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Anche l’ultimo tassello del primario di Elt è pronto


L’Extremely Large Telescope dell’Eso, in costruzione nel deserto cileno di Atacama, ha superato una tappa importante verso il completamento: l’azienda tedesca Schott ha terminato con successo la realizzazione dell’ultimo dei 949 segmenti in Zerodur commis

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Anche il 949esimo e ultimo segmento dello specchio primario di Elt è stato fuso ed è pronto per essere modellato. Crediti: Schott

L’Elt (Extremely Large Telescope ) dell’Osservatorio Europeo Australe (Eso), in costruzione nel deserto cileno di Atacama, ha fatto un altro passo avanti verso il completamento. L’azienda tedesca Schott ha terminato con successo l’ultimo dei 949 segmenti commissionati per lo specchio primario del telescopio (M1). Con un diametro di oltre 39 metri, M1 sarà di gran lunga lo specchio più grande mai realizzato per un telescopio.

Troppo grande per essere realizzato con un unico pezzo di vetro, M1 sarà composto da 798 segmenti esagonali, ciascuno spesso circa cinque centimetri e largo 1,5 metri, che lavoreranno insieme per raccogliere decine di milioni di volte più luce dell’occhio umano. Sono stati prodotti altri 133 segmenti per facilitare la manutenzione e il rivestimento dei segmenti una volta che il telescopio sarà operativo. L’Eso ha inoltre procurato 18 segmenti di riserva, portando il numero totale a 949.

I pezzi grezzi di M1, pezzi sagomati di materiale che vengono successivamente lucidati per diventare i segmenti dello specchio, sono realizzati in Zerodur, un materiale vetroceramico a bassa espansione sviluppato da Schott e ottimizzato per le escursioni termiche estreme del sito dell’Elt nel deserto di Atacama. Questa azienda ha anche prodotto i pezzi grezzi di altri tre specchi di Elt – M2, M3 e M4 – presso i propri stabilimenti a Magonza, in Germania.

«Ciò che l’Eso ha ordinato a Schott è molto più che un semplice Zerodur», dice Marc Cayrel, responsabile dell’Elt Optomechanics dell’Eso. «In stretta collaborazione con l’Eso, Schott ha messo a punto ogni singola fase della produzione, personalizzando il prodotto per soddisfare e spesso superare i requisiti molto esigenti dell’Elt. L’eccezionale qualità dei grezzi è stata mantenuta durante tutta la produzione in serie di oltre 230 tonnellate di questo materiale super performante. L’Eso è quindi molto grato alla professionalità dei team qualificati di Schott, il nostro partner di fiducia».

«Tutto il nostro team è entusiasta di concludere quello che è stato il più grande ordine singolo di Zerodur nella storia della nostra azienda», dice Thomas Werner, project lead Elt presso Schott. «Per questo progetto, abbiamo concluso con successo la produzione in serie di centinaia di substrati specchianti Zerodur, quando solitamente operiamo su un unico pezzo. È stato un onore per tutti noi svolgere un ruolo nel plasmare il futuro dell’astronomia».

Una volta fusi, tutti i segmenti seguono un viaggio internazionale in più fasi. Dopo una lenta sequenza di raffreddamento e trattamento termico, la superficie di ciascun pezzo grezzo viene modellata mediante una rettifica ultraprecisa presso Schott. I pezzi grezzi vengono poi trasportati alla società francese Safran Reosc, dove ciascuno di essi viene tagliato a forma esagonale e lucidato con una precisione di 10 nanometri su tutta la superficie ottica, il che significa che le irregolarità superficiali dello specchio saranno inferiori a un millesimo di un capello umano. Nel lavoro svolto sugli assemblaggi dei segmenti M1 sono coinvolti anche: la società olandese Vdl Etg Projects Bv, che produce i supporti dei segmenti; il consorzio franco-tedesco Fames, che ha sviluppato e sta finalizzando la produzione di 4500 sensori di precisione nanometrica che monitorano la posizione relativa di ciascun segmento; l’azienda tedesca Physik Instrumente, che ha progettato e sta producendo i 2500 attuatori in grado di posizionare il segmento con precisione nanometrica; e la società danese Dsv, incaricata del trasporto dei segmenti in Cile.

Una volta lucidato e assemblato, ogni segmento M1 viene spedito attraverso l’oceano per raggiungere la struttura tecnica dell’Elt presso l’Osservatorio Paranal dell’Eso, nel deserto di Atacama: un viaggio di 10.000 chilometri che oltre 70 segmenti M1 hanno già completato. A Paranal, a pochi chilometri dal cantiere dell’Elt, ogni segmento viene rivestito con uno strato d’argento per diventare riflettente, dopodiché verrà conservato con cura finché la struttura principale del telescopio non sarà pronta a riceverli.

Quando entrerà in funzione entro la fine di questo decennio, l’Elt dell’Eso sarà il più grande occhio del mondo rivolto al cielo. Affronterà le più grandi sfide astronomiche del nostro tempo e farà scoperte ancora inimmaginabili.

Fonte: comunicato stampa Eso

Guarda il video di MediaInaf Tv sul contributo italiano a Elt:

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Dentro ai Pilastri della Creazione


La Nasa ha pubblicato una nuova visualizzazione 3D dei Pilastri della Creazione, imponenti strutture celesti nel cuore della Nebulosa Aquila, realizzata utilizzando i dati dei telescopi Hst e Jwst. Si tratta del filmato a più lunghezze d'onda più completo

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Un mosaico di viste a luce visibile (Hubble) e infrarossa (Webb) dello stesso fotogramma dei Pilastri della Creazione. La sequenza di visualizzazione sfuma avanti e indietro tra questi due modelli mentre la telecamera passa davanti e tra i pilastri. Queste viste contrastanti illustrano come le osservazioni dei due telescopi si completino a vicenda. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (StScI), Nasa’s Universe of Learning

Resi celebri nel 1995 dal telescopio spaziale Hubble, i Pilastri della Creazione nel cuore della Nebulosa Aquila hanno catturato l’immaginazione di tutto il mondo con la loro bellezza eterea. Ora la Nasa ha pubblicato una nuova visualizzazione 3D di queste imponenti strutture celesti utilizzando i dati dei telescopi spaziali Hubble e James Webb. Si tratta del filmato a più lunghezze d’onda più completo e dettagliato mai realizzato di queste nubi di gas interstellare e polveri.

«Volando accanto e tra i pilastri, gli spettatori sperimentano la loro struttura tridimensionale e vedono come appaiono diversi nella vista a luce visibile di Hubble rispetto a quella a luce infrarossa di Webb», spiega Frank Summers, principal visualization scientist dello Space Telescope Science Institute (StScI) di Baltimora, che ha guidato il team di sviluppo del filmato per Universe of Learning della Nasa. «Il contrasto aiuta a capire perché abbiamo più di un telescopio spaziale per osservare aspetti diversi dello stesso oggetto».

Il video porta i visitatori all’interno delle strutture tridimensionali dei pilastri. Più che su un’interpretazione artistica, il video si basa sui dati osservativi di uno studio condotto da Anna McLeod dell’Università di Durham nel Regno Unito, che è stata anche consulente scientifica per il filmato.

I quattro Pilastri della Creazione, costituiti principalmente da idrogeno e polvere molecolare fredda, vengono erosi dai venti impetuosi e dalla luce ultravioletta delle giovani e calde stelle vicine. Dalla sommità dei pilastri sporgono strutture simili a dita, più grandi del Sistema solare. All’interno di queste dita si possono trovare incastonati embrioni di stelle. Il pilastro più alto si estende per tre anni luce, tre quarti della distanza tra il Sole e la stella più vicina.

Nella visualizzazione sono evidenziate diverse fasi della formazione stellare. Avvicinandosi al pilastro centrale, lo spettatore vede sulla sua sommità una protostella appena nata che brilla di un rosso vivo nella luce infrarossa. Vicino alla cima del pilastro di sinistra è visbile un getto diagonale di materiale espulso da una stella neonata. Sebbene il getto sia una prova della nascita della stella, non è possibile vedere la stella stessa. Infine, è possibile notare una nuova stella anche all’estremità di una delle “dita” sporgenti del pilastro sinistro.

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Nella versione di Hubble del modello (a sinistra), i pilastri sono caratterizzati da polvere marrone scuro e opaca e da gas ionizzato giallo brillante su uno sfondo blu-verde. La versione di Webb (a destra) mostra polvere arancione e arancione-marrone semitrasparente, con gas ionizzato azzurro su uno sfondo blu scuro. Crediti: Greg Bacon, Ralf Crawford, Joseph DePasquale, Leah Hustak, Christian Nieves, Joseph Olmsted, Alyssa Pagan e Frank Summers (STScI), Nasa’s Universe of Learning

Il filmato aiuta a sperimentare come due dei telescopi spaziali più potenti del mondo lavorino insieme per fornire un ritratto più complesso e completo dei pilastri. Hubble vede gli oggetti che brillano nella luce visibile, a migliaia di gradi. La visione a infrarossi di Webb, sensibile agli oggetti più freddi con temperature di poche centinaia di gradi, penetra attraverso la polvere oscurante per vedere le stelle incastonate nei pilastri.

Prodotta per la Nasa dall’StScI con i partner del Caltech/Ipac e sviluppata dal progetto AstroViz, la visualizzazione 3D fa parte di un video più lungo che permette agli spettatori di esplorare le questioni fondamentali della scienza, di sperimentare come si fa scienza e di scoprire, in autonomia, le bellezze dell’universo.

Un ulteriore regalo che Nasa ci fa insieme a questa visualizzazione è un nuovo modello stampabile in 3D dei Pilastri della Creazione. Il modello base dei quattro pilastri utilizzato nella visualizzazione è stato adattato al formato Stl, in modo che possiate scaricare il file e stamparlo su stampanti 3D, per aggiungere la dimensione tattile all’esplorazione visuale.

Guarda il video della Nasa:

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Fosfati idrosolubili nelle rocce di Bennu


I primi risultati delle analisi del campione di rocce dell’asteroide Bennu, prelevato e riportato a terra lo scorso autunno dalla missione Osiris-Rex della Nasa, rivelano la presenza di molta acqua nella storia dell’asteroide, agli albori del Sistema sola

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Dettagli osservati al microscopio del campione di materiale proveniente dall’asteroide Bennu, recuperato dalla missione Osiris-Rex. Il pannello in alto a sinistra mostra una particella scura di circa un millimetro appartenente al materiale superficiale di Bennu, che presenta una crosta esterna di fosfato luminoso. Gli altri tre pannelli mostrano viste progressivamente ingrandite di un frammento della particella che si è staccato lungo una frattura luminosa contenente fosfato, ripresa al microscopio elettronico a scansione. Crediti: Nasa

Arrivano i primi risultati delle analisi del campione di rocce dell’asteroide (101955) Bennu, prelevato e riportato a terra lo scorso autunno dalla missione Osiris-Rex (Origins, Spectral Interpretation, Resource Identification, and Security-Regolith Explorer) della Nasa. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca internazionale che comprende ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). I grani analizzati, sia dal punto di vista morfologico che chimico, contengono i costituenti primordiali da cui si è formato il Sistema solare. La polvere dell’asteroide risulta ricca di carbonio e azoto, oltre che di composti organici, tutti componenti essenziali per la vita come la conosciamo. Il campione studiato contiene anche fosfato di magnesio-sodio, una sorpresa per il team di ricerca, poiché questo composto non era stato individuato dagli strumenti di telerilevamento raccolti dalla sonda in prossimità di Bennu. La presenza di magnesio-sodio suggerisce che l’asteroide potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di acqua.

«Grazie all’analisi delle immagini ad alta risoluzione dei campioni abbiamo contato 7154 grani», commentano Maurizio Pajola e Filippo Tusberti, entrambi ricercatori all’Inaf di Padova che hanno partecipato alle analisi, pubblicate ieri su Meteoritics & Planetary Science. «Di questi, il 95 per cento sono più grandi di 0,5 mm, 34 grani sono più grandi di 1 cm, e il più grande è risultato essere di 3,5 cm. Il conteggio completo di tutte le particelle è attualmente ancora in corso dato l’enorme numero riportato a terra. In particolare, l’ottenimento della distribuzione in taglia di tutti i grani è di fondamentale importanza per comprendere se rifletta quella ottenuta da remoto, quando orbitavamo Bennu, o vi sono state alterazioni (disintegrazioni) durante il processo di campionamento e/o rientro in atmosfera terrestre. Inoltre, identificare le taglie più grandi ha aiutato da subito il team a decidere su quali grani lavorare dal principio».

Le indagini chimiche del campione di Bennu hanno svelato informazioni interessanti sulla composizione dell’asteroide. Dominato da minerali argillosi, in particolare serpentino, il campione rispecchia il tipo di roccia che si trova sulle dorsali medio-oceaniche della Terra, dove il materiale del mantello – lo strato immediatamente al di sotto della crosta terrestre – incontra l’acqua. Questa interazione non solo provoca la formazione di argilla, ma dà anche origine a una varietà di minerali come carbonati, ossidi di ferro e solfuri di ferro. Ma la scoperta più inaspettata da queste prime indagini è la presenza di fosfati idrosolubili, che sono i “mattoni” della vita conosciuta oggi sulla Terra.

Fosfati sono stati rinvenuti anche nei grani dell’asteroide Ryugu riportati a Terra dalla missione Hayabusa2 della Jaxa (Japan Aerospace Exploration Agency) nel 2020. Il fosfato di magnesio-sodio rilevato nel campione di Bennu si distingue per la mancanza di inclusioni nel minerale e per le dimensioni dei suoi grani, senza precedenti in qualsiasi campione di meteorite.

Il ritrovamento di fosfati di magnesio-sodio nel campione di Bennu solleva interrogativi sui processi geochimici che hanno concentrato questi elementi e fornisce preziosi indizi sulle condizioni formative di Bennu.

«La presenza e lo stato dei fosfati, insieme ad altri elementi e composti su Bennu, suggeriscono la presenza di acqua nella storia dell’asteroide», spiega Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona a Tucson, primo cautore dell’articolo e responsabile scientifico della missione Osiris-Rex. «Bennu potenzialmente avrebbe potuto far parte di un mondo più umido. Tuttavia, questa ipotesi richiede ulteriori indagini».

Nonostante la sua possibile storia di interazione con l’acqua, Bennu rimane un asteroide chimicamente primitivo, con abbondanze di elementi chimici molto simili a quelle rilevate nel Sole.

«Il campione che abbiamo restituito è il più grande quantitativo di materiale asteroidale inalterato sulla Terra in questo momento», aggiunge Lauretta.

Questa composizione offre uno sguardo sugli albori del Sistema solare, oltre 4,5 miliardi di anni fa. Queste rocce hanno mantenuto il loro stato originale, non essendosi né fuse né risolidificate sin dalla loro formazione e preservando fino a oggi preziose informazioni sulle loro origini. Il team ha inoltre confermato che l’asteroide è ricco di carbonio e azoto. Questi elementi sono cruciali per comprendere gli ambienti in cui hanno avuto origine i costituenti di Bennu e i processi chimici che hanno trasformato elementi semplici in molecole complesse, gettando potenzialmente le basi per la vita sulla Terra.

«Contrariamente a quanto avviene con le meteoriti, le missioni di sample return come Osiris-Rex, ci permettono di studiare materiale prelevato direttamente sulla superficie di oggetti planetari e quindi di contestualizzare con grande precisione i risultati delle analisi che si fanno su questi grani nei laboratori sparsi in tutto il mondo», dice Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Asi. «È proprio questa caratteristica che ha permesso di fare immediatamente il collegamento tra la presenza di fosfati nei grani di Bennu con le proprietà che aveva il nostro sistema planetario all’epoca della sua formazione. Ulteriori analisi e il confronto con quanto trovato nei grani prelevati su Ryugu, asteroide molto simile a Bennu, forniranno preziose indicazioni per capire meglio i processi di evoluzione planetaria».

Nei prossimi mesi, molti laboratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo riceveranno materiale dell’asteroide Bennu. attualmente custodito al Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Questo permetterà di moltiplicare le indagini e quindi gli articoli scientifici che ne conseguiranno, permettendo di studiare con un dettaglio sempre maggiore le loro proprietà e ricostruire la storia dell’asteroide e del Sistema solare.

Per saperne di più:

  • Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Asteroid (101955) Bennu in the laboratory: Properties of the sample collected by OSIRIS-REx”, di Dante S. Lauretta, Harold C. Connolly Jr, Joseph E. Aebersold, Conel M. O’D. Alexander, Ronald-L. Ballouz, Jessica J. Barnes, Helena C. Bates, Carina A. Bennett, Laurinne Blanche, Erika H. Blumenfeld, Simon J. Clemett, George D. Cody, Daniella N. DellaGiustina, Jason P. Dworkin, Scott A. Eckley, Dionysis I. Foustoukos, Ian A. Franchi, Daniel P. Glavin, Richard C. Greenwood, Pierre Haenecour, Victoria E. Hamilton, Dolores H. Hill, Takahiro Hiroi, Kana Ishimaru, Fred Jourdan, Hannah H. Kaplan, Lindsay P. Keller, Ashley J. King, Piers Koefoed, Melissa K. Kontogiannis, Loan Le, Robert J. Macke, Timothy J. McCoy, Ralph E. Milliken, Jens Najorka, Ann N. Nguyen, Maurizio Pajola, Anjani T. Polit, Kevin Righter, Heather L. Roper, Sara S. Russell, Andrew J. Ryan, Scott A. Sandford, Paul F. Schofield, Cody D. Schultz, Laura B. Seifert, Shogo Tachibana, Kathie L. Thomas-Keprta, Michelle S. Thompson, Valerie Tu, Filippo Tusberti, Kun Wang, Thomas J. Zega, C. W. V. Wolner, the OSIRIS-REx Sample Analysis Team


Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione l MEDIA INAF


Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione l MEDIA INAF


"L’elevata risoluzione spaziale delle immagini a infrarossi di Jiram, combinata con la posizione favorevole di Juno durante i sorvoli, ha rivelato che l'intera superficie di Io è coperta da laghi di lava contenuti in strutture simili a caldere."




La capsula coi campioni lunari di Chang'e 6 è tornata sulla Terra l AstroSpace


La capsula coi campioni lunari di Chang'e 6 è tornata sulla Terra l AstroSpace


"La missione lunare Chang’e 6 si è formalmente conclusa il 25 giugno 2024 con il rientro sulla Terra della capsula contenente i campioni raccolti sulla Luna. La missione è stata la più ambiziosa e complessa mai tentata sulla Luna dalla Cina e si è svolta correttamente in tutte le sue fasi."





I laghi e i mari di idrocarburi sulla luna Titano potrebbero essere modellati dalle onde l AstroSpace


I laghi e i mari di idrocarburi sulla luna Titano potrebbero essere modellati dalle onde l AstroSpace


"Dopo aver applicato il modello a ciascuna delle coste di questi mari per vedere quale meccanismo di erosione spiegava meglio la loro forma, hanno scoperto che tutti e quattro i mari si adattano perfettamente al modello di erosione guidata dalle onde. Ciò significa che se le coste sono state erose, le loro forme sono più coerenti con l’erosione delle onde, che con l’erosione uniforme o con l’assenza totale di erosione."




Il James Webb ha fotografato la nebulosa Serpente e immortalato i flussi protostellari l AstroSpace


Il James Webb ha fotografato la nebulosa Serpente e immortalato i flussi protostellari l AstroSpace


"Le stelle appena nate, dette protostelle, emettono getti di gas che si scontrano ad alta velocità con il materiale nelle vicinanze, all’interno della nube molecolare in cui si sono formate. Quando ciò accade si formano dei flussi, detti flussi protostellari, che aiutano gli scienziati a capire come la nascita di nuovi astri modifichi l’ambiente circostante."




Eppur si muove, ai confini della materia oscura l MEDIA INAF


Eppur si muove, ai confini della materia oscura l MEDIA INAF


"Il gruppo di ricerca che ha firmato lo studio ha dimostrato che le velocità di rotazione delle galassie rimangono inaspettatamente costanti anche a distanze molto grandi dal loro centro, confermando le previsioni della teoria della gravità modificata Modified Newtonian Dynamics (Mond), che non contempla la presenza di materia oscura nell’universo."




Nuovi risultati sui buchi neri primordiali, ma la domanda resta: come sono cresciuti così tanto in così poco tempo? I AstroSpace


Nuovi risultati sui buchi neri primordiali, ma la domanda resta: come sono cresciuti così tanto in così poco tempo? I AstroSpace


«I risultati supportano fortemente l’idea che i buchi neri supermassicci abbiano avuto masse considerevoli fin dall’inizio, ovvero che siano nati da “semi” di grandi dimensioni. I buchi neri supermassicci primordiali infatti non si sono formati dai resti delle prime stelle, ma sono comunque diventati massicci molto velocemente. Devono essersi formati presto e con masse iniziali di almeno centomila masse solari, possibilmente attraverso il collasso di massicce nubi di gas.»




News da Marte #29: tempeste solari e di sabbia l Coelum Astronomia


News da Marte #29: tempeste solari e di sabbia l Coelum Astronomia


"Questo aggiornamento sulle attività dei rover NASA sarà un po’ più mirato del solito e si focalizzerà principalmente su due tipi di tempeste, di sabbia e solari, e le loro conseguenze. Nella seconda parte ci divertiremo poi a indagare il Sole grazie all’occhio acutissimo di Perseverance."


#29


Chang'e-6 on the Moon l La storie di kosmonautika


Chang'e-6 on the Moon l La storie di kosmonautika


"Quelle che vedrete sono le immagini riprese dalla camera interna e da quella del rover, della stazione automatica Chang'e-6 sulla superficie lunare e sequenza delle operazioni di scavo, deposito campioni e decollo dalla Luna. Semplicemente spettacolari!"




Chang’e 6 è sul lato nascosto della Luna l MEDIA INAF


Chang’e 6 è sul lato nascosto della Luna l MEDIA INAF


"L’allunaggio di Chang’e 6 è avvenuto nell’immenso bacino Polo Sud-Aitken: si tratta di un cratere meteoritico di oltre duemila chilometri di diametro situato sul lato a noi nascosto della Luna, vicino al polo sud lunare. In questa zona, risalente a oltre quattro miliardi di anni fa, il lander procederà alla raccolta di materiale – fino a due chilogrammi – mediante l’uso di una trivella e una paletta. Il modulo di risalita con i campioni a bordo raggiungerà poi l’orbita lunare, dove si aggancerà al modulo di rientro. Il prezioso bottino farà quindi ritorno sulla Terra intorno al 25 giugno."




Europa Clipper al via gli ultimi controlli prima del lancio l AsiTV


Europa Clipper al via gli ultimi controlli prima del lancio l AsiTV


"Europa Clipper è giunta a Cape Canaveral in vista degli ultimi preparativi prima del lancio. La sonda della Nasa - che ha come obiettivo lo studio della luna ghiacciata di Giove Europa - è stata trasportata in Florida a bordo di un aereo dell’aereonautica americana lo scorso 23 maggio."




Scoperto un esopianeta vicino e temperato


Scoperto un esopianeta vicino e temperato


"Un elemento che ha suscitato in particolare l’interesse degli studiosi è il suo livello di calore in superficie, stimato in circa 42°C: in pratica, la temperatura di Gliese 12 b ricorda i picchi della calura estiva sulla Terra ma è assai più fresco in paragone a gran parte dei mondi extrasolari al momento censiti"




Euclid, è l’ora della scienza: dieci articoli e cinque nuove immagini l MediaInaf TV


Euclid, è l’ora della scienza: dieci articoli e cinque nuove immagini l MediaInaf TV


"Da un solo giorno d’osservazioni gli astrofisici del consorzio Euclid sono riusciti a estrarre un catalogo con oltre 11 milioni di oggetti in luce visibile e altri 5 milioni in banda infrarossa. Sono numerosissimi gli scienziati italiani, e in particolare dell’Inaf, che fanno parte della collaborazione."




News Da Marte #28: Perseverance Ingenuity l Coelum Astronomia


News Da Marte #28: Perseverance Ingenuity l Coelum Astronomia


"In questo 28esimo appuntamento della rubrica continuiamo a seguire le esplorazioni di Perseverance nel cratere Jezero con tantissime immagini e vari dettagli tecnici. C’è anche qualche nuova fotografia scattata a Ingenuity e uno sviluppo sulla missione dell’elicotterino."


#28


Chang’e 6 è in volo verso il lato nascosto della Luna l MEDIA INAF


Chang’e 6 è in volo verso il lato nascosto della Luna l MEDIA INAF


"Una volta sceso il lander userà un’innovativa trivella che tenterà di raccogliere campioni fino a 2 metri di profondità mentre a permettere le comunicazioni sarà il satellite Queqiao-2. [...] I materiali raccolti saranno poi trasferiti a bordo del modulo di risalita che ripartirà per ricongiungersi con il modulo di rientro in attesa in orbita."




Einstein Probe spalanca gli occhi sul cielo X l MEDIA INAF


Einstein Probe spalanca gli occhi sul cielo X l MEDIA INAF


"La capacità della missione di individuare nuove sorgenti di raggi X e di monitorare il loro cambiamento nel tempo è fondamentale per migliorare la nostra comprensione dei processi più energetici del cosmo. I raggi X vengono prodotti a seguito dello scontro fra stelle di neutroni, quando le supernove esplodono e quando la materia viene inghiottita dai buchi neri o espulsa dai campi magnetici che li avvolgono."




C’è vita aliena? Ce lo dicono i gas serra


Secondo uno studio guidato dalla Uc Riverside, se un’ipotetica civiltà aliena modificasse un pianeta del proprio sistema solare per renderlo più caldo, saremmo in grado di capirlo. Lo studio analizza cinque gas serra artificiali che rivelerebbero la prese

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Un’illustrazione di varie tecnofirme planetarie, tra cui i gas atmosferici artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside

Se gli alieni modificassero un pianeta del loro sistema solare per renderlo più caldo, saremmo in grado di capirlo. Questa è la conclusione di un nuovo studio della Uc Riverside pubblicato su Astrophysical Journal, che identifica i gas serra artificiali che rivelerebbero la presenza di un pianeta “terraformato” e suggerisce i tempi necessari al telescopio spaziale James Webb (Jwst) per rilevare diverse concentrazioni di tali gas.

La terraformazione è un ipotetico processo artificiale che serve per rendere abitabile un pianeta intervenendo sulla sua atmosfera – creandola o modificandone la composizione chimica – in modo da renderla simile a quella della Terra e in grado di sostenere un ecosistema. Attualmente gli studi sulla terraformazione sono del tutto speculativi. Tuttavia, i gas descritti nello studio sarebbero rilevabili anche a concentrazioni relativamente basse nelle atmosfere di pianeti al di fuori del Sistema solare utilizzando la tecnologia esistente. Tra queste potrebbe esserci il Jwst o esperimenti futuri come Life, il Large Interferometer For Exoplanets del Politecnico federale di Zurigo (Eth).

Sebbene sulla Terra questi gas inquinanti debbano essere controllati per evitare effetti climatici dannosi, ci sono ragioni per cui potrebbero essere usati intenzionalmente su un esopianeta. «Per noi, questi gas sono negativi perché non vogliamo aumentare il riscaldamento globale. Ma sarebbero ottimi per una civiltà che volesse prevenire un’imminente era glaciale o terraformare un pianeta altrimenti inabitabile nel proprio sistema, come gli esseri umani hanno proposto per Marte», riferisce Edward Schwieterman, astrobiologo della Uc Riverside e primo autore dello studio.

Poiché in natura questi gas non sono presenti in quantità significative, devono essere fabbricati. Trovarli, quindi, sarebbe un segno della presenza di forme di vita intelligenti e tecnologiche, le cosiddette tecnofirme. I cinque gas proposti dai ricercatori – CF4 (tetrafluorometano), C2F6 (esafluoroetano), C3F8 (ottafluoropropano), SF6 (esafluoruro di zolfo) e NF3 (trifluoruro di azoto) – sono utilizzati sulla Terra in applicazioni industriali come la produzione di chip per computer. Comprendono versioni fluorurate di metano, etano e propano, oltre a gas composti da azoto e fluoro o zolfo e fluoro. In particolare, gli autori hanno analizzato le potenzialità di questi gas di generare firme atmosferiche rilevabili.

A differenza dei sottoprodotti passivi accidentali dei processi industriali, i gas serra artificiali rappresenterebbero uno sforzo intenzionale per modificare il clima di un pianeta con gas a lunga vita e bassa tossicità, e avrebbero un basso potenziale di falsi positivi. Come sottolineato da Schwieterman, una civiltà extraterrestre potrebbe essere motivata a intraprendere un tale sforzo per arrestare il raffreddamento del proprio mondo o per terraformare un pianeta terrestre altrimenti inabitabile all’interno del proprio sistema.

Un vantaggio è che sono gas serra incredibilmente efficaci. L’esafluoruro di zolfo, ad esempio, ha un potere riscaldante 23.500 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Una quantità relativamente piccola potrebbe riscaldare un pianeta gelido fino al punto in cui l’acqua liquida potrebbe persistere sulla sua superficie.

Un altro vantaggio dei gas proposti – almeno dal punto di vista alieno – è che sono eccezionalmente longevi e persisterebbero in un’atmosfera simile a quella terrestre fino a 50mila anni. «Non avrebbero bisogno di essere riforniti troppo spesso per mantenere un clima ospitale», spiega Schwieterman.

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Spettri qualitativi di trasmissione ed emissione nel medio infrarosso di un ipotetico pianeta simile alla Terra il cui clima è stato modificato con gas serra artificiali. Crediti: Sohail Wasif/ Uc Riverside

Qualcuno ha proposto sostanze chimiche refrigeranti come i Clorofluorocarburi (Cfc) come traccianti di tecnofirme perché sono quasi esclusivamente artificiali e visibili nell’atmosfera terrestre. Tuttavia, i Cfc potrebbero non essere vantaggiosi perché distruggono lo strato di ozono, a differenza dei gas completamente fluorurati discussi nello studio, che sono chimicamente inerti. «Se un’altra civiltà avesse un’atmosfera ricca di ossigeno, avrebbe anche uno strato di ozono che vorrebbe proteggere», dice Schwieterman. «I Cfc verrebbero smembrati nello strato di ozono anche se ne catalizzano la distruzione». Essendo più facilmente scomponibili, i Cfc hanno anche una vita breve, che li rende più difficili da rilevare.

Infine i gas fluorurati devono assorbire la radiazione infrarossa per avere un impatto sul clima. L’assorbimento produce una corrispondente firma infrarossa che potrebbe essere rilevata con telescopi spaziali. Con la tecnologia attuale o futura, gli scienziati potrebbero rilevare queste sostanze chimiche in alcuni sistemi esoplanetari vicini. «Con un’atmosfera come quella terrestre, solo una molecola su un milione potrebbe essere uno di questi gas e sarebbe potenzialmente rilevabile», aggiunge Schwieterman. «Quella concentrazione di gas sarebbe inoltre sufficiente a modificare il clima».

Per arrivare alle loro conclusioni, i ricercatori hanno simulato un pianeta nel sistema Trappist-1, a circa 40 anni luce dalla Terra. Hanno scelto questo sistema, che contiene sette pianeti rocciosi conosciuti, perché è uno dei sistemi planetari più studiati, oltre al nostro. È anche un obiettivo realistico da esaminare per i telescopi spaziali esistenti.

Come già detto, poiché i gas serra artificiali assorbono fortemente nella finestra termica del medio infrarosso delle atmosfere temperate, un pianeta terraformato possiederà forti caratteristiche di assorbimento di questi gas alle lunghezze d’onda del medio infrarosso (∼8-12 μm), eventualmente accompagnate da caratteristiche nel vicino infrarosso. Gli autori hanno calcolato il tempo di osservazione necessario per rilevare 1[10](100) ppm di C2F6/C3F8/SF6 su Trappist-1 f con lo spettrometro a bassa risoluzione (Lrs) di Miri e con NirSpec, a bordo di Jwst. Hanno scoperto che una combinazione di 1[10](100) ppm di C2F6, C3F8 e SF6 può essere rilevata con un rapporto segnale/rumore maggiore di 5 in soli 25[10](5) transiti con Miri/Lrs.

Il gruppo ha anche considerato la capacità della missione europea Life di rilevare i gas fluorurati. La missione Life sarebbe in grado di fotografare direttamente i pianeti utilizzando la luce infrarossa, consentendo di individuare un numero maggiore di esopianeti rispetto al telescopio Webb, che osserva i pianeti mentre passano davanti alle loro stelle.

Pur non potendo quantificare la probabilità di trovare questi gas nel prossimo futuro, i ricercatori sono fiduciosi che – se presenti – è del tutto possibile rilevarli durante le missioni attualmente pianificate per caratterizzare le atmosfere planetarie. «Non ci sarebbe bisogno di uno sforzo supplementare per cercare queste tecnofirme, se il telescopio sta già caratterizzando il pianeta per altri motivi», conclude Schwieterman. «E sarebbe sorprendente trovarle».

Per saperne di più:



Juno mostra i laghi di lava di Io in alta definizione


From left, Ganymede, Europa, and Io – the three Jovian moons that NASA’s Juno mission has flown past – as well as Jupiter are shown in a photo illustration created from data collected by the spacecraft’s JunoCam imager. Credit: Image data: NASA/JPL-Caltec

From left, Ganymede, Europa, and Io – the three Jovian moons that NASA’s Juno mission has flown past – as well as Jupiter are shown in a photo illustration created from data collected by the spacecraft’s JunoCam imager. Credit: Image data: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS. Image processing: Kevin M. Gill (CC BY); Thomas Thomopoulos (CC BY)
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L’immagine in alto (crediti: A. Mura/Jiram Team) mostra l’emissione nell’infrarosso di Chors Patera, sulla luna Io di Giove. È stata creata combinando i dati raccolti dallo strumento Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper) durante un sorvolo della luna il 15 ottobre 2023. Gli scienziati della missione Juno ritengono che la maggior parte del lago di lava, largo circa 70 chilometri, sia coperta da una spessa crosta di materiale fuso (la parte centrale che appare rosso/verde nel grafico) con una temperatura superficiale di circa -40 °C. L’anello bianco che lo circonda è dove la lava proveniente dall’interno di Io è direttamente esposta allo spazio, ossia la parte più calda di questa caratteristica vulcanica, intorno ai 500 °C. L’area in verde è esterna al lago di lava ed è molto fredda (circa -150 °C). L’anello di lava sui bordi del lago è una caratteristica simile a quella visibile in alcuni laghi Hawaiani, come quello mostrato in basso, il lago di lava Puʻu ʻŌʻō, qui ripreso nei primi anni ’90 (crediti: Nps/Usgs)

Nuovi risultati in arrivo dal satellite gioviano Io forniscono un quadro più completo su quanto i laghi di lava siano diffusi su tutta la e rivelano per la prima volta i meccanismi dei processi vulcanici in atto. Questi risultati sono stati ottenuti grazie allo strumento italiano Jiram (Jovian Infrared Auroral Mapper, finanziato dall’Asi, l’Agenzia spaziale italiana) a bordo della sonda Nasa Juno, che osserva nella luce infrarossa, non visibile all’occhio umano. I ricercatori hanno pubblicato un articolo su queste recenti scoperte la settimana scorsa su Nature Communications Earth and Environment.

Io ha affascinato la comunità astronomica sin dal 1610, quando Galileo Galilei scoprì la luna gioviana. 369 anni dopo, la sonda Voyager della Nasa catturò un’eruzione vulcanica sulla luna. Le successive missioni Galileo e Juno hanno compiuto diverse osservazioni di Io e grazie a queste molti più dettagli sul suo vulcanismo sono stati scoperti. Gli scienziati pensano che Io, che è stirata e compressa come una fisarmonica dalla gravità delle lune vicine e dal massiccio Giove, sia il mondo più vulcanicamente attivo del Sistema solare. Ma mentre ci sono molte teorie sul tipo di eruzioni vulcaniche che popolano la sua superficie, esistevano pochi dati a supporto.

A maggio e ottobre 2023, Juno ha effettuato sorvoli di Io con una distanza di avvicinamento di circa, rispettivamente, 35mila chilometri e 13mila chilometri,. All’epoca, i due sorvoli erano i più vicini che una sonda avesse raggiunto la luna gioviana in oltre due decenni. Tra gli strumenti di Juno che stavano osservando da vicino la luna, affascinante e leggermente più grande di quella della Terra, c’era lo strumento italiano Jiram.

Jiram è stato progettato per catturare la luce infrarossa proveniente dall’interno profondo di Giove, sondando lo strato meteorologico fino a 50-70 chilometri sotto la sommità delle nuvole di Giove. Ma durante la missione estesa di Juno, lo strumento è stato anche impiegato per studiare le lune Io, Europa, Ganimede e Callisto. Le immagini di Io prese da Jiram hanno mostrato la presenza di anelli luminosi nell’infrarosso in corrispondenza numerosi hot spot (letteralmente, punti caldi, ossia caldere, vulcani o colate laviche).

«L’elevata risoluzione spaziale delle immagini a infrarossi di Jiram, combinata con la posizione favorevole di Juno durante i sorvoli, ha rivelato che l’intera superficie di Io è coperta da laghi di lava contenuti in strutture simili a caldere –grandi depressioni formate quando un vulcano erutta e collassa», spiega Alessandro Mura, co-investigator di Juno dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma. «Stimiamo che nella regione della superficie di Io in cui abbiamo i dati più completi circa il 3 per cento sia coperto da uno di questi laghi di lava».

Dentro la bocca dei laghi di fuoco

I dati del sorvolo di Io di Jiram non solo evidenziano le abbondanti riserve di lava di Io, ma forniscono anche un’idea di ciò che potrebbe accadere sotto la superficie. Le immagini a infrarossi di diversi laghi di lava su Io hanno mostrato un cerchio di lava estremamente sottile al confine, tra la crosta centrale (che copre la maggior parte del lago di lava) e le pareti del lago. La mancanza di flussi di lava oltre il bordo del lago, fanno supporre un sostanziale riciclo del magma, indicando che c’è un equilibrio tra quello che è eruttata nei laghi di lava e quello che è reiniettato nel sistema sotterraneo.

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In questo grafico, il meccanismo proposto per la formazione dell’anello di lava: la risalita e ridiscesa del magma provoca la rottura della crosta sui bordi del lago. Crediti: A. Mura

«Adesso abbiamo l’idea di quale sia il tipo di vulcanismo più frequente su Io: enormi laghi di lava dove il magma sale e scende», dice Mura. «La crosta di lava è costretta a rompersi contro le pareti del lago, formando l’anello di lava tipico visto nei laghi di lava hawaiiani. Le pareti sono probabilmente alte centinaia di metri, il che spiega perché generalmente il magma non viene osservato fuoriuscire dalle paterae (termine usato per indicare le caldere su Io, ossia strutture a forma di scodella create dal vulcanismo) e muoversi sulla superficie della luna».

I dati di Jiram suggeriscono che la maggior parte della superficie di questi laghi di lava su Io sia composta da una crosta rocciosa che si muove su e giù ciclicamente, come una superficie unica, a causa della risalita e ridiscesa centrale del magma. La crosta che tocca le pareti del lago non può scivolare a causa dell’attrito con le pareti del lago, quindi si deforma e alla fine si rompe – permettendo alla lava appena sotto la superficie incrostata di risultare visibile da Jiram.

Un’ipotesi alternativa rimane valida: la risalita del magma al centro del lago. In questo scenario, la crosta isolante (anche se sottile) si diffonde radialmente attraverso processi di convezione nel lago e poi sprofonda ai bordi, esponendo la lava.

«Stiamo appena iniziando a esaminare i risultati di Jiram dai sorvoli ravvicinati di Io a dicembre 2023 e febbraio 2024», dice Scott Bolton, principal investigator di Juno, del Southwest Research Institute di San Antonio. «Le osservazioni mostrano nuove affascinanti informazioni sui processi vulcanici di Io. Combinando questi nuovi risultati con la campagna a lungo termine di Juno per monitorare e mappare i vulcani nei poli nord e sud di Io, mai osservati prima, Jiram si sta rivelando uno degli strumenti più preziosi per comprendere come funziona questo mondo tormentato».

Juno ha eseguito il suo 62° sorvolo di Giove – che includeva un sorvolo di Io a un’altitudine di circa 29.250 km il 13 giugno. Il suo 63° sorvolo del gigante gassoso è previsto per il 16 luglio.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Communications Earth and Environment l’articolo “Hot rings on Io observed by Juno/JIRAM”, Alessandro Mura, Federico Tosi, Francesca Zambon, Rosaly M. C. Lopes, Peter J. Mouginis-Mark, Heidi Becker, Gianrico Filacchione, Alessandra Migliorini, Candice. J. Hansen, Alberto Adriani, Francesca Altieri, Scott Bolton, Andrea Cicchetti, Elisa Di Mico, Davide Grassi, Raffaella Noschese, Alessandro Moirano, Madeline Pettine, Giuseppe Piccioni, Christina Plainaki, Julie Rathbun, Roberto Sordini e Giuseppe Sindoni


La materia oscura è fatta di buchi neri?


I rilevatori di onde gravitazionali Ligo e Virgo hanno individuato una popolazione di buchi neri massicci che potrebbero essersi formati nell'universo primordiale e potrebbero comporre la materia oscura. Ma secondo gli scienziati dell'esperimento polacco

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Impressione artistica di un evento di microlensing causato da un buco nero che si trova tra la Terra e la stella della Grande Nube di Magellano. La luce della stella viene piegata dal buco nero (lente) nell’alone galattico e ingrandita quando viene osservata dalla Terra. Il microlensing causa una variazione molto caratteristica della luminosità della stella, permettendo di determinare la massa e la distanza della lente. Crediti: J. Skowron / Ogle

Diverse osservazioni astronomiche indicano che la materia ordinaria, che possiamo vedere o toccare, comprende solo il 5 per cento del bilancio totale di massa ed energia dell’universo. Ma nella Via Lattea, per ogni chilogrammo di materia ordinaria presente nelle stelle, ci sono ben 15 chilogrammi di materia oscura, che non emette luce e interagisce solo attraverso la sua attrazione gravitazionale.

«La natura della materia oscura rimane un mistero. La maggior parte degli scienziati pensa che sia composta da particelle elementari sconosciute», dice Przemek Mróz dell’Osservatorio astronomico dell’Università di Varsavia, primo autore di due articoli pubblicati su Nature e Astrophysical Journal Supplement Series che offrono una risposta alla domanda riportata nel titolo di questa news. «Purtroppo, nonostante decenni di sforzi, nessun esperimento – compresi quelli condotti con il Large Hadron Collider – ha trovato nuove particelle che potrebbero essere responsabili della materia oscura».

Dalla prima rilevazione di onde gravitazionali generate dalla fusione di una coppia di buchi neri, avvenuta nel 2015, gli esperimenti Ligo e Virgo hanno rilevato più di 90 eventi di questo tipo. Gli astronomi hanno notato che i buchi neri rilevati in questo modo sono tipicamente molto più massicci (20-100 masse solari) di quelli conosciuti in precedenza nella Via Lattea (5-20 masse solari). «Spiegare perché queste due popolazioni di buchi neri siano così diverse è uno dei più grandi misteri dell’astronomia moderna», afferma Mróz.

Una possibile spiegazione ipotizza che i rivelatori Ligo e Virgo abbiano scoperto una popolazione di buchi neri primordiali che potrebbero essersi formati nelle prime fasi di vita dell’universo. La loro esistenza è stata proposta per la prima volta oltre 50 anni fa dal famoso fisico teorico britannico Stephen Hawking e, in modo indipendente, dal fisico sovietico Yakov Zeldovich. «Sappiamo che l’universo primordiale non era idealmente omogeneo: piccole fluttuazioni di densità hanno dato origine alle galassie e agli ammassi di galassie attuali», spiega Mróz. «Fluttuazioni di densità simili, se superano un contrasto di densità critica, possono collassare e formare buchi neri».

Dalla prima rilevazione delle onde gravitazionali, un numero sempre maggiore di scienziati ha ipotizzato che questi buchi neri primordiali possano costituire una frazione significativa, se non la totalità, della materia oscura. Ipotesi, questa, che può essere verificata con osservazioni astronomiche. Nella Via Lattea esistono abbondanti quantità di materia oscura. Se fosse composta da buchi neri, dovremmo essere in grado di rilevarli nel nostro vicinato cosmico. È possibile farlo, visto che i buchi neri non emettono alcuna luce rilevabile? Assolutamente sì.

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Eventi di microlensing previsti e osservati da parte di oggetti massicci in direzione della Grande Nube di Magellano, visti attraverso l’alone della Via Lattea. Se la materia oscura fosse costituita da buchi neri primordiali, la survey Ogle avrebbe dovuto rilevare oltre 500 eventi di microlensing negli anni 2001-2020. In realtà, ha registrato solo 13 rilevamenti di eventi di microlensing, molto probabilmente causati da stelle normali. Crediti: J. Skowron / Ogle

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, la luce può essere piegata e deviata dal campo gravitazionale di oggetti massicci, un fenomeno chiamato microlensing gravitazionale. «Il microlensing si verifica quando tre oggetti – un osservatore sulla Terra, una sorgente di luce e una “lente” – si allineano prospetticamente in modo ideale nello spazio», spiega Andrzej Udalski, pricipal investigator di Ogle (Optical Gravitational Lensing Experiment). «Durante un evento di microlensing, la luce della sorgente può essere deviata e amplificata e noi osserviamo un temporaneo aumento della luminosità della sorgente».

La durata di questo aumento nella luminosità dipende dalla massa dell’oggetto che fa da lente: maggiore è la massa, più lungo è l’evento. Gli eventi di microlensing da parte di oggetti di massa solare durano in genere alcune settimane, mentre quelli da parte di buchi neri cento volte più massicci del Sole durano alcuni anni.

L’idea di utilizzare il microlensing gravitazionale per studiare la materia oscura non è nuova. È stata proposta per la prima volta negli anni ’80 dall’astrofisico polacco Bohdan Paczyński. La sua idea ha ispirato l’avvio di tre importanti esperimenti: il polacco Ogle, l’americano Macho e il francese Eros. I primi risultati di questi esperimenti dimostrarono che i buchi neri meno massicci di una massa solare possono costituire meno del 10 per cento della materia oscura. Queste osservazioni, tuttavia, non erano sensibili agli eventi di microlensing su scala temporale estremamente lunga e, quindi, non erano sensibili ai buchi neri massicci, simili a quelli recentemente rilevati dai rivelatori di onde gravitazionali.

Nel nuovo articolo, pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Supplement Series, gli astronomi di Ogle presentano i risultati di un monitoraggio fotometrico durato quasi 20 anni di circa 80 milioni di stelle appartenenti a una galassia vicina, la Grande Nube di Magellano, e la ricerca di eventi di microlensing gravitazionale. I dati analizzati sono stati raccolti durante la terza e la quarta fase del progetto Ogle, dal 2001 al 2020. «Questo set di dati fornisce le osservazioni fotometriche più lunghe, più ampie e più accurate delle stelle della Grande Nube di Magellano nella storia dell’astronomia moderna», dice Udalski.

Il secondo articolo, pubblicato su Nature, illustra le conseguenze astrofisiche delle scoperte. «Se l’intera materia oscura della Via Lattea fosse composta da buchi neri di 10 masse solari, avremmo dovuto rilevare 258 eventi di microlensing», spiega Mróz. «Per i buchi neri di 100 masse solari, ci aspettavamo 99 eventi di microlensing. Per i buchi neri di 1000 masse solari, 27 eventi di microlensing».

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Notte sull’Osservatorio di Las Campanas in Cile (gestito dalla Carnegie Institution for Science). La stazione osservativa del progetto Ogle e le Grandi e Piccole Nubi di Magellano. Crediti: Krzysztof Ulaczyk

Al contrario, gli astronomi di Ogle hanno trovato solo 13 eventi di microlensing. La loro analisi dettagliata dimostra che tutti questi eventi possono essere spiegati dalle popolazioni stellari conosciute nella Via Lattea o nella Grande Nube di Magellano, non dai buchi neri. «Questo indica che i buchi neri massicci possono costituire al massimo qualche percentuale della materia oscura», afferma Mróz.

Calcoli dettagliati dimostrano che i buchi neri di 10 masse solari possono comprendere al massimo l’1,2 per cento della materia oscura, i buchi neri di 100 masse solari il 3 per cento della materia oscura e i buchi neri di 1000 masse solari l’11 per cento della materia oscura.

«Le nostre osservazioni indicano che i buchi neri primordiali non possono costituire una frazione significativa della materia oscura e, allo stesso tempo, spiegare i tassi di fusione dei buchi neri misurati da Ligo e Virgo», conclude Udalski.

Pertanto, sono necessarie altre spiegazioni per i buchi neri massicci rilevati da Ligo e Virgo. Secondo un’ipotesi, si sono formati come prodotto dell’evoluzione di stelle massicce a bassa metallicità. Un’altra possibilità richiama la fusione di oggetti meno massicci in ambienti stellari densi, come gli ammassi globulari.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal Supplement Series l’articolo “Microlensing optical depth and event rate toward the Large Magellanic Cloud based on 20 years of OGLE observations” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Mateusz Kapusta, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak
  • Leggi su Nature l’articolo “No massive black holes in the Milky Way halo” di Przemek Mróz, Andrzej Udalski, Michał K. Szymański, Igor Soszyński, Łukasz Wyrzykowski, Paweł Pietrukowicz, Szymon Kozłowski, Radosław Poleski, Jan Skowron, Dorota Skowron, Krzysztof Ulaczyk, Mariusz Gromadzki, Krzysztof Rybicki, Patryk Iwanek, Marcin Wrona, and Milena Ratajczak


Tutti insieme allineatamente


Per la prima volta è stato osservato l’allineamento di numerosi getti di gas in una regione di formazione stellare. Questo fornirebbe importanti conferme ai modelli che descrivono la nascita delle stelle. La scoperta è stata compiuta utilizzando alcune im

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Capita talvolta che una persona che conosciamo da molto tempo ci lasci di stucco per qualche uscita che proprio non ci aspettavamo. Lo stesso può accadere per certe regioni del cielo, immortalate innumerevoli volte nel corso degli anni, regioni dello spazio che diremmo ormai familiari se non noiose, e che eppure possono rivelare mirabili sorprese. Questo è avvenuto quando Joel Green, astronomo dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, e alcuni suoi collaboratori si sono trovati al cospetto delle nuove immagini della Nebulosa Serpente realizzate con lo strumento NirCam del telescopio spaziale James Webb.

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La Nebulosa Serpente vista da Jwst/NirCam. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)

Situata nell’omonima costellazione, la Nebulosa Serpente è una regione della Via Lattea collocata a 1300 anni luce dalla Terra che ospita numerose stelle in formazione (o protostelle) con un’età di appena centomila anni. E proprio nei pressi di queste stelle si celava la sorpresa. Le immagini Webb hanno infatti rivelato numerosi getti di gas dalla geometria bipolare che fuoriescono dalle protostelle. Il fatto straordinario è che i getti non sono orientati a caso ma risultano diligentemente allineati, un po’ come le gocce di un acquazzone quando c’è vento. È la prima volta che un fenomeno di questo tipo viene osservato. Lo studio che riporta la scoperta è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal la scorsa settimana e fornisce importanti indicazioni ai modelli di formazione stellare. «Gli astronomi hanno a lungo assunto che, a mano a mano le nubi collassano per formare le stelle, queste ultime tendono a ruotare nella stessa direzione», dice Klaus Pontoppidan, responsabile del programma scientifico che ha portato alla scoperta, in una press releasesul sito della Nasa. «Tuttavia, questo non era mai stato visto in maniera così diretta prima d’ora. Queste strutture allineate e dalla forma allungata sono una traccia del modo in cui nascono le stelle.»

L’allineamento dei getti si parlerebbe dunque con la rotazione delle stelle. Man mano che il gas collassa per formare una stella, esso comincia a ruotare sempre più rapidamente formando un disco di accrescimento. Affinché nuovo gas possa collassare, parte di questa rotazione viene trasferita ai getti di materiale, che vengono lanciati in direzioni opposte, perpendicolarmente al disco di accrescimento. Le protostelle con i getti annessi sono localizzate nella regione in alto a sinistra delle immagini Webb, con i getti di colore rossastro, indicativo della presenza di idrogeno molecolare e monossido carbonio. In passato anche il telescopio spaziale Hubble aveva scrutato questa regione. Cruciale è stata la sopraffina risoluzione angolare di Webb, che ha consentito di distinguere delle strutture dalla forma allungata là dove Hubble aveva visto solo dei blob indistinti.

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Zoom sulla regione della Nebulosa Serpente in cui si notano numerosi getti protostellari allineati fra di loro. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, K. Pontoppidan (Nasa-Jpl), J. Green (Stsci)

Non è la prima volta che questa regione della nostra galassia fa parlare di sé. Nel 2020 alcune immagini di Hubble hanno immortalato la cosiddetta Bat shadow (ombra del pipistrello), che non è una traccia del passaggio di Batman, ma l’ombra generata da un disco protoplanetario. Anche quella, scoperta avvenuta per caso.

Gli scienziati adesso vogliono studiare la composizione chimica dei getti utilizzando lo strumento NirSpec, sempre del James Webb. Oggetto privilegiato dell’indagine saranno le sostanze volatili, ovvero quei composti che passano dallo stato liquido allo stato gassoso a temperature relativamente basse. Esempi di queste sostanze sono l’acqua e il monossido di carbonio. «A livello elementare, noi tutti siamo fatti di materia che proviene da queste sostanze volatili. La maggior parte dell’acqua qui sulla Terra ha avuto origine quando il Sole era una protostella miliardi di anni fa», dice Pontoppidan. «Studiare le abbondanze di questi composti nelle protostelle appena prima che si formino i dischi protoplanetari potrebbe aiutarci nel capire quanto uniche siano state le circostanze in cui il nostro sistema solare si è formato».

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Onde di metano sulle rive di Titano


Le rive dei laghi e dei mari di Titano, la luna più grande di Saturno, mostrano segni di erosione dovuta probabilmente all’attività ondosa delle distese liquide di idrocarburi che si trovano sul satellite. È la conclusione a cui è giunto un gruppo di rice

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Illustrazione artistica di un lago al polo nord della luna di Saturno Titano, ispirata alle immagini riprese dalla sonda Cassini intorno al Winnipeg Lacus della luna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Le rive dei laghi e dei mari di idrocarburi di Titano, la luna più grande di Saturno, potrebbero essere state erose dall’attività ondosa delle distese liquide che si trovano sul satellite. È quanto riporta un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology (Mit) in uno studio pubblicato la settimana scorsa su Science Advances.

Titano è l’unico corpo planetario del Sistema solare oltre alla Terra che ospita fiumi, laghi e mari attivi. I sistemi fluviali di Titano sembrano essere ricchi di metano ed etano liquidi che confluiscono in laghi e mari – alcuni delle dimensioni dei Grandi Laghi dell’America settentrionale – la cui esistenza è stata confermata nel 2007 grazie alle immagini scattate dalla sonda Cassini della Nasa.

Gli esperti di geologia del Mit hanno studiato la conformazione delle coste di Titano e hanno dimostrato, attraverso simulazioni, che i grandi mari della luna sono stati probabilmente modellati dalle onde. Il gruppo di ricerca ha sviluppato i modelli di erosione sulla base dei processi attraverso i quali un lago può erodere le coste terrestri, e li ha poi applicati ai mari di Titano per capire che tipo di meccanismo erosivo abbia potuto produrre le sue caratteristiche coste. La spiegazione più probabile è che siano state proprio le onde a dare origine alle coste frastagliate di Titano.
Per arrivare a questa conclusione, gli autori dello studio hanno individuato gli scenari possibili di ciò che sarebbe potuto accadere dopo che l’innalzamento dei livelli di liquido ha inondato il paesaggio attraversato da valli fluviali. Gli scenari possibili sono tre: nessuna erosione costiera, erosione guidata dalle onde ed erosione “uniforme”, guidata dall’azione del liquido che dissolve passivamente il materiale di una costa oppure da un meccanismo per cui la costa si stacca gradualmente sotto il suo stesso peso.

I ricercatori hanno quindi simulato l’evoluzione delle varie forme di litorale in ciascuno dei tre scenari. Per simulare l’erosione provocata dalle onde hanno preso in considerazione un parametro – noto, anche ai surfisti, come fetch – che descrive la distanza fisica tra un punto della costa e il lato opposto, di un lago o di un mare – entro cui avviene la generazione del moto ondoso.

«L’erosione delle onde è determinata dall’altezza e dall’angolo dell’onda», spiega Rose Palermo del Mit, alla guida dello studio. «Abbiamo usato il fetch per approssimare l’altezza delle onde, perché più grande è il fetch, più lunga è la distanza su cui il vento può soffiare e le onde possono crescere».

Per verificare le differenze tra i tre scenari, i ricercatori hanno iniziato a simulare un mare con valli fluviali allagate ai bordi. Per l’erosione guidata dalle onde, hanno calcolato la distanza del fetch da ogni singolo punto lungo la linea di costa a ogni altro punto e hanno convertito queste distanze in altezza delle onde. Poi hanno eseguito una simulazione per vedere come le onde avrebbero eroso la linea di costa iniziale nel tempo e hanno confrontato il risultato con l’evoluzione della stessa linea di riva in caso di erosione uniforme.

I ricercatori hanno ripetuto questa modellazione comparativa per centinaia di forme diverse della linea di riva di partenza, e hanno scoperto che la forma finale della costa era molto diversa a seconda del meccanismo sottostante. In particolare, l’erosione uniforme ha prodotto coste rialzate che si sono allargate in modo uniforme su tutto il perimetro, analogamente alle valli fluviali allagate, mentre l’erosione ondosa ha levigato soprattutto le parti delle coste esposte a lunghe distanze di fetch, lasciando le valli allagate strette e ruvide.

Una volta confrontate le simulazioni con i laghi presenti sulla Terra, i ricercatori hanno riscontrato la stessa differenza di forma tra i laghi terrestri noti per essere stati erosi dalle onde e i laghi colpiti da un’erosione uniforme dovuta alla dissoluzione del calcare.

I modelli hanno rivelato che le forme assunte delle coste sono caratteristiche del meccanismo con cui si sono evolute. Il team di ricercatori si è quindi chiesto: «Dove si collocherebbero le coste di Titano, tra queste forme caratteristiche?»

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Titano in un mosaico a colori nel vicino infrarosso, ripreso dalla sonda Cassini. Crediti: Nasa/JPpl-Caltech/Università dell’Arizona/Università dell’Idaho

In particolare, si sono concentrati su quattro dei mari più grandi e meglio mappati di Titano: il Kraken Mare, di dimensioni paragonabili al Mar Caspio, il Ligeia Mare, più grande del Lago Superiore, il Punga Mare, più lungo del Lago Vittoria, e l’Ontario Lacus, grande circa il venti per cento del suo omonimo terrestre.

Il confronto tra le coste di ciascun mare, sulla base delle immagini radar di Cassini, e i modelli teorici corrispondenti ai diversi meccanismi di erosione ha mostrato che tutti e quattro i mari si adattano perfettamente al modello di erosione guidata dalle onde.

«Se potessimo stare sulla riva di uno dei mari di Titano, potremmo vedere onde di metano ed etano che si infrangono sulle coste durante le tempeste. E sarebbero in grado di erodere il materiale di cui sono fatte le coste», dice Taylor Perron del Mit, coautore dell’articolo.

I ricercatori stanno lavorando per determinare quanto forti debbano essere i venti di Titano per creare onde di idrocarburi liquidi esotici che potrebbero ripetutamente intaccare le coste. L’obiettivo della ricerca è anche decifrare, dalla forma delle coste, da quali direzioni soffia prevalentemente il vento. Sapere se i mari di Titano ospitano attività ondose potrebbe fornire agli scienziati informazioni sul clima della luna, come per esempio la forza dei venti che potrebbero sollevare tali onde.

«Titano rappresenta un caso di sistema completamente incontaminato», conclude Palermo. «Potrebbe aiutarci a imparare cose più fondamentali su come le coste si erodono senza l’influenza dell’uomo, e forse questo potrebbe aiutarci a gestire meglio, in futuro, le nostre coste sulla Terra».

Fonte: sito web del Mit

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L’entanglement misura la rotazione terrestre


Un gruppo di ricercatori dell'Università di Vienna ha condotto un esperimento pionieristico che ha permesso di misurare l'effetto della rotazione della Terra su fotoni entangled. Il lavoro, pubblicato su Science Advances, rappresenta un risultato signific

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Interferometro di Sagnac costruito con 2 chilometri di fibre ottiche avvolte intorno a un telaio quadrato di alluminio di 1,4 metri di lato. Crediti: R. Silvestri

Un gruppo di ricercatori della Università di Vienna ha condotto un esperimento pionieristico in cui ha misurato l’effetto della rotazione della Terra su fotoni entangled. Il lavoro, appena pubblicato su Science Advances, rappresenta un risultato significativo che spinge i confini della sensibilità alla rotazione nei sensori basati sull’entanglement quantistico, ponendo potenzialmente le basi per ulteriori esplorazioni al confine tra meccanica quantistica e relatività generale.

L’esperimento ha impiegato un interferometro ottico di Sagnac, tra i dispositivi più sensibili alle rotazioni. Tali interferometri sono stati cruciali per la comprensione della fisica fondamentale fin dai primi anni del secolo scorso, contribuendo ad affermare la teoria della relatività speciale di Einstein. Oggi, la loro impareggiabile precisione li rende lo strumento definitivo per misurare le velocità di rotazione, limitato solo dai confini della fisica classica.

Per comprendere il funzionamento di questi dispositivi e la misura effettuata, abbiamo intervistato Raffaele Silvestri, primo autore dello studio, dottorando all’Università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther, gruppo che si occupa principalmente di scienza dell’informazione e computazione quantistica, fondamenti della teoria quantistica e investigazione dell’interfaccia fra la meccanica quantistica e la gravità generando e utilizzando stati quantistici della luce, come l’entanglement a più fotoni.

Gli interferometri che utilizzano l’entanglement quantistico hanno il potenziale per infrangere i limiti della fisica classica. In che modo?

«Gli interferometri “classici” (ovvero che non utilizzano stati quantistici della luce, come ad esempio la luce laser) sono limitati nella precisione di misura dello sfasamento indotto (da qualsivoglia effetto che si voglia misurare) sui fasci di luce che si propagano nei due percorsi (o bracci) dell’interferometro da un limite chiamato di shot-noise (shot-noise limit). Questo limite è proporzionale all’inverso della radice quadrata del numero di fotoni rilevati dal detector in un certo intervallo di tempo, un risultato che proviene banalmente dalla statistica dei conteggi di un processo random a variabili indipendenti, statistica che segue una distribuzione di Poisson (numero di conteggi/fotoni rilevati: N, incertezza o shot-noise: sqrt(N), incertezza relativa o shot-noise limit: 1/sqrt(N)). Ora, si possono sfruttare stati della luce in cui i fotoni invece che essere indipendenti condividono delle correlazioni quantistiche, andando quindi a modificare la statistica dello stato della luce. L’esempio più celebre è quello dello squeezing quantistico (statistica sub-Poissoniana), in cui le correlazioni dello stato di luce inviato nell’interferometro possono essere controllate in modo tale da ridurre l’incertezza sulla misura della fase (a discapito di un’incertezza maggiore sull’ampiezza del campo di luce, quindi dell’intensità o numero di fotoni per unità di tempo). Questa tecnica è stata utilizzata dagli interferometri rilevatori di onde gravitazionali delle collaborazioni Virgo e Ligo, riuscendo nella pratica a migliorare la precisione della misura della fase relativa indotta dalla fluttuazione spazio-temporale fra i due bracci di un interferometro di tipo Michelson. Come lo squeezing, anche l’entanglement fra le particelle (fotoni) che compongono uno stato quantistico può essere utilizzato per migliorare la precisione nella misura della fase interferometrica».

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Illustrazione dell’esperimento: lo schema interferometrico di Sagnac a fibra (visualizzato all’interno di un inserto), è collocato a Vienna, in Austria, sulla Terra in rotazione. Due fotoni indistinguibili incidono su un cubo che divide il fascio, si crea un entanglement tra di essi e poi vengono accoppiati nell’interferometro a fibra. Crediti: M. Di Vita

In che modo?

«Per intuire la ragione fondamentale di tale fenomeno, consideriamo di avere uno stato di N particelle (fotoni) che sono entangled tramite il grado di libertà della loro posizione (path-entangled) all’interno dell’interferometro. Il caso fondamentale è rappresentato dallo stato NOON, ovvero una sovrapposizione quantistica in cui N fotoni si propagano in un braccio dell’interferometro (a) e 0 nell’altro (b) e viceversa (|N>a|0>b+|0>a|N>b). Lo stato quantistico con N fotoni in un modo spaziale (braccio) |N>a acquisterà al termine della propagazione N volte la fase rispetto a quella che avrebbe acquistato se solo 1 fotone si fosse propagato attraverso lo stesso percorso, (|N>a –> exp(i*N*phi)|N>a, mentre se N=0, |0>a –> exp(i*0*phi)|0>a = |0>a )). Lo stato entangled complessivo quindi acquisterà N volte la fase relativa rispetto al caso in cui solo un singolo fotone fosse stato inviato nell’interferometro (questo è dovuto all’evoluzione unitaria di uno stato di N bosoni in un singolo modo in questo caso spaziale). La precisione sulla misura di fase sarà invece un fattore sqrt(N) più precisa. Difatti, le frange d’interferenza incrementeranno la frequenza di N volte (il periodo della figura di interferenza è ridotto di N volte, 2Pi/N) e nel punto di massima sensibilità dell’interferometro (altrimenti detto punto di quadratura) la pendenza della funzione sarà N-volte maggiore, quindi aumentando considerevolmente la reazione dell’intensità o numero di fotoni rilevati rispetto a piccoli cambiamenti di fase. In linea di principio utilizzando stati NOON, che sono massimamente entangled, si può raggiungere il limite di precisione di Heisenberg, ovvero la soglia ultima di precisione raggiungibile in un interferometro dettata dalle leggi della meccanica quantistica (lo scaling è 1/N invece di 1/sqrt(N), un miglioramento di un fattore sqrt(N)). Questo effetto è anche chiamato super-risoluzione, ed è puramente dovuto alla presenza di questo particolare tipo di correlazione quantistica o entanglement fra N particelle (fotoni) e i due modi spaziali di propagazione. Purtroppo, nella realtà questo limite è molto difficile da raggiungere per via della decoerenza che questi stati quantistici subiscono nell’interazione con l’ambiente».

Come fate a dire che le particelle/fotoni sono entangled?

«La firma incontrovertibile della presenza dell’entanglement fra i due fotoni generati e i due modi spaziali all’interno dell’interferometro (senso di propagazione orario e antiorario in un interferometero Sagnac) è data dalla forma delle frange d’interferenza. In particolare dal raddoppiamento della frequenza o dimezzamento del periodo di oscillazione della curva d’interferenza rispetto al caso in cui singoli fotoni fra loro indipendenti e non correlati quantisticamente sono stati inviati nell’interferometro (effetto di super-risoluzione). Il fatto che la qualità dell’entanglement generato è invece quantificabile dalla visibilità o contrasto delle frange di interferenza, visibilità che è rimasta praticamente invariata prima e dopo la propagazione nell’interferometro ad un valore di circa 97%. A essere precisi, si può ottenere l’effetto di super-risoluzione andando a utilizzare fotoni di lunghezza d’onda minore (metà di quella di riferimento in questo caso, ovvero 1550 nm / 2 = 775 nm ). Tuttavia, sono stati utilizzati fotoni generati dallo stesso processo (Spdc o spontaneous parametric down-conversion) sia per la misura a singolo fotone che per quella a due fotoni, ma solo dopo essere stati tutti filtrati alla lunghezza d’onda selezionata (1550 nm o lunghezza d’onda telecom), assicurando senza ombra di dubbio che la lunghezza d’onda dei fotoni fosse sempre la stessa in entrambe le misure. Non può esservi quindi altra spiegazione se non la presenza di entanglement nella misura a due fotoni».

Il salto di qualità nella sensibilità finora è sempre stato ostacolato dalla natura delicata dell’entanglement ma il vostro esperimento ha fatto la differenza. Ci può spiegare come?

«Uno stato NOON a due fotoni (N=2) è molto fragile e soggetto a decoerenza (e la sua fragilità aumenta esponenzialmente con il numero N di fotoni entangled) dove il contributo principale è dato dalla perdita di fotoni durante l’interazione con l’ambiente circostante, nel nostro caso la propagazione in una fibra ottica lunga 2 chilometri. Ad esempio, se l’interferometro trasmette il 10% della potenza iniziale (o del numero totale di singoli fotoni indipendenti inviati), il numero di stati NOON a due fotoni che sopravvivrà alla propagazione sarà solo l’1% ( (0,1)^N = (0,1)^2 = 0,01 ) degli stati generati. Tuttavia, la sensibilità di una misura di rotazione con un interferometro Sagnac è direttamente proporzionale al tempo di propagazione dei fotoni (lunghezza della fibra ottica) e all’area chiusa dell’interferometro (area circoscritta dal percorso chiuso). Più è grande e più sarà capace di risolvere una rotazione molto lenta, dove il fattore di proporzionalità fra la velocità di rotazione e la fase indotta (osservabile misurata) prende il nome di fattore di scala. È quindi estremamente impegnativo effettuare misure di precisione in interferometri di grandi dimensioni (grandi fattori di scala) utilizzando questi stati, poiché richiede la misurazione di una quantità significativa di questi (coppie di fotoni entangled che sopravvivono alla propagazione in una lunga fibra ottica) e della massima qualità possibile (la forza dell’entanglement è inizialmente elevata e si conserva dopo la propagazione)».

Come avete superato questi ostacoli?

«Abbiamo superato questi ostacoli aumentando, con una tecnica innovativa per questo scenario di applicazione, la stabilità nel tempo del nostro interferometro (area effettiva di oltre 700 metri quadrati, realizzata con 2 chilometri di fibra ottica attorcigliata in una bobina quadrata di 1,4 metri di lato) a diverse ore, consentendo tempi di misura stabili di quasi un giorno intero, così rilevando un numero di fotoni in quantità e qualità sufficiente a ottenere questa notevole precisione (per uno stato così fragile). Da notare che la suddetta stabilità raggiunta è unica per un interferometro Sagnac in fibra ottica di tale dimensioni, per di più considerando il fatto che la fibra è stata attorcigliata a mano senza l’ausilio di macchine automatiche! Ci tengo a precisare che nel nostro esperimento il limite di Heisenberg non è stato raggiunto, né un vantaggio quantistico incondizionato nell’utilizzo di stati NOON a due fotoni rispetto a stati a singolo fotone (considerando lo stesso numero di fotoni rilevati durante l’intero corso della misura) è stato dimostrato. Il passo in avanti è esclusivamente dovuto all’aver raggiunto una tale precisione utilizzando stati entangled in un interferometro così grande e quindi con un’interazione così prolungata fra i fotoni e un ambiente esterno ostile, che provoca un enorme numero di perdite. Il segreto è stato nell’aver raggiunto una stabilità tale nel lungo periodo, grazie all’introduzione di uno switch ottico, per poter aumentare significativamente il tempo di misura e la quantità di fotoni rilevati compensando l’effetto delle perdite».

Come avete fatto a isolare il segnale di rotazione della Terra?

«Come anticipato, la svolta sotto vari punti di vista per noi è stata l’introduzione di uno switch ottico che divide e connette due bobine di fibra da 1 chilometro ciascuna (lunghezza totale 2 chilometri). Siamo quindi riusciti a scambiare la direzione di propagazione dei due fotoni (che si propagano in direzioni opposte) per metà della lunghezza di propagazione nella fibra ottica. Ciò significa che quando i fotoni tornano al punto di partenza il ritardo che hanno accumulato (fase di Sagnac), che quantifica la velocità di rotazione della Terra, è nullo. Quindi, anche se l’interferometro ruota con la Terra, l’effetto indotto dalla rotazione terrestre viene annullato, creando così uno stato di riferimento per estrarre il segnale rotazionale costante di interesse che altrimenti sarebbe stato sempre presente come segnale di fondo. In altre parole è come avere due interferometri Sagnac identici e sovrapposti e sommare i loro segnali, scambiando a comando la direzione di propagazione dei fotoni solo in uno di essi il segnale complessivo è doppio o nullo per via del cambio di segno del segnale di fase in uno di essi. Mi piace dire scherzosamente di avere ingannato la luce facendole credere di trovarsi in un universo non rotante. Questa aggiunta è importante non solo perché consente di confrontare il comportamento dello stato entangled da un sistema di riferimento rotante a uno effettivamente non rotante, ma comporta anche diversi vantaggi tecnici come la soppressione del rumore a bassa frequenza (si può modulare la velocità dello switch a frequenze anche molto elevate) e una maggiore stabilità a lungo termine. Quantificando, la stabilità a lungo termine ottenuta senza e con lo switch ottico a una velocità di modulazione del segnale nell’ordine degli Hz è passata da un minuto a quasi un giorno».

In conclusione, cosa siete stati in grado di osservare?

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Raffaele Silvestri, primo autore dell’articolo pubblicato su Science Advances. È dottorando all’università di Vienna nel gruppo di ottica quantistica sperimentale diretto da Philip Walther. Si è laureato all’università di Roma “La Sapienza” discutendo una tesi di metrologia quantistica su chip fotonici integrati. Crediti: R. Silvestri

«Abbiamo osservato l’effetto della rotazione terrestre su uno stato di due fotoni entangled, ovvero l’introduzione di uno sfasamento relativo nello stato quantistico causato dall’effetto Sagnac (un effetto predetto dalla relatività speciale) che è raddoppiato in grandezza rispetto al caso “classico” in cui un fascio laser o singoli fotoni indipendenti e scorrelati (in assenza di correlazioni di natura quantistica) fossero stati utilizzati nella misura interferometrica (effetto di super-risoluzione). L’effetto osservato risiede quindi all’interfaccia fra la relatività speciale e la meccanica quantistica (compatibile con la teoria quantistica dei campi). Se confrontiamo la precisione con quella che possono raggiungere i moderni giroscopi ottici (sensori di rotazione “classici” che operano con fasci laser), siamo ancora lontani. In particolare, i giroscopi laser (ring laser gyroscopes) sono in grado di percepire anche le minime variazioni della velocità di rotazione della Terra e dell’orientamento del suo asse (dovuta ad esempio al moto delle maree) e questa sensibilità è di ordini di grandezza superiore alla nostra (vedi progetto Ginger/Ino dell’Infn). Ciò che è notevole è la precisione che abbiamo raggiunto nel misurare una velocità di rotazione con l’entanglement quantistico, in particolare con uno stato quantistico di due fotoni massimamente entangled. Una domanda che viene naturale porsi è perché non sfruttare l’enorme sensibilità, precisione, accuratezza e stabilità di tali strumenti già operativi e sondarli con fotoni entangled. La risposta è che queste sono cavità ottiche che selezionano una lunghezza d’onda ben precisa e di conseguenza quasi tutti i fotoni, avendo una larghezza di banda spettrale molto maggiore, sarebbero filtrati dalla cavità e perduti. Per questo riteniamo che l’approccio in fibra ottica sia il più promettente se si vogliono spingere i limiti di precisione raggiungibile con stati entangled di singoli fotoni».

Cosa comporta il risultato ottenuto rispetto a esperimenti futuri?

«Un seguito naturale a questo esperimento potrebbe essere l’utilizzo di un altro effetto quantistico senza analogo classico, come ad esempio l’effetto Hong-Ou-Mandel, che può essere osservato inviando due fotoni indistinguibili (non è necessario che siano entangled) nell’interferometro. Questo manterrebbe la natura quantistica dell’esperimento, ma allo stesso tempo potrebbe aumentare ulteriormente la sua sensibilità andando a misurare il ritardo temporale, invece dello sfasamento, fra i due fotoni che si propagano in sensi opposti. Inoltre, la piattaforma interferometrica e lo schema sperimentale è abbastanza flessibile da consentire ulteriori test con molti altri stati quantistici a più fotoni. Alcuni di essi sono più resistenti alle perdite di fotoni rispetto agli stati NOON e potrebbero in linea di principio dimostrare un vantaggio quantistico incondizionato, aumentando al contempo la precisione della misura grazie al flusso di fotoni più elevato. In ogni caso, il passo successivo sarebbe quello di aumentare la precisione di una quantità significativa tale da poter rilevare effetti gravitazionali come l’effetto geodetico (o precessione di de Sitter) e di frame-dragging (o precessione di Lense-Thirring) su una coppia di fotoni entangled. Si tratta di effetti gravitazionali previsti dalla teoria generale della relatività di Einstein in presenza di un corpo massiccio statico (geodetico) e rotante (frame-dragging, cioè la Terra in rotazione “trascina” la sua curvatura dello spaziotempo) e si manifesta semplicemente come una piccola correzione della velocità di rotazione della Terra. Questa misura rappresenterebbe il primo test sperimentale del comportamento di un fenomeno quantistico fondamentale come l’entanglement in uno spaziotempo curvo come descritto dalla teoria della gravitazione di Einstein, facendo luce su questo regime inesplorato dove le due teorie fondamentali si incontrerebbero, e forse in un futuro non così lontano».


Per saperne di più:



Chang’e 6 è rientrata sulla Terra con rocce lunari


La capsula è atterrata oggi a Siziwang Banner, nella Mongolia interna, alle 8:07 ora italiana. La Cina diventa così il primo paese al mondo ad aver portato sulla Terra campioni dal lato nascosto della Luna.

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La capsula della sonda lunare cinese Chang’e 6, con a bordo i primi campioni al mondo provenienti dal lato nascosto della Luna, è atterrata oggi sulla Terra a Siziwang Banner, nella Mongolia interna. Lo riferiscono i media di Pechino, ricordando che la navicella era approdata sul nostro satellite il 2 giugno scorso. La missione sottolinea la crescente influenza tecnologica cinese nelle missioni aerospaziali.

Chang’e-6 back to earth. Source:t.co/7Psoz3ejKX pic.twitter.com/AghmeEjkLs

— CNSA Watcher (@CNSAWatcher) June 25, 2024

La capsula di rientro dovrebbe contenere circa due chili di materiale, raccolto utilizzando una sorta di paletta e un trapano (vedi il video della Cnsa, qui di seguito), ed è uno dei quattro moduli della missione, lanciata il 3 maggio e arrivata nell’orbita lunare il primo giugno. La Chang’e 6 comprende infatti il lander che si posato al suolo nel cratere Apollo, all’interno del bacino South Pole-Aitken. A bordo c’erano la capsula di rientro, appena tornata sulla Terra, e un ascender, ossia il piccolo razzo che ha portato la capsula fino alla sonda rimasta nell’orbita lunare e che poi l’ha portata a Terra.

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La Cina è finora il primo e unico paese ad avere toccato il suolo del lato nascosto della Luna e Chang’e 6 è la seconda missione diretta a questa parte ancora sostanzialmente sconosciuta del satellite naturale della Terra. La prima, nel gennaio 2019, era stata la missione Chang’e 4, che ha portato sulla Luna il rover Yutu 2, ancora attivo. Con le missioni Chang’e 7 e Chang’e 8, previste rispettivamente nel 2026 e nel 2028, la Cina si prepara a raccogliere i dati necessari per costruire un avamposto lunare. La missione e Chang’e 8, in particolare, dovrà sperimentare le tecnologie necessarie per realizzare la base lunare, che la Cina intende costruire vicino al polo sud, ricco di acqua, intorno al 2030.

Fonte: Ansa



La capsula coi campioni lunari di Chang'e 6 è tornata sulla Terra l AstroSpace

I campioni lunari raccolti da Chang'6 sono tornati sulla Terra, dopo un viaggio di cinque giorni dalla Luna...#Change6 #Cina #Luna



Cinque nane brune per la coppia Gaia e Gravity


Rilevare oggetti deboli vicino a stelle luminose è incredibilmente difficile. Eppure, combinando i dati del telescopio spaziale Gaia con le eccellenti capacità dello strumento Gravity dell'Eso, gli scienziati ci sono riusciti, rilevando il segnale di comp

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Impressione artistica di una nana bruna in orbita vicino a una stella brillante. Crediti: Esa

Avete mai provato a fotografare una lucciola accanto a un lampione acceso? È probabile che l’unica cosa che vedrete nella vostra istantanea sia il bagliore del lampione. È lo stesso problema che devono affrontare gli astronomi quando cercano piccole e deboli stelle oppure pianeti accanto a una stella luminosa.

Per affrontare questa sfida, un team internazionale di astronomi guidato da Thomas Winterhalder, scienziato dell’European Southern Observatory (Eso), ha iniziato a cercare nel catalogo prodotto da Gaia, che elenca centinaia di migliaia di stelle che si sospetta abbiano una compagna. Sebbene gli oggetti compagni non siano abbastanza luminosi da essere visti direttamente da Gaia, la loro presenza provoca piccole oscillazioni nel percorso delle stelle ospiti più luminose, che solo Gaia può misurare.

Nel catalogo delle orbite stellari di Gaia, il team ha identificato otto stelle da sottoporre all’attenzione di Gravity, l’interferometro nel vicino infrarosso del Very Large Telescope dell’Eso, a Cerro Paranal in Cile. Gravity combina la luce infrarossa di diversi telescopi per cogliere dettagli minuscoli in oggetti deboli, con una tecnica chiamata interferometria.

Grazie al sensibile e risoluto occhio di Gravity, il team ha catturato il segnale luminoso di tutte le otto compagne previste, sette delle quali precedentemente sconosciute. Tre delle compagne sono stelle molto piccole e deboli, mentre le altre cinque sono nane brune. Si tratta di oggetti celesti a metà tra i pianeti e le stelle: più massicci dei pianeti più pesanti, ma più leggeri e più deboli delle stelle più leggere. Una delle nane brune individuate in questo studio orbita intorno alla sua stella ospite alla stessa distanza della Terra dal Sole. È la prima volta che una nana bruna così vicina alla sua stella ospite è stata catturata direttamente.

«Abbiamo dimostrato che è possibile catturare un’immagine di una debole compagna, anche quando orbita molto vicino alla sua luminosa ospite», spiega Winterhalder. «Questo risultato evidenzia la notevole sinergia tra Gaia e Gravity. Solo Gaia è in grado di identificare sistemi così stretti che ospitano una stella e una compagna “nascosta”, e poi Gravity può subentrare per fotografare l’oggetto più piccolo e più debole con una precisione senza precedenti».

Le piccole compagne dedotte dalle osservazioni di Gaia si trovano tipicamente a poche decine di millisecondi d’arco dalle stelle attorno alle quali orbitano, che corrisponde circa alla dimensione angolare di una moneta da un euro vista da 100 chilometri di distanza. «Nelle nostre osservazioni, i dati di Gaia agiscono come una sorta di cartello segnaletico», continua Winterhalder. «La parte di cielo che possiamo vedere con Gravity è molto piccola, quindi dobbiamo sapere dove guardare. Le misure di precisione senza precedenti di Gaia dei movimenti e delle posizioni delle stelle sono essenziali per indirizzare il nostro strumento nella giusta direzione del cielo».

La complementarietà di Gaia e Gravity va oltre l’utilizzo dei dati di Gaia per pianificare le osservazioni successive e consentire le rilevazioni. Combinando le due serie di dati, gli scienziati hanno potuto “pesare” separatamente i singoli oggetti celesti e distinguere la massa della stella ospite e della rispettiva compagna.

Gravity ha anche misurato il contrasto tra la compagna e la stella ospite in una gamma di lunghezze d’onda nell’infrarosso. Insieme alle stime della massa, queste conoscenze hanno permesso al team di valutare l’età delle compagne. Sorprendentemente, due delle nane brune si sono rivelate meno luminose di quanto ci si aspetterebbe date le loro dimensioni e la loro età. Una possibile spiegazione potrebbe essere che le nane stesse abbiano una compagna ancora più piccola.

Dopo aver dimostrato la potenza del duo Gaia-Gravity, gli scienziati sono ora ansiosi di individuare i potenziali pianeti compagni delle stelle elencate nel catalogo Gaia. «La capacità di individuare i piccoli moti di coppie vicine nel cielo è un’esclusiva della missione Gaia. Il prossimo catalogo, che sarà reso disponibile nell’ambito della quarta release di dati (Dr4), conterrà una raccolta ancora più ricca di stelle con compagni potenzialmente più piccoli», osserva Johannes Sahlmann dell’Esa. «Questo risultato apre nuove strade nella caccia ai pianeti della nostra galassia e ci fa intravedere nuovi mondi lontani».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Combining Gaia and GRAVITY: Characterising Five New Directly Detected Substellar Companions” di T.O. Winterhalder, S. Lacour, A. Merand, J. Kammerer, A.-L. Maire, T. Stolker, N. Pourre, C. Babusiaux, A. Glindemann, R. Abuter, A. Amorim, R. Asensio-Torres, W.O. Balmer, M. Benisty, J.-P. Berger, H. Beust, S. Blunt, A. Boccaletti, M. Bonnefoy, H. Bonnet, M.S. Bordoni, G. Bourdarot, W. Brandner, F. Cantalloube, P. Caselli, B. Charnay, G. Chauvin, A. Chavez, E. Choquet, V. Christiaens, Y. Clénet, V. Coudé du Foresto, A. Cridland, R. Davies, R. Dembet, J. Dexter, A. Drescher, G. Duvert, A. Eckart, F. Eisenhauer, N.M. Forster Schreiber, P. Garcia, R. Garcia Lopez, T. Gardner, E. Gendron, R. Genzel, S. Gillessen, J.H. Girard, S. Grant, X. Haubois, G. Heißel, Th. Henning, S. Hinkley, S. Hippler, M. Houlle, Z. Hubert, L. Jocou, M. Keppler, P. Kervella, L. Kreidberg, N.T. Kurtovic, A.-M. Lagrange, V. Lapeyrere, J.-B. Le Bouquin, D. Lutz, F. Mang, G.-D. Marleau, P. Molliere, J.D. Monnier, C. Mordasini, D. Mouillet, E. Nasedkin, M. Nowak, T. Ott, G.P.L. Otten, C. Paladini, T. Paumard, K. Perraut, G. Perrin, O. Pfuhl, L. Pueyo, D.C. Ribeiro, E. Rickman, Z. Rustamkulov, J. Shangguan, T. Shimizu, D. Sing, J. Stadler, O. Straub, C. Straubmeier, E. Sturm, L.J. Tacconi, E.F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Vincent, S.D. von Fellenberg, J. Wang, F. Widmann, J. Woillez, S. Yazici, and the GRAVITY Collaboration


Tre potenziali super-Terre attorno a una stella vicina


In orbita attorno alla stella arancione Hd 48498, situata a circa 55 anni luce da noi, sono state scoperte grazie allo spettrografo Harps-N tre candidate super-Terre. Si tratta del sistema planetario a noi più vicino, fra quelli con una stella ospite simi

media.inaf.it/2024/06/24/hd-48…
Individuate tre potenziali super-Terre in orbita attorno a una stella nana arancione relativamente vicina a noi. A firmare la scoperta, pubblicata oggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un team guidato da Shweta Dalal dell’Università di Exeter (Regno Unito).

I tre candidati esopianeti orbitano attorno alla stella Hd 48498, situata a circa 55 anni luce dalla Terra, impiegando rispettivamente 7, 38 e 151 giorni terrestri, e hanno masse minime che vanno da 5 a 11 volte quella della Terra. Degno di particolare interesse è Hd 48948 d, il candidato esopianeta più esterno: risiede infatti nella zona abitabile della sua stella ospite, dove le condizioni potrebbero consentire l’esistenza di acqua allo stato liquido. Il team suggerisce che la vicinanza della stella, unita all’orbita favorevole del pianeta più esterno, rende questo sistema un obiettivo promettente per futuri studi di imaging diretto ad alto contrasto e spettroscopia ad alta risoluzione.

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Rappresentazione artistica del sistema planetario Hd 48948, che si trova a una distanza di 55 anni luce dalla Terra. La sonda Voyager 1, con la sua velocità attuale, impiegherebbe quasi un milione di anni per raggiungere Hd 48948. Crediti: Soumita Samanta (www.soumitasamanta.com)

«Fra quelli con una stella simile al Sole, si tratta del sistema planetario a noi più vicino nel quale sia presente una super-Terra nella zona abitabile», dice a Media Inaf uno degli autori dello studio, l’astronomo Luca Malavolta dell’Università di Padova, ricordando che «la scoperta è il risultato di anni di osservazioni al Telescopio nazionale Galileo (Tng) con lo spettrografo Harps-N, uno dei più precisi cacciatori di esopianeti al mondo».

Grazie a Harps-N, nell’arco di un decennio il team ha raccolto quasi 190 misure di velocità radiale di alta precisione. Le misure di velocità radiale, tracciando i minuscoli movimenti della stella causati dai pianeti che le orbitano attorno, sono cruciali per queste scoperte. Analizzando lo spettro della luce della stella, i ricercatori riescono a determinare se si sta muovendo verso di noi (blueshift) o lontano da noi (redshift), risalendo così al numero, al periodo di rivoluzione e alla massa dei pianeti presenti nel sistema. Per garantire l’accuratezza della scoperta, il team ha fatto ricorso a diverse metodologie e analisi di confronto.

Queste tre potenziali super-Terre – vale a dire, pianeti con una massa superiore a quella della Terra ma significativamente inferiore a quella dei giganti di ghiaccio del Sistema solare, Urano e Nettuno – sono state individuate, in particolare, nell’ambito del programma di Harps-N “Rocky Planet Search”. La scoperta apre ora nuove possibilità per la comprensione dei sistemi planetari e per la ricerca della presenza di vita oltre il Sistema solare.

«Questa scoperta evidenzia l’importanza del monitoraggio a lungo termine e delle tecniche avanzate per scoprire i segreti dei sistemi stellari lontani», sottolinea Dalal. «Siamo ansiosi di continuare le nostre osservazioni e di cercare altri pianeti nel sistema». E aver individuato «una super-Terra nella zona abitabile attorno a una stella arancione», conclude la ricercatrice, «è un entusiasmante passo avanti nella nostra ricerca di pianeti abitabili attorno a stelle di tipo solare».

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Trio of super-Earth candidates orbiting K-dwarf HD 48948: a new habitable zone candidate”, di S Dalal, F Rescigno, M Cretignier, A Anna John, F Z Majidi, L Malavolta, A Mortier, M Pinamonti, L A Buchhave, R D Haywood, A Sozzetti, X Dumusque, F Lienhard, K Rice, A Vanderburg, B Lakeland, A S Bonomo, A Collier Cameron, M Damasso, L Affer, W Boschin, B Cooke, R Cosentino, L Di Fabrizio, A Ghedina, A Harutyunyan, D W Latham, M López-Morales, C Lovis, A F Martínez Fiorenzano, M Mayor, B Nicholson, F Pepe, M Stalport, S Udry, C A Watson e T G Wilson


Jwst osserva antichissimi ammassi stellari


Gli ammassi stellari osservati con il telescopio spaziale James Webb in una galassia a soli 460 milioni di anni dopo il Big Bang potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne. È il risultato di un gruppo di ricer

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Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

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A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari. Crediti:
Esa/Webb, Nasa & Csa, L. Bradley (Stsci), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (Jwst) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

«Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale», commenta Adamo, prima autrice del lavoro. «La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce».

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da Jwst nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’universo.

«Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito», ricorda Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna e terzo autore dell’articolo. «Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di Jwst: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari».

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

«Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio Jwst e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti», aggiunge Vanzella. «L’universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto».

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con Jwst, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude: «Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems arc con due strumenti, NirSpec e Miri: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch, Jose M. Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura



Doppio passaggio in coincidenza con l’Asteroid Day


Fra il 27 e il 29 giugno due asteroidi si troveranno alla minima distanza dalla Terra: 2011 UL21 e 2024 MK. Il primo, di dimensioni chilometriche, si troverà ad alcuni milioni di km dalla Terra, mentre il secondo – circa dieci volte più piccolo – passerà

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Per tutti gli appassionati di asteroidi near-Earth, giugno è un mese speciale perché, a partire dal 2015, ogni 30 giugno si celebra l’Asteroid Day ossia la giornata mondiale degli asteroidi, volta a sensibilizzare i cittadini sul rischio impatti con i corpi minori del Sistema Solare. Infatti, come ben sanno i lettori, il 30 giugno 1908 nella regione di Tunguska in Siberia, cadde un piccolo asteroide di 50-80 metri di diametro che devastò 2150 kmq di taiga siberiana, senza formazione di un cratere da impatto e al suolo non è mai stata ritrovata nessuna meteorite.

Quest’anno, il mese di giugno 2024 si chiude con un doppio passaggio ravvicinato che la Terra avrà con gli asteroidi (415029) 2011 UL21 e 2024 MK che, in un certo senso, “celebreranno” l’Asteroid Day. Questi asteroidi sono entrambi dei Pha (Potentially Hazardous Asteroid), il che non vuol dire che siamo spacciati, ma semplicemente che sono corpi con dimensioni maggiori di 140 metri e possono arrivare a meno di 7,5 milioni di km dall’orbita terrestre. Chiarito che per la Terra in questo caso non ci sono rischi, vediamo che cosa conosciamo di questi due asteroidi, quando verrà raggiunta la minima distanza e quando saranno osservabili dall’Italia.

Iniziamo da 2011 UL21, scoperto il 17 ottobre 2011 dalla Catalina Sky Survey. Questo asteroide si muove su un’orbita di tipo Apollo avente un semiasse maggiore di circa 2,1 unità astronomiche, un’eccentricità di 0,65 e con un’inclinazione di quasi 35° sul piano dell’eclittica. Questa notevole inclinazione, indice di una storia orbitale travagliata, all’afelio porta 2011 UL21 a innalzarsi di ben 300 milioni di km sul piano dell’eclittica, mentre al perielio – che cade grossomodo all’altezza dell’orbita di Venere – scende al di sotto di circa 60 milioni di km. Dal punto di vista fisico di 2011 UL21 non conosciamo molto: abbiamo la stima del diametro, circa 2,5 km, e una misura approssimata del periodo di rotazione, circa 2,7 h. Questo valore è vicino alle 2,5 h della spin barrier, al di sotto del quale un asteroide inizia a perdere materia nello spazio, quindi non è da escludere che 2011 UL21 possa essere un sistema binario simile a Dinkinesh.

La scoperta di 2024 MK è invece molto più recente, infatti è avvenuta solo il 16 giugno 2024 grazie alla rete di telescopi Atlas, un sistema di alert per l’impatto di asteroidi, sviluppato dall’Università delle Hawaii e finanziato dalla Nasa, composto da quattro telescopi (due nelle Hawaii, uno in Cile e uno in Sud Africa), che scansionano automaticamente il cielo più volte ogni notte alla ricerca di oggetti in movimento. L’annuncio dell’esistenza di 2024 MK è stata fatto il 19 giugno 2024 nella Minor Planet Electronic Circular 2024-M31. Anche in questo caso siamo in presenza di un oggetto che si muove su un’orbita di tipo Apollo, abbastanza simile a quella di 2011 UL21, ma con l’inclinazione sull’eclittica di soli 8°. A parte una stima delle dimensioni, basata sulla luminosità che lo colloca nel range 150-200 m, di 2024 MK non conosciamo nulla, nemmeno il periodo di rotazione.

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L’asteroide 2024 MK identificato dal cerchietto rosso ripreso il 19 giugno 2024 dal telescopio “Ferrante” (IAU M21) operante presso la Hakos Farm in Namibia. Il sud è in alto, l’est a sinistra. Crediti: Luca Buzzi e Gianni Galli

Giovedì 27 giugno 2024 alle 20:16 Utc, 2011 UL21 si troverà alla minima distanza dalla Terra di 6,6 milioni di km. Si tratta della minima distanza più piccola mai raggiunta dopo la sua scoperta. Per vederlo a una distanza minore bisognerà aspettare il 25 giugno del 2089, quando 2011 UL21 si troverà a soli 2,7 milioni di km dal nostro pianeta. La minima distanza di 2024 MK invece sarà raggiunta il 29 giugno 2024, alle 13:41 Utc, quando si troverà a 295mila km dalla Terra, ossia al di sotto del raggio dell’orbita lunare. Quindi in un paio di giorni avremo un asteroide di grosse dimensioni che passerà a milioni di km di distanza, mentre un altro molto più piccolo del primo che invece si troverà molto più vicino a noi. Il risultato sarà che entrambi gli asteroidi diventeranno molto luminosi rispetto al classico Nea, pur restando sempre invisibili a occhio nudo: un’occasione da non lasciarsi scappare!

Purtroppo però, dato che arriveranno entrambi da sotto il piano dell’eclittica, nella fase di avvicinamento alla Terra, questi asteroidi non saranno osservabili dall’emisfero settentrionale e quindi dall’Italia. Nel caso di 2011 UL21 dalle nostre latitudini si potrà iniziare a osservarlo senza difficoltà a partire dal 28 giugno in prima serata basso sull’orizzonte ovest nella costellazione della Vergine, circa 24 ore dopo avere raggiunto la minima distanza dalla Terra. La sera del 28 giugno 2011 UL21 raggiungerà la massima luminosità con una magnitudine apparente di +11, quindi bello luminoso, ma del tutto invisibile a occhio nudo. Per quanto riguarda invece 2024 MK si potrà osservare a partire dalla notte fra il 29 e il 30 giugno, poche ore dopo avere raggiunto la minima distanza e aver toccato anche la massima luminosità con una magnitudine di +8,5. Dall’Italia, a inizio serata, questo asteroide brillerà ancora di magnitudine +10,6 nella costellazione di Pegaso in movimento verso la costellazione di Andromeda. All’alba del 30 giugno 2024 MK sarà diventato decisamente più debole, arrivando alla magnitudine +12, per via del sensibile allontanamento da noi. Data la distanza ridotta a cui si troverà dalla Terra, il moto angolare in cielo di 2024 MK nella notte fra il 29 e il 30 giugno passerà da 260 arcsec/minuto a 116 arcsec/minuto il che significa che, anche usando un piccolo telescopio da 15-20 cm di diametro, potrà essere visto muoversi in tempo reale nel campo dell’oculare.

Come abbiamo già accennato, pur essendo invisibili a occhio nudo, entrambi questi asteroidi potranno essere osservati visualmente all’oculare di piccoli telescopi e ripresi anche con piccoli teleobiettivi da 135-200 mm di focale con tempi di posa di 20-30 s a patto di usare una reflex abbinata a un semplice astro-inseguitore. In ogni caso appariranno come piccoli puntini luminosi, ma non sarà difficile riprendere la traccia di questi asteroidi mentre si spostano in cielo, specie nel caso di 2024 MK, che è quello con la velocità angolare più elevata. Per puntare l’esatta zona di cielo in cui si troveranno i due asteroidi al momento della ripresa, si può utilizzare il servizio effemeridi del Minor Planet Center. Per chiudere, giova osservare che per entrambi questi asteroidi non è nota la classificazione tassonomica, quindi questo doppio passaggio ravvicinato sarà un’ottima occasione per gli astronomi che si occupano di corpi minori per caratterizzarli dal punto di vista fotometrico.




Meno di 24 ore al decollo del satellite Svom


Domani, 22 giugno 2024, alle 9:00 ora italiana (le 15:00 a Xichang) un razzo cinese Long March 2C lancerà in orbita il satellite franco-cinese Svom (acronimo di Space-based multi-band astronomical Variable Objects Monitor), dedicato allo studio dei lampi

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Illustrazione della missione franco-cinese Svom, dedicata allo studio dei gamma-ray burst. Crediti: Cnes/ ill. Sattler Oliver

Domani, 22 giugno 2024, alle ore 7:00 Utc (le 9:00 a Roma, le 15:00 a Xichang) un razzo cinese Long March 2C lancerà in orbita il satellite Svom (acronimo di Space-based multi-band astronomical Variable Objects Monitor), una missione franco-cinese dedicata allo studio dei gamma-ray burst.

Dopo eRosita, esempio di cooperazione tra Germania e Russia (poi interrotta dalla guerra con l’Ucraina) per studiare il cielo X, la missione Svom è il risultato di una collaborazione tra due agenzie spaziali nazionali, la China National Space Administration (Cnsa) e il Centre national d’études spatiales (Cnes), con il contributo dello Institute of Research into the Fundamental Laws of the Universe (Irfu) e il Research Institute of Astrophysics and Planetology (Irap) per la Francia e del National Astronomical Observatory (Nao) e Beijing High Energy Institute (Ihep) per la Cina.

La missione è composta da quattro strumenti, di cui due francesi (Eclairs e Mxt) e due cinesi (Grm e Vt). L’obiettivo di Eclairs è rilevare e localizzare i lampi gamma nella banda dei raggi X e raggi gamma a bassa energia (da 4 a 250 keV); quello di Mxt è l’osservazione dei lampi gamma nella banda dei raggi X morbidi (da 0,2 a 10 keV). Grm misurerà lo spettro dei burst ad alta energia (da 15 keV a 5000 keV), mentre il telescopio Vt osserverà l’emissione visibile prodotta immediatamente dopo un lampo gamma.

Tic tac tic tac … ⏲️

Svom se prépare au lancement. Décollage prévu le 22 juin 2024 à 7h UTC (9h à Paris) depuis la base de Xichang (Sichuan, UTC+8)

t.co/xxZHEmAUBR pic.twitter.com/qcLVku4NWy

— SVOM (@SVOM_mission) June 11, 2024

Il satellite, dal peso di circa 930 chilogrammi per un carico utile di 450 chilogrammi, sarà collocato in un’orbita terrestre bassa con un’inclinazione di 30 gradi, a un’altitudine di 625 chilometri e un periodo orbitale di 96 minuti.

Non appena Svom rileverà un’esplosione di raggi gamma, allerterà un team di scienziati attivo 24 ore al giorno. In meno di cinque minuti, una rete di telescopi a terra volgerà lo sguardo verso l’esplosione, nella speranza di saperne di più su questo affascinante quanto violento fenomeno cosmico.



Arrampicandosi sulle cime dello spaziotempo


I risultati ottenuti l’anno scorso al Cern con l’esperimento Alpha-g hanno dimostrato l’esistenza di attrazione gravitazionale fra materia e antimateria, mettendo così in crisi le teorie sull’antigravità. Ma uno studio pubblicato su Annalen der Physik da

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In primo piano, rappresentazione della curvatura dello spaziotempo in corrispondenza di grandi masse. Crediti: Esa/C. Carreau

Complici gli exhibit di tanti festival scientifici, siamo ormai abituati a immaginare lo spaziotempo come un telo elastico punteggiato qua e là da avvallamenti, depressioni e pozzi, laddove un buco nero o qualche altro oggetto massiccio – interpretato di solito da una pesante biglia – ­lo affossa. Ma potrebbero esserci anche innalzamenti, nel tessuto dello spaziotempo? Picchi, rilievi e montagne? Forse sì, o almeno questa è l’opinione di chi ritiene che la gravità – un effetto, o meglio, una manifestazione, secondo la relatività generale, della curvatura dello spaziotempo – abbia anche una controparte repulsiva, una sorta di antigravità.

Chi la eserciterebbe, questa repulsione? Cosa sarebbe in grado di “sollevarlo”, lo spaziotempo, invece d’affossarlo? Secondo alcuni fisici teorici, ad avere questa controintuitiva proprietà sarebbe qualcosa di ben noto e – per quanto non in abbondanza – presente ovunque attorno a noi: l’antimateria. E come funzionerebbe? Per rimanere nell’analogia del telo elastico, immaginiamo di poter guardare “da sotto” per vedere come apparirebbe l’altro lato del telo: in corrispondenza degli affossamenti vedremmo innalzamenti. E viceversa: laddove nello spaziotempo invertito un “anti buco nero” crea una profonda depressione, ecco che sul nostro versante d’universo ci ritroveremmo un picco. Vale a dire, una regione di spaziotempo che respinge tutto ciò che le si avvicina.

Va detto che si tratta di ipotesi confinate nel regno della matematica (almeno per ora), ma se le cose stessero effettivamente così materia e antimateria potrebbero non subire una reciproca attrazione gravitazionale, anzi: si respingerebbero. Con alcuni gradevoli corollari. Per esempio, potremmo forse fare a meno dell’energia oscura, perché magari basterebbe questa repulsione a spiegare l’espansione dell’universo. E non avremmo più l’imbarazzante problema di dover giustificare la scomparsa dell’antimateria dopo il big bang, visto che si potrebbe ancora trovare in qualche regione del cosmo.

Meraviglioso, no? C’è però almeno un problema: i dati sperimentali. Gli esperimenti condotti l’anno scorso al Cern dalla collaborazione Alpha, osservando il comportamento di atomi di anti-idrogeno in caduta libera, hanno dimostrato che materia e antimateria si attraggono, come previsto dal principio di equivalenza, e che l’antimateria è soggetta alla stessa accelerazione gravitazionale – o quasi – della materia ordinaria.

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Rappresentazione schematica delle due soluzioni proposte da Villata al conflitto tra la gravità CPT e i risultati dell’esperimento Alpha-g. Nel primo caso (a sinistra), la gravità repulsiva su larga scala sarebbe data dall’interazione con la materia PT-trasformata (e non con l’antimateria) in un universo dominato dalla materia. Nel secondo caso (a destra), l’intera CPT si conserva, dando luogo a una gravità repulsiva materia-antimateria. Ma la minuscola quantità di antimateria immersa nel nostro spazio-tempo non può essere PT-trasformata. Crediti: M. Villata, Annalen der Physik, 2024

Ma c’è chi non si dà per vinto: Massimo Villata, ricercatore associato all’Inaf di Torino da tempo impegnato nelle ricerche sulla gravità repulsiva, ha pubblicato lo scorso aprile su Annalen der Physik – la stessa rivista sulla quale uscirono nel 1905 i quattro articoli storici di Einstein, e nel 1916 quello celebre sulla relatività generale – uno studio, disponibile in open access, nel quale propone due soluzioni (vedi schema a fianco) per salvare l’ipotesi della gravità repulsiva nonostante i risultati ottenuti al Cern.

Com’è possibile? I fisici della collaborazione Alpha avrebbero forse commesso qualche errore? «No, non credo che ci siano errori sperimentali», dice Villata a Media Inaf, «e quindi qui sulla Terra abbiamo attrazione tra una materia dominante e le minuscole briciole di antimateria che riusciamo a produrre. Posso sinceramente dire che me lo aspettavo, perché quell’esigua quantità di antimateria non può invertire il proprio spaziotempo, immersa com’è nel flusso temporale della pervasiva materia che la circonda. Sarebbe come gettare controcorrente una fogliolina in un fiume impetuoso e pretendere che possa risalire la corrente. Ma quel valore che trovano di 0.75 g (invece di 1 g), sebbene abbia una grande incertezza, potrebbe essere un indizio del tentativo della foglia di opporsi al fluire del fiume».

Se qui sulla Terra non possiamo apprezzarne gli effetti, dove bisognerebbe dunque andare, per misurare sperimentalmente l’antigravità? In quale luogo dell’universo si nasconderebbe, tutta questa antimateria respingente? La risposta che s’incontra nell’articolo di Villata è quasi ovvia: se cerchiamo qualcosa che respinge la materia, conviene andare a vedere anzitutto là dove la materia non c’è, o quanto meno scarseggia. Luoghi del genere nell’universo esistono: si chiamano vuoti cosmici. «Sono regioni ben note ad astronomi e cosmologi, immense “bolle” nell’universo dove la materia è quasi assente», spiega Villata. «E manifestano un notevole effetto repulsivo sulle galassie che le circondano. Sarebbero “isole” di spaziotempo invertito, alternate nel cosmo alle isole di materia occupate dagli ammassi di galassie».

Poiché dei vuoti cosmici, per lo meno di quelli più grandi dell’universo visibile, non solo sappiamo che esistono ma ne conosciamo anche la posizione in cielo, viene a questo punto naturale chiedersi perché non siamo mai riusciti a osservarla, tutta questa antimateria teoricamente in essi presente. «Non la vediamo», suggerisce Villata, «proprio perché emetterebbe radiazione cosiddetta “anticipata” (cioè l’altra soluzione delle equazioni di Maxwell nel vuoto, rispetto a quella della radiazione che ben conosciamo), per la quale non abbiamo (ancora) strumenti capaci di rivelarla. Basti pensare che i fotoni emessi dall’antimateria verrebbero nel nostro spaziotempo “percepiti” come fotoni emessi dal rivelatore per raggiungere l’anti-stella che li ha prodotti, cioè con un cammino spaziotemporale invertito. Quindi, là dove vediamo il buio nell’universo non sappiamo per ora dire se c’è il vuoto oppure antimateria».

Per saperne di più:



Buchi neri che accrescono come giovani stelle


Come fanno i buchi neri supermassicci a crescere così tanto? Alcuni ricercatori hanno scoperto un potente vento magnetico rotante che sembra stia aiutando il buco nero supermassiccio nella vicina galassia Eso320-G030 a crescere. Il vento vorticoso, rivela

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Un vento a spirale aiuta il buco nero supermassiccio della galassia ESO320-G030 a crescere, aiutato dai campi magnetici. In questa illustrazione, il nucleo della galassia è dominato da un vento rotante di gas denso che si dirige verso l’esterno dal buco nero supermassiccio (nascosto) al centro della galassia. I movimenti del gas, tracciati dalla luce delle molecole di cianuro di idrogeno, sono stati misurati con il telescopio Alma. Crediti: M. D. Gorski/Aaron M. Geller, Northwestern University, Ciera

Nel centro della maggior parte delle galassie, compresa la nostra, dimora un buco nero supermassiccio. Come facciano questi oggetti a crescere fino a “pesare” l’equivalente di milioni o miliardi di stelle è ancora un mistero. Per cercare di capirlo, un team di scienziati guidato da Mark Gorski della Northwestern University e Susanne Aalto della Chalmers ha scelto di studiare la galassia Eso320-G030, distante solo 120 milioni di anni luce. È una galassia molto attiva, che forma stelle a una velocità dieci volte superiore alla nostra.

«Poiché questa galassia è molto luminosa nell’infrarosso, i telescopi possono risolvere dettagli sorprendenti nel suo centro. Volevamo misurare la luce delle molecole trasportate dai venti provenienti dal nucleo della galassia, sperando di tracciare il modo in cui i venti vengono accelerati da un buco nero supermassiccio che si sta accrescendo, o che è in procinto di farlo. Utilizzando Alma, siamo riusciti a studiare la luce proveniente da strati spessi di polvere e gas», spiega Susanne Aalto, docente di radioastronomia alla Chalmers.

Per focalizzarsi sul gas denso, il più possibile vicino al buco nero centrale, gli scienziati hanno studiato la luce emessa dalle molecole di cianuro di idrogeno (HCN). Grazie alla risoluzione angolare di Alma, ossia alla sua capacità di distinguere dettagli fini, e di tracciare i movimenti del gas (utilizzando l’effetto Doppler) hanno scoperto pattern che suggeriscono la presenza di un vento magnetizzato e rotante.

Mentre altri venti e getti al centro delle galassie spingono il materiale lontano dal buco nero supermassiccio, il vento rilevato qui suggerisce un ulteriore processo che, al contrario dei precedenti, potrebbe alimentare il buco nero e contribuire a farlo crescere. Prima di cadere nel buco nero, la materia gli ruota attorno come l’acqua intorno a uno scarico. Quella che si avvicina si raccoglie in un disco rotante, dove si sviluppano e si rafforzano i campi magnetici che aiutano a spostare materia dalla galassia, creando il vento a spirale. La perdita di materia in questo vento rallenta la rotazione del disco e questo facilita il fluire della materia verso il buco nero.

Per Gorski, il modo in cui ciò avviene ricorda in modo impressionante un ambiente su scala molto più piccola nello spazio: i vortici di gas e polvere che portano alla nascita di nuove stelle e pianeti. «È assodato che le stelle nelle prime fasi della loro evoluzione crescono con l’aiuto di venti rotanti, accelerati da campi magnetici, proprio come il vento di questa galassia. Le nostre osservazioni mostrano che i buchi neri supermassicci e le piccole stelle possono crescere con processi simili, ma su scale molto diverse», afferma Gorski.

Potrebbe questa scoperta costituire un indizio per risolvere il mistero della crescita dei buchi neri supermassicci? Per rispondere, occorre studiare altre galassie che potrebbero ospitare deflussi a spirale nascosti nei loro centri. «Nelle nostre osservazioni vediamo una chiara evidenza di un vento rotante che aiuta a regolare la crescita del buco nero centrale della galassia», conclude Gorski. «Ora che sappiamo cosa cercare, il passo successivo è scoprire quanto sia comune questo fenomeno. E se questa è una fase attraverso la quale passano tutte le galassie con buchi neri supermassicci, cosa accadrà loro in seguito?».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “A spectacular galactic scale magnetohydrodynamic powered wind in ESO 320-G030” di Mark Gorski, Susanne Aalto, Sabine König, Clare F. Wethers, Chentao Yang, Sebastien Muller, Kyoko Onishi, Mamiko Sato, Niklas Falstad, J. G. Mangum, S. T. Linden, F. Combes, S. Martín, M. Imanishi, K. Wada, L. Barcos-Muñoz, F. Stanley, S. García-Burillo, P. P. van der Werf, A. S. Evans, C. Henkel, S. Viti, N. Harada, T. Díaz-Santos, J. S. Gallagher e E. González-Alfonso


Ixpe svela un tesoro nascosto nella Via Lattea


Osservata con il telescopio spaziale Ixpe l’emissione in polarizzazione X di Cygnus X-3, ora classificato come Ulx, vale a dire una sorgente di raggi X ultra-luminosa. «ll valore misurato, pari a oltre il 20 per cento, non può essere spiegato con nessun m

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Rappresentazione artistica dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer. Crediti: Nasa/Msfc

Il rilascio di energia gravitazionale nei sistemi binari è tra i processi fisici più potenti dell’universo. I sistemi binari che emettono raggi X sono costituiti da un oggetto compatto (un buco nero o una stella di neutroni) e da una stella compagna da cui viene risucchiato del gas. Fino a oggi sono state identificate alcune centinaia di queste sorgenti nella nostra galassia. A identificarle, il satellite Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer), realizzato dalla Nasa e dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) con il contributo sostanziale dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e di Ohb-Italia

Fin dai primi anni ’70, il sistema binario Cygnus X-3 è noto per diventare molto brillante in banda radio, salvo poi affievolirsi in pochi giorni. Questa sua peculiare caratteristica ha stimolato gli scienziati di tutto il mondo ad effettuare le prime indagini astronomiche coordinate. Il comportamento unico della sorgente durante questi rapidi eventi altamente energetici ha portato nel 1973 Robert Michael Hjellming a definirlo “il puzzle astronomico Cygnus X-3”. Da allora numerosi sforzi sono stati compiuti per comprendere meglio la sua natura e anche il satellite italiano Agile e la missione Fermi della Nasa (con importante partecipazione italiana) hanno rivelato alcuni anni fa un’emissione nei raggi gamma proveniente da questa sorgente.

Il punto di svolta nella soluzione di questo puzzle astrofisico è stata l’osservazione di Cygnus X-3 con il satellite Ixpe. Secondo Alexandra Veledina, ricercatrice presso l’Università di Turku (Finlandia) e autrice principale di uno studio pubblicato oggi su Nature Astronomy, l’uso della polarizzazione nei raggi X ha fornito informazioni cruciali sulla geometria del materiale in prossimità del buco nero centrale. «Abbiamo scoperto che l’oggetto compatto è circondato da un involucro di materia densa e opaca», dice la ricercatrice. «La luce che osserviamo è un riflesso dalle pareti interne di un “imbuto” simile a una “tazza” con l’interno a specchio».

«Sapevamo che Cygnus X-3 è una sorgente particolare», aggiunge Fabio Muleri, primo ricercatore all’Inaf Iaps di Roma e secondo autore dell’articolo, «ma siamo comunque rimasti a bocca aperta quando l’abbiamo osservata con gli occhi di Ixpe, che ci hanno permesso per la prima volta di osservare la polarizzazione, ovvero il grado di ordine, dei raggi X che emette. Il valore misurato, pari a oltre il 20 per cento, non può essere spiegato con nessun modello applicabile alle altre sorgenti di questo tipo e quindi ne abbiamo dovuto sviluppare uno appositamente. Questo si basa sull’assunzione che non osserviamo la luce emessa direttamente, ma quella che arriva a noi dopo essere stata riflessa da un “muro” formato dalla materia che sta cadendo nel buco nero».

Questa scoperta ha portato alla classificazione di Cygnus X-3 come una sorgente di raggi X ultra-luminosa (Ulx): la sorgente riesce ad inghiottire così tanto gas così rapidamente che una parte di questo non viene catturata del buco nero, ma viene invece espulsa dal sistema stesso. «Le Ulx sono tipicamente osservate come puntini luminosi nelle immagini delle galassie lontane. Le loro emissioni sono amplificate dall’imbuto che circonda l’oggetto compatto, agendo perciò come un megafono», spiega Juri Poutanen, dell’Università di Turku, coautore della ricerca. «Tuttavia, a causa delle enormi distanze di queste sorgenti, esse appaiono relativamente deboli ai telescopi a raggi X. La nostra scoperta ha ora svelato un corrispettivo estremamente luminoso di queste lontane Ulx anche all’interno della nostra stessa galassia».

«La materia densa e opaca che porta a una polarizzazione così alta nei raggi X era stata osservata finora solo in buchi neri supermassicci, che hanno masse milioni di volte più grandi. Questo rende l’osservazione Ixpe di Cygnus X-3 unica», conclude Andrea Marinucci, ricercatore all’Asi, «poiché mette in relazione oggetti compatti di qualche massa solare con quelli più massicci al centro di galassie lontane come Circinus e Ngc 1068».

Per saperne di più:



I laghi e i mari di idrocarburi sulla luna Titano potrebbero essere modellati dalle onde l AstroSpace

I laghi e i mari di Titano potrebbero essere modellati dalle onde, che erodono le coste. Lo ha dimostrato uno studio che ha simulato come...#laghi #Sistemasolare #Titano



Il solstizio d’estate, tradizioni per l’uso


Il solstizio estivo è il momento più luminoso dell’anno, sia perché le giornate sono più lunghe, sia perché il Sole raggiunge il massimo di altezza sull'orizzonte. Da sempre si celebra questo passaggio con riti legati al fuoco e all’acqua, con i popoli no

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Crediti: Fabio Partenheimer/Pexels.com

La commedia di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate fu pubblicata per la prima volta nel 1600 – erano gli anni in cui Galileo stava per puntare il cannocchiale verso il cielo – e ha ispirato innumerevoli opere in ogni campo dell’arte attraversando i secoli fino ai nostri giorni.

Tuttavia, se alle nostre latitudini temperate chiediamo a chiunque per strada cosa intende per “mezza estate” – a meno che non faccia parte di una ristretta élite di cultori della materia, letteraria o astronomica poco importa – sarà probabile ricevere una risposta che punta sul mese di agosto. La logica ci porta infatti a considerare che, se l’estate astronomica comincia il 21 giugno e termina il 21 settembre, la mezza estate cadrà più o meno in quel periodo. Ma la realtà è che da noi il concetto di “mezza estate” non esiste.

Più saliamo di latitudine e più la presenza del Sole viene ritenuta importante e meno scontata che dalle nostre parti. La ragione non risiede solamente nel fatto che i popoli nordici soffrono di una insolazione minore perché i raggi solari arrivano di sbieco (come da noi al tramonto), ma anche e soprattutto nella variazione molto più ampia, rispetto a latitudini più meridionali, della durata del giorno e della notte durante tutto l’arco dell’anno. A Stoccolma, ad esempio, che si trova quasi a 60° di latitudine sopra l’equatore, d’estate si raggiungono le 18 ore di luce e 6 di buio, mentre a Roma in questi giorni stiamo sperimentando al massimo 15 ore di luce e 9 di buio. All’equatore, in qualsiasi momento dell’anno, il giorno dura 12 ore, esattamente come la notte.

Midsummer e solstizio estivo

È in questo contesto che nasce l’importanza di celebrare la stagione calda in modo profondo con le feste di “midsummer”, idea che per tutti i popoli nordeuropei (e affini) non conosce equivoci e rappresenta infatti sempre e solo una cosa: il solstizio estivo, ovvero il culmine – nel nostro emisfero – dell’illuminazione della terra, sia in quanto a ore di luce che ad altezza del sole sull’orizzonte e ampiezza dell’arco descritto in cielo. Ma per solstizio non dobbiamo intendere solo quel preciso istante che ogni anno tutti i media del mondo si affannano a pubblicare in ore, minuti e secondi. E nemmeno l’intera giornata del 21 giugno basterebbe a descrivere midsummer. Per le genti nordiche il solstizio rappresenta quello che è nella realtà: un momento di stasi, un vero e proprio “ozio solare” a cui viene data grande importanza.

Fuochi nella notte di San Giovanni

Queste feste nordiche sono chiaramente di origine pagana, ma sono state nel tempo assorbite dal cristianesimo (che in quel caso è di stampo protestante) per essere dedicate alla figura di Giovanni Battista, santo veneratissimo e famoso non solo per aver battezzato Cristo ma anche per essere protettore dell’agricoltura e unico santo di cui nei calendari liturgici cristiani si festeggia non solo la morte ma anche la nascita, stabilita appunto il 24 giugno.

Come per il Natale, la vera festa è tuttavia rappresentata da un’attesa che inizia il 21 giugno e culmina nella notte di vigilia tra il 23 e il 24, in cui riti cristiani e pagani si intrecciano con un unico comun denominatore: il fuoco, inteso sia come purificatore (non mancano infatti i fantocci infarciti di petardi sistemati sui falò, un po’ come a carnevale) che come aiuto e supporto a quel sole che, da questo momento, comincerà un’inesorabile retromarcia verso la parte buia dell’anno. In realtà anche l’acqua ha un suo ruolo, infatti nella notte di San Giovanni vengono raccolte tutte quelle tipiche erbe e infiorescenze estive – come timo, salvia, elicriso, rosmarino e tante altre – che andranno in infusione in acqua, possibilmente proprio rugiada dell’alba del 24 giugno, per renderla medicamentosa e magica. Per questo in ambienti esoterici e astrologici, a noi estranei, quello tra il fuoco e l’acqua viene considerato un vero e proprio sposalizio.

Ovviamente il culto di san Giovanni è molto sentito anche da noi. Intanto è patrono di ben tre grandi città come Genova, Firenze e Torino, e poi il culto del fuoco resta presente in tante province italiane. In molti centri nella Sardegna nordoccidentale si festeggia ancora con i fuochi, e in particolare ad Alghero, dove i falò vengono accesi, analogamente a molte località spagnole, sulla grande spiaggia del Lido – nomen omen – di san Giovanni. Chi salta il fuoco per tre volte mano nella mano con un amico diventa “compare” o “comare” per tutta la vita.

Il solstizio estivo 2024: perché il 20 e non il 21?

Volete sapere allora quando sarà il solstizio del 2024? Potreste averlo trovato ovunque nella rete, ma è nostro dovere dare questi importanti dettagli: il solstizio estivo, inteso nella sua perfezione di “sole più alto e giornata più lunga” sarà oggi 20 giugno alle ore 22:50 ora italiana. Vi starete chiedendo perché il 20 e non il 21 e la risposta non è semplice. Le date cambiano di anno in anno: ad esempio, dal 2001 al 2100 saranno 54 i solstizi al 21 giugno e 46 quelli al 20. Gli aggiustamenti vengono calcolati tenendo conto del fatto che anno solare (o tropico) e anno siderale sono leggermente diversi. Il primo considera lo stesso punto raggiunto dalla Terra rispetto al Sole di un anno prima. Il secondo invece considera le stelle fisse e non il Sole. Sta di fatto che ogni anno ci sono circa sei ore di avanzo, rispetto ai canonici 365 giorni, che vengono compensate con l’inserimento di un 29 febbraio ogni quattro anni – l’anno bisestile.

Ma non finisce qui perché, per via della forma ellittica dell’orbita terrestre, l’estate boreale coincide quasi perfettamente con una particolare posizione della Terra rispetto al Sole, ovvero l’afelio, che è il punto più lontano, a ben 152 milioni di km, e che avrà il culmine il prossimo 5 luglio. Quando la Terra è invece in perielio (a 147 milioni di km dal Sole) da noi è inverno e sotto l’equatore è estate. Attenzione, la distanza Terra-Sole non ha niente a che vedere con le stagioni ma è un parametro indipendente che non influisce, se non in minima parte, su clima e temperature. E che c’entra con le differenze nelle date del solstizio? Presto detto: per via della reciproca attrazione gravitazionale, quando siamo lontani dal Sole andiamo più lenti, quando siamo più vicini invece acceleriamo, e questo scombina non di poco i calcoli anche dei solstizi.

Se da qualche parte leggete che a questo cambio di date partecipa anche la precessione degli equinozi non credeteci: quella infatti riguarda sempre e solo il grande scenario di sottofondo in cui noi e il Sole ci stiamo muovendo per i fatti nostri, per cui la precessione cambia solo la posizione delle costellazioni nei punti vernali degli equinozi ma non influisce minimamente sui nostri affari solari.

Come funziona astronomicamente il solstizio?

Per rispondere in modo chiaro bisogna prenderla un po’ larga ma può essere divertente. Quando a un bambino si chiede dove sorga il Sole, la risposta non potrà essere che “ad est!”. Questa risposta di per sé non è sbagliata, ma il livello di precisione è analogo a quell’orologio fermo che segna l’ora giusta ben due volte al giorno. Perché noi adulti sappiamo che il Sole sorge perfettamente ad est e tramonta perfettamente a ovest solo in due giorni dell’anno, il 21 marzo e il 21 settembre, ovvero quelli degli equinozi di primavera ed autunno.

Tutto il resto dell’anno il Sole sorge e tramonta in posizioni diverse vagando tra un massimo nord (+23,5°) e un minimo sud (-23,5°) passando, appunto per gli equinozi (0°) come punti mediani. In totale, la somma di queste escursioni è di ben 47°: ciò significa che all’alba del solstizio d’inverno, il 21 dicembre, vedremo un pallido sole sorgere a sudest e che pian pianino risalirà l’orizzonte alba dopo alba per ben 47 gradi fino a raggiungere, il 21 giugno (o giù di lì) una posizione di nordest per il solstizio estivo. Per i tramonti sarà la stessa cosa: le traiettorie non si incrociano, per cui un sole che nasce basso a sudest tramonterà basso a sudovest, un sole che nasce ad est tramonterà ad ovest e un sole che nasce alto a nordest tramonterà alto a nordovest.

Volendo aggiungere un elemento poco conosciuto potremmo dire che sono due le circonferenze celesti – chiamate coluri – che, passando per i poli, determinano questi importanti punti fermi: il coluro equinoziale, che ha direzione est-ovest e passa per gli equinozi, e il coluro solstiziale che ha direzione nord-sud e passa per i solstizi e in particolare per i loro “primi” punti che vengono individuati d’estate dalla costellazione del Cancro, che inizia il 21 giugno, e d’inverno da quella del Capricorno che, specularmente, inaugura l’inverno il 21 dicembre. Ecco perché i tropici, ovvero i paralleli estremi nord e sud in cui i raggi solari raggiungono il suolo verticalmente durante i solstizi, sono dedicati a queste due costellazioni.

Ma perché, dunque, viviamo in un incessante ping pong tra maggior luce e maggior buio? I motivi sono due: il fatto che, come già detto, l’asse di rotazione della terra non è verticale ma inclinato dei fatidici 23,5° (ecco perché le escursioni, positive e negative, del Sole hanno quella misura) e, inoltre, la nostra posizione relativa al Sole cambia costantemente grazie al moto di rivoluzione. In altre parole l’obliquità dell’asse è sempre uguale ma non lo è la nostra posizione rispetto al Sole. Quindi, a seconda che ci troviamo da una parte o dall’altra della stella, sarà uno dei due poli ad essere più illuminato e l’altro in ombra. Scusate, ci abbiamo messo tanto ma era davvero tutto qui.



Troppo giovani per essere così fredde


La sonda Xmm-Newton dell'Esa e la sonda Chandra della Nasa hanno individuato tre giovani stelle di neutroni insolitamente fredde per la loro età. Confrontando le loro proprietà con diversi modelli di stelle di neutroni, gli scienziati hanno concluso che l

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Scavando nei dati delle missioni Xmm-Newton dell’Esa e Chandra della Nasa, gli scienziati hanno scoperto tre stelle di neutroni eccezionalmente giovani e fredde, da 10 a 100 volte più fredde delle loro coetanee. Confrontando le loro proprietà con i tassi di raffreddamento previsti da diversi modelli teorici, i ricercatori hanno dovuto escludere tre quarti di questi. Rimanendo così con un pugno di possibilità, fra le quali si celerebbe l’equazione giusta per comprendere, finalmente, quale sia la fisica che governa questi oggetti estremi ed esotici. I risultati sono pubblicati su Nature Astronomy.

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Infografica che spiega il contesto e i risultati dello studio. Le stelle di neutroni sono i nuclei compressi delle stelle di grande massa, che al termine della loro vita esplodono in supernove. Sono così dense che la quantità di materiale di una stella di neutroni in una zolletta di zucchero peserebbe quanto tutti gli abitanti della Terra. Gli scienziati non sono sicuri di cosa succeda alla materia quando viene schiacciata così tanto. Non possiamo guardare direttamente dentro una stella di neutroni. Invece, gli scienziati determinano le loro proprietà osservandole da lontano e confrontandole con diversi modelli di ciò che accade all’interno. Tutte le stelle di neutroni devono obbedire alle stesse leggi fisiche, quindi solo un modello può essere corretto. È quindi in corso la caccia all’equazione di stato della stella di neutroni che le governa tutte. Crediti: Esa

«La giovane età e la fredda temperatura superficiale di queste tre stelle di neutroni possono essere spiegate solo invocando un meccanismo di raffreddamento rapido», spiega Nanda Rea, astrofisica che ha coordinato il progetto all’Istituto di scienze spaziali (Ice-Csic) e all’Istituto di studi spaziali della Catalogna (Ieec), coautrice dell’articolo. «Poiché il raffreddamento rapido può essere attivato solo da alcune equazioni di stato, questo ci permette di escludere una parte significativa dei modelli possibili».

Le stelle di neutroni si classificano fra i cosiddetti “oggetti compatti”. Non sono stelle nel senso canonico del termine, poiché al loro interno non è attivo alcun processo di fusione nucleare e la materia al loro interno si trova spesso in condizioni estreme. Tanto che vengono chiamate, in gergo, stelle degeneri. Le stelle di neutroni sono quel che rimane di un nucleo stellare dopo l’esplosione in una supernova: dopo aver esaurito il combustibile, il nucleo della stella implode sotto la forza di gravità, mentre gli strati esterni vengono espulsi nello spazio. Il nome deriva dal fatto che, sotto questa immensa pressione, anche gli atomi collassano: gli elettroni si fondono con i nuclei atomici, trasformando i protoni in neutroni. La verità, però, è che la materia che collassa al centro di una stella di neutroni è talmente compressa che gli scienziati non sanno esattamente quale forma assuma, né riescono a prevedere esattamente come si comporti.

Per farlo, dovrebbero essere in grado di definire la cosiddetta “equazione di stato”, un modello teorico che descrive quali processi fisici possono verificarsi all’interno di una stella di neutroni, e al quale tutte – indipendentemente dalla loro massa, età, o dalle loro proprietà dinamiche – devono obbedire. Per ora ci sono ancora troppe possibilità aperte fra cui scegliere, ma aver trovato queste tre stelle così particolari potrebbe essere di grande aiuto.

Nello studio, le temperature delle stelle di neutroni sono state calcolate misurando l’emissione ai raggi X della loro superficie, mentre le dimensioni e le velocità dei resti di supernova circostanti hanno permesso di ricostruire precisamente la loro storia, e calcolarne l’età. Utilizzando diverse equazioni di stato che incorporano diversi meccanismi di raffreddamento, gli autori hanno poi calcolato le cosiddette “curve di raffreddamento”, che definiscono il modo in cui la luminosità di una stella di neutroni – e quindi la temperatura – cambia nel tempo. Confrontando poi queste previsioni con le misure, si sono resi conto che quasi nessun modello riusciva a spiegare il comportamento di queste tre stelle giovani e fredde.

Insomma, gli autori dell’articolo sono convinti di essere riusciti a fare un lungo passo in avanti verso la definizione dell’equazione che regola la fisica di questi oggetti compatti. Cosa, sottolineano, che ha anche importanti implicazioni per la comprensione delle leggi fondamentali dell’universo. O meglio, per la loro unificazione in un’unica grande legge. I fisici non sanno ancora come mettere insieme la teoria della relatività generale (che descrive gli effetti della gravità su grandi scale) con la meccanica quantistica (che descrive ciò che accade a livello di particelle), e le stelle di neutroni sono un eccellente laboratorio, poiché al loro interno raggiungono densità e gravità molto superiori a quelle che possiamo creare sulla Terra.

Per saperne di più: