazione individuati dai ricercatori c’erano il metantiolo (CH3SH), l’etantiolo (C2H5SH), il solfuro di carbonio (CS2), il solfuro di carbonile (COS) e l’etil-metilsolfuro (CH3CH2SCH3). Ma soprattutto, c’era il dimetil solfuro (CH3SCH3 ), la più forte tra le più forti biofirme di vita. Prodotto dal metabolismo batterico e di alcune alghe marine, nonché responsabile dell’odore prodotto dalla cottura di alcune verdure, è il composto di origine biologica a base di zolfo più abbondante emesso nell’atmosfera terrestre. Qui su Media Inaf ne abbiamo parlato di recente, perché è anche la molecola che il telescopio spaziale James Webb ha rilevato nell’atmosfera dell’esopianeta K2-18b. Secondo i ricercatori, aver ottenuto queste molecole come prodotti di reazioni non biologiche limita il ruolo di questa molecola e di tutti i gas organosolforati come biofirme
Illustrazione che mostra il procedimento sperimentale seguito nello studio. Crediti: Nathan W. Reed et al., Apj Letters, 2024
«Le molecole solforate sono utilizzate come biofirme perché sono prodotte dalla vita sulla Terra», dice Ellie Browne, scienziata dell’Università del Colorado a Boulder e co-autrice dello studio. «Ma in questo caso le abbiamo ottenute in laboratorio in condizioni abiotiche, quindi potrebbero non essere un segno di vita, ma un segno di qualcosa di ospitale per la vita».
«Uno dei risultati dell’articolo è stato l’aver trovato il dimetil solfuro», aggiunge l’astrobiologo dell’Università del Colorado a Boulder e primo autore della pubblicazione, Nathan Reed. «Si tratta di una molecola che è stata rilevata nelle atmosfere esoplanetarie e che si pensava fosse un segno di vita sui pianeti».
I ricercatori sperano che il loro studio dia il la ad altre ricerche che esaminino le reazioni chimiche che coinvolgono lo zolfo. L’obiettivo è studiare tutte le reazioni in cui sono coinvolte per comprendere meglio il loro ruolo come biofirme.
I risultati ottenuti potrebbero avere implicazioni per la valutazione dei gas organosolforati come potenziali biofirme nelle atmosfere esoplanetarie, sottolineano a questo proposito i ricercatori. Ciò che è stato dimostrato è che diversi composti solforati e semplici tioli, specie precedentemente considerate biofirme robuste nelle atmosfere esoplanetarie, hanno possibili percorsi di produzione non biologica che coinvolgono la fotochimica planetaria. Pertanto, ogni gas organosolforato citato nell’articolo rischia di essere una biofirma falsa positiva se i percorsi abiotici proposti vengono trascurati.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Abiotic Production of Dimethyl Sulfide, Carbonyl Sulfide, and Other Organosulfur Gases via Photochemistry: Implications for Biosignatures and Metabolic Potential”, di Nathan W. Reed, Randall L. Shearer, Shawn Erin McGlynn, Boswell A. Wing, Margaret A. Tolbert ed Eleanor C. Browne
Nell’orbita di Marte, indizi di materia oscura
Secondo i cosmologi la materia “convenzionale”, quella cioè che possiamo vedere e toccare, costituisce solo il 20 per cento della materia totale dell’universo. Il resto è costituito da materia oscura, una forma ipotetica di materia invisibile che si pensa pervada l’universo ed eserciti una forza gravitazionale abbastanza grande da influenzare il moto di stelle e galassie. Sebbene l’esistenza di questa materia sia largamente accettata dalla comunità scientifica, a oggi sulla sua identità non ci sono certezze, ma solo ipotesi.
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Illustrazione artistica che mostra un buco nero primordiale (a sinistra) che passa “vicino” il pianeta Marte (a destra). Secondo il nuovo studio, tale passaggio ravvicinato potrebbe provocare una perturbazione nell’orbita del pianeta, che potrebbe essere rilevata dagli strumenti odierni. Crediti: Benjamin V. Lehmann
La maggior parte di queste ipotesi prevede che la materia oscura sia fatta di particelle elementari sconosciute: alcune sostengono sia composta da particelle massicce debolmente interagenti (Wimp); altre da assioni; altre ancora da particelle che interagiscono sulla scala di Planck (Pidm) o da neutrini sterili.
Un’ipotesi alternativa alle precedenti, formulata per la prima volta negli anni ’70, è quella che prevede che la materia oscura non sia fatta di particelle esotiche, ma abbia le sembianze di buchi neri. Non buchi neri astrofisici, però – quelli che si formano dal collasso di vecchie stelle, per intenderci – ma buchi neri microscopici, piccoli quanto un atomo e pesanti quanto un grande asteroide, formatisi dal collasso di dense sacche di gas nell’universo primordiale. Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review D, questa ipotesi potrebbe essere “facilmente” verificata monitorando l’orbita di Marte con gli strumenti ad alta precisione di cui già disponiamo.
La ricerca in questione, condotta da un team di scienziati guidati dal Massachusetts Institute of Technology, si basa sull’assunto che se la maggior parte della materia oscura nell’universo è composta davvero da buchi neri primordiali (primordial black holes, Pbh, in inglese), su scale temporali relativamente brevi questi corpi dovrebbero attraversare il nostro Sistema solare e produrre un qualche effetto sui corpi che vi risiedono.
Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno condotto delle simulazioni. Basandosi sulla quantità di materia oscura che si stima sia presente in una data regione dello spazio e ipotizzando una massa del buco nero primordiale pari a quella del più grande degli asteroidi del Sistema solare, inizialmente hanno calcolato con quale probabilità un simile oggetto potrebbe attraversare il nostro vicinato cosmico e con quale velocità.
«I buchi neri primordiali non vivono nel Sistema solare. Piuttosto, scorrazzano nell’universo», sottolinea Sarah Geller, ricercatrice al Massachusetts Institute of Technology e co-autrice dello studio. «La probabilità che attraversino il Sistema solare interno a una certa angolazione è di una volta ogni dieci anni circa».
A questo punto, utilizzando un codice che incorporava dati sulle orbite e le interazioni gravitazionali tra tutti i pianeti e alcune delle più grandi lune del Sistema solare, i ricercatori hanno simulato cosa accadeva al sistema al passaggio di vari buchi neri di massa asteroidale da varie angolazioni, concentrandosi in particolare su quei sorvoli che sembravano essere “incontri ravvicinati”.
«Le simulazioni più avanzate del Sistema solare includono più di un milione di oggetti, ognuno dei quali ha un piccolo effetto residuo», dice a questo proposito un altro dei co-autori dello studio, il fisico, anch’esso del Mit, Benjamin Lehmann. «Ma anche modellando due dozzine di oggetti in una accurata simulazione, abbiamo potuto vedere che c’era un effetto reale che potevamo approfondire».
I risultati delle simulazioni hanno mostrato che nessun effetto sulla Terra e sulla Luna era abbastanza certo da essere attribuito a un particolare buco nero. Le cose cambiavano per Marte, che ha offerto il quadro più chiaro: le simulazioni hanno mostrato un’evidente deviazione nell’orbita del pianeta.
Se un buco nero primordiale dovesse passare a poche centinaia di milioni di chilometri da Marte, la sua orbita dovrebbe spostarsi di circa un metro, spiegano i ricercatori. È una variazione incredibilmente piccola se si considera che il pianeta si trova a circa 228 milioni di chilometri dalla Terra, ma comunque rilevabile dai vari strumenti ad alta precisione che monitorano oggi Marte.
Se un’oscillazione del genere venisse rilevata nei prossimi due decenni, aggiungono gli scienziati, ci sarebbe ancora molto lavoro da fare per confermare che la spinta provenga da un buco nero primordiale di passaggio. Per facilitare questo compito, i ricercatori stanno già valutando la possibilità di una nuova collaborazione con un gruppo di ricerca che vanta una luna lunga esperienza nelle simulazioni del Sistema solare.
«Stiamo lavorando per simulare un numero enorme di oggetti, dai pianeti alle lune fino alle rocce, e come questi si muovono su scale temporali lunghe», dice Geller. «Vogliamo simulare scenari di incontro ravvicinato e osservare i loro effetti con maggiore precisione».
«Grazie a decenni di telemetria di precisione, gli scienziati conoscono la distanza tra la Terra e Marte con una precisione di circa dieci centimetri», ricorda David Kaiser, professore di fisica al Mit, anche lui tra i firmatari dello studio. «Stiamo sfruttando questa regione dello spazio popolata da numerosi strumenti scientifici per cercare di individuare un piccolo effetto. Se lo vedessimo», conclude lo scienziato, «ciò sarebbe una buona ragione per continuare a perseguire quest’idea che tutta la materia oscura sia composta da buchi neri prodotti meno di un secondo dopo il Big Bang, che hanno circolato nell’universo per 14 miliardi di anni».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review D l’articolo “Close encounters of the primordial kind: A new observable for primordial black holes as dark matter” di Tung X. Tran, Sarah R. Geller, Benjamin V. Lehmann e David I. Kaiser
Ordigni nucleari per difenderci dagli asteroidi
Come scriveva l’astronomo statunitense Fred Whipple nel suo libro The mystery of comets (1985), «la protezione della Terra dall’impatto di corpi cosmici non è un progetto fantascientifico di un improbabile futuro. Il costo di una simile impresa sarebbe comparabile, se non più basso, delle spese militari sostenute a livello mondiale. Potremmo scegliere di difenderci da comete e asteroidi piuttosto che difenderci da noi stessi». Sagge parole.
Rappresentazione artistica dell’emissione di materia a seguito dell’impatto della sonda Dart con l’asteroide Dimorphos. Crediti: Esa
Per la mitigazione del rischio di collisione degli asteroidi con la Terra ci sono diverse tecniche che sono state ideate, ma l’unica provata “sul campo” è stata quella dell’impattore cinetico della missione Dart della Nasa. L’impatto con un Nea (near-Earth asteroid) è l’unico evento naturale catastrofico su cui si può intervenire: altrettanto non può essere detto per eruzioni vulcaniche, terremoti o uragani, su cui non possiamo esercitare nessun controllo. Quindi, nel caso venisse scoperto un Nea con un diametro importante in rotta di collisione con il nostro pianeta, per cercare di limitare i danni si dovrà passare dalla teoria alla pratica. La Terra si muove con una velocità orbitale di circa 30 km/s e per percorrere una distanza pari al proprio diametro di 12.756 km impiega circa 12.756/30 ≈ 425 s ≈ 7 minuti: per evitare una collisione dobbiamo almeno modificare il tempo di arrivo dell’asteroide di sette minuti. Se si considera per il Nea un periodo orbitale dell’ordine dell’anno, questo equivale a una variazione dello 0,0013 per cento del suo periodo eliocentrico: un niente su scala planetaria, ma il tutto per continuare l’esistenza come specie.
Non è detto che la mitigazione del rischio comporti sempre una missione spaziale per intervenire direttamente sull’asteroide. Nel caso di un piccolo asteroide di 50-100 metri di diametro, con impatto previsto in una regione desertica o quasi disabitata, la mitigazione può semplicemente comportare l’evacuazione della popolazione residente. Le cose cambiano radicalmente se si considera l’impatto di un piccolo asteroide di 50 m di diametro su una zona densamente popolata o di importanza strategica, l’impatto di un oggetto di circa 140 m su una nazione ad alta densità di popolazione o la collisione di un asteroide di 300 m di diametro ovunque sulla Terra. In questi casi, in termini puramente economici, risulta più conveniente la mitigazione del rischio sia per mezzo della deflessione orbitale, sia – come ultima ratio – distruggendo il Nea (se sufficientemente piccolo).
L’orbita di un Nea può essere cambiata rapidamente applicando una forza in senso ortogonale al vettore velocità dell’asteroide, in moda da dargli una specie di “spallata” che gli faccia cambiare rapidamente direzione evitando di collidere con la Terra. Se il tempo di preavviso non è sufficiente o il Nea è di grosse dimensioni un impattore cinetico può non bastare, dati i limiti sulla massa che può essere inviata nello spazio. Per questo motivo i ricercatori continuano a studiare, come valida alternativa, anche la deflessione orbitale tramite esplosione nucleare, perché è il solo modo per condurre un’interazione ad alta energia, infatti questa tecnica offre la maggiore quantità di energia per unità di massa (circa 4·106 MJ/kg). In questo caso l’impulso che verrebbe trasferito al Nea sarebbe principalmente dovuto all’emissione di neutroni e raggi X, oltre che dai detriti superficiali dell’asteroide vaporizzati ed espulsi nello spazio. Infatti, non dobbiamo immaginare che la distruzione dell’asteroide sia la prima scelta: questa sarebbe solo l’ultimo, estremo e disperato tentativo per scongiurare la collisione. La tecnica da preferire è una deflessione orbitale controllata dell’asteroide, senza nessuna frammentazione.
Rappresentazione artistica dell’esplosione di un ordigno nucleare in prossimità della superficie di un asteroide di grandi dimensioni per attuarne la deflessione orbitale. Crediti: Nasa
I raggi X emessi in un’esplosione nucleare riscalderebbero molto rapidamente la superficie del Nea, vaporizzandola nello spazio e, per “effetto razzo“, questo cambierebbe la direzione di movimento dell’asteroide. Quanto è realistico questo scenario? Si potrebbe davvero deflettere un asteroide dalla sua rotta di collisione con un’esplosione nucleare controllata? Per rispondere a questa domanda, Nathan Moore e colleghi dei Sandia National Laboratories di Albuquerque (Usa), per mezzo di esperimenti di laboratorio, hanno recentemente riprodotto l’effetto di un ordigno nucleare che esploda in prossimità della superficie di un asteroide.
Non è la prima volta che vengono condotti esperimenti di questo tipo, ma è la prima volta che si è misurato l’impulso dovuto anche ai getti di materiale vaporizzato dalla superficie, dopo l’esposizione ai raggi X. Per la generazione del fascio di raggi X è stata usata la Z machine che si trova presso gli stessi Sandia National Laboratories, un’apparecchiatura progettata per testare i materiali in condizioni di temperatura e pressione estreme. Per generare i raggi X usati nell’esperimento è stato portato allo stato di plasma un gas di argon, ottenendo così raggi X da 3-4 keV emessi nella ricombinazione fra ioni ed elettroni. L’impulso di raggi X dopo pochi nanosecondi ha colpito due modelli di asteroidi costituiti da sottili dischi del diametro di 12 mm sospesi nel vuoto tramite un sottilissimo foglio metallico: un campione era costituito da quarzo, mentre l’altro era fatto di silice fusa. All’arrivo dei raggi X il primo a essere vaporizzato è il foglio metallico che sostiene il campione, che si trova improvvisamente sospeso nel vuoto e di cui si può misurare il rinculo per effetto della pressione di radiazione dei raggi X e della vaporizzazione del materiale superficiale. Anche se il target, dopo la rottura del foglio metallico che lo sostiene, inizia a cadere la durata dell’esperimento è di soli 20 μs e in questo brevissimo lasso di tempo si sposta di soli 2 nm, una quantità del tutto trascurabile.
In entrambi gli esperimenti, Moore e colleghi hanno osservato gli impulsi di raggi X riscaldare la superficie dei target, con conseguente emissione di getti di materiale vaporizzato che hanno generato una velocità di rinculo di circa 69,5 m/s e 70,3 m/s, rispettivamente. Questo esperimento rappresenta una versione in scala ridotta di uno scenario di deflessione orbitale di un asteroide utilizzando raggi X generati da un’esplosione nucleare a distanza ravvicinata, ma per vedere se è realmente utile bisogna riscalarlo alle dimensioni di un vero asteroide. Supponendo di voler cambiare la velocità di un asteroide di circa 0,04 km/h (che è il valore tipico richiesto per la difesa planetaria), facendo detonare un ordigno nucleare con un’energia di 1 Mt a una distanza dalla superficie dell’asteroide pari al raggio e applicando i valori della velocità di rinculo misurati in laboratorio, si trova che si riescono a deflettere asteroidi fino a circa 3-4 km di diametro, praticamente tutti quelli pericolosi se si considera che i Nea con più di un km di diametro sono solo mille e il loro numero è completo al 95 per cento. Con futuri esperimenti verranno studiati altri materiali, diverse strutture del bersaglio e impulsi di raggi X, poiché il getto di materiale vaporizzato dipende dalla composizione chimica dell’asteroide, ma il risultato è abbastanza chiaro: con un opportuno preavviso è possibile deflettere anche asteroidi di grandi dimensioni usando ordigni nucleari da far esplodere in prossimità dell’asteroide senza mandarlo in frantumi. Una speranza in più, non per il pianeta Terra, ma per la nostra specie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “Simulation of asteroid deflection with a megajoule-class X-ray pulse”, di Nathan W. Moore, Mikhail Mesh, Jason J. Sanchez, Marc-Andre Schaeuble, Chad A. McCoy, Carlos R. Aragon, Kyle R. Cochrane, Michael J. Powell e Seth Root
Febbre alle stelle: come misurarla con precisione
La temperatura di una stella è tutt’altro che uniforme: varia sia sulla sua superficie che nel tempo. Ora una tecnica innovativa sviluppata da Étienne Artigau dell’UdeM e dal suo team permette di seguire questi cambiamenti con una precisione senza precedenti. Crediti: Benoit Gougeon/UdeM
Gli astronomi studiano le stelle osservando i diversi colori della luce che emettono, colori che catturano e analizzano con la spettroscopia. Ora un team guidato da Étienne Artigau dell’Università di Montréal ha sviluppato una tecnica che utilizza lo spettro di una stella per tracciare le variazioni della sua temperatura al decimo di grado Celsius, su una serie di scale temporali.
«Seguendo la temperatura di una stella, possiamo imparare molto su di essa, come il suo periodo di rotazione, la sua attività stellare, il suo campo magnetico», spiega Artigau. «Una conoscenza così dettagliata è essenziale anche per trovare e studiare i suoi pianeti».
In un articolo che sarà presto pubblicato su The Astronomical Journal, Artigau e il suo team dimostrano l’efficacia e la versatilità della tecnica utilizzando le osservazioni di quattro stelle molto diverse effettuate con il Canada-France-Hawaii Telescope alle Hawaii e con il telescopio da 3,6 metri dell’European Southern Observatory (Eso) a La Silla, in Cile.
Gli scienziati hanno prima rivolto la loro attenzione agli spettri stellari per migliorare l’individuazione degli esopianeti utilizzando la velocità radiale. Questo metodo misura le lievi oscillazioni di una stella generate dall’attrazione gravitazionale di un pianeta in orbita. Più grandi sono le oscillazioni, più grande è il pianeta. Ma è difficile rilevare oscillazioni molto piccole e di conseguenza pianeti di bassa massa. Per superare questo problema, Artigau e il suo team hanno sviluppato una tecnica che sfrutta il metodo della velocità radiale e che analizza l’intero spettro di una stella e non solo alcune porzioni, come fatto in precedenza. In questo modo è possibile individuare pianeti piccoli come la Terra che orbitano attorno a stelle di piccole dimensioni. Artigau ha poi avuto l’idea di utilizzare una strategia simile per rilevare non solo le variazioni delle oscillazioni di una stella, ma anche la sua temperatura.
Le misurazioni della temperatura sono fondamentali nella ricerca di esopianeti, che vengono per lo più osservati indirettamente seguendo da vicino la loro stella. Negli ultimi anni, gli astronomi hanno dovuto affrontare un grosso ostacolo: come distinguere tra gli effetti osservabili di una stella e quelli dei suoi pianeti. Questo è un problema sia nella ricerca di esopianeti utilizzando la velocità radiale sia nello studio delle loro atmosfere utilizzando la spettroscopia di transito. «È molto difficile confermare l’esistenza di un esopianeta o studiarne l’atmosfera senza una conoscenza precisa delle proprietà della stella ospite e di come variano nel tempo», spiega Charles Cadieux, dottorando dell’Irex che ha contribuito allo studio. «Questa nuova tecnica ci fornisce uno strumento prezioso per garantire la solidità delle nostre conoscenze sugli esopianeti e per avanzare nella caratterizzazione delle loro proprietà».
La temperatura superficiale di una stella è una proprietà fondamentale su cui gli astronomi fanno affidamento perché può essere utilizzata per determinare la luminosità e la composizione chimica della stella. Nel migliore dei casi, la temperatura esatta di una stella può essere conosciuta con una precisione di circa 20 gradi Celsius. Tuttavia, la nuova tecnica non misura le temperature esatte, ma le variazioni di temperatura nel tempo, che può determinare con notevole precisione.
«Non possiamo dire se una stella ha 5.000 o 5.020 gradi Celsius, ma possiamo determinare se è aumentata o diminuita di un grado, anche di una frazione di grado: nessuno l’ha mai fatto prima», afferma Artigau. «È una sfida rilevare variazioni di temperatura così minime nel corpo umano, quindi immaginate cosa sia per una sfera gassosa con una temperatura di migliaia di gradi situata a decine di anni luce di distanza».
Per dimostrare che la tecnica funziona, i ricercatori hanno utilizzato le osservazioni effettuate con lo spettrografo SpiRou del Canada-France-Hawaii Telescope e con lo spettrografo Harps del telescopio da 3,6 metri dell’Eso. Nei dati acquisiti da questi due telescopi per quattro piccole stelle nelle vicinanze del Sole, il team ha potuto osservare chiaramente le variazioni di temperatura, attribuite alla rotazione della stella o a eventi sulla sua superficie o nell’ambiente circostante.
Il gruppo di ricercatori ha rilevato variazioni di temperatura molto ampie in Au Microscopii, una stella molto attiva che è circondata da un disco di polvere e ha almeno un pianeta orbitante. Crediti: Nasa, Esa, Joseph Olmsted (StScI)
La nuova tecnica ha permesso di misurare grandi variazioni di temperatura. Per la stella Au Microscopii, nota per la sua elevata attività stellare, il team ha registrato variazioni di quasi 40 gradi Celsius.
Grazie a questa tecnica, è stato possibile misurare non solo i cambiamenti di temperatura molto rapidi associati a brevi periodi di rotazione di pochi giorni, come quelli di Au Microscopii e Epsilon Eridani, ma anche quelli che si verificano in periodi di tempo molto più lunghi, un’impresa difficile per i telescopi a terra.
«Siamo riusciti a misurare cambiamenti di pochi gradi o meno che si verificano su periodi molto lunghi, come quelli associati alla rotazione della stella di Barnard, una stella molto tranquilla che impiega cinque mesi per completare una rotazione completa», spiega Artigau. «Prima avremmo dovuto usare il telescopio spaziale Hubble per misurare una variazione così sottile e lenta».
La nuova tecnica ha anche permesso di rilevare piccole variazioni di temperatura sulla superficie delle stelle. Ad esempio, il team ha rilevato sottili variazioni di temperatura nella stella Hd 189733 in coincidenza con l’orbita del suo esopianeta Hd 189733 b, un gioviano caldo.
I ricercatori dell’UdeM sottolineano che la tecnica funziona non solo con SpiRou e Harps, ma con qualsiasi spettrografo operante nella gamma del visibile o dell’infrarosso. La tecnica innovativa sarà direttamente applicabile alle osservazioni di Nirps, uno spettrografo installato l’anno scorso nel telescopio Eso in Cile. Secondo i ricercatori, sarebbe possibile utilizzare questa tecnica anche con strumenti spaziali, come il James Webb Space Telescope.
«La potenza e la versatilità di questa tecnica ci permette di sfruttare i dati esistenti di numerosi osservatori per rilevare variazioni che in precedenza erano troppo piccole per essere percepite, anche su tempi molto lunghi», conclude Artigau. «Questo apre nuovi orizzonti nello studio delle stelle, della loro attività e dei loro pianeti».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Measuring Sub-Kelvin Variations in Stellar Temperature with High-Resolution Spectroscopy” di Étienne Artigau, Charles Cadieux, Neil J. Cook, René Doyon, Laurie Dauplaise, Luc Arnold, Maya Cadieux, Jean-François Donati, Paul Cristofari, Xavier Delfosse, Pascal Fouqué, Claire Moutou, Pierre Larue, Romain Allart
Campi magnetici nelle bolle di eRosita
Un nuovo studio guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha rivelato importanti novità che potrebbero riscrivere la nostra conoscenza della Via Lattea: un alone galattico magnetizzato. Questa scoperta mette in discussione i modelli precedenti sulla struttura ed evoluzione della nostra galassia. I ricercatori hanno identificato diverse strutture magnetizzate che si estendono ben oltre il piano galattico, raggiungendo altezze superiori a 16mila anni luce. Tali strutture rivelano una delle origini delle cosiddette bolle di eRosita, alimentate su scala galattica da intensi flussi di gas ed energia, generati dalla fine esplosiva delle stelle di grande massa come supernove. Sorprendentemente, queste bolle — osservate dal satellite eRosita (un telescopio a raggi X a bordo della missione spaziale russo-tedesca Spectr-Roentgen-Gamma) — si estendono da un orizzonte all’altro, offrendo le prime misurazioni dettagliate dell’alone magnetico della Via Lattea. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Questa immagine confronta le bolle eRosita a raggi X (in verde) e il campo magnetico nell’alone (in bianco). L’intensità polarizzata per la radiazione di sincrotrone è in rosso. I cerchi celesti sono le bolle di Fermi a raggi gamma. Le creste magnetiche associate alle bolle di Fermi sembrano emanare dal centro galattico. Al contrario, le creste nella regione esterna hanno origine nel disco galattico, a più di diecimila anni luce dal centro galattico. Crediti: H.-S. Zhang (Inaf) et al. 2024, Nature Astronomy
Lo studio rivela che i campi magnetici all’interno di queste bolle formano strutture filamentose che si estendono per una distanza pari a circa 150 volte il diametro della Luna piena, dimostrando la loro immensa scala. I filamenti sono correlati a venti caldi, con una temperatura di 3,5 milioni di gradi, espulsi dal disco galattico e alimentati dalle regioni di formazione stellare.
«I nostri risultati indicano che l’intensa formazione stellare alla fine del centro galattico contribuisce in modo significativo a questi ampi deflussi multifase», sottolinea He-Shou Zhang, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf di Milano. »Questo lavoro fornisce le prime misurazioni dettagliate dei campi magnetici nell’alone della Via Lattea, che emette raggi X e svela nuove connessioni tra le attività di formazione stellare e i deflussi galattici. I nostri risultati mostrano che le creste magnetiche osservate non sono semplici strutture casuali, ma sono strettamente legate alle regioni di formazione stellare della nostra galassia».
Il team di ricerca ha sfruttato l’intero spettro elettromagnetico, coprendo frequenze dalle onde radio ai raggi gamma, per analizzare queste strutture usando più di dieci diverse indagini all-sky. Un approccio così dettagliato ha permesso di confermare la natura estesa di queste strutture magnetiche. In particolare, lo studio rappresenta la prima evidenza osservativa che collega l’anello di formazione stellare della Via Lattea, situato alla fine del centro Galattico, alla produzione di deflussi su larga scala.
«Questo studio rappresenta un significativo passo avanti nella nostra comprensione della Via Lattea», dice Gabriele Ponti, ricercatore Inaf a Milano. «È ormai ben noto che una piccola frazione di galassie “attive” può generare deflussi di materia alimentati dall’accrescimento su buchi neri supermassicci o da eventi di formazione stellare intensi, che influenzano profondamente la loro galassia ospite. Si ritiene che tali deflussi siano elementi fondamentali per regolare la crescita delle galassie e dei buchi neri al loro centro. Ciò che trovo affascinante in questo caso è notare che anche la Via Lattea, una galassia quiescente come molte altre, può espellere potenti deflussi, e in particolare che l’anello di formazione stellare alla fine del centro rotazionale contribuisce significativamente al flusso galattico. Forse la Via Lattea ci sta svelando un fenomeno comune nelle galassie simili alla nostra, aiutandoci così a far luce sulla crescita ed evoluzione di questi oggetti».
«I nostri primi tentativi di confrontare le emissioni dell’intera volta celeste non hanno avuto successo», ricorda spiegando il metodo di ricerca Ettore Carretti, ricercatore Inaf a Bologna, «poiché le emissioni provenienti dalle strutture locali spesso si sovrapponevano a queste strutture più grandi. Tuttavia, abbiamo dedicato molto tempo all’uso di osservazioni multi-lunghezza d’onda per misurare le distanze delle creste magnetiche e delle bolle di eRosita che emettono raggi X. L’analisi teorica per comprendere queste strutture, che emettono in modo termico e non-termico nell’alone galattico, è stata anch’essa molto complessa, richiedendo conoscenze sui deflussi galattici, sui campi magnetici e sul trasporto e l’accelerazione dei raggi cosmici. Fortunatamente, la nostra collaborazione include esperti di livello mondiale in tutti questi campi».
«Il nostro lavoro», conclude He-Shou Zhang, «è il primo studio multi-lunghezza d’onda completo sulle bolle di eRosita dalla loro scoperta nel 2020. Lo studio apre nuove frontiere nella nostra comprensione dell’alone galattico e contribuirà ad approfondire la nostra conoscenza del complesso e impetuoso ecosistema di formazione stellare della Via Lattea».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A magnetised Galactic halo from inner Galaxy outflows”, di He-Shou Zhang, Gabriele Ponti, Ettore Carretti, Ruo-Yu Liu, Mark R. Morris, Marijke Haverkorn, Nicola Locatelli, Xueying Zheng, Felix Aharonian, Haiming Zhang, Yi Zhang, Giovanni Stel, Andrew Strong, Micheal Yeung e Andrea Merloni
Eclissi, ecco come tracciare i margini dell’ombra
Una mappa che mostra l’umbra (l’ombra centrale della Luna) mentre passa sopra Cleveland alle 15:15 ora locale durante l’eclissi solare totale dell’8 aprile 2024. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright e Michaela Garrison
Una nuova ricerca della Nasa pubblicata su The Astronomical Journal descrive un processo per generare mappe di eclissi estremamente accurate, nelle quali è tracciato il percorso previsto dell’ombra della Luna mentre attraversa la faccia della Terra. Tradizionalmente, i calcoli delle eclissi presuppongono che tutti gli osservatori si trovino a livello del mare e che la Luna sia una sfera liscia perfettamente simmetrica intorno al suo centro di massa. In quanto tali, questi calcoli non tengono conto delle diverse altitudini sulla Terra o della superficie irregolare della Luna, piena di crateri.
Per ottenere mappe più precise, si possono utilizzare tavole altimetriche e tracciati del bordo lunare, ossia del bordo della superficie visibile della Luna vista dalla Terra. Tuttavia, ora i calcoli delle eclissi sono diventati ancora più precisi grazie all’integrazione dei dati topografici lunari provenienti dalle osservazioni di Lro (Lunar Reconnaissance Orbiter) della Nasa, in orbita lunare dal 2009 a una distanza dalla superficie di circa 200 chilometri.
Viste da dietro la Luna, le immagini del Sole proiettate dalle valli lunari sul bordo della Luna cadono sulla superficie terrestre in un disegno simile a un fiore con un buco al centro, creando la forma dell’umbra. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright
Utilizzando le mappe altimetriche di Lro, Ernie Wright del Goddard Space Flight Center ha creato un profilo del bordo lunare che varia continuamente al passaggio dell’ombra della Luna sulla Terra, durante le eclissi. Le montagne e le valli lungo il bordo del disco lunare influenzano i tempi e la durata della totalità di diversi secondi. Wright ha anche utilizzato diversi set di dati della Nasa per fornire una mappa altimetrica della Terra, in modo che le posizioni degli osservatori dell’eclissi fossero rappresentate alla loro vera altitudine.
Le visualizzazioni che ne derivano mostrano qualcosa di mai visto prima: la forma reale e variabile nel tempo dell’ombra della Luna, con gli effetti di un bordo lunare realistico e del terreno terrestre. «A partire dall’eclissi solare totale del 2017, abbiamo pubblicato mappe e filmati delle eclissi che mostrano la vera forma dell’ombra centrale della Luna – l’umbra», dice Wright. «E la gente continua a chiedersi: perché assomiglia a una patata invece che a un ovale liscio? La risposta breve è che la Luna non è una sfera perfettamente liscia».
Simulazione al computer delle perle di Baily durante un’eclissi solare totale. I dati del Lunar Reconnaissance Orbiter consentono di mappare le valli lunari che creano l’effetto perline. Crediti: Nasa Svs/Ernie Wright
Le montagne e le valli intorno al bordo della Luna modificano la forma dell’ombra. Le valli sono anche responsabili delle perle di Baily e dell’anello di diamante, gli ultimi frammenti di Sole visibili poco prima e i primi subito dopo la totalità. Le valli sul bordo della Luna agiscono come pinhole che proiettano le immagini del Sole sulla superficie terrestre. L’umbra è il piccolo buco al centro di queste immagini del Sole proiettate, il luogo dove nessuna delle immagini del Sole arriva. I bordi dell’umbra sono costituiti dai piccoli archi che sono parte dei bordi delle immagini del Sole proiettate.
Questo è solo uno dei numerosi risultati sorprendenti emersi dal nuovo metodo di mappatura delle eclissi descritto nell’articolo. A differenza del metodo tradizionale inventato 200 anni fa, il nuovo metodo sintetizza le mappe delle eclissi un pixel alla volta, nello stesso modo in cui i software di animazione 3D creano le immagini. Lo fa in un modo analogo a quello in cui altri fenomeni complessi, come il tempo atmosferico, vengono modellati al computer, suddividendo il problema in milioni di piccoli pezzi, cosa che i computer sanno fare molto bene e che era inconcepibile 200 anni fa.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “A Raster-oriented Method for Creating Eclipse Maps” di Ernie Wright e C. Alex Young
Guarda il video del Scientific Visualization Studio della Nasa:
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Giovani ammassi stellari come acceleratori
La regione dell’ ammasso stellare Ngc 3603, visto in luce gamma (blu), nell’infrarosso (rosso). È facile notare che le stelle sono circondate da un complesso di gas, segnata da contorni bianchi (a regione HII). Crediti: Peron et al., ApJL, 2024
Gli ammassi di stelle giovani di grande massa sono in grado di accelerare le particelle cosmiche e produrre radiazione ad alta energia. La conferma arriva da uno studio guidato da ricercatori dell’Inaf di Arcetri, pubblicato questo mese su The Astrophysical Journal Letters, che mette in luce una forte correlazione tra le sorgenti gamma osservate dallo strumento Lat a bordo del telescopio spaziale Fermi della Nasa e le regioni di idrogeno ionizzato da giovani stelle massicce.
La radiazione gamma è la banda dello spettro elettromagnetico più estrema a cui abbiamo accesso, superando in energia anche i raggi X. La luce gamma – diversamente dalla radiazione caratteristica di altre frequenze, dall’infrarosso all’ultravioletto – viene prodotta dall’interazione nucleare di particelle altamente energetiche con il mezzo interstellare. Queste particelle, dopo essere state accelerate, viaggiano all’interno della nostra galassia arrivando fino a noi sulla Terra, dove sono note come raggi cosmici, la cui provenienza è uno degli enigmi più grandi dell’astrofisica delle alte energie. Studiare le sorgenti dei raggi gamma serve anche a capire quale sia l’origine dei raggi cosmici.
Gli ammassi stellari, nelle prime fasi della loro vita, si trovano racchiusi nel “nido” di gas e polvere interstellare dal quale si formano, e considerato che il gas che li racchiude è molto denso, le sue stelle non sono osservabili nella banda visibile dello spettro elettromagnetico. Poiché però la luce delle stelle viene assorbita dal gas e dalla polvere, la possiamo osservare come una bolla di luce infrarossa, nota come regione H II, che di fatto fa da tracciatore di stelle giovani e massicce spesso altrimenti invisibili.
Nonostante la correlazione tra gli ammassi stellari e i raggi cosmici non sia una novità, una chiara rilevazione dell’emissione di raggi gamma da questa classe di sorgenti è stata finora possibile solo in casi molto limitati. Questo fatto potrebbe essere dovuto a due motivi diversi: o perché gli ammassi stellari rilevabili sono solo una piccola frazione degli ammassi stellari galattici, o perché la frazione di quelli che emettono raggi gamma non sono riconosciuti come tali e quindi sono classificati come sorgenti non identificate.
Il nuovo studio prende in considerazione proprio quest’ultimo scenario, mettendo a confronto i cataloghi disponibili di ammassi stellari e delle regioni H II ottenuti dalle osservazioni di due satelliti – l’europeo Gaia e Wise (Wide-field Infrared Survey Explorer) della Nasa – con i cataloghi di raggi gamma ricavati a partire dai dati raccolti da Fermi-Lat, sempre dallo spazio, e da terra dai telescopi Cherenkov Hess e dall’esperimento cinese Lhaaso (Large High Altitude Air Shower Observatory).
La correlazione tra questi cataloghi è stata poi confrontata con le simulazioni, da cui è emersa una forte correlazione tra le sorgenti non identificate di Fermi-Lat e le regioni H II. [color="#000000"]Proprio la giovane età degli ammassi [/color]porta ad escludere che [color="#000000"]la radiazione gamma sia dovuta alla presenza di resti supernove[/color], che si originano dall’esplosione di stelle vecchie almeno tre milioni di anni. Escluse le supernove, l’unica altra fonte di energia è costituita dai venti delle stelle massicce che, producendo shock, possono accelerare particelle e produrre emissioni di raggi gamma almeno fino alle energie nell’ordine dei gigaelettronvolt (GeV).
Giada Peron, prima autrice dello studio pubblicato su ApJL sugli ammassi stellari come acceleratori di raggi cosmici. Crediti: Inaf
«Tra i telescopi gamma c’è Fermi-Lat, un satellite che ha individuato finora migliaia di sorgenti in tutto il cielo. Tra queste troviamo resti di supernove e stelle di neutroni, note sorgenti di raggi cosmici che però da sole non bastano a spiegare tutte le proprietà che misuriamo dei raggi cosmici», spiega la prima autrice dello studio, Giada Peron dell’Inaf di Arcetri. «Allo stesso tempo, la maggior parte delle sorgenti individuate da Fermi-Lat non non sono associate a sorgenti note e per questo motivo abbiamo cercato di andare oltre le sorgenti “classiche” di raggi gamma, concentrandoci sugli ammassi stellari. Abbiamo cercato quindi se ci fosse una correlazione tra sorgenti gamma non identificate di Fermi-Lat e giovani ammassi stellari, producendo un risultato positivo», sottolinea la ricercatrice. «Il nostro studio rivela che 138 sorgenti Fermi (circa il sette per cento) sono potenzialmente connesse a giovani ammassi stellari in regioni H II».
«Dal punto di vista teorico ci aspettavamo che gli ammassi stellari fossero in grado di accelerare particelle, perché questi producono forti venti che creano le condizioni ideali per avere onde d’urto in grado di accelerare le particelle», aggiunge Giovanni Morlino dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «Dal punto di vista osservativo, però, si conoscono ancora pochi ammassi brillanti in banda gamma nonostante questi oggetti siano molto numerosi nella nostra galassia (se ne stimano migliaia). La maggior parte degli studi però si è concentrata sugli ammassi visibili nell’ottico, mentre gli ammassi giovanissimi sono nascosti dentro le nubi H II. La grande novità è stata proprio quella di cercare le controparti delle sorgenti gamma dalla popolazione di regioni H II piuttosto che dalle stelle».
«L’interesse per gli ammassi stellari che emettono raggi gamma», ricorda Morlino, «è aumentato enormemente nella nostra comunità negli ultimi anni dopo che sono stati proposti come importanti acceleratori dei raggi cosmici galattici, secondi solo ai resti di supernova». I resti di supernova sono infatti considerati finora i principali acceleratori di raggi cosmici galattici, sia per la frequenza di esplosione che per l’energia rilasciata. Tuttavia, non sembrano in grado di coprire tutte le proprietà osservate dei raggi cosmici, sia dal punto di vista della distribuzione energetica – la massima energia raggiunta dall’accelerazione in resti di supernova è più bassa di quella che si osserva nei raggi cosmici – sia dal punto di vista della composizione chimica, perché tra i raggi cosmici sono stati rilevati elementi che non sono prodotti solitamente nelle supernove, ma sono invece abbondanti nei venti stellari.
«Alcuni studi pilota indicano che la frazione di raggi cosmici prodotti da venti stellari si aggira tra l’uno e il sedici per cento, una frazione piccola ma sufficiente a compensare le anomalie di composizione chimica osservate. Tutto questo però ha bisogno di conferme dalle osservazioni», conclude Peron,«e le osservazioni gamma sono una prova diretta» .
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “On the Correlation between Young Massive Star Clusters and Gamma-Ray Unassociated Sources” di Giada Peron, Giovanni Morlino, Stefano Gabici, Elena Amato, Archana Purushothaman e Marcella Brusa
Lo spazio attraverso la lente Carosello
La lente Carosello, vista attraverso il telescopio spaziale Hubble. Crediti: William Sheu/Ucla
Con una scoperta rara e straordinaria, un gruppo di ricercatori ha identificato una configurazione unica di galassie che rappresenta la lente gravitazionale più allineata di sempre. L’hanno chiamata Carosello e permetterà di approfondire i misteri del cosmo, tra cui la materia e l’energia oscura.
La luce emessa da oggetti lontani, quando passa attraverso lo spaziotempo distorto da galassie o ammassi di galassie più vicini, può essere amplificata e curvata. In rari casi, gli oggetti si allineano (rispetto a noi, che li stiamo osservando) quasi perfettamente per formare una cosiddetta lente gravitazionale forte.
Grazie all’abbondanza di nuovi dati provenienti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi) Legacy Imaging Surveys, alle recenti osservazioni del telescopio spaziale Hubble e al supercomputer Perlmutter del National Energy Research Scientific Computing Center (Nersc), i ricercatori si sono basati su studi precedenti (del maggio 2020 e del febbraio 2021) per identificare probabili candidati di lenti gravitazionali forti.
«Il nostro team ha cercato lenti forti e ha modellato i sistemi più validi», spiega Xiaosheng Huang, coautore dello studio e membro del Supernova Cosmology Project del Berkeley Lab, nonché professore di fisica e astronomia all’Università di San Francisco. «La lente Carosello è un incredibile allineamento di sette galassie in cinque raggruppamenti che si allineano quasi perfettamente dietro la lente dell’ammasso in primo piano. Quando appaiono attraverso la lente, le immagini multiple di ciascuna galassia sullo sfondo formano schemi circolari approssimativamente concentrici intorno alla lente in primo piano, come in un carosello. È una scoperta senza precedenti e il modello computazionale generato mostra una prospettiva molto promettente per la misurazione delle proprietà del cosmo, comprese quelle della materia oscura e dell’energia oscura».
«Si tratta di un “allineamento galattico” incredibilmente fortunato: un allineamento casuale di più galassie su una linea di vista che copre la maggior parte dell’universo osservabile», dichiara David Schlegel, coautore dello studio del Berkeley Lab. «Trovare uno di questi allineamenti è come trovare un ago in un pagliaio. Trovarli tutti è come trovare otto aghi allineati con precisione all’interno di quel pagliaio».
La lente Carosello è composta da un ammasso di galassie in primo piano (la lente) e da sette galassie sullo sfondo che coprono distanze cosmiche immense e che sono viste attraverso lo spaziotempo distorto gravitazionalmente intorno alla lente. La vedete nell’immagine riportata sotto, dove trovate anche delle etichette a indicare le varie galassie.
Immagine del telescopio spaziale Hubble della lente Carosello, ripresa in due esposizioni di 10 minuti, una con filtro ottico e l’altra con filtro infrarosso. Gli indicatori “L” vicino al centro (La, Lb, Lc e Ld) indicano le galassie più massicce dell’ammasso, situate a 5 miliardi di anni luce di distanza. Sette galassie (numerate da 1 a 7) – situate tra 2,6 e 7 miliardi di anni luce di distanza dalla lente – appaiono in iterazioni multiple e distorte (indicate dall’indice delle lettere di ciascun numero, ad esempio da “a” a “d”), viste attraverso la lente. Crediti: William Sheu (Ucla), Hst
L’ammasso della lente, a 5 miliardi di anni luce dalla Terra, è rappresentato dalle quattro galassie più luminose e massicce (indicate con La, Lb, Lc e Ld), che costituiscono il primo piano dell’immagine. Attraverso la lente appaiono sette galassie (numerate da 1 a 7), che si trovano molto lontano, a distanze comprese tra 7,6 e 12 miliardi di anni luce dalla Terra.
Le apparizioni ripetute di ciascuna galassia (indicate dalla lettera accanto a ciascun numero, ad esempio da “a” a “d”) mostrano differenze nella loro forma, curvandosi e allungandosi come se venissero riflesse da quei divertenti specchi deformanti che si trovano al luna park, causata in questo caso dalla deformazione dello spaziotempo intorno alla lente.
Se guardate con attenzione e cercate le varie immagini di una stessa galassia, vedrete che ce né una in particolare – la numero 4, con le apparizioni multiple 4a, 4b, 4c e 4d – che forma una Croce di Einstein – la più grande finora conosciuta. Questa rara configurazione di immagini multiple intorno al centro della lente è un’indicazione della distribuzione simmetrica della massa della lente (dominata dalla materia oscura invisibile) e gioca un ruolo chiave nel processo di modellazione della lente.
La lente Carosello consentirà ai ricercatori di studiare l’energia oscura e la materia oscura in modi completamente nuovi, grazie alla forza dei dati osservativi e del modello computazionale. «È un allineamento estremamente insolito, che di per sé fornirà un banco di prova per gli studi cosmologici», osserva Nathalie Palanque-Delabrouille, direttore della Divisione di Fisica del Berkeley Lab. «Mostra anche come l’imaging realizzato per Desi possa essere sfruttato per altre applicazioni scientifiche», come ad esempio l’indagine dei misteri della materia oscura e dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, guidata dall’energia oscura.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Carousel Lens: A Well-modeled Strong Lens with Multiple Sources Spectroscopically Confirmed by VLT/MUSE” di William Sheu, Aleksandar Cikota, Xiaosheng Huang, Karl Glazebrook, Christopher Storfer, Shrihan Agarwal, David J. Schlegel, Nao Suzuki, Tania M. Barone, Fuyan Bian, Tesla Jeltema, Tucker Jones, Glenn G. Kacprzak, Jackson H. O’Donnell e Keerthi Vasan G. C.
Buchi neri intermittenti tredici miliardi di anni fa
Era la primavera del 1990, la nazionale italiana di calcio si accingeva a giocare il secondo mondiale casalingo e intanto lo Shuttle Discovery si staccava dall’atmosfera trasportando uno speciale fardello, depositato nell’orbita terrestre e destinato all’osservazione del cosmo. Da allora – o per essere precisi dal 1993, quando con una delicata operazione si pose rimedio a un difetto delle ottiche – il telescopio Hubble ci ha regalato vedute straordinarie dell’universo. Nell’ultimo paio d’anni bisognerà ammettere che la grazia delle sue immagini ha subito un duro colpo, infertole dagli eccezionali panorami cosmici immortalati dal telescopio James Webb. Nello scrutare le parvenze di certe galassie lontane con i due strumenti si potrebbero provare sensazioni affini a quelle che si sperimentano in un negozio di elettronica comparando un televisore HD con un 4K. Eppure, nonostante i fisiologici acciacchi accumulati nella trentennale rivoluzione attorno al nostro pianeta, Hubble continua ad essere uno strumento estremamente utile per gli astronomi e di recente è stato protagonista di un’importante scoperta.
Immagine dell’Hubble Ultra Deep Field realizzata nel 2023 (cliccare per ingrandire). Nel pannello è visibile uno zoom su due galassie. La regione luminosa indicata si è “accesa” a seguito dell’accrescimento di materiale su un buco nero supermassiccio. Crediti: Nasa, Esa, Matthew Hayes; Ringraziamenti: Steven V.W. Beckwith (Uc Berkeley), Garth Illingworth (Uc Santa Cruz), Richard Ellis (Ucl); Editing dell’immagine: Joseph DePasquale (Stsci)
Alcuni ricercatori guidati da Matthew Hayes dell’Università di Stoccolma si sono accorti che nell’universo lontano ci sarebbero più buchi neri di quel che si credeva in passato. La scoperta è stata compiuta confrontando alcune immagini dell’Hubble Ultra Deep Field, una piccola regione nella costellazione della Fornace che è stata osservata ripetutamente da Hubble nel corso degli anni e tra le meglio studiate dell’universo. Gli scienziati hanno utilizzato le immagini ottenute nel vicino infrarosso dalla Wide Field Camera 3, strumento a bordo di Hubble, in tre anni diversi: 2009, 2012 e 2023. Una settantina di sorgenti hanno destato l’attenzione degli astronomi, in quanto presentano una vistosa variazione della brillantezza nelle immagini realizzate in tempi diversi. I ricercatori si sono soffermati in particolare su tre oggetti, che rappresenterebbero possibili buchi neri in fase di accrescimento, osservati quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni. Il cambiamento di luminosità sarebbe dovuto niente meno che a delle variazioni nel tasso di accrescimento di materiale che precipita sul buco nero. La materia, cadendo su un buco nero, si scalda emettendo radiazione. Solo che un buco nero, nel corso della sua esistenza, può ricevere più o meno materiale, accendendosi e spegnendosi a intermittenza. A questa sorta di “dieta intermittente” sarebbero dunque imputabili le variazioni di brillantezza osservate nelle immagini. I risultati della ricerca sono stati pubblicati il mese scorso su The Astrophysical Journal Letters.
Il numero di buchi neri individuati con questa tecnica risulta maggiore rispetto a quello osservato nella stessa epoca da altri studi, che hanno però impiegato metodologie differenti per individuare i buchi neri in attività. Il nuovo studio consente in particolare di porre dei vincoli ai modelli sulla formazione dei primi buchi neri. Nell’universo si osservano infatti buchi neri supermassicci grossi quanto miliardi di soli meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Diversi scenari sono stati proposti per spiegare tali stazze poderose in epoche tanto remote. Secondo gli autori di questo studio, lo scenario che meglio si accorderebbe ai dati osservati è quello che vedrebbe i primi buchi neri come il prodotto del collasso di stelle antichissime, estremamente massicce e costituite solo da idrogeno e elio – le famigerate quanto elusive stelle di popolazione III. «Il meccanismo di formazione dei primi buchi neri è un pezzo importante del puzzle dell’evoluzione delle galassie» dice Hayes. E aggiunge: «Assieme ai modelli sulla crescita dei buchi neri, i calcoli sull’evoluzione della galassie possono essere ora ancorati a una base maggiormente motivata fisicamente, con uno schema accurato su come i buchi neri vengano alla luce dal collasso delle stelle massicce».
La tecnica adottata nello studio non è esente da incertezze. Le supernove sono in agguato come possibili contaminanti. L’esplosione di una stella può infatti produrre variazioni nelle immagini simili a quelle studiate da Hayes e collaboratori. Non a caso, diverse supernove sono state individuate fra i settanta oggetti inizialmente selezionati dagli astronomi. Gli autori dello studio sostengono che è altamente improbabile che i tre oggetti siano supernove. Un altro aspetto delicato riguarda la stima delle distanze. Solo per uno dei tre oggetti è infatti disponibile un redshift spettroscopico, che fornisce una stima estremamente accurata della distanza e dunque dell’epoca cosmica da cui proviene. Più incerte sono invece le informazioni sulle altre sorgenti.
Il lavoro è stato possibile in virtù della longevità di Hubble, che ha consentito di confrontare immagini realizzate dal telescopio spaziale a quindici anni di distanza. Con Webb uno studio del genere sarebbe attualmente difficile da realizzare, in quanto solo poco più di due anni sono trascorsi dalle prime immagini, un tempo scala troppo breve per apprezzare variazioni significative nella luce prodotta durante l’accrescimento sui buchi neri più remoti. L’esperienza paga insomma. Tra un po’ di anni gli astronomi si augurano di poter ripetere la ricerca utilizzando il telescopio Webb, per stanare i buchi neri attivi più deboli con la stessa tecnica. Nel frattempo, immagini di altre regioni del cosmo immortalate da Hubble sono pronte per essere scandagliate.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Glimmers in the Cosmic Dawn: A Census of the Youngest Supermassive Black Holes by Photometric Variability” di Matthew J. Hayes, Jonathan C. Tan, Richard S. Ellis, Alice R. Young, Vieri Cammelli, Jasbir Singh, Axel Runnholm, Aayush Saxena, Ragnhild Lunnan, Benjamin W. Keller, Pierluigi Monaco, Nicolas Laporte e Jens Melinder
Il sorriso di Arp 107
Un’interazione tra una galassia ellittica e una galassia a spirale – una strana coppia nota come Arp 107, il centosettesimo oggetto dell’Atlante delle galassie peculiari di Halton Arp – sembra aver dato alla spirale un aspetto più felice, grazie a due “occhi” luminosi e a un ampio “sorriso”.
Questa immagine composita di Arp 107, creata con i dati della NirCam (Near-Infrared Camera) e del Miri (Mid-Infrared Instrument) del James Webb Space Telescope, rivela una grande quantità di informazioni sulla formazione delle stelle e su come queste due galassie si sono scontrate centinaia di milioni di anni fa. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
Arp 107 si trova a 465 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione del Leone minore. La regione era già stata osservata nell’infrarosso dal telescopio spaziale Spitzer della Nasa nel 2005, ma il telescopio spaziale James Webb la mostra ora con una risoluzione molto più alta. L’immagine che vedete qui combina le osservazioni dello strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) e della NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb.
NirCam evidenzia le stelle all’interno di entrambe le galassie e rivela il collegamento tra esse: un ponte bianco e velato di stelle e gas estratti da entrambe le galassie durante il loro avvicinamento. I dati di Miri, rappresentati in rosso-arancio, mostrano le regioni di formazione stellare e la polvere composta da molecole organiche simili a fuliggine, gli idrocarburi policiclici aromatici. Miri fornisce anche un’istantanea del nucleo luminoso della grande spirale, che ospita un buco nero supermassiccio.
Questa immagine di Arp 107, mostrata dallo strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) di Webb, rivela il buco nero supermassiccio che si trova al centro della grande galassia a spirale sulla destra. Questo buco nero, che trascina gran parte della polvere lungo corsie, mostra anche i caratteristici picchi di diffrazione di Webb, causati dalla luce che emette interagendo con la struttura del telescopio stesso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
La galassia a spirale è classificata come galassia di Seyfert, uno dei due più grandi gruppi di galassie attive, insieme alle galassie che ospitano quasar. Le galassie di Seyfert non sono così luminose e distanti come i quasar, e questo le rende più “comode” da studiare in luce a bassa energia, come gli infrarossi.
Questa coppia di galassie è simile alla Galassia Cartwheel – la Galassia Ruota del Carro – una delle prime galassie interagenti osservate da Webb. Arp 107 potrebbe avere un aspetto molto simile a quello della Cartwheel, ma poiché la galassia ellittica più piccola ha probabilmente subito una collisione decentrata invece di un impatto diretto, la galassia a spirale se l’è cavata con un disturbo ai suoi bracci.
In realtà, la collisione tra galassie non è così grave come sembra. Anche se la formazione stellare era già in corso, le collisioni possono comprimere il gas, migliorando le condizioni necessarie per la formazione di altre stelle. D’altra parte, come rivela Webb, le collisioni disperdono anche molto gas, privando potenzialmente le nuove stelle del materiale di cui hanno bisogno per formarsi.
Webb ha catturato queste galassie nel processo di fusione, che richiederà centinaia di milioni di anni. Man mano che le due galassie si ricostruiscono dopo il caos della collisione, Arp 107 potrebbe perdere il suo sorriso, ma inevitabilmente si trasformerà in qualcosa di altrettanto interessante da studiare per gli astronomi del futuro.
Verso la Luna e oltre con uno scudo di nome Orion
Man mano che ci spingiamo oltre nello spazio, gli astronauti saranno coinvolti in missioni spaziali di durata sempre maggiore. Missioni che presentano numerose sfide, una delle quali è l’esposizione prolungata alle radiazioni presenti nello spazio. A differenza della Terra, che è protetta dal suo campo magnetico e dall’atmosfera, lo spazio interplanetario è infatti un ambiente altamente radioattivo. L’esposizione a tali radiazioni rappresenta un rischio considerevole per la salute dei futuri equipaggi impegnati in missioni a lungo termine, ad esempio sulla Luna e su Marte. Al fine di mitigare questi rischi e garantire la sicurezza degli astronauti, è fondamentale conoscere quali tipi di garanzia offrano tanto i futuri veicoli spaziali che li condurranno verso mete nuove, o già esplorate, quanto i dispositivi di protezione individuale che indosseranno. Per fare ciò, occorre quantificare il livello di radiazioni durante l’intero volo.
Foto scattata il sesto giorno della missione Artemis I che mostra la capsula Orion che incombe sul lato nascosto del nostro satellite. Crediti: Nasa
Tra gli obiettivi di Artemis I, la prima missione senza equipaggio del programma Artemis della Nasa che riporterà l’essere umano sulla Luna, c’era anche questo: misurare l’esposizione alle radiazioni all’interno della capsula Orion per testarne le prestazioni, rendendo possibile per la prima volta la raccolta di dati continui in un viaggio durante un viaggio Terra-Luna. Dlr, Esa, e Nasa di questi esperimenti hanno ora pubblicato i primi risultati su Nature.
Partita dal Kennedy Space Center a bordo del razzo Sls il 16 novembre 2022 e rientrata sulla Terra 25 giorni dopo, l’11 dicembre 2022, dopo aver percorso più di 2.25 milioni di chilometri e fatto due sorvoli della Luna, la missione Artemis I è stata il primo test di volo integrato della capsula Orion, il veicolo spaziale scelto dalla Nasa per trasportare gli astronauti nell’orbita lunare.
Al fine di raccogliere dati sulle radiazioni durante il suo viaggio, la navicella trasportava a bordo una serie di strumenti ed esperimenti utili allo scopo. L’Hybrid Electronic Radiation Assessor (Hera) della Nasa, un rilevatore di particelle cariche, e gli active dosimeters, sensori in grado di registrare un’ampia gamma di energie della radiazione ionizzante, sono tra questi strumenti. Ma non è finita. In apertura abbiamo detto che Artemis I non aveva equipaggio a bordo. In realtà questa affermazione non è del tutto corretta. La capsula Orion non aveva equipaggio umano, ma portava con se tre ospiti inanimati: il manichino Moonikin Campos, che all’interno di Orion occupava il posto del comandante, e due mezzi busti, chiamati Helga e Zohar, realizzati con materiali che imitano ossa, tessuti molli e organi di una donna adulta. Zohar indossava un giubbotto di protezione dalle radiazioni chiamato AstroRad, Helga no. Come parte dell’esperimento Mare, Matroshka AstroRad Radiation Experiment, entrambe avevano rilevatori di radiazioni sulla loro superficie esterna e all’interno degli organi “finti”: i Crew Active Dosimeters (Cad), prodotti dalla Nasa; e i rilevatori M-42, prodotti dal Dlr.
Illustrazione che mostra l’interno della capsula Orion. Crediti: Nasa
Tutti questi strumenti hanno raccolto grandi quantità di dati sui livelli di radiazioni a cui saranno sottoposti in futuro gli astronauti all’interno della capsula Orion. Di questi dati abbiamo ora i risultati delle analisi. Come riportato su Nature, le misurazioni mostrano che l’esposizione alle radiazioni all’interno della capsula Orion variavano in modo significativo a seconda della posizione del rilevatore, con le aree più schermate della navicella capaci di fornire una protezione dalle particelle energetiche delle fasce di Van Allen quattro volte maggiore rispetto a quelle meno schermate, convalidando il progetto di shielding, termine inglese che significa appunto schermatura, della navicella. Anche per quanto riguarda l’esposizione alle particelle energetiche prodotte durante eventi estremi come i brillamenti solari e le espulsioni coronali di massa ci sono buone notizie: nell’area più schermata della capsula le radiazioni sono rimaste sotto i 150 millisievert – l’unità di misura dell’equivalente di dose di radiazione assorbita da tessuti biologici –, un livello di sicurezza tale da prevenire malattie acute da radiazioni. Un altro dato riguarda l’esposizione rispetto all’orientamento della capsula: una virata di 90 gradi durante il flyby di Orion della fascia di Van Allen interna ha ridotto l’esposizione alle radiazioni del 50 per cento, fornendo informazioni preziose per la progettazione di missioni future.
Alla luce di questi risultati, la conclusione degli scienziati è che è improbabile che l’esposizione alle radiazioni nelle future missioni Artemis superi i limiti Nasa per gli astronauti, confermando l’idoneità della navicella Orion per missioni con equipaggio.
Immagine che mostra la posizione dei rilevatori di radiazioni all’interno della capsula Orion e sui due mezzi busti Helga e Zohar. Crediti: Stuart P. George et al., Nature, 2024
Il team congiunto di scienziati Esa, Nasa e Dlr continuerà ad analizzare la mole di dati prodotti dalle misurazioni delle radiazioni acquisite durante i 25 giorni di volo di Artemis I. Il prossimo passo sarà paragonare l’esposizione alle radiazioni tra i manichini Helga, che ha volato senza protezione, e Zohar, che ha indossato il giubbotto AstroRad. Confrontando i due set di dati sarà possibile determinare in che misura il giubbotto proteggerà un’astronauta dall’esposizione a radiazioni nocive.
«La missione Artemis I segna una tappa fondamentale per la comprensione dell’impatto delle radiazioni spaziali sulla sicurezza delle future missioni con equipaggio sulla Luna», sottolinea Sergi Vaquer Araujo, responsabile del team di medicina spaziale presso l’Agenzia spaziale europea. «Grazie ai rilevatori per le radiazioni posizionati in tutta la capsula Orion, stiamo acquisendo preziose conoscenze su come le radiazioni spaziali interagiscono con la schermatura della navicella, sui tipi di radiazioni che penetrano il corpo umano e su quali aree all’interno della navicella offrono la maggiore protezione. Queste conoscenze sono preziose, perché ci permetteranno di stimare con precisione l’esposizione alle radiazioni degli astronauti dell’Esa prima del loro viaggio nello spazio profondo, garantendo la loro sicurezza nelle missioni verso la Luna e oltre».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Space radiation measurements during the Artemis I lunar mission” di Stuart P. George, Ramona Gaza, Daniel Matthiä, Diego Laramore, Jussi Lehti, Thomas Campbell-Ricketts, Martin Kroupa, Nicholas Stoffle, Karel Marsalek, Bartos Przybyla, Mena Abdelmelek, Joachim Aeckerlein, Amir A. Bahadori, Janet Barzilla, Matthias Dieckmann, Michael Ecord, Ricky Egeland, Timo Eronen, Dan Fry, Bailey H. Jones, Christine E. Hellweg, Jordan Houri, Robert Hirsh, Mika Hirvonen, Scott Hovland, Hesham Hussein, A. Steve Johnson, Moritz Kasemann, Kerry Lee, Martin Leitgab, Catherine McLeod, Oren Milstein, Lawrence Pinsky,Phillip Quinn, Esa Riihonen, Markus Rohde, Sergiy Rozhdestvenskyy, Jouni Saari, Aaron Schram, Ulrich Straube, Daniel Turecek, Pasi Virtanen, Gideon Waterman, Scott Wheeler, Kathryn Whitman, Michael Wirtz, Madelyn Vandewalle, Cary Zeitlin, Edward Semones e Thomas Berger
Ileana Chinnici alla guida della Sic
Ileana Chinnici, ricercatrice all’Inaf di Palermo
Si tiene in questi giorni, nella capitale canadese, la 43esima assemblea generale della Scientific Instrument Commission (Sic), una commissione internazionale afferente alla Division of History of Science and Technology (Dhst), parte dell’International Union of History and Philosophy of Science and Technology (Iuphst), organizzazione che, a sua volta, è un’emanazione dell’Unesco. E oggi, venerdì 19 settembre, durante l’assemblea generale, verrà ufficializzata la nomina a presidente della Sic di Ileana Chinnici, ricercatrice dell’Inaf di Palermo. Ruolo che ricoprirà dal 2025 e fino al 2029.
Per promuovere l’interesse per la storia degli strumenti scientifici e far progredire la ricerca, la commissione organizza simposi annuali in diverse parti del mondo, come l’edizione del 2023, che si è tenuta proprio a Palermo, con il tema Through ages, cultures, concepts: instruments in collections, books, archives, e che ha affrontato argomenti quali il multiculturalismo, caratteristica identitaria del capoluogo siciliano.
Fin dal 1952, anno della sua fondazione, la Sic si occupa di preservare e valorizzare le collezioni di strumenti scientifici che hanno fatto la storia della ricerca astronomica custoditi negli storici osservatori astronomici, ma non solo. Rientrano nelle collezioni tutelate e valorizzate dalla commissione, infatti, anche sismografi, strumenti meteorologici, strumenti di fisica, di topografia, ma anche preziosi strumenti per la didattica dell’astronomia come rari globi celesti e terrestri, i planetari o le sfere armillari per lo studio delle meccaniche celesti. Tutti manufatti resi obsoleti nel tempo dal progresso scientifico, e che una volta in disuso venivano spesso abbandonati al degrado. Come spiega a Media Inaf Ileana Chinnici, intervistata in occasione della sua nomina.
Perché studiare gli strumenti scientifici storici?
«Oggi finalmente si è compreso che gli strumenti scientifici storici sono beni culturali a tutti gli effetti e vanno preservati come tali. La Sic incoraggia l’utilizzo di queste collezioni per ricerche nel campo della storia della scienza, in genere presentate durante il proprio simposio annuale».
Cosa rappresenta per lei questa nomina?
«Per me è una responsabilità di cui avverto l’onore e l’onere. Molti dei miei predecessori sono stati autorità indiscusse e persone di riferimento in questo campo, ed è facile sentirsi inadeguati al confronto, ma so che posso contare sul loro luminoso esempio come fonte di ispirazione per svolgere al meglio questo servizio. L’essere poi la prima italiana e ricoprire questo ruolo mi sembra anche un riconoscimento all’impegno profuso dal nostro Paese nel riordino di queste collezioni nelle università, nelle scuole, nei laboratori. Certamente, nel 1995, quando partecipai al mio primo Sic Symposium, a Praga, da semplice borsista, presentando un poster (era la prima volta che partecipavo a un convegno internazionale), mai avrei pensato che un giorno avrei presieduto la Sic. Ma le radici di questo frutto sono proprio nel lavoro pionieristico fatto a Palermo sulla catalogazione degli strumenti dell’Osservatorio sotto la guida di Giorgia Foderà, dell’Università di Palermo. Da lei ho appreso la passione per gli strumenti scientifici storici che mi ha sempre accompagnato».
Quante persone fanno parte della commissione e di quali Paesi?
«La Sic ha una struttura molto flessibile e inclusiva. È sufficiente partecipare al simposio annuale per diventarne membri. L’anno scorso abbiamo avuto circa 200 partecipanti da 13 paesi di tutti i continenti. È preciso obiettivo della Sic allargare il più possibile la propria community e offrire uno spazio di confronto e di collaborazione sulle tematiche inerenti agli strumenti storici, al di là di possibili barriere geografiche, ideologiche e culturali, per preservare il patrimonio comune».
Quanti erano i candidati per la posizione di presidente?
«In teoria, ogni membro è un candidato eleggibile. Tuttavia, il board uscente in genere dà dei suggerimenti. Quando l’anno scorso il presidente uscente mi chiese la disponibilità a candidarmi, ho esitato, pensando che molti altri colleghi potevano svolgere questo servizio meglio di me. Poi però si è fatta la scelta di presentare una sola candidatura, votando tutto il board insieme. Con un unico voto, quindi, sono stati votati anche il segretario e la tesoriera. Trattandosi di colleghi che stimo molto, questo mi ha incoraggiato».
Quanti strumenti sono stati censiti e vengono tutelati dalla Sic?
«La Sic non si occupa di censire direttamente le collezioni, ma agisce su segnalazione dei propri membri o di altri. Quando c’è una collezione in pericolo o non valorizzata, interviene sollecitando le autorità competenti. L’anno scorso, ad esempio, è intervenuta nel caso della collezione di chimica dell’Università di Palermo raccomandando che fosse resa accessibile. Il Sistema museale di ateneo (Simua) ha recepito la raccomandazione e quest’anno la collezione ha un responsabile ed è visitabile su richiesta».
Qual è il suo strumento preferito e perché?
«Sono molto affezionata al telescopio equatoriale Merz di Palermo: è uno strumento che ha fatto la storia della fisica solare in Italia. L’ho studiato, ho collaborato al suo restauro che poneva delle problematiche concettuali molto interessanti. Tuttavia, se dovessi individuare una categoria di strumenti, direi che i miei preferiti sono gli spettroscopi, protagonisti della nascita dell’astrofisica. In cantiere, però, c’è attualmente uno studio sul Cerchio di Ramsden, la cui unicità e ruolo nella storia dell’astronomia [ndr: è lo strumento con cui venne scoperto Cerere 1801, il primo asteroide classificato nel 2006 dall’Iau come pianeta nano] ne fanno un oggetto di assoluto interesse, un capolavoro meccanico con soluzioni innovative rispetto alla tecnologia del tempo».
C’era una volta un pianeta con gli anelli… la Terra
media.inaf.it/2024/09/19/terra…
Nel Sistema solare, solo quattro pianeti possiedono anelli. Sono i giganti gassosi Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Saturno è il pianeta con il sistema di anelli più esteso e visibile – da cui l’appellativo “il Signore degli anelli”. Giove, Urano e Nettuno hanno invece anelli più sottili, e per questo non facilmente visibili. Questo oggi, ma un tempo le cose potrebbero essere state molto diverse. Secondo un nuovo studio pubblicato su Earth and Planetary Science Letters, infatti, circa 466 milioni di anni fa la Terra potrebbe aver avuto un sistema di anelli simile a quello posseduto oggi da Saturno. Ma c’è di più: considerato che studi recenti limitano l’età degli anelli di Saturno a non più di 400 milioni di anni, a quell’epoca il “Signore degli anelli” del Sistema solare potrebbe essere stato il nostro pianeta.
Andrew Tomkins, Erin Martin e Peter Cawood, ricercatori presso la Monash University, in Australia, sono giunti a questa conclusione esaminando le registrazioni paleogeografiche dei crateri da impatto prodotti all’inizio di un periodo di intenso bombardamento meteorico della Terra, noto come evento meteorico dell’Ordoviciano o picco di impatti dell’Ordoviciano.
Illustrazione artistica realizzata con Adobe AI del sistema di anelli che la Terra potrebbe aver avuto 466 milioni di anni fa. Crediti: Media Inaf
Il punto di partenza di questo lavoro di ricerca è un assunto che riguarda la distribuzione dei crateri da impatto su un pianeta e il corpo all’origine di queste voragini. L’assunto è questo: se i crateri da impatto su di un pianeta derivano da impatti di asteroidi provenienti dalla fascia degli asteroidi, tra le orbite di Marte e Giove, questi saranno uniformemente distribuiti su tutta la superficie. Viceversa, se derivano da un unico corpo che si è frantumato durante un incontro ravvicinato con la Terra, saranno “concentrati” in una specifica area.
Nello studio in questione, i ricercatori hanno esaminato la distribuzione di 21 crateri da impatto noti per essere stati prodotti durante l’evento meteorico dell’Ordoviciano. Per farlo, hanno utilizzato le registrazioni paleogeografiche di questi crateri e tutti i modelli globali relativi alla tettonica a placche disponibili per l’Ordoviciano – un periodo geologico compreso tra 485 e 443 milioni di anni fa –, identificando le paleo-latitudini delle aree che conservano tali crateri, i cosiddetti cratoni: ampie zone continentali che per centinaia di milioni di anni non hanno subito grandi modificazioni geologiche. Le indagini hanno mostrato che tutti e 21 i crateri in esame erano situati entro 30 gradi dall’equatore, nonostante oltre il 70 per cento della crosta terrestre si trovasse al di fuori di questa regione.
Secondo i ricercatori, la spiegazione più plausibile di questo risultato, e qui arriviamo al dunque, è che questi crateri non siano stati prodotti da impatti casuali di corpi provenienti dalla Fascia degli asteroidi con la Terra, ma da un unico grande asteroide – probabilmente il corpo progenitore delle condriti di tipo L – che è entrato nella sfera di Hill della Terra, la sua regione di dominanza gravitazionale. Quando l’asteroide è passato oltre il limite di Roche (la distanza minima rispetto al centro del nostro pianeta alla quale un corpo può orbitare senza frammentarsi per effetto delle forze di marea), questo si sarebbe disintegrato, formando un anello di detriti attorno al pianeta simile a quello presente oggi attorno a Saturno e ad altri giganti gassosi. Nel corso di milioni di anni, spiegano i ricercatori, il materiale costituente questi anelli – polveri, ghiaccio e frammenti di roccia – è deorbitato, cadendo sulla Terra e producendo il picco di impatti dell’Ordoviciano e la distribuzione dei crateri osservata nei registri geologici.
I risultati di questa ricerca, oltre a spingere gli scienziati a riconsiderare la comprensione della storia antica del nostro pianeta, si prestano a speculazioni sul paleoclima della Terra. A questo proposito, l’ipotesi dei ricercatori è che la presenza di un anello di detriti attorno al nostro pianeta possa aver bloccato il flusso della luce solare in arrivo. Questa ombreggiatura potrebbe aver contribuito in modo significativo all’evento di raffreddamento globale, verificatosi verso la fine dell’Ordoviciano, noto come glaciazione dell’Hirnantiano: uno dei periodi più gelidi degli ultimi 500 milioni di anni di storia della Terra, alla base del primo dei “cinque grandi” eventi di estinzione di massa.
Per saperne di più:
- Leggi su Earth and Planetary Science Letters l’articolo “Evidence suggesting that earth had a ring in the Ordovician” di Andrew G. Tomkins, Erin L. Martin e Peter A. Cawood
Scoperti due getti lunghi 23 milioni di anni luce
Rappresentazione artistica del più esteso sistema di getti emessi da buchi neri mai osservato. Denominato Porfirione, dal nome di un gigante mitologico greco, questi getti si estendono per circa 7 megaparsec, ovvero 23 milioni di anni luce. La stessa distanza che coprirebbero 140 galassie come la Via Lattea allineate una dietro l’altra. Crediti: E. Wernquist / D. Nelson (IllustrisTNng Collaboration) / M. Oei
Scoperti da un team internazionale di ricerca due giganteschi getti di gas e particelle prodotti da un remoto buco nero supermassiccio, che si estendono per una distanza di 23 milioni di anni luce, ovvero quanto il diametro di 140 galassie come la Via lattea. La megastruttura, la più grande di questo tipo finora nota, è stata soprannominata Porfirione in onore di un gigante della mitologia greca. Questi getti risalgono a un’epoca in cui il nostro universo aveva 6,3 miliardi di anni, ovvero meno della metà della sua attuale età, pari a 13,8 miliardi di anni. Si stima che l’energia che alimenta i getti sia equivalente a quella di migliaia di miliardi di soli.
Prima di questa scoperta, il più grande sistema di getti mai osservato era Alcioneo, individuato nel 2022, con una estensione di circa 100 volte la grandezza della Via Lattea. Ma la scoperta di Porfirione suggerisce che questi giganteschi sistemi di getti potrebbero aver influenzato la formazione delle galassie nell’universo giovane più di quanto si pensasse in precedenza.
«La scoperta di Porfirione rappresenta un passo molto importante nella comprensione dell’evoluzione dei buchi neri e delle galassie, con implicazioni potenzialmente rilevanti anche per le proprietà dell’universo su grandissima scala», commenta Andrea Botteon, ricercatore Inaf coinvolto nello studio. «Questo risultato è stato possibile grazie all’utilizzo della vasta rete di antenne che compongono Lofar, la quale ci ha permesso per la prima volta di individuare Porfirione e quindi di condurre osservazioni di follow-up con altri telescopi per determinarne le proprietà fisiche».
Grazie al telescopio radio Europeo Lofar (Low Frequency Array), oltre a Porfirione, sono state scoperte oltre 10.000 megastrutture poco visibili. Sebbene centinaia di grandi sistemi di getti fossero già noti prima delle osservazioni del Lofar, si pensava fossero rari e in media di dimensioni più piccole rispetto ai migliaia di sistemi scoperti. «Questa coppia non è solo delle dimensioni di un sistema solare o di una Via Lattea; stiamo parlando di 140 diametri della Via Lattea in totale», afferma Martijn Oei, ricercatore post-dottorato al Caltech e autore principale di un nuovo articolo pubblicato su Nature. «La Via Lattea sarebbe un piccolo punto in queste due gigantesche eruzioni».
Questa immagine, ottenuta dal radiotelescopio europeo Lofar (LOw Frequency ARray), mostra la più estesa coppia di getti di buchi neri ad oggi conosciuta. Soprannominato Porfirione dal nome di un mitologico gigante greco, il sistema di getti si estende per 23 milioni di anni luce. La galassia che ospita il buco nero supermassiccio, distante 7,5 miliardi di anni luce, è il punto al centro dell’immagine. La struttura luminosa più grande, vicina al centro, è un altro getto più piccolo. Crediti: Lofar Collaboration / Martijn Oei (Caltech)
Per localizzare la galassia da cui proviene Porfirione, il team ha utilizzato il Giant Metrewave Radio Telescope (Gmrt) in India insieme ai dati provenienti da un progetto chiamato Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), che opera dal Kitt Peak National Observatory in Arizona. Le osservazioni hanno individuato l’origine dei getti: una galassia circa dieci volte più massiccia della nostra Via lattea.
Il team ha poi utilizzato l’Osservatorio W. M. Keck alle Hawaii per mostrare che Porfirione si trova a 7,5 miliardi di anni luce dalla Terra. Questo risultato suggerisce che se i getti distanti come questi possono raggiungere la scala della rete cosmica, allora ogni luogo nell’universo potrebbe essere stato influenzato dall’attività dei buchi neri a un certo punto nella storia cosmica.
Le osservazioni dal telescopio Keck hanno anche rivelato che Porfirione proviene da quello che è chiamato un buco nero attivo in modalità radiativa, piuttosto che in modalità getto. In questo particolare stato, il buco nero supermassiccio emette energia sotto forma di radiazioni e getti quando attira a sé e riscalda il materiale circostante: una sorpresa per i ricercatori, che non ritenevano possibile l’emissione di getti così potenti da un buco nero in questa modalità. La scoperta suggerisce quindi che nell’universo distante, dove abbondano i buchi neri in modalità radiativa, potrebbero esserci molti altri getti così potenti ancora da scoprire.
Come possano i getti estendersi così lontano oltre le loro galassie ospitanti senza destabilizzarsi è ancora poco chiaro. L’ipotesi più plausibile è che nella galassia ospite avvenga un evento di accrescimento insolitamente duraturo e stabile attorno al buco nero supermassiccio centrale per consentirgli di rimanere attivo così a lungo – circa un miliardo di anni – e garantire che i getti continuino a puntare nella stessa direzione durante tutto quel tempo.
«Le osservazioni a bassa frequenza continuano a mostrare il loro incredibile potenziale», afferma Francesco de Gasperin, co-autore dello studio e ricercatore Inaf. «Riuscire a osservare ed elaborare correttamente questi dati è estremamente complesso, ma negli ultimi anni sono stati fatti grossi passi avanti che hanno permesso un elevato numero di scoperte importanti tra cui molte sulla fisica dei buchi neri supermassicci e sul loro impatto nel modificare la vita delle galassie ospitanti».
Il prossimo passo per i ricercatori sarà quello di approfondire come queste megastrutture influenzano il loro ambiente e, in particolare, come i getti diffondono raggi cosmici, calore, atomi pesanti e campi magnetici nello spazio intergalattico. Altro obiettivo degli scienziati è anche comprendere i meccanismi che sono legati alla propagazione dei campi magnetici associati a questi enormi getti, il modo in cui essi influenzano la distribuzione dei campi magnetici nella grande rete cosmica e il ruolo che i campi magnetici possono avere sulla formazione e il mantenimento delle condizioni favorevoli alla vita, così come accade sul nostro pianeta.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo Black hole jets on the scale of the cosmic web di Martijn S. S. L. Oei, Martin J. Hardcastle, Roland Timmerman, Aivin R. D. J. G. I. B. Gast, Andrea Botteon, Antonio C. Rodriguez, Daniel Stern, Gabriela Calistro Rivera, Reinout J. van Weeren, Huub J. A. Röttgering, Huib T. Intema, Francesco de Gasperin, S. G. Djorgovski
Guarda l’intervista ad Andrea Botteon su MediaInaf Tv:
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La galassia di Pablo, affamata dal suo buco nero
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Gli astronomi hanno usato il telescopio spaziale James Webb della Nasa/Esa per confermare che i buchi neri supermassicci possono privare le loro galassie ospiti del combustibile necessario per formare nuove stelle. Il team internazionale ha usato Webb per osservare una galassia approssimativamente della dimensione della Via Lattea nell’universo primordiale, circa due miliardi di anni dopo il Big Bang. Come la maggior parte delle galassie più grandi, ha un buco nero supermassiccio al centro. Tuttavia, questa galassia è essenzialmente ‘morta’: ha per lo più smesso di formare nuove stelle. Crediti: Francesco D’Eugenio
Un team internazionale di ricercatori – tra cui Giovanni Cresci di Inaf Arcetri e numerosi altri italiani all’estero – ha utilizzato il telescopio spaziale James Webb per osservare una galassia delle dimensioni della Via Lattea nell’universo primordiale, circa due miliardi di anni dopo il Big Bang. Come la maggior parte delle grandi galassie, nel suo centro ospita un buco nero supermassiccio. Tuttavia, questa galassia è essenzialmente “morta”: ha per lo più smesso di formare nuove stelle.
«Sulla base di osservazioni precedenti, sapevamo che questa galassia si trovava in uno stato di quenching: non sta formando molte stelle, date le sue dimensioni, e ci aspettiamo che ci sia un legame tra il buco nero e la fine della formazione stellare», dice Francesco D’Eugenio del Kavli Institute for Cosmology di Cambridge, primo autore dello studio pubblicato su Nature Astronomy. «Tuttavia, fino a Webb non siamo stati in grado di studiarla in modo abbastanza dettagliato per confermare questo legame, e non sappiamo se questo stato di quenching sia temporaneo o permanente».
La galassia, ufficialmente denominata Gs-10578 ma soprannominata Galassia di Pablo, dal nome del collega che ha deciso di osservarla in dettaglio, è piuttosto massiccia per trovarsi in un periodo così precoce dell’universo: la sua massa totale è circa 200 miliardi di volte la massa del Sole e la maggior parte delle sue stelle si è formata tra 12,5 e 11,5 miliardi di anni fa.
«Nell’universo primordiale, la maggior parte delle galassie sta formando molte stelle, quindi è interessante vedere una galassia morta così massiccia in questo periodo», riferisce Roberto Maiolino, anche lui del Kavli Institute for Cosmology. «Se ha avuto abbastanza tempo per arrivare a queste dimensioni massicce, qualsiasi processo che ha interrotto la formazione stellare è probabilmente avvenuto in tempi relativamente brevi».
Utilizzando Webb, i ricercatori hanno rilevato che la galassia in questione sta espellendo grandi quantità di gas a una velocità di circa mille chilometri al secondo, abbastanza veloce da sfuggire all’attrazione gravitazionale della galassia stessa. Questi venti in rapido movimento vengono “spinti” fuori dalla galassia dal buco nero centrale. Il fenomeno è riscontrato anche il altre galassie con buchi neri in fase di accrescimento, ma in questo caso Webb ha rilevato la presenza di una nuova componente del vento, non visibile con i telescopi precedenti. Questo gas è più freddo, quindi più denso e, cosa fondamentale, non emette luce. Webb, con la sua sensibilità superiore, può vedere queste nubi di gas scuro perché bloccano parte della luce della galassia dietro di loro.
La massa di gas che viene espulsa dalla galassia è maggiore di quella necessaria alla galassia per continuare a formare nuove stelle. In sostanza, il buco nero sta facendo morire di fame la galassia. «Abbiamo trovato il colpevole», spiega D’Eugenio. «Il buco nero sta uccidendo questa galassia e la tiene inattiva, tagliando la fonte di “cibo” di cui la galassia ha bisogno per formare nuove stelle».
Sebbene i modelli teorici precedenti avessero previsto che i buchi neri avessero questo effetto sulle galassie, prima di Webb non era stato possibile rilevarlo direttamente. Tali modelli prevedevano che la fine della formazione stellare avesse un effetto violento e turbolento sulle galassie, distruggendone la forma. Ma le stelle di questa galassia a forma di disco si muovono ancora in modo ordinato, suggerendo che non è sempre così.
Le nuove osservazioni con l’Atacama Large Millimeter-Submillimiter Array (Alma), focalizzate sulle componenti gassose più fredde e scure della galassia, ci diranno se e dove si nasconde eventuale carburante per la formazione stellare in questa galassia e qual è l’effetto del buco nero supermassiccio nella regione che circonda la galassia stessa.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A fast-rotator post-starburst galaxy quenched by supermassive black-hole feedback at z=3” di Francesco D’Eugenio, Pablo G. Pérez-González, Roberto Maiolino, Jan Scholtz, Michele Perna, Chiara Circosta, Hannah Übler, Santiago Arribas, Torsten Böker, Andrew J. Bunker, Stefano Carniani, Stephane Charlot, Jacopo Chevallard, Giovanni Cresci, Emma Curtis-Lake, Gareth C. Jones, Nimisha Kumari, Isabella Lamperti, Tobias J. Looser, Eleonora Parlanti, Hans-Walter Rix, Brant Robertson, Bruno Rodríguez Del Pino, Sandro Tacchella, Giacomo Venturi e Chris J. Willott
In volo ravvicinato sopra Mercurio
Il disco completo del pianeta Mercurio con la sua caratteristica superficie craterizzata. L’immagine è illuminata da sinistra dal Sole. In primo piano sono visibili alcune parti del veicolo spaziale. Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm
Il 4 settembre scorso la sonda Esa/Jaxa BepiColombo ha effettuato il flyby più ravvicinato di sempre di Mercurio – e in assoluto di un pianeta – a soli 165 chilometri di distanza dalla sua superficie. Grazie a un timelapse senza precedenti – lo trovate qui in fondo alla news – possiamo ora sorvolare anche noi sulla superficie del pianeta insieme a BepiColombo e osservare in modo chiaro, per la prima volta, anche il suo polo sud, finora rimasto nascosto alla vista.
Il video – composto da 128 immagini catturate dalle tre telecamere di monitoraggio di BepiColombo, le M-Cam 1, 2 e 3 – mostra il pianeta muoversi dentro e fuori dal campo visivo delle tre telecamere, per poi allontanarsi lontano dall’occhio di BepiColombo. Le prime immagini sono state scattate nei giorni e nelle settimane precedenti il flyby. La prima apparizione di Mercurio è in uno scatto risalente alle 23:50 ora italiana del 4 settembre, a una distanza di 191 chilometri. Seguono immagini riprese nel corso di circa ventiquattro ore, fino all’ultima, del 5 settembre, quando BepiColombo già i trovava a circa 243mila chilometri da Mercurio.
Scopo principale delle tre telecamere di monitoraggio di BepiColombo era quello di fornire immagini (istantanee di 1024 x 1024 pixel) di monitoraggio dei vari bracci e delle antenne della sonda, motivo per cui sono visibili parti meccaniche in primo piano. Le foto che catturano di Mercurio durante i flyby sono state una sorta di bonus, offrendo a Terra una visione unica della superficie del pianeta da tre diverse angolazioni.
Crateri nel polo sud della superficie di Mercurio. Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm
BepiColombo si è avvicinato a Mercurio dal “lato notturno” del pianeta, con la superficie craterizzata di Mercurio sempre più illuminata dal Sole durante il passaggio della sonda. Durante il flyby è stato possibile identificare diverse caratteristiche geologiche che BepiColombo studierà più in dettaglio una volta in orbita attorno al pianeta.
«L’obiettivo principale del flyby era ridurre la velocità di BepiColombo, in modo che la sonda raggiungesse un periodo orbitale intorno al Sole di ottantotto giorni, molto vicino al periodo orbitale di Mercurio», spiega Frank Budnik, responsabile del volo di BepiColombo. «In questo senso è stato un grande successo, e siamo proprio dove volevamo essere in questo momento. Ma abbiamo anche avuto la possibilità di scattare foto ed effettuare misurazioni scientifiche da luoghi e prospettive che non raggiungeremo mai più una volta in orbita».
Il flyby di assist gravitazionale del 4 settembre è stato il quarto su Mercurio e il settimo di nove flyby planetari in totale. Durante la sua crociera di otto anni verso il pianeta più piccolo e più interno del Sistema solare, BepiColombo ha in programma un flyby intorno Terra, due intorno Venere e sei intorno Mercurio, per poter mantenere la rotta corretta per entrare in orbita intorno a Mercurio nel 2026.
Una curiosità: fa da colonna sonora alle spettacolari immagini l’opera musicale di Antonio Vivaldi Le quattro stagioni in onore del bacino Vivaldi, avvistato solo quattro minuti dopo l’avvicinamento di Mercurio.
Guarda il timelapse sul canale YouTube dell’Esa:
Internet veloce? Provate i modulatori plasmonici
Laurenz Kulmer, ricercatore dell’Eth di Zurigo che ha guidato gli esperimenti sui modulatori plasmonici per la comunicazione ottica iperveloce. Crediti: Eth
Se avete la fibra a casa, riuscirete a scaricare dati con una velocità fino a 1Gb al secondo. Per quasi qualunque navigazione o download domestico, in pratica, non dovrete aspettare quasi nulla. Immaginate ora, invece, di avere la capacità di scaricare dati fino a 400 Gb al secondo, e di poter raggiungere anche 1 Tb al secondo: per riuscirci servono particolari convertitori di segnale chiamati modulatori plasmonici, come hanno dimostrato alcuni ricercatori guidati da Laurenz Kulmer dell’Eth di Zurigo. Dispositivi che potrebbero risultare utilissimi nelle future comunicazioni spaziali. Kulmer presenterà questo risultato al Frontiers in Optics + Laser Science, che si terrà dal 23 al 26 settembre 2024 presso il Colorado Convention Center di Denver. Media Inaf l’ha intervistato per capire qualcosa di più di questa nuova frontiera della comunicazione ottica.
Un po’ come essere ai cento all’ora in tangenziale e venire superati da un razzo che sta lasciando l’atmosfera terrestre ai 400mila chilometri all’ora. Ma cosa sono questi modulatori plasmonici e come fanno ad essere così veloci?
«Le telecomunicazioni ottiche sono la spina dorsale di Internet come lo conosciamo: innumerevoli fibre che collegano i server di tutto il mondo in modo economico e ad alta velocità. Queste fibre trasmettono le informazioni sotto forma di luce. I modulatori in generale sono un elemento costitutivo delle telecomunicazioni ottiche. Sono necessari per trasferire il segnale digitale, ad esempio 0 e 1, su una lunghezza d’onda ottica. A causa di limitazioni fisiche, questi dispositivi sono solitamente lunghi diversi cm. I modulatori plasmonici sfruttano una proprietà fisica che consente di ridurre le dimensioni dei dispositivi al di sotto del micrometro. Grazie a questo design del dispositivo, è possibile raggiungere frequenze ultraelevate, dell’ordine di centinaia di GHz. Ciò significa che i modulatori plasmonici possono trasferire gli zeri e gli uni su una lunghezza d’onda ottica più velocemente di qualsiasi altra tecnologia di dispositivi fino a oggi. In questo modo, è possibile trasportare più informazioni per fibra. Abbiamo quindi esplorato queste proprietà nei sistemi di comunicazione ottica classici, sulla Terra, raggiungendo velocità superiori a 400 Gb al secondo».
E per quanto riguarda l’applicazione spaziale?
«Il canale ottico nello spazio libero offre proprietà uniche, come una minore non linearità rispetto ai sistemi basati sulle fibre. Ciò rende i modulatori plasmonici particolarmente interessanti per questo ambiente e per un futuro utilizzo nello spazio».
La tecnologia attuale consente già di costruire un prototipo per testare questo tipo di comunicazione nello spazio, ad esempio sulla Iss?
«Attualmente abbiamo parzialmente testato i nostri dispositivi con la tecnologia delle radiazioni (in inglese radiations technology, ndr) e la modalità a 4K con buoni risultati. Ciò consentirebbe di costruire un prototipo che in futuro potrebbe andare ad esempio sulla Iss. Tuttavia, prima di inviare il prototipo nello spazio, bisognerebbe testare l’intero imballaggio, i collegamenti e i componenti del sistema per il volo spaziale».
E per quanto riguarda i costi rispetto alla tecnologia attualmente in uso? Potrebbe fare un breve confronto tra le due?
«È difficile confrontare i prezzi, perché i modulatori plasmonici sono ancora oggetto di ricerca e non sono prodotti in serie rispetto ad altre tecnologie. Confrontando i prezzi della ricerca, attualmente i modulatori plasmonici non sono più costosi di altri modulatori ad alta velocità. In futuro, con l’aumento delle capacità produttive, si prevede che il costo dei modulatori diventerà più basso».
Lo zampino dell’energia oscura primordiale
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Secondo un nuovo studio, l’energia oscura potrebbe aver innescato la formazione di numerose galassie luminose molto presto nell’universo. La misteriosa forza ancora sconosciuta potrebbe aver fatto sì che i primi semi di galassie (raffigurati a sinistra) facessero germogliare molte più galassie luminose (a destra) di quanto previsto dalla teoria. Crediti: Josh Borrow/Thesan Team
Secondo un nuovo studio condotto da fisici del Mit e pubblicato la scorsa settimana sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’energia oscura primordiale potrebbe risolvere due dei più grandi enigmi della cosmologia moderna e colmare alcune importanti lacune nella nostra attuale comprensione di come si è evoluto l’universo. Uno degli enigmi in questione è la tensione di Hubble, una discrepanza nelle misurazioni della velocità di espansione dell’universo. L’altro riguarda le recenti osservazioni di numerose galassie luminose e particolarmente precoci, che esistevano già in un momento in cui l’universo sarebbe dovuto essere molto meno popolato.
L’energia oscura è una forma di energia ancora sconosciuta che si sospetta stia guidando l’espansione dell’universo. L’energia oscura primordiale – ipotizzano i ricercatori – è simile all’energia oscura ma nell’universo ha fatto solo una breve apparizione, influenzandone l’espansione nei suoi primi momenti, prima di scomparire del tutto. Sarebbe bastata questa breve capatina per giustificare la tensione di Hubble. Inoltre, parrebbe anche spiegare il numero eccezionalmente alto di galassie luminose osservate nell’universo primordiale.
In effetti, in base ai modelli cosmologici e di formazione delle galassie, l’universo avrebbe dovuto impiegare un certo tempo per far nascere le prime galassie, superiore a quanto riscontrato nelle osservazioni del James Webb Space Telescope (Jwst) che hanno invece rivelato un numero sorprendente alto di galassie luminose, grandi come la Via Lattea, nei primi 500 milioni di anni, quando l’universo aveva solo il 3% della sua età attuale.
Per i fisici, queste osservazioni implicano che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella fisica alla base dei modelli o un ingrediente mancante nell’universo primordiale di cui gli scienziati non hanno tenuto conto. Il team del Mit ha esplorato la possibilità di quest’ultima ipotesi, ipotizzando questa nuova forma di energia oscura, una sorta di forza antigravitazionale che si attiva solo in tempi molto precoci. Questa forza contrasterebbe l’attrazione della gravità e accelererebbe l’espansione primordiale dell’universo.
Poi, i ricercatori hanno considerato come l’energia oscura primordiale potrebbe influenzare la struttura iniziale dell’universo che ha dato origine alle prime galassie, concentrandosi sulla formazione degli aloni di materia oscura – regioni dello spazio in cui la gravità è più forte e dove la materia inizia ad accumularsi. «Crediamo che gli aloni di materia oscura siano lo scheletro invisibile dell’universo», spiega su Mit News Xuejian (Jacob) Shen, coautore dello studio. «Prima si formano le strutture di materia oscura e poi si formano le galassie all’interno di queste strutture. Quindi, ci aspettiamo che il numero di galassie luminose sia proporzionale al numero di grandi aloni di materia oscura».
Secondo gli autori, se l’energia oscura primordiale influisse sul tasso di espansione iniziale dell’universo – in modo tale da risolvere la tensione di Hubble – allora potrebbe influenzare l’equilibrio degli altri parametri cosmologici, in modo da aumentare il numero di galassie luminose che appaiono in tempi precoci. Per verificare la loro teoria, hanno incorporato un modello di energia oscura primordiale (lo stesso che risolve la tensione di Hubble) in un quadro empirico di formazione delle galassie, per vedere come le prime strutture di materia oscura si evolvono e danno origine alle prime galassie.
«Quello che dimostriamo è che la struttura dello scheletro dell’universo primordiale è alterata in modo sottile dove l’ampiezza delle fluttuazioni aumenta, e si ottengono aloni più grandi e galassie più luminose in tempi precedenti, rispetto ai nostri modelli più comuni», dice Rohan Naidu. «Significa che nell’universo primordiale le cose erano più abbondanti e più raggruppate».
«Abbiamo dimostrato il potenziale dell’energia oscura primordiale come soluzione ai due principali problemi della cosmologia. Se i risultati osservativi di Jwst venissero consolidati ulteriormente, potrebbe essere una prova della sua esistenza», conclude Mark Vogelsberger. «In futuro, potremo incorporarla in grandi simulazioni cosmologiche per vedere quali previsioni dettagliate otterremo».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Early galaxies and early dark energy: a unified solution to the Hubble tension and puzzles of massive bright galaxies revealed by JWST” di Xuejian Shen, Mark Vogelsberger, Michael Boylan-Kolchin, Sandro Tacchella e Rohan P Naidu
Spettacolo pirotecnico ai confini della Via Lattea
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Situata a 58mila anni luce dal centro galattico, dunque oltre il doppio più lontana di quanto non lo sia il Sistema solare, gli astronomi la chiamano Extreme Outer Galaxy. È la periferia della Via Lattea, la nostra galassia. Ed è lì in quella remota landa al confine con lo spazio intergalattico che il telescopio spaziale Webb, nel corso di una serie di osservazioni guidate da Mike Ressler del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, ha acquisito immagini con dettagli senza precedenti di due nubi molecolari note come Digel Cloud 1 e Digel Cloud 2.
Quest’immagine, ottenuta con Jwst, mostra la regione di formazione stellare nota come Nube di Digel 2S. Si notano giovani stelle appena formate e i loro estesi getti di materiale. Sullo sfondo, un mare di galassie e, all’interno della regione, qui rappresentate in tonalità rossastre, alcune strutture nebulose. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, M. Ressler (Jpl)
Avvalendosi della sensibilità e dell’elevata risoluzione delle sue due fotocamere di bordo – NirCam per il vicino infrarosso e Miri per il medio infrarosso – Webb è riuscito a immortalare, in alcune regioni all’interno delle due nubi molecolari, protostelle molto giovani (classificate come di classe 0), outflows, getti di materia e caratteristiche strutture nebulose. Alcune le vedete nell’immagine qui sopra, che mostra la regione di formazione stellare Digel Cloud 2S.
«Già eravamo a conoscenza dell’esistenza di queste regioni di formazione stellare, ma non eravamo in grado di approfondirne le proprietà», spiega il primo autore dello studio pubblicato nel luglio scorso su The Astronomical Journal, Natsuko Izumi, ricercatrice all’Università di Gifu e all’Naoj, l’Osservatorio astronomico nazionale del Giappone. «I dati di Webb si basano su ciò che abbiamo raccolto progressivamente nel corso degli anni grazie a osservazioni precedenti con diversi telescopi e osservatori. Con Webb possiamo ottenere immagini molto dettagliate e impressionanti di queste nubi. Nel caso della nube di Digel 2, in particolare, non mi aspettavo di vedere una formazione stellare così attiva e getti così spettacolari».
Pur trovandosi all’interno della nostra galassia, le nubi di Digel sono relativamente povere di elementi metallici, come gli astronomi chiamano quelli più pesanti dell’idrogeno e dell’elio. Un aspetto, questo, che le rende simili alle galassie nane, nonché alla Via Lattea primordiale. Webb ha osservato l’attività in corso in quattro ammassi di giovani stelle all’interno delle nubi di Digel 1 e 2: gli ammassi 1A, 1B, 2N e 2S. Per 2S, in particolare, Webb ha volto lo sguardo verso l’ammasso principale, contenente stelle giovani e appena formate. È un’area densa e molto attiva, popolata com’è di numerose stelle che emettono dai poli lunghi getti di materia. Le osservazioni condotte con Webb hanno anche consentito di confermare per la prima volta la presenza, all’interno della nube, di un sottoammasso per il quale si aveva fino a ora solo qualche indizio.
«Sappiamo dallo studio di altre regioni di formazione stellare vicine che, quando le stelle si formano, durante la fase iniziale della loro vita, iniziano a emettere getti di materia dai poli», dice Ressler, secondo autore dello studio e principal investigator del programma osservativo. «I nuovi dati di Webb mi hanno affascinato, e anche sorpreso, perché mostrano la presenza di getti multipli, in tutte le direzioni, originati da questo ammasso stellare. Una sorta di spettacolo pirotecnico, con oggetti che sparano ovunque».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “Overview Results of JWST Observations of Star-Forming Clusters in the Extreme Outer Galaxy”, di Natsuko Izumi, Michael E. Ressler, Ryan M. Lau, Patrick M. Koch, Masao Saito, Naoto Kobayashi e Chikako Yasui
La ricerca astrofisica italiana nel mondo
Lo stand Inaf all’Assemblea generale dell’Unione astronomica internazionale 2024 (Cape Town). Crediti: Inaf
L’Assemblea generale dell’Unione astronomica internazionale (Iau) si è conclusa a Città del Capo con il passaggio del testimone all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che avrà l’onore, e l’onere, di organizzare la prossima assemblea a Roma nell’agosto 2027. In effetti sono molteplici gli eventi astronomici di punta che si sono svolti o si svolgeranno in Italia. A luglio, la riunione annuale della European Astronomical Society ha richiamato a Padova quasi 1800 astrofisici. A ottobre a Milano ci sarà la 75esima International Astronautical Conference, alla quale sono attesi diecimila partecipanti. Poi, ad agosto 2026 a Firenze, è prevista l’assemblea generale del Cospar, il Comitato mondiale per la ricerca spaziale, dove si aspettano quattromila partecipanti. Un numero di presenze paragonabile è previsto l’anno successivo per l’assemblea generale della Iau a Roma.
Ospitare eventi così importanti a livello mondiale è un chiaro indicatore della stima che la comunità astrofisica italiana gode nel panorama internazionale. L’Italia si posiziona molto bene a livello mondiale nel panorama della ricerca astrofisica, da terra e dallo spazio, che vede la nostra comunità in prima fila in molti progetti importanti.
La ricerca astrofisica italiana sta vivendo un momento d’oro reso possibile, oltre che dall’impegno di tutta la comunità, anche dalle disponibilità di finanziamenti Pnrr che hanno permesso la partecipazione a grandi progetti internazionali in parallelo all’aggiornamento delle strutture osservative e della loro strumentazione insieme al potenziamento delle infrastrutture di calcolo.
Fare astrofisica oggi significa analizzare grandi quantità di dati, magari con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, e spesso facendo leva su simulazioni complesse volte a ricreare condizioni irripetibili nella storia dell’universo.
Per essere competitivi, occorre utilizzare la strumentazione esistente, a terra e nello spazio, ma anche costruirne di nuova, magari sviluppata grazie a idee innovative di una comunità molto vivace e apprezzata a livello mondiale.
Tre dei grandi progetti internazionali che vedono coinvolto l’Inaf. Da sinistra: Cta, Ska ed Elt
Dal momento che le informazioni arrivano da molti canali, occorre presidiare tutte le possibili emissioni celesti dalle onde radio, all’infrarosso, all’ottico, all’ultravioletto, ai raggi X e gamma, senza dimenticare le onde gravitazionali, i raggi cosmici ed i neutrini. Gli strumenti devono essere adattati a ogni intervallo di frequenza e ai diversi canali.
Inaf è socio fondatore dei grandi progetti internazionali che vogliono infrangere tutti i record precedenti in fatto di dimensioni e sensibilità. L’Extremely Large Telescope (Elt) in costruzione in Cile, nel deserto di Atacama, prevede uno specchio segmentato da 39 m di diametro che opererà all’interno di una struttura grande come il Colosseo che deve essere in grado di muoversi con precisione assoluta. Costruito dallo European Southern Observatory, vede l’Italia in prima linea nell’ingegneria e nella strumentazione per correggere la turbolenza atmosferica e ottenere immagini di nitidezza eccezionale. Per studiare le origini dell’universo, ma anche per cercare segnali di vita extraterrestre dai sistemi planetari vicini c’è lo Square Kilometre Array, il più potente osservatorio radio mai costruito, con una sezione in Sud Africa e una in Australia, luoghi tra i più radio quieti della Terra. Per seguire i fenomeni più energetici che avvengono nell’universo violento, Inaf è uno dei leader del Cherenkov Telescope Array, un grande osservatorio dedicato allo studio dei fotoni gamma più energetici prodotti dalle sorgenti celesti. Sarà formato da un centinaio di telescopi speciali posizionati in Cile e a La Palma per cogliere il lampo blu delle particelle figlie dei raggi gamma quando attraversano l’atmosfera. Ma Inaf è coinvolto anche nell’astronomia dallo spazio, nelle missioni di difesa planetarie oltre che in quelle che vanno ad esplorare i pianeti del sistema solare. La sonda Juice, che ha appena compiuto la manovra di doppio sorvolo della Luna e poi della Terra, ha moltissima Italia a bordo.
Un panorama esaltante con tanti progetti di successo che guarda al futuro con un po’ di apprensione. Cosa succederà dopo il Pnrr? Saremo in grado di tenere il passo? Riusciremo a fermare la fuga dei cervelli? Diventeremo attraenti per gli scienziati stranieri?
Guarda su MediaInaf Tv la playlist sui grandi progetti da terra e dallo spazio nei quali l’Inaf è coinvolto:
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Gerrei Astrofest, tre giorni di festival in Sardegna
Locandina del Gerrei Astrofest 2024 (cliccare per ingrandire)
Segnatevi le date: 20, 21 e 22 settembre 2024. Manca poco alla seconda edizione del Gerrei Astrofest, il festival astronomico che l’Inaf di Cagliari organizza nel territorio che ospita il Sardinia Radio Telescope. I centri di San Basilio e Silius saranno animati da tante attività a tema astronomico, tutte gratuite, con gran finale al Sardinia Radio Telescope. Non mancheranno le osservazioni con i telescopi ottici, le visite guidate e il buon cibo.
Il Gerrei è un’area montuosa della Sardegna meridionale, un territorio aspro e affascinante costellato di piccoli paesi al centro del quale, in località Pranu Sanguni, nel 2013 è stato inaugurato il Sardinia Radio Telescope (Srt), il grande radiotelescopio da 64 metri di diametro gestito dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
«Srt è un’infrastruttura tecnologica di grande impatto che viene finanziata con soldi pubblici come quelli della Regione autonoma della Sardegna», spiega la direttrice dell’Inaf di Cagliari Federica Govoni, «per cui abbiamo il dovere di valorizzare e aiutare a crescere i territori coinvolti da questo progetto. Anzitutto spiegando in modo chiaro il lavoro che svolgiamo e l’importanza che Srt riveste nella ricerca scientifica e tecnologica mondiale e, in secondo luogo, invitando le popolazioni e le istituzioni locali a proporci idee di sviluppo compatibili con la presenza del telescopio».
Il Gerrei Astrofest nasce da un’idea dell’astrofisica dell’Inaf Silvia Casu proprio con l’intento di affiancare i momenti di incontro più classici, come i laboratori tenuti nelle scuole o le visite al Sardinia Radio Telescope, con attività in grado di coinvolgere più da vicino la popolazione. «In questi undici anni, e anche da prima dell’inaugurazione di Srt», dice Casu, «l’obbiettivo costante dell’Inaf di Cagliari è stato dialogare con le istituzioni e con le comunità locali per diffondere il più possibile la cultura scientifica. Le visite guidate non bastano, ogni tanto occorre uscire dagli uffici e dalle sale controllo per portare la ricerca fin dentro le strade dei paesi vicini. Da quest’anno la nostra collaborazione con le scuole si arricchisce anche di un tassello finora mancante, ovvero un corso di formazione per insegnanti di tutto il Gerrei, che diventeranno così protagonisti della didattica e della divulgazione in ambito astrofisico senza bisogno di una nostra presenza costante. Questo dovrà avvenire prima o poi anche con le guide turistiche e ambientali che gravitano intorno a Srt».
Dopo la prima edizione del 2022 che aveva coinvolto il comune di San Basilio, che ospita il radiotelescopio, quest’anno è entrato nel partenariato anche il comune di Silius, affiancati dallo storico patrocinio del Gal Sole Grano Terra.
Osservazioni al telescopio a Pitzu Pranu, San Basilio. Crediti: Inaf
Ognuno dei tre giorni di eventi sarà dedicato a un luogo diverso. Si parte nel pomeriggio di venerdì 20 settembre a San Basilio con l’inaugurazione del festival alla presenza dei sindaci, seguita da una conferenza di Sergio Poppi, responsabile delle operazioni di Srt, e dalla presentazione del libro Oltre i bastioni della Via Lattea di Roberto Rampazzo e Valeria Zanini. La serata culminerà con l’osservazione del cielo dallo spettacolare rilievo di Pitzu Pranu, dove l’Associazione astrofili sardi metterà a disposizione del pubblico i propri telescopi.
«Il Gerrei si sta organizzando per accogliere molti visitatori», dice Albino Porru, sindaco di San Basilio, «soprattutto da Cagliari ma anche, perché no, da tutta la Sardegna e magari qualche turista ancora in giro in bassa stagione. Ci auguriamo una buona risposta di pubblico, perché vogliamo sperimentare eventi di questo genere per poterli migliorare negli anni e crescere in visibilità e offerta di servizi».
Sabato 21 sarà protagonista Silius con attività dedicate alle scuole, come il corso di formazione per insegnanti a cura di Silvia Casu (Inaf) e Alessia Zurru (Laboratorio Scienza), l’osservazione del Sole al telescopio a cura di Gian Luigi Deiana e una serie di mostre espositive e fotografiche a cura di Astrofili sardi, Associazione ogliastrina di astronomia e Gruppo di fotografia astronomica Sardegna (G.Fas) che al calar del sole condurrà le osservazioni con i telescopi ottici. Prima però ci sarà spazio per parlare anche di inquinamento luminoso con Emanuele Atzeni (G.Fas) e del tanto desiderato Einstein Telescope con il direttore del’Infn di Cagliari, Alessandro Cardini.
«La cosa positiva di un evento come il Gerrei Astrofest», dice soddisfatto il sindaco di Silius, Antonio Forci, «è che ha un ampio respiro in grado di favorire un leale spirito di collaborazione tra i piccoli centri di questa zona. Quest’anno ci sono Silius e San Basilio ma speriamo di allargare presto ad altri comuni per pensare ancora più in grande e proporci, almeno in certi periodi dell’anno, come territorio accogliente nel suo complesso».
Visite al Sardinia Radio Telescope. Crediti: Inaf
Domenica 22 il protagonista sarà il Sardinia Radio Telescope a Pranu Sanguni, che aprirà a visite straordinarie su prenotazione. Per i più avventurosi e salutisti è previsto anche un Astrotrekking a cura della Proloco di San Basilio che partirà alle 6 del mattino e, snodandosi tra gole selvagge, colazioni all’ovile e dolci pascoli, arriverà al radiotelescopio dopo circa tre ore di cammino, al termine delle quali ci sarà la visita guidata del sito. Chi invece non ha voglia o modo di alzarsi presto potrà prenotare la visita delle 11 o quella serale delle 17, che sarà seguita dalla presentazione del libro L’universo che sussurra di Sabrina Mugnos, dove l’autrice sarà presente e felice di rispondere alle domande del pubblico.
Durante il festival sarà possibile mangiare sul posto grazie alle ProLoco di San Basilio e di Silius, che collaboreranno fianco a fianco per offrire al pubblico un servizio di ristorazione rapida a base di prodotti locali. Chi invece vorrà gustare un tipico pranzo agrituristico potrà farlo prenotando presso la Fattoria Didattica Ra.Ro. di San Basilio.
Incastonate lungo tutti i tre giorni, non potranno mancare le attività proprie dell’Inaf di Cagliari come il Codymaze astrofisico di Silvia Casu, Silvia Leurini e Gian Luigi Deiana, il laboratorio didattico “Costruiamo Srt!” di Paolo Soletta, la mostra “Gatti e Cosmo” di Sabrina Milia, il Furgone Acchiappaonde di Francesco Gaudiomonte e tanti altri appuntamenti, anche a cura dell’Agenzia spaziale italiana, disponibili sul programma presente sul sito del festival, dove si potranno trovare anche tutti i recapiti necessari per prenotarsi.
Per saperne di più:
- Consulta il sito del festival
Nuovo, fiammante vulcano sulla superficie di Io
Venticinque anni dopo la missione della Nasa Galileo, le prime immagini ravvicinate di Io catturate dallo strumento JunoCam a bordo della missione Juno della Nasa documentano la presenza di un nuovo vulcano in una regione prima integra. Le immagini, presentate questa settimana all’Europlanet Science Congress (Epsc) di Berlino, mostrano colate laviche e depositi vulcanici che coprono un’area di circa 180 chilometri per 180 chilometri.
Confronto tra i dati di JunoCam del febbraio 2024 e le immagini della sonda Galileo della stessa area nel novembre 1997 (inserto in scala di grigi), che rivela una nuova caratteristica vulcanica sulla superficie della luna di Giove, Io. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss/Europlanet
Vulcani, su Io, ce ne sono tanti. La superficie, come potete vedere dall’immagine qui a fianc0, ne è letteralmente costellata. Io è infatti uno dei luoghi geologicamente più attivi del Sistema solare. Questa nuova galleria verso l’entroterra irrequieto di Io si trova appena a sud dell’equatore, proprio a fianco di un grande vulcano pre-esistente chiamato Kanehekili. Lo potete vedere nell’immagine sulla destra, mentre nell’inserto in bianco e nero potete vedere la stessa regione immortalata nel 1997 dalla sonda Galileo.
«Le nostre recenti immagini di JunoCam mostrano molti cambiamenti su Io, tra cui questa grande e complessa struttura vulcanica che sembra essersi formata dal nulla dopo il 1997», dice Michael Ravine, advanced projects manager di Malin Space Science Systems, che ha progettato, sviluppato e gestisce JunoCam per il progetto Juno della Nasa.
Sul lato orientale del vulcano (a destra nell’immagine) si nota una macchia rossa diffusa dovuta allo zolfo che è stato espulso dal vulcano nello spazio ed è ricaduto sulla superficie di Io. Sul lato occidentale invece sono eruttati due flussi scuri di lava, ciascuno dei quali si estende per un centinaio di chilometri. Nel punto più lontano delle colate, dove la lava si è accumulata, il calore ha fatto evaporare il materiale ghiacciato sulla superficie, generando due depositi circolari grigi sovrapposti.
L’immagine migliore ottenuta da JunoCam di questa struttura è stata scattata il 3 febbraio 2024 da una distanza di 2530 chilometri e con una scala di 1,7 chilometri per pixel. Le immagini sono state prese sul lato notturno di Io con l’illuminazione proveniente solo da Giove, durante uno dei tre sorvoli della sonda Juno fra il 2023 e il 2024, durante i quali JunoCam ha acquisito circa venti immagini a colori visibili ravvicinate.
Per saperne di più:
- Guarda tutti i dati di JunoCam pubblicati sul sito web della missione
- Leggi l’abstract della scoperta pubblicato sul sito web della conferenza Epsc che si sta svolgendo a Berlino dall’8 al 13 settembre
Conclusa la prima “passeggiata spaziale” di privati
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Crediti: SpaceX
È stata un completo successo la prima passeggiata spaziale di privati della storia: iniziata alle 12:12 ora italiana e conclusa circa due ore dopo, ha visto due membri dell’equipaggio della missione Polaris Dawn, il comandante Jared Isaacman e la specialista di missione Sarah Gillis, uscire all’esterno della navetta Crew Dragon di SpaceX per testare le nuove tute pressurizzate progettate dalla compagnia di Elon Musk e destinate a coloro che in futuro parteciperanno a missioni sulla Luna o su Marte. Dopo la procedura di depressurizzazione della cabina, il portello è stato aperto alle 12:49 e pochi minuti dopo Isaacman si è preparato a uscire dalla navetta, che si trovava a circa 700 chilometri di altitudine dalla Terra, 300 chilometri più in alto rispetto alla Stazione spaziale internazionale.
La sua “passeggiata” è durata circa dieci minuti, e poi è stato il turno di Gillis. Entrambi hanno eseguito una serie di movimenti per verificare il comportamento delle nuove tute, rimanendo agganciati alla navetta tramite cavi lunghi circa 3,5 metri che forniscono ossigeno, energia e comunicazioni.
Watch Dragon’s first spacewalk with the @PolarisProgram’s Polaris Dawn crew t.co/svdJRkGN7K— SpaceX (@SpaceX) September 12, 2024
Alle ore 13:17 entrambe le attività extraveicolari sono terminate e il portello è stato richiuso, permettendo l’avvio della procedura di ripressurizzazione della cabina. Anche la fase di controllo per eventuali perdite non ha evidenziato problemi. Per tutta la durata della passeggiata spaziale, il pilota di missione Kidd Poteet e la specialista di missione e ufficiale medico Anna Menon sono invece rimasti all’interno della Crew Dragon, monitorando i sistemi di supporto vitale.
Bolle sulla superficie d’una stella
Per la prima volta, alcuni astronomi hanno catturato le immagini di una stella diversa dal Sole con un dettaglio sufficiente a tracciare il movimento del gas che forma bolle sulla superficie. Le immagini della stella, R Doradus, sono state ottenute in luglio e agosto 2023 con Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), un telescopio di cui l’Eso (European Southern Observatory) è partner: mostrano gigantesche bolle di gas caldo, 75 volte più grandi del Sole, che appaiono sulla superficie e sprofondano di nuovo nell’interno della stella più velocemente del previsto.
Immagini dettagliate della superficie della stella R Doradus. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/W. Vlemmings et al.
«Per la prima volta la superficie ribollente di una vera stella può essere mostrata in questo modo», dice Wouter Vlemmings, professore alla Chalmers University of Technology, Svezia, e autore principale dello studio pubblicato oggi su Nature. «Non ci saremmo mai aspettati che i dati fossero di una qualità così alta da poter vedere così tanti dettagli della convezione sulla superficie della stella».
Le stelle producono energia nel proprio nucleo grazie alla fusione nucleare. Questa energia può essere trasportata verso la superficie della stella in enormi bolle di gas caldo che poi si raffreddano e affondano, come una lampada lava. Questo movimento di miscelazione, noto come convezione, distribuisce gli elementi pesanti formati nel nucleo, come carbonio e azoto, in tutta la stella. Si pensa anche che sia responsabile anche della formazione dei venti stellari che trasportano gli elementi nel cosmo per costruire nuove stelle e pianeti.
Finora i moti convettivi non erano mai stati tracciati in dettaglio in stelle diverse dal Sole. Utilizzando Alma, il team ha potuto ottenere nel corso di un mese immagini ad alta risoluzione della superficie di R Doradus. R Doradus è una stella gigante rossa, con un diametro di circa 350 volte quello del Sole, situata a circa 180 anni luce dalla Terra nella costellazione del Dorado. Le grandi dimensioni e la vicinanza alla Terra la rendono un bersaglio ideale per osservazioni dettagliate. Inoltre, la sua massa è simile a quella del Sole, il che significa che R Doradus è probabilmente abbastanza simile a come apparirà il nostro Sole tra cinque miliardi di anni, quando diventerà una gigante rossa.
«La convezione crea la splendida struttura granulare visibile sulla superficie del Sole, ma è difficile da vedere su altre stelle», aggiunge Theo Khouri, ricercatore alla Chalmers e coautore dello studio. «Con Alma, ora abbiamo potuto non solo vedere direttamente i granuli convettivi, con una dimensione 75 volte quella del Sole, ma anche misurarne per la prima volta la velocità».
I granuli di R Doradus sembrano muoversi con un ciclo di un mese, più velocemente di quanto gli scienziati si aspettassero in base al funzionamento della convezione nel Sole. «Non sappiamo ancora qual è la ragione di questa differenza. Sembra che la convezione cambi man mano che una stella invecchia in modi che ancora non comprendiamo», sostiene Vlemmings. Osservazioni come quelle effettuate ora su R Doradus ci aiutano a capire come si comportano stelle come il Sole, anche quando diventano fredde, grandi e ribollenti come R Doradus.
«È spettacolare pensare che ora possiamo visualizzare direttamente i dettagli sulla superficie di stelle così lontane e osservare una fisica che fino a oggi era osservabile praticamente solo per il Sole», conclude Behzad Bojnodi Arbab, studente di dottorato alla Chalmers, fra i coautori dello studio.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “One month convection timescale on the surface of a giant evolved star”, di Wouter Vlemmings, Theo Khouri, Behzad Bojnordi Arbab, Elvire De Beck e Matthias Maercker
Guarda il video sul canale YouTube dell’Eso:
Buchi neri supermassicci poco prima della fusione
Rappresentazione artistica di due buchi neri supermassicci attivi (Agn) che convivono al centro della galassia che si è formata dalla fusione delle loro galassie ospiti. Crediti: Nasa, Esa, Joseph Olmsted (Stsci)
Quando due galassie si fondono, che succede ai buchi neri supermassicci al loro centro? Si fondono anch’essi. Quelli che vedete nell’immagine qui a fianco (una rappresentazione artistica, cliccare per ingrandire) sono proprio loro: i due buchi neri attivi che si trovavano al centro delle loro rispettive galassie, e che ora convivono nel cuore di Mcg-03-34-64, la galassia ricca di gas che si è formata dalla fusione delle due. Si tratta della coppia di buchi neri supermassicci più vicini mai osservati, e si trovano ad appena 800 milioni di anni luce di distanza. L’avvistamento è stato pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal.
Cominciamo dalla prima immagine: la rappresentazione artistica, dicevamo, di una coppia di buchi neri attivi nel cuore di due galassie in fusione. Del tutto simili a quelli osservati con Hubble, prima, e nei raggi X con Chandra, poi. L’immagine di Hubble – quella che vedete qui sotto – ritrae una galassia al cui centro si notano tre picchi compatti e distinti, provenienti da sorgenti che emettono ossigeno ionizzato. Una struttura altamente inusuale, anche se si sta osservando una galassia attiva, o Agn, come nel caso di Mcg-03-34-64.
E, in effetti, di galassia attiva si tratta, solo che al suo centro non ci sarebbe solamente un buco nero che emette getti di plasma e materiale altamente energetico, bensì due. A circa 300 anni luce di distanza uno dall’altro, sono entrambi circondati da un disco di accrescimento di gas caldo, mentre parte del materiale entrante viene espulso lungo l’asse di rotazione di ciascun buco nero sotto forma di getti energetici che sfrecciano nello spazio quasi alla velocità della luce, formando intensi fasci di energia. Sarebbe proprio il materiale che vortica e cade al loro interno a farli brillare come nuclei galattici attivi e ad averli resi visibili agli occhi di Hubble.
Immagine in luce visibile del telescopio spaziale Hubble della galassia Mcg-03-34-064. La vista acuta di Hubble rivela tre distinti punti luminosi incastonati in un’ellisse bianca al centro della galassia (espansa nell’immagine in alto a destra). Due di questi punti luminosi sono la fonte di una forte emissione di raggi X, proveniente da buchi neri supermassicci. I buchi neri brillano perché stanno convertendo la materia entrante in energia e sono definiti nuclei galattici attivi. La loro distanza è di circa 300 anni luce. Il terzo punto è una chiazza di gas luminoso, ma la sua natura non è del tutto chiara. Crediti: Nasa, Esa, Anna Trindade Falcão (Cfa); Image Processing: Joseph DePasquale (Stsci)
Sistemi binari simili dovevano essere più comuni nell’universo primordiale, quando le fusioni di galassie erano più frequenti. Questo esempio così vicino, invece, è una rarità. Per questo, dopo aver osservato con Hubble questo triplo picco di emissione corrispondente a una grande concentrazione di gas ossigeno incandescente al centro della galassia, i ricercatori hanno cercato di capire meglio di che cosa si trattasse osservando l’oggetto ai raggi X con il telescopio spaziale Chandra della Nasa.
«Quando abbiamo osservato Mcg-03-34-64 nella banda dei raggi X, abbiamo visto due sorgenti separate e potenti di emissione ad alta energia che coincidevano con i punti luminosi ottici visti con Hubble», spiega Anna Trindade Falcão, ricercatrice al Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian di Cambridge, Massachusetts, e prima autrice dell’articolo. «Abbiamo messo insieme questi pezzi e abbiamo concluso che probabilmente stavamo osservando due buchi neri supermassicci strettamente distanziati».
Tre picchi, dicevamo. Due corrispondono ai due buchi neri, mentre il terzo non si sa. Potrebbe trattarsi di gas scosso dall’energia di un getto di plasma ad altissima velocità sparato da uno dei buchi neri, ma sono solo ipotesi. I ricercatori dicono che saranno necessarie osservazioni più dettagliate per comprendere meglio di che si tratta.
I due buchi neri supermassicci erano un tempo al centro delle rispettive galassie ospiti, che si sono fuse. Anche il loro destino sarà quello di fondersi. Continueranno ad avvicinarsi a spirale fino a incontrarsi, forse tra cento milioni di anni, facendo vibrare il tessuto dello spazio e del tempo sotto forma di onde gravitazionali.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Resolving a Candidate Dual Active Galactic Nucleus with ∼100 pc Separation in MCG-03-34-64“, di Anna Trindade Falcão, T. J. Turner, S. B. Kraemer, J. Reeves, V. Braito, H. R. Schmitt e L. Feuillet
La rivincita delle stelle M
Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile orbitante attorno a una stella M. Crediti: ESO/M. Kornmesser.
La ricerca esoplanetaria si è evoluta tantissimo negli ultimi trent’anni, tanto che oggi non si cerca più soltanto di individuare nuovi pianeti, ma anche di caratterizzare quelli che conosciamo già, studiando la storia evolutiva della loro stella e analizzando più a fondo l’ambiente circumstellare in cui si muovono. Si scopre così che anche alcune stelle generalmente considerate non adatte a originare la vita come la conosciamo, potrebbero esserlo state in passato, quando erano più giovani. È quanto accade alle stelle di tipo M, secondo uno studio pubblicato in agosto su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e guidato da Riccardo Spinelli dell’Inaf di Palermo, in collaborazione con l’Inaf di Brera (Merate), l’Università dell’Insubria e l’Infn sezione Milano-Bicocca. Un risultato che suona come una rivincita per questa classe di stelle, che costituiscono ben il 75 per cento delle stelle nella nostra Galassia, e che sono state spesso considerate ben poco ospitali per i pianeti che le accompagnano.
In una prima e lunga fase, cercare condizioni di abitabilità attorno a stelle diverse dal Sole coincideva con l’individuazione di pianeti in orbita all’interno della cosiddetta zona abitabile, una regione attorno alla stella all’interno della quale un pianeta potrebbe avere una temperatura adatta alla presenza di acqua liquida sulla sua superficie, elemento considerato fondamentale per la vita che osserviamo intorno a noi. Qualunque pianeta venisse scoperto orbitare attorno a una stella in questa zona veniva quindi classificato come “potenzialmente abitabile”. Dal punto di vista osservativo, cercare pianeti in queste condizioni si è rivelato particolarmente promettente attorno a stelle di tipo M, un po’ più piccole e più fredde del Sole, con un’età superiore a 3 miliardi di anni.
Ma l’abitabilità di un pianeta dipende anche da tanti altri fattori, come la presenza e la composizione della sua atmosfera, la sua attività geologica e persino l’emissione ultravioletta che riceve della stella madre.
«L’effetto della radiazione ultravioletta può essere sia positivo che negativo per la vita come la conosciamo», spiega a Media Inaf Riccardo Spinelli, dell’Inaf di Palermo e primo autore, «Diversi esperimenti hanno mostrato che una dose minima di radiazione ultravioletta sembra essere necessaria per la sintesi in soluzione acquosa di alcuni precursori dell’acido ribonucleico (Rna), una molecola fondamentale per la vita, mentre una dose troppo alta è negativa perché distrugge molte biomolecole. Partendo da questi presupposti si può definire una zona attorno alle stelle dove un pianeta può ricevere un flusso ultravioletto sufficiente per innescare la sintesi dei mattoni fondamentali della vita, ma non troppo alto da distruggerli».
Riccardo Spinelli, ricercatore nella sede di Palermo dell’Inaf
Un delicato equilibrio cosmico a cui contribuiscono diversi fattori, dunque. L’esistenza di una zona di abitabilità ultravioletta, come si intuisce dalle parole del ricercatore, era già stata oggetto di un articolo pubblicato lo scorso anno dallo stesso autore, che prosegue: «In un precedente articolo eravamo giunti alla conclusione che i pianeti attualmente scoperti attorno alle stelle M nella zona abitabile “classica” non ricevono abbastanza radiazione ultravioletta dalle loro stelle per innescare la formazione dell’Rna».
Un bias osservativo, diremmo in gergo, poichè le stelle M con pianeti in zona abitabile che conosciamo oggi sono stelle vecchie, con età superiore a 3 miliardi di anni. Oggi quindi la loro luminosità ultravioletta è troppo debole per poter innescare la formazione di alcuni mattoni fondamentali della vita come la conosciamo. Questo ha portato a pensare che la maggior parte delle stelle nella nostra Galassia non sia adatta a sviluppare la vita secondo una chimica che prevede una giusta dose di radiazione ultravioletta.
Ma le stelle non sono immutabili, evolvono nel tempo e – in generale – subiscono un processo di raffreddamento che porta a una progressiva diminuzione della loro luminosità. È possibile, dunque, che durante i primi miliardi di vita, quando sono generalmente più luminose in ultravioletto, le stelle M riescano a irraggiare i pianeti nella zona abitabile con una dose sufficiente di radiazione ultravioletta? È quello che si sono chiesti Spinelli e il suo team di ricerca. «Abbiamo ricostruito l’evoluzione dell’emissione ultravioletta delle stelle M in esame – prosegue il ricercatore – trovando che in passato erano più luminose in banda ultravioletta e dunque la loro zona abitabile ultravioletta era più esterna rispetto a quella odierna».
In altre parole, quando una stella M è più giovane, ovvero nei suoi primi tre miliardi di anni di vita, la zona abitabile e la zona abitabile ultravioletta si intersecano, consentendo delle condizioni potenzialmente adatte all’origine e alla presenza di biomolecole. Ciò suggerisce che le condizioni per innescare la vita possono essere state molto comuni nella nostra galassia, anche se a tempi e per durate diverse a seconda della tipologia di stelle. Rimangono escluse da questo ragionamento – precisano i ricercatori – le stelle M più fredde, ovvero quelle con una temperatura efficace minore di circa 2500 gradi Celsius.
Lo studio si è basato sui dati raccolti dal telescopio spaziale Swift della Nasa, che osserva nella banda ultravioletta mediante il suo UltraViolet Optical Telescope (Uvot), e sulle osservazioni ottenute con il satellite Galex che hanno permesso agli autori di ricostruire un’evoluzione media della luminosità ultravioletta per ogni tipo di stella presa in esame. «Questo ci ha consentito di stimare a ogni tempo l’evoluzione della zona ultravioletta abitabile per ogni stella presente nel nostro campione e le possibili intersezioni nel passato e nel futuro con la zona abitabile “classica”» conclude Spinelli, «Come per Proxima Centauri, la stella a noi più vicina. Abbiamo stimato un’intersezione tra le due zone che può essere durata dai 200 milioni ai 3 miliardi di anni a seconda della composizione atmosferica del pianeta potenzialmente abitabile, una durata molto più lunga rispetto ad altre stelle M simili.»
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “The time evolution of the ultraviolet habitable zone” di R. Spinelli , F. Borsa , G. Ghirlanda , G. Ghisellini , F. Haardt , F. Rigamonti.
A gonfie vele, ma solari
Dopo oltre quattro mesi di volo in orbita attorno alla Terra, è stata pubblicata sul social media X (precedentemente Twitter) della Nasa l’immagine della nuova vela solare, scattata dal suo sistema satellitare di ancoraggio. Si tratta di una tecnologia innovativa e rivoluzionaria progettata dall’agenzia americana che permette di sfruttare la pressione della luce solare per la propulsione di veicoli spaziali, senza la necessità di utilizzare il solito combustibile. Il dispiegamento della vela solare è avvenuto con successo il 29 agosto scorso, mentre è di ieri la pubblicazione dell’immagine del primo avvistamento da terra, avvenuto il 2 settembre scorso da Arlington, in Virginia.
La vela solare nella prima foto scattata dal satellite al quale è ancorata. Nella parte inferiore dell’immagine si vede la superficie brillante dei 4 quadranti in cui è suddivisa la vela. Crediti: Nasa, via X
Da non confondere con i pannelli solari, la vela solare in questione fa parte del progetto Advanced Composite Solar Sail System (Acs3), un’iniziativa mirata a sviluppare tecnologie che possano ridurre i costi e aumentare l’efficienza delle future missioni spaziali, consentendo ai piccoli veicoli spaziali di “navigare con la luce del Sole”.
Le vele solari funzionano, infatti, in modo simile a una barca a vela: invece del vento, però, sfruttano la pressione esercitata dai fotoni della luce solare. L’Acs3 rappresenta una delle più avanzate tecnologie nel campo della propulsione spaziale e si basa su strutture dispiegabili e materiali compositi innovativi, capaci di offrire leggerezza e resistenza. Una delle caratteristiche più affascinanti della tecnologia è l’utilizzo di bracci compositi realizzati con polimeri rinforzati in fibra di carbonio che, dopo essere stati avvolti e stivati in modo compatto, vengono dispiegati nello spazio mantenendo robustezza e leggerezza. Inoltre, l’Acs3 utilizza un particolare sistema di “estrazione a nastro” per evitare inceppamenti durante il dispiegamento dei bracci della vela. Questo sistema potrebbe aprire nuove possibilità per missioni di lunga durata nello spazio profondo, eliminando la dipendenza da propellenti chimici o elettrici per i razzi.
Nella fotografia condivisa pubblicamente si può osservare la superficie estremamente brillante della vela solare, divisa in quadranti, e cinque indicatori luminosi alla base delle strutture portanti, che confermano la completa estensione della vela stessa. Sebbene l’immagine possa sembrare difficile da interpretare, la Nasa ha chiarito che il veicolo spaziale sta ancora effettuando rotazioni lente nello spazio. Questo comportamento è stato intenzionalmente lasciato senza controllo per raccogliere dati sul comportamento del satellite una volta dispiegata la vela.
Ingegneri del Langley Research Center della NASA testano il dispiegamento della vela solare dell’Advanced Composite Solar Sail System. La vela solare spiegata misura circa 9 metri di lato. Poiché la pressione della radiazione solare è piccola, la vela solare deve essere grande per generare una spinta propulsiva efficiente. Crediti: Nasa
Lanciata a fine aprile di quest’anno, la vela solare dispiegata con Asc3 è solo un prototipo, ma i dati raccolti guideranno lo sviluppo di vele più grandi e potenti per future missioni spaziali. La Nasa prevede che questa tecnologia potrebbe essere utilizzata per missioni di monitoraggio del meteo spaziale, per la ricognizione di asteroidi vicini alla Terra o come ripetitore di comunicazione durante missioni con equipaggio.
Il vantaggio principale delle vele solari è che, una volta dispiegate, possono continuare a funzionare indefinitamente, a condizione che i materiali e i sistemi elettronici a bordo restino operativi. Ciò le rende ideali per missioni di lunga durata, riducendo drasticamente i costi legati al carburante e aumentando l’efficienza complessiva delle missioni spaziali.
Infine, per consentire a tutti di “vedere” la vela solare nel cielo, la Nasa ha ideato una campagna divulgativa #SpotTheSail che consente, usando un’applicazione scaricata sulle piattaforme mobili, di scoprire quando la navicella sarà visibile. L’applicazione, gratuita e disponibile su iOS e Android, fornisce un calendario specifico delle prossime opportunità di avvistamento e uno strumento integrato di realtà aumentata che indica agli utenti la posizione del veicolo spaziale in tempo reale.
Per saperne di più:
- Scopri il progetto della Nasa Advanced Composite Solar Sail System
- Guarda il video del progetto della Nasa per la vela solare
- Partecipa alla campagna divulgativa #SpotTheSail e avvista la vela solare nel cielo notturno
Majis conferma: la Terra è abitabile
Una serie di 7 osservazioni effettuate in successione da Majis (su un totale di 19) acquisite durante il flyby della Terra il 20 agosto. La prima immagine rappresenta l’osservazione del lato notturno e termina con la parte diurna della Terra, corrispondente all’attraversamento del terminatore. Le variazioni di colore sono dovute alla presenza di nuvole e alle condizioni di illuminazione sopra l’Oceano Pacifico. La dimensione del pixel è compresa tra 1,3 e 1,5 km. Su alcune immagini (numero 4, 5 e 7) è stata applicata una selezione spaziale (una capacità molto utile dello strumento) per monitorare il potenziale segnale di luce parassita nei pixel fuori campo dello strumento (colonne scure). Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)
Durante lo storico flyby del 19 e 20 agosto 2024, la missione Juice dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha puntato i suoi strumenti verso il sistema Terra-Luna, un’occasione unica per raccogliere dati scientifici e calibrare i sensori a bordo. Tra gli strumenti utilizzati, lo spettrometro franco-italiano Majis ha dimostrato le sue straordinarie capacità, svelando dettagli senza precedenti sulla riflettanza e l’emissione termica della superficie lunare, acquisendo immagini della Terra con una risoluzione spaziale e spettrale eccezionale, e confermando che il nostro pianeta è abitabile. Queste osservazioni rappresentano un traguardo fondamentale verso la futura esplorazione del sistema gioviano, soprattutto perché Majis (insieme agli altri 9 strumenti a bordo di Juice) potrebbe scovare – nelle sottili atmosfere e sulle superfici ghiacciate dei satelliti galileiani – elementi alla base della vita come la conosciamo dando nuovo slancio al filone di ricerca che si occupa dei mondi potenzialmente abitabili.
Il Moons and Jupiter Imaging Spectrometer (Majis) a bordo di Juice, è stato realizzato grazie a due importanti contributi da parte della Francia e dell’Italia attraverso il supporto delle rispettive agenzie spaziali, Centre National d’études Spatiales (Cnes) e Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Il principale contributo scientifico e la responsabilità sono affidate all’Institut d’Astrophysique Spatiale (Ias) d’Orsay e all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).
Giuseppe Piccioni, Co-Principal Investigator dello strumento Majis per l’Inaf di Roma, commenta: «Dopo tanti anni di lavoro di preparazione e sviluppo di uno strumento spaziale, è sempre una bellissima emozione vedere i primi risultati di tanto sforzo. In un viaggio lungo come quello della missione Juice – oltre 8 anni solo per arrivare a Giove – i flyby di Terra, Luna e Venere, offrono delle ghiotte occasioni per verificare le prestazioni e le calibrazioni degli strumenti, in particolare per Majis».
Majis non si limita solo a fornire immagini; lo strumento è anche in grado di rilevare la presenza di elementi fondamentali per la vita sia nelle atmosfere che sulle superfici di corpi celesti. Durante il flyby del 20 agosto, Majis ha verificato questa capacità analizzando l’atmosfera terrestre, confermando la presenza di elementi adatti allo sviluppo della vita e con molta probabilità che sia effettivamente abitata.
Lo strumento Majis analizzerà le sottili atmosfere e i ghiacci sulle superfici di alcune delle sue lune. Le sue misurazioni sulla Terra stanno aiutando a preparare lo strumento per la massima efficienza scientifica su Giove dando anche un assaggio di ciò che Juice può fare in termini di identificazione di diverse molecole in un’atmosfera. In questo grafico, alcune degli elementi chimici identificati sulla Terra. Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)
«Queste potenzialità – dice Piccioni – si rivelano fondamentali per la missione Juice, che esplorerà anche le lune ghiacciate di Giove, alla ricerca di ambienti potenzialmente abitabili. Le osservazioni di Terra e Luna effettuate durante il sorvolo di Juice hanno costituito la migliore opportunità per mettere alla prova le prestazioni e la calibrazione di Majis con bersagli estesi, simili per dimensioni a quelli che si prevede di incontrare su Giove durante la missione nominale. D’altra parte, Luna e Terra sono oggetti molto luminosi, il che richiede l’uso di modalità di osservazione speciali per evitare la saturazione dei rilevatori, un’altra importante prova della versatilità dello strumento Majis».
Majis è uno spettrometro a mappatura che opera nella finestra di lunghezze d’onda comprese tra 0,5 e 5,56 micrometri (milionesimi di metro) con una risoluzione di 150 metri da una distanza di 1000 km, in grado di fornire uno spettro con 1016 “colori” indipendenti del bersaglio osservato. Parte di questi colori rientra nello spettro visibile, ma la maggior parte si trova nell’infrarosso, una parte della radiazione non visibile all’occhio umano. Questo spettro consente di determinare la composizione e le proprietà fisiche del bersaglio osservato. Tutte queste caratteristiche rendono Majis uno strumento ideale per produrre mappe dettagliate della composizione superficiale dei satelliti galileiani e delle loro esosfere, oltre che per identificare le proprietà chimico-fisiche dell’atmosfera di Giove (l’obiettivo scientifico della missione Juice).
Piccioni sottolinea che «la qualità dei dati forniti da Majis è sorprendente, superiore alle più rosee previsioni, e questo apre un’ottima aspettativa per le osservazioni che verranno in futuro. Non sappiamo ancora se sarà possibile, ma il flyby di Venere potrebbe darci un’altra occasione unica per fare altre osservazioni e verificare la calibrazione dello strumento, oltre a fornirci importanti informazioni scientifiche del nostro pianeta gemello».
Piattaforma della sonda spaziale Juice inclusa la testa ottica Majis fotografata dalla Juice Monitoring Camera durante il flyby della Luna il 19 agosto 2024. Crediti: Esa
«Oltre alla calibrazione – prosegue il ricercatore – le osservazioni durante il sorvolo offrono un importante contenuto scientifico. Majis ha fornito una copertura locale della superficie lunare con un dettaglio fino a circa 130 metri, dal visibile all’infrarosso termico. È stato possibile, ad esempio, confermare le prestazioni radiometriche dello strumento e identificare l’emissione termica e le radiazioni di riflettanza dovute ai mari lunari (o anche detti maria) e agli altopiani lunari».
Pur essendo molto simili a quelle che verranno effettuate attorno a Giove, le osservazioni effettuate da Majis nel sistema Terra-Luna sono state più impegnative: il flusso luminoso di Terra e Luna è molto più intenso rispetto a Giove, per la diversa distanza dal Sole; per evitare di saturare lo strumento, sono stati usati tempi di esposizione brevi e gestite condizioni termiche difficili, poiché MAJIS opera a -150°C per rilevare segnali deboli nell’infrarosso.
Le osservazioni della Terra effettuate durante il sorvolo sono composte da una serie di cubi di immagini acquisiti con risoluzioni spaziali dell’ordine del chilometro e risoluzione spettrale fino a 3,6 nanometri, coprendo una gamma di diverse geometrie di visione e illuminazione solare (dal lato notturno al lato diurno). Il procedimento di elaborazione ha poi previsto la creazione di un set di maschere per distinguere tra le diverse composizioni atmosferiche, utilizzando caratteristiche di riflettanza forti e consistenti specifiche delle singole topografie. MAJIS misura anche l’emissione termica, offrendo una vista spettacolare del lato notturno.
L’Oceano Pacifico visto da Majis il 20 agosto alle 21:36 da una distanza di 8700 km a tre lunghezze d’onda selezionate per migliorare la variabilità della scena e la composizione. L’immagine 3 è stata acquisita nella lunghezza d’onda dell’infrarosso termico, che fornisce una mappa delle temperature della regione. Le macchie scure corrispondono a temperature più basse. Crediti: Esa/Juice/Majisteam (Ias, Inaf, Cnes, Asi, Esa e altri partner internazionali)
Questo e molto altro ci regalerà la missione Juice all’arrivo nel sistema gioviano. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Space Science Reviews, dal titolo “Characterization of the Surfaces and Near-Surface Atmospheres of Ganymede, Europa and Callisto by Juice” e guidato da Federico Tosi dell’Inaf di Roma, esplora lo stato attuale della ricerca sulle superfici e le sottili atmosfere dei satelliti ghiacciati di Giove – Ganimede, Europa e Callisto – basandosi su dati raccolti da missioni spaziali e osservazioni telescopiche. La missione Juice dell’Esa giocherà, infatti, un ruolo chiave nell’approfondire la conoscenza di queste lune, studiandone la geologia, la composizione superficiale e i processi atmosferici, tra cui le misteriose emissioni di vapore d’acqua su Europa. L’articolo presenta anche mappe e misurazioni previste per ottimizzare le future osservazioni di Juice.
A Silvia Tosi il premio SIF 2024
Silvia Tosi durante la cerimonia di premiazione
Sono iniziati questa mattina, 9 settembre, i lavori del centodecimo Congresso Nazionale della Società italiana di Fisica, che si terrà a Bologna fino a venerdì 13 settembre prossimo presso la sede dell’Università del nuovo Distretto Navile. La cerimonia di inaugurazione, che ha avuto luogo poche ore fa presso la Sala Bolognini del Complesso di San Domenico ha visto tra i protagonisti anche Silvia Tosi, a cui è stato conferito il Premio “Carlo Castagnoli” di operosità scientifica, destinato a giovani laureati in Fisica dopo il Maggio 2021.
Silvia Tosi si è laureata nell’anno accademico 2020/21 presso l’Università di Roma Tre con la supervisione di Paolo Ventura e Flavia Dell’Agli, dell’Inaf di Roma. La sua tesi magistrale, premiata oggi dalla Società italiana di Fisica, si intitola “Formazione di polvere negli inviluppi di stelle evolute della Galassia”, ed è proprio sulle stelle più anziane che si concentra il lavoro di ricerca di Silvia. La sua tesi di Dottorato, che sta svolgendo presso l’Osservatorio Astronomico di Roma dell’Inaf, sempre sotto la supervisione di Paolo Ventura e Flavia Dell’Agli, riguarda gli stadi finali di vita delle stelle, in particolare la transizione tra il ramo asintotico e la fase di nebulosa planetaria.
Il lavoro di Silvia ha già colpito l’attenzione della comunità scientifica, e non è la prima volta che le sue ricerche ottengono dei riconoscimenti ufficiali. Già a settembre 2023, infatti, durante il Simposio IAU dedicato alle Nebulose Planetarie, le era stato assegnato un premio come giovane astronoma che aveva presentato il lavoro più interessante e originale. Ultimamente si è occupata dello studio delle nebulose planetarie della Grande Nube di Magellano, con un articolo che uscirà a breve sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
«Ricevere questo premio per me è motivo di grande felicità», ci racconta Silvia Tosi. «Impegno, passione e dedizione sono gli elementi con cui affronto le molteplici sfide che la ricerca scientifica mi pone davanti Ringrazio di cuore il mio team e i miei cari che mi hanno sempre supportato e aiutato dentro e fuori l’ambito scientifico».
Una “rapina cosmica” nell’ammasso dell’Idra
L’ammasso di galassie dell’Idra (Hydra I) immortalato con il Vst. Nell’immagine spicca la galassia Ngc 3312, nella parte inferiore sulla sinistra: si tratta di una galassia a spirale che sta perdendo parte del proprio gas mentre attraversa il mezzo diffuso che pervade l’ammasso. Le due sorgenti luminose a sinistra e in basso, sono stelle della Via Lattea riprese nell’immagine per un effetto di prospettiva (cliccare per ingrandire). Crediti: Eso/Inaf/M. Spavone, E. Iodice
Gli ammassi galattici, formati da centinaia di galassie oltre a enormi quantità di plasma caldissimo e della invisibile materia oscura, sono le strutture cosmiche più grandi tenute insieme dalla gravità. Si trovano nei nodi più densi della “ragnatela cosmica” che pervade l’Universo e sono luoghi tutt’altro che tranquilli: al loro interno, le galassie si scontrano e interagiscono tra di loro, spesso in maniera turbolenta, regalando immagini spettacolari ai telescopi che scrutano le profondità del cielo.
È il caso dell’ammasso di galassie dell’Idra (Hydra I), a oltre 160 milioni di anni luce da noi, nel quale un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha svelato deboli strutture mai viste prima nella luce diffusa che permea lo spazio tra le galassie. Questi dettagli permettono di ricostruire la travolgente storia dell’ammasso. Il lavoro è stato possibile grazie a immagini profonde e ad alta risoluzione ottenute con il telescopio italiano Vst (Vlt Survey Telescope), situato presso l’Osservatorio di Paranal dello European Southern Observatory (Eso) sulle Ande cilene e dal 2022 gestito interamente da Inaf.
Nell’immagine realizzata dal Vst spicca Ngc 3312, la più grande galassia a spirale dell’ammasso dell’Idra, nella parte bassa dell’immagine. La sua forma, che ricorda vagamente quella di una medusa con una serie di tentacoli, segnala un “furto cosmico” in atto: l’ammasso sta letteralmente “rubando” il gas dalle regioni più esterne della galassia. Questo fenomeno avviene quando una galassia attraversa un fluido denso, come il gas caldo sparso tra le galassie di un ammasso: la frizione del gas caldo contro quello più freddo alla periferia della galassia provoca la fuoriuscita di quest’ultimo, che va ad aggiungersi al materiale .
Dettaglio sulla galassia a spirale Ngc 3312, la cui forma simile a quella di una medusa tradisce il fenomeno di ram pressure stripping, attraverso il quale il gas freddo delle regioni periferiche della galassia fuoriesce a causa della frizione con il gas, più caldo, che pervade l’ammasso. Crediti: Eso/Inaf/M. Spavone, E. Iodice
Il nuovo studio ha analizzato in dettaglio le strutture più fioche all’interno dell’ammasso, in particolare nella cosiddetta luce intra-ammasso (in inglese, intracluster light), una componente diffusa che pervade lo spazio intergalattico, prodotta da stelle che sono state anche in questo caso “sottratte” ad alcune delle galassie dell’ammasso mentre interagivano con le loro compagne. I risultati sono in corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy and Astrophysics.
«La nostra analisi fotometrica dell’ammasso di galassie dell’Idra permette di ricostruire la sua storia di formazione ed evoluzione e di capire quale dei possibili scenari di formazione abbia formato la luce diffusa in questo particolare ammasso» spiega Marilena Spavone, ricercatrice Inaf a Napoli e prima autrice del lavoro. «Le simulazioni forniscono diverse previsioni per spiegare la formazione della luce intra-ammasso negli ambienti densi degli ammassi di galassie, e per collegare la quantità di luce diffusa osservata alla fase evolutiva di un ammasso».
Per determinare in che fase evolutiva si trova l’ammasso, il team ha analizzato la distribuzione di luce di tutte le sue galassie per poter “isolare” la luce diffusa. In questo modo, è stato possibile stimare la quantità di luce intra-ammasso e studiare le strutture dovute alle interazioni tra galassie, come ad esempio le code mareali o i tentacoli di medusa osservati nella galassia Ngc 3312.
«Secondo la nostra analisi, l’ammasso dell’Idra presenta tre diverse regioni che mostrano sovradensità di galassie, e diverse strutture nel mezzo diffuso, oltre a grandi aloni stellari intorno alle galassie più brillanti», aggiunge la coautrice Enrichetta Iodice, ricercatrice Inaf a Napoli e responsabile del Centro italiano di coordinamento per Vst. «Tutti questi indizi mostrano che si tratta di un ammasso ancora in fase di evoluzione».
Le osservazioni dell’ammasso sono state raccolte nell’ambito del progetto Vegas (Vst Early-Type Galaxy Survey), un censimento cosmico ottimizzato per studiare le galassie sfruttando il grande campo di vista e la risoluzione di OmegaCam, la potente fotocamera del Vst. Questa fotocamera è un vero e proprio “grandangolo cosmico” in grado di osservare una porzione di cielo di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area apparente della Luna piena. Questi dati offrono un’anteprima delle osservazioni che saranno realizzate, con profondità e una risoluzione comparabili ma su porzioni del cielo ancora più grandi, dal satellite Esa Euclid, lanciato lo scorso anno, e dalla Legacy Survey of Space and Time (Lsst) dell’osservatorio Vera C. Rubin, attualmente in costruzione in Cile.
Guarda il video sul canale YouTube dell’Eso:
youtube.com/embed/BinKfUBRugY?…
Per saperne di più:
- Leggi la news sulla Picture of the week sul sito Eso
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Galaxy populations in the Hydra I cluster from the VEGAS survey III. The realm of low surface brightness features and intra-cluster light”, di Marilena Spavone, Enrichetta Iodice, Felipe S. Lohmann, Magda Arnaboldi, Michael Hilker, Antonio La Marca, Rosa Calvi, Michele Cantiello, Enrico M. Corsini, Giuseppe D’Ago, Duncan A. Forbes, Marco Mirabile e Marina Rejkuba
Ascoltando il “chirp” d’una supernova che collassa
È opinione comune che l’attuale generazione di rivelatori di onde gravitazionali Ligo-Virgo-Kagra (Lvk) possa rilevare le supernove da collasso gravitazionale del nucleo (Cc-Sne) all’interno della Via Lattea e comunque non oltre i suoi dintorni. Una nuova ricerca mostra che Lvk potrebbe rilevare le Cc-Sne più energetiche fino a distanze mille volte maggiori, fino all’ammasso della Vergine e oltre. Questa nuova prospettiva è stata recentemente presentata al convegno internazionale Cospar 2024 ed è riportata oggi su The Astrophysical Journal Letters.
media.inaf.it/wp-content/uploa…
Sebbene le Cc-Sne siano piuttosto eterogenee, questa nuova prospettiva riguarda le supernove di tipo Ic, i cui progenitori esplodono (vedi animazione qui sopra) dopo aver perso gli inviluppi di idrogeno ed elio. Queste Cc-Sn sono note perché una loro sottoclasse, caratterizzata da grandi velocità di espansione, denominata Sne-Ic “broad lines” (Sne-Ic Bl) risulta associata con lampi gamma (Grb) di lunga durata. È importante sottolineare che eventi di questo tipo sono probabilmente caratterizzati, alla fine del collasso del core (il nucleo), dalla formazione di buchi neri in rapida rotazione. Il “serbatoio” di energia è rappresentato in questo caso dal loro momento angolare, che supera di gran lunga quello delle stelle di neutroni che alimentano eventi relativamente più frequenti.
Questa nuova prospettiva si basa su due ingredienti chiave: un buco nero in rotazione circondato da materia ad alta densità sotto forma di un disco o toro compatto. Questo toro può agire come catalizzatore e facilitare la conversione di parte dell’energia di spin in radiazione gravitazionale. Col tempo, il toro si espande, man mano che il buco nero perde lentamente velocità di rotazione, e questo processo produce un caratteristico chirp discendente nelle onde gravitazionali. Questo processo di perdita di velocità di rotazione del buco nero è stato osservato in Gw 170817B, associato alla kilonova At 2017gfo che ha seguito la fusione doppia di neutroni Gw 170817. Un’emissione molto simile è attesa da Cc-Sne energetiche, scalata per massa. È cruciale notare che Gw 170817B è stato osservato alla distanza extragalattica di 40 Mpc, circa mille volte il diametro della Via Lattea.
Distanze dell’orizzonte in funzione della massa di buchi neri inizialmente in rapida rotazione mediante mass-scaling di Gw 170817B/Grb 170817A (punto blu) e miglioramento del rilevatore in O4 rispetto a O2. È evidenziato l’intervallo di massa previsto dei buchi neri prodotti in Cc-Sne energetiche (magenta). Crediti: Maurice H.P.M. van Putten et al., ApJL, 2024
«Considerando le attuali capacità degli osservatori Lvk e i nostri risultati, stimiamo che, in condizioni ottimali, potremmo rilevare fino a circa un evento all’anno. In modo più conservativo e forse più realistico, assumendo condizioni meno favorevoli e tenendo conto dei cicli di attività limitati dei rivelatori, stimiamo un tasso di detection di pochi eventi per decennio. Questo è comunque significativamente superiore ai due eventi per secolo previsti nella Via Lattea», dice Maurice van Putten dell’Università di Sejong, astrofisico associato all’Inaf che sta conducendo questo studio insieme alla ricercatrice postdoc Maryam A. Abchouyeh e a Massimo Della Valle dell’Inaf di Napoli.
Questo risultato, basato su calcoli accurati, deriva da tre semplici considerazioni, spiegano gli autori dello studio. Anzitutto, rispetto a Gw 170817, ottenuto durante l’O2 (secondo observation run) di Lvk nel 2017, l’attuale rivelatore O4 è più sensibile di un fattore 1,8. Secondo, si prevede che i buchi neri prodotti nelle Sn-Ic Bl siano relativamente più massicci. Questo consente – terza considerazione – un output energetico più elevato a frequenze inferiori, più vicine allo sweet spot della sensibilità del rivelatore Lvk (circa 100-250 Hz). Per O4, l’insieme di questi tre fattori spinge la distanza dell’orizzonte di osservabilità delle Sn-Ic Bl che producono buchi neri fino ad almeno decine di megaparsec, migliorando la prospettiva statistica di una rilevazione di circa due ordini di grandezza rispetto all’O2.
Osservazioni multi-messenger di Cc-Sne
Le onde gravitazionali potrebbero avere la capacità di rivelare il motore centrale e quindi la natura del remnant dell’esplosione stellare: stelle di neutroni o buchi neri. Distinguere tra questi due scenari basandosi solo su osservazioni elettromagnetiche appare notoriamente difficile. Anche per oggetti molto vicini come Sn 1987A, nella Grande Nube di Magellano, abbiamo dovuto aspettare circa 37 anni – con le recenti osservazioni del James Webb Space Telescope – per fornire prove convincenti dell’esistenza di una stella di neutroni come remnant dell’esplosione di Sn 1987A.
Qui sopra, il chirp ascendente caratteristico della fusione di due oggetti compatti. La perdita di velocità di rotazione di un singolo oggetto compatto avrebbe invece come firma gravitazionale caratteristica un chirp discendente. Crediti: Ligo Collaboration
Una rilevazione di un chirp discendente di onde gravitazionali identificherebbe inequivocabilmente la perdita di velocità di rotazione di un oggetto compatto. Un output energetico superiore al budget limitato di una stella di neutroni in rapida rotazione rivelerebbe un buco nero, indicando un progenitore di massa relativamente alta. Alternativamente, una non-rilevazione fornirebbe prove indirette di una stella di neutroni, indicando una massa del progenitore probabilmente inferiore a venti masse solari, come per Sn 1987A.
La potenziale rilevazione di onde gravitazionali delle Cc-Sne ben dentro l’universo locale ha infine stimolato lo sviluppo di nuovi algoritmi per captare segnali che fino a oggi erano sfuggiti e per realizzare un’integrazione profonda con l’astronomia elettromagnetica tradizionale. «Il nostro studio indica che l’attuale generazione di Lvk potrebbe rivelare che alcune supernove potrebbero, in effetti, essere più luminose nella loro emissione di onde gravitazionali di quanto creduto in passato», spiega van Putten. «Questo pone l’astronomia delle onde gravitazionali all’avanguardia anche in settori come quello delle Cc-Sne, tradizionalmente terreno di caccia di astronomi “elettromagnetici”».
«Con l’entrata in funzione dei futuri rivelatori di nuova generazione, come il Telescopio Einstein nell’Unione europea e il Cosmic Explorer negli Stati Uniti, la missione spaziale Lisa e la missione satellitare di lampi gamma Theseus», conclude Della Valle, «il potenziale rappresentato da queste prospettive è immenso».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Unveiling the central engine of core-collapse supernovae in the Local Universe: NS or BH?”, di Maurice H.P.M. van Putten, Maryam A. Abchouyeh e Massimo Della Valle
Calcio all’asse di rotazione di Ganimede
Zoom sulle striature che ricoprono la superficie di Ganimede. Esse presentano una struttura concentrica centrata nel punto indicato dalla croce. Crediti: N. Hirata
Ganimede è il maggiore fra i satelliti di Giove, nonché la luna più grande del Sistema solare. Più grosso persino del pianeta Mercurio, deve parte della sua notorietà alla presenza di oceani di acqua liquida al di sotto della sua gelida superficie. Come per la nostra Luna, il periodo di rotazione di questo satellite eguaglia il periodo di rivoluzione, cosicché esso rivolge a Giove sempre la stessa faccia. Numerose scalfitture segnano la superficie della luna, determinando una struttura concentrica che si estende per quasi ottomila chilometri. Erano gli anni ‘80 quando per la prima volta gli astronomi concludevano che queste striature rappresentavano le cicatrici di un evento disastroso che, quattro miliardi di anni fa, sconquassò il maggiore fra i satelliti medicei: l’impatto con un asteroide. «Le lune di Giove Io, Europa, Ganimede e Callisto hanno tutte interessanti caratteristiche individuali, ma ciò che ha catturato la mia attenzione è stata la presenza di questi solchi su Ganimede,» dice il planetologo Naoyuki Hirata dell’Università di Kobe in Giappone. Che aggiunge: «Sappiamo che questa caratteristica è stata creata dall’impatto con un asteroide circa quattro miliardi di anni fa, ma avevamo alcuni dubbi su quanto sia stato grande l’impatto e sugli effetti che ha avuto sulla luna».
L’illustrazione rappresenta gli effetti dell’impatto con l’asteroide sull’asse di rotazione di Ganimede. Crediti: N. Hirata
Pare sia stato Plutone a dare allo scienziato l’ispirazione per sciogliere questi dubbi. Dai dati della sonda New Horizons si è appreso infatti che il pianeta nano subì una collisione con un asteroide che ne spostò l’asse di rotazione. Utilizzando un’analogia, Hirata ha ipotizzato che qualcosa di simile sia avvenuto per Ganimede. Specializzato nel simulare collisioni su lune e altri corpi minori, il planetologo ha potuto calcolare che tipo di impatto possa aver provocato un cambiamento dell’asse di rotazione. In particolare, Hirata si è reso conto per primo che il punto di impatto si trova quasi precisamente sul meridiano più lontano da Giove. In uno studio uscito questa settimana sulla rivista Scientific Reports, il ricercatore ha pubblicato i risultati delle sue simulazioni. L’asteroide che ha colpito Ganimede avrebbe avuto un diametro di trecento chilometri, un vero colosso se lo confrontiamo con oggetti analoghi. Per capirci, l’asteroide che sterminò i dinosauri – assieme al 75% delle specie viventi sulla Terra 65 milioni di anni fa – era venti volte più piccolo. L’urto avrebbe provocato la formazione di un cratere con dimensioni fra i 1400 e i 1600 chilometri. Solo un impatto con un corpo celeste di tale stazza sarebbe in grado di provocare una redistribuzione della massa della luna, determinando uno spostamento dell’asse di rotazione fino alla posizione attuale. L’esatto punto di impatto sulla superficie del satellite sembrerebbe avere poca importanza rispetto all’esito della collisione. «Voglio comprendere l’origine e l’evoluzione di Ganimede e delle altre lune di Giove. Il gigantesco impatto deve aver avuto un’influenza significativa sulle fasi iniziali dell’evoluzione di Ganimede, ma gli effetti termici e strutturali dell’impatto sotto la sua superficie non sono stati ancora investigati», conclude Hirata. «Credo che una ricerca ulteriore, applicata all’evoluzione interna delle lune ghiacciate, potrebbe essere condotta più avanti».
Ganimede sarà il capolinea della missione Juice dell’Esa, partita ad aprile 2023. La sonda entrerà nell’orbita della maggiore luna gioviana nel 2034, e la osserverà per i successivi sei mesi, raccogliendo dati che potrebbero far luce sui quesiti sollevati da Hirata.
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Giant impact on early Ganymede and its subsequent reorientation” di N. Hirata
Inquinamento luminoso e Alzheimer
Milano di notte. Crediti: Nasa Earth Observatory/Wikimedia Commons
L’esposizione alla luce durante la notte altera i ritmi circadiani. C’è questa premessa alla base di qualunque considerazione circa gli effetti fisiologici dell’inquinamento luminoso, su esseri umani e su animali. La conseguenza, dal momento che i ritmi circadiani regolano quasi tutti gli aspetti della biologia e del comportamento, è che una loro alterazione può promuovere una serie di malattie infiammatorie. E anche l’Alzheimer. Questo è il risultato di uno studio appena pubblicato su Frontiers in Neuroscience e che ha messo in relazione i dati di inquinamento luminoso e incidenza di Alzheimer in tutte le fasce d’età nella popolazione degli Stati uniti.
Il sospetto di una correlazione fra Alzheimer e alterazione del ritmo circadiano sembra non sorprendere Robin Michelle Voigt-Zuwala, professoressa associata al Dipartimento di medicina interna del Rush University Medical Center di Chicago e prima autrice dello studio. La ricercatrice ha detto a Media Inaf che la ricerca di questo legame, per lei che si occupa di come lo stile di vita e l’ambiente influenzino le malattie cerebrali come il morbo di Alzheimer o il morbo di Parkinson, sia stata un’estensione naturale del suo lavoro: «Ci sono molti meccanismi che si sovrappongono tra l’interruzione circadiana e il morbo di Alzheimer, cosa che ha reso plausibile cominciare questo tipo di ricerca».
L’esposizione alla luce artificiale esterna durante la notte è associata a numerosi effetti dannosi per la salute, tra cui disturbi del sonno, obesità, depressione, ansia, disfunzioni della memoria, aterosclerosi e cancro. Per indagare se, fra questi, si debba aggiungere anche la malattia neurodegenerativa più diffusa fra gli anziani, l’Alzheimer appunto, Voigt-Zuwala e coautori hanno unito i dati sull’incidenza della malattia in tutte le fasce d’età dall’archivio Medicare con l’intensità luminosa media notturna, calcolata a partire dai dati acquisiti via satellite per gli anni 2012-2018. I 48 stati Usa inclusi nell’analisi sono stati classificati in base all’intensità luminosa media notturna e sono stati suddivisi in cinque gruppi, da quelli con l’intensità luminosa media notturna più bassa (gli stati più bui) a quelli più illuminati durante le ore notturne.
I risultati hanno mostrato che per le persone di età pari o superiore a 65 anni l’aumento di incidenza del morbo di Alzherimer è più fortemente correlata all’inquinamento luminoso notturno rispetto ad alcuni fattori di rischio come l’abuso di alcol, le malattie renali croniche, la depressione e l’obesità. Ci sono poi altri fattori come il diabete, l’ipertensione e l’ictus che si sono dimostrati più fortemente associati all’Alzheimer rispetto all’inquinamento luminoso. Per le persone di età inferiore ai 65 anni, invece, i ricercatori hanno scoperto che una maggiore intensità luminosa notturna è associata a una maggiore incidenza di Alzheimer con una correlazione più forte rispetto a qualsiasi altro fattore di rischio esaminato nello studio.
«Questa informazione suggerisce che le persone più giovani potrebbero essere particolarmente sensibili agli effetti dell’esposizione alla luce notturna», dice la ricercatrice. «Sappiamo che le persone che si ammalano di Alzheimer al di sotto dei 65 anni tendono ad avere una forte componente genetica, ed è quindi possibile che queste persone predisposte (ad esempio, il genotipo ApoE) siano più sensibili agli effetti della luce, ma questo richiederà un esame più approfondito».
Oltre a valutare l’esposizione alla luce notturna esterna, la ricercatrice si sta ora concentrando sull’effetto delle luci all’interno delle case, sia quelle ambientali sia le cosiddette “luci blu” dei dispositivi elettronici. Inoltre, sarà anche importante eseguire delle valutazioni individuali, che tengano conto delle abitudini delle persone e che possano seguirle per alcuni anni nel corso della propria vita. Insomma, lo studio mostra un legame e si pone, a oggi, come un primo indizio da verificare, a supporto del quale vanno cercate numerose prove. Nel frattempo però – dice la ricercatrice – qualche accortezza in più sulle luci notturne non dovrebbe costare molto sforzo e potrebbe mettere a riparo da effetti in maniera preventiva.
«I ritmi circadiani sono squisitamente sensibili all’esposizione alla luce durante la notte», continua Voigt-Zuwala. «Anche un solo impulso di luce può alterare i ritmi circadiani e l’impatto della luce varia a seconda del momento della notte in cui avviene l’esposizione. In generale, però, l’esposizione alla luce di notte, anche se fioca, ha un impatto negativo sulla salute. Il grado di impatto di questa perturbazione sulla salute dipenderà probabilmente anche da altri aspetti come la genetica e altri fattori di rischio (ad esempio, dieta, attività fisica, stress, obesità, condizioni di salute in comorbilità). Si dovrebbe adottare un approccio altamente personalizzato, in quanto ritengo che nessun fattore di rischio determini l’insorgenza o meno dell’Alzheimer, ma che sia necessario esaminare tutti i fattori di rischio nella loro totalità. Detto questo, è facile ridurre l’esposizione alla luce notturna, quindi perché non eliminare questo fattore di rischio? La luce blu ha un impatto maggiore sui ritmi circadiani, motivo per cui questo tipo di luce è il più dannoso. La luce blu è emessa da tv, monitor di computer, telefoni, tablet e persino da alcuni tipi di lampadine. Se condividete la camera da letto con qualcuno a cui piace fare doom scrolling, indossate delle mascherine, e se ci sono luci forti all’esterno della vostra camera da letto prendete in considerazione delle tende oscuranti e/o una maschera per gli occhi, sostituite quando possibile le lampadine con luci più calde e installate dei dimmer. I filtri per la luce blu sui dispositivi o l’uso di lenti progettate per ridurre l’esposizione alla luce blu sono semplici da attuare».
Per saperne di più:
- Leggi su Frontiers in Neuroscience l’articolo “Outdoor Nighttime Light Exposure (Light Pollution) is Associated with Alzheimer’s Disease”, di Robin M. Voigt-Zuwala, Bichun Ouyang e Ali Keshavarzian
L’ultimo lancio di Vega per Copernicus
Il lancio di Sentinel-2C a bordo dell’ultimo razzo Vega dallo spazioporto europeo nella Guyana francese. Crediti: Esa–S. Corvaja
Il terzo satellite Copernicus Sentinel-2 è stato lanciato ieri in tarda serata a bordo dell’ultimo razzo Vega dallo spazioporto europeo nella Guyana francese. Sentinel-2C continuerà a fornire dati ad alta risoluzione per Copernicus, il programma dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di osservazione della Terra.
Si tratta dell’ultimo lancio del razzo Vega: dopo dodici anni di servizio, questo volo segna la fine della carriera del razzo Vega originale, che viene ritirato per fare spazio al razzo aggiornato Vega-C. Durante la sua attività, Vega ha lanciato missioni europee di punta tra cui il dimostratore tecnologico Proba-V, il satellite per il monitoraggio dei venti Aeolus, il veicolo di rientro Ixv e Lisa Pathfinder, un precursore della missione Lisa dedicata alla misurazione delle onde gravitazionali nello spazio. La famiglia Vega garantisce all’Europa un accesso versatile e indipendente allo spazio, completando la famiglia di razzi Ariane per il lancio di satelliti in qualsiasi orbita, con il continuo supporto di Vega-C e del razzo pesante Ariane 6.
Il razzo Vega con a bordo il satellite Copernicus Sentinel-2C sulla rampa di lancio dello spazioporto europeo nella Guyana francese in attesa del decollo. Crediti: Esa
«Il razzo europeo Vega ha lanciato i due precedenti satelliti Sentinel-2 nel 2015 e nel 2017. Questo lancio rappresenta, quindi, un congedo appropriato per un razzo di così grande successo», ha dichiarato il direttore dei trasporti spaziali dell’Esa Toni Tolker-Nielsen. «È già in preparazione il prossimo lancio di Vega, l’aggiornato Vega-C, previsto entro la fine dell’anno. Il lancio di oggi è stato il ventesimo successo di Vega nei suoi 12 anni di servizio. Addio Vega, lunga vita a Vega-C!».
La missione Sentinel-2 è il risultato di una stretta collaborazione tra l’Esa, la Commissione europea, l’industria, i fornitori di servizi e gli utilizzatori dei dati, fornendo immagini ottiche ad alta risoluzione per una vasta gamma di applicazioni, tra cui il monitoraggio delle terre, delle acque e dell’atmosfera.
La missione si basa su una costellazione di due satelliti identici che orbitano nello stesso percorso ma distanziati di 180 gradi: Sentinel-2A e Sentinel-2B. Insieme, coprono tutte le terre e le acque costiere della Terra ogni cinque giorni. L’ingresso in orbita di Sentinel-2C comporterà la sostituzione di Sentinel-2A, dopo un breve periodo di osservazioni congiunte.
I dati di Sentinel-2 sono attualmente utilizzati per una vasta gamma di applicazioni, tra cui l’agricoltura, il monitoraggio della qualità dell’acqua e la gestione dei disastri naturali, inclusi incendi, eruzioni vulcaniche e alluvioni. La missione ha superato le aspettative iniziali, dimostrando tra le altre cose, la sua capacità di rilevare le emissioni di metano. Per l’agricoltura, la missione aiuta a monitorare la salute delle colture, prevedere i raccolti e facilitare l’agricoltura di precisione. Le sue immagini sono utilizzate per identificare il tipo di coltura e determinare variabili biofisiche come l’indice di superficie fogliare, il contenuto di clorofilla e il contenuto di acqua delle foglie per monitorare la crescita e la salute delle piante.
«Siamo entusiasti di celebrare il successo del lancio di Sentinel-2C, una nuova pietra miliare nella consolidata collaborazione tra l’Esa e la Commissione europea», ha commentato Simonetta Cheli, la direttrice dei programmi di osservazione della Terra dell’Esa. «Questa missione conferma ulteriormente il ruolo di Copernicus come programma di riferimento nella lotta contro i cambiamenti climatici e nel fronteggiare le sfide ambientali globali, garantendo al contempo la continuità di dati fondamentali per sostenere l’agricoltura, la silvicoltura, il monitoraggio marittimo e numerosi altri settori. Insieme, stiamo rafforzando l’impegno dell’Europa verso un futuro sostenibile, fornendo ai decisori gli strumenti necessari per proteggere il nostro pianeta».
In seguito, Sentinel-2D subentrerà poi a Sentinel-2B e in futuro la missione Sentinel-2 Next Generation continuerà a garantire la continuità dei dati oltre il 2035. I dati di Sentinel-2 sono disponibili gratuitamente tramite il Copernicus Data Space Ecosystem, che fornisce accesso immediato a una vasta gamma di dati provenienti sia dalle missioni Copernicus Sentinel missions che dalle Copernicus Contributing Missions.
Quanto è buio lo spazio?
Illustrazione artistica della sonda New Horizons della Nasa nello spazio profondo. A oltre 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra, la sonda sta attraversando una regione del Sistema solare abbastanza lontana dal Sole da offrire i cieli più bui disponibili per qualsiasi telescopio esistente, e da fornire un punto di osservazione unico da cui misurare la luminosità complessiva dell’universo lontano. Sullo sfondo il disco della Via Lattea. Crediti: Nasa, Apl, Swri, Serge Brunier (Eso), Marc Postman (Stsci), Dan Durda
Lo spazio profondo? Nero, lo sanno tutti. Sì, ma quanto? Da sempre gli astronomi cercano di misurare l’oscurità dello spazio interstellare, del “vuoto” cosmico, se così si può impropriamente chiamare, dato che vuoto non è. Per capire, più che altro, quali siano le sorgenti che contribuiscono a creare quel fondo di luce che, alle varie lunghezze d’onda, permea lo spazio.
Ci hanno provato alle lunghezze d’onda della luce visibile anche con la sonda New Horizons della Nasa, che si trova ora a più di 7,3 miliardi di chilometri dalla Terra: abbastanza lontano da non subire la contaminazione della luce dovuta al bagliore del Sole e della polvere nel Sistema solare. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal, mostra che la maggior parte della luce visibile che riceviamo dall’universo è stata generata nelle galassie, e che non vi sono altre sorgenti significative di luce attualmente non note agli astronomi.
In gergo – lo accennavamo prima – si parla del cosiddetto “fondo di luce visibile”, ovvero il livello di illuminazione minimo e costante dello spazio profondo a lunghezze d’onda visibili, sotto il quale non è possibile scendere proprio in virtù dell’esistenza delle strutture luminose che popolano e illuminano l’universo. Misurarlo è importante perché consente di stabilire una sorta di tara, e di sapere qualcosa di più su quante e quali sorgenti emettano in una determinata lunghezza d’onda.
Chiaramente, magari ci avrete già pensato, lo stesso ragionamento si può estendere a lunghezze d’onda non ottiche. Anzi, ad onor del vero, la prima definizione di un fondo cosmico di radiazione non riguarda le lunghezze d’onda dell’ottico, bensì le microonde, e risale alla celebre scoperta casuale della radiazione di fondo cosmico – il cosiddetto eco del Big Bang, o Cosmic Microwave Background, Cmb – di Arno Penzias e Robert Wilson negli anni Sessanta. In seguito, gli astronomi hanno trovato prove dell’esistenza anche di un fondo di raggi X, di raggi gamma e di radiazioni infrarosse.
Il rilevamento del fondo di luce visibile – più formalmente chiamato fondo ottico cosmico, o Cob (Cosmic Optical Background) – era quindi una naturale conseguenza. Un compito molto difficile, però, perché le fonti che inquinano la vista a queste lunghezze d’onda sono numerose e difficili da eliminare. Soprattutto se si osserva dalla Terra o dal Sistema solare interno. Le osservazioni dei telescopi Hubble e James Webb si sono rivelate importanti per misurare il Cob a partire dalla somma della luce emessa da tutte le galassie visibili, fino alle più deboli e lontane, un passaggio fondamentale per cercare di capire se la luce che vediamo sia in parte attribuibile anche a sorgenti diverse e sconosciute.
«Si è cercato più volte di misurarla direttamente, ma dalla nostra prospettiva del Sistema solare c’è troppa luce solare e polvere interplanetaria che disperde la luce, e queste creano una sorta di nebbia che oscura la debole luce dell’universo lontano», spiega Tod Lauer, co-investigator di New Horizons, astronomo al National Science Foundation NoirLab di Tucson, in Arizona, e co-autore dell’articolo. «Tutti i tentativi di misurare la forza del Cob dall’interno del Sistema solare soffrono di grandi incertezze».
La scorsa estate, New Horizons ha usato lo strumento Lorri (il Long Range Reconnaissance Imager), per raccogliere due dozzine di campi di immagini separati mentre il corpo principale della navicella fungeva da schermo per il Sole. I campi osservati sono stati selezionati in modo che fossero lontani dal disco luminoso e dal nucleo della Via Lattea e lontani anche dalle stelle luminose vicine. Dopo aver tenuto conto di tutte le fonti di luce conosciute, come le stelle di fondo e la luce diffusa da sottili nubi di polvere all’interno della Via Lattea, i ricercatori hanno constatato che il livello rimanente di luce visibile era del tutto coerente con l’intensità della luce generata da tutte le galassie negli ultimi 12,6 miliardi di anni. In altre parole, il Cob è completamente dovuto alle galassie. Al di fuori di esse, troviamo il buio e nient’altro.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “New Synoptic Observations of the Cosmic Optical Background with New Horizons”, di Marc Postman, Tod R. Lauer, Joel W. Parker, John R. Spencer, Harold A. Weaver, J. Michael Shull, S. Alan Stern, Pontus Brandt, Steven J. Conard, G. Randall Gladstone, Carey M. Lisse, Simon B. Porter, Kelsi N. Singer, e Anne. J. Verbiscer
Nello spazio, i batteri intestinali vanno in tilt
Edward H. White II, è stato il primo americano a uscire dalla sua navicella spaziale e a lasciarsi andare, andando di fatto alla deriva nello spazio a gravità zero. Era il 3 giugno 1965. Crediti: Nasa, James McDivitt
D’ora in poi, nella valigia degli astronauti saranno inserite scorte di Bifidus Actiregularis. No, scherziamo, questa è una provocazione. Tuttavia c’è un fondo di verità. Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’University College di Dublino (Ucd) e dalla McGill University di Montreal, Canada, in collaborazione con la Nasa, ha infatti rivelato come il volo spaziale possa alterare pesantemente la flora batterica intestinale, compromettendo significativamente la salute degli astronauti. Lo studio, pubblicato sulla rivista npj Biofilms and Microbiomes del gruppo Nature, è il più dettagliato finora realizzato sulla relazione tra permanenza nello spazio e batteri intestinali che gli astronauti portano con sé, dalla Terra allo spazio.
Il gruppo di ricerca ha utilizzato tecnologie genetiche avanzate per esaminare i cambiamenti nel microbioma intestinale, nel colon e nel fegato, di alcuni topi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) dopo 29 e 56 giorni di volo spaziale.L’analisi metagenomica dei batteri, cioè il sequenziamento del genoma di determinati microrganismi effettuato direttamente nell’intestino dei ratti, ha rivelato cambiamenti significativi in 44 specie del microbioma, tra cui riduzioni relative nel numero di batteri che metabolizzano gli acidi biliari.
«Il volo spaziale altera ampiamente la fisiologia degli astronauti, ma molti dei fattori che contribuiscono rimangono un mistero», ha affermato Emmanuel Gonzalez della McGill University, primo autore dello studio. «Grazie all’integrazione di nuovi metodi genomici, siamo in grado di esplorare simultaneamente i batteri intestinali e la genetica dell’ospite in modo straordinariamente dettagliato e stiamo iniziando a vedere modelli che potrebbero spiegare le patologie causate dal volo spaziale».
L’habitat intestinale dei roditori inviati sulla Iss dalla missione SpaceX ha fornito informazioni cruciali sull’impatto del volo spaziale sui mammiferi, rendendo possibile l’analisi di sintomi caratteristici di alcune malattie riscontrate negli astronauti. Sebbene le interazioni ospite-microbiota durante il volo spaziale siano ancora in via di definizione, i risultati hanno comunque rivelato modifiche significative in specifici batteri intestinali e nell’espressione genica dell’ospite. Tali cambiamenti sono associati a disfunzioni immunitarie e metaboliche frequentemente osservate nello spazio, fra le quali in particolare l’alterazione del metabolismo del glucosio caratterizzata da insulino-resistenza e l’irregolarità del metabolismo dei grassi, due processi che possono costituire un rischio significativo per la salute degli astronauti.
Per la ricerca sono stati analizzati topi femmina di 32 settimane trasportati sulla ISS con SpaceX-13 e divisi in due gruppi: FLT_LAR, tornato a Terra dopo 29 giorni di volo spaziale nell’ambito della missione Live Animal Return, e FLT_ISS, campionato sulla ISS dall’equipaggio dopo 56 giorni di volo spaziale. Crediti: npj biofilms and microbiomes
«Queste scoperte evidenziano l’intricato dialogo tra specifici batteri intestinali e i loro ospiti murini, coinvolti in modo critico nel metabolismo degli acidi biliari, del colesterolo e dell’energia. Esse gettano nuova luce sull’importanza della simbiosi del microbioma per la salute e su come queste relazioni evolute sulla Terra possano essere vulnerabili alle sollecitazioni dello spazio», ha spiegato Nicholas Brereton, ricercatore della Ucd School of Biology and Environmental Science e coautore dello studio.
Gli studi sulle scienze della vita nello spazio, dimostrano come la comprensione degli adattamenti biologici al volo spaziale possa non solo far progredire la medicina aerospaziale, ma anche avere implicazioni significative per la salute sulla Terra e per la progettazione delle prossime missioni umane su Marte. «È chiaro che non stiamo mandando nello spazio solo uomini e animali, ma interi ecosistemi, la cui comprensione è fondamentale per aiutarci a sviluppare misure di salvaguardia per le future esplorazioni spaziali», ha aggiunto Gonzalez.
La collaborazione internazionale, guidata dall’Ucd e condotta assieme ai gruppi di analisi del GeneLab della Nasa, fa parte del recente pacchetto The Second Space Age: Omics, Platforms and Medicine across Space Orbits l’insieme di pubblicazioni su Nature Portfolio riguardanti le scoperte di biologia spaziale.
«Queste scoperte sono un tassello importante per la comprensione dell’impatto del volo spaziale sugli astronauti e contribuiranno alla progettazione di missioni sicure ed efficaci verso l’orbita terrestre, la Luna e Marte», ha commentato Jonathan Galazka, scienziato dell’Ames Research Center della Nasa e coautore dell’articolo. «Inoltre, la natura collaborativa di questo progetto è un esempio di come la scienza aperta possa accelerare il ritmo delle scoperte».
Per saperne di più:
- Leggi su npj Biofilms and Microbiomes l’articolo “Spaceflight alters host-gut microbiota interactions” di E. Gonzalez, M. D. Lee, B. T. Tierney, N. Lipieta, P. Flores, M. Mishra, L. Beckett, A. Finkelstein, A. Mo, P. Walton, F. Karouia, R. Barker, R. J. Jansen, S. J. Green, S. Weging, J. Kelliher, N. K. Singh, D. Bezdan, J. Galazska & N. J. B. Brereton.
- Leggi su Nature Portfolio la raccolta di pubblicazioni The Second Space Age: Omics, Platforms and Medicine across Space Orbits
Juice nelle fasce di Van Allen
Infografica che mostra le due fasce di radiazione di Van Allen, la più esterna contenente elettroni energetici (in alto), la più interna contenente protoni energetici (in basso). Durante la sua doppia manovra di assistenza gravitazionale attorno a Terra e Luna di fine Agosto, Juice le ha attraversate entrambe utilizzando il suo strumento Radem per misurare i flussi di particelle. Crediti: Esa
Ricordate il doppio fly-by gravitazionale eseguito dalla sonda Juice dell’Esa lo scorso 19 e 20 agosto? Ne potete vedere rappresentata una piccola fase nell’infografica qui a fianco. Qui, il Jupiter Icy Moons Explorer (questo il nome per esteso di Juice) sta attraversando le fasce di Van Allen, zone di particelle cariche che circondano il nostro pianeta. Sono due: la fascia interna è piena di protoni energetici, mentre quella esterna è piena di elettroni energetici. La regione tra le due, invece, è per lo più vuota.
Se aprite l’immagine originale vi troverete uno slider: spostandolo a destra vi mostrerà la fascia bianca più interna corrispondente alla zona in cui si trovano i protoni, e che Juice ha incontrato lungo la propria traiettoria una sola volta, spostandolo a sinistra invece mostrerà la fascia bianca più esterna in cui si trovano gli elettroni. I cerchi bianchi concentrici indicano la distanza dalla Terra del veicolo spaziale, che nel tempo si muove (rispetto all’immagine) da sinistra verso destra. Spostandosi, dunque, Juice ha attraversato la regione degli elettroni due volte, indicate con i due picchi gialli nell’immagine in alto qui a fianco, e i protoni una volta soltanto, in corrispondenza del picco disegnato con punti blu nell’immagine in basso.
Ora che abbiamo capito come leggere l’immagine, qual è il punto? Si ritiene che gli alti livelli di radiazioni nelle fasce di Van Allen le rendano molto pericolose per l’elettronica e per l’uomo, ma non sono nulla in confronto alle fasce di radiazioni di Giove – l’obbiettivo finale del viaggio di Juice. Su Giove, gli elettroni estremamente energetici possono attraversare anche le schermature molto più spesse, e nel tempo potrebbero quindi danneggiare gli strumenti scientifici di Juice.
Juice è equipaggiato con uno strumento di monitoraggio delle radiazioni chiamato Radem per misurare continuamente l’esposizione del veicolo spaziale alle particelle ad alta energia. Lo strumento fa parte di un piano a lungo termine per comprendere meglio le radiazioni in tutto il Sistema solare e integra un altro strumento, il Plasma Environment Package: un insieme di sensori progettati per misurare le particelle cariche intorno a Giove e alle sue lune ghiacciate.
Il volo di Juice attraverso le fasce di Van Allen è stato quindi il primo grande test di Radem nello spazio. Test stato superato a pieni voti, fa sapere l’Esa, in quanto lo strumento è riuscito a misurare con successo gli elettroni nella fascia esterna, poi i protoni nella fascia interna e infine di nuovo gli elettroni mentre si allontanava dalla Terra. I punti blu e gialli nelle immagini, infatti, non sono casuali, ma indicano l’intensità degli elettroni e dei protoni misurati da Juice; in entrambi i casi l’intensità raggiunge un picco quando Juice attraversa la parte più densa della fascia. Non resta che attendere il confronto con Giove.
Giù al nord della stella di Keplero
Vincenzo Sapienza (Università di Palermo e Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo), primo autore del nuovo studio su Sn 1604 pubblicato su The Astrophysical Journal. Crediti. Inaf Palermo
Il ruolo dei resti di supernova (nubi in espansione prodotte dalle supernove) nell’accelerazione dei raggi cosmici (particelle ad altissima energia presenti in diversi ambienti astrofisici) è noto sin dal 1995. La scoperta, realizzata da astronomi dell’Università di Kyoto, fu resa possibile dall’aver identificato la presenza di emissione non termica ai raggi X nel resto di supernova Sn 1006. I raggi X sono un tipo di radiazione ad alta energia, che può essere emessa da plasma a milioni di gradi (emissione termica) o da particelle ad altissima energia in vari processi (emissione non termica). In particolare, l’emissione non termica osservata in Sn 1006 era di sincrotrone, prodotta quando particelle ad alta energia si muovono lungo le linee di campi magnetici.
Un oggetto di grande interesse per lo studio di questi processi è il resto di supernova di Keplero, prodotto dalla supernova di tipo Ia (ossia la cui progenitrice era una nana bianca che accresceva materia da una stella compagna in un sistema binario) Sn 1604. Questo resto di supernova sta interagendo con una densa nube di materiale circumstellare nella sua porzione a nord. Questo fa sì che le proprietà del resto di supernova e la velocità di espansione dell’onda d’urto in quella direzione siano diverse rispetto alle altre regioni del resto di supernova. Infatti, in uno studio del 2022 condotto da ricercatori dell’Università di Palermo e dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo, è stato dimostrato che nel resto di supernova di Keplero l’accelerazione di raggi cosmici è più efficiente nella regione a nord rispetto alle regioni a sud.
Con l’obiettivo di proseguire le analisi iniziate nel 2022, un team di ricercatori guidato da Vincenzo Sapienza dell’Università di Palermo, associato Inaf, ha analizzato un lungo set di osservazioni ai raggi X ottenute con il satellite della Nasa Chandra del resto di supernova di Keplero. In particolare, gli autori hanno analizzato alcuni filamenti del resto di supernova, con lo scopo di misurarne il moto nel cielo (moto proprio) e di determinare i parametri dell’emissione di sincrotrone proveniente da queste regioni. Le osservazioni confermano la maggiore efficienza del processo di accelerazione di raggi cosmici nella regione a nord del resto di supernova.
«Il risultato non era scontato», sottolinea Sapienza, «in quanto l’accelerazione dei raggi cosmici dipende dalla velocità con cui si propaga l’onda d’urto del resto di supernova, che in questo caso risulta essere più lenta a nord proprio a causa dell’interazione con la nube del mezzo circumstellare. Questa interazione, però, innesca turbolenze che influenzano il campo magnetico locale, aumentando l’efficienza del processo di accelerazione dei raggi cosmici. Di conseguenza, la maggiore efficienza nel processo di accelerazione delle particelle osservata nelle regioni a nord del resto di supernova di Keplero nel 2022 nasce proprio dal bilanciamento tra gli effetti dovuti al rallentamento dell’onda d’urto e la topologia turbolenta del campo magnetico».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Time evolution of the synchrotron X-ray emission in Kepler’s SNR: the effects of turbulence and shock velocity” di Vincenzo Sapienza, Marco Miceli, Oleh Petruk, Aya Bamba, Satoru Katsuda, Salvatore Orlando, Fabrizio Bocchino e Tracey DeLaney
Esame superato per Micado, la fotocamera di Elt
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Vista 3D di Micado basata su un rendering ingegneristico, con due persone in scala. Lo strumento sarà alto sei metri e peserà non meno di venti tonnellate. Crediti: Eso/Consorzio Micado/L. Calçada
Micado (acronimo di Multi-AO Imaging Camera for Deep Observations), la potente fotocamera ad alta risoluzione per l’Extremely Large Telescope (Elt) dell’Eso, ha superato la Fdr (final design review), vale a dire la revisione finale del progetto, ponendo così un’importante pietra miliare sulla strada verso l’operatività, prevista per la fine di questo decennio. Una volta completata, Micado consentirà agli astronomi di scattare immagini dell’universo con una profondità senza precedenti.
Lo scopo dell’ultima parte della final design review, articolata in più fasi, è stato quello di concludere il processo di progettazione in corso da diversi anni. Di solito la produzione inizia solo dopo il superamento della final design review, ma in questo caso il via libera alla produzione di molti componenti e sottosistemi era già stato dato in precedenza, per consentire al progetto Micado di continuare ad avanzare verso la prima luce di Elt. Per completare la design review, i membri del consorzio hanno lavorato con il personale dell’Eso per chiarire le questioni ancora aperte sul progetto dello strumento. Il superamento di questa pietra miliare consentirà ora al consorzio Micado – un team di 150 persone distribuite in sei paesi – di concentrarsi a tempo pieno sulla produzione e sul collaudo dello strumento.
La spinta alla realizzazione di Micado nasce dal desiderio di ottenere una precisione e una stabilità elevatissime per raggiungere l’alta sensibilità, la risoluzione, l’accuratezza astrometrica e la copertura dell’ampio intervallo di lunghezze d’onda richieste. Per arrivare a questo risultato, Micado sarà integrato in Elt posizionato al di sopra della piattaforma che ospita gli strumenti, in modo che la luce del telescopio possa essere trasmessa sia al sistema di ottica adattiva che corregge gli effetti della turbolenza atmosferica sia al criostato. In quest’ultimo, le ottiche e i rivelatori sono mantenuti freddi in modo da poter lavorare efficacemente alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso, senza interferenze da altre fonti di calore. Il funzionamento dettagliato dello strumento è controllato dall’elettronica, in gran parte montata proprio sotto di esso; il software consentirà agli utenti di eseguire le osservazioni a distanza.
Si tratta di un progetto molto sofisticato che consentirà a Micado di ottenere immagini ad alta risoluzione dell’universo, così da rivelare in dettaglio le strutture e i meccanismi di formazione delle galassie lontane, e permettere agli astronomi di studiare singole stelle e sistemi stellari presenti nelle galassie vicine, nonché i pianeti e la formazione dei pianeti al di fuori del Sistema solare. Micado sarà inoltre uno strumento straordinariamente potente per esplorare ambienti in cui le forze gravitazionali sono estremamente forti, come in prossimità del buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia, la Via Lattea.
Dopo alcuni anni di attività scientifica preliminare, le capacità di Micado saranno potenziate grazie al collegamento con Morfeo, il Multiconjugate adaptive Optics Relay For Elt Observations: uno strumento che consentirà a Micado di ottenere immagini più nitide su un campo visivo più ampio.
Fonte: annuncio Eso
Guarda su MediaInaf Tv il video “Micado, una super fotocamera per Elt”: