Ecco come nascono le protostelle massicce
Cepheus A Hw2 è la protostella di circa 16 masse solari al centro dell’immagine. Le fasi turbolente successive alla sua nascita e le grandi masse di gas e polveri in gioco, creano due fenomeni perpendicolari tra loro: i getti di collimazione, che espellono sopra e sotto la protostella tutto ciò che essa non riesce a trattenere, e il disco di accrescimento che invece le invia continuamente gas e polveri e che si è potuto osservare grazie al tracciamento dell’ammoniaca (NH3) con il telescopio Vla. I colori del disco descrivono la velocità del gas localmente e sono codificati dalla scala colorata in basso. Crediti: A. Sanna et al.
Come si formano e come si accrescono le stelle di grande massa? Uno studio guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) affronta queste domande risolvendo per la prima volta un dibattito di lungo corso riguardante l’esistenza, o meno, di un disco di accrescimento attorno a Cepheus A Hw2, la seconda protostella supermassiccia più vicina al Sole, avente una massa di sedici volte quella della nostra stella. Grazie a osservazioni effettuate con i radiotelescopi del Jansky Very Large Array (Vla), il disco e i gas che si muovono al suo interno sono stati osservati con un dettaglio finora mai raggiunto. Le simulazioni di laboratorio hanno completato il quadro gettando così nuova luce su come le stelle giganti accumulino un’enorme massa proveniente dal disco di accrescimento durante i loro primi millenni di vita.
In ambito astronomico e divulgativo sentiamo spesso parlare delle supernove e del fatto che siano ciò che resta di incredibili esplosioni dovute al collasso di enormi stelle ormai esauste. Non è però comune sentir parlare di come queste stelle massicce, che per definizione hanno una stazza di almeno otto masse solari, riescano a formarsi e ad accrescere la loro massa quando sono ancora molto giovani. La risposta sta nell’esistenza e nelle proprietà del cosiddetto disco di accrescimento, ovvero una grande concentrazione di gas e polveri che gravita spiraleggiando intorno alle protostelle durante la loro formazione e le nutre aumentandone la massa. Il tutto, prima ancora che avvenga l’innesco di una fusione nucleare stabile che possa definirle come stelle vere e proprie.
Una delle questioni più intriganti discusse tra gli specialisti negli ultimi decenni è stata capire se i dischi di accrescimento fossero caratteristici solo di stelle medio-piccole come il Sole, che è una nana gialla, o se fossero in grado di sostenere anche gli enormi flussi di materia necessari ad accrescere una giovane stella decine di volte più massiccia della nostra.
A dissolvere questo dubbio è arrivato uno studio, appena pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che coinvolge una dozzina di centri di ricerca e università tra Usa, Europa e Sudamerica, tra cui quattro osservatori dell’Inaf: Cagliari, Arcetri (Firenze), Bologna e Napoli. Le osservazioni sono state eseguite con una potente rete di radiotelescopi che si trova negli Stati Uniti, il Jansky Very Large Array per osservare la radio-sorgente Cepheus A Hw2. Questa sorgente possiede alcune interessanti caratteristiche che la fanno ritenere una protostella piuttosto massiccia, tra l’altro molto osservata dagli astronomi negli ultimi 40 anni. Dista infatti solo 2300 anni luce da noi e ciò consente di poterla osservare con il Vla alla definizione minima di 100 unità astronomiche ovvero con un dettaglio sufficiente a individuarne il disco. Inoltre, Hw2 possiede una massa stimata in ben sedici volte quella del Sole.
Per poter verificare l’esistenza di un disco di accrescimento intorno a Hw2, risolvendone struttura e proprietà, il radiotelescopio americano – finanziato dalla National Science Foundation (Nsf) e gestito dal National Radio Astronomy Observatory (Nrao) – ha osservato la sorgente a una frequenza di circa 24 GHz, alla ricerca di un tracciante in particolare: l’ammoniaca interstellare (NH3). Questa molecola, così comune e utilizzata sulla Terra, è anche la prima molecola poliatomica (ovvero con tre o più atomi) rilevata al di fuori del Sistema solare e tra le più abbondanti specie presenti nelle comete.
Nel caso di Hw2 è stato dunque osservato un denso anello di ammoniaca calda che si estende per raggi che vanno da 200 a 700 unità astronomiche intorno alla stella e che mostra anche densità differenti da zona a zona. Per avere un facile riscontro, basti pensare che Nettuno, l’ultimo dei grandi pianeti gassosi, dista dal Sole circa 30 unità astronomiche, ovvero 30 volte la distanza Terra-Sole. Tuttavia queste distanze che oggi appaiono troppo piccole e impossibili da osservare su Hw2 con il Vla, potranno verosimilmente – come sottolinea Todd Hunter di Nrao – essere raggiunte nel giro di dieci anni con lo sviluppo del next generation Vla. Il comportamento dell’ammoniaca è stato poi direttamente confrontato con simulazioni di laboratorio effettuate da André Oliva, professore dell’Università e Space Research Center della Costa Rica, che hanno permesso di riprodurre le osservazioni spiegando allo stesso tempo la dinamica del gas attorno alla protostella.
I risultati confermano quindi che i dischi protostellari possono sostenere tassi di accrescimento di massa molto alti, anche quando la stella centrale ha già raggiunto una massa decine di volte superiore a quella del nostro Sole. «Le nostre osservazioni», dice Alberto Sanna, primo ricercatore dell’Inaf di Cagliari e primo autore dell’articolo scientifico, «forniscono una prova diretta che anche stelle massicce possono formarsi attraverso un disco di accrescimento fino a decine di masse solari. Hw2 è la seconda stella giovane e massiccia più vicina alla Terra e, da decine d’anni, costituisce un laboratorio privilegiato per mettere alla prova le attuali teorie sulla formazione stellare. In particolare, il nostro studio risolve un dibattito di lunga data sull’esistenza o meno di un disco di accrescimento attorno ad Hw2».
Questo studio ha consentito inoltre una misura diretta della quantità di gas e polveri che fluisce attorno alla stella, arrivando alla conclusione che la materia in “caduta libera” verso Hw2 ammonta a circa due masse del pianeta Giove all’anno, uno dei tassi più alti mai osservati, che corrisponde a una crescita ipotetica della stella pari a ben due masse solari ogni mille anni. Tuttavia, molte domande rimangono ancora aperte. «Se da una parte», puntualizza infatti Sanna, «i nostri risultati dimostrano che dischi circumstellari attorno a giovani stelle massicce sono in grado di sostenere gli alti tassi di accrescimento previsti dalla teoria, allo stesso tempo ci chiediamo: quanto di quell’enorme flusso di materia osservato diventerà effettivamente parte della massa finale della stella?».
Questo lavoro non solo migliora la nostra comprensione delle dinamiche che portano alla formazione delle stelle più massicce, ma ha anche implicazioni più ampie sull’evoluzione galattica e l’arricchimento chimico nell’universo. Sono proprio queste stelle extra large che, durante tutto il loro ciclo evolutivo ma in particolare nella turbolenta e catastrofica fase finale, disseminano le galassie di elementi pesanti e specie molecolari più complesse, creati proprio dalle immense temperature e pressioni che solo questi oggetti sono in grado di generare.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Gas infall via accretion disk feeding Cepheus A HW2”, di A. Sanna, A. Oliva, L. Moscadelli, C. Carrasco-González, A. Giannetti, G. Sabatini, M. Beltrán, C. Brogan, T. Hunter, J.M. Torrelles, A. Rodríguez-Kamenetzky, A. Caratti o Garatti e R. Kuiper
La settimana dedicata ai buchi neri
I buchi neri rappresentano gli oggetti cosmici più affascinanti e misteriosi. Molto studiati, addirittura “fotografati”, ma non ancora completamente capiti. D’altra parte, sono fisicamente inavvicinabili, nel senso che le leggi conosciute della fisica non riescono a spingersi oltre il confine definito dall’orizzonte degli eventi.
Per rendere loro omaggio, nel 2019 la Nasa ha istituito la Black Hole Week che cade la prima settimana di maggio, cioè questa. Nel corso di questa settimana, divulgatori scientifici di tutto il mondo condivideranno notizie, video e contenuti sui social media dedicati ai buchi neri. L’intento è quello di far sì che, ovunque le persone si trovino a rivolgere la loro attenzione ai social in questi giorni, incontrino – si fa per dire — un buco nero.
Anche Media Inaf si è impegnata a preparare qualcosa per i suoi lettori: cinque video, che usciranno uno al giorno durante tutta la settimana. Sono video che la Nasa ha pubblicato, in inglese, qualche anno fa. Quindi, se qualche record nel frattempo è stato battuto, non fateci troppo caso. Sembrerebbero video per bambini, un po’ giocosi, ma in realtà sono altamente informativi: molto brevemente e in modo efficace, presentano le peculiarità principali di questi curiosi oggetti cosmici.
Quando li ho visti per la prima volta, era un giovedì sera. Fanno parte di quella che la Nasa ha chiamato Guida sul campo ai buchi neri. Mi sono piaciuti molto: per i soggetti animati, per gli effetti sonori e per la narrazione. Ho notato il copyright e quindi ho scritto subito alla Nasa, lo stesso giovedì sera, per chiedere loro il permesso di tradurli in italiano, così come i file originali dove poter separare le tracce audio per mantenere i divertentissimi effetti sonori. Dopo nemmeno 24 ore è arrivata la loro risposta e, poco dopo, il materiale per procedere al confezionamento della versione italiana. In un periodo storico così complesso, questa dimostrazione di professionalità mi ha profondamente colpito e ha rafforzato in me la convinzione che scienza ed educazione debbano occupare un posto centrale e imprescindibile nella nostra società.
Guarda il primo video su Media Inaf Tv:
Inesorabile fine d’un pianeta con la coda
Un team di astronomi del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha recentemente scoperto un pianeta che è in fase di disintegrazione. Situato a circa 140 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione di Pegaso, BD+05 4868 Ab – questo il nome del piccolo corpo roccioso – ha una massa molto ridotta, compresa fra quella di Mercurio e quella della Luna, e orbita vicinissimo alla sua stella – BD+05 4868 A – completando una rivoluzione in appena 30.5 ore. Probabilmente il pianeta è ricoperto di magma e, nel corso dei suoi moti di rivoluzione, perde grandi quantità di minerali superficiali, che vanno via via a disperdersi nello spazio. I risultati delle ricerche verranno pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.
La scoperta è avvenuta analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa nell’ambito di una missione che studia stelle vicine alla ricerca di transiti, caratterizzati da decrementi periodici nella luminosità stellare originati dal passaggio di esopianeti in orbita. A catturare l’attenzione dei ricercatori è stato il fatto che, a ogni transito, il decremento della luminosità variava, sia in durata che in profondità: un comportamento assai peculiare.
Curve di luce acquisite da Tess dei transiti del pianeta BD+05 4868 Ab attorno alla sua stella. La lunga durata e la grande variabilità nella profondità del decremento di luminosità evidenziato dalle curve – segno della presenza di una coda di detriti – è il segnale che ha catturato l’attenzione dei ricercatori. Crediti: Marc Hon et al., ApJL, 2025
Mentre di solito si notano brevi e periodiche flessioni nella curva di luce di una stella quando si verifica un transito, in questo caso la luminosità di BD+05 4868 A impiega molto tempo per tornare alla normalità, indizio che suggerisce la presenza di una struttura a coda rilasciata dal pianeta. L’ipotesi più plausibile è che il corpo roccioso, mentre ruota attorno alla stella, si lasci alle spalle una lunga scia di detriti, simile alla coda in una cometa. «L’estensione della scia è davvero enorme: si estende fino a nove milioni di chilometri, ossia la metà dell’orbita del pianeta», dice il primo autore dello studio, Marc Hon, ricercatore del Mit.
Un altro aspetto significativo riguarda la variazione, a ogni orbita, dell’intensità della depressione nella curva di luce. Ciò indica che l’esopianeta non ha sempre la stessa forma e, dunque, perde materiale. In particolare, gli studiosi ritengono che il corpo celeste si stia disintegrando a ritmi spediti, rilasciando a ogni orbita una quantità di materiale pari alla massa del monte Everest. «È improbabile che la scia di detriti contenga gas volatili e ghiaccio: questi non sopravviverebbero a lungo a una distanza così ravvicinata dalla stella madre. Invece, i granuli minerali evaporati dalla superficie planetaria possono resistere a sufficienza da originare una coda simile», sottolinea Hon. Le stime effettuate dagli scienziati indicano che il pianeta stia bruciando a circa 1600 gradi Celsius: a tale temperatura, i minerali presenti evaporano e si raffreddano lentamente nello spazio, dando così vita alla lunga coda.
Il pianeta potrebbe andare incontro a una totale disintegrazione nell’arco di uno o due milioni di anni. I fattori alla base della previsione sulla sua fine sono due: la piccola massa e la tenue attrazione gravitazionale. «L’oggetto al centro degli studi è molto piccolo, con una debole gravità, quindi perde massa facilmente. Si tratta di un processo incontrollato e per il pianeta la situazione sta peggiorando sempre di più», spiega uno dei coautori dello studio, Avi Shporer, dell’Ufficio scientifico di Tess.
Rappresentazione artistica di un pianeta in disintegrazione in orbita attorno alla sua stella. Crediti: José-Luís Olivares, Mit
Con la scoperta di BD+05 4868 Ab, i pianeti in fase di disintegrazione noti agli studiosi salgono a quattro. I primi tre sono stati individuati più di un decennio fa tramite il telescopio spaziale Kepler della Nasa e anch’essi presentano code simili a quella di una cometa. Tra i quattro corpi celesti, è proprio BD+05 4868 Ab ad avere la scia di detriti più lunga e transiti decisamente più profondi. «Questi fattori implicano che la sua evaporazione sarà catastrofica e che svanirà più velocemente degli altri», conclude Hon.
La stella attorno a cui ruota il nuovo pianeta scoperto è piuttosto vicina a noi e abbastanza luminosa da poter essere osservata mediante il telescopio spaziale James Webb. È ciò che faranno la prossima estate Marc Hon e Nicholas Tusay, dottorando alla Penn State University, con l’obiettivo di determinare la composizione minerale della coda di polvere, ottenendo così informazioni sulle caratteristiche fisiche e sulla potenziale abitabilità di pianeti rocciosi situati al di fuori del Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal Letters “A Disintegrating Rocky Planet with Prominent Comet-like Tails Around a Bright Star”, di
Marc Hon, Saul Rappaport, Avi Shporer, Andrew Vanderburg, Karen A. Collins, Cristilyn N. Watkins, Richard P. Schwarz, Khalid Barkaoui, Samuel W. Yee, Joshua N. Winn, Alex S. Polanski, Emily A. Gilbert, David R. Ciardi, Jeroen Audenaert, William Fong, Jack Haviland, Katharine Hesse, Daniel Muthukrishna, Glen Petitpas, Ellie Hadjiyska Schmelzer, Norio Narita, Akihiko Fukui, Sara Seager e George R. Ricker
Equità e inclusione nella cultura scientifica
Prende il via lunedì 5 maggio, e fino al 7 maggio, all’Area della ricerca di Bologna, il meeting “Oltre i confini: equità e inclusione nella cultura scientifica”, il primo incontro formativo promosso dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) su temi cruciali come diversità, equità, accessibilità e inclusione. Ideato per avviare un momento di riflessione e confronto collegiale sul ruolo delle istituzioni scientifiche nell’essere luoghi realmente accoglienti e inclusivi, l’appuntamento vedrà la partecipazione di personale – sia esso amministrativo, tecnico, tecnologico o di ricerca – proveniente dalle 16 sedi dell’ente sparse sul territorio italiano.
La locandina del meeting
Le tre giornate offriranno una preziosa occasione di sensibilizzazione ospitando voci di spicco nel settore. Ad aprire l’evento, Francesca Vecchioni, presidente della Fondazione Diversity e ideatrice di progetti come i Diversity Media Awards e il Diversity Brand Summit, una delle principali promotrici della cultura dell’inclusione nei media, nelle aziende e nella società. Scrittrice e attivista, nel 2021 Vecchioni è entrata nelle “100 donne vincenti” di Forbes e lavora per sensibilizzare sui temi del linguaggio inclusivo, dello hate speech e dei diritti civili.
L’incontro non è solo una riflessione teorica, ma un’opportunità pratica per i partecipanti di acquisire strumenti concreti per promuovere l’inclusione e migliorare la cultura scientifica. I workshop interattivi e le attività di role-play saranno occasioni per esplorare situazioni reali e capire come affrontare in modo inclusivo e sensibile temi come la disabilità sensoriale e fisica, le discriminazioni di genere e le sfide legate all’accessibilità digitale. Si parlerà di normativa, progettazione europea e buone pratiche a livello nazionale e internazionale con Elena Mocchio dell’Ente italiano di normazione (Uni) e si entrerà nel vivo della discussione incrociata e del confronto diretto con esperti di alcuni casi particolari di discriminazione e barriere sociali.
Di barriere architettoniche si parlerà con Valentina Tomirotti, giornalista e attivista nel mondo della diversità e dell’inclusione; di accessibilità cognitiva e comunicativa tratterà Marco Pontis, esperto di neuro-divergenze dell’Università di Perugia. Multiculturalità, razzismo e discriminazione sono alcuni degli argomenti che affronterà Marianna Kalonda Okassaka: italiana di seconda generazione, nota anche come “Marianna The Influenza”, è social media manager della piattaforma Colory per la condivisione e lo scambio tra culture. Infine, Roberto Baiocco, professore della Sapienza Università di Roma, interverrà sul tema delle identità di genere, fondamentale per la promozione di politiche antidiscriminatorie nelle istituzioni pubbliche e scientifiche.
L’evento si inserisce in un momento storico particolarmente significativo, in cui la discussione sulla diversità e l’inclusione è tornata centrale nel dibattito politico e sociale globale. Organizzato dal gruppo di lavoro Inaf Univers@ll per l’equità nell’accesso alla cultura scientifica, in sinergia con il gruppo Gep (Gender Equality Plan) e il Cug (Comitato unico di garanzia) dell’ente, il meeting Inaf è concepito espressamente per il personale e si pone come un’iniziativa concreta e un evento strategico per contrastare le recenti tendenze e favorire una cultura scientifica che sappia abbracciare le diversità, creando un ambiente di lavoro che stimoli la parità e l’accessibilità per tutte le persone.
«L’idea è di promuovere l’equità nell’accesso alla cultura scientifica da una parte, e l’accoglienza e accessibilità delle istituzioni dall’altra per migliorare non solo l’ambiente di lavoro, ma anche la qualità della ricerca e della comunicazione scientifica. Crediamo fermamente che la complessità derivante dalla pluralità sia anche la più grande ricchezza, per l’autodeterminazione individuale e per il superamento di stereotipi e barriere, culturali, sociali o strutturali», dice una delle organizzatrici dell’evento, Stefania Varano, coordinatrice del gruppo Univers@ll. «In un contesto scientifico come il nostro, l’astronomia può diventare, oltre che studio e ricerca, anche un invito al dialogo universale che trascende confini ed etichette».
L’inquinamento luminoso a Loiano
L’inquinamento luminoso (in inglese, light pollution) è un problema ambientale crescente causato da un’illuminazione artificiale eccessiva e mal indirizzata, che altera gli ecosistemi, influisce sulla salute umana e ostacola le osservazioni astronomiche. Negli ultimi anni un importante cambiamento nella tecnologia dell’illuminazione pubblica stradale è stata la transizione dalle lampade al sodio a quelle a Led, che hanno una maggiore efficienza nel trasformare l’energia elettrica in luce e una maggiore durata. Nel corso del 2024, nel paese di Loiano (Bologna) – sul crinale appenninico settentrionale, a circa 37 chilometri da Bologna – è arrivata l’illuminazione pubblica basata sui Led, con la sostituzione dei vecchi lampioni al sodio.
Nell’immagine in falsi colori un confronto fra l’inquinamento luminoso prodotto da Loiano il 21 dicembre 2020 con la Luna al primo quarto (in alto) e il 26 dicembre 2024 senza Luna, dopo il recente passaggio all’illuminazione a Led (in basso). Le immagini sono state riprese dalla cupola del telescopio “Cassini” con la stessa reflex, sensibilità, obbiettivo e tempo di posa. L’intensità della luce riflessa dalle strade e dagli edifici è aumentata di un fattore 2. Gli alberi e il paesaggio debolmente illuminati nell’immagine del 2020 sono una conseguenza della luce lunare e non dell’inquinamento luminoso. Il risultato non dipende dal periodo natalizio, identiche immagine sono state ottenute nel mese di marzo 2025. Crediti: A. Carbognani
Uno degli obiettivi della sostituzione era l’abbattimento dell’inquinamento luminoso che, per un comune che ospita il secondo osservatorio astronomico sul territorio italiano, dovrebbe essere una priorità e motivo di orgoglio. Infatti, sul Monte Orzale, a circa 1460 metri in linea d’aria dalla piazza centrale del paese, si trova la Stazione astronomica di Loiano, che ospita il telescopio “G. D. Cassini”, un riflettore da 152 centimetri di diametro, e il recentissimo sistema di telescopi multipli Tandem (Telescope Array eNabling DEbris Monitoring). La stazione astronomica è gestita dall’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna dell’Inaf.
Con il “Cassini” e Tandem vengono svolte ricerche sulle orbite di satelliti e space debris, asteroidi near-Earth, transiti di pianeti extrasolari, nuclei galattici attivi, transienti ottici e un cielo buio è il migliore strumento di cui un osservatorio astronomico possa disporre: in base alla legge regionale contro l’inquinamento luminoso, la stazione astronomica di Loiano gode teoricamente di un’area di protezione con un raggio di 25 chilometri.
Dopo la transizione a Led, è stato fatto un test sull’inquinamento luminoso locale, riprendendo il paese nel dicembre 2024 dalla cupola del “Cassini” e confrontandola con un’analoga ripresa fatta nel dicembre 2020. Il confronto fra le due immagini mostra che Loiano era più buio con l’illuminazione al sodio. Purtroppo, anche se i corpi illuminanti dei lampioni pubblici dirigono il fascio di luce tendenzialmente verso il basso, sono poco schermati lateralmente e hanno un raggio d’azione molto ampio: non illuminano solo la strada, ma tutto quello che hanno attorno. Il risultato è che ora le strade principali e le facciate degli edifici appaiono molto illuminate e si comportano come giganteschi “specchi” che diffondono la luce verso il cielo e l’osservatorio.
Nel complesso, rispetto al 2020, si può stimare in un fattore due l’aumento dell’output luminoso verso l’osservatorio. Per verificare la situazione sono state effettuate misure con un luxmetro dell’illuminamento sulle strade, ossia il rapporto tra la potenza luminosa della sorgente di luce (il lampione) e la superficie che viene illuminata (la strada). L’illuminamento si misura in lux (simbolo lx).
Come riferimento bisogna tenere presente che la luce solare diretta produce un illuminamento di circa 50mila lux, mentre in una giornata nuvolosa si può scendere a 1000 lux, ma l’occhio se ne accorge poco della differenza perché la risposta agli stimoli è logaritmica e la sensazione di luminosità che si percepisce scende da 4,6 a 3. Per avere una stanza ben illuminata bastano 200 lux, per le strade principali 15 lux sono più che sufficienti per garantire la sicurezza, mentre per le strade secondarie bastano 5 lux.
Una mappa dell’illuminamento delle vie principali di Loiano. Le misure sono state fatte con un luxmetro la sera del 30 marzo 2025 fra le 21:15 e le 22:15 locali, in assenza di traffico veicolare e pedoni. I valori sono espressi in lux. Crediti: A. Carbognani
L’illuminamento è stato campionato per le vie principali di Loiano, SS 65 della Futa, Via Roma, centro del paese e Viale Marconi per un totale di 24 punti, sia sotto i lampioni, sia in mezzo alla strada. Dalle misure effettuate risulta che il centro del paese di Loiano è rimasto piuttosto buio, dove in effetti non c’è ancora stato il passaggio ai Led: l’illuminazione pubblica avviene ancora con le lampade al sodio e il contributo degli esercizi commerciali appare trascurabile. Il contributo maggiore all’inquinamento luminoso proviene dalle strade principali che, pur essendo deserte e con scarso flusso veicolare notturno, appaiono sovrailluminate e diffondono luce in tutte le direzioni.
In base alle misure a campione fatte la potenza elettrica usata per alimentare i lampioni a Led delle strade di Loiano appare elevata e andrebbe ridotta di circa un 50 per cento almeno per ritornare allo stato dell’inquinamento luminoso precedente. Per ridurre l’inquinamento luminoso rispetto alla situazione precedente bisognerebbe schermare meglio i lampioni e andare oltre questa soglia, per arrivare al 60-70 per cento, peraltro con un notevole risparmio sulla bolletta energetica. Come possibile soluzione alternativa andrebbe attenuata l’illuminazione del 50 per cento dopo un certo orario, ad esempio dalle 22 ora locale fino alle 4 del mattino, così da concedere una tregua all’osservatorio.
Marte nel Presepe a primavera
In assenza di Luna, ossia nei primi due giorni e dopo la metà del mese, il cielo di maggio permette ancora di godere dell’osservazione delle galassie, principalmente nelle costellazioni del Leone, della Vergine, nella Chioma di Berenice e dell’Orsa Maggiore. Ma questo mese è anche periodo per l’osservazione degli ammassi globulari che circondano la nostra galassia.
Marte e l’ammasso aperto M44 nei primi giorni di maggio 2025. Simulazione con software Stellarium
M13 in Ercole è il più appariscente, visibile con un binocolo, M92 sempre in Ercole, M3, M53 e M5 i primi osservabili. Ci annuciano che la Via Lattea, ossia il disco della nostra galassia, inizia a essere visibile in cielo.
Simulazione con software Stellarium
Chi ha a disposizione un binocolo nei primi giorni del mese potrà seguire il pianeta Marte che si avvicina prospetticamente all’ammasso aperto M44, o ammasso del Presepe, nella costellazione del Cancro. Il 3 e il 4 sarà presente anche la Luna, che da un lato potrà disturbare la vista ma dall’altro potrà essere anche un’aggiunta suggestiva alle osservazioni. Da osservare nella prima parte della notte, verso le 22, quando il cielo è già abbastanza buio da poter scorgere l’ammasso con facilità. Per chi invece è mattiniero, Venere e Saturno daranno spettacolo verso est e bassi sull’orizzonte, prima del sorgere del Sole. In particolare le mattine del 22, 23 e 24 del mese sarà presente anche la Luna, augurandoci la buona giornata. Un’occasione anche questa per scattare immagini del cielo con qualche particolare del paesaggio all’orizzonte.
Il mese di maggio ci delizia anche con lo sciame meteorico delle Eta Aquaridi, sciame originato dai passaggi della nota cometa di Halley. Con il massimo tra la notte tra il 5 e il 6 del mese, si tratta di meteore piuttosto rapide, con una velocità media di 65 km/s, che producono un’alta percentuale di scie persistenti. Pronti a esprimere un desiderio per l’estate!
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Una nuova veste per Vesta
Per decenni, gli scienziati hanno ipotizzato che l’asteroide Vesta – uno dei corpi celesti più grandi della fascia degli asteroidi – fosse un mondo mancato, cioè un oggetto celeste differenziato che non è mai riuscito a completare del tutto la propria evoluzione fino a diventare un vero e proprio pianeta. Questa ipotesi è emersa da studi precedenti basati sui dati gravitazionali raccolti dalla missione Dawn della Nasa, che ha rivelato la presenza sulla superficie dell’asteroide di rocce basaltiche, tipiche di corpi che hanno subito una differenziazione planetaria. Secondo il paradigma attuale sulla stratigrafia di Vesta, il corpo celeste sarebbe dunque composto da una crosta basaltica, un mantello mafico e un nucleo metallico, caratteristiche generalmente associate ai pianeti, appunto.
Immagine dell’asteroide Vesta acquisita da una distanza di circa 15mila km dalla sonda della Nasa Dawn in orbita attorno al corpo celeste dal 2011 al 2012. Crediti: Nasa / Jpl-Caltech / Ucla / Mps / Dlr / Ida
Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori guidato dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa mette ora in discussione questa visione della struttura a tre strati, e con essa l’origine stessa dell’asteroide. Secondo quanto riportato nell’articolo che descrive la ricerca, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy, Vesta avrebbe una struttura interna più omogenea, costituita da soli due strati, nessuno dei quali è assimilabile a un core. Niente nucleo, dunque, o se esiste, è estremamente piccolo, dicono i ricercatori.
«La mancanza di un nucleo è stata molto sorprendente», dice a questo proposito Seth Jacobson, scienziato della Michigan State University (Msu) e coautore dello studio. «Quello che ipotizziamo è un modo davvero diverso di pensare a Vesta».
Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno rielaborato alcuni dati raccolti dalla missione Dawn, la sonda della Nasa che tra il 2011 e il 2012 ha visitato Vesta. In particolare, gli scienziati si sono concentrati sul momento d’inerzia dell’asteroide, una misura di come la massa di un corpo è distribuita rispetto al suo asse di rotazione. Poiché i corpi con un nucleo denso presentano caratteristiche di rotazione differenti rispetto a quelli privi di nucleo, il momento d’inerzia rappresenta un parametro diagnostico fondamentale per valutare la distribuzione interna della massa di un corpo e, quindi, il grado di differenziazione del corpo stesso.
Utilizzando stime aggiornate del momento di inerzia di Vesta dedotte dall’analisi di vecchi dati della missione Dawn, il team di ricerca ha potuto misurare con precisione la rotazione e il campo gravitazionale di Vesta, scoprendo che l’asteroide non si comportava come un corpo dotato di nucleo, ma piuttosto come un oggetto composto da due soli strati: un strato inferiore ricco di metalli, solfuro e olivina, e uno strato superiore poroso di ortopirosseno ed eucrite.
«Per anni, i dati gravitazionali provenienti dalle osservazioni di Vesta effettuate dalla sonda Dawn hanno creato perplessità», ricorda il ricercatore del Jpl e primo autore dello studio, Ryan Park. «Dopo quasi un decennio di perfezionamento delle nostre tecniche di calibrazione e di elaborazione, abbiamo ottenuto una straordinaria corrispondenza tra i dati radiometrici del Deep Space Network e le immagini acquisite dalla sonda Dawn. I nostri risultati mostrano che la storia dell’asteroide è molto più complessa di quanto si credesse in precedenza, modellata da processi unici come la differenziazione planetaria interrotta e collisioni tardive».
La nuova visione di Vesta con una struttura a due strati, come dicevamo, mette in discussione l’ipotesi precedente circa l’origine dell’asteroide. Alla luce di questi nuovi risultati, quale potrebbe essere dunque la natura dell’asteroide? I ricercatori avanzano due ipotesi, entrambe – sottolineano – da approfondire ulteriormente. La prima è che Vesta sia un corpo celeste non completamente differenziato: un corpo, cioè, che avrebbe avviato il processo di fusione necessario per formare strati distinti – nucleo, mantello e crosta – senza però completarlo. La seconda ipotesi è che sia il frammento di un pianeta in crescita nel Sistema solare primordiale.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, sebbene una differenziazione incompleta sia plausibile, questa non è coerente con la struttura dei meteoriti raccolti finora dagli scienziati, osservano i ricercatori «Siamo davvero certi che questi meteoriti provengano da Vesta», sottolinea Jacobson. «E nessuno di essi mostra evidenti prove di differenziazione incompleta».
L’ipotesi più plausibile, ma ancora tutta da dimostrare, sarebbe dunque la seconda. In questo caso, spiegano i ricercatori, quello che potrebbe essere successo è che, durante la formazione dei pianeti rocciosi, si siano verificate colossali collisioni. Questi scontri da un lato hanno favorito la crescita planetaria, dall’altro hanno prodotto detriti d’impatto. Tra questi detriti espulsi avrebbero potuto esserci frammenti di crosta e mantello fusi privi di nucleo. Vesta potrebbe essere uno di essi.
«I risultati di questo studio hanno implicazioni sulla formazione di Vesta, sia su quando questo asteroide si sia formato sia sul processo di formazione», dice a Media Inaf la responsabile scientifica dello spettrometro a immagine Vir (Visual and Infrared Spectrometer) a bordo di Dawn, Maria Cristina De Sanctis, ricercatrice all’Inaf di Roma non coinvolta nello studio, che abbiamo raggiunto per un commento. «Vesta è considerato il più antico oggetto del Sistema solare, poiché possiamo datare con certezza le meteoriti provenienti da Vesta e quindi sappiamo quando queste si sono formate. Le precedenti ricerche hanno teorizzato un corpo differenziato, con una crosta, un mantello ed un nucleo. La nuova analisi indica un corpo debolmente differenziato, che può suggerire sia che Vesta si sia formata più tardi di quanto precedentemente ipotizzato, sia che sia formata dalla collisione catastrofica di un altro oggetto completamente differenziato. Le due ipotesi sono piuttosto diverse e non abbiamo ancora elementi per propendere per una delle due. L’analisi di dati acquisti oltre dieci anni fa», continua la ricercatrice, «indica come anche dati non “nuovissimi” possano rivelare grosse sorprese. In questo senso, l’analisi dei dati di Dawn, e in particolare dello strumento italiano Vir, che è stato a leadership Inaf Iaps Roma, continua nel tempo e potrebbe dare delle nuove indicazioni sulla storia evolutiva di Vesta».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A small core in Vesta inferred from Dawn’s observations” di R. S. Park, A. I. Ermakov, A. S. Konopliv, A. T. Vaughan, N. Rambaux, B. G. Bills, J. C. Castillo-Rogez, R. R. Fu, S. A. Jacobson, S. T. Stewart e M. J. Toplis
Foto di gruppo con galassie
Un po’ come gli umani sulla Terra, anche le galassie nell’universo tendono ad aggregarsi in gruppi formati da decine di unità e, su scala più grande, in ammassi ancora più vasti. Oltre alle galassie stesse, questi grossi agglomerati cosmici raccolgono enormi quantità di gas diffuso, con temperature di decine o centinaia di milioni di gradi, e ancor più grandi quantità di invisibile materia oscura. La maggior parte delle galassie risiede in gruppi galattici con massa inferiore a centomila miliardi di masse solari.
Il gruppo di galassie più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, osservato nell’infrarosso con i telescopi spaziali Webb e Hubble. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Gozaliasl, A. Koekemoer, M. Franco, and the Cosmos-Web team
Ne è un esempio il gruppo di galassie selezionato dall’Agenzia spaziale europea (Esa) per l’immagine del mese di aprile del telescopio spaziale James Webb (Jwst). Si tratta del gruppo più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, un pezzetto di cielo un po’ più grande della luna piena, in direzione della costellazione del Sestante, oggetto di una survey dettagliata con Jwst che continua il lavoro portato avanti sul più ampio campo Cosmos dai telescopi spaziali Hubble, Xmm-Newton e altri osservatori.
Questo gruppo di galassie – che vediamo com’era sei miliardi e mezzo di anni fa, quando l’universo aveva circa la metà della sua età attuale – è alquanto prominente nel campo Cosmos-Web, dove è stato catalogato con il numero 1. La concentrazione maggiore di galassie si trova subito sotto il centro dell’immagine. Qui si riconoscono alcune galassie di forma rotondeggiante, dai colori giallo e oro.
L’immagine, che combina osservazioni realizzate nel vicino infrarosso con Jwst con dati d’archivio raccolti nel visibile con Hubble, mostra una ricca gamma di colori e racchiude una vasta varietà di scale cosmiche: dalle stelle della nostra galassia, la Via Lattea, caratterizzate dalla tipica forma a sei punte, fino a galassie vicine e lontane, che si trovano a distanze anche maggiori rispetto allo stesso gruppo di galassie. Si possono distinguere galassie a spirale, dischi galattici dall’aspetto un po’ distorto, galassie ellittiche dalla forma più regolare e segni di interazioni galattiche. Le galassie che appaiono con colori più blu sono popolate da stelle giovani, mentre quelle più rosse tendono a essere popolate da stelle più vecchie. Il colore rosso è anche un indicatore della distanza, in quanto l’espansione dell’universo “arrossa” la luce proveniente da sorgenti più lontane.
In una seconda immagine, le osservazioni nell’infrarosso sono state combinate con i dati raccolti nei raggi X dagli osservatori spaziali Xmm-Newton e Chandra (mostrati in viola). Qui si può ammirare la distribuzione del gas caldo diffuso che pervade lo spazio tra le galassie del gruppo, concentrato anch’esso nella parte inferiore dell’immagine.
Il gruppo di galassie più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, osservato con i telescopi spaziali Webb e Hubble nell’infrarosso e con Xmm-Newton e Chandra nei raggi X (questi ultimi in viola). Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Gozaliasl, A. Koekemoer, M. Franco, and the Cosmos-Web team
Il gruppo ritratto in queste immagini è uno dei 1678 identificati nel campo Cosmos-Web in uno studio guidato da Greta Toni, dottoranda in astrofisica presso l’Università di Bologna, nell’ambito del team dedicato ai gruppi galattici coordinato da Ghassem Gozaliasl delle università di Aalto e Helsinki, in Finlandia. Si tratta del catalogo di gruppi di galassie più grande ottenuto finora dai dati di Jwst utilizzando il software Amico (Adaptive Matched Identifier of Clustered Objects), che è stato sviluppato da Matteo Maturi dell’Università di Heidelberg, in Germania.
La survey Cosmos-Web, con 255 ore di osservazioni usando lo strumento NirCam a bordo di Jwst, è un treasury programme del telescopio spaziale, un programma ambizioso che cerca di rispondere a diverse domande fondamentali sull’universo. Spingendo la ricerca di gruppi galattici fino a quasi dodici miliardi di anni fa, il progetto ha tre obiettivi principali: identificare le galassie durante l’epoca della reionizzazione; indagare la formazione delle galassie più massicce del cosmo; e comprendere come la relazione tra la massa delle stelle di una galassia e la massa del suo alone galattico esteso si evolve nel corso della storia cosmica.
Guarda il servizio con l’intervista a Greta Toni su MediaInaf Tv:
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Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The Cosmos-Web deep galaxy group catalog up to z=3.7” di Greta Toni, Ghassem Gozaliasl, Matteo Maturi, Lauro Moscardini, Alexis Finoguenov, Gianluca Castignani, Fabrizio Gentile, Kaija Virolainen, et al.
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Cosmos-Web: An Overview of the Jwst Cosmic Origins Survey” di C. Casey et al.
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Amico galaxy clusters in Kids-Dr3: sample properties and selection function” di M. Maturi et al.
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Chandra centres for Cosmos X-ray galaxy groups: differences in stellar properties between central dominant and offset brightest group galaxies” di G. Gozaliasl, A. Finoguenov, et al.
Game-over per la cometa Swan
In una precedente news vi avevamo parlato della cometa C/2025 F2 (Swan) dicendo che avrebbe raggiunto il perielio il 1° maggio con una magnitudine di +5 e un discreto periodo di osservabilità. La cometa avrebbe dovuto essere visibile di sera, alle 21 locali, a circa 11° gradi di altezza sull’orizzonte ovest, nella costellazione del Toro. Sappiamo che il nucleo di una cometa è un blocco di roccia e ghiaccio e che durante l’avvicinamento al Sole la sublimazione della componente volatile aumenta drasticamente per effetto del calore solare. La Swan non aveva fatto eccezione a questa regola, anzi il 5 aprile era stato osservato un outburst ossia un aumento temporaneo di luminosità della chioma, indice di un aumento dell’emissione di gas e polveri nello spazio. All’epoca la chioma della cometa si presentava con il caratteristico colore verde dovuto all’emissione delle bande di Swan della molecola biatomica del carbonio, segno che la chioma era più ricca di gas rispetto alle polveri.
La cometa Swan, ripresa il 28 aprile alle 20:03 UTC da Andrea Aletti e Federico Bellini della Società Astronomica “G. V. Schiaparelli” di Varese, usando un telescopio Schmid-Cassegrain da 35 cm di diametro. Come si vede la condensazione centrale è del tutto assente, è rimasta solo la chioma con un accenno di coda che si sta dissolvendo
L’outburst del 5 aprile però deve essere stato troppo intenso per l’integrità strutturale del nucleo, e a partire dal 16 aprile la cometa ha iniziato a indebolirsi perdendo la condensazione centrale, ossia la parte più interna e luminosa della chioma, indice di una frammentazione del nucleo. Al momento la cometa Swan brilla attorno alla magnitudine +8, con la luminosità che tende a diminuire invece di salire per l’avvicinarsi del perielio come accade nelle comete “sane”. Quello che resta della cometa si disperderà definitivamente nello spazio.
La disintegrazione di un nucleo cometario durante il passaggio al perielio è un evento abbastanza comune, specialmente fra le comete di piccole dimensioni e quelle che fanno il passaggio per la prima volta. Le cause della disintegrazione possono essere diverse. Si va dallo stress termico, alla forza di marea esercitata dal Sole, all’instabilità rotazionale oppure alla debolezza strutturale. Lo stress termico si verifica a causa del riscaldamento solare che genera una rapida sublimazione dei ghiacci: se la pressione interna del nucleo aumenta troppo rapidamente, può causarne la rottura. La forza di marea è una conseguenza della diversa forza di gravità avvertita da zone opposte del nucleo mentre passa radente il Sole, ma la Swan si è disintegrata quando era a circa 200 milioni di km dalla nostra stella e la forza di marea in questo caso era nulla. L’instabilità rotazionale invece è dovuta a un degassamento asimmetrico del nucleo che può ruotare sempre più velocemente fino a superare il valore della spin-barrier che per un nucleo cometario a bassa densità media vale circa 3,5-4 ore. Se il periodo diminuisce sotto questa soglia si verifica la rottura. Infine, la frammentazione può essere una conseguenza della semplice debolezza strutturale: il nucleo cometario può avere una forza di coesione talmente debole che basta l’aumento dell’attività di sublimazione per disperderne nello spazio i blocchi che lo compongono. Probabilmente questo è stato il fato della Swan.
AtLast, una parabola da 50 metri sulle Ande cilene
Grazie agli oltre cinquemila metri sul livello del mare, alla lontananza di altre fonti luminose e al bassissimo tasso di umidità dell’aria, il cielo del deserto di Atacama, nelle Ande cilene, è universalmente riconosciuto come il migliore per le osservazioni astronomiche. È in questo scenario unico, già sede di numerosi strumenti astronomici, che un consorzio internazionale coordinato dall’astrofisica italiana Claudia Cicone, oggi all’Università di Oslo, ha in mente di costruire AtLast (Atacama Large Submillimeter Telescope), un radiotelescopio rivoluzionario sotto molteplici aspetti. Dopo aver beneficiato di fondi Horizon 2020, il progetto – presentato in uno studio pubblicato a febbraio 2025 – inaugura la “fase due” con fondi della nuova programmazione europea.
A sinistra il Sardinia Radio Telescope (64 metri di diametro) nel territorio di San Basilio, in Sardegna. A destra un rendering del telescopio AtLast (50 metri di diametro) nel sito in cui ne è prevista l’effettiva costruzione, il plateau del Chajnantor nel deserto di Atacama, in Cile. Crediti: Mroczkowski et al. (2025)., C. Cicone (UiO/AtLast), P. Soletta (Inaf)
Partendo dall’aspetto ambientale, AtLast si pone l’ambizioso obiettivo di diventare la prima grande facility astronomica energeticamente autosufficiente (o quasi) grazie all’utilizzo di fonti rinnovabili come l’energia solare e l’idrogeno per far fronte all’importante consumo di elettricità. Il tutto senza danneggiare il vicino villaggio di San Pedro de Atacama e, anzi, studiando modi di fornire il surplus di energia anche ai suoi abitanti. Quando si pensa a un telescopio, infatti, occorre considerare che il dispendio energetico non è soltanto quello relativo ai movimenti meccanici, alla presenza dei ricercatori o ai potenti computer che lavorano sui dati: un aspetto fondamentale è anche quello del raffreddamento dei ricevitori criogenici, che devono lavorare a temperature bassissime per poter ricevere un segnale il più possibile pulito.
La coordinatrice del progetto AtLast, Claudia Cicone dell’Università di Oslo, presenta i risultati dello studio preliminare sul telescopio con parabola da 50 metri che si vorrebbe realizzare in Cile. Crediti: Martina D’Angelo (UiO/AtLast)
Poi c’è l’aspetto fondante, quello scientifico, che nasce da un’esigenza che la comunità astronomica manifesta già da molto tempo: la possibilità di osservare onde elettromagnetiche sub millimetriche con una grande parabola singola. «Stiamo lavorando», spiega Claudia Cicone a Media Inaf, «affinché AtLast sia la migliore infrastruttura astronomica da terra del futuro: un osservatorio sub-millimetrico tecnologicamente raffinato che permetterà all’intera comunità astrofisica di realizzare scoperte ad alto impatto scientifico per il prossimi 50 anni, e allo stesso tempo la prima infrastruttura astronomica che pone la sostenibilità ambientale e sociale come priorità al pari del potenziale scientifico».
L’idea alla base di AtLast è dunque poter costruire un grande radiotelescopio dotato di parabola in grado di muoversi sia di lato che in altezza (movimento altazimutale) per poter inseguire oggetti sulla volta celeste e osservarli a frequenze molto alte, oltre le onde radio alle quali osservano di solito i radiotelescopi. L’obbiettivo è arrivare all’intervallo tra microonde e raggi infrarossi, caratterizzato da lunghezze che vanno da un centimetro a 0,3 millimetri. Tradotto in frequenza: da 35 a 950 GHz.
Allo stato attuale, i radiotelescopi più grandi (fino a cento metri di diametro della parabola) in grado di muoversi possono osservare onde elettromagnetiche la cui lunghezza non può scendere sotto i 2 o 3 millimetri – ovvero circa 100 GHz (o poco oltre) in frequenza. Il limite è dato dalle deformazioni dovute al peso stesso di queste grandi parabole, che ne fa collassare la superficie, sebbene alcuni (pochi) siano dotati di sistemi di correzione. Osservare onde di lunghezza inferiore non è impossibile, ma per farlo, a oggi, occorre utilizzare reti più o meno estese composte da molti radiotelescopi più piccoli la cui superficie, pur raccogliendo singolarmente meno segnale, è più difficilmente deformabile e quindi mette meglio a fuoco gli oggetti lontani. Un esempio virtuoso, non a caso anch’esso costruito in Cile, è l’array di telescopi Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) dell’Eso, che tuttavia ha alcune limitazioni che una parabola singola potrebbe superare.
Sergio Poppi, responsabile delle operazioni (RdO) del Sardinia Radio Telescope dell’Inaf, spiega le caratteristiche del radiotelescopio ai colleghi presenti al primo meeting di AtLast2 a Cagliari. Crediti: Martina D’Angelo (UiO/AtLast)
L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è partner del consorzio di AtLast grazie all’expertise maturata nella gestione e nell’utilizzo del Sardinia Radio Telescope (Srt) di San Basilio, in Sardegna e, ancora prima, con le antenne Grueff e Croce del Nord di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa). Il radiotelescopio sardo – che vede la diretta partecipazione ad AtLast con il responsabile delle operazioni, Sergio Poppi – si caratterizza per essere uno tra i più performanti, principalmente per due motivi. Anzitutto, Srt è dotato di una parabola di 64 metri di diametro (grande ma non estrema) dotata di superficie attiva, cioè composta da circa mille pannelli gestiti da un sistema di pistoni idraulici (attuatori) che li possono far muovere correggendo così le deformazioni dovute a gravità e temperatura. Inoltre ospita un invidiabile set osservativo composto di una dozzina di ricevitori interscambiabili tra loro per poter osservare lo stesso oggetto a frequenze molto diverse (da 0,3 a 110 GHz, ovvero onde da un metro a tre millimetri) e con cambi automatizzati (in inglese frequency agility).
Il potenziale dei ricevitori si Srt è stato raggiunto alla fine del 2023 con la conclusione di un progetto Pon da quasi venti milioni di euro coordinato dall’astrofisica Federica Govoni, attuale direttrice dell’Inaf di Cagliari. Questo importante upgrade ha fornito proprio i ricevitori alle frequenze più alte, fino a 100 GHz, con alcuni dei quali è stata appena realizzata la “prima luce”, le cui osservazioni verranno divulgate a breve e che serviranno con tutta probabilità anche come banco di prova iniziale per testare la collaborazione con AtLast. Le frequenze osservative più basse previste per quest’ultimo, infatti, sono quelle più alte a cui è in grado di osservare Srt: per questo sarà interessante vederli lavorare insieme. Non è un caso, dunque, che il primo meeting della fase due del progetto AtLast sia in corso in questi giorni, dal 28 al 30 aprile, proprio a Cagliari, dove si sono riuniti molti degli oltre 140 scienziati del consorzio.
Una nuova origine per l’oro e altri elementi pesanti
L’universo primordiale era formato da idrogeno, elio e una scarsa quantità di litio: questi elementi, i più leggeri della tavola periodica, risalgono ai primi, fatidici minuti della storia cosmica. In seguito, molti altri elementi più pesanti, tra cui il ferro, sono stati forgiati all’interno delle stelle. E quelli ancora più pesanti, come l’oro? Questo è uno dei più grandi misteri dell’astrofisica.
Illustrazione di un brillamento gigante di magnetar. Le linee di campo magnetico sono indicate in verde. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
«È una domanda piuttosto fondamentale per quanto riguarda l’origine della materia complessa nell’universo», afferma Anirudh Patel, dottorando alla Columbia University di New York. «È un enigma interessante che in realtà non è stato risolto». Patel ha condotto uno studio utilizzando dati d’archivio di venti anni fa provenienti dai telescopi della Nasa e dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che ha trovato prove di una fonte sorprendente di questi elementi pesanti, per giunta in grande quantità: i brillamenti delle magnetar, le stelle di neutroni altamente magnetizzate. Lo studio è stato pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters.
Gli autori dello studio stimano che le gigantesche esplosioni delle magnetar potrebbero contribuire fino al dieci per cento dell’abbondanza totale di elementi più pesanti del ferro nella nostra galassia, la Via Lattea. Poiché le magnetar sono apparse relativamente presto nella storia di evoluzione stellare dell’universo, i primi nuclei di oro potrebbero esser stati prodotti proprio in questo modo. «Si tratta della risposta a una delle domande del secolo, la soluzione di un mistero utilizzando dati d’archivio che erano stati dimenticati», aggiunge Eric Burns, astrofisico presso la Louisiana State University di Baton Rouge e coautore dello studio.
Come si produrrebbe l’oro in una magnetar?
Le stelle di neutroni sono i nuclei collassati di stelle esplose. Sono così dense che un cucchiaino di materiale di una stella di neutroni, sulla Terra, peserebbe fino a un miliardo di tonnellate. Una magnetar è una stella di neutroni con un campo magnetico estremamente potente. In rare occasioni, le magnetar rilasciano un’enorme quantità di radiazioni ad alta energia quando subiscono un terremoto stellare (in inglese: starquake, letteralmente: stellamoto), che frattura la crosta della stella di neutroni proprio come un terremoto terrestre. I terremoti stellari potrebbero anche essere associati ai brillamenti giganti di magnetar, espulsioni di radiazione così potenti da avere un impatto persino sull’atmosfera terrestre. Solo tre brillamenti giganti di magnetar sono stati osservati nella Via Lattea e nella vicina Grande Nube di Magellano, e sette all’esterno.
Patel e colleghi, tra cui il suo relatore Brian Metzger, professore alla Columbia University e ricercatore senior presso il Flatiron Institute di New York, hanno riflettuto su una possibile corrispondenza tra la radiazione proveniente dai brillamenti giganti e la formazione di elementi pesanti in quel luogo. Ciò avverrebbe attraverso il cosiddetto “processo r” (dove la ‘r’ sta per rapido), che mediante la cattura di neutroni trasforma i nuclei atomici più leggeri in nuclei più pesanti.
Infografica che illustra come i brillamenti giganti di magnetar producono elementi pesanti.
Credit: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
I protoni definiscono l’identità di un elemento nella tavola periodica: l’idrogeno ha un protone, l’elio ne ha due, il litio tre, e così via. I nuclei atomici contengono anche neutroni, che non influenzano l’identità dell’elemento, ma contribuiscono alla sua massa. A volte, quando un nucleo cattura un neutrone in più, può diventare instabile e si verifica un processo di decadimento nucleare che converte un neutrone in un protone: in questo modo, cambia l’identità dell’elemento in questione, avanzando di una casella nella tavola periodica. Per esempio, un nucleo d’oro (caratterizzato da 79 protoni) potrebbe assorbire un neutrone in più e poi trasformarsi in mercurio (che di protoni ne ha 80).
L’ambiente di una stella di neutroni perturbata è straordinario. Qui, la densità dei neutroni è così elevata che accade qualcosa di ancora più strano: singoli nuclei atomici possono catturare rapidamente così tanti neutroni da subire decadimenti multipli, portando alla creazione di un elemento molto più pesante, come l’uranio.
Quando gli astronomi hanno osservato la kilonova derivante dalla collisione di due stelle di neutroni nel 2017 combinando i dati dell’osservatorio di onde gravitazionali Ligo-Virgo con quelli dei telescopi spaziali Nasa Fermi ed Esa Integral, hanno confermato che questo evento avrebbe potuto creare oro, platino e altri elementi pesanti. Ma le fusioni tra stelle di neutroni avvengono troppo tardi nella cronologia cosmica per spiegare la formazione dell’oro e di altri elementi pesanti nelle ere più antiche dell’universo. Una recente ricerca condotta dai coautori del nuovo studio – Jakub Cehula della Charles University di Praga, Todd Thompson della Ohio State University e Metzger – ha scoperto che i brillamenti delle magnetar possono riscaldare ed espellere materiale dalla crosta delle stelle di neutroni ad alta velocità, rendendole una potenziale sorgente di questi elementi.
Alla scoperta di segreti in vecchi dati
Inizialmente, Metzger e colleghi pensavano che la firma derivante dalla creazione e distribuzione di elementi pesanti in una magnetar sarebbe apparsa nella luce visibile e ultravioletta, e avevano pubblicato le loro previsioni. Poi Burns, in Louisiana, si chiese se potesse esistere anche un segnale nei raggi gamma sufficientemente intenso da essere rilevato. Chiese a Metzger e Patel di verificare la cosa, e loro scoprirono che poteva effettivamente esistere una firma del genere. «A un certo punto, ci siamo detti: ‘ok, dovremmo chiedere agli astronomi osservativi se ne hanno vista qualcuna’», ricorda Metzger.
Così Burns ha consultato i dati sui raggi gamma del più recente brillamento gigante osservato, nel dicembre 2004. Si è reso conto che, sebbene la fase iniziale dell’esplosione fosse stata ben spiegata, un team di ricercatori guidati da Sandro Mereghetti dell’Istituto nazionale di astrofisica a Milano aveva identificato anche un segnale più piccolo proveniente dalla magnetar, nei dati di Integral, una missione Esa recentemente terminata. «Fu notato all’epoca, ma nessuno aveva idea di cosa potesse trattarsi», nota Burns.
Il satellite Integral. Crediti: Esa
Burns pensava che lui e Patel lo stessero prendendo in giro, racconta Metzger, perché la previsione del modello sviluppato dal loro team somigliava molto al segnale misterioso visto nei dati del 2004. In altre parole, il segnale di raggi gamma rilevato oltre venti anni fa corrispondeva a quello che dovrebbe apparire quando gli elementi pesanti vengono creati e poi distribuiti in un brillamento gigante di una magnetar. Patel era così emozionato da non riuscire a pensare ad altro per le due settimane successive. «Era l’unica cosa che avevo in mente», commenta. I ricercatori hanno corroborato le loro conclusioni utilizzando i dati di altre due missioni della Nasa, dedicate allo studio della fisica solare: la missione Rhessi (Reuven Ramaty High Energy Solar Spectroscopic Imager), ormai in pensione, e il satellite Wind, ancora operativo, che avevano anch’essi osservato il brillamento gigante di magnetar all’epoca.
Prossimi passi nella corsa all’oro delle magnetar
La futura missione Cosi (Compton Spectrometer and Imager) della Nasa, un telescopio a raggi gamma con un grande campo di vista, potrà dare seguito a questi risultati. La missione, il cui lancio è previsto per il 2027, studierà fenomeni energetici nel cosmo, tra cui i brillamenti giganti delle magnetar, e potrà identificare i singoli elementi creati in questi eventi, fornendo un ulteriore passo avanti nella comprensione dell’origine dei nuclei atomici più pesanti. I ricercatori analizzeranno anche altri dati d’archivio per cercare possibili segreti nascosti nelle osservazioni di altri brillamenti giganti di magnetar. «È molto interessante pensare a come alcuni materiali presenti nel mio telefono o nel mio computer portatile siano stati forgiati in queste esplosioni estreme nel corso della storia della nostra galassia», conclude Patel.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Direct evidence for r-process nucleosynthesis in delayed MeV emission from the SGR 1806-20 magnetar giant flare” di Anirudh Patel, Brian D. Metzger, Jakub Cehula, Eric Burns, Jared A. Goldberg e Todd A. Thompson
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Dynamics of baryon ejection in magnetar giant flares: implications for radio afterglows, r-process nucleosynthesis, and fast radio bursts” di Jakub Cehula, Todd A Thompson, Brian D Metzger
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The First Giant Flare from SGR 1806–20: Observations Using the Anticoincidence Shield of the Spectrometer on Integral” di S. Mereghetti, D. Götz, A. von Kienlin, A. Rau, G. Lichti, G. Weidenspointner, e P. Jean
- Leggi su Media Inaf l’articolo “A volte ritornano: il brillamento gigante del 2004”, di Claudia Mignone
E se anche l’universo ruotasse?
Tutti gli oggetti dell’universo osservabile ruotano: pianeti, stelle, sistemi stellari, buchi neri e galassie. E se questa “regola cosmica” si applicasse allo stesso universo nella sua interezza? Secondo quanto riportato in uno studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, questa ipotesi potrebbe finalmente risolvere uno dei grandi misteri della cosmologia: la tensione di Hubble, un disaccordo di lunga data tra i risultati dei due principali metodi per misurare quanto velocemente l’universo si stia espandendo. Un metodo consiste nell’osservare le candele standard — stelle e supernove di cui si conosce la luminosità intrinseca — per confrontarne la luminosità apparente e ricavare così le distanze delle galassie in cui si trovano, determinando il tasso di espansione dell’universo negli ultimi miliardi di anni. L’altro metodo si basa sull’analisi della radiazione cosmica di fondo (Cmb) e consente di stimare il tasso di espansione nei primi istanti di vita dell’universo. Ognuno fornisce un valore diverso per il tasso di espansione.
La Galassia Vortice, M51, è una galassia a spirale a 31 milioni di ani luce da noi. Mostra come nella natura si ritrovino spesso oggetti in rotazione. Crediti: Nasa
I modelli attuali affermano che l’universo si espande ugualmente in tutte le direzioni senza segni di rotazione. Ciò riflette le osservazioni della maggior parte degli astronomi, ma non risolve la discrepanza tra i tassi d’espansione dell’universo trovati con i due metodi. La tensione di Hubble si presenta quindi come l’unica crepa nell’altrimenti splendente armatura del modello Lambda-Cdm, il modello cosmologico in uso.
Lo studio appena pubblicato, guidato da Balázs Endre Szigeti del Centro di ricerca Wigner in Ungheria e da István Szapudi dell’Università delle Hawaii, propone un modello matematico per l’universo che presuppone che valgano le regole standard per l’espansione con l’aggiunta di una piccola rotazione. «Per parafrasare il filosofo greco Eraclito con il suo Panta rei, ovvero tutto scorre, noi abbiamo pensato che forse Panta kykloutai ovvero tutto ruota», afferma Szapudi.
L’idea di un universo rotante è da attribuirsi a Gödel nel 1947, che venne poi appoggiato anche da Stephen Hawking. Lo studio di Szigeti e Szapudi propone un’approssimazione newtoniana del modello di Gödel. Il loro modello suggerisce che l’universo potrebbe ruotare una volta ogni 500 miliardi di anni – troppo lentamente per essere rilevato facilmente, ma abbastanza da influenzare l’espansione dello spazio nel tempo. «Con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto che il nostro modello con rotazione risolve il paradosso senza contraddire le attuali misurazioni astronomiche. Ancora meglio, è compatibile con altri modelli che prevedono una rotazione. Forse, dunque, tutto davvero ruota. Oppure, Panta Kykloutai!», conclude Szapudi.
L’idea che l’universo possa ruotare naturalmente trova un supporto indiretto anche nelle recenti osservazioni che suggeriscono una possibile anisotropia nell’espansione di Hubble, dedotta da studi nei raggi X. Inoltre, gli effetti tipici di una rotazione cosmica presentano una forma funzionale simile a quella prevista da modelli che coinvolgono fotoni oscuri, considerati tra i candidati più promettenti per spiegare la tensione di Hubble.
In conclusione, l’ipotesi degli autori non sembra violare nessuna delle leggi fisiche conosciute e potrebbe spiegare perché le misurazioni dell’espansione dell’universo non sono del tutto concordi. Il prossimo passo sarà trasformare la teoria in un modello al computer completo e trovare modi per individuare i segni di questa lenta rotazione cosmica.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Can rotation solve the Hubble Puzzle?” di Balázs Endre Szigeti , István Szapudi , Imre Ferenc Barna , Gergely Gábor Barnaföldi.
A volte ritornano: il brillamento gigante del 2004
Ogni tanto, nell’universo, un terremoto stellare squarcia la superficie di una magnetar, una stella di neutroni dal campo magnetico molto intenso, sputando fuori una gigantesca quantità di energia. Migliaia di anni più tardi, sulla Terra, arriva notizia della colossale esplosione cosmica, sotto forma di raggi gamma. E se gli astrofisici, oltre a essersi preventivamente attrezzati con un satellite sensibile a questa radiazione e opportunamente piazzato in orbita, hanno anche un pizzico di fortuna, possono catturare un segnale mai visto prima.
Sandro Mereghetti, ricercatore Inaf presso l’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica a Milano
È quello che è successo poco più di vent’anni fa, alle 21:30 tempo universale – 22:30 ora italiana – del 27 dicembre 2004, quando la missione Integral dell’Agenzia spaziale europea ha rivelato un brillamento gigante senza precedenti. «In realtà è un fenomeno molto raro: di queste esplosioni, chiamate in inglese giant flare, se ne sono viste solamente tre in cinquant’anni di osservazioni. L’ultima è proprio questa del dicembre 2004, che delle tre osservate finora è stata decisamente la più brillante, la più potente di tutte», spiega a Media Inaf Sandro Mereghetti, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
La sorgente di questo segnale, la magnetar Sgr 1806-20, si trova nella nostra galassia, la Via Lattea, a circa trentamila anni luce dalla Terra. Aveva già mostrato segni di attività da un paio di mesi e diversi gruppi di ricerca, Mereghetti compreso, la stavano studiando con vari telescopi spaziali. Poi una coincidenza cosmica ha fatto sì che il segnale più interessante raggiungesse il nostro pianeta tra il pranzo di Natale e la vigilia di capodanno. «È un periodo un po’ sfortunato perché si tende a essere in vacanza in quei giorni, quindi ci ha colti un po’ di sorpresa», scherza l’astrofisico. «Certo eravamo pronti a lavorarci, però se il segnale non fosse arrivato proprio durante le ferie di Natale, magari saremmo stati più svelti». In realtà Mereghetti, allora in forza all’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica del Cnr di Milano (che sarebbe di lì a poco confluito nel neo-nato Inaf), fu il primo, insieme ai suoi collaboratori, ad annunciare l’osservazione di questo portentoso brillamento con una circolare sulla piattaforma Gcn (General Coordinates Network) della Nasa, il 29 dicembre.
Non era solo l’intensità formidabile di questo giant flare a stuzzicare la curiosità degli studiosi. Gli altri due brillamenti di questo tipo, osservati rispettivamente nel 1979 e nel 1998, erano caratterizzati da due fasi: un burst iniziale, molto breve e molto brillante, dalla durata inferiore a un secondo, seguito da un’emissione che dura qualche minuto e che si vede pulsare, perché la stella di neutroni gira. «Nel giant flare del 2004, grazie alla grande sensibilità di Integral, abbiamo visto una terza fase: un’emissione gamma durata per più di un’ora, che non era mai stata vista», chiarisce Mereghetti.
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Integral. Crediti: Esa
All’epoca, i ricercatori interpretarono la terza fase del brillamento gigante in maniera non dissimile dal fenomeno dell’afterglow che si osserva nei lampi di raggi gamma (in inglese Gamma-ray burst, o Grb). Durante queste esplosioni, infatti, viene emessa una grande quantità di materia a velocità relativistiche che, una volta espulsa, si riversa violentemente sul mezzo circostante, generando onde d’urto e l’emissione di radiazione ad alta energia che può durare diverse ore o anche di più. Qualcosa di analogo sembrava celarsi anche dietro l’inedito comportamento di questa magnetar.
Una spiegazione qualitativa ma assolutamente soddisfacente, che fu pubblicata sull’Astrophysical Journal nell’aprile del 2005. «Avevamo concluso che non poteva essere un’emissione proveniente dalle immediate vicinanze della stella, come la componente pulsata, perché altrimenti avremmo visto ancora le pulsazioni», sottolinea il ricercatore. «Doveva trattarsi di qualcosa che avveniva lontano dalla stella, probabilmente nel materiale scagliato fuori durante il flare. Non poteva trattarsi di un processo che avveniva nella magnetosfera perché abbiamo cercato le pulsazioni e non si vedevano più, si vedono soltanto nella nella parte precedente, nella cosiddetta coda pulsata».
Negli anni a seguire, il cielo ai raggi gamma si è rivelato meno generoso, se non altro in fatto di brillamenti giganti: non ne sono stati osservati altri da allora. Ma due decenni più tardi, questa preziosa osservazione è risalita agli onori della cronaca. Del resto, non sarebbe corretto dare del taccagno al cielo delle alte energie, che regala giornalmente lampi di raggi gamma ai telescopi spaziali e che ha permesso, nel 2017, di identificare la prima kilonova generata dalla coalescenza di due stelle di neutroni, mediante la rilevazione congiunta di un Grb e di un’onda gravitazionale. È proprio quest’ultima scoperta a rimettere in moto la storia iniziata con il giant flare del 2004.
La coalescenza di due stelle di neutroni si era rivelata essere una fucina di elementi pesanti: parliamo di quegli elementi davvero pesanti, più pesanti del ferro, che non si formano attraverso i consueti processi di nucleosintesi all’interno delle stelle. Metalli pregiati come l’oro e il platino, per capirci. La kilonova aveva finalmente svelato un sito cosmico dove questi rari elementi prendono forma. Ma le collisioni tra stelle di neutroni, anch’esse piuttosto rare, non sarebbero in grado, da sole, di spiegare l’abbondanza di questi elementi osservata oggi nell’universo. Per questo, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, un gruppo di astrofisici teorici inizia a indagare possibili meccanismi alternativi. Le magnetar, per esempio.
Una rottura nella crosta di una stella di neutroni altamente magnetizzata, mostrata qui in un rendering artistico, può innescare eruzioni ad alta energia. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/S. Wiessinger
Sulla base dei calcoli sviluppati nel 2024 da Brian Metzger, professore alla Columbia University e ricercatore senior presso il Flatiron Institute di New York, insieme ai suoi collaboratori, l’esplosione che genera i brillamenti giganti può espellere materiale dalla superficie di una magnetar nello spazio circostante, dando origine a quello che gli astrofisici chiamano il “processo r” (o rapido). Proprio come in una kilonova, questo processo crea nuclei atomici radioattivi pesanti e instabili, che decadono rapidamente, formando elementi stabili, come appunto l’oro. Durante il decadimento, questi elementi radioattivi emettono un bagliore luminoso, che dovrebbe essere possibile osservare proprio nei raggi gamma.
Dopo una serie di scambi via email con la comunità degli astronomi osservativi, Metzger e collaboratori scoprono che un segnale di questo tipo era stato effettivamente visto vent’anni prima: il potente giant flare scoperto da Integral e osservato poi con altri satelliti nel 2004. L’accordo tra il loro modello e i dati d’archivio è eccellente, ma poiché chi studia le magnetar generalmente non si occupa della nucleosintesi di elementi pesanti, nessuno ci aveva pensato prima. Per Anirudh Patel, dottorando alla Columbia University di New York e primo autore dell’articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, «è stata un’emozione incredibile vedere la nostra previsione confermata dai dati esistenti e comprendere le implicazioni che questa scoperta ha per la storia di una parte della materia che compone il nostro pianeta».
Il nuovo modello teorico spiega l’emissione a tre fasi in una maniera leggermente diversa da come era stata interpretata subito dopo le osservazioni. Mereghetti nota che «il loro modello è anche molto più dettagliato per cui riescono a riprodurre sia lo spettro che l’evoluzione temporale osservata nei raggi gamma». Durante le fasi iniziali del flare, quando avviene questa emissione potentissima, parte della radiazione riscalda un pezzo della superficie della magnetar. «L’enorme irraggiamento sulla superficie della stella di neutroni», aggiunge l’astrofisico, «provoca un’espulsione di materia a velocità relativistiche, come del resto avevamo detto anche noi vent’anni fa. Quello che loro hanno calcolato però è che, in questi getti di materia, si possono formare degli elementi radioattivi grazie al processo di nucleosintesi “rapido”, poiché la materia espulsa è un pezzo di stella di neutroni, non un pezzo di una stella qualsiasi, quindi un materiale molto ricco di neutroni. Gli elementi radioattivi poi decadono e, con l’energia del decadimento, alimentano l’emissione che abbiamo osservato nei raggi gamma».
Illustrazione schematica della sequenza di eventi in un brillamento gigante di magnetar: a sinistra, l’esplosione espelle materia e radiazione dalla superficie, dando origine al breve e intenso burst iniziale; al centro, l’emissione è modulata dalla rotazione della magnetar; a destra, infine, il materiale espulso, ricco di neutroni, mette in moto il processo rapido di nucleosintesi, generando elementi pesanti come l’oro e il platino. Crediti: Anirudh Patel et al. 2025
Questi eventi esplosivi sulla superficie delle magnetar potrebbero produrre una quantità di elementi pesanti pari alla massa di un pianeta come Marte o la Terra. Una quantità rispettabile, pur se circa cento volte inferiore rispetto a quella prodotta da una kilonova, ma molto importante nell’alchimia generale dell’universo. Infatti i giant flare sono un fenomeno molto più frequente rispetto alla collisione tra due stelle di neutroni, e soprattutto si manifestano prima nella storia del cosmo. Mereghetti ricorda come la coalescenza di due stelle di neutroni sia un processo che ha luogo miliardi di anni dopo che le stelle si sono formate: «prima bisogna formare due stelle di neutroni in un sistema binario, poi bisogna aspettare che l’orbita in cui si trovano decada, il che prende centinaia di milioni di anni se non miliardi di anni. La coalescenza di due stelle di neutroni avviene molto tempo dopo che la stella di neutroni si è formata, mentre le magnetar sono stelle di neutroni giovani, quindi queste esplosioni sulle magnetar avvengono molto prima in termini di evoluzione stellare». Il nuovo canale di produzione, descritto da Patel e collaboratori e dimostrato dalle osservazioni del 2004, è dunque un modo per arricchire di metalli pesanti generazioni di stelle più antiche, e potrebbe aver contribuito fino al dieci percento delle abbondanze osservate oggi nel cosmo. Secondo Metzger «questa singola, gigantesca esplosione è stata così prodigiosa nel creare questi elementi pesanti che l’accumulo di eventi simili nel corso della storia della nostra galassia potrebbe aver contribuito a una frazione significativa di tutti questi elementi sulla Terra».
Mereghetti si dice soddisfatto del corso degli eventi. «L’articolo era stato ben accetto e aveva suscitato interesse già ai tempi», racconta, «perché era la scoperta di una cosa nuova. Il fatto che poi a distanza di molti anni venga trovata una possibile spiegazione ancora più dettagliata, più precisa, è senz’altro interessante anche perché riporta l’attenzione sulle magnetar». Il merito della scoperta, oltre ai ricercatori coinvolti e alla disponibilità di Integral, lanciato appena due anni prima, si deve anche a una buona dose di fortuna, ammette. Perché oltre a essere rari, i giant flare sono assolutamente imprevedibili. «Quando Integral ha rivelato questo brillamento, era puntato in tutt’altra direzione. L’ha visto comunque perché era talmente brillante che era impossibile non vederlo. Ma sarebbe anche potuto arrivare in un momento in cui il satellite era spento oppure in condizioni più sfavorevoli».
Ironia della sorte, dopo ventidue anni di servizio, Integral è stato recentemente spento, o meglio, continua a raccogliere dati, ma non li trasmette più a terra. «Proprio adesso che abbiamo avuto una serie di risultati interessanti, per esempio la magnetar scoperta nella galassia M82 alla fine del 2023 e questo nuovo modello che spiega dei vecchi dati», rammenta il ricercatore. «Speriamo che ci siano altre occasioni in futuro di riutilizzare ancora i dati in archivio, perché sicuramente in tutti questi anni è stata raccolta una quantità di dati enorme che ancora racchiude potenzialmente delle cose interessanti».
Per saperne di più:
- Leggi sul General Coordinates Network la circolare “Giant flare from SGR 1806-20 detected by Integral” di J. Borkowski, D. Gotz, S. Mereghetti, N. Mowlavi, S. Shaw e M. Turler
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The First Giant Flare from SGR 1806–20: Observations Using the Anticoincidence Shield of the Spectrometer on Integral” di S. Mereghetti, D. Götz, A. von Kienlin, A. Rau, G. Lichti, G. Weidenspointner e P. Jean
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Direct evidence for r-process nucleosynthesis in delayed MeV emission from the SGR 1806-20 magnetar giant flare” di Anirudh Patel, Brian D. Metzger, Jakub Cehula, Eric Burns, Jared A. Goldberg e Todd A. Thompson
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Una nuova origine per l’oro e altri elementi pesanti”, a cura della redazione
Biomass è in orbita per monitorare le foreste
Alle 11:15 ora italiana di oggi, martedì 29 aprile, dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guiana Francese, un razzo Vega-C dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha portato in orbita attorno al nostro pianeta Biomass, il satellite incaricato di determinare la distribuzione globale della biomassa delle foreste, il suo cambiamento, e stimare quindi la quantità di anidride carbonica immagazzinata nella biosfera terrestre. Poco meno di un’ora dopo, alle 12:13, il satellite si è separato dal suo vettore di lancio per potersi inserire nella sua orbita di lavoro a 666 chilometri d’altezza, ha seguito tutte le procedure di accensione previste e si è messo in contatto con il centro di controllo dell’Esa a Darmstadt (Esoc) inviando il primo segnale alle 12:27. Lavorerà per i prossimi cinque anni.
Rappresentazione di Biomass, il satellite del programma Earth Explorers dell’Esa lanciato questa mattina dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guiana Francese, a bordo di un razzo Vega-C. Crediti: Esa/Atg Medialab
La deforestazione è spesso una delle prime pratiche citate quando si parla di deturpazione dell’ambiente per opera dell’uomo, soprattutto in relazione alla crisi climatica. Si deforesta per cementare e costruire, per piantare monocolture che impoveriscono il terreno e minano alla biodiversità, e si deforesta per commerciare legname (in alcuni casi anche in maniera incontrollata e illegale). Fra le conseguenze meno citate e più incerte di questa pratica, però, ce n’è una che dovrebbe preoccupare al pari, se non di più, delle altre: il rilascio in atmosfera di anidride carbonica immagazzinata nelle foreste, e in particolare nei tronchi e nei rami degli alberi.
Per dare una stima di quanta anidride carbonica sia conservata nelle foreste, e di come queste riserve stiano cambiando in relazione al cambiamento climatico, all’aumento delle temperature e della CO2 in atmosfera, o ancora a causa della deforestazione, l’Esa ha progettato Biomass. Sviluppata in collaborazione a circa 50 aziende sotto la guida di Airbus Uk, si tratta del primo satellite dotato di un radar ad apertura sintetica in banda P in grado di penetrare la copertura nuvolosa e le chiome delle foreste per misurare la biomassa legnosa – tronchi, rami e steli – dove viene immagazzinata la maggior parte del carbonio forestale. Una misura, questa, che funge da indicatore della quantità di carbonio immagazzinato, l’obiettivo ultimo della missione.
️ Our groundbreaking Biomass satellite lifted off on Vega-C #VV26 from Europe’s Spaceport in French Guiana at 10:15 BST/11:15 CEST on 29 April. The satellite is designed to provide unprecedented insights into the world’s forests and their crucial role in Earth’s carbon cycle.… pic.twitter.com/rCUyDPri6W— European Space Agency (@esa) April 29, 2025
Il lancio, dicevamo, è avvenuto con successo, così come l’inserimento in orbita. Nei prossimi giorni, durante la cosiddetta Leop (launch and early orbit phase), il team di controllo della missione a Esoc verificherà che tutti i sistemi si accendano e funzionino in maniera corretta. Verrà effettuata anche una serie di manovre piuttosto delicate per dispiegare il riflettore a maglie largo 12 metri e supportato da un braccio di 7,5 metri (mostrato nell’immagine di apertura). Biomass fa parte del programma di missioni “Earth Explorers”, una famiglia di satelliti che condividono l’obiettivo comune di far progredire la conoscenza della Terra e del suo stato di salute attraverso l’osservazione di alcuni suoi sistemi chiave come la criosfera, l’idrosfera, l’atmosfera e la ionosfera, e anche il suo l’interno.
«Vorrei estendere le mie congratulazioni a tutti coloro che sono stati coinvolti nello sviluppo e nel lancio di questa straordinaria missione. Biomass si unisce ora alla nostra stimata famiglia di esploratori della Terra – missioni che hanno costantemente portato scoperte rivoluzionarie e una comprensione scientifica avanzata del nostro pianeta», ha detto Simonetta Cheli, direttrice Esa dei programmi di osservazione della Terra. «Con Biomass, siamo pronti ad acquisire nuovi dati vitali su quanto carbonio viene immagazzinato nelle foreste del mondo, contribuendo a colmare le lacune chiave nella nostra conoscenza del ciclo del carbonio e, in definitiva, del sistema climatico terrestre».
Pianeta di acqua svelato dai cieli delle Canarie
Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (Harps-N) installato al Telescopio nazionale Galileo (Tng), che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Rappresentazione artistica dell’esopianeta ghiacciato Kepler-10c, osservato dallo spettrografo Harps-N installato al Telescopio nazionale Galileo (Tng). Crediti: Inaf
Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della Nasa con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.
I dati acquisiti con Harps-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.
Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale Harps-N.
«L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà», dice Luca Borsato dell’Inaf di Padova, secondo autore dell’articolo.
«L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie», aggiunge Aldo Bonomo dell’Inaf di Torino, primo autore dell’articolo,«ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo».
Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella nostra galassia ma assenti nel Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche della vita.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations”, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry
Nero shocking: onde d’urto da buchi neri stellari
L’impatto di un buco nero si estende ben oltre i suoi dintorni immediati: è quanto emerge da una nuova ricerca, un risultato che rimette in discussione la nostra comprensione degli effetti sullo spazio di questi oggetti enigmatici. I buchi neri comprimono la materia in un punto infinitamente denso e deformano il tessuto stesso dello spazio-tempo, ma i loro effetti potrebbero spingersi molto più lontano di quanto immaginato finora. Un team di astronome e astronomi ha infatti raccolto prove inedite di come anche i buchi neri più piccoli – non solo quelli supermassicci, dunque, bensì anche i buchi neri di massa stellare, molto comuni nella nostra e in altre galassie – possano modellare le galassie: prove che consistono nell’osservazione di potenti onde d’urto generate da getti oscuri e altamente energetici. Getti che, una volta emessi, possono viaggiare nello spazio per decine di anni luce. Il team è riuscito, grazie ai dati raccolti con il radiotelescopio MeerKat, a tracciare enormi strutture, dette onde d’urto ad arco (bow shock, in inglese), prodotte dai getti di due buchi neri: GRS 1915+105 e Cygnus X-1. Un risultato che consente di comprendere meglio gli effetti a lungo termine dell’attività di questi sistemi sullo spazio circostante.
Rappresentazione artistica dell’emissione d’un getto da un buco nero di massa stellare e della relativa onda d’urto. Crediti: Danielle Futserlaar/Sron
«Queste scoperte mostrano che i buchi neri stellari possono scolpire in modo attivo l’ambiente che li circonda, lasciando dietro di sé onde d’urto colossali», dice la prima autrice di uno dei due articoli che riportano oggi i risultati su Astronomy & Astrophysics, Sara Elisa Motta, astronoma dell’Istituto nazionale di astrofisica, «onde d’urto che raccontano una storia lunga migliaia di anni».
Cygnus X-1, il primo buco nero di massa stellare mai scoperto, è noto per emettere potenti getti di particelle ad alta energia che formano una gigantesca struttura bow shock: un’onda d’urto prodotta dai getti a una distanza pari a quasi tre volte l’estensione del sistema binario formato dal buco nero stesso e da una stella compagna. La novità è che MeerKat ha ora registrato, per la prima volta, queste strutture a due diverse frequenze radio, consentendo agli scienziati di mapparle con un dettaglio senza precedenti. Ciò ha consentito di rivelare particolari mai osservati prima nell’onda d’urto, suggerendo l’esistenza di più periodi di attività dei getti, periodi che si sono susseguiti negli ultimi millenni e durante i quali i getti hanno interagito con l’ambiente in regioni diverse dello spazio.
«È una prova inconfutabile del fatto che i buchi neri influenzano lo spazio che li circonda», sottolinea la prima autrice dell’altro articolo pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, Pikki Atri, astronoma dell’istituto di radioastronomia olandese Astron e della Radboud University. «È come uno scavo archeologico cosmico: ogni strato delle onde d’urto racconta la storia delle emissioni dei getti avvenute in passato».
Altrettanto rivoluzionaria è la scoperta di un’onda d’urto – anch’essa una struttura di tipo bow shock – prodotta dai getti nei dintorni del buco nero GRS 1915+105. La struttura, che si estende per trenta anni luce, è la prova dell’azione di un getto non direttamente osservabile perché non luminoso, ma molto potente, un getto che è stato capace di scavare un’enorme cavità nello spazio. La scoperta conferma che i getti del sistema, anch’esso binario, GRS 1915+105 sono in grado di influenzare significativamente l’ambiente circostante, colmando così il divario tra le teorie dei primi anni Duemila – che già ipotizzavano l’esistenza del bow shock – e la sua effettiva rilevazione, avvenuta solo oggi, quasi vent’anni dopo.
«Avendo visto qualcosa di simile intorno a Cygnus X-1», ricorda Motta, «abbiamo sempre pensato che dovesse esistere un’onda d’urto anche intorno a GRS 1915+105. Tuttavia, non riuscivamo a rilevarla, e ciò è stato fonte di una notevole confusione: fino a quando MeerKat non ha scoperto il bow shock attorno a GRS 1915+105, c’era il sospetto che queste strutture potessero formarsi soltanto attorno ad alcuni sistemi di buchi neri ed a condizioni che non avevamo ben compreso».
È noto da tempo che i buchi neri supermassicci al centro delle galassie causano cambiamenti su larga scala. Questi due nuovi risultati dimostrano che anche i buchi neri di massa stellare, milioni di volte meno massicci, possono rimodellare profondamente l’ambiente che li circonda. Nonostante la loro massa relativamente contenuta, lasciano dietro di sé strutture imponenti a sufficienza da essere rilevate – un impatto, sottolineano le due scienziate, che finora era stato sottovalutato.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “MeerKAT discovers a jet-driven bow shock near GRS 1915+105 How an invisible large-scale jet sculpts a microquasar’s environment”, di S.E. Motta, P. Atri, James H. Matthews, Jakob van den Eijnden, Rob P. Fender, James C.A. Miller-Jones, Ian Heywood e Patrick Woudt
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Quantifying jet-ISM interactions in Cyg X-1: Insights from dual-frequency bow shock detection with MeerKAT”, di P. Atri, S. E. Motta, Jakob van den Eijnden, James H. Matthews, James C.A. Miller-Jones, Rob Fender, David Williams-Baldwin, Ian Heywood e Patrick Woudt
- Leggi la press release in inglese sul sito di Sron
Tête-à-tête di Lucy con Donaldjohanson
Ve lo avevamo annunciato. È accaduto. Ed è andato tutto come previsto: la sera di Pasqua, quando in Italia erano all’incirca le 19:51, la sonda Lucy della Nasa ha sorvolato con successo l’asteroide della fascia principale 52246 Donaldjohanson, il più piccolo degli undici corpi celesti che il veicolo incontrerà nel corso della sua missione. E a testimonianza dell’incontro ravvicinato – una “prova generale” per i futuri flyby con gli altri asteroidi bersaglio – Lucy ci ha già inviato le sue prime, affascinanti, immagini.
L’asteroide Donaldjohanson ripreso dallo strumento Long-Range Reconnaissance Imager (L’Lorri) a bordo della sonda Lucy della Nasa durante il suo sorvolo. Il time-lapse mostra le immagini catturate circa ogni 2 secondi a partire dalle 19:50 ora italiana del 20 aprile 2025. La rotazione apparente visibile nelle immagini è dovuta al movimento della sonda durante il flyby, effettuato a una distanza compresa tra 1.600 e 1.100 km. Il massimo avvicinamento è avvenuto a 960 km. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl
Scattate ogni due secondi a partire dalle 19:50 ora italiana, quando la sonda si trovava a circa 1.600 chilometri di distanza dall’asteroide, le istantanee – catturate con la fotocamera ad alta risoluzione L’lorri e presentate sopra come una clip – mostrano un oggetto dalla forma simile a quella di un’arachide: due lobi irregolari uniti lungo i loro assi principali a livello di un “collo”. È una caratteristica condivisa con altri asteroidi. Ce l’ha l’asteroide 486958 Arrokoth. Ce l’ha 25143 Itokawa e anche la cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko. Asteroidi binari a contatto, è così che gli addetti ai lavori chiamano gli oggetti celesti con una tale morfologia.
Dalle prime analisi delle immagini, 52246 Donaldjohanson sembra essere più grande di quanto inizialmente stimato: circa 8 chilometri di lunghezza e 3,5 chilometri di larghezza nel punto più ampio. Per avere un quadro più completo della forma e delle dimensioni, bisognerà tuttavia attendere ancora qualche settimana: il tempo necessario affinché il team scarichi e analizzi i dati raccolti dagli altri strumenti a bordo della sonda, l’imager a colori e spettrometro a infrarossi L’Ralph e lo spettrometro a emissione termica L’tes.
Una delle immagini dell’asteroide Donaldjohanson restituite dalla sonda Lucy durante il sorvolo. Lo scatto è stato effettuato il 20 aprile 2025 alle 19:51 ora italiana, poco prima del punto di massimo avvicinamento, da una distanza di circa 1.100 chilometri. L’immagine è stata rielaborata per migliorarne il contrasto. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/NOIRLab
Nel frattempo, però, un’idea sull’asteroide il ricercatore del Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado, e principal investigator della missione, Hal Levison, se l’è fatta: «L’asteroide Donaldjohanson ha una geologia sorprendentemente complessa», dice il ricercatore. «Studiando in dettaglio la sua struttura, otterremo informazioni importanti sui mattoni fondamentali e sui processi collisionali che hanno formato i pianeti del nostro sistema solare».
Dopo il sorvolo di Dinkinesh e della sua piccola luna Selam, questo è il secondo incontro ravvicinato di Lucy con un asteroide. Ora la sonda proseguirà il suo viaggio attraverso la fascia principale degli asteroidi per tutto il 2025, in attesa di raggiungere il primo obiettivo principale della missione: l’asteroide troiano di Giove Eurybates e il suo satellite Queta. A questo tête-à-tête, previsto il 12 agosto del 2027, seguirà il flyby di 15094 Polymele, schedulato per il 15 settembre del 2027, il sorvolo di Leucus e Orus, programmati rispettivamente per il 18 aprile e l’11 novembre del 2028, e infine l’incontro con Patroclus e la sua luna Menoetius, previsto per il 3 marzo del 2033.
Come abbiamo più volte scritto qui su Media Inaf, il nome della missione è un omaggio alla nostra antichissima antenata scoperta in Etiopia nel 1974. E proprio come il fossile Lucy ha fornito informazioni preziose sull’evoluzione dell’essere umano, così la sonda della Nasa promette di ampliare la conoscenza delle nostre origini planetarie.
«Queste prime immagini dell’asteroide Donaldjohanson dimostrano ancora una volta le straordinarie capacità della sonda Lucy come strumento di scoperta», sottolinea lo scienziato della Nasa e program scientist della missione, Tom Statler. «Il potenziale di aprire una nuova finestra sulla storia del Sistema solare, una volta raggiunti gli asteroidi troiani, è immenso».
Nuove rivelazioni sull’abitabilità di Marte
Immagine del sito di perforazione di Ubajara, nel cratere Gale, scattata dal rover Curiosity il 30 aprile 2023. In primo piano, sono visibili le tracce del rover. Crediti: Nasa Jet Propulsion Laboratory-Caltech/Malin Space Science Systems
L’antico Marte era caratterizzato da un’atmosfera densa e ricca di anidride carbonica, capace di sostenere un vero e proprio ciclo del carbonio. Il pianeta, inoltre, avrebbe avuto un sistema di vulcani attivi, in grado di generare condizioni ambientali favorevoli alla vita. È quanto emerge da due studi indipendenti, pubblicati di recente su Science e Science Advances, basati sull’analisi di campioni di roccia marziana raccolti rispettivamente dai rover Curiosity e Perseverance. I risultati delle ricerche rappresentano un significativo passo avanti nella comprensione dell’abitabilità passata e dell’evoluzione geologica di Marte.
A suggerire che l’atmosfera di Marte contenesse un tempo abbondanti quantità di anidride carbonica è la scoperta di vasti depositi di siderite, un minerale composto da carbonato di ferro, all’interno del cratere Gale. A individuarli è stato Curiosity, il rover della Nasa atterrato su Marte nel 2012. Tra il 2022 e il 2023, il veicolo spaziale ha esplorato un’area ricca di solfati, già mappata in precedenza dall’orbita. All’interno di questa unità geologica, Curiosity ha effettuato perforazioni in quattro distinti punti, prelevando altrettanti campioni che i ricercatori hanno denominato Canaima, Tapo caparo, Ubajara e Sequoia.
Utilizzando i dati dello strumento Chemistry and Mineralogy (CheMin) del rover, che sfrutta la diffrazione dei raggi X per determinare la composizione mineralogica, gli scienziati hanno analizzato le carote di roccia, scoprendo che tre dei quattro campioni – Tapo caparo, Ubajara e Sequoia – contenevano cristalli di siderite in concentrazioni elevate: dal 5 a oltre il 10 per cento in peso. Il Sample Analysis at Mars (Sam), una suite di strumenti che analizza i gas prodotti dalla combustione dei campioni, ha confermato la purezza del composto e la mineralogia associata.
Ma che c’entra la siderite nel suolo di Marte con la presenza di anidride carbonica atmosferica, vi starete chiedendo? Secondo gli scienziati, la presenza del minerale testimonierebbe il verificarsi di interazioni tra atmosfera, acqua e roccia, seguite da processi di evaporazione che avrebbero alimentato un ciclo attivo del carbonio, rendendo Marte potenzialmente abitabile.
«La scoperta di grandi depositi di carbonio nel Cratere Gale rappresenta una svolta nella nostra comprensione dell’evoluzione geologica e atmosferica di Marte», spiega Benjamin Tutolo, geochimico alla Università di Calgary, in Canada, e autore principale dello studio. «L’abbondanza di sali altamente solubili in queste rocce e in depositi simili mappati su gran parte di Marte è stata utilizzata come prova della sua ‘grande essicazione’, la fase durante la quale il pianeta è passato dall’essere un corpo celeste caldo e umido al mondo freddo e secco che vediamo oggi».
L’ipotesi degli autori per spiegare la presenza dei carbonati è che l’antica atmosfera marziana contenesse abbondanti quantità di CO2, tali da permettere la presenza di acqua liquida in superficie. Con il passare del tempo, questa CO2 sarebbe stata via via sequestrata chimicamente nelle rocce, attraverso processi come la dissoluzione e altri meccanismi che hanno portato alla nucleazione e alla crescita dei minerali. Successivamente, processi di diagenesi ne avrebbero causato la scissione in idrossidi di ferro e CO2, rilasciando quest’ultima nell’atmosfera e contribuendo così alla genesi di un ciclo del carbonio capace di mantenere il pianeta caldo e in grado di sostenere la presenza di acqua liquida.
Illustrazione schematica dell’ipotetico ciclo del carbonio nell’antico Marte. Crediti: Benjamin M. Tutolo et al., Science, 2025
Tuttavia, spiegano i ricercatori, in una fase successiva della storia geologica del pianeta, è possibile che sia stato sequestrato più carbonio di quanto ne sia stato rilasciato nell’atmosfera, provocando uno squilibrio che avrebbe portato Marte a trasformarsi in un mondo secco e arido. A differenza del ciclo del carbonio terrestre, che è rimasto in equilibrio nel tempo, quello di Marte si sarebbe dunque alterato, segnando un punto di svolta irreversibile per l’evoluzione del pianeta.
La rilevazione di depositi di carbonato sul pianeta ha importanti implicazioni circa la possibilità che il pianeta sia stato in grado di ospitare la vita. La scoperta di questo minerale, osserva Tutolo, «ci dice che il pianeta era abitabile e che i modelli di abitabilità sono corretti». Questo, però, finché c’era abbastanza CO2 nell’atmosfera. «Quando l’anidride carbonica che riscaldava il pianeta ha iniziato a precipitare sotto forma di siderite, ciò ha probabilmente compromesso la capacità di Marte di rimanere caldo», aggiunge il ricercatore.
Un mosaico di due immagini mostra il braccio del rover Perseverance dopo aver scansionato e campionato una delle rocce oggetto dello studio. La roccia in questione, soprannominata informalmente “Rochette”, si trova in basso a destra, e mostra chiaramente il foro da cui è stato prelevato il campione. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu
Come dicevamo in apertura, Marte è protagonista anche di un altro recente studio in cui un team di ricercatori guidati dalla Texas A&M University ha ottenuto ulteriori informazioni sulla storia geologica del pianeta. Pubblicato su Science Advances, l’articolo riporta la scoperta, fatta grazie ai dati raccolti dal rover Perseverance, di due distinti tipi di rocce vulcaniche all’interno del cratere Jezero.
Il primo tipo di roccia, scura e ricca di ferro e magnesio, conterrebbe inclusioni di pirosseno e feldspato plagioclasio, con tracce di olivina alterata. Trachibasalto, è così che gli addetti ai lavori chiamano queste rocce ignee. Il secondo tipo di roccia, più chiara rispetto alla prima, è stata classificata come trachiandesite e include cristalli di plagioclasio inglobati in una matrice ricca di potassio. Secondo gli autori dello studio, queste rocce indicherebbero una complessa storia vulcanica di Marte, caratterizzata dalla presenza di fenomeni eruttivi e flussi di lava a composizione variabile.
Per capire come si siano formate queste rocce, i ricercatori hanno simulato le condizioni in cui i minerali si sono solidificati. I risultati delle modellizzazioni suggeriscono che le composizioni uniche delle rocce derivino essenzialmente da due tipi di processi: la cristallizzazione frazionata, in cui i minerali si separano dal magma mentre si raffredda, e l’assimilazione crostale, che si verifica quando la roccia fusa interagisce con materiali ricchi di ferro della crosta, sciogliendoli parzialmente o incorporandoli, modificando ulteriormente la composizione delle rocce.
«I processi che osserviamo qui – cristallizzazione frazionata e assimilazione crostale – sulla Terra sono tipici dei sistemi vulcanici attivi», sottolinea il geologo della Texas A&M University e primo autore della pubblicazione, Michael Tice. «Ciò suggerisce che questa parte di Marte potrebbe essere stata interessata da una prolungata attività vulcanica , il che a sua volta potrebbe aver fornito una fonte continua di composti utilizzabili dalla vita».
«Abbiamo selezionato con cura queste rocce perché contengono indizi sugli ambienti passati di Marte», aggiunge il ricercatore. «Quando, una volta riportate a Terra, potremo analizzare queste rocce con strumenti di laboratorio, saremo in grado di porre domande molto più dettagliate sulla loro storia e sull’eventuale presenza di firme biologiche».
Le scoperte fatte in questi studi sono cruciali per comprendere la potenziale abitabilità passata di Marte. La presenza di una densa atmosfera di CO2 in grado di alimentare un ciclo del carbonio, insieme a un sistema di vulcani attivi, potrebbero aver contribuito a mantenere condizioni favorevoli alla vita sul pianeta per un lungo periodo della sua storia geologica.
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Carbonates identified by the Curiosity rover indicate a carbon cycle operated on ancient Mars” di Benjamin M. Tutolo, Elisabeth M. Hausrath, Edwin S.Kite, Elizabeth B. Rampe,Thomas F.Bristow, Robert T. Downs, AllanTreiman, Tanya S.Peretyazhko, Michael T. Thorpe, John P. Grotzinger, Amelie L. Roberts, P. Douglas Archer, David J. Des Marais, David F. Blake, David T.Vaniman, Shaunna M. Morrison, Steve Chipera, .Hazen, Richard V. Morris, Valerie M. Tu, Sarah L. Simpson, Aditi Pandey, Albert Yen, Stephen R. Larter, Patricia Craig, Nicholas Castle, Douglas W. Ming4, Johannes M. Meusburger5, Abigail A. Fraeman, David G. Burtt, Heather B. Franz, Brad Sutter,JoannaV.Clark, William Rapin, JohnC.Bridges, Matteo Loche, PatrickGasda, Jens Frydenvang e Ashwin R.Vasavada
- Leggi su Science Advances l’articolo “Diverse and highly differentiated lava suite in Jezero crater, Mars: Constraints on intracrustal magmatism revealed by Mars 2020 PIXL” di Mariek E. Schmidt, Tanya V. Kizovski, Yang Liu, Juan D. Hernandez-Montenegro, Michael M. Tice , Allan H. Treiman, Joel A. Hurowitz, David A. Klevang, Abigail L. Knight, Joshua Labrie, Nicholas J. Tosca, Scott J. VanBommel, Sophie Benaroya, Larry S. Crumpler, Briony H. N. Horgan, Richard V. Morris, Justin I. Simon, Arya Udry, Anastasia Yanchilina, Abigail C. Allwood, Morgan L. Cable, John R. Christian, Benton C. Clark, David T. Flannery, Christopher M. Heirwegh , Thomas L. J. Henley , Jesper Henneke , Michael W. M. Jones, Brendan J. Orenstein, Christopher D. K. Herd, Nicholas Randazzo, David Shuster e Meenakshi Wadhwa
Buon compleanno Hubble!
Un’immagine del telescopio spaziale Hubble durante il suo dispiegamento iniziale dallo Space Shuttle Discovery il 25 aprile 1990. Crediti: Nasa
Dai pianeti del Sistema solare alle galassie distanti miliardi di anni luce, le immagini iconiche del telescopio spaziale Hubble (Hst) sono un patrimonio scientifico e culturale per tutto il mondo. La posizione ottimale di Hubble al di sopra dell’atmosfera terrestre, in orbita terrestre bassa, gli consente di catturare immagini nitide al riparo dalle distorsioni atmosferiche che affliggono i telescopi terrestri.
Realizzato dalla Nasa con il contributo dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Hubble non è solo un telescopio: è una vera e propria macchina del tempo, in grado di osservare galassie fino a 13,4 miliardi di anni luce di distanza, consentendoci di guardare indietro nel tempo, quando l’universo aveva soltanto qualche centinaio di milioni di anni.
Infatti, quando Hubble cattura la luce proveniente da così lontano, ciò che vediamo è la fotografia di un’epoca in cui le prime galassie stavano appena cominciando a formarsi, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
I numeri di Hubble sono impressionanti. Il telescopio, grande quanto uno scuolabus e pesante circa 11 tonnellate, orbita intorno alla Terra a una velocità vertiginosa di circa 27mila chilometri orari, completando un’orbita ogni 95 minuti. Per alimentarsi, sfrutta l’energia solare grazie a due pannelli lunghi 7 metri e mezzo ciascuno e consuma mediamente 2.100 watt, meno di un comune asciugacapelli. Sebbene la potenza consumata sia relativamente contenuta, Hst ha prodotto dati impiegati in oltre 13mila articoli scientifici, diventando uno degli strumenti più prolifici nella storia della scienza.
Tra le scoperte più significative di Hubble c’è la conferma dell’espansione accelerata dell’universo, che ha portato al concetto di energia oscura. Il telescopio spaziale ha anche permesso di misurare con grande precisione l’età dell’universo, stimata oggi intorno ai 13,8 miliardi di anni. Tra i suoi scatti, diventati iconici, ci sono galassie in collisione, nebulose in formazione e pianeti extrasolari in transito davanti alle loro stelle madri. Immagini come i Pilastri della Creazione hanno ispirato milioni di persone e sono diventate simboli dell’esplorazione spaziale.
Per celebrare il 35esimo anniversario del lancio in orbita del telescopio spaziale Hubble, gli astronomi hanno puntato il leggendario telescopio su una selezione di obiettivi spaziali che vanno dal nostro sistema solare alle nebulose dello spazio interstellare, fino alle galassie più lontane. In foto, da sinistra a destra: Marte visto alla fine di dicembre 2024; la nebulosa planetaria Ngc 2899; la nebulosa Rosetta; la galassia a spirale Ngc 5335. Crediti: Nasa, Esa, StScI
Nonostante oggi compia ben 35 anni, per la pensione c’è ancora tempo. Grazie alle cinque missioni di assistenza e manutenzione nello spazio – l’ultima nel 2009, che ha potenziato e aggiornato i suoi strumenti scientifici – e al lavoro dei team di ingegneri a terra, Hubble continua a funzionare in buona salute, decenni dopo il lancio. Con la sua capacità unica di osservare nell’ultravioletto, nel visibile e nel vicino infrarosso, Hubble è un prezioso compagno di squadra, complementare a missioni come il telescopio spaziale James Webb (Jwst) e il prossimo telescopio spaziale Nancy Grace Roman. Proprio con il Jwst c’è una forte sinergia: se Webb osserva l’universo nell’infrarosso, Hubble eccelle nel visibile e nell’ultravioletto, offrendo una visione complementare e più completa del cosmo. Ve lo abbiamo mostrato poco tempo fa, entrando virtualmente proprio nei Pilastri della Creazione.
Grafica del 35esimo anniversario di Hubble. Crediti: Nasa
Nell’ambito delle celebrazioni per il 35esimo anniversario, l’Agenzia Spaziale Europea sta condividendo una nuova serie di immagini che rivisitano splendidi obiettivi Hubble già pubblicati in precedenza, con l’aggiunta degli ultimi dati Hubble e di nuove tecniche di elaborazione delle immagini: tra queste, le “famose” Galassia Sombrero e Nebulosa Aquila. Inoltre, sono state rese disponibili nuove vedute del pianeta Marte, di regioni di formazione stellare e di galassie vicine. E i festeggiamenti non finiscono qui: Nasa ed Esa hanno organizzato una serie di eventi e iniziative speciali per i prossimi giorni, tra cui la Hubble Night Sky Challenge, una sfida di osservazione del cielo notturno con la quale si invitano gli appassionati di astronomia a osservare da terra gli stessi oggetti celesti che Hubble ha immortalato dallo spazio.
Mentre si celebrano i suoi 35 anni in orbita, il destino di Hubble rimane incerto ma ancora promettente. La Nasa sta valutando la possibilità di prolungare la sua vita operativa, compreso un potenziale intervento per innalzare l’orbita e rallentarne il decadimento. L’interesse scientifico e pubblico rimane altissimo, e ogni nuova immagine o scoperta continua a catturare l’immaginazione globale.
Quindi buon compleanno, Hubble! Con l’augurio che il tuo “sguardo” sul cosmo continui a meravigliarci ancora a lungo.
Per saperne di più:
- Ascolta l’episodio di Houston, il podcast di Media Inaf, sulla missione che ha corretto la miopia di Hubble
- Scopri le iniziative dell’Agenzia Spaziale Europea e della Nasa per celebrare i 35 anni di Hubble
- Guarda il video del lancio del telescopio in orbita il 24 aprile 1990
- Guarda il video che celebra i 35 anni di Hst
Un pilastro della Nebulosa Aquila rivisitato
Come una macchia di Rorschach di ampiezza astronomica o curiosa nube che trascorre in un chiaro pomeriggio primaverile, ci si potrebbe sbizzarrire nel troppo umano tentativo di avvicinare a forma nota la fluttuante struttura di gas e polvere immortalata dal telescopio spaziale Hubble nella Nebulosa Aquila. Io ci vedo una sinistra figura, gibbosa e con le braccia a ciondoloni, che lenta muove i suoi passi, quasi a inoltrarsi nella nube polverosa alle sue spalle. E voi?
Particolare del pilastro nella Nebulosa Aquila immortalato da Hubble. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll
In realtà questa figura strampalata è solo un dettaglio collocato sulla sommità di una struttura ben più estesa, un pilastro di gas e polveri alto quasi dieci anni luce e che si trova a 7mila anni luce dalla Terra, splendidamente catturato da Hubble.
Il fatto degno di notizia non è la scoperta di questa nube un po’ bislacca su un pilastro impolverato, entrambi noti agli astronomi da un paio di decenni. Ma che questa fotografia fa un po’ da trailer alle celebrazioni per il 35esimo anno di attività del telescopio Hubble, lanciato in orbita attorno al nostro pianeta il 24 aprile del 1990. Per l’occasione, l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha avviato una serie di iniziative per onorare i successi del famoso del telescopio spaziale.
Una fra questa prevede la rivisitazione di una serie di scatti iconici realizzati da Hubble, riprocessati però utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica. Le immagini astronomiche che tanto amiamo sono infatti il frutto di meticolose operazioni, ed esistono figure specifiche che si occupano di processare queste immagini e valorizzarle al massimo prima di presentarle al grande pubblico. Spesso, quella che ci sembra un’immagine singola è in realtà il prodotto della combinazione di più immagini, ciascuna delle quali ottenuta con un filtro specifico. Per non parlare della cascata di difetti che possono affliggere le immagini astronomiche, che andranno dunque scrupolosamente ripulite attraverso una catena di operazioni – pipeline, in gergo tecnico – non sempre agevole. All’elaborazione della immagini del James Webb Space Telescope, che prevede tecniche analoghe a quelle ora implementate per Hubble, Media Inaf ha dedicato uno speciale la scorsa estate.
La struttura di gas e polvere catturata da Hubble nella Nebulosa Aquila. L’immagine è stata ottenuta utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica e fa parte di una serie di immagini celebrative per i 35 anni di attività del famoso telescopio spaziale. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll
Il pilastro della Nebulosa Aquila – o M16, per gli affezionati del catalogo Messier – è il terzo della serie di scatti di Hubble rivisitati (qui una versione precedente dell’immagine, risalente al 2005). Scatti che hanno visto come protagoniste, nelle scorse settimane, l’ammasso stellare Ngc 346 e la Galassia Sombrero.
Un poderoso pilastro di gas e polvere, si diceva, troneggia in questa fotografia. Struttura che però costituisce solo un piccolo elemento della Nebulosa Aquila, vasta regione di gas e polveri della nostra galassia, all’interno della quale un tripudio di nuove stelle sta venendo alla luce. Molte delle novelle stelle non sono visibili in questa immagine in quanto sono situate poco al di sopra del monumentale pilastro.
In rosso vediamo rilucere l’emissione dell’idrogeno ionizzato, particolarmente abbondante alla base della struttura. L’azzurro che domina lo sfondo lo si deve invece all’ossigeno, sempre ionizzato, mentre le parti scure sono opera della polvere, che blocca la radiazione degli astri situati nei paraggi. L’arancione, che scorgiamo in particolare nella parte alta della fotografia, rappresenta il tentativo della luce stellare di sfondare il muro di polvere: la luce blu viene assorbita, e rimane pertanto celata ai nostri occhi, mentre quella rossiccia riesce a farsi strada tra i grani di polvere e a manifestarsi allo sguardo acuto di Hubble.
Elementi iconici della Nebulosa Aquila sono senza dubbio i Pilastri della Creazione, imponenti strutture di gas e polveri scolpite dalla radiazione ultravioletta delle stelle giovani, sempre immortalati da Hubble – e, successivamente, da Webb – in due famosi scatti rilasciati a distanza di 20 anni – nel 1995 e nel 2015.
È quello che fanno le stelle giovani, si divertono a smangiucchiare con la loro temibile luce ultravioletta – la stessa che temiamo d’estate sulla nostra pelle -, e con venti ad alta velocità, le nubi di gas e polvere, conferendo loro queste fattezze allungate e scavate. In particolare, quelle che stiamo vedendo qui sono le regioni in cui il gas e le polveri sono più densi, caratteristica questa che consente loro di sopravvivere sotto queste sorprendenti parvenze, anziché dissolversi per la feroce radiazione prodotta dai giovani astri.
Venti e radiazione, comprimendo il gas che forma il pilastro, potrebbero indurre la nascita di nuove stelle all’interno della struttura. Comunque vadano le cose, nonostante l’orgogliosa resistenza alle sferzate inflitte dagli astri sfavillanti, con il tempo il pilastro sarà destinato a soccombere, dissolvendosi sotto i colpi impetuosi della miriade di stelle in formazione nella Nebulosa Aquila.
Un’onda di elio-3 investe Solar Orbiter
Il 23 e 24 ottobre 2023, a poco meno di metà strada fra la Terra e il Sole (0.47 unità astronomiche per la precisione), la sonda Esa/Nasa Solar Orbiter è stata investita da un’onda di particelle energetiche solari particolarmente ricca di elio-3, un isotopo raro dell’elio emesso dal Sole. Un evento insolito, probabilmente associato a un buco coronale – una regione in cui le linee del campo magnetico si aprono nello spazio interplanetario – sul quale è stato pubblicato un articolo su The Astrophysical Journal.
Gli scienziati del Southwest Research Institute hanno individuato la fonte della più alta concentrazione di un raro isotopo dell’elio emesso dal Sole. In questa immagine nell’ultravioletto estremo del Solar Dynamics Observatory, la freccia blu indica un piccolo punto luminoso situato sul bordo di un buco coronale (delineato in rosso) che è stata la sorgente del fenomeno. Crediti: Nasa/Sdo/Aia
L’elio, un elemento che nella tavola periodica è il primo fra i cosiddetti gas nobili, ha due isotopi stabili: l’Elio-4 e l’Elio-3. Il primo è il più abbondante in natura, mentre il secondo – che costituisce solo lo 0,02% – è il più interessante. In astrofisica, ad esempio, è un isotopo fondamentale per i sistemi criogenici a diluizione, in grado di raggiungere temperature dell’ordine del millesimo di kelvin, oppure nella costruzione di impianti per la rivelazione di neutroni.
«Questo raro isotopo, più leggero del più comune elio-4 di un solo neutrone, è scarso nel nostro sistema solare – si trova in un rapporto di circa uno ione di elio-3 per 2.500 ioni di elio-4», spiega Radoslav Bucik, primo autore dello studio. «Tuttavia, i getti solari sembrano accelerare preferenzialmente l’elio-3 ad alte velocità o energie, probabilmente a causa del suo particolare rapporto carica/massa».
La misurazione effettuata da Solar Orbiter riguarda l’emissione di particelle energetiche solari (o Sep): particelle accelerate ad alta energia che includono protoni, elettroni e ioni pesanti, in genere associate a eventi solari come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Il meccanismo alla base di questa accelerazione è sconosciuto, ma si è visto che può aumentare l’abbondanza di elio-3 fino a 10mila volte la sua concentrazione abituale nell’atmosfera del Sole – un effetto che non ha analoghi noti in altri ambienti astrofisici. La cosa incredibile dell’evento misurato nell’ottobre 2023 è che l’aumento di elio-3 è di circa 200mila volte e anche la sua accelerazione risulta molto maggiore rispetto agli altri elementi più pesanti.
Complice l’aiuto di un altro osservatorio solare della Nasa, il Solar Dynamics Observatory, gli astronomi hanno trovato un piccolo getto solare sul bordo di un buco coronale da cui sembrerebbe essere partito tutto. Nonostante le dimensioni ridotte del getto (che viene indicato nell’immagine con una freccia blu, sul bordo del buco coronale delineato in rosso), gli autori sono convinti che sia direttamente collegato all’evento Sep.
«Sorprendentemente, l’intensità del campo magnetico in questa regione era debole, più tipica delle aree solari tranquille che delle regioni attive», aggiunge Bucik. «Questa scoperta supporta le teorie precedenti che suggeriscono che l’arricchimento di elio-3 è più probabile nel plasma debolmente magnetizzato, dove la turbolenza è minima».
Inoltre, questo evento si distingue come uno dei rari casi in cui l’arricchimento degli ioni non segue lo schema abituale. In genere, eventi come questi presentano una maggiore abbondanza di ioni pesanti come il ferro. In questo caso, invece, il ferro non è aumentato. Al contrario, carbonio, azoto, silicio e zolfo sono significativamente più abbondanti del previsto.
Per comprendere meglio come si formano e come vengono accelerate queste ondate di particelle energetiche ricche di elio-3, occorre raccogliere molta più statistica e l’unico modo per farlo, scrivono gli scienziati a conclusione del loro articolo, è riuscire ad avere sonde come Solar Orbiter più vicine alle sorgenti solari ricche di elio-3. Con un periodo di rivoluzione attorno al Sole di 168 giorni e un perielio ad appena 42 milioni di chilometri dal Sole (quasi un quarto della distanza che separa la Terra dalla stella), le occasioni potrebbero non mancare.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Origin of the Unusual Composition of 3He-rich Solar Energetic Particles“, di Radoslav Bučík, Glenn M. Mason, Sargam M. Mulay, George C. Ho, Robert F. Wimmer-Schweingruber, e Javier Rodríguez-Pacheco
Tutte le tensioni della cosmologia di oggi
Circa cinquecento autori, oltre quattrocento pagine, un’opera monumentale, una rassegna ponderosa su tutte le anomalie e le cosiddette tensioni della cosmologia contemporanea. S’intitola “The CosmoVerse White Paper”, dunque è un cosiddetto libro bianco, lo potete trovare da questo mese in rete su arXiv e si propone – come esplicita il sottotitolo – di “affrontare le tensioni osservative in cosmologia con gli effetti sistematici e la fisica fondamentale”, a partire dalla tensione per eccellenza: la tensione sulla costante di Hubble.
Eleonora Di Valentino, prima autrice del White Paper, ha conseguito il dottorato in fisica, con una tesi in cosmologia, all’Università di Roma “La Sapienza”. Successivamente, ha lavorato all’Institut d’Astrophysique de Paris come “Lagrange Fellow”, contribuendo al lavoro del team Planck per il rilascio finale dei dati. Si è poi trasferita nel Regno Unito con un incarico postdoc all’Università di Manchester, dove ha collaborato con la Dark Energy Survey. In seguito, è stata nominata Addison-Wheeler Fellow presso l’Institute of Advanced Studies dell’Università di Durham. Ora è una Royal Society Dorothy Hodgkin Research Fellow presso l’Università di Sheffield
In breve, uno stato dell’arte sulle di cui si sentiva da tempo il bisogno, un’opera destinata a diventare un riferimento per chiunque voglia misurarsi sui limiti della cosmologia contemporanea e su ciò che non torna nei dati – dunque eventuali effetti sistematici – o nei modelli – dunque nella fisica fondamentale, che potrebbe aver bisogno di essere in parte rivista. A firmarlo come prima autrice, insieme a Jackson Levi Said, è un’astrofisica italiana, Eleonora Di Valentino. Laurea e dottorato alla Sapienza, a Roma, poi anni di ricerca all’estero, in Francia e nel Regno Unito, Di Valentino lavora oggi come Royal Society Dorothy Hodgkin Fellow all’Università di Sheffield. L’abbiamo intervistata.
Com’è nato questo lavoro? E come li avete messi insieme, lei e Levi Said, cinquecento colleghi per fare il punto su ciò che non sappiamo?
«CosmoVerse è una Cost Action europea nata quasi tre anni fa. L’idea di CosmoVerse nasce dal lavoro intrapreso per il white paper che ho co-coordinato insieme a Luis Anchordoqui per il processo SnowMass, già in quell’occasione il documento aveva raccolto l’interesse di circa duecento autori. Il tema delle tensioni cosmologiche è in rapida crescita, con Jackson abbiamo pensato di proporlo come Cost Action e la risposta è stata eccezionale: abbiamo raccolto l’adesione di circa cinquecento ricercatori. All’interno di CosmoVerse portiamo avanti numerose iniziative: conferenze, PhD schools, seminari online, un canale Youtube, lezioni per undergraduate o ragazzi delle scuole superiori, eccetera. Il White Paper di CosmoVerse rappresenta un vero e proprio statement della comunità cosmologica: le tensioni esistono, non possono più essere ignorate e c’è ancora molto lavoro da fare – sia sul fronte sperimentale, sia in ambito di analisi dati e teoria».
Sin dal titolo, tensioni al plurale. Spesso su Media Inaf abbiamo avuto occasione di parlare della tensione sulla costante di Hubble. Ma il vostro White Paper ne elenca numerose altre, di tensioni o anomalie. Ce ne sono una o due secondo lei particolarmente significative, oltre naturalmente a quella su H0?
«Ce ne sono diverse, con una significatività statistica più o meno marcata e un grado di controversia variabile, spesso legato alla possibilità che si tratti di effetti sistematici negli esperimenti. Se dovessi sceglierne una oltre alla tensione su H0, la risposta più semplice è la recente indicazione di dark energy dinamica (Dde), emersa dai dati Desi Bao e supernove. Una diretta conseguenza è il disaccordo del valore della massa dei neutrini così ottenuta con la somma delle masse dei neutrini inferita dagli esperimenti di laboratorio. Ovviamente, la Dde non risolve la tensione su H0, il che rende il quadro ancora più intrigante e complesso».
A proposito di anomalie e domande irrisolte, negli ultimi anni mi pare che si notino alcune tendenze. Per esempio, nel campo della ricerca delle particelle candidate per spiegare la materia oscura si parla sempre meno delle Wimp e sempre più di particelle più leggere, come gli assioni. In cosmologia c’è qualche tendenza analoga? Qualche spiegazione che sta godendo di meno consensi rispetto al passato, a favore di un’altra più promettente?
«Per quanto riguarda le possibili risoluzioni della tensione di Hubble, abbiamo osservato una tendenza verso modifiche della storia dell’espansione dell’universo prima della ricombinazione. Per questo motivo, soluzioni come l’early dark energy (Ede) sono state a lungo considerate tra le più promettenti, mentre i modelli che intervengono a late-time or late dark energy sono stati in parte trascurati.
Tuttavia, con i nuovi dati Bao e supernove e l’emergente possibilità che l’universo non sia più ben descritto dal modello Lambda-Cdm ai bassi redshift, credo che assisteremo presto a un rinnovato interesse verso modelli a late time. Ad esempio, modelli di interazione tra materia oscura e energia oscura, oppure teorie di gravità modificata, potrebbero offrire spunti utili per affrontare queste tensioni».
A volte sentiamo paragonare la fisica di oggi a quella di fine dell’Ottocento, quando si pensava che ormai non ci fosse più molto da scoprire, e che ormai si trattasse solo risolvere qualche dettaglio che non tornava. Ma proprio uno di quei “dettagli” tra virgolette, l’emissione di corpo nero, si rivelò poi la tana del Bianconiglio che portò alla straordinaria rivoluzione della fisica del Novecento. Anche alcune di queste tensioni che avete individuato potrebbero rappresentare la porta di accesso a una nuova cosmologia o a una nuova fisica altrettanto rivoluzionarie?
«Sicuramente la tensione su H0, che ha ormai raggiunto una significatività statistica prossima alle 6 sigma, è la più rilevante. Dal mio punto di vista, siamo sempre più vicini a un vero e proprio cambio di paradigma, perché ci sono molti piccoli segnali che non tornano, e le numerose modifiche proposte al modello Lambda-Cdm (ne abbiamo analizzate e catalogate centinaia nella letteratura) non risultano soddisfacenti né risolutive. Purtroppo, al momento non ci sono indizi chiari che puntino in una direzione univoca, e questo rende difficile formulare previsioni di qualsiasi tipo».
E ora cosa ne sarà del vostro White Paper?
«Ora speriamo di poter sottomettere una nuova proposta per la prossima Cost Action, una possibile CosmoVerse 2.0, per proseguire il lavoro che abbiamo avviato con grande entusiasmo. Il White Paper sarà pubblicato a breve, mentre un libro dedicato alla tensione su H0 è già disponibile. Ci auguriamo che questo sforzo possa avere un impatto anche sulle decisioni relative ai futuri strumenti e missioni, perché l’interesse verso l’argomento è in continua crescita e ci sono molte persone motivate a contribuire attivamente».
Per saperne di più:
- Leggi su arxiv il White Paper “The CosmoVerse White Paper: Addressing observational tensions in cosmology with systematics and fundamental physics”, di Eleonora Di Valentino, Jackson Levi Said, Adam Riess, et al.
Prima evidenza di un inglobamento planetario
Se per molti anni i fenomeni di inglobamento planetario sono stati solamente teorizzati, nuove osservazioni del telescopio spaziale James Webb della Nasa pubblicate su The Astrophysical Journal aprono la strada alla prima evidenza di una stella colta nell’atto di “inghiottire” un pianeta. Tali osservazioni rientrano nel programma Guaranteed Time Observation 1240, ideato per analizzare un insieme di enigmatici e improvvisi eventi di brillamenti infrarossi, la cui comprensione potrebbe portare a una migliore comprensione sul funzionamento dell’universo.
Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb, relative a quello che si ritiene essere il primo evento di inglobamento planetario mai registrato, hanno rivelato la presenza di un disco di accrescimento caldo attorno alla stella, circondato da una nube in espansione di polvere più fredda. Webb ha inoltre mostrato che la stella non si è gonfiata per inghiottire il pianeta, ma che l’orbita del pianeta si è in realtà ristretta lentamente nel tempo, come illustrato in questa rappresentazione artistica. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
La stella al centro dell’attenzione si trova a circa 12mila anni luce dalla Terra, nella Via Lattea. L’evento di intensificazione della luminosità, chiamato Ztf Slrn-2020, è stato inizialmente rilevato come un lampo di luce ottica grazie allo Zwicky Transient Facility presso l’Osservatorio Palomar del Caltech a San Diego, in California. In realtà, le informazioni ottenute dal telescopio spaziale Neowise della Nasa avevano rivelato un aumento di luminosità della stella nell’infrarosso un anno prima del lampo di luce ottica, suggerendo la presenza di polvere. Tale studio del 2023 aveva convinto gli astronomi che la stella fosse abbastanza simile al Sole e stesse procedendo, con una lenta espansione, verso la fase di gigante rossa, inglobando i corpi celesti più vicini.
I dati raccolti dal Webb hanno modificato radicalmente il punto di vista degli studiosi. Le informazioni sono state ottenute tramite l’impiego dei due strumenti Mid-Infrared Instrument (Miri) e Near-Infrared Spectrograph (NirSpec). Analizzando le emissioni provenienti dalla regione di spazio in cui è localizzata la stella, i ricercatori hanno scoperto che l’astro non è così luminoso come ci si aspetterebbe da una gigante rossa e, dunque, non vi è alcun rigonfiamento in grado di inghiottire un corpo celeste circostante.
Si suppone che il pianeta di cui è stato registrato l’inglobamento avesse le dimensioni di Giove e fosse caratterizzato da un’orbita molto vicina alla stella. Col passare di milioni di anni, la traiettoria si dev’essere man mano ridotta, originando un percorso “a spirale” e portando, infine, alla completa incorporazione del pianeta da parte dell’astro. «Alla fine, l’oggetto celeste ha iniziato a sfiorare l’atmosfera della stella. Da quel momento in poi è partito un processo di caduta incontrollata e più rapida», spiega Morgan Macleod, membro del team di ricerca. «Il pianeta, durante la caduta, si è sfaldato attorno all’astro». Nelle fasi conclusive della sua esistenza, il corpo ha probabilmente espulso gas dagli strati esterni della stella, il quale, espandendosi e raffreddandosi, si è condensato in un’enorme nube di polvere fredda.
Evoluzione nel tempo dell’orbita di un pianeta, fino al suo inglobamento da parte di una stella distante 12.000 anni luce dalla Terra. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (STScl)
Uno degli aspetti più intriganti delle osservazioni consiste nella presenza di un disco di gas caldo nelle immediate vicinanze della stella. La sua composizione non è certa, ma l’elevata risoluzione spettrale del telescopio Webb è risultata di grande aiuto nell’identificazione di alcune delle molecole nel disco, tra cui il monossido di carbonio. La capacità di caratterizzare il gas ha generato una lunga serie di interrogativi su cosa sia avvenuto in seguito all’inglobamento planetario. «Questo è un importante punto di arrivo nello studio di eventi simili. È l’unico inglobamento che abbiamo osservato in azione e, al tempo stesso, la migliore rilevazione delle conseguenze dopo che le cose si sono calmate», sottolinea Ryan M. Lau, autore principale dell’articolo e astronomo del NoirLab di Tucson, in Arizona.
Gli scienziati prevedono di ampliare il campione di studi, osservando altri fenomeni di inglobamento planetario, in particolare utilizzando il futuro osservatorio Vera C. Rubin e il telescopio spaziale Nancy Grace Roman, in fase di sviluppo. «Stiamo acquisendo preziose informazioni sul destino finale dei sistemi planetari, forse anche del nostro», conclude Lau.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Revealing a Main-sequence Star that Consumed a Planet with JWST”, di Ryan M. Lau, Jacob E. Jencson, Colette Salyk, Kishalay De, Ori D. Fox, Matthew J. Hankins, Mansi M. Kasliwal, Charles D. Keyes, Morgan Macleod, Michael E. Ressler e Sam Rose
In Abruzzo, la finale dei campionati di astronomia
Locandina della Finale Nazionale dei Campionati di Astronomia, a Teramo
Tutto è pronto per la XXIII edizione della Finale Nazionale dei Campionati Italiani di Astronomia, che si terrà dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo, in Abruzzo. Dopo un lungo percorso di selezione che ha coinvolto quasi 10mila studenti e studentesse in tutta Italia, i novanta migliori talenti dell’astronomia si sfideranno nella risoluzione di problemi teorici e di casi pratici per conquistare il titolo nazionale. Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (Sait) e dall’Istituto nazionale di astrofisica. Quest’anno il Liceo Scientifico Statale “Albert Einstein” di Teramo ospiterà le prove ufficiali, confermandosi centro nevralgico dell’evento.
La cerimonia di apertura si terrà martedì 6 maggio 2025 a Giulianova, alla presenza di autorità istituzionali e accademiche abruzzesi e nazionali. Moderatore d’eccezione sarà il giornalista e scrittore Angelo De Nicola. Durante l’evento, Marica Branchesi (ordinaria di Astrofisica al Gssi – Gran Sasso Science Institute), terrà una lectio magistralis dal titolo “Una nuova esplorazione dell’Universo attraverso le onde gravitazionali”, offrendo al pubblico un emozionante affaccio sull’universo più estremo.
Mercoledì 7 maggio, presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo, i finalisti e le finaliste si cimenteranno in una competizione di alto livello, confrontandosi con sfide complesse per le quali dovranno mettere in campo tutte le proprie abilità e competenze in astronomia, astrofisica e matematica applicata. Nello specifico, la finale consisterà in una prova teorica (risoluzione di problemi di astronomia, astrofisica, cosmologia e fisica moderna) e in una prova pratica (analisi di dati astronomici).
Giovedì 8 maggio si terrà la cerimonia di premiazione della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia. Saranno premiati diciotto studenti: cinque per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti loro verrà conferita la Medaglia Margherita Hack per l’edizione 2025 e il loro nome sarà inserito nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, agli otto studenti che si classificheranno immediatamente dopo i vincitori sarà assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione.
Tra i campioni nazionali saranno selezionati i componenti della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica (Ioaa), appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: per la sezione senior è in programma a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto e per la sezione Junior a Piatra Neamt in Romania, il prossimo ottobre.
«Le finali dei Campionati di Astronomia rappresentano la punta dell’iceberg della grande mole di lavoro che la Sait, in collaborazione con l’Istituto nazionale di astrofisica, porta avanti per interessare all’astronomia gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado», afferma Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana. «È uno sforzo corale della comunità astronomica italiana, reso possibile dal supporto del Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione. Il successo della competizione è cresciuto negli anni e testimonia l’interesse per una disciplina che, pur non essendo curriculare nel nostro ordinamento scolastico, per la sua valenza interdisciplinare va oltre il naturale legame con le leggi fondamentali della fisica. Le grandi rivoluzioni scientifiche hanno le radici nel cielo e i campionati di astronomia consentono di trasmettere ai ragazzi non solo il fascino delle stelle ma, anche, lo straordinario sviluppo della scienza».
La città di Teramo e la costa adriatica si preparano ad accogliere con entusiasmo i giovani protagonisti dei Campionati Italiani di Astronomia, trasformandosi per qualche giorno in un laboratorio diffuso di scienza, inclusione e divulgazione.
Per saperne di più:
- Consulta il sito ufficiale dei Campionati Italiani di Astronomia
Da Catania alle Marche e ritorno: il viaggio del Merz
Il telescopio rifrattore Merz in un’immagine d’archivio che mostra lo strumento, con la sua montatura, durante i test nella Sala delle Figure dell’Osservatorio astronomico di Padova. Crediti: Inaf
“Caro professore, in seguito agli intercorsi contatti, sono lieto d’informarla che i ricercatori di questo istituto hanno deciso di consegnare in prestito permanente all’Istituto Tecnico Nautico di Ancona la montatura del rifrattore con moto orario e canna in legno”. Così scriveva il 29 luglio 1971 il professor Giovanni Godoli, direttore dell’Osservatorio astrofisico di Catania. Oggi dopo oltre cinquant’anni di assenza, la storica montatura equatoriale del grande rifrattore Merz è in procinto di tornare nella sua sede originaria. Un ritorno tanto agognato che segna anche l’avvio di un progetto di restauro e valorizzazione di uno degli strumenti astronomici più significativi dell’Osservatorio catanese.
La storia di questo telescopio ha inizio nel 1878, quando la prestigiosa ditta Merz di Monaco di Baviera, all’epoca leader mondiale nel campo dell’ottica astronomica, realizzò il tubo e l’obiettivo da 34 cm per un nuovo telescopio destinato all’Osservatorio “Vincenzo Bellini”, posto sulle pendici del Monte Etna. La montatura fu invece realizzata da Giuseppe Cavignato, meccanico dell’Osservatorio astronomico di Padova, completata negli stessi anni con una precisione e una cura che testimoniano l’elevato livello dell’artigianato scientifico italiano dell’epoca. Per più di sessant’anni, questo strumento ha permesso agli astronomi catanesi di effettuare importanti osservazioni astronomiche – in particolare nel campo della fisica solare, studiando macchie, facole e protuberanze.
Il valore scientifico dello strumento fu ulteriormente accresciuto nel 1906, quando fu equipaggiato con uno spettroelioscopio, progettato da Annibale Riccò e George Ellery Hale, che rese possibile la realizzazione di fotografie sistematiche della fotosfera e della cromosfera solare per oltre trent’anni, contribuendo in modo significativo all’avanzamento della ricerca in astrofisica solare. Il telescopio restò operativo fino agli anni ’40 del Novecento, quando fu progressivamente dismesso.
Nel luglio del 1971, l’allora direttore dell’Osservatorio catanese, Giovanni Godoli, ne concesse la montatura in prestito permanente a Mario Veltri, prima docente e poi preside dell’Istituto Tecnico Nautico “A. Elia” di Ancona, nonché fondatore e figura centrale dell’Associazione marchigiana astrofili (Ama). In una lettera, Godoli scriveva: “Com’è a sua conoscenza, la montatura si trova presso le Officine Sarti di Bologna e può essere direttamente prelevata dall’Istituto Nautico di Ancona, mentre il moto orario e la canna verranno inoltrati a codesto Istituto a cura di questo Osservatorio”. Per oltre cinquant’anni, gli astrofili marchigiani si sono presi cura della montatura e l’hanno utilizzata per attività didattiche e divulgative.
Le operazioni di recupero della montatura dell’equatoriale Merz preso l’Osservatorio dell’Associazione marchigiana astrofili, Crediti: Ama
Oggi, grazie a una nuova collaborazione tra l’Inaf di Catania e l’Associazione marchigiana astrofili, questo prezioso pezzo di storia astronomica è finalmente rientrato a Catania. Inizialmente la montatura verrà stoccata nei locali dell’Osservatorio in attesa dei doverosi e importanti lavori di restauro dell’intero strumento già avviato sul tubo. Si tratta di un lavoro delicato, che porterà al recupero degli antichi ottoni, dei legni e dei meccanismi storici. Lo scopo è quello di preservare l’integrità storica dello strumento, rispettando i materiali e le tecniche originali, affinché possa tornare non solo visibile al pubblico, ma anche riconoscibile come testimone materiale della storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana.
Il ritorno della montatura rappresenta un importante recupero del patrimonio storico-scientifico dell’Istituto nazionale di astrofisica, che ha tra i suoi obiettivi statutari la tutela, la conservazione e la valorizzazione dell’intero patrimonio storico conservato negli osservatori italiani. Un patrimonio che comprende strumenti scientifici, libri, opere d’arte, fotografie e archivi che rappresenta una risorsa preziosa per lo sviluppo della ricerca in quanto non può esserci vero sviluppo scientifico e tecnologico se non si preserva la memoria storica. Questo progetto di valorizzazione e diffusione del sapere è prova ammirevole di come la cultura riesca a superare ogni barriera e ogni ostacolo. Proprio in tempi come questi ci viene affidato un compito fondamentale, quello di diffondere in tutto il mondo cultura e bellezza. Bellezza che ha l’aspetto di uno Stivale adagiato su un placido mare.
Il letto in cui giace una stella che muore
Come si muore nell’universo? Un’istantanea catturata dal James Webb Space Telescope ce lo racconta con dovizia di dettagli. Si tratta del ritratto più particolareggiato di Ngc 1514, nebulosa planetaria notata dall’astronomo William Herschel nel 1790 – proprio lui, quello a cui è stato dedicato l’omonimo telescopio spaziale, attento scrutatore del lontano infrarosso fino al 2013.
La nebulosa planetaria Ngc 1514 immortalata dallo strumento Miri del James Webb Space Telescope. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, M. Ressler (Nasa-Jpl), D. Jones (Iac)
L’immagine, di singolare bellezza e rivelatrice di sorprendenti strutture attorno a una stella morente, è diventata protagonista di una recente fotonotizia dell’Esa. L’ha scattata Webb, si diceva, e in particolare il suo strumento Miri, impareggiabile occhio nel medio infrarosso.
La stella in agonia è una nana bianca che palpita al centro della fotografia, caratterizzata dai tipici raggi che costellano i dati di Webb – in verità di stelle ce ne sarebbero due qui, anche se nell’immagine ci appaiono come una stella singola. Non afflitto in siderale solitudine, bensì assistito da una stella compagna, l’astro morente sta dunque esalando i suoi ultimi respiri. Respiri che, in una manciata di millenni – quattro, secondo gli scienziati – hanno prodotto le strutture immortalate da Webb.
Strutture che attorniano la stella morente e che sono costituite da piccoli grani di polvere, scaldati dalla luce caldissima della nana bianca, e che si manifestano riemettendo quella luce nel medio infrarosso, dove Miri l’ha catturata. Si pensa che la stella compagna abbia avuto un ruolo cruciale nel modellare queste singolari strutture dalla forma ad anello.
Secondo gli scienziati, i due astri, che hanno un periodo orbitale di soli nove anni, erano molto prossimi quando la stella in agonia ha espulso grandi quantità di materiale. Materiale che ha così risentito dell’interazione gravitazionale fra di essi, assumendo la conformazione oggi visibile, e che continuerà a trasformarsi per qualche altro migliaio di anni.
C’è anche tanto gas all’interno di questa fotografia. La stella morente, come si diceva, si è infatti progressivamente liberata dei suoi strati gassosi più esterni, riversandoli nello spazio circostante. La regione in rosa, nel cuore dell’immagine, la si deve all’emissione degli atomi di ossigeno. Tutt’altro che uniforme, ma caratterizzata da buchi e cavità scavate dal gas in rapida espansione.
Come spesso accade nelle immagini di Webb, si scorgono elementi che nulla hanno a che fare con la lenta agonia che si sta consumando in Ngc 1514, visibile nella costellazione del Toro, a 1500 anni luce dal nostro pianeta. Si notano infatti manciate di “palline” colorate che si affacciano di tanto in tanto fra le lingue di gas e polvere della nebulosa planetaria, galassie situate sullo sfondo e la cui luce ci raggiunge da distanze sconfinatamente più remote. La stella situata poco sotto il centro dell’immagine pure non c’entra nulla con lo spettacolo prodotto dalla nana bianca, ma stavolta è un astro che sta davanti alla nebulosa plenetaria, e dunque a una distanza più prossima alla Terra.
In un letto di gas e polvere giace dunque una stella che muore. Il ritratto di Ngc 1514 ci parla del morire, in una delle sue possibili forme, nell’universo. Morire ma anche risorgere. Il materiale disperso nel mezzo interstellare dalle stelle morenti funge da materia prima per produrre nuove generazioni di astri. Nell’universo nulla muore mai davvero.
Pasqua tra religione e astronomia
Nell’immagine il dipinto di Giotto di Bondone, Ingresso a Gerusalemme (1303), conservato nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Immagine di pubblico dominio
La Pasqua è un’importante festività religiosa che accomuna Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Per quest’ultimo la “festa del sacrificio” (Id al-adha) celebra il famoso episodio biblico del sacrificio di un agnello al posto di Isacco, il figlio che Abramo stava per sacrificare a Dio. Tuttavia, a parte il carattere sacrificale e di ringraziamento alla divinità, questa ricorrenza islamica non ha molto altro in comune con le altre due confessioni, per le quali la Pasqua ha probabilmente una valenza superiore.
L’origine della Pasqua cristiana prende le mosse da quella ebraica che, in origine legata all’equinozio primaverile e risalente a tempi molto antichi, divenne con Mosé una Pasqua di liberazione dalla schiavitù legata all’esodo degli israeliti dall’Egitto verso la Terra Promessa. Da questo evento prende anche il nome: Pesach significa “passare oltre” e fa riferimento a Dio che sarebbe “passato oltre” le case segnate con il sangue dell’agnello (qui torna il riferimento al sacrificio) risparmiandole dal massacro degli egiziani. La storicità di tale evento è ovviamente dibattuta ma, se fosse un fatto storico, l’Esodo biblico potrebbe essere avvenuto in un arco di tempo che va dal quattordicesimo all’ottavo secolo avanti Cristo, intervallo molto ampio ma, in ogni caso, precristiano.
Il cristianesimo ha poi riadattato i riti ebraici sulla figura di Gesù ereditando il nome Pesach e legandolo, forse con qualche errore di traduzione dall’ebraico al greco (Pascha), alla passione di Cristo. Fu San Paolo, già nel 54 dopo Cristo, a esortare i primi cristiani ad affrancarsi dall’attesa, che ancora oggi caratterizza la religione ebraica, per farne invece una Pasqua di resurrezione che celebrasse l’arrivo del Messia. Gesù stesso che si sacrifica per l’umanità rappresenta, una volta ancora, l’agnello.
In tutti i casi si tratta di un momento solenne di gioia molto attesa, preceduta da momenti di buio, di difficoltà, persino di morte in cui il richiamo all’equinozio e alla rinascita primaverile pare comunque evidente. Non a caso, quando vogliamo descrivere qualcuno davvero molto contento, diciamo che è felice come una Pasqua.
Ma come si calcola la Pasqua? Le tre religioni hanno tutte metodi diversi: per l’Islam avviene il decimo giorno del dodicesimo mese del calendario lunare musulmano, per l’ebraismo cade il quattordicesimo giorno dopo l’inizio dell’anno religioso, che corrisponde al novilunio dopo l’equinozio di primavera, mentre per i cristiani sono tre le condizioni da rispettare:
- la prima domenica
- dopo la prima luna piena
- dopo l’equinozio di primavera
Questi criteri vennero stabiliti nel concilio di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino nel 325 dopo Cristo: consesso che fu di enorme importanza perché definì i dogmi fondamentali del cristianesimo che ancora oggi – credenti o non credenti – condizionano il nostro calendario e, in ultima analisi, il nostro vivere quotidiano.
Facciamo una prova pratica con il 2025: l’equinozio di primavera è il punto di partenza. La prima luna piena dopo l’equinozio è avvenuta il 13 aprile (la Domenica delle Palme dei cristiani). La prima domenica dopo il plenilunio è appunto il 20 aprile, giorno di Pasqua.
Questa triade di eventi può avvenire in varie combinazioni dando origine a pasque “basse” (a partire dal giorno dopo l’equinozio, 22 marzo, fino al 2 aprile), “medie” (dal 3 al 13 aprile) e “alte” (dal 14 al 25 aprile). In pratica la Pasqua può avvenire in un intervallo di 35 giorni in cui le date alle estremità sono piuttosto rare.
Ad esempio, dal 1583 – anno di adozione del calendario Gregoriano, attualmente in vigore nella maggior parte dei paesi del mondo – a oggi, le pasque cadute il 22 marzo sono state solo quattro (1598, 1693, 1761 e 1818) analogamente a quelle cadute il 25 aprile (1666, 1734, 1886, 1943). La prossima pasqua “altissima” è comunque relativamente vicina: sarà infatti nel 2038.
Dalla Pasqua, festa mobile per eccellenza in quanto dipendente dalla Luna, deriva una nutrita serie di altre feste mobili a essa collegate che vanno dalla Domenica di Settuagesima (che inaugura il Carnevale 64 giorni prima) al Cuore Immacolato di Maria (69 giorni dopo) passando per il Mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima (40 giorni prima) e la Pentecoste (50 giorni dopo). Insomma la Pasqua riesce a influenzare, a livello di liturgia cristiana, oltre quattro mesi dell’anno.
Quindi, nel caso del Cristianesimo, la Pasqua è da considerarsi una ricorrenza religiosa dalla solida base astronomica? Non proprio, infatti a prevalere è stato lo spirito pragmatico della nuova religione cristiana che, proprio a Nicea, optò per la cristallizzazione dell’equinozio primaverile sul giorno del 21 marzo, nonostante l’equinozio astronomico possa ricadere in un più ampio intervallo che va dal 19 al 21.
Qual è il motivo di queste variazioni? La ragione risiede nei ritardi accumulati per via della differenza tra l’anno civile, che è un intervallo di tempo convenzionale stabilito in 365 giorni da 24 ore medie, e l’anno solare (o tropico) che è frutto di osservazioni reali del passaggio del Sole al punto vernale (ovvero all’equinozio di primavera) e che dura un pò di più: 365 giorni 5 ore 48 minuti 47 secondi.
Immagine satellitare della Terra durante un equinozio. I confini di separazione tra luce ed ombra, chiamati “terminatori”, sono verticali e paralleli. Questo significa che il globo è illuminato equamente da nord a sud e quindi sia il giorno che la notte, ovunque, durano 12 ore. Andando verso l’estate, la posizione dell’asse terrestre rispetto al sole cambierà, portando l’emisfero nord ad “inchinarsi” verso il Sole ed avere dunque una maggiore illuminazione fino alla data del 21 giugno, solstizio d’estate. I terminatori assumeranno dunque un’inclinazione a V con il polo nord illumunato e quello sud al buio. Crediti: Eumetsat
L’eccedenza di quasi sei ore che l’anno solare accumula ogni anno rispetto all’anno civile viene corretta con l’inserimento di una giornata aggiuntiva a fine febbraio ogni quattro anni, il famoso anno bisestile. Difatti, le 24 ore aggiuntive, divise per quattro anni, fanno sei ore l’anno. Tuttavia, sei ore sono troppe rispetto alla realtà: aggiungono infatti 11 minuti e 13 secondi in più rispetto al reale ritorno del Sole al punto vernale. Questo pur breve lasso di tempo andava eliminato ogni tanto per far tornare i conti. L’escamotage trovato da papa Gregorio XIII fu quello di non considerare bisestili gli anni secolari non divisibili per 400 (ad esempio, 1700, 1800 e 1900 non furono bisestili).
Insomma, le differenze di data degli equinozi sono dovute proprio a queste circa sei ore di differenza, per cui ogni anno non bisestile l’equinozio reale cade con un ritardo di sei ore rispetto all’anno precedente e nei bisestili, al naturale ritardo di sei ore, ne vengono aggiunte (o sottratte, a seconda del punto di vista) 24, per cui si anticipa di 18 ore e di conseguenza i giorni possono essere diversi. Ad esempio, dal 2000 al 2100 avremo venti equinozi il 19 marzo, 78 il 20 marzo e solo due il 21 marzo, peraltro già avvenuti nel 2003 e nel 2007. Per ovviare a queste variazioni, a Nicea si decise, appunto, di stabilire l’equinozio il 21 marzo e avere dunque una Pasqua uguale in tutto il mondo.
Per approfondire:
- Leggi l’articolo di Adriano Gaspani “La Pasqua Cristiana Romana secondo il Computus medioevale”
- Leggi l’articolo di Enrico Cattaneo “La data della Pasqua nella chiesa antica”
- Leggi l’articolo di Paolo Soletta “Aspettando Pasqua tra equinozio e superluna”
- Calcolatore online d’equinozi e solstizi
- Date e orari d’equinozi e solstizi dal 2001 al 2100
Una doppietta di biofirme su K2-18b
Sono due composti organici volatili. Uno ha formula chimica C₂H₆S (CH₃–S–CH₃), l’altro C₂H₆S₂ (CH₃–S–S–CH₃). I chimici li chiamano tioeteri. Sulla Terra sono prodotti da diversi organismi viventi, come alcune specie batteriche e il fitoplancton marino, contribuendo al caratteristico odore della salsedine. Stiamo parlando del dimetil solfuro (Dms) e del dimetil disolfuro (Dmds).
Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, un team di ricercatori guidati dall’università di Cambridge ha ora individuato le impronte di queste molecole nell’atmosfera di un pianeta al di fuori del Sistema solare. I risultati della ricerca sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Illustrazione artistica che mostra un pianeta iceano (in primo piano) in orbita attorno alla sua stella madre (sullo sfondo). Crediti: A. Smith, N. Madhusudhan (Università di Cambridge)
Il pianeta in questione si chiama K2-18b. Scoperto nel 2015, è circa 9 volte più massiccio della Terra e 2,6 volte più grande. Si trova a 124 anni luce di distanza, nella costellazione del Leone, dove orbita nella zona abitabile della sua stella, la nana rossa K2-18.
Il pianeta ha già fatto parlare di sé nel 2023 (ce ne siamo occupati anche noi qui su Media Inaf): in quell’occasione, osservazioni condotte dallo stesso team di ricerca, utilizzando sempre il Jwst, avevano rilevato la presenza di metano e anidride carbonica nella sua atmosfera — si trattava delle prime molecole organiche scoperte in un esopianeta situato nella zona abitabile della propria stella. Le indagini hanno inoltre messo in luce deboli tracce di dimetil solfuro. Le nuove analisi condotte dai ricercatori confermano la firma di questo composto, e stimano addirittura che sia presente in copiose quantità. Non solo: rivelano anche un’altra molecola correlata, anch’essa abbondante: il dimetil disolfuro, appunto.
Gli scienziati hanno individuato la presenza delle due molecole analizzando gli spettri di luce del pianeta ottenuti con il metodo dei transiti, una tecnica che consente di determinare la composizione chimica delle atmosfere planetarie esaminando la luce della stella mentre il pianeta transita davanti al suo disco. Durante i transiti, una frazione della luce stellare attraversa l’atmosfera del pianeta prima di raggiungere gli strumenti di osservazione sulla Terra. In questo passaggio, alcune lunghezze d’onda vengono assorbite da specifiche molecole. Questo assorbimento lascia delle impronte caratteristiche nello spettro della luce, che gli astronomi possono analizzare per identificare i gas presenti.
La rilevazione del dimetil solfuro e del dimetil disolfuro nello spettro di trasmissione di K2-18b è stata fatta grazie allo strumento Miri di Jwst, l’unico strumento del telescopio in grado di “vedere” la luce alle lunghezze d’onda del medio infrarosso.
Grafico che mostra lo spettro di trasmissione dell’esopianeta K2-18 b, , ottenuto utilizzando lo spettrografo Miri del telescopio spaziale James Webb. L’asse verticale indica la frazione di luce stellare che durante il transito è assorbita dalle molecole presenti nell’atmosfera del pianeta. I dati osservativi sono rappresentati dai cerchi gialli. Le curve mostrano i modelli che meglio si adattano ai dati: la curva nera rappresenta la mediana, mentre quelle color ciano delineano l’intervallo di confidenza a 1 sigma. Le bande di assorbimento attribuite al dimetil solfuro e al dimetil disolfuro sono indicate da linee orizzontali e didascalie testuali. Sullo sfondo del grafico è visibile un’illustrazione artistica di un pianeta iceano in orbita attorno a una nana rossa. Crediti: . Smith, N. Madhusudhan (University of Cambridge)
Come accennato, le molecole sono presenti sul pianeta in quantità abbondanti. Le concentrazioni calcolate dai ricercatori sono di oltre dieci parti per milione in volume, migliaia di volte superiori rispetto a quelle presenti sulla Terra, dove generalmente sono inferiori a una parte per miliardo. Le abbondanti quantità di questi tioeteri, insieme alla presenza di metano e anidride carbonica, suggeriscono che K2-18b possa essere un candidato pianeta hycean– dalla contrazione delle parole inglesi hydrogen (idrogeno) e ocean (oceano): un ipotetico mondo abitabile caratterizzato da un oceano globale e un’atmosfera ricca di idrogeno, potenzialmente in grado di ospitare la vita.
«Studi teorici precedenti hanno previsto che alti livelli di gas a base di zolfo, come Dms e Dmds, fossero possibili nei mondi hycean» ricorda il primo autore dell’articolo, Nikku Madhusudhan dell’Università di Cambridge. «In linea con quanto previsto, ora li abbiamo osservati. Considerando tutto ciò che sappiamo su questo pianeta, l’ipotesi di un mondo hycean con un oceano brulicante di vita è quella che meglio si adatta ai dati in nostro possesso».
Sebbene la scoperta sia rilevante dal punto di vista astrobiologico, gli scienziati sono comunque cauti nel considerare la possibilità che siano state trovate tracce di vita su un altro mondo. I motivi di questa prudenza sono due. Il primo riguarda il fatto che a produrre questi composti potrebbero essere processi chimici non biologici. Il secondo ha a che fare con la statistica: il livello di significatività dei risultati di questo studio è di tre sigma, il che implica una probabilità dello 0,3 per cento che i dati siano frutto del caso. Ma gli scienziati lo sanno bene: affinché un risultato sia ritenuto scientificamente rilevante, è necessario raggiungere la soglia dei cinque sigma, corrispondente a una probabilità inferiore allo 0,00006% che i risultati siano dei falsi positivi.
«È fondamentale mantenere un sano scetticismo verso i nostri stessi risultati, perché solo attraverso test rigorosi e ripetuti potremo arrivare a un livello di fiducia sufficiente» sottolinea a questo proposito Madhusudhan. «È così che funziona il metodo scientifico».
Secondo i ricercatori, un’ulteriore campagna osservativa con il Jwst della durata compresa tra 16 e 24 ore potrebbe permettere di raggiungere la significatività statistica desiderata. Saranno inoltre fondamentali ulteriori studi, sia teorici che sperimentali, per verificare se i due composti possano essere prodotti in modo non biologico alle concentrazioni osservate.
La domanda “Siamo soli nell’universo?” rimane, dunque, ancora senza una risposta certa. Tuttavia, i telescopi di nuova generazione potrebbero far progredire significativamente la nostra comprensione, portandoci sempre più vicini a una possibile risposta definitiva.
«Tra qualche decennio, potremmo guardarci indietro e riconoscere in questo momento il punto in cui l’universo vivente è diventato davvero alla nostra portata» conclude Madhusudhan. «Potrebbe essere il punto di svolta, quello in cui la domanda fondamentale “siamo soli nell’universo?” diventa, finalmente, una domanda a cui siamo in grado di rispondere».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “New Constraints on DMS and DMDS in the Atmosphere of K2-18 b from JWST MIRI” di Nikku Madhusudhan, Savvas Constantinou, Måns Holmberg, Subhajit Sarkar, Anjali A. A. Piette e Julianne I. Moses
Drago della Luce, la lontana sosia della Via Lattea
Le grandi galassie a spirale ben definite, come la Via Lattea, sono piuttosto comuni nell’universo vicino. Tuttavia, risultano difficili da individuare nell’universo primordiale, il che è coerente con le aspettative secondo cui i grandi dischi con bracci a spirale impiegherebbero molti miliardi di anni per formarsi. Tuttavia, l’astronoma Christina Williams del Nsf Noirlab ha scoperto una galassia a spirale sorprendentemente matura appena un miliardo di anni dopo il Big Bang. Si tratta della galassia a spirale più distante, e quindi antica, a oggi conosciuta nell’universo osservabile.
L’immagine di Zhúlóng, la galassia a spirale più distante scoperta fino a oggi. Presenta bracci a spirale sorprendentemente ben definiti, un rigonfiamento centrale con stelle antiche e un ampio disco in cui si formano nuove stelle, una struttura simile a quella della Via Lattea. Crediti: Noirlab/Nsf/Aura/Nasa/Csa/Esa/M. Xiao (Università di Ginevra)/G. Brammer (Istituto Niels Bohr)/D. de Martin & M. Zamani (Nsf Noirlab)
Questa galassia, chiamata Zhúlóng – che significa Drago della Luce nella mitologia cinese, una creatura associata alla luce e al tempo cosmico – è stata scoperta nell’ambito del progetto Panoramic Survey, condotto con il telescopio spaziale James Webb (Jwst) e co-diretto da Williams e Pascal Oesch dell’Università di Ginevra (Unige).
«Le survey su larga scala sono necessarie per scoprire galassie rare e massicce», afferma Williams. «Speravamo di scoprire galassie massicce e luminose nelle epoche più antiche dell’universo, per comprendere come si formano ed evolvono. Questo aiuta a interpretare le fasi successive della loro evoluzione, che saranno osservate con Lsst».
Zhúlóng presenta una struttura sorprendentemente matura, unica tra le galassie lontane, che di solito sono disordinate e irregolari. Assomiglia alle galassie che si trovano nell’universo vicino, con una massa e dimensioni simili a quelle della Via Lattea. La sua struttura mostra un rigonfiamento compatto al centro, con stelle più vecchie, circondato da un grande disco di stelle più giovani che si concentrano nei bracci a spirale.
È una scoperta sorprendente sotto diversi aspetti. Primo, dimostra che galassie mature, simili a quelle del nostro vicinato cosmico, possono svilupparsi molto prima di quanto si ritenesse possibile. Secondo, da tempo si ipotizza che i bracci a spirale nelle galassie impieghino molti miliardi di anni per formarsi, ma questa galassia dimostra che possono invece svilupparsi anche in tempi più brevi.
In realtà, galassie a spirale simili alla Via Lattea sono già state osservate anche in epoche molto antiche dell’universo. Una di queste è stata identificata da Jwst nel febbraio 2023, risalente a quando l’universo aveva appena 1,4 miliardi di anni. Anche questa galassia mostrava un disco ben formato e una struttura sorprendentemente ordinata per quell’epoca. Pochi mesi dopo, sempre Jwst ha scoperto un’altra antica galassia, gemella della Via Lattea 11.7 miliardi di anni fa. Prima ancora, nel 2020, Alma ha osservato una galassia molto distante, con un disco ben ordinato: un’altro sorprendente “precursore” delle galassie a spirale moderne.
La rarità di galassie come Zhúlóng suggerisce che le strutture a spirale potrebbero essere di breve durata in questa epoca dell’universo. È possibile che fusioni galattiche, o altri processi evolutivi più comuni nell’universo primordiale, distruggano i bracci a spirale. Pertanto, queste strutture potrebbero essere più stabili in epoche cosmiche successive, il che spiegherebbe perché sono più comuni nel nostro vicinato.
Il progetto Panoramic Survey è innovativo poiché è uno dei primi del Jwst a utilizzare la modalità pure parallel mode – una strategia osservativa in cui una seconda fotocamera raccoglie immagini aggiuntive mentre la fotocamera principale di Jwst è puntata altrove.
Le future osservazioni di Jwst e dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) aiuteranno a confermare le proprietà di Zhúlóng e a capire qualcosa di più sulla sua storia di formazione. Con il proseguire delle nuove survey extragalattiche su vasta scala, gli astronomi si aspettano di scoprire altre galassie simili, offrendo nuove intuizioni sui complessi processi che hanno modellato l’universo primordiale.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “PANORAMIC: Discovery of an ultra-massive grand-design spiral galaxy at z ∼2” di Mengyuan Xiao, Christina C. Williams, Pascal A. Oesch, David Elbaz, Miroslava Dessauges-Zavadsky, Rui Marques-Chaves, Longji Bing, Zhiyuan Ji, Andrea Weibel, Rachel Bezanson, Gabriel Brammer, Caitlin Casey, Aidan P. Cloonan, Emanuele Daddi, Pratika Dayal, Andreas L. Faisst, Marijn Franx, Karl Glazebrook, Anne Hutter, Jeyhan S. Kartaltepe, Ivo Labbe, Guilaine Lagache, Seunghwan Lim, Benjamin Magnelli, Felix Martinez, Michael V. Maseda, Themiya Nanayakkara, Daniel Schaerer and Katherine E. Whitaker
Lucy in the Sky with… 52246 Donaldjohanson
I modelli di formazione ed evoluzione planetaria suggeriscono che gli asteroidi troiani siano resti del materiale primordiale che, oltre quattro miliardi di anni fa, ha forgiato il Sistema solare. Studiare alcuni di questi corpi primitivi, situati tra le orbite di Marte e Giove, è l’obiettivo della missione Lucy della Nasa.
Una rappresentazione del Sistema solare che mostra la traiettoria della sonda Lucy durante l’incontro con l’asteroide troiano Donaldjohanson il 20 aprile 2025. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Asu
Così chiamata in onore della nostra antichissima antenata australopiteca, Lucy, appunto – nome ispirato dalla celebre canzone “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles – la sonda è partita per il suo viaggio il 16 ottobre del 2021.
Dopo un primo assist gravitazionale con la Terra nell’ottobre del 2022, il primo novembre 2023 il veicolo spaziale ha incontrato il suo primo “diamante”, risultato poi essere un contrarié, come direbbe un orefice: un sistema binario composto dall’asteroide Dinkinesh e dalla sua piccola luna Selam.
Effettuato un altro assist gravitazionale con la Terra nel 2024, la sonda si prepara ora all’incontro con il suo secondo obiettivo: il piccolo asteroide della fascia principale 52246 Donaldjohanson. Se il primo incontro ha rappresentato una preziosa opportunità per testare i sistemi della sonda, questo nuovo flyby sarà una vera e propria “prova generale” per i futuri incontri con gli altri asteroidi troiani che rappresentano l’obiettivo principale della missione.
L’asteroide 52246 Donaldjohanson prende il nome dal paleoantropologo che ha scoperto il fossile Lucy. Con un diametro di circa 4 chilometri, è il più piccolo tra gli obiettivi della missione. È un oggetto celeste particolarmente interessante: secondo gli scienziati, si sarebbe originato da una violenta collisione tra 163 Erigone, l’asteroide progenitore, e un altro corpo celeste; un evento avvenuto circa 150 milioni di anni fa, da cui sarebbe nata l’omonima famiglia di asteroidi Erigone.
L’appuntamento di Lucy con questo masso spaziale è fissato per il giorno di Pasqua, domenica 20 aprile, alle 19:51 ora italiana. Mentre molti di noi saranno stramazzati sul divano a digerire il pranzo, la sonda sorvolerà il corpo celeste a una velocità di crociera di 13,4 chilometri al secondo, arrivando a una distanza di circa 960 chilometri dalla sua superficie.
Il flyby sarà piuttosto complesso. Vediamone i punti salienti. Per seguire l’asteroide, circa trenta minuti prima del massimo avvicinamento la sonda dovrà riorientarsi, allontanando temporaneamente la sua antenna ad alto guadagno dalla Terra e interrompendo così le comunicazioni. In questa fase, grazie al suo sistema di tracciamento terminale, Lucy ruoterà autonomamente per mantenere l’asteroide nel proprio campo visivo, effettuando osservazioni con tutti e tre gli strumenti scientifici di cui dispone: l’imager ad alta risoluzione L’Lorri, l’imager a colori e spettrometro a infrarossi L’Ralph, e lo spettrometro a emissione termica L’Tes. L’inseguimento terminerà circa 40 secondi prima del raggiungimento della minima distanza dall’asteroide, una misura precauzionale per salvaguardare gli strumenti dall’eccessiva intensità della luce solare
Animazione che mostra l’asteroide Donaldjohanson (nel riquadro bianco) muoversi tra le stelle sullo sfondo. Le immagini con cui è stato realizzato questo contenuto sono state scattate il 20 e il 22 febbraio 2025, quando il veicolo si trovava una distanza di 70 milioni di chilometri dal corpo celeste, e pubblicate il 25 febbraio. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/Noir
«Se foste seduti sull’asteroide a osservare il veicolo spaziale che si avvicina, fissando il Sole in attesa che esso emerga dal suo bagliore, dovreste proteggere gli occhi», dice a questo proposito Michael Vincent, ricercatore al Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado (Usa), e responsabile delle operazioni di sorvolo. «Una volta che Lucy avrà superato l’asteroide, le posizioni si invertiranno, e dovremo quindi schermare i suoi strumenti. La sonda è progettata per osservare oggetti illuminati da una luce 25 volte più debole rispetto a quella che riceve la Terra: puntare le fotocamere direttamente verso il Sole potrebbe danneggiarle».
Una volta concluso il sorvolo, la sonda effettuerà una manovra di beccheggio, riorientando nuovamente i pannelli solari verso il Sole. Circa un’ora più tardi, Lucy avrà ristabilito le comunicazioni con la Terra e sarà dunque pronta per trasmettere i preziosi dati scientifici raccolti, un processo che richiederà diversi giorni.
«Ogni asteroide ha una storia diversa da raccontare», conclude Tom Statler, scienziato della Nasa e program scientist della missione. «Queste storie si intrecciano, delineando il racconto dell’origine del Sistema solare. Il fatto che ogni nuovo asteroide che visitiamo riesca a sorprenderci dimostra che stiamo solo agli inizi della comprensione di questa storia. Le osservazioni con i telescopi lasciano intendere che l’asteroide Donaldjohanson abbia molto da raccontare. Per questo, mi aspetto di restare ancora una volta sorpreso».
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:
Come Tatooine, ma ortogonale
Negli ultimi anni sono stati scoperti diversi pianeti in orbita contemporaneamente intorno a due stelle, come il mondo immaginario di Star Wars, Tatooine. Questi pianeti occupano tipicamente orbite che si allineano approssimativamente con il piano in cui le loro stelle ospiti orbitano l’una attorno all’altra. Si erano già trovati indizi dell’esistenza di pianeti su orbite perpendicolari, o polari, intorno a coppie di stelle: in teoria, queste orbite sono stabili. Inoltre sono stati rivelati dischi di formazione planetaria su orbite polari intorno a coppie di stelle. Tuttavia, fino ad ora, mancavano prove chiare dell’esistenza di questi pianeti polari. Prove infine giunte grazie alla sorprendente scoperta di un pianeta su un’orbita a un angolo di novanta gradi intorno a una rara coppia di stelle peculiari, riportata oggi su Science Advances, realizzata con il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, l’Osservatorio europeo australe.
Rappresentazione artistica dell’insolita orbita dell’esopianeta 2M1510 (AB) b attorno alle sue stelle ospiti, una coppia di nane brune. Il pianeta appena scoperto segue un’orbita polare, perpendicolare al piano sul quale si muovonoo le due stelle. Crediti: Eso/L. Calçada
«Sono particolarmente entusiasta di essere coinvolto nella scoperta di prove credibili dell’esistenza di questa configurazione», dice Thomas Baycroft, dottorando all’Università di Birmingham, Regno Unito, che ha guidato lo studio pubblicato su Science Advances.
L’inedito esopianeta, chiamato 2M1510 (AB) b, orbita intorno a una coppia di giovani nane brune, oggetti più grandi dei pianeti giganti gassosi ma troppo piccoli per essere stelle vere e proprie. Le due nane brune producono eclissi reciproche se viste dalla Terra, cosa che le rende parte di quella che gli astronomi chiamano una binaria a eclisse. Un sistema di questo tipo è incredibilmente raro: è solo la seconda coppia di nane brune a eclisse conosciuta finora e contiene il primo esopianeta mai trovato su una traiettoria perpendicolare all’orbita delle due stelle ospiti.
«Un pianeta in orbita non solo intorno a una binaria, ma a una binaria di nane brune, e che per di più segue un’orbita polare è decisamente incredibile ed entusiasmante», dice il coautore Amaury Triaud, professore all’Università di Birmingham.
Questa immagine, ripresa in luce visibile, mostra 2M1510 AB, una coppia di nane brune che orbitano l’una intorno all’altra. Le due nane brune, A e B, sono viste come un’unica sorgente in questa immagine, ma sappiamo che sono due perché si eclissano periodicamente. Monitorando le loro orbite, gli astronomi hanno riscontrato perturbazioni che possono essere spiegate solo dalla forza gravitazionale di un esopianeta che circonda entrambe le nane brune in un’orbita perpendicolare. Il sistema contiene anche una terza nana bruna, 2M1510 C, che si trova però troppo lontana per essere responsabile di queste perturbazioni. Crediti: Desi Legacy Survey/D. Lang (Perimeter Institute)
L’equipe ha scoperto questo pianeta mentre perfezionava i parametri orbitali e fisici delle due nane brune, raccogliendo osservazioni con lo strumento Uves (Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph) installato sul Vlt dell’Eso all’Osservatorio del Paranal, in Cile. La coppia di nane brune, nota come 2M1510, è stata osservata per la prima volta nel 2018 da Triaud e altri all’interno del programma “Search for habitable Planets EClipsing ULtra-cOOl Stars” (Speculoos), un’altro strumento al Paranal.
Gli astronomi hanno osservato che il percorso orbitale delle due stelle in 2M1510 veniva modificato in modi insoliti e ciò li ha portati a dedurre l’esistenza di un esopianeta con un insolito angolo orbitale. «Abbiamo esaminato tutti i possibili scenari e l’unico coerente con i dati è che un pianeta si trovi su un’orbita polare intorno a questa binaria», spiega Baycroft.
«La scoperta è stata fortuita, nel senso che le nostre osservazioni non erano programmate per cercare un tale pianeta o configurazione orbitale. In quanto tale, è una grande sorpresa», conclude Triaud. «Nel complesso, penso che questo dimostri a noi astronomi, ma anche al grande pubblico, cosa è possibile trovare nell’affascinante universo in cui viviamo».
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Evidence for a polar circumbinary exoplanet orbiting a pair of eclipsing brown dwarfs”, di Thomas A. Baycroft, Lalitha Sairam, Amaury H. M. J. Triaud e Alexandre C. M. Correia
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube dell’Eso:
La cometa del 1° maggio
Una nuova cometa si appresta a solcare i cieli terrestri e, se tutto andrà come previsto, dovrebbe arrivare alla magnitudine +5 ossia diventare visibile a occhio nudo. Le comete però sono, per definizione, imprevedibili, quindi le previsioni vanno prese con le pinze. La cometa di cui stiamo parlando è la C/2025 F2 (Swan). Swan è l’acronimo del Solar Wind Anisotropies, un telescopio a bordo della sonda Solar and Heliospheric Observatory (Soho) della Nasa che riprende il cielo nell’ultravioletto, alla lunghezza d’onda della Lyman-α. Tuttavia la cometa è stata scoperta sulle immagini di Swan da un trio di amatori, Vladimir Bezugly, Michael Mattiazzo e Rob Matson che, in modo indipendente l’uno dall’altro, ne hanno segnalato la presenza fra il 29 e il 31 marzo 2025. Dopo le necessarie conferme da altri osservatori, la cometa ha ricevuto ufficialmente il nome ‘Swan’ dal Minor Planet Center. La Swan è una cometa che si muove su un’orbita eliocentrica estremamente eccentrica, con il perielio a 0,33 au (poco all’interno dell’orbita di Mercurio) e l’afelio a 33106 au, all’altezza della nube di Oort.
La cometa C/2025 F2 (swan), ripresa il 6 aprile 2025 dagli astrofotografi Michael Jäger e Gerald Rhemann. Ben visibile la chioma di colore verde e la coda di ioni di colore bluastro.
Il periodo orbitale stimato è di poco superiore ai due milioni di anni, come è normale che sia con un’orbita così eccentrica. L’orbita ha anche un’altra particolarità: è inclinata di 90° sul piano dell’eclittica e la Swan sta arrivando al perielio, che sarà raggiunto il 1° maggio, da sopra il piano dell’eclittica: con questa geometria sono favoriti gli osservatori dell’emisfero boreale prima del perielio, e quelli dell’emisfero australe dopo il perielio. Durante l’avvicinamento al Sole l’attività di sublimazione dalla superficie di una cometa aumenta e la Swan non fa eccezione, anzi il 5 aprile è stato osservato un outburst, ossia aumento temporaneo di luminosità della chioma, che l’ha portata alla magnitudine +8,3 indice di un aumento dell’emissione di gas e polveri nello spazio. La chioma della cometa si presenta con il caratteristico colore verde dovuto all’emissione delle bande di Swan della molecola biatomica del carbonio, segno che la chioma è più ricca di gas che di polveri. Al momento la cometa, che brilla di magnitudine +7,5, è visibile al mattino nella costellazione di Andromeda, bassa sull’orizzonte est a partire dalle 4 ora locale: un piccolo telescopio o un ottimo binocolo (fisso su treppiede), saranno necessari per vederla, a patto di avere l’orizzonte est sgombro da ostacoli e un cielo privo di inquinamento luminoso.
Il percorso in cielo della cometa Swan al tramonto alle 21 ora locale, fra il 27 aprile e il 16 maggio 2025. Notare come, nella mappa, la tenue coda della cometa sia sempre in direzione opposta al Sole (che è sotto la linea dell’orizzonte e non si vede). Crediti: A. Carbognani/Inaf
Nei prossimi giorni l’elongazione dal Sole diminuirà per l’avvicinarsi del perielio e la cometa, a partire dal 27 aprile, inizierà a essere visibile alla sera attorno alle 21 locali quando sarà a circa 10° sull’orizzonte ovest fra le costellazioni del Perseo e del Triangolo. La mappa che abbiamo incluso in questa news dovrebbe aiutarvi a scovare la cometa nel cielo serale: come riferimento si può prende la stella Aldebaran, la brillante alfa della costellazione del Toro. La cometa sarà entro più o meno 20-25 gradi di distanza angolare dalla stella e circa alla stessa altezza sull’orizzonte.
Il picco di luminosità (magnitudine +5), dovrebbe essere raggiunto il 1° maggio, in corrispondenza del perielio: la cometa sarà visibile di sera, sempre alle 21 locali, a 11° gradi di altezza sull’orizzonte ovest nella costellazione del Toro. Come si è capito, la Swan non sarà una cometa facile da osservare ma, se si verificassero degli outburst in concomitanza con il passaggio al perielio, la situazione potrebbe cambiare in meglio. Non perdetela di vista!
2024 Yr4 nel mirino del telescopio Gemini South
L’asteroide Near-Earth 2024 Yr4 è stato individuato per la prima volta il 27 dicembre 2024 dal progetto Atlas (Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System). In quel momento, stava effettuando un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando a una distanza di appena 2,5 milioni di chilometri. L’incertezza iniziale riguardo alla sua traiettoria ha reso necessarie ulteriori indagini, spingendo gli astronomi a ottenere tempo di osservazione anche al Gemini South – una delle due sedi dell’Osservatorio internazionale Gemini, finanziato in parte dalla National Science Foundation (Nsf) degli Stati Uniti e gestito dal NoirLab – per effettuare osservazioni di follow-up usando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos) il 7 febbraio 2025.
Questa animazione mostra l’asteroide 2024 Yr4 mentre passa vicino alla Terra e si dirige verso un potenziale impatto con la Luna. La forma tridimensionale dell’asteroide è stata determinata grazie ai dati ottenuti il 7 febbraio 2025 con il telescopio Gemini South in Cile. Utilizzando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide attraverso quattro diversi filtri. Le osservazioni hanno permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale. Crediti: NoirLab / Nsf / Aura / R. Proctor
Alla fine di gennaio 2025, un mese dopo la sua scoperta, la probabilità che 2024 Yr4 possa impattare con la Terra superava l’uno per cento, soglia prevista per le notifiche dalla Rete internazionale di allerta sugli asteroidi (Iawn), con una possibile collisione stimata per il 22 dicembre 2032. Questa potenziale minaccia ha attirato l’attenzione del pubblico e dei media a livello internazionale, e anche sulle pagine di Media Inaf ne abbiamo trattato estesamente, grazie soprattutto agli approfondimenti di Albino Carbognani. Alla fine di febbraio, grazie a ulteriori analisi, la probabilità di impatto con la Terra è scesa sotto l’uno per cento. Sebbene l’asteroide non colpirà la Terra durante questo avvicinamento, rimane una probabilità di alcuni punti percentuali che possa colpire la Luna.
Interessato a caratterizzare l’ormai celebre asteroide, il team di astronomi guidato da Bryce Bolin di Eureka Scientific ha utilizzato Gemini South per catturare immagini in più lunghezze d’onda. L’analisi dettagliata della curva di luce dell’asteroide (la curva che mostra come varia la luminosità nel tempo) ha permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale.
Le informazioni raccolte attraverso le curve di luce indicano che il 2024 Yr4 è probabilmente un asteroide di tipo S, il che significa che ha una composizione ricca di silicati. Il modello di riflessione osservato suggerisce un diametro compreso tra i 30 e i 65 metri – in linea con la stima del James Webb Space Telescope pari a 60 ± 7 metri – rendendolo uno dei più grandi oggetti scoperti di recente che potrebbe colpire la Luna. Sebbene l’impatto resti improbabile, nel caso dovesse verificarsi offrirebbe un’opportunità senza precedenti per studiare la relazione tra la dimensione di un asteroide e quella del cratere d’impatto risultante.
Questa immagine composita dell’asteroide 2024 Yr4 è stata catturata con il telescopio Gemini South in Cile. Il 7 febbraio 2025, utilizzando lo spettrografo multi-oggetto Gemini (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide (il punto sfocato al centro dell’immagine) attraverso quattro diversi filtri. Attorno all’asteroide si vedono scie colorate di stelle, che illustrano il passare del tempo e il movimento del cielo notturno in un’immagine statica. Crediti: Osservatorio Internazionale Gemini / NoirLab / Nsf / Aura / M. Zamani
L’analisi ha anche rivelato che l’asteroide ha un periodo di rotazione rapido, pari a circa una rotazione ogni venti minuti, oltre a una forma insolita, simile a un disco da hockey. Sulla base delle caratteristiche orbitali, il team ha determinato che 2024 Yr4 molto probabilmente ha avuto origine nella fascia principale degli asteroidi, con un’alta probabilità di essere stato deviato verso l’attuale orbita vicino alla Terra a causa di interazioni gravitazionali con Giove. La sua rotazione in direzione retrograda suggerisce che potrebbe essere migrato verso l’interno a partire dalla regione centrale della fascia principale, contribuendo alla nostra comprensione di come si evolvono i piccoli asteroidi e come arrivino a incrociare l’orbita terrestre.
I risultati di questo studio dimostrano l’importanza del rapido follow-up con strutture terrestri come il Gemini South nell’ambito della difesa planetaria, permettendo agli astronomi di valutare e classificare velocemente i nuovi oggetti scoperti vicino alla Terra.
«Comprendere le proprietà e le origini degli asteroidi near-Earth si sta rivelando cruciale per valutare il rischio di collisioni tra il nostro pianeta e corpi celesti in orbite incrociate», conclude Martin Still, direttore del programma della Nsf per l’Osservatorio internazionale Gemini. «I telescopi Gemini e altri osservatori astronomici sono strumenti fondamentali per la difesa planetaria».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv l’articolo “The discovery and characterization of Earth-crossing asteroid 2024 YR4” di Bryce T. Bolin, Josef Hanuš, Larry Denneau, Roberto Bonamico, Laura-May Abron, Marco Delbo, Josef Ďurech, Robert Jedicke, Leo Y. Alcorn, Aleksandar Cikota, Swayamtrupta Panda e Henrique Reggiani
L’impronta dei neutrini sui filamenti di Cas A
Le supernove sono tra gli eventi esplosivi più energetici dell’universo. Eppure, nonostante la loro immensa luminosità, convertono solo l’un per cento della loro energia in radiazione elettromagnetica. Il restante 99 per cento viene trasportato da un intenso flusso di neutrini, che può contenere fino a 1058 particelle. Sebbene i neutrini interagiscano molto debolmente con la materia, numerosi processi fondamentali che si verificano nei minuti successivi al collasso del nucleo, e prima che il fronte d’urto emerga dalla superficie stellare, sono proprio guidati da queste elusive particelle.
I pannelli a sinistra mostrano immagini Jwst di Cas A, con evidenziata la rete di filamenti all’interno del resto di supernova (Milisavljevic et al. 2024). Il pannello di destra mostra invece la distribuzione del materiale espulso ricco di ferro e ossigeno non ancora attraversato dall’onda d’urto, ottenuto dalle simulazioni. Nei pannelli di sinistra, il ferro (Fe) è rappresentato da una superficie tridimensionale rossa, che evidenzia le regioni in cui la densità al di sopra di una certa soglia. Gli ejecta ricchi di ossigeno (O) sono invece mostrati nei pannelli di destra attraverso una rappresentazione volumetrica in tonalità di blu, con un’intensità che varia in base alla densità del plasma (indicata dalla scala di colori in basso a destra). Le aree più dense appaiono più opache, facilitando l’individuazione delle strutture principali. Le immagini presentano due diverse prospettive: i pannelli superiori mostrano il resto di supernova come lo vedremmo dalla Terra, mentre quelli inferiori offrono una vista laterale, osservata da un punto di vista posto a ovest (lungo l’asse x positivo). Fonte S. Orlando et al. A&A, 2025
Dato che le supernove nell’universo locale sono eventi rari, il modo più efficace per indagare tali processi è studiare i resti di supernova e cercare di collegarne le proprietà osservate ai meccanismi fisici dell’esplosione. Il resto di supernova Cas A, situato a circa undicimila anni luce dalla Terra e prodotto da una supernova esplosa circa 350 anni fa, rappresenta un laboratorio naturale ideale per questo tipo di studi. Recentemente, Cas A è stato osservato dal James Webb Space Telescope (Jwst), che ha permesso di esplorare la struttura interna del resto di supernova con un dettaglio senza precedenti. I primi risultati di queste osservazioni sono già stati pubblicati su riviste scientifiche e diffusi tramite comunicati stampa.
Tra le strutture più sorprendenti rivelate da Jwst vi è una fitta rete di filamenti ricchi di ossigeno, risolti fino a una scala di 0.03 anni luce. Uno studio teorico, basato su simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali che seguono l’evoluzione dal collasso del nucleo stellare sino al resto di supernova con età di mille anni, guidato dall’astrofisico Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo, dimostra come questa struttura sia direttamente collegata ai processi avvenuti nella stella progenitrice subito dopo il collasso del nucleo. In particolare, l’energia trasferita dai neutrini prodotti durante il collasso del nucleo provoca la formazione di enormi bolle calde all’interno della stella. L’espansione di queste bolle deforma gli strati di materiale circostante, comprimendoli e assottigliandoli, soprattutto quelli ricchi di ossigeno, neon e magnesio.
Con il progredire dell’esplosione, la rete di filamenti prende forma come conseguenza di instabilità idrodinamiche che si sviluppano durante la propagazione dell’onda d’urto e dell’interazione tra questi strati compressi. Nelle fasi successive, quando l’onda d’urto inizia a propagarsi attraverso il mezzo circumstellare, l’energia rilasciata dal decadimento di elementi come nichel e cobalto in ferro contribuisce ad aumentare ulteriormente la pressione interna al resto di supernova, comprimendo il materiale sovrastante e rendendo i filamenti ancora più sottili e ben definiti.
Salvatore Orlando (Inaf Oa Palermo), primo autore dello studio in uscita su A&A. Crediti: Inaf Oa Palermo
«La nostra analisi rivela che la complessa rete di filamenti osservata in Cas A rappresenta un vero e proprio “reperto archeologico astronomico” (se così si può dire), capace di raccontarci i primissimi istanti dell’esplosione della stella progenitrice», spiega Orlando a Media Inaf. «Unendo le osservazioni ad altissima risoluzione angolare di Jwst a sofisticate simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali con altissima risoluzione spaziale, siamo riusciti a stabilire un legame diretto tra le strutture filamentose osservate e i processi fondamentali che regolano l’evoluzione delle supernove».
«In particolare, i nostri modelli», continua Orlando, «dimostrano che le esplosioni guidate dai neutrini danno origine, in modo naturale, a reti complesse di filamenti di materiale, generate da processi stocastici subito dopo il collasso del nucleo stellare. Sorprendentemente, le strutture prodotte nelle simulazioni mostrano una forte somiglianza con quelle osservate in Cas A. Questa corrispondenza ci suggerisce che i filamenti sono veri e propri “fossili” dell’esplosione: conservano la memoria dei fenomeni fisici che hanno dominato le fasi iniziali seguenti al collasso del nucleo della stella, offrendo così una finestra unica e preziosa sui meccanismi che governano le supernove da collasso del nucleo».
Il modello teorico prevede anche l’evoluzione futura di queste strutture: i filamenti verranno progressivamente distrutti dall’interazione con le onde d’urto inverse che si propagano verso l’interno del resto di supernova, in un arco di circa 350 anni.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “Filamentary Ejecta Network in Cassiopeia~A Reveals Fingerprints of the Supernova Explosion Mechanism”, di S. Orlando, H.-T. Janka, A. Wongwathanarat, D. Dickinson, D. Milisavljevic, M. Miceli, F. Bocchino, T. Temim, I. De Looze e D. Patnaude
Sarà una supernova di tipo Ia, tra 23 miliardi di anni
Gli astronomi dell’Università di Warwick hanno individuato un rarissimo sistema binario compatto e di grande massa, situato a soli 150 anni luce dalla Terra… nel nostro giardino cosmico, insomma. Le due stelle che lo compongono sono in rotta di collisione e, secondo le previsioni, daranno origine a una supernova di tipo Ia: un’esplosione stellare che potrebbe diventare fino a dieci volte più luminosa della Luna nel cielo notturno.
Rappresentazione artistica di una coppia di stelle destinate a scontrarsi. Crediti: University of Warwick/ Mark Garlick
Le supernove di tipo Ia rappresentano una particolare categoria di esplosioni cosmiche, fondamentali per l’astrofisica moderna. Sono infatti utilizzate come “candele standard” per calcolare con precisione le distanze cosmiche, tra la Terra e le galassie. Questo tipo di supernova si verifica quando una nana bianca accumula massa oltre il limite critico, cedendo infine alla propria gravità e innescando un’esplosione termonucleare.
Da tempo la teoria prevede che la maggior parte delle supernove di tipo Ia abbia origine da sistemi binari formati da due nane bianche. In questi scenari, la nana bianca più massiccia sottrae gradualmente materia alla compagna, accumulando massa fino a superare un limite critico. Questo processo può innescare un’esplosione termonucleare che coinvolge una o entrambe le stelle, generando la spettacolare supernova.
La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, non solo ha permesso di individuare per la prima volta un sistema di questo tipo, ma ha anche rivelato l’esistenza di una coppia compatta di nane bianche sorprendentemente vicina, proprio nei dintorni del Sistema solare, all’interno della Via Lattea.
«Da anni si ipotizzava l’esistenza di un sistema binario di nane bianche, locale e massiccio, quindi quando ho individuato per la prima volta questo sistema con una massa totale così elevata, praticamente sulla soglia della nostra galassia, sono stato subito entusiasta», afferma James Munday della Warwick, primo autore dello studio.
«Con un team internazionale di astronomi, quattro dei quali all’Università di Warwick, abbiamo immediatamente osservato questo sistema con alcuni dei più grandi telescopi ottici del mondo per determinare esattamente la sua compattezza», continua Munday. «Quando ho scoperto che le due stelle erano separate da appena 1/60 della distanza tra la Terra e il Sole, ho capito subito che avevamo trovato il primo sistema binario di nane bianche destinato, senza alcun dubbio, a generare una supernova di tipo Ia entro una scala temporale paragonabile all’età dell’universo. Finalmente, come comunità scientifica, possiamo rendere conto con certezza di una piccola ma significativa frazione — qualche centesimo — del tasso di supernove di tipo Ia nella Via Lattea».
Animazione di un sistema binario di nane bianche che genera una supernova Ia. Crediti: University of Warwick
Il nuovo sistema appena scoperto è il più massiccio del suo tipo mai confermato, con una massa combinata di 1,56 volte quella del Sole. Con una massa così elevata, comunque vada, le stelle sono destinate a esplodere. Tuttavia, l’esplosione non avverrà prima di 23 miliardi di anni e, nonostante la vicinanza al Sistema solare, questa supernova non metterà in pericolo il nostro pianeta.
Al momento, le due nane bianche orbitano tranquillamente l’una attorno all’altra, con un periodo orbitale superiore a 14 ore. Nel corso di miliardi di anni, l’emissione di onde gravitazionali le farà avvicinare progressivamente, fino a quando, poco prima dell’esplosione come supernova, si muoveranno così velocemente da completare un’intera orbita in appena 30-40 secondi.
«Si tratta di una scoperta molto significativa. Trovare un sistema di questo tipo alle porte della nostra galassia è un’indicazione del fatto che devono essere relativamente comuni, altrimenti avremmo dovuto guardare molto più lontano, cercando in un volume più ampio della nostra galassia, per incontrarli», commenta Ingrid Pelisoli, dell’Università di Warwick. «La scoperta di questo sistema non è però la fine della storia: la nostra indagine alla ricerca di progenitori di supernove di tipo Ia è ancora in corso e ci aspettiamo altre entusiasmanti scoperte in futuro. A poco a poco, ci stiamo avvicinando alla soluzione del mistero dell’origine delle esplosioni di tipo Ia».
Durante l’evento di supernova, la massa verrà trasferita da una nana bianca all’altra, dando origine a un’esplosione rara e complessa, nota come detonazione quadrupla. La superficie della nana bianca che sta guadagnando massa sarà la prima a esplodere nel punto in cui il materiale si accumula, innescando poi l’esplosione del suo nucleo. Il materiale espulso si propagherà in tutte le direzioni, andando a colpire la seconda nana bianca e provocando a sua volta una terza e una quarta detonazione.
Le esplosioni distruggeranno completamente l’intero sistema, sprigionando un’energia miliardi di miliardi di miliardi di volte quella della più potente bomba nucleare mai costruita.
Tra miliardi di anni, questa supernova apparirà nel cielo notturno come un punto di luce estremamente brillante. Offuscherà persino alcuni degli oggetti celesti più luminosi, risultando fino a dieci volte più luminosa della Luna e 200mila volte più brillante di Giove.
Ma, come canta Guccini, noi non ci saremo.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A super-Chandrasekhar mass type Ia supernova progenitor at 49 pc set to detonate in 23 Gyr” di James Munday, Ruediger Pakmor, Ingrid Pelisoli, David Jones, Snehalata Sahu, Pier-Emmanuel Tremblay, Abinaya Swaruba Rajamuthukumar, Gijs Nelemans, Mark Magee, Silvia Toonen, Antoine Bédard & Tim Cunningham
L’universo alla lettera, da oggi su MediaInaf Tv
L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) lancia oggi una nuova serie di video divulgativi intitolata L’universo alla lettera. Ventisei brevi episodi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ad altrettanti concetti astronomici tra i più gettonati nelle notizie di astronomia e scienza dello spazio diffuse giornalmente dalla stampa. Pubblicati con cadenza settimanale e della durata di circa due minuti ciascuno, questi contenuti andranno a formare un piccolo glossario cosmico, semplice da consultare e tutto da esplorare, di facile reperibilità su YouTube.
Simone Iovenitti in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf
Si parte dalla A di anno luce, passando per la F di fast radio burst, la M di materia oscura e la S di supernova, fino alla Z di zona abitabile. Ogni video di questo “alfabeto cosmico” è pensato per essere semplice, accurato e coinvolgente, presentando l’oggetto celeste o il concetto astronomico per poi approfondire gradualmente con informazioni sui più recenti studi in materia, che spesso coinvolgono anche ricercatrici e ricercatori Inaf.
«Le notizie di astronomia sono molto popolari sul web, ma non sempre il formato breve della news permette a chi non ha già familiarità con questi temi di approfondire l’argomento e cogliere la rilevanza della notizia», dice Claudia Mignone, astrofisica e divulgatrice scientifica Inaf, ideatrice e autrice del progetto. «Questo “alfabeto cosmico” è una piccola cassetta degli attrezzi per potersi destreggiare con più agio tra i buchi neri, le pulsar, i quasar e gli astri di ogni sorta che tanto spesso popolano le pagine di riviste e quotidiani, sfruttando uno degli strumenti oggi più diffusi per cercare informazioni e approfondimenti online: il video».
Federica Duras in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf
A presentare la serie, con la regia di Davide Coero Borga, sono due giovani astrofisici e divulgatori dell’Inaf, Federica Duras e Simone Iovenitti, in un set visivamente accattivante, sospeso tra lo spazio e il tempo, tra luci al neon e colori vivaci. L’appuntamento è ogni domenica mattina, da aprile a ottobre, sul canale YouTube di Media Inaf, il notiziario web dell’ente.
Guarda la playlist su MediaInaf Tv:
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Per saperne di più:
- Sfoglia il glossario astronomico (in formato testuale) dell’Unione Astronomica Internazionale (Iau) sul sito web dell’Office of Astronomy for Education (disponibile anche in italiano)
Marte: un pianeta, due facce
Da oltre vent’anni, la sonda Mars Express dell’Esa esplora e fotografa i paesaggi di Marte, fornendo una mappatura della superficie del pianeta con una risoluzione senza precedenti. I dati raccolti hanno cambiato radicalmente la comprensione del nostro vicino planetario, rivelando una complessità geologica molto più articolata di quanto si pensasse in passato.
La regione di Acheron Fossae su Marte, vista dall’orbiter Mars Express dell’Esa. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
Ne è una conferma l’ultima immagine trasmessa dall’orbiter: un suggestivo scorcio che svela due volti distinti del pianeta: uno antico, disseminato di crateri e caratterizzato da un terreno inciso da solchi e scarpate; l’altro più giovane e dall’aspetto liscio, rimodellato nel tempo dall’intensa attività vulcanica e dominato da pianure e vallate levigate.
Mappa di Marte che mostra la regione di Acheron Fossae in un contesto più esteso. Sono indicati i vulcani Olympus Mons e Alba Mons, qui indicato come Alba Patera in riferimento alla “caldera” che si trova sulla sommità del vulcano. Crediti: Nasa/Mgs/Mola Science Team
Ottenuta dalla High Resolution Stereo Camera (Hrsc) di Mars Express il 28 ottobre del 2024, durante la sua 26287esima orbita, l’istantanea ritrae Acheron Fossae, un’enorme formazione geologica assimilabile alle zone di rift presenti sulla Terra.
Situata a nord-ovest del pianeta, questa regione si trova relativamente vicina a due imponenti vulcani, entrambi fuori dall’inquadratura dell’immagine: Olympus Mons e Alba Mons. Il primo si trova a circa 1200 chilometri a sud, il secondo a una distanza simile, ma in direzione nord-est. Sarebbero stati proprio questi vulcani a scolpire l’area quando Marte era vulcanicamente molto più attivo di quanto non sia oggi, creando la caratteristica dicotomia della superficie del Pianeta.
La porzione più frastagliata del paesaggio, piena di solchi simili a trincee, è un classico esempio di struttura a horst e graben. Si tratta di formazioni vecchie di quasi quattro miliardi di anni, prodotte da faglie tettoniche parallele. Quando queste faglie si sono aperte, la crosta tra le faglie è sprofondata, causando il cedimento di lunghi blocchi di terra, i graben, e lasciando in rilievo i costoni laterali, gli horst o pilastri tettonici.
In alto a destra nell’immagine, si distinguono tre picchi conici alti diversi chilometri, probabilmente di origine vulcanica. L’intersezione tra questi rilievi e i graben suggerisce che la crosta della regione abbia continuato a fratturarsi anche dopo la formazione dei coni, aumentando l’interesse geologico dell’area.
Topografia di Acheron Fossae in falsi colori per evidenziare l’altezza del terreno. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
La parte liscia dell’immagine, visibile in basso al centro, segna l’inizio di pianure più giovani che si estendono ben oltre Acheron Fossae. Un tempo ricoperte da mari o laghi, gli scienziati ritengono che queste aree siano state formate in seguito alla deposizione di enormi quantità di lava e sedimenti provenienti da Alba Mons.
In seguito, l’erosione provocata dall’acqua ha rimodellato il paesaggio, scavando valli e lasciando dietro di sé detriti, cumuli irregolari e mesa – superficie rocciose sopraelevate – di varie forme e dimensioni. I sedimenti hanno anche parzialmente ricoperto un antico cratere da impatto, visibile oggi come un semiarco al centro dell’immagine.
Vista prospettica della regione di Acheron Fossae ottnuta dalla High Resolution Stereo Camera a bordo della sonda Mars Express. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin
Qui sopra, una visuale prospettica della regione di Acheron Fossae, ottenuta anch’essa dalla High resolution stereo camera di Mars Express, mette ulteriormente in risalto i dettagli della morfologia locale, evidenziando con maggiore dettaglio i graben e la zona di transizione tra queste strutture e le pianure levigate.
Quando un buco nero si risveglia
Un buco nero supermassiccio al centro della galassia Sdss1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste. Crediti: Esa
Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di Sdss1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.
Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaiso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky. «Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali Xmm-Newton e quelli della Nasa Nicer, Chandra e Swift», spiega. «Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese quasiperiodic eruption) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato».
Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.
Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.
«Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio», commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’Inaf e co-autore del lavoro pubblicato. «Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano Atca, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati».
Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione Lisa dell’Esa. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu, Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau, David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor
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T Corona Borealis, esplosione imminente
Spettacolo pirotecnico stellare in arrivo: si prevede che la prossima esplosione (outburst in inglese) di T Coronae Borealis (T CrB) – una delle nove ricorrenti più luminose conosciute – avverrà entro la fine del 2025, circa 80 anni dopo l’ultima volta che ha acceso i nostri cieli. Un nuovo studio – frutto del lavoro di un gruppo internazionale di esperti coordinato dall’Arizona State University e a cui ha partecipato anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) – è stato presentato in un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal, che fornisce nuove e precise stime dei parametri stellari e orbitali.
Una stella gigante rossa e una nana bianca orbitano l’una attorno all’altra in questa rappresentazione artistica di una nova simile a T Coronae Borealis. Crediti: Nasa/Goddard Space Flight Center
Ricordiamo che una nova ricorrente è una nova (dal latino stella nova o un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo) che si ripete a intervalli più o meno regolari. T Coronae Borealis è in realtà un antico sistema binario interagente, situato a circa 3mila anni luce dalla Terra in direzione della costellazione della Corona Boreale. Le due stelle orbitano l’una attorno all’altra in un’orbita quasi circolare e con un periodo di circa 227,5 giorni. L’anziana coppia è costituita da una gigante rossa di tipo spettrale M4 III (una stella giunta quasi al termine del suo ciclo vitale) che trasferisce materia ricca di idrogeno su una massiccia nana bianca (ossia il residuo di una stella ormai estinta).
Ogni 80 anni – giorno più, giorno meno – il sistema T CrB si accende, come una luminosissima lampadina nel cielo. Cosa si osserva? Un’esplosione termonucleare degli strati superficiali della nana bianca, caratterizzata da un repentino aumento di luminosità del sistema (fino a 8 magnitudini) visibile per alcuni giorni anche a occhio nudo. «La prossima esplosione è imminente, attesa nel 2025», si legge nell’articolo scientifico che fa riferimento a uno studio pubblicato nel settembre 2023 da Bradley Schaefer, il quale aveva previsto inizialmente che la stella T CrB avrebbe potuto esplodere entro giugno 2025, con un margine di incertezza di 15 mesi.
«Non si può prevedere con precisione quando esploderà», afferma cauto Oscar Straniero, dirigente di ricerca presso l’Inaf d’Abruzzo e co-autore dello studio. «Secondo i dati storici, l’ultima esplosione è avvenuta nel 1946. Sulla base di queste informazioni si è stimato poi che l’evento di nova sarebbe accaduto nella finestra 2024-2026. Siamo quindi nel mezzo. Perché non possiamo essere più precisi? Il periodo orbitale e il periodo di ricorrenza della nova sono due cose diverse, e quest’ultimo dipende dal tasso di accrescimento e dalla massa della nana bianca. Entrambi questi parametri variano nel tempo e solo recentemente sono state misurate con sufficiente precisione».
La posizione della stella T CrB nella mappa dell’American Association of Variable Star Observers. Credit: Aavso
Il gruppo di ricerca guidato da Kenneth H. Hinkle ha analizzato una serie di spettri della gigante rossa raccolti tra il 2022 e il 2024 presso il Fairborn Observatory, nel sud-est dell’Arizona (Stati Uniti), utilizzando il telescopio automatico da 2 metri della Tennessee State University e uno spettrografo di tipo Echelle a fibre ottiche. Gli spettri sono stati poi combinati con dati già presenti in letteratura.
«Le peculiarità sono due», sottolinea Straniero. «Il periodo di ricorrenza durante il quale la massa della nana bianca aumenta, sta per scadere, per cui a breve ci aspettiamo una nuova esplosione. E in secondo luogo, la nana bianca ha una massa molto vicina al limite massimo (il cosiddetto limite di Chandrasekhar che equivale a circa 1,44 masse solari, ndr) superato il quale la stella collassa. Il risultato di questo collasso sarebbe ancora più violento, una supernova termonucleare che incenerirebbe l’intera nana bianca».
Queste drammatiche esplosioni sono conosciute come supernovae di tipo Ia. I progenitori di tali supernove non sono mai stati identificati, nonostante gli innumerevoli studi teorici e le campagne osservative dedicate a tale scopo. «Sarebbe la prima volta che si osserva un progenitore di queste supernove, che rivestono un ruolo fondamentale nella moderna cosmologia, visto che esse sono utilizzate come indicatori di distanza di galassie lontane», continua Straniero. «Queste supernovae di tipo Ia sono tra i maggiori produttori di ferro nell’universo. Circa due terzi del ferro nel Sistema solare, e quindi anche di quello che è finito per esempio nel nostro sangue, proviene da tali esplosioni. Sono inoltre candele standard molto brillanti, utilizzate in cosmologia per misurare le distanze di galassie lontane. Proprio studiando le supernove lontane si è visto che l’espansione dell’universo era più lenta nel passato (fino a 6 o 7 miliardi di anni fa). Questa accelerazione dell’espansione cosmica viene comunemente attribuita all’esistenza di un campo primordiale che si oppone alla forza attrattiva dovuta alla gravità. L’energia di questo campo è nota come energia oscura».
Utilizzando i dati di Gaia nel catalogo Early Data Release 3, il gruppo di ricerca ha infatti stimato con grande precisione la massa della gigante rossa (0,69 masse solari) ma soprattutto la massa della nana bianca, che risulta essere molto alta: 1,37 volte quella del Sole (quindi molto vicina al limite di Chandrasekhar). «Proprio grazie a queste misure così precise», continua Straniero, «è stato possibile ricostruire la storia passata di questo sistema binario e ipotizzarne la sua futura evoluzione e destino finale. In particolare, io mi sono occupato di calcolare una serie di modelli evolutivi di possibili sistemi binari progenitori cercando quello o quelli che meglio riproducono lo stato attuale».
Situata a 3mila anni luce di distanza, T Coronae Borealis contiene due stelle che orbitano l’una intorno all’altra: una gigante rossa prossima alla fine della sua vita e una nana bianca. L’intensa gravità della nana bianca attira parte del gas che fuoriesce dalla gigante rossa, formando una nube appiattita di gas attorno alla nana — un disco di accrescimento. Il gas nel disco si muove gradualmente verso l’interno, fino a fluire sulla nana bianca situata al centro. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab
T Coronae Borealis ha dato spettacolo in cielo già due volte negli ultimi due secoli. La prima esplosione documentata risale al 12 maggio 1866, quando la stella è passata rapidamente da una magnitudine di 9,5 a 2,3, diventando visibile a occhio nudo per nove giorni. In quell’occasione, raggiunse una luminosità circa 230mila volte superiore a quella del Sole. La seconda esplosione risale invece al 9 febbraio 1946: l’astronomo Armin Joseph Deutsch (Osservatorio Yerkes) segnalò un picco leggermente meno brillante rispetto a quello del 1866, con una magnitudine apparente corrispondente a circa 180mila volte la luminosità solare. Precedenti esplosioni risalgono al 1787 e addirittura al 1217, anche se la documentazione è meno precisa.
Di recente, diversi gruppi di astronomi hanno cercato di stimare il periodo più probabile in cui potrebbe verificarsi la prossima esplosione termonucleare di T CrB. Inizialmente, le ipotesi si concentravano su una finestra compresa tra aprile e settembre 2024; successivamente, l’astronomo Jean Schneider dell’Osservatorio di Parigi ha proposto due possibili date nel 2025: il 27 marzo (andata a vuoto) o il 10 novembre. «Temo però che la finestra febbraio/novembre si riferisca al periodo di osservabilità della corona boreale durante l’anno. Dall’emisfero Nord è visibile a Est a partire da febbraio e per tutta la primavera, bella alta nel cielo in estate, mentre cala a occidente in autunno», conclude Straniero.
A ogni modo, visto che al momento dell’ultimo outburst le tecniche di osservazione erano limitate all’ottico e piuttosto “rudimentali”, come si legge nell’articolo, la prossima esplosione offrirà la prima opportunità di misurarne le caratteristiche fisiche. Quindi, occhi all’insù e ben puntati sulla piccola costellazione della Corona Boreale. Riconoscerla è facile: la sua forma a semicerchio somiglia effettivamente a quella di un diadema.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Binary Parameters for the Recurrent Nova T Coronae Borealis“, di Kenneth H. Hinkle, Pranav Nagarajan, Francis C. Fekel, Joanna Mikołajewska, Oscar Straniero, and Matthew W. Muterspaugh.
Titano, una luna in fermento?
Immagine composita che mostra una vista a infrarossi di Titano acquisita dalla sonda spaziale Cassini della Nasa durante il sorvolo della luna il 13 novembre 2015. Crediti: Nasa
Titano – la più grande delle 274 lune di Saturno – ha da sempre affascinato gli scienziati. La scoperta al suo interno di un oceano d’acqua salata come il Mar Morto ha spinto gli scienziati a ipotizzare che il corpo possa sostenere la presenza di forme di vita. Un team internazionale di ricercatori guidati dall’Università dell’Arizona, negli Usa, ha ora tentato di verificare questa ipotesi.
Attraverso l’analisi dei fattori fisico-chimici che influenzano l’abitabilità del suo oceano, l’esame delle vie metaboliche potenzialmente in grado di sostenere la crescita e la riproduzione di sistemi biologici, e l’uso della modellazione bioenergetica, i ricercatori hanno elaborato uno scenario realistico che ipotizza come potrebbe essere la vita sulla luna e in quali quantità, in termini di biomassa, potrebbe essere presente.
I risultati della ricerca, pubblicati questa settimana su The Planetary Science Journal, indicano che l’oceano di Titano presenta condizioni favorevoli al mantenimento di popolazioni microbiche. In particolare, le simulazioni suggeriscono che la fermentazione — uno dei più semplici processi metabolici conosciuti — potrebbe fornire sia l’energia che il carbonio necessari alla crescita di microorganismi. I modelli, inoltre, indicano che a sostenere questa crescita potrebbe essere la fermentazione della glicina, il più semplice tra tutti gli amminoacidi conosciuti.
La glicina in questione è presente sulla superficie della luna, dove è giunta in seguito a eventi di impatto. Studi precedenti hanno dimostrato che gli oggetti celesti che colpiscono la superficie di Titano possono generare “pozze di fusione” di acqua liquida. Tramite interazioni acqua-ghiaccio, le molecola potrebbe essere trasportata nel sottosuolo fino a raggiungere l’oceano sotterraneo, dove potrebbe essere quindi utilizzata come fonte di energia.
«Sappiamo che la glicina era relativamente abbondante nei materiali primordiali del Sistema solare», spiega Antonin Affholder, ricercatore all’Università dell’Arizona e primo autore dello studio. «Quando osserviamo gli asteroidi, le comete e le nubi di polveri e gas da cui si formano stelle e pianeti, troviamo glicina o i suoi precursori praticamente ovunque».
L’immagine in basso illustra uno schema riassuntivo delle ipotesi avanzate dai ricercatori. Secondo il modello proposto, le condizioni iniziali di abitabilità per l’attecchimento della vita potrebbero essere state determinate dalla dissoluzione di materia organica proveniente dal nucleo. L’eventuale sopravvivenza e crescita della biomassa microbica potrebbe dipendere dall’apporto, in seguito a eventi di impatto, di materiale organico dalla superficie di Titano, reso possibile dalle interazioni tra acqua e ghiaccio.
Schema della struttura interna di Titano che riassume le ipotesi formulate in questo studio dai ricercatori (cliccare per ingrandire). Crediti: Antonin Affholder et al., Psj, 2025
Tuttavia, il rilascio di glicina nell’oceano da parte di queste pozze – stimato in un intervallo che va da 7.5 chilogrammi a 7.5 tonnellate all’anno – appare piuttosto limitato, influenzando la dimensione della potenziale biosfera.
Sulla base delle stime effettuate, la popolazione microbica che potrebbe essere sostenuta in queste condizioni varierebbe da centomila miliardi a cento milioni di miliardi di cellule, equivalenti a meno di una cellula per chilogrammo d’acqua in tutto l’oceano.
«Il nostro studio dimostra che questa riserva di glicina potrebbe essere sufficiente a sostenere soltanto una piccolissima popolazione microbica, con una biomassa complessiva pari a pochi chilogrammi», dice a questo proposito Affholder. «Nel vastissimo oceano di Titano, una biosfera tanto ridotta implicherebbe una densità media inferiore a una cellula per litro d’acqua».
La fermentazione della glicina rappresenta un approccio promettente per indagare la potenziale abitabilità dell’oceano di Titano, concludono i ricercatori. Per valutare con maggiore precisione tale potenziale, sarà essenziale approfondire la conoscenza delle condizioni geochimiche interne della luna e studiare più a fondo la biologia e il metabolismo dei microbi psicrofili e barofili, capaci di vivere in ambienti estremi come quelli presenti su Titano.
Per saperne di più:
- Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “The Viability of Glycine Fermentation in Titan’s Subsurface Ocean” di Antonin Affholder, Peter M. Higgins, Charles S. Cockell, Catherine Neish, Krista M. Soderlund, Michael J. Malaska, Kendra K. Farnsworth, Rosaly M. C. Lopes, Conor A. Nixon, Mohit Melwani Daswani, Kelly E. Miller e Christophe Sotin