Jwst studia le eterne albe e tramonti di Wasp-39 b
Rappresentazione artistica dell’esopianeta Wasp-39 b in base alle osservazioni indirette del transito effettuate da Jwst e da altri telescopi spaziali e terrestri. I dati raccolti dal NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) mostrano le variazioni tra l’atmosfera del crepuscolo mattutino e di quello serale. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Wasp-39 b è un gigante gassoso con un diametro 1,3 volte superiore a quello di Giove e una massa simile a quella di Saturno, che orbita attorno a una stella distante circa 700 anni luce dalla Terra. Così come la Luna rispetto alla Terra, rivolge verso la sua stella sempre la stessa faccia. Quindi un lato del pianeta è sempre esposto al “suo sole”, mentre l’altro è sempre avvolto dall’oscurità. La linea di demarcazione tra luce e buio è chiamata terminatore o, più romanticamente, zona del crepuscolo. E il crepuscolo può essere serale o mattutino.
Date queste premesse, utilizzando NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) del telescopio spaziale James Webb, gli astronomi hanno confermato una differenza di temperatura tra il crepuscolo serale e quello mattutino, entrambi eterni su Wasp-39 b, con il crepuscolo serale che appare più caldo di circa 200 gradi Celsius. Hanno anche trovato prove di una diversa copertura nuvolosa, con la zona interessata dal crepuscolo mattutino probabilmente più nuvolosa di quella serale. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature.
Per ottenere questa conferma hanno analizzato lo spettro di trasmissione del pianeta da 2 a 5 micron, confrontando la luce stellare filtrata attraverso l’atmosfera del pianeta che si muove davanti alla stella, con la luce stellare non filtrata rilevata quando il pianeta si trova accanto alla stella. Facendo questo confronto, è possibile ottenere informazioni sulla temperatura, sulla composizione e su altre proprietà dell’atmosfera del pianeta.
«Wasp-39 b è diventato una sorta di pianeta di riferimento per lo studio dell’atmosfera degli esopianeti con Webb», dichiara Néstor Espinoza, dello Space Telescope Science Institute e primo autore dello studio. «Ha un’atmosfera gonfia – puffy – quindi il segnale proveniente dalla luce stellare filtrata attraverso l’atmosfera del pianeta è piuttosto forte».
Questo spettro di trasmissione, acquisito con la modalità NirSpec Prism di Webb, mostra l’intensità alle diverse lunghezze d’onda (colori) della luce stellare nel vicino infrarosso bloccate dall’atmosfera del gigante gassoso Wasp-39 b. Lo spettro mostra una chiara evidenza di acqua e anidride carbonica e una variazione di temperatura tra la mattina e la sera sull’esopianeta. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Gli spettri Webb dell’atmosfera di Wasp-39 b già pubblicati precedentemente – che hanno rivelato la presenza di anidride carbonica, anidride solforosa, vapore acqueo e sodio – sono relativi a tutta la zona di confine tra il giorno e la notte. Non c’è mai stato alcun tentativo di differenziare tra un lato e l’altro. Ora, la nuova analisi costruisce due diversi spettri dalla regione del terminatore, dividendo essenzialmente il confine giorno/notte in due semicerchi, quello della sera e quello del mattino. I dati rivelano che la sera è significativamente più calda, 800 gradi Celsius, mentre la mattina è relativamente più fresca, 600 gradi Celsius.
«È davvero sbalorditivo che siamo riusciti a distinguere questa piccola differenza, ed è stato possibile solo grazie alla sensibilità di Webb alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso e ai suoi sensori fotometrici estremamente stabili», afferma Espinoza. «Qualsiasi piccolo movimento nello strumento o nell’osservatorio durante la raccolta dei dati avrebbe limitato fortemente la nostra capacità di effettuare questa rilevazione. Deve essere straordinariamente preciso, e Webb lo è».
Un’estesa modellazione dei dati ottenuti permette ai ricercatori di studiare la struttura dell’atmosfera di Wasp-39 b, la copertura nuvolosa e il motivo per cui la sera è più calda. In futuro gli astronomi cercheranno di capire come la copertura nuvolosa possa influenzare la temperatura, e viceversa. Per ora lo studio ha confermato che la circolazione dei gas intorno al pianeta è la principale responsabile della differenza di temperatura su Wasp-39 b.
Su un esopianeta così fortemente irradiato come Wasp-39 b, che orbita relativamente vicino alla sua stella, ci si aspetta che il gas si muova mentre il pianeta ruota intorno alla sua stella: il gas più caldo dal lato giorno dovrebbe spostarsi verso il lato notte grazie a una potente corrente a getto equatoriale. Poiché la differenza di temperatura è così estrema, anche la differenza di pressione dell’aria si presume sia significativa, il che a sua volta causa un’elevata velocità del vento.
Una curva di luce di NirSpec mostra la variazione di luminosità del sistema stellare nel corso del tempo, mentre il pianeta transitava sulla stella. Questa osservazione è stata effettuata utilizzando la modalità “bright object time-series”, che utilizza un reticolo per diffondere la luce di un singolo oggetto luminoso (come la stella ospite di Wasp-39 b) e misurare la luminosità di ciascuna lunghezza d’onda della luce a intervalli di tempo prestabiliti. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
Utilizzando i modelli di circolazione generale – modelli tridimensionali simili a quelli usati per prevedere i modelli meteorologici sulla Terra – i ricercatori hanno scoperto che su Wasp-39 b i venti prevalenti si muovono probabilmente dal lato notturno attraverso il terminatore mattutino, intorno al lato giorno, attraverso il terminatore serale e poi intorno al lato notte. Di conseguenza, il lato mattutino del terminatore è più freddo di quello serale. In altre parole, il lato del mattino viene investito da venti di aria che si è raffreddata nel lato notte, mentre la sera viene colpita da venti di aria riscaldata sul lato giorno. La ricerca suggerisce che la velocità del vento su Wasp-39 b può raggiungere migliaia di chilometri all’ora.
«Questa analisi è particolarmente interessante anche perché si ottengono informazioni tridimensionali sul pianeta che prima non si avevano», afferma Espinoza. «Poiché possiamo dire che il bordo serale è più caldo, significa che è un po’ più puffy. Quindi, in teoria, c’è una piccola mareggiata al terminatore che si avvicina al lato notturno del pianeta».
«Grazie al Jwst stiamo studiando le atmosfere degli esopianeti con una precisione e un dettaglio che prima non erano possibili», conclude Luigi Mancini, professore associato all’Università di Roma Tor Vergata e associato Inaf, che lavora nel campo degli esopianeti da più di 15 anni ed è scopritore e co-scopritore di più di 100 pianeti con varie tecniche osservative e vari strumenti. «Questo nuovo studio del pianeta di tipo Saturniano Wasp-39b aggiunge un nuovo tassello al quadro che stiamo lentamente costruendo per capire l’astrofisica delle atmosfere esoplanetarie e che ci permetterà un giorno di classificare i pianeti in classi spettrali così come facciamo da oltre un secolo per le stelle».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Inhomogeneous terminators on the exoplanet WASP-39 b” di Néstor Espinoza, Maria E. Steinrueck, James Kirk, Ryan J. MacDonald, Arjun B. Savel, Kenneth Arnold, Eliza M.-R. Kempton, Matthew M. Murphy, Ludmila Carone, Maria Zamyatina, David A. Lewis, Dominic Samra, Sven Kiefer, Emily Rauscher, Duncan Christie, Nathan Mayne, Christiane Helling, Zafar Rustamkulov, Vivien Parmentier, Erin M. May, Aarynn L. Carter, Xi Zhang, Mercedes López-Morales, Natalie Allen, Jasmina Blecic, Leen Decin, Luigi Mancini, Karan Molaverdikhani, Benjamin V. Rackham, Enric Palle, Shang-Min Tsai, Eva-Maria Ahrer, Jacob L. Bean, Ian J. M. Crossfield, David Haegele, Eric Hébrard, Laura Kreidberg, Diana Powell, Aaron D. Schneider, Luis Welbanks, Peter Wheatley, Rafael Brahm & Nicolas Crouzet
Così la Terra ha ottenuto la sua acqua
Circa il 70 per cento della superficie del nostro pianeta è ricoperta d’acqua. Una domanda che si pongono da tempo gli scienziati è da dove provenga tutta quest’acqua. Una certa quantità probabilmente era già presente sul nostro pianeta al momento della sua formazione. Ma da dove giunge tutto il resto?
La Terra vista dall’equipaggio dell’Apollo 17. L’iconico scatto è conosciuto col nome di “Blue Marble”, biglia blu. Crediti: Nasa
Una risposta al quesito arriva adesso dallo studio di diverse meteoriti, tra le quali la meteorite di Flensburg, caduta sulla Terra il 12 settembre 2019. Le analisi condotte su questi pezzi di roccia da un team di ricercatori guidati dall’Università di Heidelberg, in Germania, suggeriscono che a portare copiose quantità del prezioso liquido sul nostro pianeta sarebbero stati piccoli planetesimi formatisi in una fase successiva dell’evoluzione del Sistema solare primordiale nella sua parte più esterna. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports, una rivista del gruppo Nature.
La storia del Sistema solare è cominciata circa 4.6 miliardi di anni fa, quando il materiale della nebulosa solare ha plasmato la struttura di base del nostro sistema planetario, formando il Sole e i pianeti. Quest’ultimi, in particolare, sono emersi dai cosiddetti planetesimi, aggregati di grani di polveri e gas che, continuando ad accrescere materia, hanno formato corpi di dimensioni via via maggiori. In pratica, i planetesimi costituiscono uno stadio intermedio di aggregazione delle polveri e dei gas della nebulosa solare primordiale che nel corso di milioni di anni ha portato alla formazione dei pianeti, la Terra compresa.
Le circostanze esatte nelle quali questi planetesimi si sono formati non sono ancora state chiarite definitivamente. Informazioni importanti a questo proposito si possono però ottenere dalla datazione isotopica di alcune classi di meteoriti, pezzi di roccia che a un certo punto si sono separati da questi piccoli pianeti. Ed è sempre dallo studio di queste meteoriti che possiamo avere indicazioni su come sia arrivata l’acqua sulla Terra.
È quello che hanno fatto Vladimir Neumann, ricercatore dell’Università di Heidelberg, in Germania, e il suo team. Nella loro ricerca, gli scienziati si sono concentrati su diverse meteoriti, e in particolare su quella nota come meteorite di Flensburg, un pezzo di roccia caduto nella Germania settentrionale il 12 settembre 2019. Si tratta di una rara condrite carbonacea con un diametro compreso tra 3.5 e 3.7 centimetri e un peso di poco meno di 25 grammi.
L’obiettivo dei ricercatori era quello di calcolare il periodo di formazione dei corpi progenitori di queste meteoriti. Per farlo, hanno combinato sofisticati modelli di evoluzione termica con i dati termo-cronologici misurati sulle meteoriti stesse. I risultati ottenuti dai ricercatori suggeriscono che durante l’evoluzione del Sistema solare alcuni planetesimi si siano formati molto rapidamente, altri invece tardivamente. Più in dettaglio, le analisi mostrano che il corpo progenitore della meteorite di Flensburg si sia formato 2.7 milioni di anni dopo la nascita del Sistema solare. Questo, spiegano i ricercatori, significa che i planetesimi erano in grado di formarsi anche più tardi nel corso dell’evoluzione del Sistema solare, e a temperature più basse. Le analisi hanno inoltre mostrato che, al momento della formazione, la distanza dal Sole di questi corpi progenitori è stata cruciale nel determinare al loro interno la presenza di acqua. In questo senso, aggiungono i ricercatori, la meteorite di Flensburg conserva le più antiche tracce della presenza del liquido nel Sistema solare.
La meteorite di Flensburg, la rara ara condrite carbonacea di tipo C1 contenente minerali che si formano solo in presenza di acqua. Le sue analisi hanno ora dato un contributo significativo per comprendere come l’acqua sia arrivata sul nostro pianeta. Il fatto che il corpo genitore di Flensburg si sia formato 2,7 milioni di anni dopo la nascita del Sistema solare mostra che i planetesimi erano anche in grado di formarsi più tardi e a temperature più basse, il che significa che l’acqua è rimasta nei corpi genitori ed è stata successivamente portata sulla Terra. Flensburg è quindi la traccia più antica di attività fluida nel Sistema Solare. Crediti: Carsten Jonas
In pratica, secondo questo studio, la formazione del nostro sistema planetario ha vissuto due fasi principali e successive nel tempo, dalla seconda delle quali è dipeso il fatto che il nostro pianeta diventasse quello che è oggi: un pianeta blu.
Nella prima fase, durata meno di due milioni di anni, si sarebbero formati i planetesimi più vicini al Sole. Essendo così prossimi alla nostra stella, questi corpi sarebbero stati sottoposti a temperature elevatissime, perdendo così tutti i loro elementi volatili, inclusa l’acqua. Nella seconda fase si sarebbero formati invece i planetesimi più lontani dalla nostra stella. Vista la loro distanza dal Sole, questi planetesimi tardivi non sarebbero diventati così caldi, e come tali non avrebbero perso l’acqua che contenevano. «Questi piccoli corpi non solo hanno fornito i materiali da costruzione per i pianeti, ma sono anche la fonte dell’acqua della Terra», dice Mario Trieloff, ricercatore dell’Università di Heidelberg e co-autore dello studio.
La domanda a questo punto diventa: come è possibile che questi planetesimi si siano formati così tardivamente durante l’evoluzione del Sistema solare? L’ipotesi dei ricercatori è che dev’esserci stato un meccanismo di ritardo, ad esempio collisioni tra agglomerati di polvere, che ha impedito la rapida crescita di piccoli pianeti. Questo ritardo avrebbe consentito l’accrescimento tardivo di planetesimi oltre la linea di neve – il confine termodinamico oltre il quale la temperatura del disco di gas e polveri che circonda una giovane stella scende abbastanza perché si formi ghiaccio – consentendogli di sfuggire alla perdita di sostanze volatili e di preservare l’acqua.
«La Terra ha inglobato questi piccoli pianeti ricchi di acqua o i loro frammenti sotto forma di asteroidi o meteoriti durante il suo processo di crescita», conclude Neumann. «Questa è l’unica ragione per cui il nostro pianeta non è diventato un mondo completamente arido e ostile alla vita».
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Recurrent planetesimal formation in an outer part of the early solar system” di Wladimir Neumann, Ning Ma, Audrey Bouvier e Mario Trieloff
La pericolosità all’origine delle aurore
Un’aurora vista dallo spazio. Crediti: www.frontiersin.org
Da quando lo scorso maggio i cieli italiani si sono straordinariamente tinti di rosso, spesso mi ritrovo a controllare il sito Space Weather Prediction Center del National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) sperando di trovare il bell’anellone rosso che indica un’alta probabilità di rivedere quello spettacolo anche alle nostre latitudini. Ma lo faccio egoisticamente, senza pensare alle conseguenze che un caso così estremo potrebbe avere sulla Terra.
Per millenni le aurore hanno ispirato miti e presagi ma solo ora, con la moderna tecnologia dipendente dall’elettricità, stiamo apprezzando il loro vero potere. Le stesse forze che causano le aurore provocano correnti che possono danneggiare le infrastrutture che conducono elettricità, qui sulla Terra.
Ora, tre scienziati statunitensi hanno pubblicato su Frontiers in Astronomy and Space Sciences uno studio che dimostra come l’angolo di impatto degli shock interplanetari all’origine delle aurore è fondamentale per definire la forza delle correnti, offrendo l’opportunità di prevedere quelli che possono essere di fatto gli shock pericolosi, e di conseguenza proteggere per tempo le infrastrutture critiche.
«Le aurore e le correnti geomagnetiche indotte sono causate da fattori meteorologici spaziali simili», spiega Denny Oliveira del Goddard Space Flight Center della Nasa, primo autore dell’articolo. «L’aurora è un fenomeno visivo che indica che le correnti elettriche nello spazio possono generare queste correnti geomagnetiche indotte al suolo. La regione aurorale può espandersi notevolmente durante le tempeste geomagnetiche. Di solito, il suo confine più meridionale è intorno ai 70 gradi di latitudine, ma durante gli eventi estremi può scendere fino a 40 gradi o anche oltre, cosa che si è certamente verificata durante la tempesta del maggio 2024, la più grave degli ultimi due decenni».
Le aurore sono causate da due processi: o le particelle espulse dal Sole raggiungono il campo magnetico terrestre e causano una tempesta geomagnetica, oppure gli shock interplanetari comprimono il campo magnetico terrestre. Questi shock generano anche correnti geomagnetiche indotte, che possono danneggiare le infrastrutture che conducono elettricità. Shock interplanetari più potenti significano correnti e aurore più forti, ma anche shock frequenti e meno potenti potrebbero causare danni.
«Probabilmente gli effetti deleteri più intensi sulle infrastrutture elettriche si sono verificati nel marzo 1989, in seguito a una forte tempesta geomagnetica: il sistema Hydro-Quebec in Canada è stato interrotto per quasi nove ore, lasciando milioni di persone senza elettricità», racconta Oliveira. «Ma eventi più deboli e frequenti, come gli shock interplanetari, possono rappresentare nel tempo una minaccia per i conduttori di terra. Il nostro lavoro mostra che le correnti geoelettriche considerevoli si verificano abbastanza frequentemente dopo gli shock, e meritano attenzione».
Si ritiene che gli shock che colpiscono la Terra frontalmente, piuttosto che quelli inclinati, inducano correnti geomagnetiche più forti, perché comprimono maggiormente il campo magnetico. Ebbene, nello loro studio gli scienziati hanno valutato come le correnti geomagnetiche indotte siano influenzate dall’angolazione degli shock, a diverse ore del giorno.
Per farlo, hanno considerato un database di shock interplanetari e lo hanno incrociato con le letture delle correnti geomagnetiche indotte da un gasdotto di Mäntsälä, in Finlandia, che generalmente si trova nella regione aurorale durante i periodi di attività. Per calcolare le proprietà di questi shock, come l’angolo e la velocità, hanno utilizzato i dati del campo magnetico interplanetario e del vento solare. Gli shock sono stati suddivisi in tre gruppi: fortemente inclinati, moderatamente inclinati e quasi frontali.
Hanno scoperto che quelli più frontali causano picchi più elevati nelle correnti geomagnetiche indotte sia subito dopo la scossa, sia durante la successiva substorm. Picchi particolarmente intensi si sono verificati intorno alla mezzanotte magnetica, quando il polo nord si sarebbe trovato tra il Sole e Mäntsälä. Le substorm localizzate a quest’ora causano anche un’impressionante schiarita aurorale.
«Correnti moderate si verificano poco dopo l’impatto della perturbazione, quando Mäntsälä si trova intorno al crepuscolo ora locale, mentre correnti più intense si verificano intorno alla mezzanotte ora locale», riporta Oliveira.
Poiché gli angoli di questi shock possono essere previsti fino a due ore prima dell’impatto, queste informazioni potrebbero consentirci di predisporre protezioni per le reti elettriche e altre infrastrutture vulnerabili prima che gli shock più forti e frontali colpiscano.
«Una cosa che gli operatori delle infrastrutture elettriche potrebbero fare per salvaguardare le loro apparecchiature è gestire alcuni circuiti elettrici specifici quando viene emesso un allarme di shock», suggerisce Oliveira. «In questo modo si eviterebbe che le correnti geomagnetiche indotte riducano la durata di vita delle apparecchiature».
Tuttavia, gli scienziati non hanno trovato forti correlazioni tra l’angolo di uno shock e il tempo necessario per colpire e quindi indurre una corrente. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che per indagare questo aspetto sono necessarie altre registrazioni di correnti a diverse latitudini.
«I dati attuali sono stati raccolti solo in un luogo particolare, ovvero il sistema di gasdotti per il gas naturale di Mäntsälä», ammonisce Oliveira. «Sebbene Mäntsälä si trovi in una posizione critica, non fornisce un quadro a livello mondiale. Inoltre, i dati di Mäntsälä mancano di diversi giorni nel periodo esaminato, il che ci ha costretto a scartare molti eventi nel nostro database delle scosse. Sarebbe bello che le aziende elettriche di tutto il mondo rendessero i loro dati accessibili agli scienziati per gli studi», conclude il ricercatore.
Per saperne di più:
- Leggi su Frontiers in Astronomy and Space Sciences l’articolo “Spectacular auroras are caused by head-on blows to Earth’s magnetic field that could damage critical infrastructure” di Denny M. Oliveira, Eftyhia Zesta e Sergio Vidal-Luengo
Codice giallo per i transistor di Europa Clipper
Rappresentazione artistica della sonda spaziale Europa Clipper della Nasa, il cui lancio è previsto per ototbre. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Il satellite mediceo Europa è uno fra i luoghi più promettenti per la ricerca di vita aliena nel Sistema solare. Ma l’ambiente che lo circonda potrebbe rivelarsi fatale per un’altra forma di “vita”: quella dei transistor a bordo di Europa Clipper, una missione Nasa da cinque miliardi di dollari che dovrebbe partire il prossimo ottobre, appunto, alla volta di Europa. Programma che ora rischia di poter subire un ritardo proprio a causa della resistenza alle radiazioni, che da quanto è emerso nei mesi scorsi risulta per alcuni transistor a bordo della sonda inferiore a quanto richiesto.
A mettere in allarme i tecnici della Nasa sono in particolare i chip con transistor a tecnologia Mosfet. Quelli utilizzati da Europa Clipper sono una versione blindata e irrobustita ad hoc: sono infatti progettati in modo da tollerare radiazioni da mille a tremila Gray (unità di misura della dose assorbita di radiazioni ionizzanti: tanto per farsi un’idea, per un essere umano già 6-8 Gray sono una dose letale). Quanto basta per resistere all’enorme flusso di radiazioni che dovrebbero incontrare nel corso della missione. Va infatti detto che, radioattivamente parlando, quello che Europa Clipper dovrà esplorare è l’ambiente più ostile di tutto il Sistema solare: al confronto, attraversare le fasce di Van Allen, dove le radiazioni sono circa 50 volte inferiori, è una passeggiata. Questo perché l’enorme campo magnetico del sistema gioviano – 20mila volte più forte di quello terrestre – intrappola le particelle cariche e le accelera ad altissime energie, producendo intense radiazioni che investono Europa e le altre lune interne.
Tornando ai transistor, i dati dei test ottenuti finora mostrano che alcuni potrebbero non soddisfare appieno gli stringenti requisiti della missione. Il sospetto che potessero non reggere all’intenso flusso di radiazioni del sistema gioviano aleggia da tempo, tanto che già a maggio una nota della Nasa riportava il problema. In queste settimane – il completamento dell’analisi preliminare è previsto per la fine di luglio – il team di Europa Clipper sta cercando di valutare quanti sono i transistor interessati, per capire se la ridondanza, comunque prevista, è sufficiente. O se, invece, occorrerà sostituirli. Un’operazione, quest’ultima, piuttosto complessa in questa fase della missione, al punto da poter richiedere un posticipo della data di lancio. Posticipo non indolore, va sottolineato: trattandosi di una missione interplanetaria, una variazione rispetto al calendario ottimale può comportare traiettorie assai più complesse e ritardi anche di anni sull’arrivo a destinazione. Sempre meglio, comunque, rispetto al rischio di scoprire che i transistor non avrebbero retto solo una volta giunti in orbita attorno a Europa.
Una grotta sotto il mare della Tranquillità
Una spettacolare vista di un pozzo nel mare della Tranquillità. L’immagine è stata ottenuta dal Lunar Reconnaissance Orbiter nel 2012. Gli scienziati stimano che la profondità sia di circa 100 metri e abbia una larghezza che varia dai 100 ai 115 metri. Crediti: Nasa/Gsfc/Arizona State University
La superficie del nostro satellite naturale è ricoperta da milioni di crateri, ma ospita anche centinaia di cavità chiamate pozzi, pits in inglese. Alcune di esse, chiamate dagli addetti ai lavori skylights (in italiano, lucernari), sono grosse buche che si pensa siano state prodotte dal crollo del tetto di tubi di lava lunari. Si tratta di condotti cavi che si ipotizza si siano formati miliardi di anni fa, quando la Luna era ancora geologicamente attiva, in seguito a eruzioni vulcaniche e allo scorrere dei flussi di lava. Larghi diversi metri e lunghi decine di chilometri, simili condotti si possono trovare sulla Terra e anche nel sottosuolo di Marte. Sulla Luna, la loro presenza è stata a lungo teorizzata. Adesso, grazie a una ricerca guidata dall’Università di Trento, è arrivata la conferma: sotto la superficie del nostro satellite naturale c’è un tunnel lavico.
«Queste caverne sono state teorizzate per oltre 50 anni», dice Lorenzo Bruzzone dell’Università di Trento, coautore dello studio che riporta oggi la scoperta su Nature Astronomy. «Ora, per la prima volta, ne dimostriamo l’esistenza»
La scoperta del condotto lunare sotterraneo è stata possibile grazie ai dati ottenuti da Lro, il Lunar Reconnaissance Orbiter della Nasa, e in particolare grazie alle immagini radar che lo strumento Mini-Rf (Miniature Radio-Frequency) a bordo dell’orbiter ha acquisito di un “pozzo” – lo vedete nell’immagine qui accanto – situato all’interno del mare della Tranquillità, un’ampia pianura basaltica presente nel lato visibile del nostro satellite.
Passando al setaccio i dati di questa cavità – la più profonda a oggi nota sulla Luna – i ricercatori subito notano qualcosa di strano: un aumento della luminosità radar sul lato ovest del pozzo. Si tratta di un forte indizio della presenza di tali condotti. La conferma arriva grazie alle simulazioni: dando in pasto a un codice i dati radar, i ricercatori hanno ottenuto un modello 3D che, coerentemente con le osservazioni, suggerisce l’esistenza di un condotto che si espande nel sottosuolo dal lato ovest del pozzo.
«Nel 2010, nell’ambito della missione – tutt’ora in corso – Lro della Nasa, lo strumento Mini-Rf ha acquisito dati che mostrano la presenza di un pozzo nel mare della Tranquillità», ricorda Bruzzone. «A distanza di anni, abbiamo rianalizzato questi dati con le complesse tecniche di elaborazione del segnale sviluppate dal nostro team di recente, scoprendo dei riflessi radar provenienti dall’area del pozzo che sono ben spiegati dalla presenza di un condotto sotterraneo: è la prima prova diretta dell’esistenza di un tubo lavico accessibile sotto la superficie della Luna».
I ricercatori stimano che il condotto si trovi a una profondità di circa 130-170 metri, che sia lungo dai 30 agli 80 metri e largo circa 45. I risultati suggeriscono inoltre che il condotto sia leggermente inclinato, con una pendenza massima di 45 gradi. «Grazie all’analisi dei dati, siamo riusciti a creare il modello di una porzione del condotto», aggiunge Leonardo Carrer, ricercatore all’Università di Trento e primo autore dello studio. «La spiegazione più probabile delle nostre osservazioni è che si tratti di un tubo lavico cavo».
Modelli dei profili strutturali (a sinistra) e modelli 3D (a destra) del condotto scoperto dai ricercatori sotto il pozzo del mare della Tranquillità. Le linee continue e tratteggiate dei profili strutturali raffigurano rispettivamente ciò che si osserva e ciò che si ipotizza circa la morfologia del condotto. Crediti: Leonardo Carrer et al., Nature Astronomy, 2024
Lo studio in questione, che ha coinvolto anche ricercatori dell’Università di Padova e del La Venta Geographic Exploration Aps (che hanno contribuito alle analisi geologiche e alla modellazione del condotto individuato), ha notevoli implicazioni scientifiche per lo sviluppo delle future missioni di esplorazione umana della Luna. In quanto ad abitabilità, il nostro satellite naturale non è il luogo ideale dove vivere per fare ricerca scientifica. Le temperature superficiali sul suo lato visibile possono raggiungere i 127 °C, mentre quelle sul lato nascosto possono scendere fino a -173 °C. Neanche a luce incidente è messo meglio: le radiazioni cosmiche e solari possono essere fino a 150 volte più potenti di quelle che sperimentiamo sulla Terra, e la minaccia di impatto di meteoriti è costante. Tutte insieme queste condizioni determinano la necessità di individuare siti sicuri per la costruzione di future infrastrutture di ricerca in grado di sostenere un’esplorazione prolungata della Luna. Condotti di lava come quello individuato in questo studio potrebbero rappresentare una soluzione al problema.
Questa scoperta suggerisce che il pozzo nel mare della Tranquillità sia un sito promettente per una futura base lunare, concludono i ricercatori. Offrendo un riparo dal duro ambiente della superficie del nostro satellite, potrebbe favorire l’esplorazione umana a lungo termine.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Radar evidence of an accessible cave conduit on the Moon below the Mare Tranquillitatis pit”, di Leonardo Carrer, Riccardo Pozzobon, Francesco Sauro, Davide Castelletti, Gerald Wesley Patterson e Lorenzo Bruzzone
Zoom sul cosmo infrarosso con un anello di Einstein
Distribuzioni delle emissioni di stelle, gas freddo e gas ionizzato nell’anello di Einstein PJ0116-24. Crediti: Daizhong Liu et al. / Nature Astronomy
La straordinaria immagine che vedete qui a fianco mostra uno degli oggetti più luminosi dell’universo lontano: la galassia PJ0116-24, una cosiddetta galassia infrarossa iperluminosa (HyLirg). Oggetti incredibilmente luminosi grazie all’intensa e vigorosa formazione stellare al loro interno, queste galassie emettono fino al 90 per cento della loro luce complessiva nella regione dell’infrarosso dello spettro. Ma cosa innesca questo fenomeno? In un recente studio guidato dall’istituto tedesco Max Planck per la fisica extraterrestre (Mpe) e dall’Osservatorio Purple Mountain, in Cina, sono state combinate le osservazioni delle potenti antenne cilene dell’Eso Vlt (Very Large Telescope) e Alma (Atacama Large Millimetre/submillimetre Array) per studiare il moto del gas in PJ0116-24. All’articolo scientifico che riporta il risultato, pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, hanno partecipato anche diversi ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
Le antenne cilene hanno catturato l’elegante e raro spettacolo del cosiddetto anello di Einstein. La forma particolare di questo oggetto è causata dal fenomeno della lente gravitazionale, predetto da Albert Einstein nella sua teoria della relatività generale. Come funziona? L’immagine di una galassia distante è distorta dal campo gravitazionale di una galassia massiccia interposta, creando archi o anelli di luce. Gli astronomi sfruttano questo affascinante effetto per studiare oggetti lontanissimi, altrimenti invisibili con i telescopi da terra e dallo spazio.
PJ0116-24 si trova nell’universo remoto: è così lontana che la sua luce ha impiegato circa 10 miliardi di anni per raggiungere le nostre antenne a terra. Fortunatamente, una galassia in primo piano (non mostrata qui) ha agito – appunto – come una “lente d’ingrandimento”, piegando e ingrandendo la luce di PJ0116-24 dietro di essa, formando l’anello di Einstein che vediamo nell’immagine.
I dati di Alma in blu, i dati di Vlt/Eris in rosso-arancione. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/Eso/D. Liu et al.
«L’effetto lente gravitazionale la rende un anello quasi perfetto. Oggetti simili a questo», spiega Filippo Mannucci, dirigente di ricerca all’Inaf di Arcetri e co-autore della pubblicazione scientifica, «hanno sempre mostrato la presenza dello scontro tra due galassie. Al contrario, PJ0116-24 sembra costituita da un disco stellare simile a quelli scoperti e studiati nell’universo locale, dimostrando che questo livello di luminosità e simili tassi di formazione stellare possono essere raggiunti anche senza una drammatica fusione tra due galassie».
Un risultato sorprendente per il team di ricerca perché, contrariamente a quanto teorizzato in passato, lo studio dimostra che anche le galassie isolate possono diventare delle HyLirg attraverso processi interni, se il gas che forma le stelle viene rapidamente convogliato verso il centro della galassia.
I colori visibili nell’immagine – scelta oggi dall’Eso come picture of the week – corrispondono ai dati raccolti dai singoli strumenti: le antenne di Alma tracciano il gas freddo, visibile in blu, mentre il Vlt, con lo spettrografo Eris (Enhanced Resolution Imager and Spectrograph), traccia il gas caldo, mostrato in rosso/arancio. Grazie a queste dettagliate osservazioni, il team ha scoperto che il gas in questa galassia ruota in maniera ordinata, a differenza del caos previsto dopo una collisione galattica.
Con Eris sarà possibile osservare oggetti del Sistema solare, esopianeti e galassie lontane con un dettaglio senza precedenti, grazie anche al suo modulo per l’ottica adattiva completamente a firma italiana: l’Inaf è infatti impegnato in prima linea nella progettazione e nella realizzazione del modulo di ottica adattiva e calibrazione di Eris e nell’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento. In particolare l’Inaf di Arcetri è responsabile di tutto il sistema di ottica adattiva, l’architettura generale del software di gestione di tutto lo strumento è sotto la guida dei ricercatori dell’Inaf di Padova, e l’unità di calibrazione è stata invece realizzata da tecnologi e ricercatori dell’Inaf d’Abruzzo.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Detailed study of a rare hyperluminous rotating disk in an Einstein ring 10 billion years ago”, di Daizhong Liu et al., pubblicato
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista a Filippo Mannucci:
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Torna a casa Juice
In viaggio verso Giove e le sue lune ghiacciate la sonda Juice (Jupiter Icy Moons Explorer) dell’Agenzia spaziale europea (Esa) si avvicinerà di nuovo alla Terra e alla Luna il 19 e 20 agosto prossimi ,stabilendo ben due record: il primo flyby del sistema Luna-Terra, chiamato Lega (Lunar-Earth Gravity Assist), e il primo aiuto gravitazionale doppio. Questa manovra, mai realizzata in precedenza, permetterà di cambiare la velocità e la direzione di Juice, preparando la sonda al successivo sorvolo ravvicinato di Venere nell’agosto del 2025. Si tratta di un’impresa audace: il più piccolo errore potrebbe deviare Juice in modo irreversibile.
Infografica del complesso piano di volo di Juice attraverso il sistema solare. In basso è riportata una timeline con le tappe fondamentali della missione. Il flyby Luna-Terra dell’agosto 2024 è cerchiato in rosso. Crediti: Esa
Dopo il lancio della missione nell’aprile del 2023, il Lega del mese prossimo è il primo passo di Juice nella danza verso il sistema di lune gioviano, che dista in media “solo” 800 milioni di km dalla Terra. Senza la sequenza di flyby previsti, il viaggio di Juice verso Giove richiederebbe un’impossibile quantità di propellente a bordo, circa 60mila kg. Quindi la sonda spaziale ha preso la “strada panoramica”, utilizzando la gravità di altri pianeti per regolare con cura la sua traiettoria attraverso lo spazio e assicurarsi di arrivare a Giove con la giusta velocità e direzione. Questo percorso incredibilmente complesso e in continuo mutamento è stato pianificato con cura dal team dedicato all’analisi della missione di Juice negli ultimi 20 anni. In modo controintuitivo, utilizzare la fionda gravitazionale Luna-Terra per rallentare Juice in questo punto del suo viaggio è effettivamente più efficiente che usarlo per accelerarlo. Se si fosse utilizzato questo sorvolo ravvicinato per dare una spinta a Juice verso Marte, avremmo dovuto aspettare a lungo per il successivo flyby planetario. Questa prima manovra di “frenata” è un modo per prendere una scorciatoia attraverso l’attuale Sistema solare interno.
Simulazione del doppio flyby Luna-Terra in programma ad agosto, Crediti: Esa/Lightcurve Films/R. Andres
Gli operatori della missione hanno già modificato il percorso di Juice per assicurarsi che arrivi il 19 agosto prima alla Luna, e un giorno dopo alla Terra, esattamente al momento giusto, con la velocità e direzione corrette. Sono fiduciosi del successo, ma si tratta di una sfida rischiosa che nessun’altra missione spaziale ha mai affrontato prima. Juice passerà estremamente vicino sia alla Luna che alla Terra, il che significa che è richiesta un’accuratezza millimetrica in tempo reale in tutte le manovre di navigazione. Dal 17 al 22 agosto Juice sarà in continuo contatto con le stazioni terrestri in tutto il mondo. Ogni secondo del tragitto, giorno e notte, gli operatori terranno sotto controllo i dati trasmessi da Juice, apportando eventuali piccoli aggiustamenti necessari per mantenere l’astronave nel giusto percorso.
Come se tutto ciò non fosse abbastanza, durante il Lega l’Esa attiverà anche i dieci strumenti scientifici a bordo della sonda. Infatti questa manovra fornisce un ambiente di test ideale per i team degli strumenti che analizzeranno per la prima volta i dati raccolti dallo spazio. «Ogni strumento viene calibrato in laboratorio prima del lancio, ma le condizioni nello spazio non sono completamente riproducibili sulla Terra», spiega Pasquale Palumbo, ricercatore all’Inaf di Roma e principal investigator dello strumento Janus a bordo di Juice. «Per questo, la possibilità di verificare e affinare le calibrazioni in volo è una opportunità unica: la Luna è un calibratore ideale, dal momento che ne conosciamo la superficie con grande dettaglio e in diversi colori (o bande spettrali, nel visibile e vicino infrarosso). La Terra, per la sua variabilità, pone maggiori problemi, ma può fornire misure complementari a quelle derivate osservando la Luna. Per questo sono state programmate alcune complesse operazioni anche della fotocamera multibanda Janus. Simuleremo una tipica operazione di flyby come quelle previste fra qualche anno sui satelliti galileiani di Giove, con la differenza che osserveremo un oggetto noto: potremo confrontare cosi i nostri dati con l’ampio database di dati lunari e terrestri per prepararci al meglio alle operazioni nel sistema di Giove».
Gli strumenti scientifici a bordo di Juice. Crediti: Esa
Verrà attivato anche lo strumento Majis, che acquisirà immagini in combinazione con lo strumento orbitale Prisma dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). «Essendo Majis uno spettrometro a immagini, acquisiremo sia immagini che spettri ma di una zona molto ristretta vista la breve distanza dai target», dice il principal investigator dello strumento, Giuseppe Piccioni, ricercatore all’Inaf di Roma. «Oltre all’opportunità della calibrazion, avremo comunque modo di fare interessanti studi scientifici per entrambi i target. Una novità assoluta riguarda la combinazione delle osservazioni di Majis e Janus con Prisma, lo strumento orbitale terrestre gestito dall’Asi. Aggiungerà un plus importante sia per la calibrazione degli strumenti che per la scienza della Terra».
Quindi, dita incrociate per questo evento unico. Juice potrebbe essere visibile con un binocolo potente o con un piccolo telescopio, ma purtroppo volerà sopra il sudest asiatico e l’Oceano Pacifico, e non sarà dunque visibile dall’Italia. Ma non disperiamo: l’Esa condividerà sui social media le foto scattate da Juice durante tutto il flyby non appena saranno ricevute sulla Terra.
L’arte (e la scienza) dei colori sfavillanti di Jwst
Le prime cinque immagini rilasciate da Jwst il 12 luglio 2022. Crediti: Nasa, Esa, Csa e Stsci
È il 12 luglio di due anni fa, l’Europa si sta riprendendo dalle ondate di calore di giugno e si appresta ad affrontarne di nuove, in quello che si rivelerà essere uno dei mesi di luglio più caldi della storia recente. Anche nella comunità astronomica c’è grande fervore. Figurativo, s’intende. La primissima immagine a colori del telescopio spaziale James Webb (Jwst), resa pubblica a sorpresa durante la notte, ha già strabiliato gli occhi di mezzo mondo con un tripudio di galassie, ma il meglio – si mormora – deve ancora venire. Si attende con trepidazione la diretta web durante la quale le agenzie spaziali statunitense, europea e canadese sveleranno altri quattro ritratti dell’universo immortalato dal nuovo gioiello dell’astrofisica.
Le prime immagini di Jwst: due anni dopo
Allo Space Telescope Science Institute (Stsci) di Baltimora, invece, si inizia finalmente a respirare. Da oltre un mese, più di trenta persone stanno lavorando senza indugio per consegnare all’umanità un regalo cosmico mai visto prima. «Per via delle tempistiche imposte dalle fasi di lancio, dispiegamento e controllo orbitale di Jwst, il nostro lavoro sulle Early Release Observations (Ero) è stato compresso in un periodo di sei settimane, dall’inizio di giugno fino al 12 luglio 2022», racconta a Media Inaf Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach a Stsci. «All’interno di questa finestra di sei settimane, abbiamo osservato con successo tutti gli obiettivi che avevamo scelto, abbiamo ridotto i dati, applicando la migliore calibrazione allora possibile, e infine abbiamo elaborato le immagini a colori. È stato un periodo incredibilmente stressante e allo stesso tempo magico».
Alyssa Pagan (seduta, a sinistra), Joe DePasquale (seduto, al centro, con l’indice puntato in avanti) e altri membri del team Webb Ero mentre discutono la composizione finale di una delle prime immagini di Jwst, a giugno 2022. Crediti: Stsci
In quelle sei settimane, DePasquale e il team Webb Ero, composto da scienziati, grafici e redattori scientifici, si riunivano quotidianamente per esaminare i dati più recenti e monitorare il programma di osservazione, in vista della tanto sospirata release. Il resto, lo sappiamo, è storia. Non solo dell’astronomia o della comunicazione scientifica. Storia della cultura pop. Le prime immagini di Jwst hanno collezionato duecento miliardi di impressioni online. Con una popolazione globale che, nel luglio 2022, sfiorava gli otto miliardi, questo significa che ogni persona sulla Terra con accesso a canali di notizie o a una connessione internet ha avuto molteplici opportunità di ammirarle. E se quegli scatti “rubati” al cosmo sono in grado di parlare a un pubblico di gran lunga più vasto di coloro che intendono analizzare scientificamente i dati di Jwst, uno degli artefici è proprio DePasquale.
Joe DePasquale, principal science visuals developer presso l’Office of Public Outreach allo Space Telescope Science Institute di Baltimora
«Non avrei mai immaginato di potermi trovare in questa posizione», ammette. «Sapevo di voler lavorare nel campo dell’astronomia e intuitivamente sapevo che erano sempre gli aspetti visivi dell’astronomia a catturare la mia immaginazione, ma non pensavo nemmeno che questo tipo di lavoro esistesse». Finiti gli studi in astronomia all’Università di Villanova, Pennsylvania, a cavallo del nuovo millennio si trasferisce a Boston, dove di giorno lavora all’analisi e calibrazione dati del telescopio spaziale Chandra della Nasa, mentre di sera frequenta corsi di formazione in grafica, design e pittura e suona in una band attiva ancora oggi. Questa commistione di interessi lo porta a cambiare carriera: dai dati di Chandra passa alla divulgazione, iniziando a elaborare le immagini del potente telescopio a raggi X per far apprezzare le sue osservazioni dell’universo energetico al grande pubblico.
Da una missione all’altra, il salto è breve. «Quando ero a Villanova», ricorda DePasquale, «sentivo parlare dei piani per il Next Generation Space Telescope, che sarebbe poi diventato il telescopio spaziale James Webb. Ho sempre pensato che una carriera a lungo termine nel campo dell’astronomia avrebbe probabilmente coinvolto questo telescopio». Così, quando nel 2016 legge l’annuncio di una posizione nel campo dell’elaborazione di immagini aperta da Stsci in vista del lancio di Jwst, non si lascia scappare l’occasione. Certo, trasferirsi da Boston a Baltimora con tutta la famiglia è un bel cambiamento, ma ancora oggi ammette di doversi dare un pizzicotto almeno una volta a settimana per assicurarsi di non star sognando.
Ma i colori sono veri?
Sei immagini dei Pilastri della Creazione (a sinistra) scattate da diversi filtri della fotocamera NirCam di Jwst. A ciascuna immagine è stato applicato un singolo colore, a seconda del filtro usato. Una volta combinati, diventano l’immagine composita (a destra). Crediti:
«La maggior parte del mio lavoro consiste nel produrre immagini composite a colori a partire dalle osservazioni monocromatiche dei telescopi spaziali Webb o Hubble», chiarisce DePasquale. Le fotocamere di Jwst, come quelle di Hubble e di tutti i telescopi, raccolgono immagini monocromatiche. In bianco e nero. Certo, usando filtri disparati sono in grado di cogliere le molteplici “sfumature” dell’universo, osservando stelle, nebulose e galassie in tutti i colori: non solo quelli percepibili dall’occhio umano ma anche e soprattutto quelli – molto più numerosi – a cui i nostri occhi sono ciechi.
Jwst è un esempio da manuale: il potente osservatorio spaziale scruta il cielo nelle lunghezze d’onda, a noi invisibili, dell’infrarosso. Le immagini che raccoglie quotidianamente sono “istantanee” – si fa per dire, poiché richiedono generalmente diverse ore di osservazione – dello stesso corpo celeste in tanti filtri diversi. Separatamente.
Quando arrivano a Terra, ciascuna di queste immagini ha l’aspetto di una fotografia in bianco e nero. Ogni punto di ogni immagine – o pixel, del resto parliamo di immagini digitali – porta un pezzetto di informazione: quanta luce il telescopio ha misurato in quella direzione e in quella particolare lunghezza d’onda. A prima vista, potrebbero sembrare tutte uguali. Guardando con attenzione, però, ogni “bianco e nero” è diverso dagli altri, e a seconda del filtro adoperato racchiude indizi diversi sulla composizione chimica e le proprietà fisiche di quell’oggetto.
Tre immagini “grezze” dei Pilastri della Creazione osservati con la fotocamera NirCam a bordo di Jwst a lunghezze d’onda di 0,9, 3,35 e 4,44 micron (rispettivamente a sinistra, al centro e a destra) nell’ambito del programma Ero a giugno 2022. Fonte: Esa Jwst Science Archive
«Spesso le persone ci chiedono se queste immagini sono reali, se sono effettivamente quello che potrebbero vedere anche loro», aggiunge la collega Alyssa Pagan, science visuals developer presso l’Office of Public Outreach a Stsci. «Assicuriamo loro sempre, e con enfasi, che si tratta di dati veri che sono stati catturati dallo spazio, quindi di immagini reali, anche se c’è necessariamente un livello di interpretazione e traduzione per trasmettere qualcosa che non possiamo vedere».
Assegnare colori alla luce che non siamo in grado di vedere, sottolinea, è un po’ come trasporre una musica da un’ottava che solo i cani possono sentire, a un’altra ottava udibile per gli esseri umani. «La melodia e il rapporto tra le varie note rimangono gli stessi se la spostiamo di un’ottava verso il basso o verso l’alto in modo da potercela godere», suggerisce l’esperta di grafica astronomica. Ogni immagine ha una storia diversa. A seconda delle esigenze scientifiche, Jwst può osservare con diversi filtri, su un un campo di vista più o meno esteso, per un tempo più o meno lungo. Una volta raccolti i dati, inizia il lavoro di Pagan, DePasquale e colleghi.
«Selezioniamo filtri specifici che esaltano i dettagli e comunicano la scienza dell’oggetto astronomico nel modo più chiaro ed esteticamente accattivante», spiega Pagan. «Abbiniamo i colori ai filtri in ordine cromatico applicando alla luce infrarossa lo stesso sistema con cui vediamo la luce visibile». Niente di nuovo: pensiamo a una delle immagini astronomiche più famose, i “Pilastri della Creazione”, opera del telescopio spaziale Hubble.
Due sequenze che mostrano l’elaborazione grafica di un’immagine dei Pilastri della Creazione ottenuta con il telescopio spaziale Hubble utilizzando due diversi schemi per assegnare i colori ai tre diversi filtri. Lo schema mostrato nella sequenza in basso, che riprende il modello Rgb, è nota anche come “Hubble palette” (cliccare per ingrandire). Crediti: Nasa/J. DePasquale (Stsci)
Si tratta in realtà di tre immagini, corrispondenti a tre diverse lunghezze d’onda della luce visibile: una più corta, una intermedia e un’altra più lunga. Tre immagini monocromatiche. In bianco e nero. Per creare quella a colori, all’immagine ottenuta nel filtro corrispondente alla lunghezza d’onda più corta viene assegnato il canale corrispondente al blu (colore che ha effettivamente lunghezza d’onda più corta) e poi, a seguire, alle immagini ottenute nei filtri a lunghezze d’onda maggiori vengono assegnati rispettivamente il canale verde e poi quello rosso.
È la stessa tecnica alla base della fotografia digitale: si chiama Rgb e la usiamo ogni volta che scattiamo una foto con il nostro cellulare. Solo che con Jwst c’è un livello di astrazione aggiuntivo, sempre per quella storia dell’infrarosso: non possiamo associare i “colori” corrispondenti alle lunghezze d’onda dei filtri osservati perché, semplicemente, non potremmo vederli. Così il team di Stsci trasforma le lunghezze d’onda dell’infrarosso nei colori visibili «in modo che ai filtri con la lunghezza d’onda più corta venga assegnato il canale blu», nota Pagan, «e ai filtri con la lunghezza d’onda più lunga venga assegnato il rosso».
Al cospetto di Hubble
Pagan ha un percorso complementare rispetto a quello del collega DePasquale: inizia con studi di arte e design alla Towson University, contea di Baltimora, poi la curiosità verso il cosmo la porta a intraprendere una seconda laurea, questa volta in astronomia, all’Università del Maryland, College Park. Non ha in mente punti d’incontro tra le due strade, segue soltanto la sua passione.
Alyssa Pagan, science visuals developer presso l’Office of Public Outreach allo Space Telescope Science Institute di Baltimora
Passa qualche anno prima del momento “eureka”, durante il corso di astronomia osservativa: «è stato allora che ho capito che c’era qualcuno dietro la produzione di tutte quelle belle immagini accattivanti che avevo visto dello spazio», precisa, «e che il telescopio spaziale Hubble non “sputava fuori” le immagini così». Sulle tracce di quelle splendide visioni dell’universo e del processo dietro la loro composizione, Pagan scopre il centro Stsci di Baltimora e inizia a seguire quasi compulsivamente la pagina web con le opportunità lavorative dell’istituto. Finché non appare l’annuncio di un lavoro. Un lavoro da sogno. «Questo lavoro descriveva una nicchia molto specifica di abilità artistiche e scientifiche che, in maniera assolutamente casuale, avevo forgiato».
Quando si unisce al team, nel 2019, manca ormai poco al lancio di Jwst. Certo, considerata la lunghissima storia di rinvii, con tanto di rischi che l’intera missione potesse essere cancellata, le precauzioni non sono mai troppe. Finalmente, il giorno di Natale del 2021 il più “canzonato” dei telescopi spaziali prende il volo e, sarà forse anche per tutti quei ritardi che hanno permesso di controllare ogni cosa, tutto funziona alla perfezione. «Riuscivo a malapena a contenere l’entusiasmo», ricorda DePasquale. Il team segue il lancio e la complessa sequenza di dispiegamento con il fiato sospeso. «Quando sono arrivate le prime immagini ingegneristiche per verificare l’allineamento dello specchio, sapevamo che l’osservatorio era in condizioni ottimali e pronto per iniziare le osservazioni».
La scelta dei primi corpi celesti su cui posare l’ambizioso “occhio” da dieci miliardi di dollari di Jwst è un esercizio tutt’altro che banale a cui un gruppo di lavoro internazionale, formato da rappresentanti delle varie agenzie spaziali coinvolte nella missione, sta lavorando già da anni. DePasquale, che ne fa parte sin dai primi giorni a Stsci, ricorda i tantissimi target analizzati, target che coprono un’ampia varietà di fenomeni astrofisici per poter dimostrare al meglio le capacità del nuovo osservatorio. Viste le enormi incertezze sulla data di lancio, nulla può essere lasciato al caso. «Bisognava tenere in considerazione il fatto che Webb riesce a vedere solo alcune porzioni di cielo nei diversi periodi dell’anno«, continua. «Se il lancio fosse stato ritardato, come è avvenuto più volte, gli obiettivi a nostra disposizione sarebbero completamente cambiati. Abbiamo dovuto pianificare tutto questo e mettere su diversi programmi di osservazione di emergenza a seconda di quando sarebbe effettivamente avvenuto il lancio».
Un lavoro arduo, impegnativo, meticoloso, con sfide e imprevisti ma anche un piccolo, grande privilegio: Pagan e DePasquale sono tra i primi al mondo a poter contemplare le nuove immagini mozzafiato del cosmo. «Quando ho visto per la prima volta i dati di Jwst sono rimasta sbalordita, estasiata e anche sollevata», confessa Pagan, richiamando alla mente il momento in cui, in una sala riunioni a Stsci, sono arrivati i primi dati: era la Nebulosa della Tarantola, un’enorme nube di gas e polvere nella quale prendono forma nuove stelle. In gergo, la chiamano 30 Doradus, perché si trova nella costellazione del Dorado, rappresentata in molti atlanti celesti come un pesce spada.
Joe DePasquale al computer, elaborando l’immagine della Nebulosa della Tarantola osservata da Jwst. Crediti: Stsci
«È stato il nostro primo assaggio dell’incredibile risoluzione e nitidezza del telescopio», aggiunge DePasquale. «Eppure, mi chiedevo ancora se le immagini sarebbero state colorate e drammatiche come quelle di Hubble». Scientificamente, è sempre stato evidente che Jwst avrebbe cambiato completamente la nostra visione del cosmo, ma agli occhi del grande pubblico, sarebbe stato in grado di competere con un’icona del calibro di Hubble? L’esperto di grafica astronomica non dissimula le perplessità serbate a lungo, finché finalmente, una volta assemblata per la prima volta la composizione cromatica della nebulosa, tutte le preoccupazioni si sono dissolte.
NirCam: la vedetta del vicino infrarosso
Non poteva augurarsi un miglior successore, il buon vecchio Hubble che, anche con qualche acciacco, continua a fornire il suo lodevole servizio alla comunità astronomica. Lo pensa anche Mario Gennaro, astrofisico italiano che, sempre in quel di Baltimora, coordina le operazioni scientifiche di NirCam (Near Infrared Camera), una delle due fotocamere di bordo, quella dedicata al vicino infrarosso – le lunghezze d’onda di poco maggiori rispetto alla luce visibile – a cui dobbiamo le spettacolari immagini che oggi popolano ogni angolo del web. «Jwst è già diventato famoso come il suo predecessore», afferma Gennaro a Media Inaf. «L’impatto nell’immaginario pubblico, il modo in cui Hubble ha avvicinato la gente comune all’astronomia, è stato unico. Avevamo bisogno di un degno erede, e penso che Jwst si stia rivelando assolutamente all’altezza».
Mario Gennaro, Jwst NirCam operations lead allo Space Telescope Science Institute di Baltimora
Certo, NirCam non si limita a scattare splendide fotografie del cosmo, ci tiene a precisare l’astrofisico originario di Lecce, laurea a Pisa, dottorato a Heidelberg, in Germania, approdato a Stsci in tempi non sospetti, quando il lancio di Jwst era ancora un appuntamento lontano. «NirCam è una macchina molto versatile con un sacco di capacità: è la fotocamera con i pixel più raffinati di Jwst, e permette di raggiungere il massimo livello di dettaglio possibile». Ma è in grado di fare molto altro, dalla spettroscopia alle osservazioni su periodi di tempo molto lunghi – da molte ore ad alcuni giorni – per cercare piccolissime variazioni nella luminosità, fino alla coronografia, per schermare la luce proveniente da sorgenti molto brillanti e isolare oggetti più fiochi. Le ultime due caratteristiche fanno di Jwst un eccellente cacciatore di pianeti extrasolari, tematica ritenuta quasi futuristica quando la missione è stata progettata, negli anni Novanta del secolo scorso, a cui oggi è dedicata una frazione significativa del tempo dell’osservatorio.
NirCam funge anche da “vedetta” tecnica per tutto l’osservatorio. «Siamo il sensore di fronte d’onda di Jwst», aggiunge Gennaro. «Grazie a delle ottiche speciali, NirCam permette ai nostri esperti di misurare, ogni due giorni, le deviazioni del fronte d’onda rispetto allo stato “nominale” per decidere se dobbiamo fare dei piccoli aggiustamenti ai 18 segmenti dello specchio primario e “rimetterli in asse”. In questo modo tutti gli strumenti di Jwst, non solo NirCam, godono della miglior possibile qualità dell’immagine».
Questa immagine mostra, al centro, la stella luminosa usata per valutare l’allineamento delle ottiche di Webb e dello strumento NirCam. Le ottiche del telescopio, comunque, sono così sensibili che le galassie e le stelle che si vedono sullo sfondo sono visibili. Crediti: Nasa/Stsci
Sarà per questo che, alle immagini di fantasmagoriche nebulose, ne preferisce un’altra, più sobria. Ritrae una stella. Una sola stella, in primo piano. «Non è spettacolare, ma ha un valore immenso per me che ci ho lavorato», commenta l’astrofisico, ripensando alla foto scattata a marzo del 2022, in pieno commissioning. «È l’immagine ufficiale di quando abbiamo detto: “Lo specchio è perfettamente allineato, NirCam è perfettamente a fuoco, tutto è perfetto, meglio di ciò che potevamo immaginare”. Il prodotto finale del lavoro di centinaia di persone che hanno pensato, costruito e operato Jwst, e in particolare NirCam».
Non serve aguzzare la vista per scorgere, anche in questa immagine puramente tecnica, realizzata per verificare l’allineamento delle ottiche di bordo, una moltitudine di galassie che fanno capolino dall’universo lontano. Basta sbirciare tra le “punte” della stella, quei picchi di diffrazione dalla forma caratteristica a raggiera che abbiamo imparato a riconoscere in tutte le immagini che da allora sforna il telescopio. Di cosa si tratta?
«Spesso ricevo domande dal pubblico su questi artefatti quando presento le immagini di Jwst: mi chiedono se rappresentano la realtà e, in caso contrario, da cosa sono causati», riferisce a Media Inaf Nathalie Nguyen-Quoc Ouellette, Jwst Canadian outreach scientist all’Università di Montreal, nella provincia canadese del Quebec. «Spiego loro che queste stelle sono molto luminose ed essenzialmente “disperdono” la loro luce, ma il modo in cui lo fanno dipende esclusivamente dalla forma dello specchio del telescopio utilizzato». La maggior parte delle immagini astronomiche a cui avevamo fatto l’abitudine, prima di Jwst, provengono infatti da telescopi con uno specchio circolare, come lo stesso Hubble o i quattro giganti da otto metri che formano il Very Large Telescope dell’Eso. In quel caso, la luce delle stelle, anziché in un punto viene “spalmata” su un piccolo disco di forma circolare, circondato da anelli concentrici, con quattro punte che richiamano i quattro elementi di sostegno dello specchio secondario.
La differenza tra la figura di diffrazione di Hubble (a sinistra) e di Webb (a destra). Crediti: Nasa, Esa, Csa, L. Hustak (Stsci), J. DePasquale (Stsci)
«Poiché Jwst ha uno specchio così unico, la sua struttura conferisce una firma diversa ai picchi di diffrazione, dando luogo a questi sei grandi picchi con due mini picchi al centro della linea orizzontale», aggiunge Ouellette, che paragona queste figure di diffrazione alla “firma” che un artista appone sulle proprie opere. «Se stai guardando l’immagine di un telescopio spaziale e non sai con certezza quale telescopio l’abbia scattata, puoi cercare questi picchi di diffrazione e controllare se corrispondono alla firma di Jwst o a quella di Hubble, per esempio. È un bel trucchetto per impressionare gli amici, per chi ha amici nerd come me!».
Dalla scienza alle immagini – e viceversa
È passato un anno, è sempre il 12 luglio, siamo nel 2023 e la temperatura è ancora più alta. Tra le ondate di calore che imperversano nell’estate dell’emisfero nord, in un mese destinato a diventare il più caldo mai registrato (finora…), la comunità astronomica celebra un anno di scienza con Jwst. Centinaia di nuove pubblicazioni, nuove scoperte e, soprattutto, nuove domande.
Il complesso molecolare Rho Ophiuchi, immortalato con la fotocamera NirCam di Jwst. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Stsci); Elaborazione: A. Pagan (Stsci)
A Stsci, si festeggia con una nuova immagine dalle sfumature tenui, che ricorda quasi un quadro impressionista. Raffigura la gigantesca nube chiamata Rho Ophiuchi, il vivaio stellare più vicino alla Terra. Tra i vortici intricati di gas e polvere, si affaccia una manciata di stelle che sfoggiano l’autografo a sei punte (più due) di Jwst. Per Alyssa Pagan, che ne ha curato la composizione a colori, assurge subito al rango delle preferite, «non solo per la sua bellezza, ma per la pietra miliare che rappresenta», riconosce. «A quel punto, lavoravo con i dati di Webb da più di un anno e finalmente mi sentivo più a mio agio: ho sviluppato nuove tecniche e una comprensione dei dati più ricca di sfumature, che mi ha permesso di ottenere un approccio più sinergico e, penso, un’immagine di qualità superiore».
L’immagine di Rho Ophiuchi è basata su osservazioni realizzate in cinque dei filtri di NirCam tra marzo e aprile 2023, nell’ambito di un’estensione del programma Webb Ero, dedicato a immortalare corpi celesti particolarmente scenografici per continuare a condividere le meraviglie del cosmo con il pubblico anche dopo le prime release. Che siano dedicate alla divulgazione, come in questo caso, oppure alla ricerca scientifica, come nella maggior parte dei casi, ogni immagine «nasce da un processo competitivo per ottenere tempo di osservazione», nota Gennaro. «Gli scienziati di tutto il mondo scrivono proposte che vengono revisionate dai loro pari, e solo le migliori – circa una su dieci – riescono ad ottenere del tempo. Il mio lavoro consiste nel far sì che chi intende usare NirCam per la loro scienza sia in grado di scrivere una proposta dall’inizio alla fine, e che lo strumento operi come previsto nell’eseguire le osservazioni desiderate».
L’astrofisico, che nella sua ricerca si occupa di formazione stellare, si è aggiudicato una quarantina di ore per poter osservare, proprio con NirCam, le stelle più deboli in una galassia satellite della Via Lattea, chiamata Bootes I. L’obiettivo è comprendere come si formano le stelle in una galassia che è sì una nostra vicina di casa, ma è di fatto un “fossile locale” delle galassie primordiali che Jwst riesce a vedere a malapena, senza poter distinguere le stelle individualmente. «C’è tanto di più nei dati grezzi, che naturalmente lo scienziato in me guarda solo a quelli per qualunque applicazione quantitativa», non nasconde Gennaro. «Ma l’entusiasta in me si ferma sempre nei corridoi a guardare le immagini spettacolari prodotte dai nostri esperti di outreach. Credo che senza il fascino di quelle immagini non avrei lo stesso stimolo nel guardare i dati grezzi».
Questo articolo è il primo di una serie che inauguriamo oggi e che, per qualche settimana, ogni venerdì, si addentrerà nei meandri delle spettacolari immagini realizzate dal telescopio spaziale James Webb: come nascono, come vengono realizzate, e come influenzano la nostra percezione del cosmo
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
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Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The Jwst Early Release Observations” di Klaus M. Pontoppidan, Jaclyn Barrientes, Claire Blome, Hannah Braun, Matthew Brown, Margaret Carruthers, Dan Coe, Joseph DePasquale, Néstor Espinoza, Macarena Garcia Marin, Karl D. Gordon, Alaina Henry, Leah Hustak, Andi James, Ann Jenkins, Anton M. Koekemoer, Stephanie LaMassa, David Law, Alexandra Lockwood, Amaya Moro-Martin, Susan E. Mullally, Alyssa Pagan, Dani Player, Charles Proffitt, Christine Pulliam, Leah Ramsay, Swara Ravindranath, Neill Reid, Massimo Robberto, Elena Sabbi, Leonardo Ubeda, Michael Balogh, Kathryn Flanagan, Jonathan Gardner, Hashima Hasan, Bonnie Meinke e Antonella Nota
Origine e percorsi delle comete oscure
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Rappresentazione artistica dell’oggetto interstellare ‘Oumuamua. Crediti: Nasa, Esa e Joseph Olmsted e Frank Summers dell’StScI
Secondo uno studio dell’Università del Michigan, fino al 60% degli oggetti near-Earth (i cosiddetti Neo) potrebbero essere comete oscure, misteriosi asteroidi che orbitano intorno al Sole e che probabilmente contengono – o contenevano, in precedenza – ghiaccio. Più in generale, i risultati suggeriscono che gli asteroidi della fascia principale possono avere ghiaccio nel sottosuolo, cosa che peraltro si sospettava fin dagli anni ’80. Lo studio, che vede tra i coautori Davide Farnocchia, intervistato recentemente da Media Inaf, è stato pubblicato la settimana scorsa su Icarus.
Le comete oscure sono tali – nel senso di “misteriose” – perché combinano caratteristiche sia degli asteroidi che delle comete. Gli asteroidi sono corpi rocciosi normalmente privi di ghiaccio che orbitano vicino al Sole, in genere all’interno della cosiddetta linea del ghiaccio. Ciò significa che sono sufficientemente vicini al Sole perché l’eventuale ghiaccio trasportato sublimi, ovvero si trasformi direttamente da solido a gas. Le comete sono corpi ghiacciati che mostrano una chioma sfocata. Il ghiaccio che sublima porta con sé la polvere, creando la “nube” che circonda la cometa. Inoltre, le comete presentano in genere lievi accelerazioni non dovute alla gravità ma alla sublimazione del ghiaccio, chiamate appunto accelerazioni non gravitazionali.
Lo studio ha esaminato sette comete oscure e stima che tra lo 0,5 e il 60% di tutti gli oggetti vicini alla Terra potrebbero essere comete oscure, che non hanno code ma presentano accelerazioni non gravitazionali. I ricercatori suggeriscono inoltre che queste comete provengono probabilmente dalla fascia degli asteroidi e, proprio perché presentano accelerazioni non gravitazionali, che gli asteroidi della fascia principale contengano ghiaccio.
«Gli oggetti vicini alla Terra non rimangono a lungo sulle loro orbite attuali perché l’ambiente vicino alla Terra è disordinato», spiega Aster Taylor, il primo autore. «Rimangono nell’ambiente vicino alla Terra solo per circa 10 milioni di anni. Poiché il Sistema solare è molto più antico, gli oggetti near-Earth devono arrivare da qualche parte: siamo costantemente alimentati da oggetti near-Earth provenienti da un altro luogo, molto più vasto».
Per determinare l’origine di questa popolazione di comete, Taylor e collaboratori hanno creato modelli dinamici che assegnano accelerazioni non gravitazionali agli oggetti di diverse popolazioni. Poi hanno modellato il percorso che questi oggetti avrebbero seguito in base alle loro accelerazioni per un periodo di 100mila anni. Molti di questi oggetti sono finiti proprio dove oggi si trovano le comete oscure e gli autori hanno scoperto che, tra tutte le potenziali fonti, la fascia principale degli asteroidi è il luogo di origine più probabile.
Una delle comete oscure, chiamata 2003 Rm – che transita lungo un’orbita ellittica vicino alla Terra, poi verso Giove e di nuovo davanti alla Terra – segue la stessa traiettoria che ci si aspetterebbe da una cometa della famiglia di Giove. Al contrario, le altre comete oscure del campione provengono probabilmente dalla fascia interna della cintura degli asteroidi. Poiché le comete oscure hanno probabilmente del ghiaccio nel loro interno, questo dimostra che il ghiaccio è presente nella parte interna della fascia principale degli asteroidi.
I ricercatori hanno poi applicato una teoria nota alla loro popolazione di comete oscure per determinare perché gli oggetti sono così piccoli e ruotano rapidamente. Le comete sono strutture rocciose legate tra loro da ghiaccio. Quando vengono urtate all’interno della linea di ghiaccio del Sistema solare, il ghiaccio inizia a rilasciare gas. Questo non solo provoca l’accelerazione dell’oggetto, ma può anche farlo ruotare molto velocemente, tanto da spaccarsi. «Anche questi pezzi saranno ricoperti di ghiaccio, quindi ruoteranno sempre più velocemente fino a rompersi in altri pezzi», spiega Taylor.
I ricercatori ritengono che mentre 2003 Rm era un oggetto più grande che è stato allontanato dalla parte più esterna della fascia principale degli asteroidi, gli altri sei oggetti che hanno esaminato provengono probabilmente dalla parte interna della fascia principale degli asteroidi e sono stati prodotti da un oggetto più grande che è stato colpito e poi è andato distrutto.
Per saperne di più:
- Leggi su Icarus l’articolo “The dynamical origins of the dark comets and a proposed evolutionary track” di Aster G. Taylor, Jordan K. Steckloff, Darryl Z. Seligman, Davide Farnocchia, Luke Dones, David Vokrouhlický, David Nesvorný, Marco Micheli
Freddo e secco: così era un tempo il clima di Marte
Mosaico composto da 102 immagini ottenute dall’orbiter Viking 1 che mostra il pianeta Marte. Crediti: Jpl-Caltech/Nasa
Nel campo delle scienze planetarie ci sono tante domande aperte. Tra tutte, una in particolare ha catturato l’attenzione degli scienziati per decenni: nella sua storia evolutiva, Marte ha mai ospitato una qualche forma di vita? Una risposta certa ancora non c’è. Quel che è certo, però, è che per trovarla è fondamentale acquisire informazioni sulle sue passate condizioni climatiche: era un mondo caldo e umido, con mari e fiumi molto simili a quelli che si trovano oggi sulla Terra? Oppure era un pianeta gelido e arido, e quindi potenzialmente meno incline a ospitare la vita come la conosciamo?
Un nuovo studio condotto da un team di scienziati guidato dalla University of Nevada Las Vegas (Unlv), negli Usa, ha ora trovato prove a sostegno di quest’ultima ipotesi. I risultati della ricerca sono pubblicati su Nature Communications Earth & Environment.
Il punto di partenza di questo studio è stato la comparazione delle caratteristiche chimiche e mineralogiche del suolo di Marte, in particolare del cratere Gale, con quelle di alcuni siti terrestri considerati in un certo senso analoghi di Marte. Il perché di queste analisi comparative lo spiega Anthony Feldman, scienziato del Desert Research Institute di Las Vegas e primo autore dello studio: «Il cratere Gale è un paleo-lago. Un tempo, dunque, vi scorreva acqua, ma quali erano le condizioni ambientali che sussistevano su Marte quando c’era quest’acqua? Non esiste un analogo terrestre diretto della superficie marziana, poiché le condizioni tra Marte e la Terra sono molto diverse, ma possiamo osservare la tendenza delle condizioni climatiche terrestri e usarle per cercare di estrapolare queste informazioni».
Gli scienziati usano spesso le rocce per descrivere il clima di un pianeta. Il motivo è semplice: i minerali presenti possono raccontare la storia evolutiva del paesaggio nel tempo. Capire meglio come si sono formati questi materiali può dunque aiutare a rispondere alla domanda su quali fossero un tempo le condizioni climatiche del Pianeta rosso. E quali dati sui terreni e sulle rocce di Marte utilizzare per comprendere il suo clima se non quelli inviatici dal cratere Gale dal rover Curiosity.
Il bordo e il fondo del cratere Gale visto dal rover Curiosity. Crediti: Nasa
Il rover della Nasa ha studiato il cratere in questione sin dal 2011. Le sue analisi sul suolo di Marte forniscono una testimonianza del clima del pianeta in un periodo compreso tra 3 e 4 miliardi di anni fa, una finestra temporale in cui si ritiene che l’acqua fosse relativamente abbondante; lo stesso periodo di tempo in cui sulla Terra è apparsa per la prima volta la vita.
Nel cratere Gale, in particolare, Curiosity – o meglio, lo strumento Chemistry and Mineralogy a bordo del rover – ha trovato la presenza di un particolare materiale chiamato dagli addetti ai lavori X-ray amorphous material, materiale amorfo ai raggi X. Si tratta di componenti del suolo che non hanno la tipica struttura cristallina della maggior parte dei minerali terrestri e quindi non possono essere facilmente caratterizzati utilizzando tecniche tradizionali come la diffrazione a raggi X. Oltre a individuarlo, su questo materiale Curiosity ha condotto analisi chimiche, scoprendo l’abbondante presenza di ferro e silice e una scarsa presenza di alluminio.
Spinti dal fatto che già precedenti lavori avevano identificato una classe di sostanze amorfe, gli allumino-silicati, come precursori dei minerali argillosi, composti abbondanti sul nostro pianeta, lo scopo dei ricercatori era dunque quello di individuare sulla Terra siti le cui rocce contenessero un simile materiale con una simile composizione. Per farlo, hanno visitato tre località alla ricerca di materiale amorfo ai raggi X: gli altipiani del Gros Morne National Park sull’Isola di Terranova, in Canada, la catena montuosa Klamath Mountains, in California settentrionale e un’area della città di Pickhandle Gulch, in Nevada. Si tratta di tre siti che i ricercatori si aspettavano contenessero rocce chimicamente simili al materiale amorfo ai raggi X del cratere Gale.
Una vista degli altipiani dell’Isola di Terranova, il sito nel quale i ricercatori hanno trovato rocce con composizione chimica analoga al materiale amorfo ai raggi X di Marte. Crediti: Anthony Feldman/Dri
In ogni sito, gli scienziati hanno esaminato campioni di rocce mediante analisi di diffrazione a raggi X e microscopia elettronica a trasmissione. I dati così ottenuti sono stati quindi comparati con quelli raccolti da Curiosity sul cratere Gale. L’indagine in questione ha permesso ai ricercatori di trovare materiali chimicamente analoghi al materiale amorfo ai raggi X di Marte nella sola Isola di Terranova, un luogo caratterizzato da un clima subartico, con temperature che variano da -7,0 gradi Celsius in gennaio a 15,7 gradi in agosto, con una temperatura media annua di 3,9 gradi e con una media annua di precipitazioni di 120,4 cm, distribuite in modo relativamente uniforme nel corso dell’anno sia sotto forma di neve che di pioggia. È un luogo relativamente arido, spiegano i ricercatori, dove sono presenti pochi arbusti e pini rachitici.
Stando a questi risultati, le conclusioni dei ricercatori sono due. La prima è che la presenza e la persistenza di questo materiale amorfo secondario ricco di ferro sulla Terra sia promossa da climi freddi. La seconda, che è una diretta conseguenza della prima, è che l’abbondante presenza e la persistenza di materiale amorfo ricco di ferro nel cratere Gale di Marte sia coerente con la presenza nel suo passato di un clima subartico, fresco e relativamente umido, seguito da condizioni di gelo e aridità a lungo termine.
«Questo studio migliora la nostra comprensione del clima di Marte», conclude Feldman. «I risultati suggeriscono che l’abbondanza di questo materiale nel cratere Gale è coerente con la presenza di condizioni subartiche, simili a quelle che vedremmo, ad esempio, in Islanda».
Per saperne di più:
- Leggi su Communications Earth and Environment l’articolo “Fe-rich X-Ray amorphous material records past climate and persistence of water on Mars” di Anthony D. Feldman, Elisabeth M. Hausrath, Elizabeth B. Rampe, Valerie Tu, Tanya S. Peretyazhko, Christopher DeFelice & Thomas Sharp
Mattoni di regolite lunare con le microonde
Costruire una base lunare per garantire una permanenza umana a lungo termine sulla Luna. Questa è una delle intenzioni del programma della Nasa Artemis, che già da alcuni anni sta studiando e testando soluzioni, innanzitutto per il prossimo allunaggio, e poi anche per utilizzare il nostro satellite come ponte fra la Terra e l’esplorazione spaziale più profonda. Fra le questioni da affrontare, i costi. Quelli del trasporto dei materiali, per esempio, che raggiungono gli 1,2 milioni di dollari per chilogrammo. E l’unica alternativa sembra essere quella di trovare un metodo efficace per procurarsi i “mattoni” in situ. Ci hanno pensato gli scienziati del Korea Institute of Civil Engineering and Building Technology (Kict), in Corea del sud, in un nuovo studio pubblicato nel Journal of building engineering.
Fotografia (sopra) e immagine a raggi X (sotto) di un blocco sinterizzato fabbricato nei laboratori della Future & Smart Construction Research Division del Kict, in Corea. Crediti: Korea Institute of Civil Engineering and Building Technology
La risorsa più facilmente reperibile sulla Luna è, naturalmente, ciò di cui la sua superficie è fatta, ovvero la regolite lunare. Le particelle fini di cui è composta possono essere saldate fra loro attraverso un processo chiamato sinterizzazione, che sfrutta il calore per conferire una forma compatta a un materiale polveroso senza portarlo fino alla temperatura di fusione. Per farlo, sulla Luna forse ancor più che sulla Terra, date le difficoltà logistiche, occorre pensare a un processo energeticamente efficiente. Gli autori dello studio propongono, dunque, di sfruttare le microonde: nei laboratori della Future & Smart Construction Research Division del Kict, hanno utilizzato la sinterizzazione a microonde per produrre blocchi (mattoni) dal simulante di regolite lunare riscaldandola e compattandola.
Bisogna però fare attenzione: quando si utilizzano le microonde per riscaldare la regolite lunare, si possono formare punti caldi e freddi qua e là, che inducono una fuga termica localizzata ostacolando un riscaldamento e una sinterizzazione uniformi. Per risolvere questo problema, è stato stabilito un programma di riscaldamento graduale con temperature e tempi di permanenza specifici. Inoltre, la regolite lunare contiene sostanze volatili, tra cui l’acqua, il cui riscaldamento può causare crepe interne durante la sinterizzazione. Un problema che può essere attenuato – dicono gli autori dello studio – utilizzando un simulante di regolite lunare preriscaldato in condizioni di vuoto a 250°C.
Dopo aver costruito questi mattoni lunari, occorre valutarne la qualità, sottoponendoli a carotaggi in punti specifici. Secondo le misure effettuate, la densità media, la porosità e la resistenza alla compressione dei campioni carotati sono risultati rispettivamente di circa 2,11 g/cm³, 29,23% e 13,66 MPa. Si tratta di valori riproducibili ripetendo il processo, cosa che garantisce la possibilità di costruirne un gran numero, se il processo dovesse essere adottato davvero per costruzioni lunari. Gli autori sottolineano che si tratta della prima volta che la tecnica della sinterizzazione a microonde riesce a produrre corpi omogenei e di dimensioni paragonabili a veri mattoni da costruzione (100 mm × 100 mm × 50 mm). Prima di fare troppi progetti, però, occorre convalidare questa tecnologia in ambienti spaziali, e verificare che sia effettivamente riproducibile sulla superficie lunare, in futuro.
Per saperne di più:
- Leggi sul Journal of building engineering l’articolo “Optimized manufacturing process of homogeneous microwave-sintered blocks of KLS-1 lunar regolith simulant“, di Hyunwoo Jin, Jangguen Lee, Li Zhuang , Sun Yeom, Hyu-Soung Shin e Young-Jae Kim
Un cristallo temporale di atomi giganti
Un atomo di Rydberg ha un elettrone che si trova lontano dal nucleo. Crediti: Tu Wien
Un cristallo è una struttura solida costituita da atomi con una disposizione regolare nello spazio. Nel 2012, il premio Nobel Frank Wilczek propose l’esistenza di un cristallo temporale, ossia di un oggetto che si ripete non nello spazio bensì nel tempo. Si tratta di un nuovo tipo di materia detta non-equilibrium matter che ha la peculiarità di non raggiungere mai l’equilibrio termico: si modifica costantemente nel tempo ma torna sempre nella configurazione iniziale alla fine di un periodo, dimostrando stabilità e resilienza alle perturbazioni.
Per anni l’idea di Wilczek ha suscitato molte polemiche. Alcuni consideravano i cristalli temporali impossibili in linea di principio, mentre altri cercavano di trovare delle scappatoie e di realizzarli in condizioni particolari. Le prime prove di osservazioni di cristalli temporali sono state pubblicate nel 2017 sulla rivista Nature. Ora, all’Università Tsinghua, in Cina, e con il supporto della Tu Wien, in Austria, è stato creato un tipo particolarmente spettacolare di cristallo temporale. Per farlo, i ricercatori hanno utilizzato la luce laser e atomi molto speciali, gli atomi di Rydberg, con un diametro diverse centinaia di volte superiore al normale. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Physics.
Anche il ticchettio di un orologio è un esempio di movimento temporalmente periodico. Tuttavia, non avviene da solo: qualcuno deve aver caricato l’orologio e averlo fatto partire a una certa ora. Questo momento iniziale determina la tempistica dei ticchettii. Con un cristallo temporale è diverso: secondo l’idea di Wilczek, la periodicità dovrebbe sorgere spontaneamente, anche se in realtà non c’è alcuna differenza fisica tra i diversi “punti” nel tempo.
«La frequenza del ticchettio è predeterminata dalle proprietà fisiche del sistema, ma i tempi in cui si verifica il ticchettio sono completamente casuali; questo è noto come rottura spontanea della simmetria», spiega Thomas Pohl dell’Istituto di Fisica Teorica della Tu Wien, responsabile degli aspetti teorici dello studio che ha portato alla scoperta di un cristallo temporale. La luce laser è stata diffusa in un contenitore di vetro riempito con un gas di atomi di rubidio ed è stata misurata l’intensità del segnale luminoso che arrivava all’altra estremità del contenitore.
«Si tratta di un esperimento statico in cui non viene imposto alcun ritmo specifico al sistema», spiega Pohl. «Le interazioni tra luce e atomi sono sempre le stesse, il raggio laser ha un’intensità costante. Ma sorprendentemente, si è scoperto che l’intensità che arriva all’altra estremità della cella di vetro inizia a oscillare secondo schemi altamente regolari».
Un sistema statico con un ingresso continuo di luce porta a segnali periodici dipendenti dal tempo. Crediti: Tu Wien
La chiave dell’esperimento è stata preparare gli atomi in modo particolare: gli elettroni di un atomo possono orbitare intorno al nucleo seguendo percorsi diversi, a seconda della loro energia. Se si fornisce energia all’elettrone più esterno, la sua distanza dal nucleo atomico può diventare molto grande. In casi estremi, può trovarsi a diverse centinaia di volte la distanza dal nucleo rispetto al solito. In questo modo si creano atomi con un guscio elettronico gigante, i cosiddetti atomi di Rydberg.
«Se gli atomi nel nostro contenitore di vetro sono predisposti in questi stati Rydberg e il loro diametro diventa enorme, anche le forze tra questi atomi diventano molto grandi», spiega Pohl. «E questo a sua volta cambia il modo in cui interagiscono con il laser. Se si sceglie la luce laser in modo che possa eccitare contemporaneamente due diversi stati di Rydberg in ogni atomo, si genera un circuito di retroazione che provoca oscillazioni spontanee tra i due stati atomici. Questo a sua volta porta all’assorbimento oscillante della luce». Da soli, gli atomi giganti incespicano a un ritmo regolare, che si traduce nel ritmo dell’intensità luminosa che arriva all’estremità del contenitore di vetro.
«Abbiamo creato un nuovo sistema che fornisce un potente banco di prova per approfondire la nostra comprensione del fenomeno dei cristalli temporali in un modo che si avvicina molto all’idea originale di Frank Wilczek», conclude Pohl. «Oscillazioni precise e autosostenute potrebbero essere utilizzate, ad esempio, per realizzare sensori. Gli atomi giganti con stati Rydberg sono già stati utilizzati con successo per tali tecniche in altri contesti».
Le applicazioni possibili dei cristalli temporali sono svariate e possono portare enormi miglioramenti, specialmente nello sviluppo di computer quantistici e orologi atomici, fondamentali anche in campo astrofisico.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “Dissipative time crystal in a strongly interacting Rydberg gas” di Xiaoling Wu, Zhuqing Wang, Fan Yang, Ruochen Gao, Chao Liang, Meng Khoon Tey, Xiangliang Li, Thomas Pohl e Li You
Scoperto un buco nero di massa intermedia
Da sinistra, progressivi ingrandimenti sull’ammasso stellare Omega Centauri. Nel pannello di destra, la zona circolare indica la regione dove dovrebbe essere situato il buco nero di massa intermedia. La barretta orizzontale in basso a destra del riquadro indica una lunghezza in scala di 0,1 anni luce.
Crediti: ESA/Hubble & NASA, M. Häberle (MPIA)
Osservando Omega Centauri con un piccolo telescopio, non appare diversa dagli altri cosiddetti ammassi globulari: una spettacolare collezione sferica di stelle, così densa verso il centro che diventa impossibile distinguere le singole stelle. Questo nuovo studio, guidato da Maximilian Häberle (Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, Mpia) e a cui partecipa anche Mattia Libralato dell’Inaf – Istituto Nazionale di Astrofisica (e precedentemente in forza all’Aura per l’Agenzia Spaziale Europea presso lo Space Telescope Science Institute), porta nuova luce su questo oggetto celeste, confermando ciò che gli astronomi ipotizzavano da tempo: Omega Centauri ospita un buco nero centrale. Il buco nero sembra essere l'”anello mancante” tra i suoi simili di taglia stellare, che hanno masse comprese tra una e alcune decine di masse solari, e quelli supermassicci, con masse di milioni o miliardi di volte quelle del Sole, situati al centro delle galassie. Omega Centauri sembra essere il nucleo di una piccola galassia separata la cui evoluzione è stata interrotta quando è stata inglobata dalla Via Lattea.
Mattia Libralato, coautore dell’articolo appena pubblicato sulla rivista Nature che descrive la scoperta, commenta: «L’esistenza di buchi neri di massa intermedia al centro degli ammassi globulari è un argomento molto controverso perché questi oggetti sono elusivi ed è difficile dedurre la loro presenza. In questa analisi sono state trovate sette stelle vicino al centro di Omega Centauri la cui velocità molto elevata e posizione sono compatibili con la presenza di un buco nero con una massa di almeno 8.200 volte quella del Sole al centro dell’ammasso. La scoperta di queste stelle è una delle prove più solide che sia stata raccolta dell’esistenza di un buco nero di massa intermedia”.
L’attuale teoria dell’evoluzione delle galassie ipotizza che le prime galassie dovessero avere buchi neri centrali di dimensioni intermedie, che sarebbero poi cresciuti nel tempo man mano che quelle galassie si evolvevano, inglobando galassie più piccole (come ha fatto la nostra Via Lattea) o fondendosi con galassie più grandi. Tali buchi neri di medie dimensioni sono notoriamente difficili da trovare: le galassie come la nostra Via Lattea hanno superato quella fase, contenendo ora buchi neri centrali molto più grandi, mentre le galassie nane invece sono difficili da osservare e rendono estremamente complicato rilevare i loro buchi neri centrali con la tecnologia attuale. Sebbene esistano candidati promettenti, fino ad ora non è mai stato rilevato un buco nero di massa intermedia.
Nadine Neumayer, capo gruppo al Mpia, e Anil Seth, dell’Università dello Utah, nel 2019 hanno dato vita ad un progetto di ricerca mirato a migliorare la comprensione della storia della formazione di Omega Centauri: identificare le stelle in rapido movimento attorno al buco nero centrale per poi misurarne la massa. Maximilian Häberle, uno studente di dottorato al Mpia, ha guidato il lavoro creando un enorme catalogo con i movimenti delle stelle in Omega Centauri e misurando le velocità di 1,4 milioni di stelle. Per questo lavoro, sono state utilizzate oltre 500 immagini di Hubble dell’ammasso, prodotte con lo scopo di calibrare gli strumenti del satellite, ma che con le loro visualizzazioni ripetute di Omega Centauri, si sono rivelate il set ideale di dati.
«Cercare stelle in rapido movimento e documentarne il movimento era come cercare il proverbiale ago in un pagliaio” dice Häberle, che ha trovato ben sette stelle in rapido movimento in una piccola regione al centro di Omega Centauri dove non vi è nessun oggetto visibile. Tali stelle, con diverse velocità e direzioni di movimento, hanno permesso a Häberle e ai suoi colleghi di determinare la presenza di una massa centrale in Omega Centauri, di almeno 8.200 masse solari.
A una distanza di circa 18.000 anni luce, questo è l’esempio del più vicino buco nero massiccio ad oggi conosciuto. Infatti il buco nero supermassiccio nel centro della Via Lattea è a una distanza di circa 27.000 anni luce da noi. Questa rilevazione non solo promette di risolvere il dibattito decennale sul buco nero di massa intermedia in Omega Centauri, ma fornisce, in generale, anche il miglior candidato, fino ad ora, della rilevazione di un buco nero di massa intermedia.
«Negli ultimi 10 anni, l’astrometria, e in particolare lo studio della cinematica interna degli ammassi globulari, ha vissuto un vero e proprio “Rinascimento” grazie alla missione Gaia” ricorda Libralato. “Tuttavia, regioni affollate come il centro degli ammassi globulari sono difficili, e in alcuni casi impossibili, da studiare anche con Gaia, lasciando Hubble come unica risorsa. Il lavoro di Maximilian dimostra che anche dopo più di 30 anni dal suo lancio, il telescopio Hubble è uno dei migliori strumenti per ottenere astrometria di alta precisione in regioni estremamente affollate come il centro degli ammassi globulari”.
Neumayer, Häberle e i loro colleghi ora intendono studiare il centro di Omega Centauri con ancora maggiore dettaglio. Hanno già ottenuto l’approvazione per misurare il movimento delle stelle in rapido movimento utilizzando il James Webb Space Telescope. L’utilizzo successivo di strumenti attualmente in costruzione, come Gravity+ al Vlt dell’Eso e Micado all’Extremely large telescope, potrebbe portare a misure più accurate delle posizioni delle stelle di quelle ottenute con le immagini di Hubble. L’obiettivo a lungo termine è determinare come le stelle accelerano e come curvano le loro orbite. Seguire le orbite intere delle stelle, come per le osservazioni del buco nero al centro della Via Lattea che hanno portato al premio Nobel, è un progetto per le future generazioni di astronomi. Infatti, la piccola massa del buco nero per Omega Centauri si traduce in tempi scala dieci volte più grandi rispetto a quelli utilizzati per lo studio del centro della Via Lattea, ovvero periodi orbitali di più di cento anni.
Per saperne di più:
- L’articolo “Fast-moving stars around an intermediate-mass black hole in ω Centauri”, di Häberle M., Anil Seth, Andrea Bellini, Mattia Libralato, Holger Baumgardt, Matthew Whitaker, Mayte Alfaro Cuello, Jay Anderson, Nikolay Kacharov, Sebastian Kamann, Antonino Milone, Renuka Pechetti e Glenn van de Ven è stato pubblicato online sulla rivista Nature
Un mondo iceano potenzialmente abitabile
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L’esopianeta temperato Lhs 1140 b potrebbe essere un mondo completamente ricoperto di ghiaccio (a sinistra), simile alla luna di Giove Europa, oppure un mondo di ghiaccio con un oceano substellare liquido e un’atmosfera nuvolosa (al centro). Lhs 1140 b è grande 1,7 volte la Terra (a destra) ed è l’esopianeta in zona abitabile più promettente finora trovato. Crediti: Benoit Gougeon, Université de Montréal
Un team internazionale di astronomi guidato dall’Università di Montréal ha fatto una scoperta entusiasmante sul già noto esopianeta Lhs 1140 b: potrebbe essere una promettente super-Terra ricoperta di ghiaccio o acqua.
Quando è stato scoperto, gli astronomi hanno ipotizzato che Lhs 1140 potesse essere un mini-Nettuno: un pianeta essenzialmente gassoso di dimensioni molto ridotte rispetto a Nettuno. Ma dopo aver analizzato i dati del James Webb Space Telescope (Jwst) raccolti nel dicembre 2023, insieme a quelli ottenuti precedentemente con altri telescopi spaziali come Spitzer, Hubble e Tess, sono giunti a una conclusione molto diversa.
Situato a circa 48 anni luce dalla Terra nella costellazione della Balena, Lhs 1140 b sembra essere uno degli esopianeti più promettenti nella zona abitabile della sua stella, potenzialmente in grado di ospitare un’atmosfera e persino un oceano di acqua liquida. I risultati di questa scoperta saranno presto pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.
Il pianeta orbita attorno a una stella nana rossa di bassa massa, grande circa un quinto del Sole. L’esopianeta ha affascinato gli scienziati sin dalla sua scoperta, perché è fra i più vicini al Sistema solare che si trova nella zona abitabile della sua stella. Gli esopianeti che si trovano in questa “zona Goldilocks” (o Riccioli d’oro, dalla famosa favola) hanno temperature che permettono all’acqua di trovarsi in forma liquida.
All’inizio di quest’anno, i ricercatori guidati da Charles Cadieux hanno ottenuto nuove stime di massa e raggio del pianeta con un’accuratezza eccezionale, paragonabile a quelle dei noti pianeti di Trappist-1: 1,7 volte le dimensioni della Terra e 5,6 volte la sua massa.
Come si diceva all’inizio, una delle questioni aperte su Lhs 1140 b era se si trattasse di un mini-Nettuno (un piccolo gigante gassoso con una spessa atmosfera ricca di idrogeno) o di una super-Terra (un pianeta roccioso più grande della Terra). Quest’ultimo scenario include la possibilità di un cosiddetto mondo iceano– dalle parole hydrogen (idrogeno) e ocean (oceano) – con un oceano liquido globale avvolto da un’atmosfera ricca di idrogeno, che avrebbe mostrato un segnale atmosferico ben distinto, osservabile con il potente telescopio Webb.
Gli autori dello studio sono riusciti a ottenere prezioso tempo di osservazione con Webb lo scorso dicembre, durante il quale hanno osservato due transiti di Lhs 1140 b usando lo strumento canadese Niriss (Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph). L’analisi di queste osservazioni ha escluso lo scenario del mini-Nettuno e ottenuto prove consistenti che suggeriscono che l’esopianeta Lhs 1140 b sia di fatto una super-Terra che potrebbe anche avere un’atmosfera ricca di azoto. Se questo risultato venisse confermato, Lhs 1140 b sarebbe il primo pianeta temperato a mostrare prove di un’atmosfera secondaria, formatasi dopo la formazione iniziale del pianeta.
Le stime basate su tutti i dati accumulati rivelano che Lhs 1140 b è meno denso di un pianeta roccioso con una composizione simile alla Terra, il che suggerisce che il 10-20% della sua massa potrebbe essere sotto forma di acqua. Potrebbe trattarsi di un mondo acquatico, dunque, probabilmente simile a un pianeta “palla di neve”, o a un pianeta di ghiaccio con un potenziale oceano liquido nella zona sub-stellare – l’area della superficie del pianeta rivolta sempre verso la stella ospite, dato che il pianeta si trova in rotazione sincrona (come avviene per la Luna).
Inoltre, i modelli attuali indicano che se avesse un’atmosfera simile a quella della Terra, Lhs 1140 b potrebbe essere un pianeta palla di neve con un vasto oceano “a occhio di bue” di circa 4mila chilometri di diametro, equivalente alla metà della superficie dell’Oceano Atlantico. La temperatura superficiale al centro di questo oceano alieno potrebbe addirittura raggiungere i 20 gradi centigradi: da farci il bagno, insomma.
Per confermare la presenza e la composizione dell’atmosfera di Lhs 1140 b e discernere tra gli scenari di pianeta palla di neve e pianeta con un oceano a occhio di bue sono necessarie ulteriori osservazioni. Gli autori dello studio hanno sottolineato la necessità di effettuare ulteriori misurazioni dei transiti e delle eclissi con il telescopio Webb, concentrandosi su un segnale specifico che potrebbe rivelare la presenza di anidride carbonica. Questa caratteristica è fondamentale per comprendere la composizione atmosferica e rilevare potenziali gas serra che potrebbero indicare condizioni di abitabilità sull’esopianeta.
«Rilevare un’atmosfera simile a quella terrestre su un pianeta temperato significa spingere le capacità di Webb ai suoi limiti: è fattibile, abbiamo solo bisogno di molto tempo di osservazione», afferma René Doyon, principal investigator di Niriss. «L’attuale accenno a un’atmosfera ricca di azoto richiede una conferma con ulteriori dati. Abbiamo bisogno di almeno un altro anno di osservazioni per confermare che Lhs 1140 b ha un’atmosfera, e probabilmente di altri due o tre per rilevare l’anidride carbonica».
Data la limitata visibilità di Lhs 1140 b con Webb – sono possibili al massimo otto osservazioni all’anno – gli astronomi avranno bisogno di diversi anni di osservazioni per rilevare l’anidride carbonica e confermare la presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta.
«Tra tutti gli esopianeti temperati attualmente conosciuti, Lhs 1140 b potrebbe essere la nostra migliore possibilità di confermare un giorno, in modo indiretto, la presenza di acqua liquida sulla superficie di un mondo alieno al di là del nostro sistema solare», conclude Cadieux. «Si tratterebbe di un’importante pietra miliare nella ricerca di esopianeti potenzialmente abitabili».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Transmission Spectroscopy of the Habitable Zone Exoplanet LHS 1140 b with JWST/NIRISS” di Charles Cadieux, René Doyon, Ryan J. MacDonald, Martin Turbet, Étienne Artigau, Olivia Lim, Michael Radica, Thomas J. Fauchez, Salma Salhi, Lisa Dang, Loïc Albert, Louis-Philippe Coulombe, Nicolas B. Cowan, David Lafrenière, Alexandrine L’Heureux, Caroline Piaulet, Björn Benneke, Ryan Cloutier, Benjamin Charnay, Neil J. Cook, Marylou Fournier-Tondreau, Mykhaylo Plotnykov, Diana Valencia
Il primo volo di Ariane 6
Il primo decollo del nuovo razzo dell’Agenzia spaziale europea, Ariane 6. Crediti: Esa
È partito oggi, martedì 9 luglio, alle 21 dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana Francese, il nuovo razzo Ariane 6 dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Un progetto che ha visto il coinvolgimento di partner industriali in 13 paesi europei e che inaugura una nuova era per il trasporto spaziale europeo. Con Ariane 6, infatti, l’Europa dello spazio ritrova la propria autonomia dopo il pensionamento del precedente vettore Ariane 5, che ha volato 117 volte tra il 1996 e il 2023. A bordo del razzo ci sono cinque esperimenti scientifici, alcuni rilasciati durante il volo e altri che raccoglieranno dati dall’interno dello stadio superiore del razzo. Si chiamano Peregrinus, Parisat, Sidloc, LiFi and Ypsat.
«Il primo volo di un nuovo razzo è sempre un momento incredibile, perché ci sono centinaia di migliaia di dettagli che devono funzionare in perfetta armonia, per la prima volta insieme in modo completo», afferma Loïc Bourillet, responsabile del Collective Launch Service Procurement dell’Esa.
E così è andata, per Ariane 6. Dopo essere stato posticipato di un’ora, dalle 20.00 alle 21.00 italiane, a causa di un “piccolo problema” nell’acquisizione dei dati rilevato sul segmento di terra, il lancio e le fasi successive sono state eseguite in maniera nominale. Fino al raggiungimento dell’orbita circolare finale, a 580 chilometri di altezza, e alla separazione del payload, poco più di un’ora dopo il lancio.
Un nuovo inizio per l’Esa, dicevamo. E proprio in virtù di questa ritrovata autonomia, il design del nuovo razzo europeo è all’insegna della versatilità, potendo assumere due configurazioni diverse a seconda delle prestazioni richieste. Una prima versione con due booster, chiamata Ariane 62 e alta 56 metri – questa la versione utilizzata durante il lancio di prova – che può lanciare carichi utili fino a circa 4,5 tonnellate in orbita di trasferimento geostazionario o fino a 10,3 tonnellate in orbita terrestre bassa; e una versione con quattro booster, Ariane 64, alta 62 metri e in grado di lanciare carichi utili di circa 11,5 tonnellate in orbita di trasferimento geostazionario e 21,6 tonnellate in orbita terrestre bassa. Lo scopo è acquisire, al “prezzo” di un unico vettore, la flessibilità di lanciare carichi pesanti e leggeri in un’ampia gamma di orbite per applicazioni come l’osservazione della Terra, le telecomunicazioni, la meteorologia, la scienza e la navigazione. A carico completo, Ariane 6 peserà quasi 900 tonnellate al lancio, equivalente circa a un aereo passeggeri Airbus A380 e mezzo.
Rappresentazione delle due configurazioni in cui è disponibile il nuovo razzo Ariane 6 dell’Esa, suddiviso nelle parti (gli stadi) che lo compongono. Crediti: Esa – D. Ducros
Ma vediamo un po’ più nel dettaglio com’è suddiviso il razzo. Ariane 6 è composto da tre sezioni principali – i cosiddetti “stadi” – utili a fornire la spinta necessaria a far volare il carico: due o quattro booster, lo stadio principale inferiore e lo stadio superiore. Li potete vedere nello schema a sinistra. I booster a lato dello stadio principale forniscono la spinta al momento del decollo e si separano poco più di due minuti dopo l’accensione; successivamente si accende lo stadio principale alimentato da un motore Vulcain 2.1 a combustibile liquido – una versione aggiornata del motore Vulcain dell’Ariane 5 – che si separa dopo circa 7 minuti e 40 secondi dal lancio, e per ultimo si accende lo stadio superiore, alimentato da un motore Vinci riaccendibile che funziona, come lo stadio principale, con ossigeno e idrogeno liquidi. Accendendosi a più riprese, questo motore consente ad Ariane 6 di mettere in orbita più satelliti in un’unica missione; una volta consegnati tutti i carichi utili, poi, si accende un’ultima volta per smaltire in modo sicuro lo stadio superiore, assicurandosi che non diventi un detrito spaziale e non minacci altri oggetti in orbita. Infine, il fairing, ovvero la struttura a cono con cui termina la parte superiore del razzo: è costruita in composito di fibra di carbonio e polimeri e si divide in due verticalmente, esponendo gli esperimenti scientifici – in questo caso – o i nuovi satelliti che trasporterà nello spazio. Anche questa parte è disponibile in diverse versioni intercambiabili a seconda del carico del lancio.
Nello specifico di questo volo inaugurale, l’ogiva del razzo contiene due capsule di rientro e diversi satelliti programmati per volare liberi, posizionati in cima al razzo in ordine di rilascio. Verranno liberati dopo poco più di un’ora dal lancio, a una quota di circa 600 chilometri sopra la Terra. Non solo, altri esperimenti rimarranno fissati allo stadio superiore dell’Ariane 6 e raccoglieranno dati per tutta la durata del volo. Passeranno circa tre ore dall’accensione dei booster alla prima manovra di passivazione, e se tutto procederà come previsto, sentiremo presto e spesso parlare di questo nuovo razzo, che supporterà le numerose missioni spaziali nelle quali l’Esa è impegnata.
«Sono fiducioso perché abbiamo fatto tutto quello che andava fatto», ha detto all’Ansa il direttore del Trasporto spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea, Toni Tolker-Nielsen. «Se tutto andrà bene per l’Ariane 6 sono previsti 6 lanci nel 2025 e 8 nel 2026».
Una pulsar al millisecondo per una stagista
Riproduzione artistica di una pulsar millisecondo. Crediti: NASA/Goddard Space Flight Center/Dana Berry
Le pulsar millisecondo sono stelle di neutroni estremamente dense che nascono in seguito alla morte di una stella massiccia sotto forma di esplosione di supernova. Sono gli astri più piccoli e magnetizzati che si conoscano, motivo per il quale sono considerati dagli addetti ai lavori dei laboratori naturali, utili per studiare il comportamento della materia sotto campi gravitazionali e magnetici estremi. Ma non solo: sono anche le stelle a più rapida rotazione scoperte fino a oggi. Per via dell’accrescimento di materia da una stella compagna, riescono infatti a vorticare su sé stesse fino a centinaia di volte al secondo, caratteristica che le rende dei veri e propri fari cosmici.
Come partecipante di uno stage estivo svolto presso il Naval Research Laboratory (Nlr) nell’ambito del Naval Research Enterprise Internship Program, l’obiettivo di Amaris McCarver, giovane laureanda della Texas Tech University (Usa), era quello di scovare questi fari cosmici all’interno di densi ammassi stellari.
Per farlo, la stagista aveva a disposizione i dati d’archivio ottenuti dal Very large array Low-band Ionosphere and Transient Experiment (Vlite), un esperimento che, tramite l’utilizzo di una rete di antenne radio situate nel New Mexico (Usa), il Very large Array, consente ai ricercatori di monitorare il cielo a basse frequenze radio. Operativo dall’agosto del 2017, l’esperimento Vlite registra circa 6mila ore di dati all’anno e ha un archivio che copre circa il 98 per cento del cielo nord.
Spulciando attentamente tra questi dati, e precisamente tra quelli ottenuti dal luglio 2017 a luglio 2022, e servendosi di dati aggiuntivi di diverse survey radio a diverse frequenze, alla fine Amaris ce l’ha fatta: in uno spicchio di cielo contenente ammassi globulari privi di pulsar precedentemente note, trova dieci candidate trottole spaziali che ruotano al millisecondo, tra le quali ce n’è una che pulsar al millisecondo lo è sicuramente, Glimpse-C01A: la prima pulsar al millisecondo confermata presente all’interno dell’ammasso stellare Glimpse-C01. La conferma che si tratti proprio di una pulsar al millisecondo arriva dal National Radio Astronomy Observatory, grazie a tecniche di ricerca degli impulsi di recente sviluppo. La scoperta è descritta in uno studio pubblicato di recente su The Astrophysical Journal.
«È stato emozionante vedere un progetto di internato funzionare con così tanto successo», dice Amaris, che per la sua scoperta ha ricevuto il Robert S. Hyer Award dalla sezione texana dell’American Physical Society (Aps), un premio assegnato ogni anno a studenti che eccellono nella ricerca.
La studentessa Amaris McCarver con in mano la targa del Robert S. Hyer Research Award. Crediti: U.S. Naval Research Laboratory
La conferma di una nuova pulsar millisecondo dall’elenco dei candidati compilato da Amaris evidenzia non solo l’elevato potenziale di scoperta con i dati Vlite, ma soprattutto il ruolo chiave che gli stagisti come Amaris svolgono nella ricerca d’avanguardia.
«Questo tipo di scoperta scientifica è stata possibile solo grazie alla collaborazione tra Naval Research Laboratory e National Radio Astronomy Observatory», sottolinea Tracy E. Clarke, astronoma del Naval Research Laboratory e co-autrice della pubblicazione. «Questa ricerca», aggiunge la scienziata, «sottolinea come sia possibile utilizzare misure di luminosità radio a diverse frequenze per trovare nuove pulsar in modo efficiente. Le survey del cielo disponibili, combinate con la mole di dati Vlite, fanno sì che queste misure siano essenzialmente sempre disponibili. Ciò apre le porte a una nuova era di ricerche di pulsar altamente disperse e accelerate».
McCarver è stata una dei sedici stagisti del Naval Research Enterprise Internship svolto presso Nlr. Nel gennaio 2024 ha presentato la sua ricerca al 243mo meeting dell’American Astronomical Society. Adesso, il suo prossimo obiettivo è la difesa della tesi di laurea in Fisica e Astronomia, dopo la quale intende proseguire gli studi in astronomia.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “A VLITE Search for Millisecond Pulsars in Globular Clusters: Discovery of a Pulsar in GLIMPSE-C01” di Amaris V. McCarver, Thomas J. Maccarone, Scott M. Ransom, Tracy E. Clarke, Simona Giacintucci, Wendy M. Peters, Emil Polisensky, Kristina Nyland, Tasha Gautam, Paulo C. C. Freire e Blagoy Rangelov.
Nasce Boqa, la Bologna Quantum Alliance
Crediti: Forest Stearns, Google AI Quantum Artist in Residence, CC BY-ND
Il futuro delle scienze e delle tecnologie quantistiche trova a Bologna un nuovo punto di riferimento a livello nazionale ed europeo. È la Bologna Quantum Alliance (Boqa): un’intesa che riunisce l’Università di Bologna, il Consorzio interuniversitario Cineca, il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc), il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv).
Siglato alla vigilia del G7 Scienza e Tecnologia, ospitato al Tecnopolo di Bologna, l’accordo mette a sistema le tante competenze distribuite sul territorio nazionale legate a temi d’avanguardia della scienza quantistica, dalla ricerca fondamentale alle applicazioni scientifiche e industriali.
In questo modo, grazie al ruolo di coordinamento svolto dall’Alma Mater, la Bologna Quantum Alliance potrà dare un forte impulso allo sviluppo dell’intera filiera quantistica, promovendo ambiti strategici come quello dei computer quantistici, delle comunicazioni quantistiche sicure e della sensoristica quantistica di precisione. Un nuovo fondamentale tassello che va ad arricchire l’ecosistema dell’innovazione bolognese e dell’Emilia-Romagna.
Temi centrali per lo sviluppo tecnologico e sociale come quelli dei big data, del supercalcolo e dell’intelligenza artificiale potranno così fondersi insieme alle enormi potenzialità delle scienze quantistiche, con applicazioni possibili in molteplici campi tra cui la salute, la climatologia, le scienze della terra e l’innovazione industriale.
Con la Bologna Quantum Alliance nasceranno progetti congiunti, attività comuni per favorire l’innovazione sul fronte della ricerca fondamentale e applicata, e collaborazioni con le aziende, anche mirate al trasferimento tecnologico. Senza dimenticare il campo, altrettanto centrale, della formazione: saranno messi a punto percorsi di formazione sulle scienze quantistiche per studentesse e studenti, per la qualificazione di ricercatrici e ricercatori e per l’aggiornamento delle figure professionali. E ci saranno anche attività di comunicazione e di divulgazione sul mondo delle tecnologie quantistiche a livello locale e nazionale.
A partire dalle numerose iniziative su queste tematiche già avviate dai partner fondatori, la Bologna Quantum Alliance punterà ad ampliare ulteriormente il suo raggio d’azione, coinvolgendo altre realtà presenti in Emilia-Romagna, in Italia e in altri paesi europei. L’orizzonte è infatti quello tracciato dalla European Declaration on Quantum Technologies, con l’obiettivo di contribuire a rendere l’Europa una regione leader a livello globale nell’ambito delle scienze e tecnologie quantistiche.
«I ricercatori Inaf lavorano già da qualche anno nel contesto del Centro nazionale Icsc alla realizzazione di algoritmi di quantum computing per la risoluzione di problemi di astrofisica», ricorda Andrea Bulgarelli, ricercatore all’Inaf di Bologna. «La collaborazione Boqa rappresenta un ulteriore fondamentale passo in avanti per l’Inaf, permettendoci di sfruttare al meglio le nascenti tecnologie quantistiche per avanzare nella ricerca astrofisica. Con Boqa potremo unire le nostre competenze con quelle dei partner per comprendere come sfruttare i vantaggi della computazione quantistica, tra i quali l’elaborazione più veloce di problemi complessi, il miglioramento della simulazione di sistemi quantistici naturali per cui i computer quantistici sono particolarmente adatti, e l’ottimizzazione avanzata ai fini di trovare le soluzioni ottimali (o quasi ottimali) a un dato problema, in tempi molto più rapidi rispetto ai metodi classici».
Puzza di uova marce sull’esopianeta Hd 189733 b
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Rappresentazione artistica di Hd 189733 b, a 64 anni luce dalla Terra. Crediti: Roberto Molar Candanosa/ Johns Hopkins Univeristy
Un esopianeta noto per il suo clima infernale nasconde un’altra bizzarra caratteristica: puzza di uova marce. Lo sostengono gli autori di uno studio appena pubblicato su Nature, basato sui dati del telescopio spaziale James Webb.
Il pianeta, un gigante gassoso delle dimensioni di Giove chiamato Hd 189733 b, ha un’atmosfera composta prevalentemente da idrogeno solforato (o acido solfidrico), una molecola che non solo emette un odore fetido – di uova marce, appunto – ma permette agli scienziati di carpire nuovi indizi su come lo zolfo potrebbe influenzare l’interno e le atmosfere dei mondi gassosi al di là del Sistema solare.
«L’idrogeno solforato è una molecola importante di cui non conoscevamo la presenza. Avevamo previsto che ci sarebbe stata, e sappiamo che si trova su Giove, ma non l’avevamo mai rilevata al di fuori del Sistema solare», afferma Guangwei Fu, astrofisico della Johns Hopkins alla guida della ricerca. «Non cerchiamo la vita su questo pianeta perché è troppo caldo, ma trovare l’idrogeno solforato è un passo avanti per trovare questa molecola su altri pianeti e per capire meglio come si formano i diversi tipi di pianeti».
Oltre a rilevare l’acido solfidrico e a misurare lo zolfo nell’atmosfera di Hd 189733 b, Fu ha misurato con precisione le principali sorgenti di ossigeno e carbonio del pianeta: acqua, anidride carbonica e monossido di carbonio. «Lo zolfo è un elemento vitale per la costruzione di molecole più complesse e, come il carbonio, l’azoto, l’ossigeno e il fosfato, gli scienziati devono studiarlo meglio per capire come sono fatti i pianeti e di cosa sono fatti», dichiara il ricercatore.
A soli 64 anni luce dalla Terra, Hd 189733 b è il gioviano caldo più vicino che gli astronomi possono osservare transitare davanti alla sua stella, il che lo rende un pianeta di riferimento per gli studi dettagliati delle atmosfere esoplanetarie sin dalla sua scoperta nel 2005. Il pianeta è circa 13 volte più vicino alla sua stella di quanto Mercurio lo sia al Sole e impiega solo due giorni terrestri per completare un’orbita. Ha temperature roventi di oltre 900 gradi Celsius ed è noto per il suo clima avverso, tra cui la pioggia di “vetro” che sferza con venti a oltre 8mila chilometri orari.
Rilevando acqua, anidride carbonica, metano e altre molecole critiche in esopianeti, anche in questo caso Webb sta fornendo agli scienziati un nuovo strumento per tracciare l’acido solfidrico e misurare lo zolfo nei pianeti gassosi al di fuori del Sistema solare. «Supponiamo di studiare altri 100 Giove caldi e che siano tutti ricchi di zolfo. Cosa ci dice questo su come sono nati e come si sono formati in modo diverso rispetto al nostro Giove?», si domanda Fu.
I nuovi dati hanno anche escluso la presenza di metano in Hd 189733 b con una precisione senza precedenti e con le osservazioni alla lunghezza d’onda dell’infrarosso del telescopio Webb, contrastando le precedenti affermazioni sull’abbondanza di questa molecola nell’atmosfera.
Il team ha anche misurato i livelli di metalli pesanti come quelli presenti su Giove, una scoperta che potrebbe aiutare gli scienziati a rispondere alle domande su come la metallicità di un pianeta sia correlata alla sua massa, ha detto Fu.
I pianeti giganti ghiacciati meno massicci, come Nettuno e Urano, contengono più metalli di quelli che si trovano nei giganti gassosi come Giove e Saturno, i pianeti più grandi del Sistema solare. La maggiore metallicità suggerisce che Nettuno e Urano abbiano accumulato più ghiaccio, roccia e altri elementi pesanti rispetto a gas come idrogeno ed elio durante i primi periodi di formazione. Gli scienziati stanno verificando se questa correlazione vale anche per gli esopianeti.
«Questo pianeta di massa gioviana è molto vicino alla Terra ed è stato studiato molto bene. Ora abbiamo queste nuove misurazioni che dimostrano che le concentrazioni di metalli che possiede forniscono un punto di ancoraggio molto importante per lo studio di come la composizione di un pianeta varia con la sua massa e il suo raggio», conclude Fu. «I risultati supportano ciò che già sappiamo di come i pianeti si formino attraverso la creazione di materiale più solido dopo la formazione iniziale del nucleo e poi si arricchiscano naturalmente di metalli pesanti».
Nei prossimi mesi, il team di Fu ha in programma di monitorare lo zolfo in altri esopianeti e di capire in che modo gli alti livelli di questo composto potrebbero influenzare la vicinanza alla loro stella madre.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Hydrogen sulfide and metal-enriched atmosphere for a Jupiter-mass exoplanet” di Guangwei Fu, Luis Welbanks, Drake Deming, Julie Inglis, Michael Zhang, Joshua Lothringer, Jegug Ih, Julianne I. Moses, Everett Schlawin, Heather A. Knutson, Gregory Henry, Thomas Greene, David K. Sing, Arjun B. Savel, Eliza M.-R. Kempton, Dana R. Louie, Michael Line & Matt Nixon
L’Etna erutta al chiarore della Via Lattea
media.inaf.it/2024/07/08/letna…
Nei giorni scorsi l’Etna – il più grande vulcano attivo d’Europa – ha dato spettacolo di sé, eruttando lava dal cratere Voragine, uno dei suoi quattro crateri sommitali. Un’occasione ghiotta per gli appassionati di fotografia, che l’astrofotografo ragusano Gianni Tumino non si è fatto scappare, realizzando lo scatto che vedete qui in basso: U Mingibeddu – com’è chiamato in dialetto siciliano il vulcano – in piena attività eruttiva, che si staglia lungo l’orizzonte, illuminato dal bagliore della Via Lattea sullo sfondo. Uno scatto mozzafiato che la Nasa ha scelto come Astronomy Picture Of the Day (Apod) del 5 luglio.
L’attività effusiva dell’Etna è iniziata il 13/14 giugno scorso, evolvendosi presto in attività stromboliana – dal nome del vulcano Stromboli, anch’esso tornato a dare spettacolo in questi giorni con eruzioni dalla bocca della Sciara del Fuoco – e successivamente in fontane di lava. L’attività vulcanica si è protratta nei giorni seguenti, per poi affievolirsi nella mattina tra sabato 6 e domenica 7 luglio. La sera del 29 giugno l’astrofotografo Gianni Tumino era lì, pronto a immortalare l’ennesimo spettacolo della natura offerto dall’Etna.
«Quando l’Etna è in attività si sta sempre in preallarme perché conoscendone la sua imprevedibilità bisogna essere sempre pronti per non farsi scappare l’occasione di riprendere qualche evento spettacolare. Così è stato sabato 29 giugno 2024» dice a Media Inaf Tumino. «Sono partito da Ragusa al mattino con il mio collaboratore e appassionato astrofotografo, Giovanni Passalacqua, con tutta l’attrezzatura fotografica, organizzandoci il lavoro della giornata nella zona Etnea, per essere più vicini a Mongibello. Nel primo pomeriggio, abbiamo verificato dal sito dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) che i tremori del vulcano si mantenevano alti e abbiamo deciso, confortati anche del parere del caro amico ed esperto Rosario Catania, di andare sul versante ovest del vulcano, e precisamente a Piano dei Grilli, sopra Bronte. La scelta non è stata casuale: nel caso in cui il vulcano ci avesse ripensato, sarebbe rimasta l’opportunità di eseguire astrofotografie del cielo stellato e del sorgere della Via Lattea» continua Timino. «Piazzate le varie fotocamere ancora con la luce del giorno, abbiamo aspettato che facesse notte. All’ora blu l’attività del vulcano appariva già in tutta la sua maestosità, con lanci di lapilli e cenere da due bocche del cratere Voragine».
Fotocamere alla mano, Tumino e il suo collaboratore si sono messi all’opera, catturando l’immagine che avete visto in apertura. In basso nella foto è ben visibile la silhouette dell’Etna mentre è in eruzione. Al centro, in tutta la sua maestosità, c’è la nostra galassia, la Via Lattea, con le sue enormi nubi di polvere raggruppate lungo il piano galattico. Familiare agli osservatori del cielo del nostro emisfero, quello boreale, è il triangolo estivo, l’asterismo formato dalle stelle luminose Deneb, Vega e Altair, situato a cavallo tra le nebulose oscure e le nubi stellari luminose che svettano sopra il vulcano.
«Per fotografare insieme la Via lattea e il vulcano ho utilizzato una tecnica che consiste nel riprendere la stessa zona di panorama e cielo nello stesso momento, con due fotocamere (di cui una modificata per astronomia) con la stessa focale» aggiunge Tumino. Questo mi ha permesso di ottenere due immagini, una del panorama ed una della volta stellata con tutte le nebulose non visibili a occhio nudo, che ho fuso in post produzione ottenendo il risultato che vedete. Come tutte le foto che eseguo che ritengo di particolare interesse, ne ho inviata una copia agli indirizzi dei curatori del sito Apod della Nasa, che l’hanno scelta come foto astronomica del giorno 5 luglio».
Oggi giornata di immagini molto spettacolari dai nostri #vulcani. Ecco con un video di questa mattina dall'Etna: un'intensa attivita' stromboliana al cratere Voragine da un nuovo cono di scorie e alimenta una colata di lava che si tuffa nel cratere di Bocca Nuova.#Etna #INGV pic.twitter.com/zuXVorJGba— INGVvulcani (@INGVvulcani) July 3, 2024
Osservatore privilegiato dell’irrequietezza dell’Etna – che ricordiamo è uno dei vulcani oggetto del progetto a guida Inaf Avengers (Analogs for Venus’ Geologically Recent Surfaces), col quale si studieranno diversi vulcani attivi sulla Terra per svelare i misteri del vulcanismo di Venere – è Astri-Horn, il telescopio Cherenkov dell’Inaf installato presso la Stazione Osservativa M.G. Fracastoro e gestito dall’Inaf di Catania. Nonostante la sua posizione ai piedi del monte Etna, Astri-Horn è stato investito solo in parte dalla cenere vulcanica proveniente dalla nube alta diversi chilometri emessa dal vulcano nei giorni scorsi.
«Il vulcano ha cominciato a manifestare attività via via crescente a partire dal 13 giugno scorso. All’inizio era attività stromboliana minore localizzata nella “voragine”, il cratere centrale dell’Etna. Si tratta di una zona abbastanza distante dal telescopio, motivo per cui non ci sono stati effetti né sulla nostra sede osservativa né su Astri-Horn, tant’è che abbiamo iniziato le misure durante il periodo di Luna nuova come programmato a inizio di luglio» spiega a Media Inaf Giuseppe Leto dell’Inaf di Catania, responsabile del telescopio Astri-Horn. «Le cose sono cambiate il pomeriggio del 4 luglio, quando l’attività si è intensificata e si è evoluta in una fontana di lava che ha raggiunto circa 5mila metri ed è durata fino alle 4 ora italiana del mattino del 5 luglio» osserva il ricercatore.
«Per precauzione, le operazioni osservative sono state sospese ma fortunatamente, dato l’orientamento del vento in quota, le ceneri si sono disperse verso Sud-Est, lasciando quasi indenne la sede di Serra la Nave. Qualcosa di simile è poi successo il 7 luglio, con una nuova intensificazione dell’attività stromboliana che ci ha indotto a sospendere le osservazioni giusto qualche ora prima che l’attività si evolvesse di nuovo in fontana di lava, questa volta raggiungendo quota 9mila metri con un carico di ceneri notevole. Fortunatamente anche in questo caso i venti hanno prodotto ricadute concentrate sul versante Est e Sud-Est, senza ripercussioni per il telescopio. In definitiva, la cenere che è caduta nella nostra area è stata in quantità limitata e non ha determinato problemi. Abbiamo dovuto rinunciare alle osservazioni, ma il nostro obiettivo era tenere il telescopio in condizione di sicurezza. Comunque sappiamo già che Astri-Horn è resiliente rispetto alla cenere: è già successo che ne sia caduta, anche in quantità cospicua, ma alla ripresa delle osservazioni si è comportato come previsto», conclude Leto.
Via libera ai lanciatori spaziali europei
Il lanciatore europeo Vega in rampa di lancio. Crediti: Esa
A seguito della riunione a Parigi del 18 e 19 giugno scorsi, il Consiglio dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha deciso di aprire la strada alla commercializzazione del lanciatore Vega, arrivando finalmente alla risoluzione di un nodo importante sui servizi di lancio europei e sulla continuità dell’accesso europeo allo spazio.
La risoluzione dell’Esa include ufficialmente la definizione di servizio di lancio europeo, aspetto fondamentale per garantire l’accesso autonomo dell’Europa allo spazio nell’era della new space economy e della liberalizzazione del mercato spaziale globale. Queste decisioni gettano infatti le basi per una maggiore diversificazione dei servizi di lancio europei in un ambiente sempre più competitivo.
«Gli Stati membri dell’Esa stanno ultimando le modifiche necessarie al quadro normativo che regola lo sfruttamento dei lanciatori sviluppati dall’Esa per consentire ad Avio di diventare fornitore dei servizi di lancio di Vega» ha dichiarato Toni Tolker-Nielsen, direttore del trasporto spaziale dell’Esa. «Con le decisioni odierne, gli Stati membri dell’Esa assicurano la continuità, consentendo ad Avio di commercializzare d’ora in poi i servizi di lancio di Vega».
La decisione fa seguito all’invito che l’Esa – durante la riunione precedente del Consiglio a Siviglia nel novembre 2023 – ha rivolto agli Stati ad avviare una revisione del quadro giuridico che regola lo sfruttamento dei lanciatori sviluppati dall’Esa.
Il lanciatore Vega (Vettore Europeo di Generazione Avanzata), sviluppato con la collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana, è entrato a far parte della famiglia dei lanciatori sviluppati dall’Esa con il suo primo volo nel 2012 ed è entrato nel mercato commerciale nel 2015. La versione più potente di Vega – Vega Consolidation, detto anche Vega-C – ha poi debuttato nel 2022. Entrambe le varianti sono costruite sotto la responsabilità di Avio e commercializzate da Arianespace.
Avio e Arianspace hanno concordato che quest’ultima continuerà a fornire i servizi di lancio per Vega e Vega-C fino al volo Vega 29 (VV29), previsto per la fine del 2025. Per i lanci di Vega-C successivi a questa data, sarà possibile convertire i contratti già stipulati con Arianespace in contratti con Avio come nuovo fornitore di servizi di lancio e operatore unico di Vega. Arianespace si concentrerà principalmente con ArianeGroup per l’utilizzo dell’Ariane 6.
Infine, il Consiglio dell’Esa ha anche autorizzato l’uso dello spazioporto europeo nella Guyana francese da parte di quattro mini-lanciatori forniti dalle aziende europee di servizi di lancio Isar Aerospace, MaiaSpace, Pld Space e Rocket Factory Augsburg (Rfa).
«Finalmente l’Esa ha deciso di intaccare il monopolio di Arianespace nella gestione dei lanciatori europei», commenta l’astrofisica Patrizia Caraveo, autrice di Europe in the global Space Economy (Springer, 2023) con Clelia Iacomino. «Il panorama dell’accesso europeo allo spazio è desolato, praticamente inesistente davanti all’avanzata inarrestabile di SpaceX, a causa della gestione monopolistica del mercato dei lanciatori europei tutto nelle mani di Arianespace. L’approccio “ricicla e riusa” di SpaceX è chiaramente vincente ma l’Europa si è rifiutata di capirlo e ora ha accumulato un ritardo abissale».
«Era chiaro che qualsiasi errore strategico o gestionale della società fosse destinato ad avere riflessi devastanti sull’accesso allo spazio dei paesi europei. La decisione di dismettere Ariane 5 prima che Ariane 6 fosse pronto a sostituirlo è stato un gravissimo errore che ha regalato quote di mercato a SpaceX che è stato il vettore delle missioni Euclid, Galileo e Earthcare, senza contare i lanci commerciali delle società di telecomunicazioni europee. Dare la gestione dei lanci Vega ad Avio a partire dal 2026 è un passo nella giusta direzione per diversificare i provider dei servizi di lancio e lo stesso è vero per le compagnie interessate al mercato dei piccoli satelliti» aggiunge Caraveo. «Purtroppo la decisione non risolverà la carenza di servizi di lancio europei nel breve termine e il 2024 si prospetta non molto diverso dal 2023 che ha visto 109 lanci americani contro 3 europei. Non che le compagnie spaziali tradizionali americane possano cantare vittoria, sono una sparuta minoranza contro SpaceX che con novantotto lanci ha fatto la parte del leone, facendo meglio di Cina e Russia messi insieme».
Guarda la conferenza stampa del 327th Esa Council:
Potremmo essere soli nella Via Lattea
Karl G. Jansky Very Large Array (Vla). Crediti: Nrao
Secondo una nuova ricerca condotta da Robert Stern dell’Università del Texas a Dallas e da Taras Gerya del Politecnico federale di Zurigo, il motivo per cui non sono state trovate evidenze di civiltà extraterrestri avanzate – nonostante l’equazione di Drake preveda che nella nostra galassia ce ne siano decine, in grado di comunicare con noi – è di natura geologica.
In uno studio pubblicato su Nature’s Scientific Reports, Stern e Gerya suggeriscono che la presenza di oceani e continenti, nonché di una tettonica delle placche a lungo termine, sui pianeti che ospitano la vita, sia fondamentale per l’evoluzione di civiltà attive e comunicative (in breve Acc, acronimo di active, communicative civilizations). I ricercatori concludono che la probabile scarsità di questi tre requisiti sugli esopianeti diminuirebbe significativamente il numero di tali civiltà extraterrestri nella galassia.
«Sulla Terra la vita esiste da circa 4 miliardi di anni, ma gli organismi complessi come gli animali non sono comparsi fino a circa 600 milioni di anni fa, cioè non molto tempo dopo l’inizio dell’episodio moderno della tettonica a placche», spiega Stern. «La tettonica a placche fa davvero ripartire la macchina dell’evoluzione e noi pensiamo di averne capito il motivo».
Nel 1961 l’astronomo Frank Drake ideò un’equazione in cui diversi fattori vengono moltiplicati per stimare il numero di civiltà intelligenti nella nostra galassia in grado di rendere nota la loro presenza agli esseri umani. In questa equazione, riportata nell’immagine sotto, N è il numero di civiltà nella Via Lattea le cui emissioni elettromagnetiche (onde radio, ad esempio) sono rilevabili, R* è il numero di stelle che si formano ogni anno, fp è la frazione di stelle con sistemi planetari, ne è il numero di pianeti per sistema solare con un ambiente idoneo alla vita, fl è la frazione di pianeti idonei alla vita che di fatto la ospitano, fi è la frazione di pianeti sui quali la vita è intelligente, fc è la frazione di civiltà che sviluppano una tecnologia in grado di produrre segni rilevabili della loro esistenza e infine L è la durata media (in anni) in cui tali civiltà producono tali segnali.
Il motivo per cui non sono state trovate prove conclusive di civiltà extraterrestri avanzate – anche se l’equazione di Drake, qui illustrata, prevede che nella nostra galassia ce ne dovrebbero essere molte, in grado di comunicare con noi – potrebbe avere radici geologiche. Crediti: University of Texas at Dallas
L’attribuzione di valori plausibili alle sette variabili è un esercizio basato su ipotesi, che ha portato a prevedere la diffusione di tali civiltà. E ciò che ne deriva non è una stima irrisoria. Ma se questo è vero, perché non sono mai state trovate evidenze conclusive della loro esistenza?
Questa contraddizione è nota come paradosso di Fermi, dal nome del fisico e premio Nobel Enrico Fermi che aveva informalmente posto la questione ai colleghi.
Nel loro studio, Stern e Gerya propongono di perfezionare uno dei fattori dell’equazione di Drake – fi, la frazione di pianeti su cui emerge vita intelligente – per tenere conto della necessità di grandi oceani e continenti e dell’esistenza della tettonica delle placche per più di 500 milioni di anni.
«Nella formulazione originale, si pensava che questo fattore fosse quasi pari a 1, o al 100%: in altre parole, l’evoluzione su tutti i pianeti in cui c’era vita sarebbe andata avanti e, con un tempo sufficiente, si sarebbe trasformata in una civiltà intelligente», riferisce Stern. «Noi crediamo che questo non sia vero».
La tettonica delle placche è una teoria formulata alla fine degli anni Sessanta che afferma che la crosta terrestre e il mantello superiore sono suddivisi in pezzi in movimento, o placche, che si muovono molto lentamente, più o meno alla velocità con cui crescono le unghie e i capelli. Nel nostro sistema solare, solo uno dei quattro corpi rocciosi con deformazione superficiale e attività vulcanica – la Terra – presenta la tettonica a placche. Altri tre corpi rocciosi – Venere, Marte e la luna di Giove, Io – si stanno deformando attivamente e hanno vulcani giovani, ma non hanno la tettonica a placche. Altri due corpi rocciosi – Mercurio e la Luna – non presentano attività e sono tettonicamente morti.
«È molto più comune che i pianeti abbiano un guscio solido esterno che non è frammentato, il che è noto come tettonica a singolo strato», afferma Stern. «Ma la tettonica a placche è molto più efficace della tettonica a singolo strato per guidare l’emergere di forme di vita avanzate».
Quando le placche tettoniche si muovono, si scontrano o si allontanano l’una dall’altra, formando strutture geologiche come montagne, vulcani e oceani, che permettono anche lo sviluppo di modelli climatici e meteorologici moderati. Attraverso gli agenti atmosferici, le sostanze nutritive vengono rilasciate negli oceani. Creando e distruggendo habitat, la tettonica a placche sottopone le specie a uno stress ambientale moderato ma incessante, affinché si evolvano e si adattino.
Robert Stern, primo autore dell’articolo pubblicato su Nature’s Scientific Reports. Crediti: Utd
Stern e Gerya hanno anche valutato l’importanza della presenza duratura di grandi masse terrestri e oceani per l’evoluzione che porta a una specie attiva e capace di comunicare. «Sia i continenti che gli oceani sono necessari per gli Acc, perché l’evoluzione della vita multicellulare da semplice a complessa deve avvenire nell’acqua, ma l’ulteriore evoluzione che porta a interrogarsi sul cielo notturno, a sfruttare il fuoco e a usare i metalli per creare nuove tecnologie, e infine alla nascita di Acc in grado di inviare onde radio e razzi nello spazio, deve avvenire sulla terraferma», afferma Stern.
Il team di ricerca ha quindi proposto una revisione dell’equazione di Drake che definisce fi come il prodotto di due termini: foc, la frazione di esopianeti abitabili con continenti e oceani significativi, e fpt, la frazione di pianeti che hanno avuto una tettonica a placche di lunga durata.
Sulla base della loro analisi, Stern ha affermato che la frazione di esopianeti con un volume d’acqua ottimale è probabilmente molto piccola. Stimano che il valore di foc sia compreso tra 0,0002 e 0,01. Allo stesso modo, i ricercatori hanno concluso che anche una tettonica a placche di durata superiore a 500 milioni di anni è altamente insolita, portando a una stima di fpt inferiore a 0,17.
«Quando moltiplichiamo questi fattori, otteniamo una stima raffinata di fi che è molto piccola, tra lo 0,003% e lo 0,2%, invece del 100%», afferma Stern. «Questo spiega l’estrema rarità di condizioni planetarie favorevoli allo sviluppo di vita intelligente nella nostra galassia e risolve il paradosso di Fermi».
Secondo la Nasa, nella Via Lattea sono stati confermati più di 5.500 esopianeti ma non è ancora possibile rilevare, su questi pianeti, la presenza della tettonica delle placche. «La biogeochimica presuppone che la Terra solida, in particolare la tettonica delle placche, acceleri l’evoluzione delle specie», conclude Stern. «Studi come il nostro sono utili perché stimolano una riflessione ampia su misteri più grandi e forniscono un esempio di come possiamo applicare la nostra conoscenza dei sistemi terrestri a domande interessanti sul nostro universo».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature’s Scientific Reports l’articolo “The importance of continents, oceans and plate tectonics for the evolution of complex life: implications for finding extraterrestrial civilizations” di Robert J. Stern & Taras V. Gerya
Jwst cattura la drammatica fusione quasar-galassie
Mappa delle emissioni di riga dell’idrogeno (in rosso e blu) e ossigeno (in verde), nel sistema PJ308-21, mostrato dopo aver mascherato la luce del quasar centrale (“Qso”). I diversi colori della galassia ospite del quasar e delle galassie compagne in questa mappa rivelano condizioni e proprietà fisiche del gas al loro interno. Crediti: Decarli et. al / Inaf / A&A 2024
Un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha utilizzato lo spettrografo nel vicino infrarosso NirSpec a bordo del James Webb Space Telescope (Jwst, di Nasa, Esa e Csa) per osservare la drammatica interazione tra un quasar all’interno del sistema PJ308–21 e due galassie satelliti massicce nell’universo lontano. Le osservazioni, realizzate a settembre 2022, hanno rivelato dettagli senza precedenti fornendo nuove informazioni sulla crescita delle galassie nell’universo primordiale. I risultati sono stati riportati in un recente articolo in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics e presentati oggi durante il meeting della European Astronomical Society (Eas) a Padova.
Il quasar in questione (già descritto dagli stessi autori in un altro studio pubblicato lo scorso maggio), uno dei primi osservati con il Near Infrared Spectrograph (NirSpec) quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (redshift z = 6,2342), ha rivelato dati di una qualità sensazionale: lo strumento ha “catturato” il suo spettro con un’incertezza inferiore all’1 per cento per pixel. La galassia ospite del quasar PJ308–21 mostra un’alta metallicità e condizioni di fotoionizzazione tipiche di un nucleo galattico attivo (Agn), mentre una delle galassie satelliti presenta una bassa metallicità e fotoionizzazione indotta dalla formazione stellare; la seconda galassia satellite è caratterizzata invece da una metallicità più elevata ed è parzialmente fotoionizzata dal quasar. Per metallicità si intende l’abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. La scoperta ha permesso di determinare la massa del buco nero supermassiccio al centro del sistema (circa due miliardi di masse solari) e di confermare che sia il quasar che le galassie circostanti sono altamente evolute, in termini di massa e di arricchimento metallico, e in costante crescita.
«Il nostro studio», spiega Roberto Decarli, ricercatore presso l’Inaf di Bologna e primo autore dell’articolo, «rivela che sia i buchi neri al centro di quasar ad alto redshift, sia le galassie che li ospitano, attraversano una crescita estremamente efficiente e tumultuosa già nel primo miliardo di anni di storia cosmica, coadiuvata dal ricco ambiente galattico in cui queste sorgenti si formano». I dati sono stati ottenuti nel settembre 2022 nell’ambito del Programma 1554, uno dei nove progetti a guida italiana del primo ciclo osservativo di Jwst. Decarli è alla guida di questo programma che ha come obiettivo osservare proprio la fusione fra la galassia che ospita il quasar (PJ308-21) e due sue galassie satelliti.
Rappresentazione artistica degli specchi del James Webb Space Telescope. Crediti: Jwst/Nasa/Esa
Le osservazioni sono state realizzate in modalità di spettroscopia a campo integrale: per ogni pixel dell’immagine si ottiene l’intero spettro della banda ottica nel sistema di riferimento delle sorgenti osservate, che a causa dell’espansione dell’universo viene osservato nell’infrarosso. Ciò consente di studiare vari traccianti del gas (righe di emissione) con un approccio 3D. Grazie a questa tecnica, il team (formato da 34 istituti di ricerca e università di tutto il mondo) ha rilevato emissioni spazialmente estese di diverse righe di emissione, che sono state utilizzate per studiare le proprietà del mezzo interstellare ionizzato, comprese la fonte e la durezza del campo di radiazione fotoionizzante, la metallicità, l’oscuramento della polvere, la densità elettronica e la temperatura, e il tasso di formazione stellare. Inoltre, è stata rilevata marginalmente l’emissione di luce stellare continua associata alle sorgenti compagne.
«Grazie a NirSpec, possiamo per la prima volta studiare, nel sistema PJ308-21, la banda ottica ricca di preziosi dati diagnostici sulle proprietà del gas vicino al buco nero nella galassia che ospita il quasar e nelle galassie circostanti», commenta entusiasta Federica Loiacono, astrofisica, assegnista di ricerca in forze all’Inaf di Bologna e coautrice dell’articolo. «Possiamo vedere, per esempio, l’emissione degli atomi di idrogeno e confrontarla con quella degli elementi chimici prodotti dalle stelle, per stabilire quanto sia ricco di metalli il gas nelle galassie. L’esperienza ottenuta nella riduzione e calibrazione di questi dati, alcuni dei primi collezionati con NirSpec in modalità di spettroscopia a campo integrale, ha assicurato un vantaggio strategico per la comunità italiana rispetto alla gestione di dati simili». Loiacono è la referente italiana per la riduzione dei dati NirSpec al Jwst Support Centre dell’Inaf, che assiste la comunità astronomica italiana nell’uso dei dati provenienti dal potente osservatorio spaziale.
«Grazie alla sensibilità del James Webb Space Telescope nel vicino e medio infrarosso», continua Loiacono, «è stato possibile studiare lo spettro del quasar e delle galassie compagne con una precisione senza precedenti nell’universo lontano. Solo l’eccellente “vista” offerta da Jwst è in grado di assicurare queste osservazioni». Il lavoro ha rappresentato un vero e proprio «rollercoaster emotivo», aggiunge Decarli, «con la necessità di sviluppare soluzioni innovative per superare le difficoltà iniziali nella riduzione dei dati».
Decarli conclude sottolineando la straordinaria importanza degli strumenti a bordo del telescopio Webb: «Fino a un paio di anni fa, dati sull’arricchimento dei metalli (indispensabile per capire l’evoluzione chimica delle galassie) erano quasi al di là della nostra portata, soprattutto a queste distanze. Ora possiamo mappare in dettaglio con poche ore di osservazione anche in galassie osservate quando l’universo era agli albori».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A quasar-galaxy merger at z ∼ 6.2: rapid host growth via accretion of two massive satellite galaxies“, di Roberto Decarli, Federica Loiacono et al.
Origine della vita? La risposta di Marte
Mappa interattiva della posizione del rover Curiosity della Nasa nel cratere Gale. La traccia del percorso che il rover ha effettuato sin dal suo atterraggio, nell’agosto 2012, è segnata in bianco. Crediti: Nasa
Non ci saranno gli omini verdi, su Marte, ma alcune molecole organiche certamente sì. Tracce di vita? Allo stato attuale delle conoscenze, non si può dire. Ma dalla loro analisi si è riusciti a comprendere il processo chimico che le ha generate nell’atmosfera del pianeta. Si chiama fotolisi e lo studio che ne parla è stato pubblicato su Nature Geoscience. Vediamo di che si tratta.
Già da alcuni anni, il rover Curiosity della Nasa – che su Marte gironzola da ormai 12 anni nel cratere Gale, di origine meteoritica – ha scoperto e confermato la presenza di materiale organico. Le analisi sono state effettuate con lo strumento Sample Analysis at Mars (Sam) a bordo del rover, e le proprietà di questi materiali a base di carbonio, in particolare il rapporto degli isotopi del carbonio, non lasciano alcun dubbio: si tratta di materia organica di origine sedimentaria conservata in sedimenti stratificati d’acqua e risalenti a circa 3,5 miliardi di anni fa.
Materiali organici con tali proprietà, se trovati sulla Terra, sarebbero in genere segno di microrganismi, ma possono anche essere il risultato di processi chimici non biologici. Come, appunto, la fotolisi. Il nome si riferisce semplicemente al processo per cui la luce del Sole, con le sue frequenze più energetiche ultraviolette (Uv), fornisce alle molecole l’energia necessaria per effettuare una trasformazione chimica. Secondo lo studio, in particolare, nell’atmosfera marziana il 20% delle molecole di CO2 sarebbe stato scisso in ossigeno e monossido di carbonio. Ma il carbonio ha due isotopi stabili: carbonio-12 e carbonio-13. Normalmente sono presenti in un rapporto di un carbonio-13 per ogni 99 carbonio-12. Tuttavia, la fotolisi funziona più velocemente per il carbonio-12 (più leggero), tanto che nel corso del tempo il monossido di carbonio prodotto risulta impoverito di carbonio-13, che finisce per accumularsi nella CO2 rimanente. Tutto questo determina il cosiddetto “arricchimento isotopico” nella CO2 e l’impoverimento nel monossido di carbonio, in un gioco di bilanci la cui somma, alla fine, deve sempre tornare.
Teoria della fotolisi alla mano, dunque, gli autori dell’articolo sapevano come cercare tracce di questo processo chimico nei campioni di Curiosity: occorreva analizzare precisamente il rapporto del carbonio nei sedimenti organici.
«Le molecole complesse a base di carbonio sono il prerequisito della vita, i mattoni della vita si potrebbe dire», dice Matthew Johnson, professore di chimica all’università di Copenhagen e coautore dello studio. «È un po’ come il vecchio dibattito su chi sia nato prima, l’uovo o la gallina. Abbiamo dimostrato che il materiale organico trovato su Marte si è formato attraverso reazioni fotochimiche atmosferiche – senza vita, cioè. Questo è l’uovo, ovvero il prerequisito della vita. Resta ancora da dimostrare se questo materiale organico abbia portato o meno alla vita sul Pianeta rosso».
Per capire che è stata proprio quella l’origine del materiale organico, il nuovo studio ha confrontato la composizione isotopica di un meteorite marziano giunto sulla Terra, con quella dei sedimenti organici trovati da Curiosity. Il primo, chiamato Allan Hills 84001 per il luogo in Antartide in cui è stato trovato, contiene minerali di carbonato che si formano dalla CO2 presente nell’atmosfera, ed è arricchito in carbonio-13. Il secondo, ovvero il materiale organico in situ, è risultato invece impoverito dello stesso isotopo. Come da previsioni teoriche, il Sole avrebbe scomposto la CO2 nell’atmosfera marziana miliardi di anni fa, e il monossido di carbonio risultante avrebbe gradualmente reagito con altre sostanze chimiche nell’atmosfera sintetizzando molecole complesse e fornendo a Marte materiali organici.
«Inoltre», continua Johnson, «poiché la Terra, Marte e Venere avevano atmosfere ricche di CO2 molto simili molto tempo fa, quando questa fotolisi ha avuto luogo, questa scoperta può anche rivelarsi importante per la nostra comprensione di come sia cominciata la vita sulla Terra».
Non ci sarebbero altre teorie ugualmente valide per spiegare sia l’impoverimento di carbonio-13 nel materiale organico che l’arricchimento nel meteorite marziano. Viene da pensare, a questo punto, che se si riuscisse a fare lo stesso ragionamento per il nostro pianeta, si avrebbe finalmente una risposta alla più antica domanda sull’origine della vita. È possibile, dunque, trovare prove simili qui, sul nostro pianeta?
Secondo i ricercatori, trovare le stesse prove isotopiche sulla Terra non sarebbe altrettanto lineare perché lo sviluppo geologico del nostro pianeta e della vita su di esso hanno cambiato la superficie in modo significativo rispetto a Marte.
«È ragionevole supporre che la fotolisi della CO2 sia stata anche un prerequisito per l’emergere della vita qui sulla Terra, in tutta la sua complessità», conclude Johnson. «Ma non abbiamo ancora potuto dimostrare che lo stesso processo ha avuto luogo sulla Terra. Forse perché la superficie terrestre è molto più viva, geologicamente e letteralmente, e quindi in continuo cambiamento. Ma averlo trovato su Marte è già un grande passo avanti, in un’epoca in cui i due pianeti erano molto simili».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Synthesis of 13C-depleted organic matter from CO in a reducing early Martian atmosphere“, di Yuichiro Ueno, Johan A. Schmidt, Matthew S. Johnson, Xiaofeng Zang, Alexis Gilbert, Hiroyuki Kurokawa, Tomohiro Usui e Shohei Aoki
La Nasa si esercita con un nuovo scenario di impatto
Davide Farnocchia, matematico, 39 anni, lavora dal 2012 al Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Si occupa principalmente della determinazione delle orbite di asteroidi e comete, con particolare attenzione riguardo al rischio di impatto o incontri ravvicinati con la Terra. Ha ideato l’orbita dell’asteroide utilizzato nell’ultima esercitazione della Nasa per la difesa planetaria. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Un asteroide del diametro di qualche centinaio di metri potrebbe impattare la Terra fra 14 anni, con una probabilità del 72 per cento. Tra i potenziali luoghi d’impatto ci sono aree molto popolate del Nord America, dell’Europa meridionale e del Nord Africa. Rimane un 28% di possibilità che l’asteroide manchi la Terra, ma di certo non si può contare su questo. Soprattutto perché dopo alcuni mesi di tracciamento, l’asteroide si avvicinerà troppo al Sole, rendendo impossibili ulteriori osservazioni per altri sette mesi. Che fare? Se lo sono chiesti il Planetary Defense Coordination Office (Pdco) della Nasa, il Federal Emergency Management Agency Response Directorate e il Department of State Office of Space Affairs: nel corso di due giorni in aprile, si sono riuniti presso il Johns Hopkins Applied Physics Laboratory di Laurel, nel Maryland, per considerare le potenziali risposte nazionali e globali allo scenario. Prima di procedere con i dettagli, però, una precisazione: non c’è nulla di vero, si tratta di un’esercitazione di difesa planetaria. La quinta, per la precisione, che la Nasa mette in piedi con cadenza biennale. Lo scopo è quello di informare e valutare la capacità (degli Stati Uniti, in collaborazione con altre agenzie ed enti preposti a livello internazionale) di rispondere efficacemente alla minaccia di un asteroide o di una cometa potenzialmente pericolosi. Per sapere tutti i dettagli, Media Inaf ha intervistato Davide Farnocchia, matematico 39enne che lavora al Center for Near Earth Object Studies (Cneos) del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, e che ha disegnato la traiettoria dell’asteroide considerato in questa esercitazione.
In cosa consiste questa simulazione e chi coinvolge?
«L’esercitazione consiste nel simulare un asteroide in rotta di collisione con la Terra. Nonostante si tratti di un asteroide simulato, l’esercitazione ha un alto livello di realismo: la traiettoria segue le leggi della fisica, la “scoperta” avviene esattamente quando l’asteroide diventerebbe osservabile coi telescopi e vengono simulati i dati che sarebbero a disposizione per caratterizzare l’asteroide e decidere il da farsi. Questi scenari di impatto vengono progettati dalla Nasa in collaborazione con Fema (la Federal Emergency Management Agency) e i colleghi della John Hopkins University e del Lawrence Livermore National Laboratory. L’esercitazione in sé dura un paio di giorni e prevede la partecipazione di varie agenzie governative degli Stati Uniti e talvolta di partner internazionali come l’Agenzia Spaziale Europea e l’Organizzazione delle Nazioni Unite».
Avete lavorato alla simulazione della traiettoria di un asteroide, come se fosse vero. Perché?
«Fortunatamente nessuno degli asteroidi conosciuti rappresenta una seria minaccia di impatto, quindi per poterci esercitare abbiamo bisogno di inventarne uno. Simulare un asteroide ha anche il vantaggio di permetterci di sceglierne le caratteristiche in modo da esercitare aspetti diversi ogni volta».
Qualche esempio?
«Ad esempio, per l’esercitazione del 2022 si è scelto un asteroide di “soli” 70 metri scoperto 6 mesi prima di un impatto nella Carolina del Nord. In così poco tempo non è possibile deflettere l’asteroide e quindi si è lavorato soprattutto a livello di governo federale e statale per implementare misure a livello territoriale per limitare il danno, come evacuare l’area che sarebbe stata colpita. Questa ultima volta, invece, abbiamo scelto un asteroide di un paio di centinaia di metri e con 14 anni di preavviso. Il punto di impatto non era ancora conosciuto, rendendo necessaria la collaborazione internazionale, che era uno degli scopi principali di questa esercitazione».
Da questo tipo di simulazioni, che risultato si spera di ottenere? Voglio dire, se un asteroide arriva sulla Terra non abbiamo scampo in ogni caso.
«Lo scopo è quello di acquisire familiarità col problema per poi essere in grado di adottare la strategia giusta nell’improbabile eventualità di dover affrontare la minaccia di un impatto asteroidale nella realtà. Acquisire familiarità è particolarmente importante per chi non si occupa quotidianamente di asteroidi. Giusto per fare un esempio, per le agenzie che si occupano di gestire disastri frequenti come uragani o terremoti, 14 anni sembrano un lasso di tempo lungo e quindi non necessariamente si percepisce la necessità di agire presto. Ma una volta che si inizia a guardare al tempo necessario per costruire una sonda, al tempo di volo necessario per raggiungere l’asteroide e alle opportunità effettive per defletterlo, ci si rende conto come invece sia importante mettersi al lavoro subito».
Se dovesse davvero verificarsi una situazione simile, quali sarebbero i passi da compiere?
«Nel caso ci fosse un asteroide in rotta di collisione, i passi da compiere dipenderebbero principalmente da quanto distante nel tempo è l’impatto, e dalle dimensioni dell’oggetto. Avere telescopi potenti che scoprano asteroidi il prima possibile è importante perché le opzioni a disposizione aumentano se l’impatto è identificato con largo anticipo».
Come il telescopio spaziale infrarosso in costruzione dalla Nasa, il Neo Surveyor (Near-Earth Object Surveyor). Una volta identificato, si spera, con ampio margine, quali sono le opzioni a disposizione?
«Per evitare un impatto si dovrebbe deflettere l’asteroide. La tecnologia più testata, come dimostrato dalla missione Dart, è l’impatto cinetico, ovvero mandare una sonda che colpisca l’asteroide a grande velocità cambiandone la traiettoria. Un’altra opzione sarebbe quella nucleare, soprattutto se l’oggetto fosse di grandi dimensioni ed il tempo a disposizione limitato. Se invece l’oggetto fosse piccolo ed il danno limitato e localizzato, la scelta ricadrebbe su misure di limitazione del danno, come ad esempio evacuare l’area dove l’asteroide è diretto».
E come si raccontano, alle persone, questi scenari?
«Per quanto riguarda la comunicazione col pubblico, i dati che usiamo per il calcolo della traiettoria degli asteroidi e i nostri risultati sono pubblici. Tenere il pubblico aggiornato e avere diverse agenzie come Nasa ed Esa che fanno i calcoli e riportano gli stessi risultati dovrebbe infondere fiducia. Speriamo inoltre di sfruttare eventi come l’incontro ravvicinato dell’asteroide Apophis nel 2029, che sarà addirittura visibile a occhio nudo, per coinvolgere il pubblico e dargli un’idea del lavoro che facciamo».
Quanto è probabile che si verifichi un impatto con un asteroide grande quanto quello che avete simulato?
«Impatti con asteroidi di grandi dimensioni sono rari. Ad esempio, oggetti in grado di fare danni a livello globale (diametro di almeno 1 kilometro) colpiscono la Terra ogni 700 mila anni, in media. Di questi ne abbiamo già scoperti almeno il 90%.
Corpi più piccoli, invece?
«Abbiamo avuto asteroidi impattanti di qualche metro, che raggiungono la Terra ogni paio di anni, in media. Questi non sono pericolosi ma permettono di esercitarci e dimostrare che possiamo prevedere il tempo e luogo di impatto. L’ultimo è stato 2024 BX1, entrato nell’atmosfera esattamente dove e quando previsto».
Per saperne di più:
- Leggi il Summary pubblicato dalla Nasa con tutti i risultati dell’ultima simulazione
Così ticchetta l’orologio più preciso al mondo
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Un gas ultrafreddo di atomi di stronzio è intrappolato in un reticolo ottico. Per aiutare a preservarne i delicati e fragili stati quantistici, gli atomi sono tenuti in un ambiente a vuoto ultraspinto. Il puntino rosso che si vede nell’immagine è un riflesso della luce laser usata per creare la trappola per atomi. Crediti: K. Palubicki/Nist
Per un orologio, la regolarità del ticchettio è tutto. Ma a quanto può arrivare? Per scoprirlo occorre andare a Boulder, in Colorado, dove sorgono i laboratori del Jila, un istituto congiunto del National Institute of Standards and Technology (Nist) statunitense e dell’Università del Colorado. È lì che si trova quello che è attualmente l’orologio atomico più preciso al mondo. Descritto in dettaglio in un articolo in uscita la prossima settimana su Physical Review Letters, è realizzato con un reticolo ottico, una sorta di “rete di luce” intessuta con raggi laser in grado di mantenere intrappolati decine di migliaia di atomi di stronzio, misurandone al tempo stesso una particolare transizione – la transizione 1S0→3P0 – e ottenendo così un clock dalla stabilità senza rivali: in teoria non dovrebbe perdere più di un secondo ogni 30 miliardi di anni.
Rispetto agli orologi atomici di generazione precedente, che funzionavano eccitando gli atomi con microonde, questo utilizza luce visibile, dunque a frequenza molto più elevata. Non è però l’unica novità: per ottenere una precisione così spinta, è stato necessario un lavoro certosino sia sul fonte del controllo degli atomi che su quello della stabilità ambientale, così da ridurre il più possibile gli errori sistematici. Risultato: l’incertezza raggiunta è pari a 8×10-19, vale a dire otto parti su dieci miliardi di miliardi. Un risultato sbalorditivo, che migliora l’accuratezza di oltre un fattore 2 rispetto all’orologio a reticolo ottico con atomi di stronzio più preciso mai realizzato in precedenza.
Ma a cosa può mai servire un orologio così accurato? Il suo fine va ben oltre il semplice fornire l’ora esatta. La sua precisione è infatti tale da poter misurare le dilatazioni del tempo dovute a effetti di relatività generale anche a scale microscopiche. È dunque potenzialmente in grado di registrare le alterazioni nell’andamento del tempo prodotte da variazioni di potenziale gravitazionale dovute, a loro volta, a spostamenti submillimetrici. Detto altrimenti: se lo solleviamo o lo abbassiamo di una quantità pari allo spessore d’un capello, un orologio di questo tipo riuscirà a calcolare l’impercettibile spostamento misurando di quanto la differenza di potenziale gravitazionale ha fatto accelerare o rallentare lo scorrere del tempo.
Le applicazioni concrete sono innumerevoli. Un oggetto così sensibile al variare del potenziale gravitazionale può essere usato, per esempio, nella ricerca di giacimenti minerari nascosti nel sottosuolo. Quanto alla precisione nel calcolo del tempo, è un requisito essenziale per la navigazione interplanetaria, dove anche il più piccolo errore può portare a deviazioni rispetto alla rotta desiderata che aumentano esponenzialmente con la distanza. «Se vogliamo far atterrare una navicella spaziale su Marte con una precisione millimetrica», dice a questo proposito uno degli autori dello studio, Jun Ye del Jila, «avremo bisogno di orologi con una precisione di parecchi ordini grandezza superiore a quella di cui disponiamo oggi con il Gps. Il nostro nuovo orologio atomico è un passo importante in questa direzione». Non vanno poi dimenticate le importanti ricadute che le tecnologie messe a punto per raggiungere una precisione così spinta – in particolare, il reticolo ottico in grado di imbrigliare e controllare i singoli atomi – possono avere per il quantum computing.
Ma più che le applicazioni concrete, a essere affascinanti sono le implicazioni per la conoscenza. Poter osservare gli effetti della relatività generale su scale così microscopiche, sottolineano infatti i ricercatori, aiuta a colmare in modo significativo il divario tra il regno microscopico dei quanti e i fenomeni su larga scala descritti dalla relatività generale. «Stiamo esplorando le frontiere della scienza della misurazione. E quando si giunge a misurare la realtà con questo livello di precisione», conclude Ye, «si iniziano a vedere fenomeni che finora abbiamo potuto solo teorizzare».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Physical Review Letters “A clock with 8×10−19 systematic uncertainty”, di Alexander Aeppli, Kyungtae Kim, William Warfield, Marianna S. Safronova e Jun Ye
A Bologna l’estate è tempo di scienza
Osservazioni guidate del cielo notturno, laboratori didattici, esperimenti, incontri e conferenze con autori e divulgatori illustri, tra cui AstroViktor, alias Vittorio Baraldi, e Curiuss, alias Alan Zamboni. A Bologna viaggio alla scoperta dell’universo comincia venerdì 5 luglio 2024 in via san Donato 149, nello storico cortile del Casalone.
Locandina degli eventi di È tempo di scienza
Un festival a tutto tondo, perché non racconta soltanto la fisica delle leggi che muovono il Sistema solare, ma esorta a osservare e ad ascoltare le stelle, provando a vederci le stesse storie che si tramandano dall’antichità; un festival che invita a sognare la Luna con la stessa fantasia che ha ispirato poesie, romanzi, film e canzoni, a scoprire le imperfezioni della superficie solare e infine a riflettere sui comportamenti della nostra atmosfera.
Un festival che attraversa il tempo: comincia dalle credenze della mitologia più remota per arrivare alle aspettative che riponiamo nello spazio per il nostro futuro; esplora come l’essere umano nella storia abbia imparato a scandire le proprie attività grazie alla misura del tempo mediante il movimento degli astri e si interroga sul significato profondo del tempo nelle nostre vite e nella fisica stessa.
Con questo fil rouge nasce È tempo di scienza, un festival dedicato alla scienza e allestito al circolo culturale “Il Casalone”, situato nel cuore del quartiere San Donato-San Vitale di Bologna, grazie alla collaborazione tra Sofos Aps, una realtà attiva nella divulgazione delle scienze da quasi vent’anni, e il quartiere San Donato-San Vitale, da sempre attento alla promozione sociale e culturale sul territorio. Collaborano al progetto l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e le associazioni Fucina XXI Aps, La Casa del Faro Aps, Ritmo Lento Aps, Circolo Ghinelli 33 Asd e Fascia Boscata.
Programmazione
Venerdì 5 luglio 2024 alle 21:30, al Casalone, incontro letterario con Maria Giulia Andretta, autrice di Stregati dalla Luna e Dalla Terra a Marte.
Sabato 6 luglio alle 16:00, al Casalone, laboratorio didattico sul Sistema solare in cui bambine e bambini potranno costruire con le proprie mani una riproduzione in miniatura del pianeta che più li affascina.
Giovedì 11 luglio alle 21:30, al Casalone, incontro letterario col ricercatore Vincenzo Levizzani del Cnr di Bologna per parlare delle piogge e della nostra atmosfera.
Giovedì 18 luglio alle 21:30 science show con Vittorio Baraldi, divulgatore spaziale noto come AstroViktor, che parlerà di generazioni future nello spazio.
Venerdì 19 luglio alle 16:00, nel parco san Donnino, a poche centinaia di metri dal Casalone, un pomeriggio dedicato al Sole in occasione del picco di attività in corso quest’anno. Si osserverà e si ascolterà il Sole attraverso un telescopio e un radiometro mentre per i più piccoli saranno svolti laboratori didattici a tema.
Mercoledì 24 luglio alle 21:30, nel parco san Donnino, serata Col favore del buio insieme al divulgatore Luca Angeretti di Sofos Aps, l’astronomo Sandro Bardelli dell’Inaf di Bologna e l’arpista Gabriele Giunchi. Una serata all’insegna dell’osservazione a occhio nudo degli oggetti celesti usando un potente puntatore laser.
Mercoledì 31 luglio alle 21:30, al Casalone si conclude il festival con un altro ospite d’eccezione: Alan Zamboni, padre del canale YouTube di divulgazione Curiuss, che terrà uno spettacolo sulla misura del tempo.
Tutti gli eventi sono gratuiti e a ingresso libero, con prenotazione consigliata solo per i laboratori del 6 e 19 luglio per questioni logistiche. I dettagli di ogni evento del festival sono pubblicati sul sito web e sulle pagine social di Sofos Aps, sui canali ufficiali di Bologna Estate e di tutti i partner di questo progetto, tra cui l’Inaf Oas di Bologna. Per ulteriori informazioni si consiglia di scrivere una e-mail a eventi@sofosdivulgazionedellescienze.it o inviare un WhatsApp al 3703155954.
Una starburst per festeggiare Gemini North
Questa immagine, che assomiglia a una nuvola di coriandoli cosmici, è stata pubblicata per celebrare il 25esimo anniversario di Gemini North. Ngc 4449 è un ottimo esempio di attività stellare causata dall’interazione di galassie, mentre assorbe lentamente i suoi vicini galattici più piccoli. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura
Gran parte della materia visibile nell’universo – quella che costituisce le stelle, i pianeti e anche noi – viene creata all’interno delle stelle mentre completano il loro ciclo di nascita, vita e morte. Nascono da nubi di gas e polvere e quando muoiono i loro resti vengono riciclati nel mezzo interstellare per essere utilizzati come combustibile per la successiva generazione di stelle. E in un angolo non troppo lontano dell’universo, a 13 milioni di anni luce di distanza, nella costellazione dei Cani da Caccia, l’inizio di questo ciclo si sta svolgendo a un ritmo eccezionale.
Ngc 4449, conosciuta anche come Caldwell 21, sembra stia organizzando uno spettacolo pirotecnico cosmico in questa immagine catturata con il telescopio Gemini North – uno dei due telescopi dell’Osservatorio Internazionale Gemini, in parte supportato dalla National Science Foundation degli Stati Uniti e gestito dal NoirLab.
Le fluttuanti nuvole rosse della galassia e lo scintillante velo blu illuminano il cielo con i colori delle stelle appena formate. È classificata come galassia irregolare di tipo Magellanico, per via della sua struttura a spirale decisamente “sparsa” e la stretta somiglianza con la Grande Nube di Magellano.
All’interno di Ngc 4449, le stelle si sono formate per diversi miliardi di anni, ma attualmente la galassia sta generando nuove stelle a un ritmo molto più elevato che in passato. Questa attività di formazione stellare insolitamente esplosiva e intensa la qualifica come galassia starburst. Mentre le esplosioni stellari si verificano solitamente nelle regioni centrali delle galassie, la formazione stellare di Ngc 4449 è più diffusa, come dimostra il fatto che le stelle più giovani si trovano sia nel nucleo che nei flussi che circondano la galassia.
Questa intensa attività di starburst assomiglia a quelle che caratterizzano le prime galassie a formazione stellare dell’universo, che si sono sviluppate fondendosi con sistemi stellari più piccoli e accorpandoli. E come i suoi predecessori galattici, la rapida formazione stellare di Ngc 4449 è stata probabilmente innescata dalle interazioni con le galassie vicine.
La Via Lattea risplende sopra al telescopio Gemini North. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura/ B. Tafreshi
Come membro del Gruppo di galassie M94 – uno dei gruppi di galassie più vicini al Gruppo Locale, che ospita la Via Lattea – Ngc 4449 si trova in prossimità di una manciata di galassie più piccole circostanti, ed effettivamente gli astronomi hanno trovato prove di interazioni tra Ngc 4449 e almeno due di queste galassie satellite.
Una di queste è una galassia nana molto debole che tuttora viene attivamente assorbita, come dimostra un flusso diffuso di stelle che si estende su un lato di Ngc 4449. Questa fusione “furtiva” a occhio è quasi impercettibile a causa della sua natura diffusa e della sua bassa massa stellare. Tuttavia, possiede una grande quantità di materia oscura, il che significa che la sua presenza può essere rilevata dall’influenza gravitazionale che esercita su Ngc 4449. L’altro oggetto che fornisce indizi di una fusione passata è un massiccio ammasso globulare nell’alone esterno di Ngc 4449. Gli astronomi ritengono che questo ammasso sia il nucleo superstite di una precedente galassia satellite ricca di gas, ora in procinto di essere assorbita da Ngc 4449.
I partecipanti alla cerimonia di inaugurazione del telescopio Gemini Nord. Le bandiere dei Paesi partner sono appese al telescopio. Crediti: International Gemini Observatory/ NoirLab/ Nsf/ Aura
Quando Ngc 4449 interagisce e assorbe le sue compagne galattiche più piccole, le interazioni mareali tra le galassie comprimono e sconvolgono il gas. Le regioni rosse incandescenti sparse in questa immagine mostrano questo processo, indicando un’abbondanza di idrogeno ionizzato – un segno rivelatore della formazione stellare in corso. Dai forni galattici sta emergendo una pletora di giovani e caldi ammassi stellari blu, alimentati dai filamenti scuri di polvere cosmica che attraversano la galassia. Al ritmo attuale, la riserva di gas che alimenta la produzione di stelle di Ngc 4449 durerà solo per un altro miliardo di anni circa.
Questa immagine è stata pubblicata il 25 giugno per celebrare il 25° anniversario del telescopio Gemini North. Il 25 giugno 1999 si tenne una cerimonia di inaugurazione a Maunakea, alle Hawaii, per presentare il nuovo telescopio da 8,1 metri e rivelare le sue prime immagini, che all’epoca erano tra le più nitide all’infrarosso mai ottenute da un telescopio terrestre. Negli ultimi due decenni e mezzo, il grande specchio di Gemini North, la potente suite di strumenti e le sue avanzate ottiche adattive hanno permesso agli astronomi di scrutare sempre più lontano nel cosmo. Dalla cattura della prima immagine diretta di un sistema multiplanetario alla verifica della teoria generale della relatività di Einstein – che ha permesso agli astronomi di ottenere il Premio Nobel 2020 – Gemini North ha contribuito in modo determinante alla comprensione dell’universo da parte dell’umanità. L’immagine di Ngc 4449 è solo un piccolo e bellissimo esempio.
Muschio con prestazioni da far invidia ai tardigradi
Esemplare di Syntrichia caninervis. Crediti: Sheri Hagwood/Usda-Nrcs Plants Database
Quando il cercare vita su Marte cederà il posto al portare vita su Marte, è molto probabile che una fra le prime creature che tenteremo d’esportare sul Pianeta rosso sarà un muschio. Non un muschio qualunque, ma la specie che vedete qui a fianco: si chiama Syntrichia caninervis e quanto a resistenza a condizioni avverse è “il tardigrado dei vegetali”.
Nemmeno il più nero dei pollici riuscirebbe a metterlo in crisi. Abituato qui sulla Terra – dove prolifera in ambienti non proprio ospitali quali il Tibet, l’Antartide e le regioni circumpolari – a tollerare lunghi periodi di siccità estrema, in laboratorio ha dato mostra di saper superare pressoché indenne i più spietati maltrattamenti, mettendo a dura prova il team multidisciplinare di ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze che ha poi riportato questa settimana, su The Innovation (una rivista del gruppo Cell), i risultati delle “torture”.
Hanno provato ad abbatterlo tenendolo in freezer a -80 °C per cinque anni. Quando lo hanno scongelato era più sano di prima. Allora l’hanno calato in una tanica d’azoto liquido, a −196 °C, e l’hanno lasciato lì per un mese. Niente da fare. L’immortale muschio si è sempre ripreso, e con maggiore rapidità se prima d’affrontare il supplizio del freddo era stato disidratato.
A quel punto hanno provato con le radiazioni – in dose da cavallo, anzi da pianta: 500 Gray, quanto basta per uccidere praticamente qualunque vegetale (a mettere fuori gioco noi umani ne bastano 50). E qui l’esito ha avuto il sapore della beffa: Syntrichia caninervis non solo se l’è cavata senza accusare alcun colpo, ma addirittura sembra che ne abbia tratto beneficio, visto che, notano gli autori dello studio, l’esposizione ai raggi letali “ha promosso in modo deciso la rigenerazione di nuovi rami”. Per arrivare a quella che i tossicologi chiamano Ld 50, ovvero la dose necessaria a uccidere la metà della popolazione, di radiazioni ne hanno dovute erogare dieci volte di più: 5000 Gray. «I nostri risultati indicano che S. caninervis è tra gli organismi più tolleranti alle radiazioni che si conoscano», scrivono i ricercatori.
Infografica dei test condotti. Crediti: Xiaoshuang Li et al., The Innovation, 2024
È dunque venuto spontaneo chiedersi come una specie così cocciutamente attaccata alla vita possa cavarsela in un ambiente extraterrestre, in particolare sul Pianeta rosso. In attesa di poterlo imbarcare su qualche sonda spaziale, lo hanno traslocato all’interno della Planetary Atmospheres Simulation Facility dell’Accademia cinese delle scienze, un simulatore di atmosfere planetarie in grado di riprodurre condizioni simili a quelle che l’ostinato muschio incontrerebbe su Marte: aria ultrararefatta e composta al 95 per cento da CO2, temperature che oscillano da -60°C a 20°C e alti livelli di radiazioni ultraviolette. Alcuni campioni sono rimasti lì dentro per un giorno, altri per due, altri per tre e alcuni per un’intera settimana. Com’è andata a finire già l’avrete intuito: entro un mese dal termine del soggiorno simil-marziano il 100 per cento delle piante che avevano affrontato la prova da essiccate si erano già perfettamente riprese. E anche quelle che avevano trascorso un giorno nel simulatore da idratate, seppur con maggior lentezza, sono riuscite a rigenerarsi.
Tutto pronto per il primo presepe vivente su Marte, dunque? In realtà c’è ancora parecchia strada da fare. Anzitutto occorre vedere come S. caninervis se la cava a contatto con i temibili perclorati, che pare siano presenti in quantità nel suolo marziano. Poi non va dimenticato che, mentre qui sulla Terra l’ordalia affrontata dal muschio era comunque a termine, su Marte non ci sarebbe tregua, trattandosi di condizioni immutabili.
I ricercatori sono comunque cautamente ottimisti. «Sebbene ci sia ancora molta strada da fare per creare habitat autosufficienti su altri pianeti», scrivono, «abbiamo dimostrato il grande potenziale di S. caninervis come pianta pioniera per la crescita su Marte. Guardando al futuro, ci aspettiamo che questo promettente muschio possa essere portato su Marte o sulla Luna per testare ulteriormente la possibilità di colonizzazione e crescita delle piante nello spazio esterno».
Per saperne di più:
- Leggi su The Innovation l’articolo “The extremotolerant desert moss Syntrichia caninervis is a promising pioneer plant for colonizing extraterrestrial environments”, di Xiaoshuang Li, Wenwan Bai, Qilin Yang, Benfeng Yin, Zhenlong Zhang, Banchi Zhao, Tingyun Kuang, Yuanming Zhang e Daoyuan Zhang
Una notte con tre asteroidi
La strisciata del Nea 2011 UL21 ripresa la notte del 30 giugno 2024 con il sistema Tandem dell’Inaf-Oas. Crediti: A. Carbognani/Tandem/Inaf.
Lo scorso 30 giugno c’è stata la decima edizione dell’Asteroid Day e – per una pura coincidenza – in cielo erano ben osservabili gli asteroidi near-Earth 2011 UL21 e 2024 MK, rispettivamente di 2,5 chilometri e 150 metri di diametro, di cui vi avevamo parlato. Questi asteroidi erano molto luminosi perché vicini alla Terra: il 27 giugno 2011 UL21 è arrivato a 6,6 milioni di chilometri (mag +11), mentre il 29 giugno 2024 MK era a soli 295mila chilometri (mag +8,5).
Quando gli asteroidi near-Earth passano così vicino a noi si tratta di una buona occasione per caratterizzarli dal punto di vista fisico: se sono troppo distanti – essendo di piccole dimensioni e molto scuri in superficie – diventano difficilmente osservabili anche con grandi telescopi.
Per fortuna, la notte del 30 giugno il cielo era perfettamente sereno e senza Luna e alla Stazione Astronomica di Loiano dell’Inaf di Bologna ne abbiamo approfittato per fare un “test asteroidale” con l’innovativo sistema di telescopi Tandem (Telescope Array eNabling DEbris Monitoring), concepito per il monitoraggio degli space debris in orbita bassa, ma utilizzabile anche sui corpi minori. Si tratta di un array di quattro telescopi da 35 centimetri di diametro ad ampio campo di vista: ogni Tandem è in grado di abbracciare un quadrato di 2° di lato in cielo. I telescopi sono alloggiati sulla montatura equatoriale del telescopio G. D. Cassini da 1,52 metri di diametro di cui condividono l’ascensione retta, ma non la declinazione che è indipendente.
La sessione osservativa è iniziata con largo anticipo con l’apertura della cupola per permettere la climatizzazione dei telescopi e la ripresa dei flat field necessari, insieme ai dark frame, per la calibrazione delle immagini catturate dalle quattro camere Cmos di Tandem.
L’asteroide main belt (20014) Annalisa, indicato dalla freccia, ripreso con Tandem quando era a circa 300 milioni di chilometri dalla Terra. Crediti: A. Carbognani/Tandem/Inaf.
Il primo target è stato 2011 UL21, ancora alto sull’orizzonte ovest. L’asteroide era già in fase di allontanamento, ma ancora brillante di mag +12 e con una velocità angolare moderata di 23 secondi d’arco al minuto. Una posa della durata di 120 secondi è stata sufficiente per metterne in evidenza “la strisciata” dovuta al moto proprio dell’asteroide in cielo. Numerose pose più brevi e con diversi filtri sono state fatte per ottenere l’astrometria e gli indici di colore.
In attesa che 2024 MK fosse abbastanza alto sull’orizzonte est, i Tandem sono stati puntati su un anonimo asteroide che ha fatto parlare molto di sè in questi giorni: (20014) Annalisa. L’asteroide, un main belt di magnitudine +18,3 con un diametro di 4,5 chilometri, è stato immortalato con Tandem quando era a una distanza di circa 300 milioni di chilometri dalla Terra. Va detto che il nome all’asteroide non è stato assegnato dalla Nasa (come è stato riportato su alcune testate), ma è arrivata una proposta di dedica al Working Group Small Bodies Nomenclature della Iau (International Astronomical Union) che l’ha accettata assegnando il nome all’asteroide (20014) 1991 RM29 e pubblicandola ufficialmente nel Bulletin, Vol.4, n.7 del 2024. Il proponente è stato il Delegato alla Cultura del Comune di Rosarno, Antonino Brosio, come si legge dal comunicato apparso oggi sui social.
La strisciata del Nea 2024 MK ripreso all’alba del 1 luglio 2024 con Tandem. Crediti: A. Carbognani/Tandem, Inaf.
Nella seconda parte della notte, quindi all’alba del 1 luglio, anche l’asteroide 2024 MK è arrivato alla portata di Tandem. Essendo molto più piccolo di 2011 UL21 e in rapido allontanamento, questo Nea era già di magnitudine +14,5, ma ancora nel range d’azione del sistema ed è bastata una posa di pochi minuti per catturarne la strisciata. A differenza di 2011 UL21, qui la striscia si mostra progressivamente più debole: la causa è la rapida rotazione dell’asteroide attorno al proprio asse, abbinata alla forma allungata, che ne provoca un cambiamento repentino di luminosità. Per conoscere il valore esatto del periodo bisognerà analizzare con calma le immagini riprese, ma sembra dell’ordine di 15-30 minuti.
Se confermato, questo valore indicherebbe che 2024 MK è un oggetto con una struttura monolitica e non un rubble pile come Dimorphos (che ha dimensioni simili), altrimenti la rapida rotazione ne provocherebbe la disgregazione nei blocchi componenti. D’altra parte si tratta di un asteroide di dimensioni modeste (ma pur sempre con una massa circa 30 volte superiore all’asteroide responsabile della catastrofe di Tunguska) e una struttura monolitica è possibile. La sessione si è chiusa all’approssimarsi dell’alba, con uno spicchio di Luna sull’orizzonte est: grazie Tandem per questa notte ricca di emozioni.
Matisse si aggiorna verso la geologia planetaria
Screenshot dell’interfaccia di Matisse con la superficie di Mercurio. Crediti: Ssdc/Inaf-Oar/UniPv
È stato recentemente pubblicato sulla rivista Astronomy & Computing un nuovo articolo, a primo nome di Veronica Camplone (Ssdc/Inaf-Oar/UniPv), relativo a un importante aggiornamento del webtool scientifico di Asi-Ssdc dedicato all’analisi dei dati di esplorazione planetaria Matisse (Multi-purpose Advanced Tool for Instruments for the Solar System Exploration).
Matisse, nato nel 2013, permette di effettuare la ricerca e la visualizzazione del dato (anche proiettato sulla forma tridimensionale dell’oggetto studiato) utilizzando solo un comune web browser, quindi senza necessità di installare software aggiuntivo. Questo tool è in costante sviluppo grazie anche a nuove collaborazioni che vanno instaurandosi tra Ssdc e diversi gruppi di ricerca, sia italiani che internazionali, e al momento fornisce l’accesso a dati relativi a Mercurio, Venere, Marte, Cerere, Vesta e Didymos, permettendo ai ricercatori di condurre analisi comparative e di approfondire la comprensione dei processi che caratterizzano i diversi mondi esplorati.
L’articolo in questione illustra la recente aggiunta di una funzionalità particolare sul tool, ovvero la possibilità di effettuare ricerche nei dati basandosi non solo sulle classiche informazioni geografiche o temporali, ma anche su informazioni semantiche di più alto livello, contenute nelle carte geologiche. Tale aggiornamento è stato l’argomento principale del dottorato della stessa Camplone.
La ricercatrice Veronica Camplone (Ssdc/Inaf-Oar/UniPv)
In particolare in questo articolo, la possibilità di effettuare ricerche selezionando i dati di Mercurio acquisiti dalla camera Mdis a bordo della sonda Nasa Messenger ha permesso di concentrarsi su crateri con central pit, utilizzando esclusivamente Matisse, senza dover incrociare in maniera complessa dati provenienti da diverse fonti. «Una delle sfide più significative nel portare a termine quest’aggiornamento è stata la necessità di trasformare carte geologiche complesse e diverse in informazioni omogeneizzate secondo standard internazionali per la preservazione dei dati, come il Virtual Observatory», dichiara Camplone. «Questo lavoro mi ha fatto comprendere l’importanza della corretta gestione dei dati e come questa possa essere migliorata attraverso innovazioni tecnologiche, rendendo la ricerca scientifica più agile e incisiva».
Secondo Angelo Zinzi, responsabile Asi per l’accordo Asi-Inaf per Ssdc, e coordinatore del gruppo di esplorazione del Sistema solare dello stesso Ssdc, in futuro l’obiettivo è quello di espandere questa funzionalità anche ad altri corpi del Sistema solare, a partire dalla Luna, obiettivo di estremo interesse in questo periodo anche per le future missioni Artemis, destinate a riportare umani sulla Luna.
Il lavoro comprenderà anche la standardizzazione e l’omogeneizzazione di carte geologiche prodotte da autori diversi, così da rendere ancora più semplice il loro confronto e la ricerca di dati di interesse.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Computing l’articolo “Enhancement of the MATISSE tool for the geological analysis of planetary surfaces: A study on central pit craters on Mercury” di V. Camplone, A. Zinzi, M. Massironi, A.P. Rossi, F. Zucca
Dopo sei mesi, Sherloc è di nuovo operativo
L’11 maggio 2024 lo strumento Mastcam-Z ha scattato queste tre immagini che mostrano il movimento della copertura della fotocamera Aci durante un test per valutare il suo funzionamento. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss
Per la prima volta, dopo un problema riscontrato lo scorso gennaio, lo strumento Sherloc(Scanning Habitable Environments with Raman & Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance della Nasa torna a essere operativo sul suolo marziano.
Il 17 giugno gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) hanno confermato che lo strumento è riuscito a raccogliere dati. «Sei mesi di diagnostica, test, analisi delle immagini e dei dati, risoluzione dei problemi e ripetizione dei test non potevano portare a una conclusione migliore», dichiara Kevin Hand, principal investigator di Sherloc.
Montato sul braccio robotico del rover, Sherloc utilizza due telecamere e uno spettrometro laser per cercare composti organici e minerali nelle rocce che in passato si suppone siano state alterate dagli ambienti acquatici marziani e che potrebbero rivelare segni di un’antica vita microbica. Il 6 gennaio, una copertura mobile progettata per proteggere dalla polvere lo spettrometro e una delle sue telecamere si è bloccata in una posizione che ha impedito a Sherloc di raccogliere dati.
L’analisi condotta dal team ha evidenziato il malfunzionamento di un piccolo motore responsabile dello spostamento della copertura e della regolazione della messa a fuoco dello spettrometro e della fotocamera Autofocus and Context Imager (Aci). Testando le potenziali soluzioni su un duplicato dello strumento Sherloc al Jpl, il team ha iniziato un lungo e meticoloso processo di valutazione per verificare se e come fosse possibile spostare la copertura in posizione aperta.
Le immagini catturate da una telecamera di navigazione a bordo di Perseverance il 23 gennaio mostrano la posizione della copertura dello strumento Sherloc, bloccata diverse settimane prima. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Tra le varie misure adottate, il team ha provato a riscaldare il piccolo motore del copriobiettivo, a comandare il braccio robotico del rover per ruotare lo strumento Sherloc in diversi orientamenti – con il supporto delle immagini della Mastcam-Z –, a far oscillare il meccanismo avanti e indietro per rilasciare qualsiasi detrito potenzialmente in grado di bloccare la copertura e persino a utilizzare il trapano a percussione del rover per cercare di smuoverlo. Finché il 3 marzo le immagini di Perseverance hanno mostrato che il coperchio dell’Aci si era aperto di oltre 180 gradi, liberando il campo visivo dell’imager e consentendo all’Aci di posizionarsi vicino al suo obiettivo.
Questo labirinto – con al centro la silhouette di Sherlock Holmes – è usato come target di calibrazione per le telecamere e il laser dello strumento Sherloc, a bordo del rover Perseverance. L’immagine è stata catturata dall’Autofocus and Context Imager di Sherloc l’11 maggio 2024, il 1.147esimo sol della missione, mentre il team del rover stava ultimando gli ultimi test per confermare di aver risolto il problema con la copertura bloccata di una lente. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Rimaneva solo il problema della messa a fuoco, senza la quale le immagini di Sherloc sarebbero state sfocate e il segnale spettrale sarebbe stato debole. Non potendo modificare manualmente la messa a fuoco delle ottiche dello strumento, per effettuare minime regolazioni della distanza tra Sherloc e il suo obiettivo si sono affidati al braccio robotico del rover al fine di ottenere la migliore risoluzione dell’immagine. Sherloc ha così scattato alcune foto del suo originalissimo calibratore, in modo che il team potesse verificare l’efficacia di questo approccio.
«Il braccio robotico del rover è straordinario. Può essere comandato con piccoli passi di un quarto di millimetro per aiutarci a valutare la nuova posizione di messa a fuoco di Sherloc e può posizionare Sherloc con grande precisione su un obiettivo», riferisce Kyle Uckert del Jpl. «Dopo aver effettuato i test prima sulla Terra e poi su Marte, abbiamo capito che la distanza migliore per il braccio robotico per posizionare Sherloc è di circa 40 millimetri. A questa distanza, i dati raccolti dovrebbero essere ottimi, come sempre».
La conferma del buon posizionamento dell’Aci su un bersaglio roccioso marziano è arrivata il 20 maggio. Il 17 giugno, la verifica del funzionamento dello spettrometro ha chiuso il cerchio, confermando che Sherloc è di nuovo operativo.
Questa immagine del rover Perseverance che raccoglie dati sulle Walhalla Glades è stata scattata il 14 giugno nella regione Bright Angel del cratere Jezero da una delle telecamere frontali del rover. La fotocamera Watson dello strumento Sherloc è la più vicina alla superficie marziana. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Un biglietto per il centro galattico
Immagine della zona della Galassia vicino al suo centro. La Via Lattea è stata artificiosamente aumentata in luminosità per permettere il riconoscimento della sua struttura. In giallo sono indicati i principali oggetti celesti fino alla magnitudine 8. Crediti: Stellarium
Dopo il tramonto del Sole le prime stelle visibili sono Vega, Deneb e Altair ai vertici dell’asterismo del triangolo estivo. Sono le stelle principali rispettivamente delle costellazioni della Lira, del Cigno e dell’Aquila, altrettante costellazioni tipicamente estive. In queste costellazioni ci sono oggetti interessanti: nel Cigno la bellissima stella doppia Albireo, nella Lira l’iconica Nebulosa Anello, entrambi visibili con un telescopio e, sotto l’Aquila, nella costellazione dello Scudo, l’ammasso stellare M11 visibile con un binocolo.
Sicuramente questo mese, oltre a essere ancora un mese perfetto per osservare gli ammassi globulari della nostra galassia, è anche il mese ideale per osservare il centro galattico. Non perdiamo quindi l’occasione di imbarcarci in un ipotetico viaggio verso il buco nero della nostra galassia. Basta un binocolo e un cielo buio, senza Luna, per avere il biglietto gratuito. In questo mese, a notte fonda, la Via Lattea attraversa tutto il cielo. La costellazione del Sagittario ci fa da guida. La sua tipica forma a ‘teiera’ ci indica la direzione in cielo del centro della galassia.
La zona di cielo intorno al centro galattico è uno spettacolo di ammassi globulari, ammassi aperti, nebulose e regioni oscure della galassia. Alcuni, e nemmeno pochi, almeno limitatamente agli oggetti di Messier, sono ben visibili con un binocolo. Se ne avete uno scegliete un posto lontano da luci cittadine, puntate a caso verso il Sagittario e lo Scorpione, verso Sud Sud-Ovest, a notte fonda e osserverete tanti sbuffi di luce fioca che ci proiettano fuori dal Sistema solare verso il centro galattico. Tra i vari oggetti da osservare, due sono particolarmente belli: la Nebulosa Laguna (M8) e, poco più in alto, la Nebulosa Trifida (M20). Entrambe le nebulose sono visibili con un binocolo. Addirittura, M8 è visibile anche a occhio nudo.
Chi è mattiniero, nei primi quattro giorni del mese, potrà osservare la Luna spostarsi sull’eclittica con Saturno, Marte e Giove che le fanno da quinta. Il nostro satellite, con una falce calante molto suggestiva, passerà prospetticamente vicino a Marte sia il primo che il 2 luglio e poi vicino a Giove, il 3 e il 4 del mese. L’ora migliore per osservarli sarà verso le quattro e mezza del mattino prima del sorgere del sole verso Est. Questa configurazione di pianeti ci farà compagnia per tutto il mese, con Marte che pian piano si avvicinerà sempre più a Giove, fino ad incontrarlo nel prossimo mese.
La nebulosa planetaria Ngc 7009, nota anche come Nebulosa Saturno. L’immagine variopinta è stata ottenuta dello strumento Muse montato sul Very Large Telescope dell’Eso. Crediti: Eso/J. Walsh
Il 15 luglio Marte e Urano saranno piuttosto vicini tra loro, a circa mezzo grado di distanza angolare. Marte come sempre visibile a occhio nudo di magnitudine 1 mentre Urano visibile solo con un binocolo di magnitudine di poco inferiore alla 6. A sinistra completerà il quadro l’ammasso aperto delle Pleiadi, sempre bello e facilmente riconoscibile. Gli astri sorgeranno alle 2 del mattino e saranno visibili fino al chiarore del cielo.
Il 23 di luglio Plutone sarà in opposizione. In questo mese è visibile sostanzialmente per tutta la notte nella costellazione del Capricorno. Data la scarsa luminosità di Plutone sarà comunque impossibile accorgersi della sua presenza anche con grossi telescopi amatoriali. È troppo lontano e debole. Ma poco più in alto e a sinistra di Plutone, c’è una nebulosa chiamata Nebulosa Saturno: è una nebulosa planetaria con l’aspetto simile a quello del pianeta con gli anelli osservato al telescopio e scoperta da William Herschel il 7 settembre del 1782 .
Il vero Saturno è il pianeta più visibile in questo mese, sorgendo all’inizio di luglio intorno alla mezzanotte e addirittura verso le 22 a fine mese. Purtroppo in questo periodo i suoi anelli sono quasi di taglio e quindi poco visibili. Giove e Marte saranno visibili al mattino prima del sorgere del sole verso l’orizzonte Est.
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
youtube.com/embed/E-FFp8zxcWU?…
Webb svela i segreti sulla Grande Macchia Rossa
Immagine all’infrarosso del pianeta Giove, scattata dalla NirCam del Jwst. Il pianeta è mostrato in più colori, soprattutto ai poli e sulla Grande Macchia Rossa, visibile come una tempesta circolare in basso a destra del pianeta. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, Jupiter Ers Team, J. Schmidt, H. Melin, M. Zamani (Esa/Webb)
Seppur visibile a occhio nudo nelle notti limpide, Giove presenta un’atmosfera il cui bagliore è così debole da renderne difficile l’osservazione in dettaglio con i telescopi terrestri. Tuttavia, appena sotto l’equatore gioviano, è facile individuare una zona turbolenta e rossastra, chiamata Grande Macchia Rossa, divenuta una caratteristica distintiva del pianeta gigante.
Con un’estensione e profondità tali da poter contenere tre volte la Terra, la più grande tempesta anticiclonica del Sistema solare ha sorpreso gli scienziati che, grazie alla sensibilità nel vicino e medio infrarosso del telescopio spaziale James Webb (Jwst), hanno potuto esaminare nuovi dettagli dell’atmosfera superiore di Giove proprio al di sopra della Grande Macchia Rossa.
Secondo un recente studio pubblicato su Nature Astronomy da un team di ricerca internazionale guidato dall’Università di Leicester, nel Regno Unito, l’occhio rosso di Giove presenterebbe una serie di caratteristiche inedite e un’atmosfera più complessa del previsto. La scoperta è stata possibile grazie alla Integral Field Unit di NirSpec che, nelle prime osservazioni del 2022, si è concentrato appunto sulla Grande Macchia Rossa, rilevando la presenza nell’atmosfera superiore di Giove di una varietà di strutture complesse, archi oscuri e punti luminosi.
Lo strato superiore dell’atmosfera di Giove è l’interfaccia tra il campo magnetico del pianeta e l’atmosfera sottostante ed è composta da una termosfera neutra e da una ionosfera carica. In questa regione, si possono osservare spettacoli luminosi come le vibranti aurore polari alimentate dal materiale vulcanico espulso dalla luna Io di Giove. Più vicino all’equatore, la struttura dell’atmosfera superiore del pianeta è influenzata dalla luce solare in arrivo ma, poiché Giove riceve solo il 4% della luce che arriva sulla Terra, gli astronomi l’hanno finora sempre ritenuta piuttosto tranquilla e omogenea.
Spesso però l’apparenza inganna. Le osservazioni del Jwst nella ionosfera di Giove alle basse latitudini, dove c’è la Grande Macchia Rossa, hanno mostrato inaspettate caratteristiche di intensità su piccola scala come archi, bande e macchie suggerendo che la ionosfera lì sia fortemente accoppiata all’atmosfera inferiore tramite onde di gravità che si sovrappongono producendo questa complessa e intricata morfologia. «Forse ingenuamente, pensavamo che questa regione fosse davvero noiosa», dice Henrik Melin dell’Università di Leicester, primo autore dello studio. «In realtà è interessante quanto l’aurora boreale, se non di più. Giove non smette mai di sorprendere».
L’immagine catturata dal telescopio spaziale è stata ottenuta da sei scatti diversi, ciascuno di circa 300 chilometri quadrati, e ha mostrato la luce infrarossa emessa dalle molecole di idrogeno nella ionosfera di Giove, a oltre 300 chilometri sopra le nubi della Grande Macchia Rossa, dove la luce del Sole ionizza l’idrogeno e stimola l’emissione infrarossa.
Questa immagine mostra la regione osservata dal Near-InfraRed Spectrograph (NIRSpec) di Webb. È stata unita a sei immagini NIRSpec Integral Field Unit riprese nel luglio 2022, ciascuna di circa 300 km quadrati. Si vede la luce infrarossa emessa dalle molecole di idrogeno nella ionosfera di Giove a oltre 300 km sopra le nubi della tempesta. I colori più rossi mostrano l’emissione di idrogeno nelle quote più alte della ionosfera; i colori più blu mostrano la luce infrarossa proveniente da quote più basse, comprese le cime delle nubi e la Grande Macchia Rossa. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, Jupiter Ers Team, J. Schmidt, H. Melin, M. Zamani (Esa/Webb)
Secondo il gruppo di ricerca – che vede coinvolto, tra gli altri, anche Alessandro Mura dell’Inaf di Roma – la luce emessa da questa zona potrebbe essere influenzata non solo dalla luce solare ma anche da onde di gravità, generate nella turbolenta atmosfera inferiore attorno alla Grande Macchia Rossa. Onde atmosferiche che – presenti anche sulla Terra, ma meno intense che su Giove – risalirebbero di quota, modificando la struttura e le emissioni dell’atmosfera superiore.
«Un meccanismo per modificare la struttura è rappresentato dalle onde di gravità, simili alle onde che si infrangono su una spiaggia e che creano increspature nella sabbia», spiega Melin. «Queste onde sono generate in profondità nella turbolenta atmosfera inferiore, intorno alla Grande Macchia Rossa, e possono salire di quota, modificando la struttura e le emissioni dell’atmosfera superiore».
Le osservazioni – parte dei primi dati raccolti dal James Webb nel programma Early Release Science #1373 (Ers) della Nasa – avevano inizialmente l’obiettivo di esplorare le temperature sopra la Grande Macchia Rossa. «La proposta Ers è stata scritta nel 2017», ricorda Imke de Pater, ricercatrice dell’Università della California e coautrice dello studio. «I nuovi dati hanno mostrato risultati molto diversi dalle nostre aspettative iniziali».
L’atmosfera di Giove, dunque, si sta mostrando molto più affascinante del previsto, tanto da spingere il team a progettare ulteriori osservazioni per capire meglio il movimento delle onde nell’atmosfera superiore e il bilancio energetico della regione. Intanto, le informazioni finora ottenute forniranno un supporto prezioso per la missione Jupiter Icy Moons Explorer (Juice) dell’Esa che, lanciata il 14 aprile 2023, effettuerà osservazioni dettagliate del gigante gassoso e delle sue lune Ganimede, Callisto ed Europa, esplorando l’ambiente complesso di Giove con una serie di strumenti avanzati – di telerilevamento, geofisici e in situ – caratterizzandole sia come oggetti planetari che come possibili habitat.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Ionospheric irregularities at Jupiter observed by JWST”, di Henrik Melin, J. O’Donoghue, L. Moore, T. S. Stallard, L. N. Fletcher, M. T. Roman, J. Harkett, O. R. T. King, E. M. Thomas, R. Wang, P. I. Tiranti, K. L. Knowles, I. de Pater, T. Fouchet, P. H. Fry, M. H. Wong, B. J. Holler, R. Hueso, M. K. James, G. S. Orton, A. Mura, A. Sánchez-Lavega, E. Lellouch, K. de Kleer e M. R. Showalter
L’astronomia europea si riunisce a Padova
La città di Padova è pronta ad accogliere il prossimo meeting della European Astronomical Society (Eas), il più grande congresso europeo dedicato all’astrofisica, che si terrà dall’1 al 5 luglio 2024. L’evento vedrà la partecipazione di quasi 1800 esperte ed esperti di astronomia e astrofisica, rendendolo uno degli appuntamenti più importanti dell’anno per la comunità astronomica internazionale. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha un ruolo di primo piano, non solo nell’organizzazione del congresso (dal punto di vista scientifico e logistico), ma anche per la forte presenza di ricercatrici e ricercatori che presenteranno alla comunità le ultime scoperte e i più recenti studi nel campo dell’astrofisica.
L’Inaf, con la sua rete di osservatori e istituti di ricerca sparsi su tutto il territorio italiano, continua a essere un pilastro fondamentale per l’astronomia mondiale, contribuendo significativamente al progresso della conoscenza del cosmo – dalla terra allo spazio, osservando l’universo a tutte le lunghezze d’onda. Lo Scientific Organising Committee del meeting è a guida Inaf, con Bianca Poggianti, direttrice dell’Inaf di Padova, e Giuseppina Micela, dirigente di ricerca presso l’Inaf di Palermo.
Durante i cinque giorni del convegno, i partecipanti – provenienti da più di 60 paesi – avranno l’opportunità di assistere in modalità completamente ibrida (in presenza e online) a conferenze, workshop e presentazioni su una vasta gamma di argomenti, dai buchi neri alla formazione delle galassie, dai pianeti extrasolari alle onde gravitazionali, per non dimenticare l’astrochimica, dedicando ampio spazio anche alla data science e all’applicazione dell’intelligenza artificiale nell’astronomia, alla diversità della comunità di ricerca e alle sfide del public engagement. Sarà poi anche un’occasione per discutere delle attuali e future missioni spaziali (come il James Webb Space Telescope ed Euclid, oppure Athena e Plato), dei grandi osservatori che sono in fase di costruzione in tutto il mondo (Elt e Skao), e delle nuove tecnologie che stanno rivoluzionando il modo in cui esploriamo l’universo.
La European Astronomical Society è stata fondata in Svizzera nel 1990 con lo scopo di promuovere l’astronomia e la ricerca spaziale in Europa, facilitando la collaborazione tra scienziati e sostenendo l’educazione scientifica. Il meeting annuale rappresenta un momento fondamentale per la condivisione delle conoscenze e per la creazione di nuove sinergie tra i ricercatori di tutto il mondo.
Gli organizzatori hanno ricevuto oltre 2350 abstract, il 16 per cento in più rispetto al meeting Eas 2023 di Cracovia. Quest’anno i partecipanti da remoto avranno accesso a tutte le sessioni (plenarie, simposi, sessioni speciali, eccetera), in diretta o registrate, su una piattaforma virtuale, nonché accedendo alla piattaforma degli ePoster e allo spazio dedicato su Slack per Eas 2024. Tra le presentazioni sono previsti anche interventi dei vincitori dei premi Merac ed Eas e report dalle principali strutture di ricerca europee, che forniranno una panoramica completa delle attività e dei progressi in corso nel continente.
Crediti: Alexander Grey/Pexels
Grazie al contributo del gruppo che, all’interno dell’Inaf, ha stilato il Gender Equality Plan, quest’anno il meeting della Eas offre un servizio di assistenza all’infanzia a pagamento per i partecipanti al meeting, per la prima volta all’interno del centro congressi. Questo servizio, pensato per facilitare la partecipazione al congresso dei genitori con bambini piccoli, contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza di genere nelle discipline Stem, in linea con l’obiettivo 5 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile. Il servizio sarà gestito da personale qualificato e garantirà un ambiente sicuro e stimolante per i bambini, permettendo ai genitori di prendere parte alle varie sessioni del convegno. Il costo del servizio sarà mantenuto a una tariffa conveniente, riflettendo l’impegno dell’Eas a rendere il meeting inclusivo e accessibile a tutti i membri della comunità astronomica.
«Padova è una città che vanta una straordinaria tradizione per quanto riguarda la ricerca astronomica, ed è oggi uno dei centri di eccellenza a livello europeo in questa disciplina. Per questa settimana la città diventa anche la capitale mondiale dell’astronomia», dice Sara Lucatello, astrofisica dell’Inaf di Padova, già vicepresidente dell’Eas che, a partire da questa edizione, dirigerà in qualità di presidente (sarà la prima volta che un presidente proviene da un paese mediterraneo). «L’edizione 2024 vedrà la partecipazione di professioniste e professionisti che lavorano in tutti i campi dell’astrofisica e delle scienze spaziali, esperti di politiche scientifiche e divulgazione. Si discuteranno vari temi caldi dell’astrofisica moderna, dagli straordinari risultati ottenuti grazie a Jwst alle grandi potenzialità dei telescopi in costruzione, come Elt e Skao».
Prima presidente donna nella storia dell’Eas, Lucatello ricoprirà la massima carica dell’organizzazione per due anni. «È un particolare onore per me assumere, in occasione dell’Eas 2024, la presidenza della società, che è cresciuta molto negli ultimi anni e che oggi conta più di 5300 membri. Succedere al precedente presidente, Roger Davies, che ha guidato Eas con competenza e dedizione per sette anni, non sarà un compito semplice, ma sono determinata a continuare nei suoi passi durante il mio mandato».
Locandine dei due appuntamenti aperti al pubblico
Eventi a margine del congresso
In occasione dell’apertura del meeting, il 1° luglio alle 14:30 l’Ordine dei giornalisti del Veneto, l’Inaf e l’Ugis (Unione giornalisti italiani scientifici) organizzano un corso di formazione gratuito per giornalisti dal titolo “La comunicazione nell’informazione scientifica: la ricerca in astrofisica e come raccontarla”: il corso offre una panoramica su come comunicare correttamente le informazioni scientifiche, con un focus sull’astrofisica. Le iscrizioni sono aperte fino a sabato 29 giugno sulla piattaforma della formazione giornalisti.
Sempre il primo luglio, nell’ambito del Castello Festival di Padova, l’Inaf partecipa a una tavola rotonda per il pubblico sul tema “Space Jam. Astronauti e astronomi bloccati nel traffico in orbita”, con l’astronauta riservista Esa Anthea Comellini, la presidente Eas Sara Lucatello e il presidente Inaf Roberto Ragazzoni, moderato da Davide Coero Borga, che si terrà alle 21:15 a Piazza Eremitani, Padova. La partecipazione all’evento è gratuita, su prenotazione.
Da non perdere, martedì 2 luglio alle 18, la conferenza pubblica “Nuovi occhi sul cielo: i primi due anni del James Webb Space Telescope”, organizzata dall’Inaf e dal Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova. Adriano Fontana, dirigente di ricerca dell’Inaf di Roma, presidente della Lbt Corporation, e capo della divisione ottico-infrarosso dell’Istituto nazionale di astrofisica, terrà una conferenza divulgativa sui primi due anni del Jwst, il più potente “occhio” mai puntato sul cielo. Anche in questo caso la partecipazione è gratuita, ma su registrazione.
Gravità quantistica in una trappola atomica
In questa fotografia si vedono raggruppamenti di circa diecimila atomi di cesio fluttuare in una camera a vuoto, levitati da fasci laser incrociati che creano un reticolo ottico stabile. In alto sono visibili un peso cilindrico di tungsteno e il suo supporto. Crediti: Cristian Panda, UC Berkeley
Un tempo, per studiare la gravità, era sufficiente lasciar cadere qualche oggetto dall’alto, come nel caso del celebre esperimento, attribuito a Galileo, della caduta dei gravi dalla torre di Pisa. Oggi le domande di fisica fondamentale ancora senza risposta – e sono tante – attorno a questa che rimane la più irriducibile tra le forze, l’unica che ancora resiste a una teoria del tutto, richiedono esperimenti enormemente più complessi. Esperimenti come quello approntato da un team di fisici dell’Università della California, a Berkeley, riportato questa settimana sulle pagine di Nature, per la ricerca di minuscole deviazioni dalla teoria della gravità comunemente accettata. Deviazioni che, se riscontrate, potrebbero offrire indizi, per esempio, per comprendere qualcosa di più sulla natura dell’energia oscura. Sebbene i ricercatori non abbiano riscontrato alcuna deviazione dalla teoria della gravità di Newton, i miglioramenti previsti nella precisione dell’esperimento promettono di portare alla luce prove a supporto – o a smentita – di teorie come quella su un’ipotetica “quinta forza” mediata da particelle cosiddette “camaleonte”, o “simmetroni”, candidate a spiegare, appunto, l’energia oscura.
L’esperimento, realizzato sulla scia di altri analoghi dei quali già abbiamo scritto su Media Inaf, combina un interferometro atomico, che permette di misurare con precisione la gravità, con un reticolo ottico in grado di mantenere piccoli gruppi di atomi – in questo caso, gruppi da circa diecimila atomi di cesio – in posizione, raffreddandoli e intrappolandoli con un sistema di fasci laser, per tempi relativamente molto lunghi, fino a 70 secondi. Consentendo così di arrivare una misura dell’attrazione gravitazionale esercitata sugli atomi da una piccola massa – un cilindro di tungsteno – cinque volte più precisa della migliore a oggi disponibile.
Rappresentazione schematica dell’esperimento realizzato a UC Berkeley. Piccoli raggruppamenti di atomi di cesio (in rosa) sono stati immobilizzati in una camera a vuoto verticale, poi ogni atomo è stato suddiviso in due pacchetti d’onda (in bianco e azzurro) così da ritrovarsi in una sovrapposizione quantistica di due “altezze”, la “metà” più in alto (in bianco) più vicina alla massa di tungsteno (il cilindro lucido) e l’altra “metà” (in azzurro) più in basso. Quando i pacchetti d’onda si ricombinano danno luogo a un’interferenza che consente di misurare la differenza di attrazione gravitazionale fra le due “metà”. Crediti: Cristian Panda/UC Berkeley
Ma come funziona? «In una prima fase, gli atomi di cesio vengono raffreddati con luce laser fino a una temperatura vicina allo zero assoluto e intrappolati in “buche” luminose in prossimità di un piccolo cilindretto di tungsteno», spiega a Media Inaf uno dei coautori dello studio, Guglielmo Maria Tino dell’Università di Firenze. «Successivamente si realizza un interferometro atomico: ogni atomo viene portato per alcuni secondi in uno stato quantistico in cui si trova simultaneamente in due diverse posizioni in cui sono diversi i valori del campo gravitazionale generato dalla massa sorgente. Quando le due parti vengono di nuovo sovrapposte, si osserva un effetto di interferenza quantistica da cui si può misurare l’attrazione gravitazionale esercitata sugli atomi dalla massa di tungsteno».
«Rispetto a esperimenti precedenti basati su interferometria atomica per lo studio di effetti gravitazionali, quali quelli condotti dal mio gruppo a Firenze da ormai circa vent’anni, la particolarità di questo lavoro», continua Tino, «è nella piccola massa sorgente utilizzata, da cui la necessità di ottimizzare la sensibilità dell’interferometro atomico controllando allo stesso tempo possibili effetti sistematici».
Lo scopo principale di questi esperimenti, come dicevamo, è cercare risposta ai grandi problemi irrisolti della fisica fondamentale, dalla natura dell’energia oscura alla ricerca di una formulazione quantistica della gravità. «La maggior parte dei teorici concorda sul fatto che la gravità sia quantistica, ma nessuno ha mai osservato al riguardo una firma sperimentale», ricorda a questo proposito un altro degli autori dello studio, Holger Müller di UC Berkeley. «Se potessimo trattenere i nostri atomi 20 o 30 volte più a lungo di quanto sia mai stato fatto, potremmo avere una probabilità da 400 a 800mila volte maggiore di trovare la prova che la gravità è effettivamente quantistica».
L’interferometro atomico a reticolo può inoltre essere usato, in veste di sensore quantistico, anche per applicazioni più “quotidiane” che richiedano misure di precisione della gravità. «L’interferometria atomica è particolarmente sensibile alla gravità o agli effetti inerziali. È possibile sfruttarla per costruire giroscopi e accelerometri», sottolinea infatti il primo autore dello studio, Cristian Panda, di UC Berkeley. «Questo dà una nuova direzione all’interferometria atomica, dove il rilevamento quantistico della gravità, dell’accelerazione e della rotazione potrebbe essere effettuato con atomi mantenuti grazie ai reticoli ottici in una struttura compatta che resiste alle imperfezioni ambientali o al rumore».
«Tali dispositivi», conclude Tino, «potrebbero venire utilizzati, ad esempio, nella ricerca di cavità sotterranee e risorse minerarie, nel monitoraggio di vulcani attivi e nello studio dei terremoti».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Measuring gravitational attraction with a lattice atom interferometer”, di Cristian D. Panda, Matthew J. Tao, Miguel Ceja, Justin Khoury, Guglielmo M. Tino & Holger Müller
Anche l’ultimo tassello del primario di Elt è pronto
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Anche il 949esimo e ultimo segmento dello specchio primario di Elt è stato fuso ed è pronto per essere modellato. Crediti: Schott
L’Elt (Extremely Large Telescope ) dell’Osservatorio Europeo Australe (Eso), in costruzione nel deserto cileno di Atacama, ha fatto un altro passo avanti verso il completamento. L’azienda tedesca Schott ha terminato con successo l’ultimo dei 949 segmenti commissionati per lo specchio primario del telescopio (M1). Con un diametro di oltre 39 metri, M1 sarà di gran lunga lo specchio più grande mai realizzato per un telescopio.
Troppo grande per essere realizzato con un unico pezzo di vetro, M1 sarà composto da 798 segmenti esagonali, ciascuno spesso circa cinque centimetri e largo 1,5 metri, che lavoreranno insieme per raccogliere decine di milioni di volte più luce dell’occhio umano. Sono stati prodotti altri 133 segmenti per facilitare la manutenzione e il rivestimento dei segmenti una volta che il telescopio sarà operativo. L’Eso ha inoltre procurato 18 segmenti di riserva, portando il numero totale a 949.
I pezzi grezzi di M1, pezzi sagomati di materiale che vengono successivamente lucidati per diventare i segmenti dello specchio, sono realizzati in Zerodur, un materiale vetroceramico a bassa espansione sviluppato da Schott e ottimizzato per le escursioni termiche estreme del sito dell’Elt nel deserto di Atacama. Questa azienda ha anche prodotto i pezzi grezzi di altri tre specchi di Elt – M2, M3 e M4 – presso i propri stabilimenti a Magonza, in Germania.
«Ciò che l’Eso ha ordinato a Schott è molto più che un semplice Zerodur», dice Marc Cayrel, responsabile dell’Elt Optomechanics dell’Eso. «In stretta collaborazione con l’Eso, Schott ha messo a punto ogni singola fase della produzione, personalizzando il prodotto per soddisfare e spesso superare i requisiti molto esigenti dell’Elt. L’eccezionale qualità dei grezzi è stata mantenuta durante tutta la produzione in serie di oltre 230 tonnellate di questo materiale super performante. L’Eso è quindi molto grato alla professionalità dei team qualificati di Schott, il nostro partner di fiducia».
«Tutto il nostro team è entusiasta di concludere quello che è stato il più grande ordine singolo di Zerodur nella storia della nostra azienda», dice Thomas Werner, project lead Elt presso Schott. «Per questo progetto, abbiamo concluso con successo la produzione in serie di centinaia di substrati specchianti Zerodur, quando solitamente operiamo su un unico pezzo. È stato un onore per tutti noi svolgere un ruolo nel plasmare il futuro dell’astronomia».
Una volta fusi, tutti i segmenti seguono un viaggio internazionale in più fasi. Dopo una lenta sequenza di raffreddamento e trattamento termico, la superficie di ciascun pezzo grezzo viene modellata mediante una rettifica ultraprecisa presso Schott. I pezzi grezzi vengono poi trasportati alla società francese Safran Reosc, dove ciascuno di essi viene tagliato a forma esagonale e lucidato con una precisione di 10 nanometri su tutta la superficie ottica, il che significa che le irregolarità superficiali dello specchio saranno inferiori a un millesimo di un capello umano. Nel lavoro svolto sugli assemblaggi dei segmenti M1 sono coinvolti anche: la società olandese Vdl Etg Projects Bv, che produce i supporti dei segmenti; il consorzio franco-tedesco Fames, che ha sviluppato e sta finalizzando la produzione di 4500 sensori di precisione nanometrica che monitorano la posizione relativa di ciascun segmento; l’azienda tedesca Physik Instrumente, che ha progettato e sta producendo i 2500 attuatori in grado di posizionare il segmento con precisione nanometrica; e la società danese Dsv, incaricata del trasporto dei segmenti in Cile.
Una volta lucidato e assemblato, ogni segmento M1 viene spedito attraverso l’oceano per raggiungere la struttura tecnica dell’Elt presso l’Osservatorio Paranal dell’Eso, nel deserto di Atacama: un viaggio di 10.000 chilometri che oltre 70 segmenti M1 hanno già completato. A Paranal, a pochi chilometri dal cantiere dell’Elt, ogni segmento viene rivestito con uno strato d’argento per diventare riflettente, dopodiché verrà conservato con cura finché la struttura principale del telescopio non sarà pronta a riceverli.
Quando entrerà in funzione entro la fine di questo decennio, l’Elt dell’Eso sarà il più grande occhio del mondo rivolto al cielo. Affronterà le più grandi sfide astronomiche del nostro tempo e farà scoperte ancora inimmaginabili.
Fonte: comunicato stampa Eso
Guarda il video di MediaInaf Tv sul contributo italiano a Elt:
Dentro ai Pilastri della Creazione
Un mosaico di viste a luce visibile (Hubble) e infrarossa (Webb) dello stesso fotogramma dei Pilastri della Creazione. La sequenza di visualizzazione sfuma avanti e indietro tra questi due modelli mentre la telecamera passa davanti e tra i pilastri. Queste viste contrastanti illustrano come le osservazioni dei due telescopi si completino a vicenda. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (StScI), Nasa’s Universe of Learning
Resi celebri nel 1995 dal telescopio spaziale Hubble, i Pilastri della Creazione nel cuore della Nebulosa Aquila hanno catturato l’immaginazione di tutto il mondo con la loro bellezza eterea. Ora la Nasa ha pubblicato una nuova visualizzazione 3D di queste imponenti strutture celesti utilizzando i dati dei telescopi spaziali Hubble e James Webb. Si tratta del filmato a più lunghezze d’onda più completo e dettagliato mai realizzato di queste nubi di gas interstellare e polveri.
«Volando accanto e tra i pilastri, gli spettatori sperimentano la loro struttura tridimensionale e vedono come appaiono diversi nella vista a luce visibile di Hubble rispetto a quella a luce infrarossa di Webb», spiega Frank Summers, principal visualization scientist dello Space Telescope Science Institute (StScI) di Baltimora, che ha guidato il team di sviluppo del filmato per Universe of Learning della Nasa. «Il contrasto aiuta a capire perché abbiamo più di un telescopio spaziale per osservare aspetti diversi dello stesso oggetto».
Il video porta i visitatori all’interno delle strutture tridimensionali dei pilastri. Più che su un’interpretazione artistica, il video si basa sui dati osservativi di uno studio condotto da Anna McLeod dell’Università di Durham nel Regno Unito, che è stata anche consulente scientifica per il filmato.
I quattro Pilastri della Creazione, costituiti principalmente da idrogeno e polvere molecolare fredda, vengono erosi dai venti impetuosi e dalla luce ultravioletta delle giovani e calde stelle vicine. Dalla sommità dei pilastri sporgono strutture simili a dita, più grandi del Sistema solare. All’interno di queste dita si possono trovare incastonati embrioni di stelle. Il pilastro più alto si estende per tre anni luce, tre quarti della distanza tra il Sole e la stella più vicina.
Nella visualizzazione sono evidenziate diverse fasi della formazione stellare. Avvicinandosi al pilastro centrale, lo spettatore vede sulla sua sommità una protostella appena nata che brilla di un rosso vivo nella luce infrarossa. Vicino alla cima del pilastro di sinistra è visbile un getto diagonale di materiale espulso da una stella neonata. Sebbene il getto sia una prova della nascita della stella, non è possibile vedere la stella stessa. Infine, è possibile notare una nuova stella anche all’estremità di una delle “dita” sporgenti del pilastro sinistro.
Nella versione di Hubble del modello (a sinistra), i pilastri sono caratterizzati da polvere marrone scuro e opaca e da gas ionizzato giallo brillante su uno sfondo blu-verde. La versione di Webb (a destra) mostra polvere arancione e arancione-marrone semitrasparente, con gas ionizzato azzurro su uno sfondo blu scuro. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (STScI), Nasa’s Universe of Learning
Il filmato aiuta a sperimentare come due dei telescopi spaziali più potenti del mondo lavorino insieme per fornire un ritratto più complesso e completo dei pilastri. Hubble vede gli oggetti che brillano nella luce visibile, a migliaia di gradi. La visione a infrarossi di Webb, sensibile agli oggetti più freddi con temperature di poche centinaia di gradi, penetra attraverso la polvere oscurante per vedere le stelle incastonate nei pilastri.
Prodotta per la Nasa dall’StScI con i partner del Caltech/Ipac e sviluppata dal progetto AstroViz, la visualizzazione 3D fa parte di un video più lungo che permette agli spettatori di esplorare le questioni fondamentali della scienza, di sperimentare come si fa scienza e di scoprire, in autonomia, le bellezze dell’universo.
Un ulteriore regalo che Nasa ci fa insieme a questa visualizzazione è un nuovo modello stampabile in 3D dei Pilastri della Creazione. Il modello base dei quattro pilastri utilizzato nella visualizzazione è stato adattato al formato Stl, in modo che possiate scaricare il file e stamparlo su stampanti 3D, per aggiungere la dimensione tattile all’esplorazione visuale.
Guarda il video della Nasa:
Fosfati idrosolubili nelle rocce di Bennu
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Dettagli osservati al microscopio del campione di materiale proveniente dall’asteroide Bennu, recuperato dalla missione Osiris-Rex. Il pannello in alto a sinistra mostra una particella scura di circa un millimetro appartenente al materiale superficiale di Bennu, che presenta una crosta esterna di fosfato luminoso. Gli altri tre pannelli mostrano viste progressivamente ingrandite di un frammento della particella che si è staccato lungo una frattura luminosa contenente fosfato, ripresa al microscopio elettronico a scansione. Crediti: Nasa
Arrivano i primi risultati delle analisi del campione di rocce dell’asteroide (101955) Bennu, prelevato e riportato a terra lo scorso autunno dalla missione Osiris-Rex (Origins, Spectral Interpretation, Resource Identification, and Security-Regolith Explorer) della Nasa. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca internazionale che comprende ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). I grani analizzati, sia dal punto di vista morfologico che chimico, contengono i costituenti primordiali da cui si è formato il Sistema solare. La polvere dell’asteroide risulta ricca di carbonio e azoto, oltre che di composti organici, tutti componenti essenziali per la vita come la conosciamo. Il campione studiato contiene anche fosfato di magnesio-sodio, una sorpresa per il team di ricerca, poiché questo composto non era stato individuato dagli strumenti di telerilevamento raccolti dalla sonda in prossimità di Bennu. La presenza di magnesio-sodio suggerisce che l’asteroide potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di acqua.
«Grazie all’analisi delle immagini ad alta risoluzione dei campioni abbiamo contato 7154 grani», commentano Maurizio Pajola e Filippo Tusberti, entrambi ricercatori all’Inaf di Padova che hanno partecipato alle analisi, pubblicate ieri su Meteoritics & Planetary Science. «Di questi, il 95 per cento sono più grandi di 0,5 mm, 34 grani sono più grandi di 1 cm, e il più grande è risultato essere di 3,5 cm. Il conteggio completo di tutte le particelle è attualmente ancora in corso dato l’enorme numero riportato a terra. In particolare, l’ottenimento della distribuzione in taglia di tutti i grani è di fondamentale importanza per comprendere se rifletta quella ottenuta da remoto, quando orbitavamo Bennu, o vi sono state alterazioni (disintegrazioni) durante il processo di campionamento e/o rientro in atmosfera terrestre. Inoltre, identificare le taglie più grandi ha aiutato da subito il team a decidere su quali grani lavorare dal principio».
Le indagini chimiche del campione di Bennu hanno svelato informazioni interessanti sulla composizione dell’asteroide. Dominato da minerali argillosi, in particolare serpentino, il campione rispecchia il tipo di roccia che si trova sulle dorsali medio-oceaniche della Terra, dove il materiale del mantello – lo strato immediatamente al di sotto della crosta terrestre – incontra l’acqua. Questa interazione non solo provoca la formazione di argilla, ma dà anche origine a una varietà di minerali come carbonati, ossidi di ferro e solfuri di ferro. Ma la scoperta più inaspettata da queste prime indagini è la presenza di fosfati idrosolubili, che sono i “mattoni” della vita conosciuta oggi sulla Terra.
Fosfati sono stati rinvenuti anche nei grani dell’asteroide Ryugu riportati a Terra dalla missione Hayabusa2 della Jaxa (Japan Aerospace Exploration Agency) nel 2020. Il fosfato di magnesio-sodio rilevato nel campione di Bennu si distingue per la mancanza di inclusioni nel minerale e per le dimensioni dei suoi grani, senza precedenti in qualsiasi campione di meteorite.
Il ritrovamento di fosfati di magnesio-sodio nel campione di Bennu solleva interrogativi sui processi geochimici che hanno concentrato questi elementi e fornisce preziosi indizi sulle condizioni formative di Bennu.
«La presenza e lo stato dei fosfati, insieme ad altri elementi e composti su Bennu, suggeriscono la presenza di acqua nella storia dell’asteroide», spiega Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona a Tucson, primo cautore dell’articolo e responsabile scientifico della missione Osiris-Rex. «Bennu potenzialmente avrebbe potuto far parte di un mondo più umido. Tuttavia, questa ipotesi richiede ulteriori indagini».
Nonostante la sua possibile storia di interazione con l’acqua, Bennu rimane un asteroide chimicamente primitivo, con abbondanze di elementi chimici molto simili a quelle rilevate nel Sole.
«Il campione che abbiamo restituito è il più grande quantitativo di materiale asteroidale inalterato sulla Terra in questo momento», aggiunge Lauretta.
Questa composizione offre uno sguardo sugli albori del Sistema solare, oltre 4,5 miliardi di anni fa. Queste rocce hanno mantenuto il loro stato originale, non essendosi né fuse né risolidificate sin dalla loro formazione e preservando fino a oggi preziose informazioni sulle loro origini. Il team ha inoltre confermato che l’asteroide è ricco di carbonio e azoto. Questi elementi sono cruciali per comprendere gli ambienti in cui hanno avuto origine i costituenti di Bennu e i processi chimici che hanno trasformato elementi semplici in molecole complesse, gettando potenzialmente le basi per la vita sulla Terra.
«Contrariamente a quanto avviene con le meteoriti, le missioni di sample return come Osiris-Rex, ci permettono di studiare materiale prelevato direttamente sulla superficie di oggetti planetari e quindi di contestualizzare con grande precisione i risultati delle analisi che si fanno su questi grani nei laboratori sparsi in tutto il mondo», dice Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Asi. «È proprio questa caratteristica che ha permesso di fare immediatamente il collegamento tra la presenza di fosfati nei grani di Bennu con le proprietà che aveva il nostro sistema planetario all’epoca della sua formazione. Ulteriori analisi e il confronto con quanto trovato nei grani prelevati su Ryugu, asteroide molto simile a Bennu, forniranno preziose indicazioni per capire meglio i processi di evoluzione planetaria».
Nei prossimi mesi, molti laboratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo riceveranno materiale dell’asteroide Bennu. attualmente custodito al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Questo permetterà di moltiplicare le indagini e quindi gli articoli scientifici che ne conseguiranno, permettendo di studiare con un dettaglio sempre maggiore le loro proprietà e ricostruire la storia dell’asteroide e del Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Asteroid (101955) Bennu in the laboratory: Properties of the sample collected by OSIRIS-REx”, di Dante S. Lauretta, Harold C. Connolly Jr, Joseph E. Aebersold, Conel M. O’D. Alexander, Ronald-L. Ballouz, Jessica J. Barnes, Helena C. Bates, Carina A. Bennett, Laurinne Blanche, Erika H. Blumenfeld, Simon J. Clemett, George D. Cody, Daniella N. DellaGiustina, Jason P. Dworkin, Scott A. Eckley, Dionysis I. Foustoukos, Ian A. Franchi, Daniel P. Glavin, Richard C. Greenwood, Pierre Haenecour, Victoria E. Hamilton, Dolores H. Hill, Takahiro Hiroi, Kana Ishimaru, Fred Jourdan, Hannah H. Kaplan, Lindsay P. Keller, Ashley J. King, Piers Koefoed, Melissa K. Kontogiannis, Loan Le, Robert J. Macke, Timothy J. McCoy, Ralph E. Milliken, Jens Najorka, Ann N. Nguyen, Maurizio Pajola, Anjani T. Polit, Kevin Righter, Heather L. Roper, Sara S. Russell, Andrew J. Ryan, Scott A. Sandford, Paul F. Schofield, Cody D. Schultz, Laura B. Seifert, Shogo Tachibana, Kathie L. Thomas-Keprta, Michelle S. Thompson, Valerie Tu, Filippo Tusberti, Kun Wang, Thomas J. Zega, C. W. V. Wolner, the OSIRIS-REx Sample Analysis Team
C’è vita aliena? Ce lo dicono i gas serra
Un’illustrazione di varie tecnofirme planetarie, tra cui i gas atmosferici artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside
Se gli alieni modificassero un pianeta del loro sistema solare per renderlo più caldo, saremmo in grado di capirlo. Questa è la conclusione di un nuovo studio della Uc Riverside pubblicato su Astrophysical Journal, che identifica i gas serra artificiali che rivelerebbero la presenza di un pianeta “terraformato” e suggerisce i tempi necessari al telescopio spaziale James Webb (Jwst) per rilevare diverse concentrazioni di tali gas.
La terraformazione è un ipotetico processo artificiale che serve per rendere abitabile un pianeta intervenendo sulla sua atmosfera – creandola o modificandone la composizione chimica – in modo da renderla simile a quella della Terra e in grado di sostenere un ecosistema. Attualmente gli studi sulla terraformazione sono del tutto speculativi. Tuttavia, i gas descritti nello studio sarebbero rilevabili anche a concentrazioni relativamente basse nelle atmosfere di pianeti al di fuori del Sistema solare utilizzando la tecnologia esistente. Tra queste potrebbe esserci il Jwst o esperimenti futuri come Life, il Large Interferometer For Exoplanets del Politecnico federale di Zurigo (Eth).
Sebbene sulla Terra questi gas inquinanti debbano essere controllati per evitare effetti climatici dannosi, ci sono ragioni per cui potrebbero essere usati intenzionalmente su un esopianeta. «Per noi, questi gas sono negativi perché non vogliamo aumentare il riscaldamento globale. Ma sarebbero ottimi per una civiltà che volesse prevenire un’imminente era glaciale o terraformare un pianeta altrimenti inabitabile nel proprio sistema, come gli esseri umani hanno proposto per Marte», riferisce Edward Schwieterman, astrobiologo della Uc Riverside e primo autore dello studio.
Poiché in natura questi gas non sono presenti in quantità significative, devono essere fabbricati. Trovarli, quindi, sarebbe un segno della presenza di forme di vita intelligenti e tecnologiche, le cosiddette tecnofirme. I cinque gas proposti dai ricercatori – CF4 (tetrafluorometano), C2F6 (esafluoroetano), C3F8 (ottafluoropropano), SF6 (esafluoruro di zolfo) e NF3 (trifluoruro di azoto) – sono utilizzati sulla Terra in applicazioni industriali come la produzione di chip per computer. Comprendono versioni fluorurate di metano, etano e propano, oltre a gas composti da azoto e fluoro o zolfo e fluoro. In particolare, gli autori hanno analizzato le potenzialità di questi gas di generare firme atmosferiche rilevabili.
A differenza dei sottoprodotti passivi accidentali dei processi industriali, i gas serra artificiali rappresenterebbero uno sforzo intenzionale per modificare il clima di un pianeta con gas a lunga vita e bassa tossicità, e avrebbero un basso potenziale di falsi positivi. Come sottolineato da Schwieterman, una civiltà extraterrestre potrebbe essere motivata a intraprendere un tale sforzo per arrestare il raffreddamento del proprio mondo o per terraformare un pianeta terrestre altrimenti inabitabile all’interno del proprio sistema.
Un vantaggio è che sono gas serra incredibilmente efficaci. L’esafluoruro di zolfo, ad esempio, ha un potere riscaldante 23.500 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Una quantità relativamente piccola potrebbe riscaldare un pianeta gelido fino al punto in cui l’acqua liquida potrebbe persistere sulla sua superficie.
Un altro vantaggio dei gas proposti – almeno dal punto di vista alieno – è che sono eccezionalmente longevi e persisterebbero in un’atmosfera simile a quella terrestre fino a 50mila anni. «Non avrebbero bisogno di essere riforniti troppo spesso per mantenere un clima ospitale», spiega Schwieterman.
Spettri qualitativi di trasmissione ed emissione nel medio infrarosso di un ipotetico pianeta simile alla Terra il cui clima è stato modificato con gas serra artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside
Qualcuno ha proposto sostanze chimiche refrigeranti come i Clorofluorocarburi (Cfc) come traccianti di tecnofirme perché sono quasi esclusivamente artificiali e visibili nell’atmosfera terrestre. Tuttavia, i Cfc potrebbero non essere vantaggiosi perché distruggono lo strato di ozono, a differenza dei gas completamente fluorurati discussi nello studio, che sono chimicamente inerti. «Se un’altra civiltà avesse un’atmosfera ricca di ossigeno, avrebbe anche uno strato di ozono che vorrebbe proteggere», dice Schwieterman. «I Cfc verrebbero smembrati nello strato di ozono anche se ne catalizzano la distruzione». Essendo più facilmente scomponibili, i Cfc hanno anche una vita breve, che li rende più difficili da rilevare.
Infine i gas fluorurati devono assorbire la radiazione infrarossa per avere un impatto sul clima. L’assorbimento produce una corrispondente firma infrarossa che potrebbe essere rilevata con telescopi spaziali. Con la tecnologia attuale o futura, gli scienziati potrebbero rilevare queste sostanze chimiche in alcuni sistemi esoplanetari vicini. «Con un’atmosfera come quella terrestre, solo una molecola su un milione potrebbe essere uno di questi gas e sarebbe potenzialmente rilevabile», aggiunge Schwieterman. «Quella concentrazione di gas sarebbe inoltre sufficiente a modificare il clima».
Per arrivare alle loro conclusioni, i ricercatori hanno simulato un pianeta nel sistema Trappist-1, a circa 40 anni luce dalla Terra. Hanno scelto questo sistema, che contiene sette pianeti rocciosi conosciuti, perché è uno dei sistemi planetari più studiati, oltre al nostro. È anche un obiettivo realistico da esaminare per i telescopi spaziali esistenti.
Come già detto, poiché i gas serra artificiali assorbono fortemente nella finestra termica del medio infrarosso delle atmosfere temperate, un pianeta terraformato possiederà forti caratteristiche di assorbimento di questi gas alle lunghezze d’onda del medio infrarosso (∼8-12 μm), eventualmente accompagnate da caratteristiche nel vicino infrarosso. Gli autori hanno calcolato il tempo di osservazione necessario per rilevare 1[10](100) ppm di C2F6/C3F8/SF6 su Trappist-1 f con lo spettrometro a bassa risoluzione (Lrs) di Miri e con NirSpec, a bordo di Jwst. Hanno scoperto che una combinazione di 1[10](100) ppm di C2F6, C3F8 e SF6 può essere rilevata con un rapporto segnale/rumore maggiore di 5 in soli 25[10](5) transiti con Miri/Lrs.
Il gruppo ha anche considerato la capacità della missione europea Life di rilevare i gas fluorurati. La missione Life sarebbe in grado di fotografare direttamente i pianeti utilizzando la luce infrarossa, consentendo di individuare un numero maggiore di esopianeti rispetto al telescopio Webb, che osserva i pianeti mentre passano davanti alle loro stelle.
Pur non potendo quantificare la probabilità di trovare questi gas nel prossimo futuro, i ricercatori sono fiduciosi che – se presenti – è del tutto possibile rilevarli durante le missioni attualmente pianificate per caratterizzare le atmosfere planetarie. «Non ci sarebbe bisogno di uno sforzo supplementare per cercare queste tecnofirme, se il telescopio sta già caratterizzando il pianeta per altri motivi», conclude Schwieterman. «E sarebbe sorprendente trovarle».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal l’articolo “Artificial Greenhouse Gases as Exoplanet Technosignatures” di Edward W. Schwieterman, Thomas J. Fauchez, Jacob Haqq-Misra, Ravi K. Kopparapu, Daniel Angerhausen, Daria Pidhorodetska, Michaela Leung, Evan L. Sneed, and Elsa Ducrot
Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione
L’immagine in alto (crediti: A. Mura/Jiram Team) mostra l’emissione nell’infrarosso di Chors Patera, sulla luna Io di Giove. È stata creata combinando i dati raccolti dallo strumento Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper) durante un sorvolo della luna il 15 ottobre 2023. Gli scienziati della missione Juno ritengono che la maggior parte del lago di lava, largo circa 70 chilometri, sia coperta da una spessa crosta di materiale fuso (la parte centrale che appare rosso/verde nel grafico) con una temperatura superficiale di circa -40 °C. L’anello bianco che lo circonda è dove la lava proveniente dall’interno di Io è direttamente esposta allo spazio, ossia la parte più calda di questa caratteristica vulcanica, intorno ai 500 °C. L’area in verde è esterna al lago di lava ed è molto fredda (circa -150 °C). L’anello di lava sui bordi del lago è una caratteristica simile a quella visibile in alcuni laghi Hawaiani, come quello mostrato in basso, il lago di lava Puʻu ʻŌʻō, qui ripreso nei primi anni ’90 (crediti: Nps/Usgs)
Nuovi risultati in arrivo dal satellite gioviano Io forniscono un quadro più completo su quanto i laghi di lava siano diffusi su tutta la e rivelano per la prima volta i meccanismi dei processi vulcanici in atto. Questi risultati sono stati ottenuti grazie allo strumento italiano Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper, finanziato dall’Asi, l’Agenzia spaziale italiana) a bordo della sonda Nasa Juno, che osserva nella luce infrarossa, non visibile all’occhio umano. I ricercatori hanno pubblicato un articolo su queste recenti scoperte la settimana scorsa su Nature Communications Earth and Environment.
Io ha affascinato la comunità astronomica sin dal 1610, quando Galileo Galilei scoprì la luna gioviana. 369 anni dopo, la sonda Voyager della Nasa catturò un’eruzione vulcanica sulla luna. Le successive missioni Galileo e Juno hanno compiuto diverse osservazioni di Io e grazie a queste molti più dettagli sul suo vulcanismo sono stati scoperti. Gli scienziati pensano che Io, che è stirata e compressa come una fisarmonica dalla gravità delle lune vicine e dal massiccio Giove, sia il mondo più vulcanicamente attivo del Sistema solare. Ma mentre ci sono molte teorie sul tipo di eruzioni vulcaniche che popolano la sua superficie, esistevano pochi dati a supporto.
A maggio e ottobre 2023, Juno ha effettuato sorvoli di Io con una distanza di avvicinamento di circa, rispettivamente, 35mila chilometri e 13mila chilometri,. All’epoca, i due sorvoli erano i più vicini che una sonda avesse raggiunto la luna gioviana in oltre due decenni. Tra gli strumenti di Juno che stavano osservando da vicino la luna, affascinante e leggermente più grande di quella della Terra, c’era lo strumento italiano Jiram.
Jiram è stato progettato per catturare la luce infrarossa proveniente dall’interno profondo di Giove, sondando lo strato meteorologico fino a 50-70 chilometri sotto la sommità delle nuvole di Giove. Ma durante la missione estesa di Juno, lo strumento è stato anche impiegato per studiare le lune Io, Europa, Ganimede e Callisto. Le immagini di Io prese da Jiram hanno mostrato la presenza di anelli luminosi nell’infrarosso in corrispondenza numerosi hot spot (letteralmente, punti caldi, ossia caldere, vulcani o colate laviche).
«L’elevata risoluzione spaziale delle immagini a infrarossi di Jiram, combinata con la posizione favorevole di Juno durante i sorvoli, ha rivelato che l’intera superficie di Io è coperta da laghi di lava contenuti in strutture simili a caldere –grandi depressioni formate quando un vulcano erutta e collassa», spiega Alessandro Mura, co-investigator di Juno dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma. «Stimiamo che nella regione della superficie di Io in cui abbiamo i dati più completi circa il 3 per cento sia coperto da uno di questi laghi di lava».
Dentro la bocca dei laghi di fuoco
I dati del sorvolo di Io di Jiram non solo evidenziano le abbondanti riserve di lava di Io, ma forniscono anche un’idea di ciò che potrebbe accadere sotto la superficie. Le immagini a infrarossi di diversi laghi di lava su Io hanno mostrato un cerchio di lava estremamente sottile al confine, tra la crosta centrale (che copre la maggior parte del lago di lava) e le pareti del lago. La mancanza di flussi di lava oltre il bordo del lago, fanno supporre un sostanziale riciclo del magma, indicando che c’è un equilibrio tra quello che è eruttata nei laghi di lava e quello che è reiniettato nel sistema sotterraneo.
In questo grafico, il meccanismo proposto per la formazione dell’anello di lava: la risalita e ridiscesa del magma provoca la rottura della crosta sui bordi del lago. Crediti: A. Mura
«Adesso abbiamo l’idea di quale sia il tipo di vulcanismo più frequente su Io: enormi laghi di lava dove il magma sale e scende», dice Mura. «La crosta di lava è costretta a rompersi contro le pareti del lago, formando l’anello di lava tipico visto nei laghi di lava hawaiiani. Le pareti sono probabilmente alte centinaia di metri, il che spiega perché generalmente il magma non viene osservato fuoriuscire dalle paterae (termine usato per indicare le caldere su Io, ossia strutture a forma di scodella create dal vulcanismo) e muoversi sulla superficie della luna».
I dati di Jiram suggeriscono che la maggior parte della superficie di questi laghi di lava su Io sia composta da una crosta rocciosa che si muove su e giù ciclicamente, come una superficie unica, a causa della risalita e ridiscesa centrale del magma. La crosta che tocca le pareti del lago non può scivolare a causa dell’attrito con le pareti del lago, quindi si deforma e alla fine si rompe – permettendo alla lava appena sotto la superficie incrostata di risultare visibile da Jiram.
Un’ipotesi alternativa rimane valida: la risalita del magma al centro del lago. In questo scenario, la crosta isolante (anche se sottile) si diffonde radialmente attraverso processi di convezione nel lago e poi sprofonda ai bordi, esponendo la lava.
«Stiamo appena iniziando a esaminare i risultati di Jiram dai sorvoli ravvicinati di Io a dicembre 2023 e febbraio 2024», dice Scott Bolton, principal investigator di Juno, del Southwest Research Institute di San Antonio. «Le osservazioni mostrano nuove affascinanti informazioni sui processi vulcanici di Io. Combinando questi nuovi risultati con la campagna a lungo termine di Juno per monitorare e mappare i vulcani nei poli nord e sud di Io, mai osservati prima, Jiram si sta rivelando uno degli strumenti più preziosi per comprendere come funziona questo mondo tormentato».
Juno ha eseguito il suo 62° sorvolo di Giove – che includeva un sorvolo di Io a un’altitudine di circa 29.250 km il 13 giugno. Il suo 63° sorvolo del gigante gassoso è previsto per il 16 luglio.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications Earth and Environment l’articolo “Hot rings on Io observed by Juno/JIRAM”, Alessandro Mura, Federico Tosi, Francesca Zambon, Rosaly M. C. Lopes, Peter J. Mouginis-Mark, Heidi Becker, Gianrico Filacchione, Alessandra Migliorini, Candice. J. Hansen, Alberto Adriani, Francesca Altieri, Scott Bolton, Andrea Cicchetti, Elisa Di Mico, Davide Grassi, Raffaella Noschese, Alessandro Moirano, Madeline Pettine, Giuseppe Piccioni, Christina Plainaki, Julie Rathbun, Roberto Sordini e Giuseppe Sindoni