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in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS

A seguire, Scaglie Cineclub proietterà due corti per la rassegna Afro Futuro: Pumzi (2009) di Wanuri Kahiu e Afronauts (2014) di Noutama Boudomo

Sempre domenica 23 marzo presso Clan Destino, Viale Baccarini 21, Faenza

Questa voce è stata modificata (2 mesi fa)


Il Vst rivisita l’atlante delle galassie di Arp



Si chiamano peculiari. Sono le trecentotrentotto galassie presentate, nel 1966, dall’astronomo statunitense Halton Arp nel celebre catalogo che porta il suo nome. Peculiari perché la loro forma non permette una classificazione univoca all’interno della classica divisione tra ellittiche e spirali.

A quarant’anni dalla scoperta che le galassie sono “isole” di stelle al di fuori della nostra Via Lattea – di cui quest’anno ricorre il centenario – Arp era profondamente insoddisfatto dalla comprensione del suo tempo sui meccanismi fisici che portano alla formazione delle galassie a spirale, sul legame tra ellittiche e spirali e, più in generale, sulla formazione ed evoluzione delle galassie. Così trascorse quattro anni all’Osservatorio di Monte Palomar, in California, fotografando galassie dalle forme più bizzarre: filamenti, code biforcute, anelli, frammenti, ma anche un numero anomalo di bracci a spirale, un nucleo assente oppure bilobato, la presenza di una o più compagne. Il risultato fu l’Atlas of Peculiar Galaxies, uno dei cataloghi più importanti dell’astrofisica moderna, pubblicato allora nell’Astrophysical Journal Supplement e disponibile online sul sito del Caltech. Molti degli oggetti identificati da Arp furono ben presto interpretati come coppie di galassie interagenti – una descrizione che, peraltro, portò lo stesso Arp a dubitare del modello cosmologico standard, in quanto non tutte le coppie sembravano avere lo stesso redshift (ma questa è un’altra storia).

Se l’astrofisica ha fatto grandi balzi in avanti negli ultimi decenni, la formazione e l’evoluzione delle galassie restano una spina nel fianco per chi cerca di capire a fondo i fenomeni che regolano l’universo. Oggi come sessant’anni fa, le galassie peculiari rappresentano un laboratorio eccezionale per mettere alla prova nuove ipotesi, e per questo il Centro italiano di coordinamento per il Vst (Vlt Survey Telescope) ha deciso di rivisitare il famoso catalogo, creando un programma di osservazioni pubblico dedicato alle galassie peculiari di Arp visibili dall’emisfero sud.


Il tripletto di galassie Arp 251, osservato con il Vst. Crediti: Inaf/Vst; M. Spavone, R. Calvi

«Sono sempre stata appassionata di queste galassie interagenti», spiega Enrichetta Iodice, presidente del consiglio scientifico dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e responsabile del Centro italiano di coordinamento per il Vst. «L’idea nasce per curiosità e passione personale: un giorno mi sono chiesta quanti degli oggetti del catalogo di Arp fossero visibili dal Vst e, facendo il conto, ho scoperto che effettivamente ce ne sono tanti, più di cento. Così ho pensato di fare una raccolta da mettere a disposizione dell’intera comunità scientifica, sia nazionale che internazionale».

Il Vst, telescopio italiano con uno specchio dal diametro di due metri, operativo presso l’Osservatorio Eso di Cerro Paranal, in Cile, e oggi gestito interamente dall’Inaf, si distingue per il suo grande campo di vista, capace di coprire un grado quadrato di cielo – pari a circa quattro volte la superficie apparente della luna piena – in una singola osservazione. Questo lo rende uno strumento ideale per mappare in profondità le periferie delle galassie, fino ai bassi livelli di luminosità superficiale necessari per portare alla luce strutture deboli come code mareali, satelliti e aloni, segni di passate interazioni gravitazionali e fusioni galattiche.

Oltre ai tre filtri ottici, la survey Arp@Vst comprende anche osservazioni nella banda stretta dell’idrogeno H-alfa, che permette di tracciare le zone di formazione stellare: queste sono state evidenziate nelle immagini come aree di colore più blu. Tra i primi target osservati, vi sono il tripletto di galassie noto come Arp 251, in cui le regioni di formazione stellare sono ben distribuite nei bracci a spirale che oramai hanno perso la loro regolarità a causa della fusione galattica in corso, e Arp 180, coppia di galassie interagenti in uno stadio di merging molto avanzato: in quest’ultima, si nota una macchia blu associata alla coda mareale in prossimità del nucleo brillante di una delle galassie coinvolte.


La coppia di galassie interagenti Arp 180, osservata con il Vst. Crediti: Inaf/Vst; M. Spavone, R. Calvi

Il progetto ha una durata prevista di tre anni e molteplici obiettivi scientifici, dallo studio delle interazioni galattiche alla ricerca di piccole galassie satellite, code mareali e galassie ultradiffuse. Una volta elaborati, i dati diventano subito pubblici attraverso l’archivio dell’Eso. Gruppi di ricerca interessati a progetti specifici, comprese tesi di laurea, possono fare richiesta per accelerare le osservazioni di un particolare oggetto del catalogo. Per chi invece ama contemplare le vedute del cosmo profondo, c’è una galleria di immagini sul sito web del progetto che si andrà via via arricchendo nei prossimi mesi.

«Stiamo collezionando tanti dati bellissimi con telescopi come Euclid e Jwst, e tra poco anche con Rubin e Elt, ma questi dipendono da proposal competitivi e non è sempre facile ottenerli», aggiunge Iodice. «Siccome Vst è una facility Inaf, con il tempo a disposizione ho pensato di rendere un servizio alla comunità scientifica e ho voluto che questa survey fosse pubblica. Alla fine, mi piacerebbe farne un libro, magari anche in versione tattile, per condividere queste splendide immagini con il pubblico».

Per saperne di più:

  • Visita il sito web del progetto Arp@Vst


Supernove e mutazioni: uno studio sul ferro-60



Cosa potrebbe accomunare la presenza di ferro-60 nei sedimenti di un lago dell’Africa orientale e l’elevata diversità genetica dei virus dei pesci Ciclidi che popolano le sue acque? Secondo uno studio condotto da tre astronomi dell’Università della California a Santa Cruz, e pubblicato lo scorso gennaio su The Astrophysical Journal Letters, le due cose potrebbero avere un’unica origine, un evento avvenuto a centinaia di anni luce dal nostro pianeta: un’esplosione di supernova di tipo II. Il collegamento tra i due eventi – va sottolineato – è almeno al momento solo un’ipotesi, ma è comunque una connessione che potrebbe aprire la strada a nuove, interessanti, ricerche.


Illustrazione artistica creata con Adobe Ai

Il punto di partenza dello studio è il ritrovamento di depositi di ferro-60, un isotopo radioattivo del più diffuso ferro-56, nel fondale marino del lago Tanganica, uno dei più grandi e profondi bacini d’acqua dolce del continente africano. Le registrazioni geologiche dei sedimenti del lago, situato all’interno della fossa della Rift Valley, mostrano due distinti picchi di concentrazione dell’isotopo, risalenti rispettivamente a 6-7 milioni e 2-3 milioni di anni fa. Secondo quanto riportato nell’articolo, quest’ultimo picco di concentrazione sarebbe l’impronta lasciata da una potente esplosione di supernova di tipo II, ossia la morte in pompa magna di una stella con una massa dieci volte superiore a quella del Sole. Supernove a collasso nucleare: è così che le chiamano gli astronomi.

A suggerire che il ferro-60 sia stato trasportato sulla Terra da una supernova è la ricostruzione del movimento del Sistema solare all’interno della Via Lattea, ottenuta dai ricercatori attraverso simulazioni. Per comprendere meglio questo scenario sono necessarie alcune informazioni di contesto. La Terra si trova nel bel mezzo della Bolla Locale, una vasta cavità gassosa con un diametro di circa mille anni luce, formatasi in seguito a una serie di esplosioni di supernova avvenute decine di milioni di anni fa. Il Sistema solare è entrato al suo interno circa sei milioni di anni fa e attualmente risiede vicino al suo centro. Secondo i modelli sviluppati dai ricercatori, il primo picco di ferro-60 nei sedimenti del lago Tanganica potrebbe coincidere con questo ingresso, mentre il secondo, datato 2-3 milioni di anni fa, potrebbe essere stato prodotto da una supernova esplosa a circa cinquecento anni luce di distanza da noi all’interno del gruppo stellare Centauro superiore-Lupo (Ucl), parte dell’associazione di stelle Scorpius-Centaurus.

«Da due a tre milioni di anni fa, pensiamo che una supernova sia esplosa nelle vicinanze della Terra», dice la prima autrice dello studio, Caitlyn Nojiri, ricercatrice all’Università della California a Santa Cruz. «Il ferro-60 ci permette di risalire all’epoca in cui si sono verificate queste esplosioni». Quello che potrebbe essere successo, spiegano gli autori dello studio, è che quando la supernova è esplosa il Sistema solare si trovasse vicino all’ammasso di stelle del Centauro superiore-Lupo. L’onda d’urto generata dalla deflagrazione avrebbe disseminato gli elementi pesanti appena sintetizzati, compreso il ferro-60, in tutta la bolla locale. L’isotopo sarebbe stato poi catturato dalla Terra e incorporato nei sedimenti del lago Tanganica, lasciando un’impronta geologica dell’evento cosmico.

Fin qui abbiamo ripercorso la relazione tra il ferro-60 presente nei sedimenti del lago e l’esplosione della supernova del Centauro superiore-Lupo. Ma nello studio si accenna anche a un’ulteriore possibile relazione: un ipotetico legame tra l’esplosione stellare e la diversità del patrimonio genetico dei virus dei Ciclidi, una famiglia molto diversificata di specie di pesci che popolano il bacino d’acqua.

Come dicevamo, le supernove a collasso del nucleo sono esplosioni che si verificano alla fine dell’evoluzione di stelle con masse superiori a dieci volte quella del Sole. Quando gli astronomi Walter Baade e Fritz Zwicky scoprirono per la prima volta questa nuova classe di nove, suggerirono che fossero anche la sorgente dei raggi cosmici, particelle (elettroni, protoni e particelle esotiche) con energie elevatissime che si muovono a velocità prossime a quelle della luce. Avevano ragione: come è stato successivamente dimostrato, la potenza di queste esplosioni rende le supernove eccellenti acceleratori di raggi cosmici. Poiché le energie associate a queste particelle possono raggiungere valori dell’ordine dei petaelettronvolt (milioni di miliardi di elettronvolt), gli astronomi chiamano le sorgenti che le emettono Pevatron.


Illustrazione che mostra l’esplosione di una supernova, sulla sfondo. Il nostro pianeta, in primo piano. Crediti illustrazione: Nasa/Cxc/M. Weiss

I tre autori dello studio propongono che la supernova del Centauro superiore-Lupo possa essere stata una di queste sorgenti e che i raggi cosmici da essa generati, in quanto particelle ionizzanti, abbiano aumentato i livelli di radiazione sulla superficie della Terra di diversi ordini di grandezza. Per verificare questa idea, i tre ricercatori hanno anzitutto calcolato il flusso dei raggi cosmici proveniente dalla sorgente. Successivamente, hanno stimato le dosi di radiazione a varie profondità atmosferiche sperimentate dal nostro pianeta all’epoca dell’esplosione. Secondo le loro stime, la dose media di radiazione che ha colpito la Terra sarebbe stata di circa 30 milligray (l’unità di misura della dose assorbita di radiazioni ionizzanti) per anno, una dose che il nostro pianeta avrebbe continuato ad assorbire fino a 100mila anni dopo l’esplosione.

A questo punto, la domanda che si sono posti gli scienziati – e qui veniamo al dunque dell’ipotetica relazione supernova-diversità genetica dei virus dei pesci Ciclidi – è stata: quali potrebbero essere stati gli effetti biologici di tali dosi di radiazioni? Diversi studi di popolazione hanno mostrato che dosi medie di radiazioni di 5 milliGray per anno rappresentano la soglia per l’induzione di rotture nel Dna, la lunghissima molecola che codifica le istruzioni per mettere insieme ciò di cui siamo fatti. I danni al Dna sono associati a mutazioni, cambiamenti che causano riarrangiamenti strutturali del codice genetico. Sebbene spesso siano deleterie, in alcuni casi tali mutazioni possono conferire un vantaggio selettivo all’organismo che li possiede ed essere quindi selezionate positivamente nella sua progenie. Poiché la dose media di radiazioni giunta sulla Terra dopo l’esplosione della supernova del Centauro superiore-Lupo è – stando alle stime dei ricercatori – sei volte maggiore della soglia, gli autori concludono che la supernova potrebbe essere stata non solo un acceleratore di raggi cosmici ma anche un “acceleratore di cambiamenti evolutivi” attraverso, appunto, l’induzione di mutazioni.

A questo proposito i tre autori citano un articolo, pubblicato nel 2024 sulla rivista Current Biology, in cui veniva analizzato il genoma di centinaia di virus che infettano i pesci Ciclidi nel lago Tanganica. La conclusione dello studio era che la diversificazione genetica di questi virus, in particolare di quelli del genere Hepacivurus, non è stata costante durante la speciazione dei Ciclidi, ma avrebbe subito un’accelerazione intorno a 2-3 milioni di anni fa. In pratica, 2-3 milioni di anni fa qualcosa potrebbe aver spinto l’evoluzione dei virus dei pesci Ciclidi, creando una moltitudine di varianti genomiche di questi organismi non cellulari che poi la selezione naturale ha favorito, permettendogli di infettare specie diverse di pesci.

Avete notato la curiosa coincidenza temporale? Il periodo nel quale sarebbe avvenuta l’esplosione di questa diversità coincide sorprendentemente con l’epoca dell’esplosione della supernova ipotizzata da Nojiri e colleghi. Sebbene non esista alcuna prova diretta di un legame causale tra i due eventi, i ricercatori non escludono che la radiazione generata dalla supernova possa aver contribuito a questa accelerazione evolutiva, inducendo mutazioni nei virus. Si tratta di una ipotesi tutta da provare, ma, come dicevamo in apertura, il collegamento suggerito potrebbe ispirare ulteriori indagini.

Sotto la spinta della costante esposizione a radiazioni ionizzanti di origine sia terrestre che cosmica, la vita sulla Terra è in continua evoluzione, concludono i tre autori dello studio. Man mano che la radioattività del substrato roccioso diminuisce lentamente su scale temporali di miliardi di anni, i livelli di radiazione cosmica fluttuano mentre il nostro Sistema solare attraversa la Via Lattea. I raggi cosmici provenienti da supernove vicine possono aver svolto un ruolo chiave in questo processo: influenzando i tassi di mutazione delle prime forme di vita, potrebbero aver contribuito all’evoluzione di organismi complessi, persino plasmando la chiralità delle molecole biologiche.

Per saperne di più:



Ragazze spaziali e scienziate visionarie




Amalia Ercoli Finzi, Elvina Finzi con Tommaso Tirelli, “Le ragazze della Luna. Sogni e scoperte delle scienziate dello spazio”, Mondadori 2024, 256 pagine, 16,50 euro

La storia scorre tra corsi e ricorsi e oggi stiamo vivendo (con stupore e grande tristezza) un momento di negazione delle conquiste che erano considerate acquisite. Se davate per scontato che i principi di parità di genere e di inclusione dovessero diventare un cardine della nostra società, forse è meglio che vi guardiate intorno. Le agenzie federali americane stanno facendo passare a setaccio tutti i progetti già finanziati alla ricerca di quelli che trattano argomenti riconducibili a Diversity-Equity-Inclusion. Sono temi indigesti alla nuova amministrazione che ha appena licenziato due signore con il rango di ammiraglio a 4 stelle, che erano a capo della guardia costiera e della marina americana, perché promuovevano politiche inclusive.

L’acronimo Dei è diventato uno spauracchio e la scure governativa si è abbattuta su ricerche che si proponevano di studiare come il genere influenzi le cure mediche, oppure cosa fare perché studenti di diverse etnie e di diverse classi sociali possano avere migliori possibilità di accedere ai percorsi di studio che poi determineranno il loro futuro. Tutte le grandi università che, negli anni, avevano messo a punto dei programmi per aiutare gli studenti che avevano più difficoltà a essere ammessi perché non prevenivano da grandi scuole, hanno dovuto affrettarsi a cancellare la parola ‘inclusione’ dai loro siti web, perché dire che si vogliono aiutare gli studenti (e le studentesse) di colore secondo la nuova amministrazione acuisce le differenze razziali piuttosto che mitigarle. Tra le agenzie federali che devono evitare “shameful discrimination” c’è anche la Nasa, il cui personale ha ricevuto un memo perentorio dove viene ordinato di cessare ogni attività collegata alla promozione delle diversità, equità e inclusione per evitare lo sperpero di denaro pubblico. E pensare che la parola inclusion era stata aggiunta tra gli obiettivi della Nasa proprio dall’amministratore nominato durante la prima presidenza di Trump. Non è un caso che l’Agenzia si facesse vanto di avere nei suoi ranghi donne che avevano dovuto superare ostacoli e barriere per costruire prestigiose carriere partendo da posizioni svantaggiate. Le loro biografie, che dovevano servire da ispirazione e modello per le studentesse, sono state oscurate e non risultano più accessibili sui siti web della Nasa. Il fatto che l’Agenzia si fosse sempre impegnate nel fare “affirmative action” non ha alcuna importanza, non si scherza con gli ordini esecutivi. Chissà se farà la stessa fine anche la promessa di portare la prima donna sulla Luna, promessa fatta sempre da Trump nel suo primo mandato.


Cristina Mangia e Sabrina Presto, “Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute”, Edizioni Dedalo 2024, 156 pagine 17 euro

Per fortuna ci sono molte donne che la testa sulla Luna ce l’hanno già, come loro stesse raccontano nel libro Le ragazze della Luna, un compendio di scienza spaziale al femminile coordinato da Amalia Finzi, antesignana delle ingegnere aerospaziali in Italia, insieme alla figlia e al genero. Si va dalla futura astronauta, alle ingegnere che costruiscono i moduli abitativi per ospitare gli esploratori lunari, all’agronoma che studia come fare crescere la verdura nelle serre spaziali, all’esperta di conservazione dei cibi che non si devono deteriore nei lunghi viaggi interplanetari, alla giornalista e alla divulgatrice, a chi si occupa di diplomazia spaziale, a chi guarda al lato economico dello spazio e a chi si preoccupa di pulire le orbite terrestri dai detriti spaziali. Nelle conversazioni Amalia ha una visione pragmatica dei problemi da affrontare sempre improntata all’ottimismo che, insieme alla determinazione, costituisce il filo conduttore della sua carriera.

Del resto, è proprio il mix tra determinazione e aspirazione che ritroviamo nelle storie raccolte nel libro Scienziate visionarie scritto da Cristina Mangia e Sabrina Presto. Sono tutte affascinanti le storie di queste dieci pioniere che hanno lasciato un’impronta nel campo della salute pubblica e della salvaguardia ambientale. Sono storie di lotte per migliorare le condizioni igieniche e abbattere la mortalità infantile, per tutelare la salute nelle fabbriche, per combattere lo sversamento dei rifiuti industriali nei fiumi, per imparare a proteggere la biodiversità. Benché abbiano operato in ambiti diversi, le scienziate visionarie sono accomunate dalla capacità di pensare fuori dagli schemi comunemente accettati trovandosi presto ad essere delle voci isolate che remano controcorrente, spesso osteggiate dalla scienza ufficiale solidamente in mano maschile. Difficile decidere quali di queste figure abbia avuto maggior impatto, certo una delle più conosciute è Rachel Carson, che ha iniziato la sua carriera come biologa marina portando i problemi del mare al pubblico con libri di grande successo. Tuttavia la sua fama planetaria è legata al libro Silent Spring (Primavera silenziosa), dove esamina gli effetti del Ddt su piante e animali. Sono gli anni dell’entusiasmo per l’uso del Ddt, che viene considerato la soluzione definitiva per liberarsi degli insetti nocivi. Peccato che quello che viene chiamato “the insect bomb” abbia effetti devastanti su tutto l’ambiente, avveleni piante e animali e sia cancerogeno per l’uomo. Denunciando il silenzio causato dalla morte delle uccelli, Rachel Carson scrive una pietra miliare nella storia dell’ambientalismo e nelle necessità di regolare l’uso degli insetticidi per proteggere la salute di tutti. Regole che rischiano di essere indebolite dalla nuova amministrazione americana che vuole ridimensionare l’agenzia per la protezione ambientale.



A Lula il primo “seme” dell’Einstein Telescope



Nel pomeriggio di ieri, giovedì 20 marzo, alla palestra comunale di Lula (NU), è stato presentato pubblicamente il progetto Et-SunLab (Einstein Telescope Sardinia Underground Laboratory), futuro centro di ricerca che sarà costruito nell’area della miniera di Sos Enattos, candidata a ospitare l’osservatorio di onde gravitazionali Einstein Telescope (Et).


Rendering di Et-SunLab

Il progetto Et-SunLab – il cui disegno architettonico e paesaggistico è stato elaborato da un gruppo di lavoro dell’At Lab del Dipartimento di ingegneria civile, ambientale e architettura (Dicaar) dell’Università di Cagliari, coordinato da Massimo Faiferri – prevede la realizzazione di un centro di accoglienza e nuovi laboratori di ricerca nell’area occupata dall’edificio ex-Ri.mi.sa., sede attuale del laboratorio Sar-Grav, insieme alla costruzione di un laboratorio sotterraneo multidisciplinare. SunLab ospiterà attività di ricerca e sviluppo per Et ed esperimenti di fisica a basso rumore, oltre a un osservatorio geofisico per lo studio della geodinamica del Tirreno e delle strutture interne della Terra. La struttura diventerà anche un centro di riferimento per progetti di divulgazione rivolti alle scuole e di formazione professionale. L’attuale tabella di marcia del progetto – finanziato con circa dieci milioni di euro dalla Regione Sardegna e altrettanti divisi tra Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), e alle cui attività collaboreranno anche le Università di Cagliari e Sassari – prevede l’avvio dei lavori di costruzione nel 2025 e il loro completamento entro il 2026.

L’evento è stato aperto dai saluti del sindaco di Lula, Mario Calia, e della presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, seguiti dagli interventi del presidente dell’Infn, Antonio Zoccoli, del consigliere di amministrazione dell’Inaf, Andrea Comastri, del direttore del dipartimento Ambiente dell’Ingv, Massimo Chiappini, del pro-rettore alla ricerca dell’Università di Cagliari, Luciano Colombo, del rettore dell’Università di Sassari, Gavino Mariotti, e della direttrice del Consortium Garr, Claudia Battista.

La seconda parte dell’evento è stata invece dedicata a una tavola rotonda sul progetto SunLab e sugli investimenti locali e nazionali per Et, moderata da Rossella Romano (Rai Tgr Sardegna), con gli interventi di Alessandro Cardini (Infn), Marco Pallavicini (Infn), Monique Bossi (Infn), Massimo Faiferri (Università di Cagliari) e Raffaele Marras (Regione Sardegna), seguita da una sessione di domande del pubblico.


Un momento dell’evento di presentazione di Et-SunLab

L’evento di presentazione di Et-SunLab ha chiuso una settimana ricca di appuntamenti importanti in Sardegna per il progetto Einstein Telescope. Il 18 e 19 marzo, la Manifattura Tabacchi di Cagliari ha ospitato il workshop della comunità italiana di Et, volto a discutere i più recenti sviluppi scientifici e gestionali legati alla candidatura italiana, mentre il 19 marzo, alla Camera di commercio di Nuoro, è stato presentato un avviso per la raccolta di manifestazioni di interesse per le imprese sarde interessate a realizzare attività di ricerca e sviluppo per Et. Infine, la mattina di giovedì 20 marzo la presidente della Regione Alessandra Todde ha firmato l’accordo di programma sull’Einstein Telescope con i sindaci delle comunità locali e dei comuni capoluogo, per la costituzione di una governance multilivello per il sostegno e la promozione della candidatura di Sos Enattos.

«In questi ultimi anni abbiamo parlato in prospettiva, di cosa avremmo potuto fare, di cosa avrebbe potuto significare il progetto Einstein Telescope per il territorio. Oggi ci ritroviamo qui a Lula per parlare di cose concrete, come la realizzazione del centro di ricerca Et-SunLab, che come Regione abbiamo cofinanziato con dieci milioni di euro. Risorse che si aggiungono ai 350 milioni che abbiamo già stanziato, disponibili da subito, non in un prossimo futuro», commenta la presidente della Regione Sardegna Alessandra Todde. «Con piacere sottolineo l’unità che stiamo registrando a tutti i livelli istituzionali nel portare avanti la candidatura di Sos Enattos. Sono in continuo contatto con la ministra dell’Università e Ricerca Anna Maria Bernini, tutti insieme stiamo mettendo anima e corpo per raggiungere l’obiettivo, al di là delle singole appartenenze politiche».

«Il progetto SunLab è il primo seme della futura grande infrastruttura di ricerca di Einstein Telescope, seme che oggi stiamo piantando tutti assieme nel territorio sardo», commenta Antonio Zoccoli, presidente dell’Infn. «SunLab sarà un centro multidisciplinare dove enti di ricerca e università potranno fare scienza in un ambiente dalle caratteristiche uniche, dove potremo sviluppare e testare le tecnologie di frontiera necessarie a Einstein Telescope e dove comunità scientifica e comunità civile potranno incontrarsi, conoscersi e confrontarsi. Lavoreremo per fare di SunLab un centro d’avanguardia scientifica, un luogo di partecipazione e dialogo, un primo importante passo per portare la Sardegna al centro dell’Europa con Einstein Telescope».

«L’Istituto nazionale di astrofisica conferma la sua presenza in Sardegna – dove già opera il radiotelescopio Srt di San Basilio – portando nel SunLab alcune tra le sue migliori tecnologie, come le ottiche adattive per il controllo di precisione della luce degli astri», dice Roberto Ragazzoni, presidente dell’Inaf. «Inoltre realizzeremo il prototipo di un telescopio innovativo, capace di cogliere simultaneamente all’Einstein Telescope le controparti elettromagnetiche delle onde gravitazionali, confermando lo sforzo del nostro Istituto in quella nuova astronomia – detta multimessaggera – che vuole scrutare il cosmo utilizzando le macchine più differenti e innovative oggi concepibili».


Rendering di Et-SunLab

«L’Ingv aderisce con grande entusiasmo a Et contribuendo con le proprie risorse, il personale e la competenza scientifica», sottolinea Massimo Chiappini, direttore del dipartimento ambiente dell’Ingv. «Il contributo dell’Istituto sarà orientato prevalentemente alla caratterizzazione geofisica e ambientale dell’area di interesse del sito. Inoltre, l’Ingv ha lanciato un grande progetto, Earth Telescope, che consentirà una sempre migliore comprensione dei fenomeni che governano la complessa dinamica del sistema Terra e lo spazio circumterrestre».

«Il progetto del laboratorio SunLab che oggi viene presentato è frutto di un ampio e profondo lavoro di ricerca e concettualizzazione che l’Università di Cagliari ha condotto grazie alle proprie competenze nella progettazione architettonica. Un esempio concreto ed efficace del valore che il nostro Ateneo porta nell’ambito del più ampio progetto Einstein Telescope», aggiunge Luciano Colombo, pro-rettore alla ricerca dell’Università di Cagliari.

«Come Università di Sassari sentiamo forte il peso e le aspettative di questa iniziativa. Et-SunLab non rappresenta solo un semplice centro di ricerca, ma un vero e proprio piano di rinascita per i sardi e la Sardegna. La possibilità di avere in futuro Einstein Telescope in questo territorio coinciderebbe con uno sviluppo non solo scientifico, ma anche territoriale ed economico. L’Università di Sassari è pronta a rispondere alla chiamata per questa grande impresa collettiva», conclude il rettore dell’Università di Sassari Gavino Mariotti.



Iqueye va in visita al Gemini South



La luce, lo sappiamo, è fatta di fotoni. Particelle prive di massa che si muovono alla velocità – appunto – della luce illuminando qualunque oggetto riescano a “toccare” lungo il loro percorso. Ma si possono contare, i fotoni? Con uno strumento come Iqueye (Italian Quantum Eye), sì. E riuscendo a distinguere persino due fotoni che arrivano ad appena mezzo miliardesimo di secondo uno dall’altro. Lo strumento, come dice il nome stesso, è italiano. Il suo gemello Aqueye+ (Asiago Quantum Eye), il primo a essere stato costruito, si trova stabilmente all’Osservatorio di Asiago dell’Inaf, mentre Iqueye è vagabondo e viene ospitato da vari telescopi in giro per il mondo, offrendo loro una modalità osservativa del tutto peculiare.


Il team dell’Inaf di Padova e dell’Università di Padova con lo strumento Iqueye. Crediti: Luca Zampieri

Dall’inizio di febbraio Iqueye è ospite per la prima volta di un telescopio della classe 8 metri, il Gemini South, situato a Cerro Pachon, in Cile. Tecnicamente, lo strumento è un fotometro estremamente potente, che oltre a raccogliere il flusso di fotoni in arrivo da una sorgente (prerogativa questa di qualunque fotometro), riesce a rilevare un singolo fotone per volta. Man mano che i fotoni arrivano, ognuno di essi viene etichettato singolarmente con il suo orario di arrivo. Questo metodo di conteggio consente a Iqueye di effettuare misurazioni temporali precise con un’accuratezza di appena 0,5 nanosecondi. Una capacità, questa, che lo rende particolarmente adatto a osservare oggetti astronomici che variano molto velocemente nel tempo a velocità elevate, come pulsar, blazar e magnetar.

«Il progetto Aqueye+Iqueye nasce a Padova, da una ormai ventennale collaborazione tra l’Università di Padova e l’Inaf, con l’obiettivo di studiare fenomeni astrofisici ad altissima risoluzione temporale in luce visibile, fino al limite dell’ottica quantistica, utilizzando strumenti innovativi a conteggio veloce di fotoni», spiega a Media Inaf Luca Zampieri, ricercatore all’Inaf di Padova e responsabile Inaf del progetto. «Dal 2005 abbiamo realizzato due strumenti gemelli, Aqueye+ e Iqueye, in grado di memorizzare il tempo di arrivo di ogni singolo fotone con una risoluzione temporale relativa migliore di cento picosecondi. L’installazione di Iqueye al telescopio Gemini South come visitor instrument è quindi l’ultima importante tappa di un percorso che parte da lontano e che ha visto prima la realizzazione di Aqueye+, attualmente montato al telescopio Copernico di Asiago, e poi quella di Iqueye, montato in precedenza al New Technology Telescope in Cile e al telescopio Galileo ad Asiago. Da questa strumentazione abbiamo già avuto grandi soddisfazioni, in particolare nello studio delle pulsar ottiche».

Come dicevamo, in passato Iqueye è stato ospite di altri telescopi, ma questa è la prima volta che le sue capacità di conteggio uniche si accoppiano a un telescopio otticamente potente come Gemini South, e per questo ci sono grandi aspettative.

«Iqueye è uno strumento che è stato realizzato appositamente per interfacciarsi con il New Technology Telescope a La Silla (Cile), dove è stato installato alcuni anni fa ma solo per un paio di run osservativi, poi è stato usato principalmente al telescopio Galileo ad Asiago», spiega a Media Inaf Giampiero Naletto, responsabile del progetto Aqueye+Iqueye per l’università di Padova. «È stato grazie al contatto con il professor Cassanelli, a Santiago, e allo sforzo congiunto di tutto il team che è stato possibile riportare Iqueye su un grande telescopio cileno; infatti, il nostro strumento è relativamente versatile e sono bastate poche modifiche meccaniche per riuscire a installarlo al Gemini South. Stiamo valutando la possibilità di offrire Iqueye (al Gemini South) alla comunità scientifica per alcuni anni a venire».


Questo grafico mostra il segnale della pulsar del Granchio dalle osservazioni di prima luce con Iqueye al telescopio Gemini South (blu), confrontate con i dati del 2009 al New Technology Telescope dell’Eso (arancione). La forza degli impulsi rilevati da Gemini South dimostra la migliore sensibilità di Iqueye quando viene montato su un telescopio otticamente potente come l’8 metri Gemini South. In particolare, il grafico mostra un secondo delle osservazioni in prima luce della pulsar del Granchio, che in totale sono durate quattro ore. Crediti: Osservatorio Internazionale Gemini/NoirLab/Nsf/Aura/P. Marenfeld

L’accoppiata fra la capacità di conteggio di Iqueye e il grande specchio del telescopio Gemini consentirà per la prima volta di studiare in luce visibile l’evoluzione temporale di vari fenomeni astronomici ancora poco conosciuti, come ad esempio i fast radio burst, oppure di monitorare il comportamento nel tempo di oggetti celesti rapidamente variabili ma estremamente deboli, quali ad esempio le pulsar. Dopo l’installazione nel telescopio cileno, a Iqueye è stato assegnato il primo caso scientifico “di prova”, per verificare che tutto funzionasse a dovere. La scelta per la sua “prima luce” al Gemini South è caduta su un grande classico: la pulsar del Granchio. La riduzione e l’analisi dei set di dati di questo strumento sono operazioni che richiedono molto tempo, ma già nell’analisi preliminare i dati hanno rivelato strutture dettagliate nel segnale, mostrando picchi nitidi della luce della pulsar con livelli di rumore eccezionalmente bassi. La pulsar del Granchio è una delle sorgenti di pulsar più luminose e meglio documentate, il che la rende il bersaglio ideale per la messa in servizio di Iqueye. Mentre altri telescopi hanno osservato la pulsar del Granchio a varie lunghezze d’onda (raggi X, radio, ottica), questa è la prima volta che viene osservata con una risoluzione temporale e un livello di dettaglio e sensibilità così elevati.

«Il dubbio che qualunque cosa possa non essere andata per il verso giusto c’è sempre», commenta Naletto. «Per cui, quando abbiamo visto per la prima volta il grafico con il segnale della pulsar del Granchio, c’è stato dapprima un sollievo (da parte mia) che avevamo fatto tutto per bene, e poi l’esultanza per la qualità incredibile del dato ottenuto – mai visto nulla del genere prima!»



L’energia oscura sta mutando. Parola di Desi



La misteriosissima energia oscura non è solo oscura ma cambia pure nel corso del tempo. Detto altrimenti, la costante cosmologica – altra espressione che gli astronomi usano per riferirsi all’agente sconosciuto responsabile dell’espansione accelerata dell’universo, l’ineffabile lambda del modello cosmologico standard – non è costante. Il sospetto aleggia da un po’: già nel 2017, per esempio, lo avanzava proprio su queste pagine l’astrofisico Marco Raveri, anticipandoci che stava entrando in funzione un telescopio dedicato proprio a indagare questo problema.

Quel telescopio è Desi, il Dark Energy Spectroscopic Instrument, e ha mantenuto la promessa: proprio oggi è uscita una corposa collezione di articoli scientifici che riporta i risultati ottenuti dal team di Desi – del quale Raveri fa parte – analizzando i dati dei primi tre anni di osservazioni, fra i quali le migliori misure a oggi disponibili di circa 15 milioni di galassie e quasar. E le conclusioni, ottenute combinando misure relative alle supernove e misure relative alle cosiddette oscillazioni acustiche dei barioni (Bao, dall’inglese baryon acoustic oscillations), confermano in modo indipendente le anomalie già riscontrate nei dati dell’anno scorso: l’energia oscura sembra evolvere, il suo impatto – si legge nel comunicato stampa del NoirLab – sembra farsi più debole man mano che passa il tempo.


Desi ha prodotto la più grande mappa 3D dell’universo e la usa per studiare l’energia oscura. In questa animazione, la Terra è al centro e ogni punto è una galassia. (Crediti: collaborazione Desi, Koon/NoirLab/Nsg/Aura/R. Proctor

Supernove e Bao, dicevamo. Entrambe usate come “righelli” – cosmic rulers, le definiscono gli astronomi – per misurare le distanze su scale cosmiche, passaggio necessario per stimare l’impatto dell’energia oscura sull’espansione dell’universo e la sua eventuale variazione nel tempo. Le Bao, in particolare, sono onde acustiche che hanno avuto origine nell’universo primordiale, oscillazioni nella materia con picchi separati fra loro da centinaia di milioni di anni luce. Misurando le distanze che separano questi picchi in diverse epoche della storia cosmica, è possibile stimare quanto l’energia oscura le abbia allungate o accorciate nel tempo. E i dati suggeriscono, appunto, che quest’azione non sia costante nel corso degli oltre quattordici miliardi di anni che ci separano dal Big Bang.

Un risultato che se confermato avrebbe ricadute non indifferenti. Se l’universo fosse una società per azioni, l’energia oscura – con la sua quota del 70 per cento – ne deterrebbe ampiamente la maggioranza assoluta. Insomma, se si scopre che è un po’ ballerina, a ballare con lei è tutto il modello cosmologico – il Lambda-Cdm, appunto –, tanto che gli scienziati parlano di “una nuova fisica”.

Ma siamo ancora ben lontani dall’esserne certi, sottolineano i cosmologi della collaborazione Desi. Una cautela ben riassunta in un numero, il cosiddetto sigma, che cerca di quantificarne l’incertezza. Per i fisici, per esempio, “al di là di ogni ragionevole dubbio” si traduce di solito in “almeno cinque sigma”. Le conclusioni presentate oggi da Desi, quanto a certezza, stanno ancora fra 2.8 e 4.2: troppo poco, dunque, per parlare di scoperta. Per farlo occorrerà attendere dati indipendenti, dati da altri esperimenti. Per esempio dati come quelli che sta raccogliendo il telescopio spaziale dell’Esa Euclid, che proprio ieri ha presentato al mondo un assaggio della sua prima release.

«Bisogna attendere ancora qualche anno, ma sicuramente quello che porterà Euclid, anche per quanto riguarda alla misura dell’energia oscura, sarà un contributo importante. Importante soprattutto per le misure di lensing», spiega a Media Inaf Davide Bianchi, astrofisico alla Statale di Milano che lavora a entrambi gli esperimenti e coautore degli articoli pubblicati oggi dal team di Desi. «Metà di Euclid – mi riferisco allo strumento Nisp, lo spettrografo per il vicino infrarosso – fa più meno quello che fa Desi, ma lo fa osservando galassie un po’ diverse, in un’epoca della storia dell’universo in buona parte complementare a quella osservata da Desi, e già questo fa sì che le informazioni che fornisce siano molto preziose. Ma forse ancor più preziosi, in questo contesto, sono i dati che sta acquisendo l’altra metà di Euclid, lo strumento Vis, proprio perché in questo caso è diverso anche il tipo di osservazione, non solo gli oggetti osservati. Mi riferisco, appunto, alle misure di lensing, che in Desi mancano, anche se ha comunque potuto avvalersi dei risultati di altre survey, principalmente quelli di Des».

Nell’attesa di conferme, i risultati presentati oggi da Desi rappresentano già «un terreno fertile per i nostri colleghi teorici che esaminano modelli nuovi e già esistenti, e siamo entusiasti di vedere cosa ne verrà fuori», dice Michael Levi, del Berkeley Lab, direttore di Desi. «Qualunque sia la natura dell’energia oscura, essa condizionerà il futuro dell’universo. È davvero straordinario poter guardare il cielo con i nostri telescopi e cercare di rispondere a una fra le più grandi domande che l’umanità si sia mai posta».



Costruendo la più grande mappa del cosmo



Tre pezzetti di cielo. Sono i tre campi profondi resi pubblici oggi dalla missione Euclid. Uno si trova nell’emisfero nord, verso la costellazione del Dragone, non lontano dalle più famose Orsa maggiore e Orsa minore. Gli altri due si trovano nell’emisfero sud. In totale, corrispondono allo 0,1 per cento dell’intera volta celeste, e allo 0,45 per cento della porzione di cielo che il telescopio Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa) scansionerà nel corso dei prossimi anni. Eppure in questi tre pezzetti di cielo sono già stati identificati 26 milioni di galassie. Un assaggio fugace – ma già parecchio appetitoso – della gigantesca mappa del cosmo in corso di realizzazione per studiare l’evoluzione dell’universo nel tempo e la natura delle sue componenti più misteriose, come l’invisibile materia oscura e l’elusiva energia oscura.


Questa mappa mostra, in giallo, la posizione dei tre campi profondi (Euclid Deep Fields). Lo Euclid Deep Field North si trova nella porzione in alto a sinistra dell’immagine, mentre gli altri due – Euclid Deep Field South ed Euclid Deep Field Fornax – si trovano in basso a destra. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa; Esa/Gaia/Dpac; Esa/Planck Collaboration

Trasformare le osservazioni del telescopio spaziale in cataloghi utilizzabili dalla comunità scientifica per testare ipotesi cosmologiche è tutt’altro che banale. Una volta catturate dal telescopio, le immagini grezze vengono sottoposte a un rigoroso trattamento da parte del segmento di terra scientifico (in inglese: science ground segment, Sgs), che coordina l’elaborazione e analisi dei dati, spianando la strada ad analisi e scoperte scientifiche più avanzate. «Il segmento di terra a guida italiana, composto da più di 800 fra scienziati, ingegneri ed esperti di software da diversi paesi, ha sviluppato diverse pipeline necessarie a estrarre le informazioni scientifiche dalle immagini acquisite», nota Andrea Zacchei dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), manager del segmento di terra di Euclid. «Sono stati necessari più di dieci anni per ideare, implementare e finalmente eseguire su dati reali una prima versione di questi complessi software. Da solo questa piccola percentuale di cielo, il segmento di terra ha creato un catalogo composto da 26 milioni di galassie e 4 milioni di oggetti come quasar, stelle, nane brune, e altro ancora. Siamo solo all’inizio; stiamo già preparando la prossima release, prevista fra poco più di un anno, che comprenderà un’area di cielo molto più vasta e analizzata con algoritmi sempre più sofisticati».

La release odierna, chiamata Quick Data Release 1, è sette volte più grande del primissimo set di dati rilasciato da Euclid, le Early Release Observations, che erano state rese pubbliche nel 2024. I tre campi profondi rappresentano le più grandi aree contigue di cielo mai osservate con un telescopio spaziale nell’ottico e nel vicino infrarosso. Se non sembrano spettacolari come le immagini in technicolor sfornate ormai quasi giornalmente dai telescopi spaziali Hubble e Webb, è assolutamente voluto: Euclid è stato progettato non per esaminare singoli oggetti astronomici in tutte le loro minuzie, ma per confezionare l’atlante più grande e più preciso dell’universo su grande scala. Una specie di Google Maps del cosmo, per capirci. L’obiettivo è studiare un vasto, vastissimo numero di galassie: in dettaglio, sì, ma anche e soprattutto nel loro contesto più ampio.

Per questo, il “detective dell’universo oscuro” – come lo chiamano in quel dell’Esa – può fare affidamento sia su un grande campo visivo che sull’alta risoluzione delle immagini. Con i nuovi dati, è possibile condurre molteplici studi astrofisici su scale più piccole, dagli ammassi di galassie fino a oggetti delle dimensioni di un pianeta. Infatti oggi, insieme ai dati e ai preprint di sette articoli tecnici che descrivono il processo di elaborazione e analisi dei dati, vengono presentati anche i preprint di 27 articoli scientifici, dedicati ad argomenti disparati di astrofisica. In gergo, si chiama legacy science: ricerche che si interrogano sulla morfologia, il tasso di formazione, l’evoluzione delle galassie nel corso di miliardi di anni – tutte complementari all’obiettivo scientifico primario della missione, ovvero comprendere il ruolo cosmico della materia oscura e dell’energia oscura.

Il Deep Field North

Ne è un esempio l’immagine dello Euclid Deep Field North, un fazzoletto di cielo grande 22,9 gradi quadrati – l’equivalente di un centinaio di lune piene. A un primo sguardo, si presenta come una manciata di sale e pepe. Ma tra quei “granelli” cosmici si nascondono oltre dieci milioni di galassie. E non solo: l’immagine pullula di stelle, dalla caratteristica forma ad asterisco con una serie di picchi a raggiera (forma che non è intrinseca delle stelle ma causata dall’interazione della luce con le ottiche dei telescopi). Sono stelle della nostra galassia, la Via Lattea, nella quale viviamo e che fa capolino in tutte le nostre osservazioni, anche quelle del cosmo profondo. Si nota anche una leggera nebulosità di colore blu, causata dal materiale diffuso che pervade gli spazi interstellari. E spicca pure una macchiolina di colore fucsia, visibile nella porzione centrale dell’immagine, verso destra.


A sinistra, un mosaico dello Euclid Deep Field North; a destra, uno zoom sulla Nebulosa Occhio di Gatto (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi

Andando a ingrandire, la macchia fucsia tradisce la silhouette inconfondibile della Nebulosa Occhio di Gatto (Cat’s Eye Nebula, anche nota come Ngc 6543), una nebulosa planetaria, quel che resta di una stella come il Sole alla fine del suo ciclo vitale, a circa tremila anni luce da noi. Vent’anni fa, il telescopio spaziale Hubble ne aveva fatto un’icona dell’astronomia pop. Senza raggiungere lo stesso grado di dettaglio di altri osservatori, la survey realizzata da Euclid ha il merito di ritrarre oggetti come questo all’interno del più vasto contesto cosmico in cui si trovano.

«Queste immagini mostrano la capacità unica di Euclid di osservare il cielo, combinando un ottimo livello di dettaglio e profondità delle immagini con l’ampiezza della regione osservata», commenta Gianluca Polenta dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), responsabile dell’analisi delle immagini di uno dei due strumenti di bordo, il Near-Infrared Spectrometer and Photometer (Nisp), alla guida di uno degli articoli presentati oggi, sull’elaborazione dei dati nel vicino infrarosso. «Durante i sei anni di osservazioni, Euclid collezionerà centinaia di migliaia di immagini nel visibile e nel vicino infrarosso, la cui analisi è resa possibile da una serie di pipeline sviluppate appositamente dalla collaborazione Euclid con il contributo determinante degli scienziati italiani».

Sempre nello Euclid Deep Field North, aguzzando la vista poco più in alto rispetto al centro dell’immagine, si trova anche la galassia Ngc 6505, a circa 590 milioni di anni luce da noi. Ne abbiamo parlato giusto un mese fa: è la prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid. A causa di una coincidenza cosmica, questa galassia risulta allineata proprio lungo la nostra linea di vista con un’altra galassia, molto più lontana, di cui amplifica e distorce la luce, facendola apparire sotto forma di un cerchio: il cosiddetto “anello di Einstein”. Secondo la teoria della relatività generale di Albert Einstein, infatti, corpi massicci come galassie e ammassi di galassie possono agire come lenti gravitazionali, curvando il tessuto dello spazio tempo circostante e “piegando” così il percorso della luce proveniente da sorgenti retrostanti, le cui immagini vengono amplificate e – nei casi più eclatanti – moltiplicate. Di potenziali lenti forti, nei tre campi profondi, Euclid ne ha già identificate centinaia, grazie alla combinazione dell’intelligenza artificiale e dell’ispezione da parte di un migliaio di citizen scientist attraverso il progetto Space Warps, seguite dalla verifica e modellazione da parte degli esperti.


Collage di 112 lenti gravitazionali catturate da Euclid durante le prime osservazioni dei tre Deep Field. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre

«Questo mosaico presenta una selezione delle lenti gravitazionali più spettacolari trovate da Euclid nell’area di cielo coperta dalla data release Q1: in totale, sono state identificate oltre 500 lenti gravitazionali su scala galattica e più di 80 ammassi di galassie che producono effetti di lensing gravitazionale forte», sottolinea Pietro Bergamini, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano, che ha guidato l’articolo sulla ricerca di lenti gravitazionali. «Nonostante i dati esaminati rappresentino appena lo 0,5% dell’area totale che Euclid osserverà nel corso della sua missione, il numero di lenti gravitazionali individuate è comparabile a quello delle lenti già note fino ad oggi. I dati raccolti da Euclid permetteranno di determinare come la materia oscura si distribuisce all’interno di galassie ed ammassi di galassie, contribuendo in maniera rilevante ad una migliore comprensione della natura della materia oscura stessa».

Il Deep Field South

Il più grande dei tre campi profondi è lo Euclid Deep Field South, una regione del cielo grande 28,1 gradi quadrati in direzione della costellazione dell’Orologio, nell’emisfero sud. Osservando l’immagine, si può intravedere la struttura su larga scala dell’universo, con le galassie disposte lungo la ragnatela cosmica, una gigantesca “rete” composta da ammassi di galassie collegati tra loro da filamenti. Questo campo, in cui Euclid ha già scovato ben undici milioni di galassie, non è stato ancora coperto da nessuna indagine del cielo profondo e offre dunque un grande potenziale per nuove scoperte: sono già stati identificati e caratterizzati diversi ammassi di galassie, molti dei quali presentano grandiosi fenomeni di lensing gravitazionale forte.

«Lo studio di queste galassie, di come evolvono nel tempo le loro relazioni fondamentali, come quella tra quante stelle stanno formando e quante ve ne sono al loro interno, ci permette di investigare nel dettaglio come si sono formate e come si sono evolute le galassie nel corso della loro vita», precisa Andrea Enia dell’Università di Bologna, alla guida dell’articolo dedicato allo studio del tasso di formazione stellare delle galassie. «All’interno dello Euclid Deep Field South è possibile osservare l’ammasso di galassie J041110.98-481939.3, a poco più di sei miliardi di anni luce da noi. Questo insieme di galassie è talmente massivo da curvare la luce delle galassie che vi si trovano dietro proprio come una lente di ingrandimento, formando dei grandi archi secondo un fenomeno noto come lente gravitazionale. Le lenti gravitazionali sono uno strumento fondamentale per investigare in maggiore dettaglio la forma e la struttura di galassie molto lontane, usando l’universo come un telescopio naturale, con fattori di ingrandimento fino a cento volte».


A sinistra, un mosaico dello Euclid Deep Field South; a destra, in alto uno zoom di 16 volte, e in basso di 70 volte. Quest’ultimo è centrato sull’ammasso di galassie J041110.98-481939.3 (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi

Il Deep Field Fornax

Il terzo e più piccolo dei tre campi, lo Euclid Deep Field Fornax, occupa un’area nel cielo di soli 12,1 gradi quadrati – una cinquantina di lune piene – verso la costellazione della Fornace, anch’essa nell’emisfero sud. Comprende il Chandra Deep Field South, una porzione di cielo molto più piccola ma già studiata a fondo negli ultimi due decenni con un gran numero di telescopi terrestri e spaziali, su tutto lo spettro elettromagnetico. Dopo una singola osservazione, Euclid vi ha già individuato oltre 4,5 milioni di galassie.

Dalle prime analisi dei campi profondi di Euclid emerge la capacità del telescopio spaziale di rilevare oggetti deboli e distanti. In particolare, sono state individuate migliaia di potenziali galassie nane mai osservate prima, così come migliaia di misteriosi “puntini rossi” nell’universo remoto.


Mosaico dello Euclid Deep Field Fornax (cliccare per ingrandire.) Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi

«Questo campo ha svelato una varietà di galassie con colori molto diversi, tra cui una popolazione di circa un migliaio di sorgenti eccezionalmente rosse: si ritiene che questi oggetti peculiari siano tra le galassie più massicce nell’universo distante, avvolte in un vasto serbatoio di polvere che le oscura pesantemente», ricorda Giorgia Girardi, dottoranda all’Università di Padova, prima autrice dell’articolo che indaga su queste enigmatiche sorgenti. «Grazie al grande impegno del consorzio Euclid, è stato possibile produrre cataloghi validati scientificamente delle sorgenti osservate all’interno del Fornax Deep Field e le osservazioni di Euclid si potranno combinare con le osservazioni di altri telescopi, come Spitzer nell’infrarosso e Lofar nelle onde radio. La possibilità di combinare informazioni a diverse lunghezze d’onda aiuterà a svelare la natura misteriosa delle sorgenti rosse e di molte altre famiglie extragalattiche».

Anche la morfologia e l’evoluzione delle galassie sono aspetti chiave per la legacy science di Euclid. La nuova release contiene infatti il primo catalogo dettagliato di oltre 380mila galassie, classificate in base a caratteristiche quali la presenza di bracci a spirale, barre centrali e code mareali che indicano possibili fenomeni di fusione galattica in corso. Il catalogo è stato creato dall’algoritmo di intelligenza artificiale Zoobot, supportato da un’intensa campagna di citizen science lanciata lo scorso agosto, a cui hanno partecipato quasi diecimila volontari nell’ambito del progetto Galaxy Zoo. Grazie al grande volume di dati, il catalogo ha già permesso di riconoscere differenze rispetto alle forme e alle caratteristiche delle galassie simulate.

«Euclid è una missione di tipo survey: un censimento. Il nostro obiettivo finale è quello di catalogare oltre un miliardo di oggetti celesti; tra questi decine di milioni di galassie», chiarisce Erik Romelli, ricercatore Inaf che ha guidato un altro degli articoli che accompagnano la Quick Data Release 1, dedicato alla realizzazione dei cataloghi in multi-frequenza. «All’interno delle stupende immagini ad alta risoluzione fornite dai due strumenti Vis e Nisp, il science ground segment, l’organo che si occupa di analizzare i dati della missione, ha il compito di identificare i singoli oggetti celesti, fornendo, per ognuno di loro, una stima accurata della sua posizione in cielo, della sua luminosità, della sua forma e delle sue proprietà fisiche. Per maneggiare la mastodontica mole di dati, l’Sgs sfrutta le capacità di 10 centri di calcolo sparsi tra Europa e Stati Uniti e la competenza e dedizione di centinaia di ricercatori e ricercatrici da tutto il mondo».


Collage di 45 galassie di forme disparate catturate da Euclid (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre

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Euclid: un nuovo sguardo sull’universo



Un’anteprima straordinaria di ciò che ci riserva l’universo profondo. La missione Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con un importante contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (Asi), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e diverse università italiane, ha svelato i primi dati scientifici ottenuti dalle osservazioni dei campi profondi, regioni di cielo estremamente lontane.

Coprendo una vasta area del cielo in tre mosaici di immagini, i risultati ottenuti dalle osservazioni forniscono uno spunto unico per comprendere meglio la struttura su larga scala dell’universo e la formazione delle galassie nel tempo.


Questa mappa mostra, in giallo, la posizione dei tre campi profondi (Euclid Deep Fields) e, sovrapposte, le immagini dei tre campi. Lo Euclid Deep Field North si trova nella porzione in alto a sinistra dell’immagine, mentre gli altri due – Euclid Deep Field South ed Euclid Deep Field Fornax – si trovano in basso a destra. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa; Esa/Gaia/Dpac; Esa/Planck Collaboration

In un lasso di tempo paragonabile a una sola settimana di osservazioni, il telescopio è riuscito a rilevare più di 26 milioni di galassie, molte delle quali si trovano a distanze impressionanti, fino a 10,5 miliardi di anni luce dalla Terra. Tra queste, sono più di 380mila le galassie che sono già state classificate dal telescopio, basandosi sulla visione dettagliata della loro morfologia grazie all’utilizzo combinato di intelligenza artificiale e citizen science, che ha permesso di analizzare enormi quantità di dati in modo rapido ed efficiente. Un simile approccio ha permesso anche l’individuazione di 500 oggetti candidati come lenti gravitazionali. I dati rilasciati includono anche numerosi ammassi di galassie, nuclei galattici attivi e fenomeni transitori, che sono fattori chiave per capire le forze invisibili che modellano il cosmo.

Queste prime immagini mostrano chiaramente come galassie di diverse forme e dimensioni si intrecciano raggruppandosi in filamenti giganteschi che formano una “rete cosmica”, ossia la vasta struttura che collega le galassie e gli ammassi galattici attraverso fili di materia visibile e invisibile, fornendo indizi fondamentali su come l’universo si è evoluto nel tempo.

Il rilascio di questi dati è solo l’inizio. Euclid continuerà a osservare il cielo, raccogliendo dati fondamentali. Entro la fine della missione nel 2030, Euclid avrà mappato un terzo dell’intero cosmo, fornendo una vera e propria miniera di dati che cambierà per sempre la nostra visione dell’universo.

«Euclid è una continua sorpresa. Con le sue eccezionali immagini sull’universo sta aprendo interessanti nuovi orizzonti per la scienza e per la conoscenza. Il programma rientra», ricorda il presidente dell’Asi, Teodoro Valente, «tra le missioni obbligatorie sottoscritte dagli Stati Membri in sede ministeriale Esa ed è la dimostrazione di come attraverso la cooperazione e condivisione si possano raggiungere elevati livelli di successo nel settore spaziale. Nel caso di Euclid, la quota investita dall’Italia nel programma e l’impegno diretto per gli strumenti e per l’analisi dei dati hanno condotto a importanti ritorni, sia per l’industria nazionale sia per la comunità scientifica del settore. Entrambe sono uscite rafforzate e pronte ad affrontare le nuove sfide, non solo a livello europeo, ma anche con missioni scientifiche nazionali e partecipazioni a programmi bilaterali. La collaborazione tra Asi, industria, enti e università, ognuno con le sue responsabilità, ha funzionato perfettamente e ha fatto sì che il ruolo italiano, all’interno della fondamentale cooperazione a livello europeo, sia visibile e riconosciuto».

«Questi primi dati di Euclid ritraggono milioni di galassie e altri oggetti celesti in sole tre porzioni di cielo, osservate in grande profondità», commenta Roberto Ragazzoni, presidente Inaf. «Ancor più grande è la mole di informazioni che sono state necessarie per creare i cataloghi delle sorgenti osservate e poi elaborate dal Segmento di Terra scientifico, che raggruppa centinaia fra scienziate e scienziati, ingegneri e informatici da diversi paesi, sotto la guida italiana e in particolare dell’Istituto nazionale di astrofisica. Questo è un primo assaggio delle grandi potenzialità di questa missione, resa possibile grazie al lavoro della comunità di ricercatrici e ricercatori coinvolti nello studio della geometria dell’universo e della natura di quelle sue proprietà che oggi definiamo “oscure”».


Collage di 112 lenti gravitazionali catturate da Euclid durante le prime osservazioni dei tre Deep Field. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, image processing by M. Walmsley, M. Huertas-Company, J.-C. Cuillandre

«Quando, un anno fa, sono iniziate le osservazioni, potevamo soltanto immaginare la portata e la ricchezza di ciò che Euclid ci avrebbe reso disponibile», commenta Antonio Zoccoli, presidente dell’Infn. «Il catalogo pubblicato oggi rappresenta appena lo 0,4 per cento delle galassie che prevediamo di osservare nel corso della vita di Euclid, e dimostra le eccezionali capacità di questo strumento che, siamo certi, porterà a importanti avanzamenti nei campi dell’astronomia e della cosmologia e contribuirà a svelare quel 95 per cento del nostro universo che ancora ci rimane ignoto, ossia la natura della materia oscura e dell’energia oscura».

La missione è uno dei programmi più ambiziosi a livello internazionale nel quale l’Italia, attraverso l’Agenzia spaziale italiana, l’Istituto nazionale di astrofisica e l’Istituto nazionale di fisica nucleare, gioca un ruolo di protagonista coinvolgendo oltre duecento scienziate e scienziati italiani, appartenenti anche a numerose università: Università di Bologna, Università Statale di Milano, Università di Genova, Università di Trieste, Sissa, Università di Ferrara, Università di Torino, Cisas dell’Università di Padova.

L’Italia ha progettato la strategia osservativa della missione e coordina tutte le attività a terra per la ricostruzione ed analisi dei dati. Il nostro Paese ha contribuito anche alla realizzazione dei due strumenti scientifici a bordo del satellite: il Vis (Visible Instrument) e il Nisp (Near Infrared Spectrometer Photometer), che hanno l’obiettivo rispettivamente di ottenere immagini ad alta risoluzione del cielo profondo e di misurare gli spettri di milioni di galassie.

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Paranal, telescopi a repentaglio con il progetto Inna



A gennaio, l’Eso ha lanciato pubblicalmente l’allarme sulla minaccia posta ai cieli più bui e limpidi del mondo, quelli dell’Osservatorio Paranal dell’Eso, dal megaprogetto industriale Inna. Il progetto, di Aes Andes, una filiale della società elettrica statunitense Aes Corporation, comprende molteplici impianti energetici e di trasformazione, distribuiti su un’area di oltre 3000 ettari, pari alle dimensioni di una piccola città. La sua ubicazione prevista è a pochi chilometri dai telescopi del Paranal.

Un’analisi preliminare effettuata all’epoca ha rivelato che, a causa delle sue dimensioni e della vicinanza al Paranal, il progetto Inna poneva rischi significativi per le osservazioni astronomiche. Ora, un’analisi tecnica dettagliata ha confermato che l’impatto di Inna sarebbe devastante e irreversibile.


Immagine della settimana del 12 luglio 2021 scattata dall’osservatorio Paranal dell’Eso. Crediti: Eso/P. Horálek

Inquinamento luminoso accecante


Secondo la nuova analisi dettagliata, il complesso industriale aumenterebbe l’inquinamento luminoso sopra il Vlt (Very Large Telescope), che si trova a circa 11 km dalla posizione pianificata di Inna, di almeno il 35 per cento rispetto agli attuali livelli di base della luce artificiale. Un’altra delle strutture del Paranal, l’Elt dell’Eso, vedrebbe l’inquinamento luminoso sopra di sé aumentare di almeno il 5 per cento. Questo aumento rappresenta già un livello di interferenza incompatibile con le condizioni richieste per osservazioni astronomiche di livello mondiale. L’impatto sui cieli sopra il Ctao-sud, situato a soli 5 km dall’Inna, sarebbe il più importante, con l’inquinamento luminoso che salirebbe di almeno il 55 per cento.

«Un cielo più luminoso limita fortemente la nostra capacità di rivelare direttamente esopianeti simili alla Terra, osservare galassie deboli e persino monitorare asteroidi che potrebbero causare danni al nostro pianeta», dice Itziar de Gregorio-Monsalvo, rappresentante dell’Eso in Cile. «Costruiamo i telescopi più grandi e potenti, nel posto migliore sulla Terra per l’astronomia, per consentire agli astronomi di tutto il mondo di vedere ciò che nessuno ha mai visto prima. L’inquinamento luminoso da progetti come l’Inna non ostacola solo la ricerca, ma ci sottrae la visione condivisa dell’universo».

Per l’analisi tecnica, un gruppo di esperti guidato dal direttore operativo dell’Eso Andreas Kaufer ha lavorato insieme con Martin Aubé, un esperto di fama mondiale sulla luminosità del cielo nei siti astronomici, per eseguire simulazioni utilizzando i modelli di inquinamento luminoso più avanzati. Come input, le simulazioni hanno utilizzato informazioni disponibili al pubblico fornite da Aes Andes quando ha presentato il progetto per la valutazione ambientale, che afferma che il complesso sarà illuminato da oltre mille fonti luminose.

«I risultati sull’inquinamento luminoso che indichiamo assumono che il progetto installerà le lampade più moderne disponibili in modo da ridurre al minimo l’inquinamento luminoso. Tuttavia, siamo preoccupati che l’inventario delle sorgenti luminose pianificato da Aes non sia completo e il più adatto allo scopo. In tal caso, i risultati già allarmanti sottostimerebbero il potenziale impatto del progetto Inna sulla luminosità del cielo del Paranal», spiega Kaufer, aggiungendo che i calcoli presuppongono condizioni di cielo sereno.

«L’inquinamento luminoso sarebbe ancora peggiore se considerassimo cieli nuvolosi», continua Kaufer. «Sebbene il cielo del Paranal è senza nuvole per la maggior parte dell’anno, molte osservazioni astronomiche possono comunque essere eseguite quando ci sono sottili cirri: in questo caso l’effetto dell’inquinamento luminoso è amplificato poiché le luci artificiali vicine si riflettono notevolmente sulle nuvole».

Turbolenza in arrivo


L’analisi tecnica ha esaminato altri impatti del progetto, come l’aumento della turbolenza atmosferica, gli effetti delle vibrazioni sulla delicata attrezzatura dei telescopi e la contaminazione da polvere sulle ottiche sensibili del telescopio durante la costruzione. Tutto ciò aumenterebbe ulteriormente l’impatto dell’Inna sulle capacità di osservazione astronomica dal Paranal.

Oltre ai cieli bui e limpidi, l’Osservatorio di Paranal è il sito migliore al mondo per l’astronomia grazie alla sua atmosfera eccezionalmente stabile: ha ciò che gli astronomi chiamano eccellenti condizioni di visibilità (seeing) o un bassissimo “scintillio” degli oggetti astronomici causato dalla turbolenza nell’atmosfera terrestre. Con Inna, le migliori condizioni di visibilità potrebbero deteriorarsi fino al 40 per cento, in particolare a causa della turbolenza dell’aria causata dalle turbine eoliche del progetto.


Florentin Millour ha catturato questo panorama mozzafiato della cometa C/2024 G3 (ATLAS) nel gennaio del 2021 January 21 dal Osservatorio del Paranal in Cile. Il Very Large Telescope fa bella mostra di sè sulla cima del Cerro Paranal, sulla sinistra, mentre la cometa tramonta all’orizzonte occidentale appena dopo il tramonto. Crediti: F. Millour/Eso

Un’altra preoccupazione è l’impatto delle vibrazioni causate da Inna sull’interferometro del Vlt (Vlti) e sull’Elt, entrambi estremamente sensibili ai disturbi microsismici. L’analisi tecnica rivela che le turbine eoliche di Inna potrebbero far aumentare queste micro-vibrazioni del terreno abbastanza da compromettere le operazioni di questi due strumenti tra i migliori al mondo. Anche la polvere sollevata durante la costruzione è problematica poiché si deposita sugli specchi dei telescopi e ne ostruisce la vista.

«Presi tutti insieme, questi disturbi minacciano seriamente la possibilità che oggi e a lungo termine il Paranal rimanga il leader mondiale nel campo dell’astronomia, causando la perdita di scoperte chiave sull’universo e compromettendo il vantaggio strategico del Cile in quest’area», dice de Gregorio-Monsalvo. «L’unico modo per salvare i cieli incontaminati del Paranal e proteggere l’astronomia per le generazioni future è trasferire altrove il complesso Inna».

Inoltre, la presenza delle infrastrutture dell’Inna potrebbero incoraggare lo sviluppo di un polo industriale nella zona, che potrebbe trasformare il Paranal in un sito inutilizzabile per le osservazioni astronomiche di alto livello.

«L’Eso e i suoi stati membri sostengono pienamente la decarbonizzazione energetica. Per noi il Cile non dovrebbe essere costretto a scegliere tra ospitare gli osservatori astronomici più potenti e sviluppare progetti di energia verde. Entrambe sono dichiarate dal paese priorità strategiche e sono pienamente compatibili, se le strutture sono situate a distanza sufficiente l’una dall’altra», spiega il direttore generale dell’Eso Xavier Barcons.

Processo partecipativo dei cittadini


Il rapporto tecnico completo sarà presentato alle autorità cilene entro la fine del mese come parte del processo partecipativo dei cittadini (Pac) nella valutazione dell’impatto ambientale dell’Inna e reso pubblico in quel momento, prima della scadenza del 3 aprile. Oltre a questo comunicato stampa, l’Eso rende pubblico in anticipo un riassunto esecutivo del rapporto.

«Siamo molto grati per il supporto che abbiamo ricevuto dalla comunità di ricerca cilena e da quella mondiale e in particolare dagli stati membri dell’Eso. Ringraziamo anche le autorità cilene per aver esaminato la questione. Siamo più che mai impegnati a lavorare insieme per proteggere gli insostituibili cieli del Paranal», conclude Barcons.

Fonte: press release Eso



Svelata l’origine di enigmatici impulsi radio



Strani segnali radio arrivano dalla costellazione dell’Orsa Maggiore. Uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature Astronomy svela il mistero: il responsabile dei segnali è un sistema binario composto da una nana rossa e una nana bianca. La ricerca, condotta da Iris de Ruiter, dell’Università di Sydney, toglie alle stelle di neutroni il “monopolio” sull’emissione di impulsi radio periodici, mostrando come altri oggetti compatti siano in grado di emettere segnali radio cosmici a intervalli regolari.

Gli emettitori astrofisici più noti nel domino radio sono le pulsar, stelle di neutroni che ruotando emettono fasci d’onde radio, visti dai radiotelescopi come impulsi molto brevi che si ripetono a intervalli nell’ordine dei millisecondi. Osservazioni condotte negli ultimi anni nella Via Lattea hanno però rivelato la presenza di misteriosi impulsi di durata compresa tra i secondi e i minuti, e con una periodicità tra i minuti e l’ora: i long-period transients (Lpt).

Cosa li genera? La risposta è finalmente arrivata grazie a uno studio guidato da Iris de Ruiter, ricercatrice all’Università di Amsterdam all’epoca in cui ha condotto la ricerca e oggi all’Università di Sydney. Sviluppando un metodo per cercare impulsi radio tra i secondi e i minuti nell’archivio del radiotelescopio Lofar (Low-frequency array telescope), de Ruiter s’era imbattuta in un impulso singolo registrato nel 2015. Setacciando poi altri archivi di dati per la stessa regione celeste, ha trovato altri sei impulsi provenienti dalla stessa sorgente, chiamata Iltj 1101.

Osservazioni successive condotte nell’ottico e nei raggi X utilizzando il Multiple Mirror Telescope da 6.5 metri, in Arizona, l’Hobby-Eberly Telescope, in Texas, e dallo spazio il satellite Swift hanno mostrato che non è una sola stella scintillante, ma due stelle assieme a causare l’impulso: un sistema binario situato a 1600 anni luce da noi, in direzione del Grande Carro, nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Le due stelle, una nana rossa e una nana bianca, orbitano attorno a un centro di gravità comune ogni 125 minuti. Gli astronomi pensano che l’emissione radio sia causata dall’interazione della nana rossa con il campo magnetico della nana bianca.


Rappresentazione artistica del processo di emissione radio dovuto a una nana rossa orbitante attorno a una nana bianca. Crediti: Daniëlle Futselaar/artsource.nl

«È stato veramente bello aggiungere nuovi pezzi al puzzle», dice de Ruiter. «Abbiamo lavorato con esperti di ogni tipo di disciplina astronomica. Avvalendoci di diverse tecniche e osservazioni, ci siamo avvicinati alla soluzione passo dopo passo”.

Riguardo le future cacce al tesoro alla ricerca di ulteriori impulsi di lunga durata nell’archivio Lofar, il co-autore dello studio Kaustubh Rajwade (Università di Oxford) dice: “Probabilmente ci sono tanti di questi impulsi radio nascosti nell’archivio Lofar, e ogni scoperta ci insegna qualcosa di nuovo sugli oggetti astrofisici estremi che possono creare l’emissione radio che osserviamo».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Sporadic radio pulses from a white dwarf binary at the orbital period“, di I. de Ruiter, K. M. Rajwade, C. G. Bassa, A. Rowlinson, R. A. M. J. Wijers, C. D. Kilpatrick, G. Stefansson, J. R. Callingham, J. W. T. Hessels, T. E. Clarke, W. Peters, R. A. D. Wijnands, T. W. Shimwell, S. ter Veen, V. Morello, G. R. Zeimann e S. Mahadevan



Ska-Low, primo sguardo sull’universo




La prima immagine proveniente da una versione iniziale del radiotelescopio Ska-Low in modalità interferometria, attualmente in costruzione nel territorio Wajarri Yamaji in Australia occidentale. L’immagine mostra circa 85 galassie in una porzione di cielo di 25 gradi quadrati — equivalente a cento lune piene. I puntini nell’immagine sono alcune delle galassie più luminose dell’Universo osservate nelle lunghezze d’onda radio. Questi oggetti si trovano a miliardi di anni luce di distanza e ciascuna contiene un buco nero supermassiccio. Al centro dell’immagine si trova una delle poche galassie conosciute che espelle getti di materia visibili sia nella luce ottica che in quella radio. Crediti: Skao

Un’area del cielo equivalente a circa cento lune piene in cui si vedono oltre 85 delle galassie più brillanti conosciute in quella regione, tutte con buchi neri supermassicci al centro. Questa è la descrizione della prima immagine realizzata con i dati del radiotelescopio Ska-Low dell’Osservatorio Ska (Skao) funzionante come interferometro in Australia e pubblicata oggi.

I dati sono stati ottenuti da una versione preliminare del telescopio Ska a basse frequenze (50 MHz – 350 MHz), utilizzando 1.024 delle 131.072 antenne previste, e rappresenta una prima indicazione delle rivelazioni scientifiche che saranno possibili con quello che sarà presto il più potente radiotelescopio al mondo. Ska-Low è, infatti, solo uno dei due telescopi in costruzione dall’Osservatorio Ska, un’iniziativa internazionale co-ospitata in Australia e Sudafrica. Numerosi sono i contributi da parte di nazioni di tutto il mondo, inclusa l’Italia, che con l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) gioca un ruolo fondamentale, sia scientifico che tecnologico, in questo ambizioso progetto.

L’immagine mostra un’area del cielo di circa 25 gradi quadrati; i puntini non sono stelle, bensì alcune delle galassie più luminose dell’universo, osservate nelle lunghezze d’onda radio. Una volta completata l’installazione di tutte le antenne, lo stesso campo del cielo rivelerà molto di più rispetto a quello che possiamo vedere oggi: gli scienziati calcolano che il telescopio sarà abbastanza sensibile da mostrare più di 600mila galassie nello stesso fotogramma.

L’immagine è stata prodotta utilizzando i dati raccolti dalle prime quattro stazioni connesse di Ska-Low, costituite da antenne a bassa frequenza alte due metri dalla innovativa forma ad “albero di Natale”. Queste stazioni sono state installate nel corso dell’anno scorso a Inyarrimanha Ilgari Bundara, presso l’Osservatorio di radioastronomia di Murchison gestito da Csiro nel territorio Wajarri Yamaji, e rappresentano meno dell’uno per cento dell’intero telescopio. Una precedente immagine a tutto cielo (all-sky) ma proveniente da una sola stazione di antenne era stata pubblicata ad agosto 2024.


Alcune delle antenne della stazione S8 nel braccio a spirale sud del radiotelescopio Ska-Low, in costruzione sul sito australiano dell’Osservatorio Ska. Crediti: Skao/Max Alexander

«Con questa immagine», dice Philip Diamond, direttore generale di Skao, «vediamo l’Osservatorio Ska aprire gli occhi sull’universo, un passo fondamentale per Skao e per la comunità astronomica». I dati dimostrano «che il sistema nel suo insieme sta funzionando. Man mano che i telescopi crescono e altre stazioni e antenne entreranno in funzione, vedremo le immagini migliorare enormemente e cominceremo a realizzare la piena potenza dello Skao».

«La qualità di questa immagine è andata addirittura oltre le nostre aspettative utilizzando una versione così precoce del telescopio», aggiunge George Heald, Ska-Low lead commissioning scientist. «Con il telescopio completo avremo la sensibilità per rivelare le galassie più deboli e distanti, risalendo all’universo primordiale, quando le prime stelle e galassie hanno iniziato a formarsi».

Sono sei i Paesi dietro la progettazione del telescopio Ska-Low: Australia, Cina, Italia, Malta, Paesi Bassi e Regno Unito. L’Istituto nazionale di astrofisica ha ottimizzato l’ultimo design di antenna Skala4.1Al in collaborazione con l’Istituto di elettronica e di ingegneria dell’informazione e delle telecomunicazioni (Ieiit) del Cnr e il partner industriale Sirio Antenne, partendo da progetti precedenti sviluppati all’interno del consorzio internazionale. È proprio l’azienda italiana in provincia di Mantova a essersi aggiudicata poi l’appalto per la produzione delle prime 78.520 antenne a dipolo per il telescopio australiano.


Collage di simulazioni delle osservazioni di Ska-Low nei prossimi decenni. Le immagini raffigurano la stessa area di cielo raffigurata nella foto pubblicata a marzo 2025. In alto a sinistra: entro il 2026/2027 con oltre 17 mila antenne. In alto a destra: entro il 2028/2029 con oltre 78mila antenne. In basso: l’immagine simulata ottenuta con oltre 130mila antenne distribuite su 74 km (8 ore e deep-field). Crediti: Skao

Sempre dall’Italia e sulla base dei progetti preliminari sviluppati dall’Inaf, il gruppo Elemaster ha avviato la fase di industrializzazione e assemblaggio del sottosistema di elaborazione del segnale (Sps). Il principale compito di elaborazione del telescopio sarà quello di gestire i flussi di dati in arrivo, generati simultaneamente dalle decine di migliaia di antenne su 65mila bande di radiofrequenze. Nei suoi stabilimenti in provincia di Lecco, Elemaster sta realizzando dispositivi hardware e software per digitalizzare, combinare e interpretare la radiazione nelle lunghezze d’onda radio, prima che i dati vengano trasmessi per centinaia di chilometri a un supercomputer di ultima generazione per ulteriori elaborazioni.

«Questo risultato ci inorgoglisce e rappresenta un importante punto di svolta in questo progetto internazionale», commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Inaf. «Da un lato dimostra come le tecnologie sviluppate negli istituti di ricerca italiani, e l’Inaf in particolare, in sinergia con la filiera industriale nazionale, siano state azzeccate. L’innovativo tipo di antenna, il sistema di amplificazione, di trasmissione del segnale in fibra ottica e le modalità di ricostruzione dell’immagine provano la solidità delle competenze maturate negli anni e la validità di un modello in cui lo sviluppo di nuove tecnologie sia un fattore chiave negli ambiti della ricerca di frontiera. Dall’altro lato, questo è solo un primissimo risultato che vede utilizzato meno dell’uno per cento delle potenzialità offerte da questo radiotelescopio. Un motivo in più, entusiasti di questo successo, per proseguire a grandi passi verso il completamento dell’intero sistema, certi che offrirà sorprese oggi assolutamente non prevedibili».

In Australia, Ska-Low è costruito in collaborazione con l’agenzia scientifica nazionale Csiro. Le antenne di Ska-Low verranno distribuite tra 512 stazioni (256 antenne per stazione), attraverso una regione di 74 chilometri e un’area di raccolta di 419mila m², il che significa che anche il segnale più debole potrà essere rilevato, combinato e potenziato 135 volte più velocemente dei radiotelescopi esistenti con una risoluzione e sensibilità maggiori. Entro i prossimi due anni, il telescopio crescerà significativamente per diventare il più grande radiotelescopio a bassa frequenza del mondo, a metà della sua costruzione.

I telescopi Ska – quello a basse frequenze in una regione remota dell’Australia occidentale e il suo omologo Ska-Mid (per le frequenze medie) nella provincia del Capo Settentrionale in Sudafrica – sono schiere di antenne che osservano il cielo utilizzando una tecnica conosciuta come interferometria: saranno cioè in grado di combinare i dati catturati dalle singole antenne distribuite su ampie distanze, lavorando insieme come un unico grande telescopio.

«Arrivare a questo punto», conclude la direttrice del telescopio Ska-Low, Sarah Pearce, «ha richiesto ingegneri, astronomi e informatici provenienti da tutto il mondo, che hanno lavorato per decenni. È straordinario vedere tutto questo lavoro concretizzarsi e darci il primo scorcio delle immagini che arriveranno da Ska-Low, promettendoci una vista dell’universo che non avevamo mai immaginato prima».



Jades-Gs-z14-0: sorprendente quantità di ossigeno



La galassia Jades-Gs-z14-0 è al centro di nuove singolari scoperte. Osservata per la prima volta dal James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa, è stata ora dettagliatamente analizzata da un team di ricercatori della University of Arizona. Il lavoro rientra nel programma Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey, concepito per analizzare le galassie distanti.

Il corpo celeste esisteva quando l’universo aveva meno di 300 milioni di anni e, come illustrato da precedenti studi riportati nel 2024, è la galassia più distante mai osservata (redshift pari a 14.3), caratterizzata da un’inattesa luminosità e da una particolare complessità chimica. Aspetti simili non erano stati previsti dagli scienziati per una galassia risalente ai primordi dell’universo.

Una ricerca pubblicata il 7 marzo scorso su Nature Astronomy si è soffermata sulla composizione chimica e lo stato evolutivo di Jades-Gs-z14-0. Una grande sorpresa è rappresentata dalla rilevante quantità di ossigeno individuata. Ai suoi albori, l’universo era costituito principalmente da idrogeno, elio e poche tracce di litio. Gli elementi più pesanti dell’elio – detti “metalli”, in ambito astronomico – sono stati prodotti dal contributo di svariate generazioni di stelle. Eppure Jades-Gs-z14-0 contiene quantità significative di ossigeno, segno che la formazione stellare era attiva già da milioni di anni al momento dell’osservazione. Dunque, l’origine della galassia risale a un periodo molto vicino al Big Bang, se confrontato con l’età dell’universo. Gli scienziati non hanno nascosto il loro stupore di fronte a tale scoperta, che ha contribuito a spostare indietro la linea temporale della formazione delle galassie primordiali.

«C’è bisogno di un ciclo molto complicato per ottenere tutto l’ossigeno che ha Jades-Gs-z14-0. È davvero impressionante», sottolinea George H. Rieke, fra i coautori dello studio.


Immagine nell’infrarosso della galassia Jades-Gs-z14-0 scattata dalla Near-Infrared Camera a bordo del Jwst. Crediti: Nasa, Esa, Csa, STScl

I dati raccolti sulla grande presenza di ossigeno nella galassia e, in generale, sulla sua struttura chimica sono stati ottenuti tramite gli avanzati strumenti a bordo del Jwst, tra cui soprattutto il Mid-Infrared Instrument (Miri) e la Near Infrared Camera. Sono stati necessari ben nove giorni di impiego del telescopio spaziale, focalizzato sull’osservazione di una regione di sfera celeste estremamente piccola: pari allo spazio di cielo occupato da un granello di sabbia posto all’estremità del nostro braccio completamente steso, è l’analogia proposta dai ricercatori. La galassia si è trovata in una posizione perfetta per essere osservata con Miri e ciò ha consentito di ottenere informazioni precise nel medio infrarosso.

Le analisi di Jades-Gs-z14-0 potrebbero rivelarsi utili per testare la validità dei modelli teorici riguardanti la formazione delle galassie e per una più dettagliata comprensione dell’evoluzione dell’universo. In particolare, sarebbe importante riuscire a stabilire con esattezza i passaggi che hanno portato da elementi semplici alle elaborate composizioni chimiche dei moderni oggetti celesti.

«Stiamo vivendo un momento incredibile nella storia dell’astronomia», conclude un altro coautore dello studio, Kevin N. Hainline, della University of Arizona. «Siamo in grado di comprendere galassie che vanno ben oltre qualsiasi cosa gli esseri umani abbiano mai scoperto e di vederle in molti modi diversi. Tutto ci ha qualcosa di magico».

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Prime immagini dirette di un esopianeta con CO2



Il telescopio spaziale James Webb (Jwst) ha ottenuto le prime immagini dirette dell’anidride carbonica nell’atmosfera di un pianeta al di fuori del Sistema solare. Il protagonista di questa scoperta è HR 8799, un sistema multiplanetario a 130 anni luce di distanza, da tempo al centro degli studi sulla formazione planetaria. Le osservazioni forniscono prove convincenti che i quattro pianeti giganti del sistema si siano formati in modo simile a Giove e Saturno, attraverso la lenta crescita dei loro nuclei solidi. Inoltre, confermano che Webb non si limita a dedurre la composizione atmosferica analizzando la luce stellare, ma è anche in grado di studiare direttamente la chimica delle atmosfere degli esopianeti.

«Individuando queste forti caratteristiche dell’anidride carbonica, abbiamo dimostrato che nelle atmosfere di questi pianeti è presente una frazione considerevole di elementi più pesanti, come il carbonio, l’ossigeno e il ferro. Considerando ciò che sappiamo sulla stella attorno alla quale orbitano, questo indica che probabilmente si sono formati per accrezione del nucleo, il che per i pianeti che possiamo vedere direttamente è una conclusione entusiasmante», dice William Balmer, astrofisico della Johns Hopkins University alla guida del lavoro.

L’analisi delle osservazioni, che comprendevano anche quelle di 51 Eridani, un sistema a 96 anni luce di distanza, è stata pubblicata oggi su The Astronomical Journal.


Lo sguardo nell’infrarosso del James Webb Space Telescope del sistema multi-pianetario HR 8799. Il simbolo della stella indica la posizione della stella ospite HR 8799, la cui luce è stata bloccata dal coronografo. Il colore blu è assegnato alla luce di 4,1 micron, il verde alla luce di 4,3 micron e il rosso alla luce di 4,6 micron. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, W. Balmer (Jhu), L. Pueyo (Stsci), M. Perrin (Stsci)

HR 8799 è un sistema giovane, con un’età di circa 30 milioni di anni – una piccola frazione rispetto ai 4,6 miliardi di anni del Sistema solare. I suoi pianeti, ancora caldi a causa della loro violenta formazione, emettono grandi quantità di luce infrarossa.

Pochissimi esopianeti sono stati fotografati direttamente, perché sono molte migliaia di volte più deboli delle loro stelle. Catturando immagini dirette a lunghezze d’onda infrarosse specifiche accessibili solo con Webb, il team sta aprendo la strada a osservazioni più dettagliate per determinare se gli oggetti che vedono orbitare intorno ad altre stelle sono davvero pianeti giganti oppure oggetti come le nane brune, che si formano come le stelle ma non accumulano abbastanza massa per innescare la fusione nucleare.

«La nostra speranza con questo tipo di ricerca è di capire il nostro sistema solare, la vita e noi stessi rispetto ad altri sistemi esoplanetari, in modo da poter contestualizzare la nostra esistenza», spiega Balmer. «Vogliamo fotografare altri sistemi solari e vedere in che modo sono simili o diversi rispetto al nostro. Da lì, possiamo cercare di farci un’idea di quanto sia strano il nostro sistema solare, o di quanto sia normale».

I pianeti giganti possono formarsi in due modi: costruendo lentamente nuclei solidi che attraggono gas, come accaduto nel Sistema solare, o collassando rapidamente dal disco di raffreddamento di una giovane stella in oggetti massicci. Sapere quale modello sia il più comune può dare agli scienziati indizi per distinguere i tipi di pianeti che si trovano in altri sistemi.

«Abbiamo altre evidenze che suggeriscono che questi quattro pianeti di HR 8799 si siano formati utilizzando questo approccio dal basso verso l’alto», riferisce Laurent Pueyo, astronomo dello Space Telescope Science Institute. «Quanto è comune questo fenomeno per i pianeti a lungo periodo di cui possiamo avere un’immagine diretta? Non lo sappiamo ancora, ma stiamo proponendo altre osservazioni di Webb, ispirate alla diagnostica dell’anidride carbonica, per rispondere a questa domanda».

Il risultato dello studio è stato reso possibile dai coronografi di Webb, che bloccano la luce stellare come in un’eclissi solare, permettendo di rivelare mondi altrimenti nascosti. Grazie a questa tecnologia, il team ha potuto analizzare la luce infrarossa a lunghezze d’onda specifiche per identificare gas e dettagli atmosferici. In particolare, concentrandosi sull’intervallo tra i 3 e i 5 micrometri, gli scienziati hanno scoperto che i quattro pianeti di HR 8799 contengono una quantità di elementi pesanti superiore alle stime precedenti, un ulteriore indizio della loro formazione simile a quella dei giganti gassosi del Sistema solare.

Le osservazioni hanno inoltre portato alla prima rilevazione diretta del pianeta più interno del sistema, HR 8799 e, a una lunghezza d’onda di 4,6 micrometri, oltre a quella di 51 Eridani b a 4,1 micrometri, dimostrando l’eccezionale sensibilità di Webb nel rilevare pianeti deboli vicino a stelle luminose.


Webb ha catturato questa immagine di Eridani 51 b, un giovane esopianeta che orbita a 11 miliardi di chilometri dalla sua stella. Questa immagine è stata fatta con filtri che rappresentano la luce di 4,1 micron come rossa. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, W. Balmer (Jhu), L. Pueyo (Stsci), M. Perrin (Stsci)

Nel 2022, una delle tecniche di osservazione chiave di Webb ha rilevato indirettamente la presenza di anidride carbonica in un altro esopianeta, Wasp-39 b, analizzando come la sua atmosfera modificava la luce stellare durante il transito davanti alla sua stella. «Questo è il metodo utilizzato dagli scienziati per studiare i pianeti in transito o le nane brune isolate fin dal lancio del Jwst», spiega Pueyo.

«Sapevamo che Jwst era in grado di misurare i colori dei pianeti esterni nei sistemi osservati direttamente. Abbiamo atteso per dieci anni la conferma che le nostre operazioni di ottimizzazione del telescopio ci avrebbero permesso di studiare anche i pianeti interni. Ora i risultati sono arrivati e possiamo finalmente fare scienza in modo ancora più approfondito», aggiunge Rémi Soummer, direttore del Laboratorio di ottica dello Space Telescope Science Institute ed ex responsabile delle operazioni del coronografo di Webb.

Il team spera di utilizzare i coronografi di Webb per analizzare altri pianeti giganti e confrontare la loro composizione con i modelli teorici. «Questi pianeti giganti hanno implicazioni piuttosto importanti», conclude Balmer. «Se si comportano come palle da bowling che attraversano il sistema solare, possono disturbare, proteggere o fare entrambe le cose a pianeti come il nostro; quindi capire di più sulla loro formazione è un passo fondamentale per comprendere in futuro la formazione, la sopravvivenza e l’abitabilità di pianeti simili alla Terra».

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Lanciata la costellazione di cubesat Hermes



La costellazione dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) Hermes Pathfinder (High Energy Rapid Modular Ensemble of Satellites), è stata lanciata in orbita con successo a bordo dalla missione Transporter 13 di SpaceX, il cui lancio è avvenuto questa mattina alle 7:43 ora italiana dalla Vandenberg Space Force Base in California, Usa. I sei cubesat della costellazione sono stati integrati su una piattaforma di rilascio Ion realizzata dalla società D-Orbit, posizionata su un vettore Falcon 9. Collocati su un’orbita eliosincrona a un’altitudine di circa 500-520 km, con un’inclinazione di 97,44 gradi, i sei nanosatelliti verranno dispiegati dopo circa una settimana dal lancio con il rilascio di uno al giorno.

Liftoff! pic.twitter.com/RJQBGWcwvA

— SpaceX (@SpaceX) March 15, 2025

Finanziati principalmente dall’Asi e con il contributo tecnico/scientifico dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), del Politecnico di Milano e dell’Università di Cagliari, i sei cubesat hanno l’obiettivo di rappresentare una svolta nel campo dell’astrofisica multi-messaggero ad alta energia e dell’impiego di nanosatelliti per missioni spaziali sfidanti. La costellazione, formata da sei cubesat 3U, opererà in triplette e sarà in grado di rilevare e localizzare eventi astronomici casuali come i lampi di raggi gamma, inviando in tempi brevissimi un avviso alla comunità scientifica.

«Il lancio di oggi segna ancora un successo della comunità spaziale italiana», sottolinea il presidente dell’Agenzia spaziale italiana Teodoro Valente. «Dall’inizio dell’anno abbiamo registrato molti risultati nel settore a livello internazionale. Sono particolarmente orgoglioso del ruolo guida dell’Asi in questa missione sfidante per l’attenzione e il forte supporto agli sviluppi ed agli esperimenti scientifici. Grazie alla competenza della nostra accademia, ricerca e industria, oggi Hermes compie il suo passo fondamentale verso il dispiegamento di piccoli, ma preziosi satelliti Cubesat. Lo scopo è quello di testare il concetto di “sensore distribuito” nello spazio per validare in orbita il principio di una misura tramite una piattaforma modulare, di piccola taglia e incrementabile, quale strumento versatile, rapido ed economico».

«Questa piccola costellazione inaugura un nuovo modo di fare scienza con dei piccoli satelliti che “sintetizzano” un telescopio grande quanto l’orbita in cui volano, con un diametro di quasi quattordicimila chilometri», spiega il presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica Roberto Ragazzoni. «Gli astronomi hanno già utilizzato questo tipo di tecniche, ma è la prima volta che succede con satelliti di piccola taglia per sorgenti X e gamma anche provenienti da oggetti celesti al di fuori della nostra galassia. Contiamo sia un modello su cui implementare nuovi modi di osservare il cosmo dallo spazio».


I sei nanosatelliti Hermes in configurazione compatta (pannelli solari chiusi), al termine della loro integrazione presso la camera pulita di Astra Lab – Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali del Politecnico di Milano

«Il Politecnico di Milano ha avuto un ruolo determinante in diverse fasi del progetto, dalla progettazione e integrazione dei satelliti ai test ambientali finali, utilizzando le proprie strutture e collaborando con partner d’eccellenza. Decisivo è il ruolo del laboratorio Advanced Space Technologies for Robotics & Astrodynamics (Astra) del Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali (Daer), leader nella ricerca aerospaziale», commenta la rettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto. «Questo progetto evidenzia nuovamente la capacità dell’Ateneo di essere all’avanguardia nella ricerca e nell’innovazione tecnologica, oltre alla sua abilità di creare sinergie efficaci di fronte a sfide significative alle quali questa missione contribuirà con sicuri risultati».

I sei satelliti Hermes Pathfinder sono stati progettati, realizzati e integrati presso le strutture del Daer del Politecnico di Milano, mentre i sei payload a raggi X/gamma sono stati sviluppati, integrati, testati e calibrati presso le strutture Inaf a Roma e della Fondazione Bruno Kessler a Trento. Il software di bordo dei payload è stato realizzato a cura dell’Università di Tubingen. I test ambientali finali sui satelliti sono stati svolti dal Politecnico di Milano, sfruttando le strutture del Politecnico stesso per la qualifica e l’accettazione meccanica, e gli impianti presso Thales Alenia Space a Gorgonzola (MI) e presso Inaf Roma per la qualifica in termo-vuoto.

La missione vanta anche importanti contributi e collaborazioni internazionali, in quanto tre delle sei unità di volo sono state sviluppate e realizzate nell’ambito del progetto Hermes-Sp del programma Horizon 2020 finanziato dalla Commissione Europea. Inoltre, la stazione di terra a Katherine, in Australia, è gestita dall’Università della Tasmania nell’ambito di un accordo con l’Inaf, l’Università di Melbourne e l’Università di Masaryk.

La costellazione realizzata sotto la guida dell’Asi è in grado di monitorare in modo continuo quasi tutto il cielo e di trasferire in pochi minuti alla comunità scientifica le coordinate degli eventi cosmici avvenuti, grazie alle sue capacità di co-puntamento, attraverso un collegamento continuo con la costellazione Iridium, la rete di stazioni di terra dedicate, il Mission Operation Center (Moc) e il Scientific Operation Center (Soc).

Il Moc della missione, che gestirà la fase operativa, è stato realizzato dalla società Altec Spa di Torino su finanziamento nazionale dell’Asi, mentre il Soc è ospitato nel Space Science Data Center (Ssdc) dell’Agenzia a Roma. Due stazioni di terra dedicate supporteranno l’operazione, una acquisita e installata dal gruppo del Politecnico di Milano presso il laboratorio sperimentale dello stesso ateneo, sito a Spino D’Adda (Cremona) in Italia e una seconda a Katherine.



Patrizia Caraveo alla guida della Sait




La neo-presidente della Sait Patrizia Caraveo

Da questa settimana, e per i prossimi tre anni, alla guida della Società astronomica italiana (Sait) – istituzione nata nel 1871 come Società degli spettroscopisti Italiani e che oggi si occupa di astronomia e diffusione della cultura scientifica – c’è l’astrofisica Patrizia Caraveo. Scienziata di fama internazionale, Caraveo è stata dirigente di ricerca all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), ha collaborato a diverse missioni spaziali e ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero. È Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, fa parte del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, nel 2014 è entrata nella lista degli Highly Cited Researchers compilata da Reuters, nel 2021 ha ricevuto il premio “Enrico Fermi” della Società italiana di fisica ed è tra le 100 donne contro gli stereotipi. È anche autrice di numerosi libri.

Presidente, quale sarà la Sait del prossimo futuro?

«Auspico una Sait che, forte della sua lunga tradizione, guardi al futuro. Mi adopererò per permettere alla Società di declinare le sue eccellenze continuando a guardare avanti per crescere ed aumentare la sua visibilità. Credo che vada migliorata la presenza online e nei canali social. Può piacere o non piacere, ma non se ne può fare a meno. A questo fine, insieme al Consiglio direttivo cercheremo di ripensare il piano di comunicazione attraverso una nuova pagina web completamente rinnovata. Mi piacerebbe anche aprire un canale di comunicazione tra i membri del Consiglio, i soci e le socie, almeno con coloro che gradiscono essere informati».

Quali saranno le principali iniziative che saranno introdotte o rafforzate?

«La Sait ha già un ventaglio di iniziative di grande successo che conto di portare avanti grazie alla continua collaborazione con Inaf. I Campionati di astronomia sono un ottimo esempio di una iniziativa che ha visto una considerevole crescita nel numero di partecipanti. Poi bisogna continuare a organizzare le scuole estive per la preparazioni dei partecipanti alle gare internazionali e quelle rivolte al corpo docente, sempre accolte con entusiasmo e così richieste da avere dovuto prevedere partecipazioni da remoto, i numerosi premi che registrano moltissimo interesse, sia da parte degli studenti di scuola secondaria superiore, ai quali è rivolto il premio “Giovani astronomi”, sia da parte di studenti di dottorato, per finire con i congressi annuali della società che vedono sempre una significativa partecipazione. Tra i punti di forza della società non bisogna dimenticare le pubblicazioni: il Giornale di Astronomia, con la recente aggiunta degli incontri online, insieme alle Memorie della Sait, nella veste cartacea e video. Tutte queste eccellenze richiedono notevole sforzo da parte dei soci che volontariamente dedicano tempo ed energia alle varie attività il cui successo dipende in gran parte dalla grande e fruttuosa collaborazione con Inaf. Introdurre altre iniziative è certamente possibile, ma dipende dalla forza lavoro disponibile quindi dall’entusiasmo dei soci e delle socie coinvolte».

Che rapporto immagina tra la Sait, l’Inaf e l’astronomia amatoriale?

«Il rapporto tra Inaf e Sait è sempre stato ottimo e cercherò di continuare su questo solco. Vorrei aumentare la visibilità della Società specialmente in ambito professionale. Sono colpita dalla modesta frazione del personale Inaf iscritto alla Società. È un peccato perché l’iscrizione alla Sait implica in modo automatico l’iscrizione alla European Astronomical Society (Eas) con evidenti vantaggi per chi voglia partecipare ai congressi organizzati dalla Eas. In parallelo, mi piacerebbe trovare modo di coinvolgere il mondo degli astrofili che, oltre a essere numerosi, sono una comunità vivace, attiva nella divulgazione e nella citizen science».




“Macchine del tempo” in mostra a Torino



Dal 15 marzo 2025 la mostra Macchine del Tempo. Il viaggio nell’Universo inizia da te atterra alle Ogr Torino, per offrire un viaggio interattivo alla scoperta di stelle, galassie, pianeti extrasolari, asteroidi e buchi neri. Dopo il successo della prima edizione presso il Palazzo Esposizioni Roma, un’esperienza immersiva trasformerà gli spazi del Binario 1 delle Ogr in un vero e proprio portale spazio-temporale.

Ideata dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), realizzata dalle Ogr Torino e progettata da Pleiadi, con il contributo di Infini.to Planetario di Torino-Museo dell’astronomia e dello spazio “Attilio Ferrari” e MU-CH Museo della chimica, la mostra sarà visitabile fino al 2 giugno 2025.


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

Macchine del Tempo propone un viaggio interattivo alla scoperta delle meraviglie del cosmo, dalle stelle alle galassie, dai pianeti extrasolari agli asteroidi, fino ai misteriosi buchi neri. Il percorso espositivo combina installazioni immersive, ambientazioni interattive e videogiochi ispirati agli anni Ottanta, offrendo al pubblico un’esperienza innovativa tra passato, presente e futuro della ricerca astrofisica. L’esposizione si distingue per l’integrazione di macchine del tempo futuristiche progettate dall’Inaf, che consentono di esplorare la storia dell’universo attraverso le più recenti scoperte scientifiche.

La mostra non si rivolge solo agli appassionati di scienza, ma coinvolge chiunque desideri lasciarsi affascinare dalla storia e dai misteri dell’universo. Inserita nella programmazione culturale delle Ogr Torino, l’esposizione conferma l’impegno dell’istituzione nella promozione della ricerca e della divulgazione scientifica, consolidando il suo ruolo di polo d’eccellenza per l’innovazione e la cultura contemporanea.


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

«La mostra Macchine del tempo rappresenta la visione con cui la Fondazione Crt ha immaginato le Ogr: un hub di idee, possibilità ed eventi per la città, un luogo di incontro e contaminazione tra mondi diversi», dice il segretario generale della Fondazione Crt Patrizia Polliotto. «Questa iniziativa mette a sistema e crea sinergie tra tanti soggetti dell’ecosistema scientifico torinese, una vera e propria “galassia” di collaborazioni. Fondazione Crt è al fianco di molti di questi enti, sostenendo e promuovendo la divulgazione scientifica come leva di crescita e innovazione».

«Con questa mostra offriamo al pubblico un’esperienza che unisce arte, scienza e tecnologia in un viaggio affascinante attraverso l’universo», dice Davide Canavesio, presidente delle Ogr Torino. «Le Ogr si confermano un laboratorio di sperimentazione e innovazione, un luogo in cui il sapere si traduce in esperienze immersive e coinvolgenti. Ospitare Macchine del Tempo significa non solo dare spazio alla divulgazione scientifica, ma anche contribuire a rendere la conoscenza accessibile e stimolante per un pubblico sempre più ampio e diversificato. Questo è dimostrato dall’adesione di oltre cento scuole, un vero e proprio segnale di risposta alla necessità urgente di insegnare attraverso esperienze immersive e di qualità. Il nostro obiettivo con questa mostra è ispirare curiosità e meraviglia, offrendo nuove prospettive sul cosmo e sul nostro ruolo al suo interno».


Crediti: Luigi De Palma/Ogr Torino

«Con Macchine del Tempo, l’Istituto nazionale di astrofisica mostra al pubblico gli strumenti che scrutando il cielo esplorano l’universo in epoche lontane dalla nostra, dagli 8 minuti che la luce del Sole impiega a raggiungerci, ai miliardi di anni percorsi dai messaggeri che provengono dalle galassie più lontane», spiega Roberto Ragazzoni, presidente dell’Inaf. «Il nostro istituto è leader nell’esplorazione dell’universo e nella progettazione delle macchine che ci permettono di svelarne i segreti, ma anche nella sperimentazione di nuovi linguaggi per appassionare il pubblico e guidarlo in questo straordinario viaggio di scoperta. Dalle meraviglie del Sole e delle stelle, agli “innumerabili mondi” vicini e lontani, passando per la nostra galassia e quelle più remote, dalle stelle compatte ai buchi neri, dalle onde gravitazionali alla ricerca della vita nell’universo. Tutto questo e molto altro potrete scoprire visitando Macchine del Tempo, un viaggio che speriamo accenda la curiosità di tutte e tutti e magari ispiri le menti più giovani a intraprendere la strada della ricerca scientifica, perché un giorno siano loro a scrivere i prossimi capitoli delle scoperte nel cosmo».


Informazioni visitare la mostra:

  • Sito web della mostra: macchinedeltempo.inaf.it
  • Costo del biglietto: intero 10 euro, ridotto:8 euro
  • I biglietti sono disponibili online sul sito ogrtorino.it e su macchinedeltempo.inaf.it
  • Le visite guidate sono prenotabili gratuitamente con l’acquisto del biglietto dal 15 marzo ogni venerdì alle ore 18.00, ogni sabato alle ore 10.30, ogni domenica alle ore 18.30. Straordinariamente, le visite guidate si terranno anche il 18, 21 e 25 aprile, il 1 maggio e il 2 giugno, alle 18.30


Alle galassie piace ruotare in senso orario



Guardate questa immagine. Quali cerchietti vi sembrano più numerosi, quelli rossi o quelli blu?


L’area di cielo osservata dal programma Jades con indicate le 263 galassie a spirale studiate da Shamir. Quelle nei cerchietti blu stanno ruotando in senso orario rispetto alla Terra, al contrario di quelle nei cerchietti rossi. Crediti: L. Shamir, Mnras, 2025; Nasa, Esa, Csa, M. Zamani

Lungi da qualsiasi allusione calcistica, i colori rosso e blu indicano in questa immagine il verso in cui una galassia sta ruotando. Ogni cerchietto racchiude infatti niente meno che una galassia a spirale. Galassie che girano, girano, ma non nel modo in cui ci si aspetta. Sembrerebbe ci sia un verso preferenziale negli eterni giri che stelle e gas compiono all’interno delle galassie. Lo studio che lo racconta è uscito il mese scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e lo ha scritto Lior Shamir, professore associato della Kansas State University, nello stato omonimo. Shamir ha analizzato attentamente le immagini del programma Jades (James Webb Space Telescope Advanced Deep Extragalactic Survey), realizzato col telescopio Webb. Scoprendo che i moti delle galassie non sono distribuiti casualmente, come ci si sarebbe aspettato. Delle 263 galassie selezionate nelle immagini, ben due terzi sta ruotando in senso orario – quelle nei cerchietti blu, se ci avete visto bene -, e solo un terzo in quello antiorario.

I dettagli dello studio sono raccontati da Shamir: «L’analisi delle galassie è stata fatta tramite un’analisi quantitativa delle loro forme, ma la differenza è così ovvia che chiunque guardi l’immagine può vederla», afferma l’autore dello studio. «Non c’è bisogno di abilità o conoscenze speciali per vedere che i numeri sono diversi. Con la potenza del telescopio spaziale James Webb, chiunque può vederlo.» Il campione di oggetti studiato da Shamir è stato selezionato per consentire una stima accurata del verso di rotazione e conta, come si diceva, quasi trecento galassie a spirale. Fondamentali sono state le impressionanti immagini di NirCam, portentosa camera a bordo di Webb che osserva nell’infrarosso.

È proprio un rompicapo, questo qua. Per l’idea che ci siamo fatti dell’universo, non dovrebbe esserci una direzione privilegiata dei moti all’interno delle galassie. Le galassie che ruotano in senso orario ci si aspetta che come numero siano pari a quelle che ruotano in senso antiorario, rispetto alla Via Lattea. Seppur nutrendo alcune perplessità, Shamir prova ad avanzare qualche ipotesi su come questo sia possibile. «Non è ancora chiaro cosa causi questo, ma ci sono due possibili spiegazioni principali», afferma lo scienziato. «Una spiegazione è che l’universo sia nato ruotando. Questa spiegazione concorda con teorie come la cosmologia dei buchi neri, che postula che l’intero universo sia l’interno di un buco nero. Ma se l’universo è effettivamente nato in rotazione, significa che le teorie esistenti sul cosmo sono incomplete.»


Zoom su un gruppo di galassie a spirale studiate da Shamir. Crediti: L. Shamir, Mnras, 2025; Jades collaboration

Centrifugato da un buco nero. Così insomma, sarebbe nato l’universo. Un’altra spiegazione ha a che fare col verso in cui la Terra, assieme al sistema solare, sta ruotando attorno al centro della Via Lattea. Ricordiamoci infatti che, anche se ci sembra di star fermi, siamo attualmente in viaggio alla non trascurabile velocità di 220 chilometri al secondo attorno al nucleo della nostra galassia. A causa dell’effetto Doppler relativistico, ci si aspetta che la luce proveniente dalle galassie che ruotano nel verso opposto rispetto alla Terra – e che a noi appaiono ruotare in senso orario – sia più brillante. Questo fenomeno, finora ritenuto trascurabile, potrebbe spiegare perché le galassie che ruotano in senso orario sono più comuni. Ne vediamo di più perché sono più brillanti e quindi si vedono meglio nelle immagini. A differenza di quelle animate dal moto in senso antiorario, che non possono godere di questo contributo extra di brillantezza.

«Se è davvero così, dovremo ricalibrare le nostre misure della distanza per l’universo profondo», conclude Shamir. «La ricalibrazione delle misure della distanza può anche spiegare diverse altre questioni irrisolte in cosmologia, come le differenze nel tasso di espansione dell’universo – la cosiddetta tensione di Hubble – e le grandi galassie che, secondo le misurazioni della distanza esistenti, ci si aspetta che siano più vecchie dell’universo stesso».

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Hera completa il flyby di Marte



Ieri, mercoledì 12 marzo, la missione Hera dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha effettuato un flyby di Marte, parte integrante della sua fase di crociera nello spazio profondo. Oggi le immagini inedite sono state presentate in anteprima dal team scientifico di Hera al centro di controllo Esoc dell’Esa a Darmstadt, in Germania. Al team si è unito anche Brian May, celeberrimo chitarrista dei Queen ma anche astrofisico esperto di asteroidi e membro onorario di Hera, la prima missione in assoluto di difesa planetaria.


Il team scientifico di Hera e le prima immagini del flyby. In basso a sinistra, Brian May. Crediti: Esa

Il flyby di Marte è una manovra orbitale che ha permesso di utilizzare la gravità del Pianeta rosso per accelerare la sonda spaziale e migliorare la sua traiettoria verso il sistema di asteroidi binari Didymos e Dimorphos, accorciando il viaggio di alcuni mesi e permettendo di risparmiare molto carburante. Il flyby ha consentito inoltre il primo utilizzo e la calibrazione scientifica di alcuni strumenti di Hera per osservare Deimos, la più piccola e misteriosa delle due lune di Marte.

«Hera si è avvicinata fino a 5000 km dalla superficie del Pianeta Rosso e a soli 300 km da Deimos», dice Monica Lazzarin dell’Università di Padova, membro dello Science management board. «Le immagini che stiamo vedendo ci mostrano in anteprima assoluta il lato oscuro di Deimos, una delle due lune di Marte, la più piccola e lontana, in orbita intorno al pianeta alla distanza di 23 mila chilometri. Deimos, che ha un diametro di 12,4 chilometri, ruota in modo sincrono intorno a Marte e come la Luna non mostra mai il suo lato nascosto. Oggi invece abbiamo potuto osservarlo dalla distanza di circa mille chilometri».

«Deimos è particolarmente interessante perché da tempo la comunità scientifica discute se si sia formato da Marte o se sia un asteroide catturato dalla sua orbita», continua Lazzarin. «Tre strumenti in particolare – dei dodici complessivi a bordo di Hera – ci hanno permesso di osservare Deimos in modo del tutto inedito. Nelle immagini che Hera ci ha inviato era ben visibile anche Marte sullo sfondo, alla distanza di circa 9000 km. Le immagini della camera Hyperscout ci mostrano Marte – il Pianeta rosso – in modo inedito, stranamente di colore blu per via della lunghezza d’onda infrarossa a cui è stato osservato».


Marte e Deimos visti dalla Asteroid Framing Camera di Hera. Crediti: Esa

I tre strumenti di Hera attivati e calibrati durante il flyby sono: la Asteroid Framing Camera, dedicata alle osservazioni monocromatiche nel visibile, utilizzata sia per la navigazione che per le indagini scientifiche; l’imager iperspettrale Hyperscout-H, che osserva in una gamma di colori oltre i limiti dell’occhio umano, in venticinque bande spettrali del visibile e del vicino infrarosso, e che aiuterà caratterizzare la composizione dei minerali; e Tiri (Thermal Infrared Imager di Hera), fornito dall’agenzia aerospaziale giapponese Jaxa, sensibile al medio infrarosso per rilevare la temperatura della superficie, ottenendo proprietà fisiche come la rugosità, la distribuzione delle dimensioni delle particelle e la porosità.

«Abbiamo iniziato a prepararci per il œ già un mese dopo il lancio – avvenuto il 7 ottobre da Cape Canaveral – con una serie di manovre per variare la sua velocità. La prima di 50 m/s, e poi altre minori di 17 e 9 cm/s per apportare ulteriori correzioni alla traiettoria. Questi cambi di velocità sono serviti per poterci avvicinare a Marte nel modo giusto e riuscire a sfruttare il suo campo gravitazionale per aumentare la velocità della sonda», spiega Ian Carnelli, responsabile del Dipartimento dei sistemi spaziali di Esa e project manager della missione Hera. «Possiamo dirci molto soddisfatti perché per la prima volta siamo riusciti a ottenere la traiettoria che avevamo previsto con una precisione di pochi metri di errore e con un errore sulla velocità di pochi millimetri al secondo».


Infografica del flyby e dell’incontro con Deimos. Crediti: Esa-F. Zonno

La destinazione finale di Hera è il sistema asteroidale composto da Didymos (di 780 m di diametro) e Dimorphos (di soli 151 m), corpi molto più piccoli del satellite Deimos. Una serie di accensioni di propulsori “a rendez-vous impulsivo” a partire dall’ottobre 2026 metterà a punto la rotta di Hera per raggiungere il sistema di Didymos nel dicembre successivo.

«Questa è stata la prima, emozionante, esperienza di esplorazione del team Hera, ma non l’ultima. Tra 21 mesi la sonda raggiungerà i nostri asteroidi bersaglio e inizierà l’indagine sul luogo dell’incidente dell’unico oggetto del nostro Sistema solare la cui orbita sia stata alterata in modo misurabile dall’azione umana», ricorda Carnelli. «Siamo pronti per lavorare alla fase finale della missione, ovvero volare il più vicino possibile agli asteroidi mantenendo la sonda in sicurezza».

Se la giornata non fosse sembrata abbastanza ricca di emozioni, aggiungiamo una novità. È stata lanciata oggi e mostrata in anteprima – poco dopo le immagini del flyby – anche la versione vocale di Hera Space Companion, uno strumento di intelligenza artificiale che permette a chiunque di accedere alla telemetria e ai dati reali della missione, per interagire in modo diretto e in near real time con Hera.

Intanto Hera si avvicina sempre più al suo obiettivo, ovvero studiare in modo ravvicinato gli effetti dell’impatto della sonda Dart della Nasa ,che ha colpito Dimorphos nel settembre 2022. Hera contribuirà a rendere la tecnica dell’impattatore cinetico per la deviazione degli asteroidi pienamente compresa e potenzialmente ripetibile. Il sistema dei due asteroidi verrà raggiunto nel dicembre 2026, quando saremo già nel pieno dei preparativi della missione Ramses, che incontrerà a sua volta l’asteroide Apophis nel 2029.

Guarda l’animazione sul canale YouTube dell’Esa:

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Cambiamento climatico e sindrome di Kessler



La maggior parte della ricerca sui cambiamenti climatici causati dai gas serra immessi nell’atmosfera terrestre si è sempre concentrata sulla troposfera, perché le alterazioni che avvengono in questa regione hanno conseguenze immediate sulla biosfera terrestre. Tuttavia, con il rapido aumento dell’utilizzo di satelliti nell’orbita terrestre bassa (Low Earth Orbit, Leo) è aumentata notevolmente la dipendenza da questa regione che si estende dai 200 fino ai 2000 km al di sopra della superficie terrestre. La zona Leo, però, non è al di sopra dell’atmosfera, ma è in parte immersa nella termosfera, la quarta regione in cui viene idealmente divisa l’atmosfera terrestre, che si estende da 95 fino a 550 km. Ad esempio, visto che orbita a circa 400 km di quota, la Stazione spaziale internazionale si muove all’interno della termosfera e periodicamente i motori di assetto ne devono aumentare la quota per evitare che cada sulla Terra. Se proprio vogliamo essere pignoli, l’atmosfera terrestre non termina nemmeno con la termosfera: oltre si trova uno strato ancora più rarefatto, l’esosfera, che progressivamente svanisce nello spazio.


Le tracce lasciate da un satellite in Leo della costellazione dei Globalstar ripreso il 5 febbraio 2025 dal sistema Tandem della Stazione astronomica di Loiano dell’Inaf Oas Bologna, nell’ambito delle attività di sorveglianza spaziale e tracking satellitare. Nel centro dell’immagine la traccia diventa più luminosa per effetto della rotazione del satellite attorno al proprio asse. Crediti: A. Carbognani/Inaf

La termosfera si contrae e si espande con un periodo di circa 11 anni in risposta al normale ciclo di attività del Sole. Quando l’attività del Sole è bassa, la Terra riceve meno radiazioni Uv/X e l’atmosfera più esterna si raffredda e si contrae, prima di espandersi di nuovo durante il massimo solare successivo. Negli anni Novanta del secolo scorso i ricercatori che si occupavano del clima iniziarono a chiedersi come avrebbe reagito la termosfera in seguito all’aumento dei gas serra. I primi modelli matematici mostrarono che, mentre i gas serra tendono a intrappolare il calore nella troposfera favorendo un aumento globale della temperatura, gli stessi gas irraggiano calore a quote più elevate, raffreddando la termosfera che, di conseguenza, dovrebbe contrarsi riducendo la densità atmosferica alle alte quote. Nell’ultimo decennio, grazie alle misure sull’attrito atmosferico sperimentato dai satelliti, questo effetto di contrazione sistematica è stato effettivamente verificato. Questa contrazione della termosfera si sovrappone al ciclo naturale di espansione e contrazione dovuto al Sole.

Un gruppo di ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) si è chiesto come la risposta della termosfera ai gas serra possa influenzare il numero di satelliti in grado di operare in sicurezza nell’orbita bassa terrestre e il risultato che hanno trovato è molto interessante. Attualmente in Leo ci sono oltre diecimila satelliti operativi che forniscono servizi essenziali tra cui Internet, comunicazioni, navigazione, previsioni meteorologiche e servizi bancari. La popolazione dei satelliti in questa regione è aumentata vertiginosamente negli ultimi anni anche grazie al contributo della costellazione degli Starlink e gli operatori devono eseguire regolari manovre anticollisione per minimizzare la probabilità che i propri satelliti vengano colpiti da qualche frammento o collidano fra loro. Dal 1961 sono stati registrati più di 650 eventi di frammentazione in orbita. Solo 7 eventi sono stati associati a collisioni e la maggior parte degli eventi attuali sono state esplosioni di veicoli spaziali e stadi di razzi, tuttavia in futuro le collisioni diventeranno la fonte dominante di detriti spaziali. Qualsiasi esplosione o collisione può generare space debris che possono rimanere in orbita per decenni o secoli, aumentando la possibilità di collisioni con satelliti vecchi e nuovi.


Numero di oggetti noti in orbita terrestre in funzione del tempo. UI = Non identificato; RM = Oggetto correlato alla missione di un razzo; RD = Detriti razzo; RF = Detriti di frammentazione razzo; RB = Corpo del razzo; PM = Oggetto correlato alla missione del carico utile; PD = Detriti del carico utile; PF = Detriti di frammentazione del carico utile; PL = Carico utile. Crediti: Esa/Space Environment Report 2024

Come misura per limitare il numero di satelliti abbandonati in Leo, la Federal Communications Commission degli Stati Uniti ha recentemente approvato una norma che richiede di deorbitare il satellite “il prima possibile e non più di cinque anni dopo la fine della missione” e anche l’Esa raccomanda una tempistica simile. Tuttavia, fino a poco tempo fa, una deorbitazione di 25 anni dopo la fine della missione era lo standard. Queste indicate però sono solo linee guida, non un obbligo e per i satelliti non manovrabili – ossia privi di motore che ne possa ridurre la velocità per farli ricadere in modo controllato verso terra – la tempistica di deorbitazione dipende interamente dal decadimento dovuto all’attrito atmosferico e qui sorge il problema. Se la termosfera si contrae per effetto del raffreddamento innescato dall’eccesso di gas serra, allora i satelliti non più operativi e gli space debris restano in orbita più a lungo perché l’operazione di frenamento – con conseguente “pulizia” – che esercita l’atmosfera è ridotta. Come conseguenza gli space debris si accumulano e aumenta la probabilità di collisioni, che a loro volta generano altri space debris e così via fino alle estreme conseguenze: la temuta sindrome di Kessler, in cui c’è un incremento esponenziale della probabilità di collisione e l’orbita bassa diventa talmente ostile che nessun satellite può sperare di sopravvivere. Alcune regioni ad alta quota hanno già una densità di oggetti sufficientemente elevata da poter manifestare un’instabilità incontrollata, in particolare tra i 900 e i 1400 km.

I ricercatori del Mit hanno simulato diversi scenari di emissioni di gas serra per indagare le conseguenze sulla densità atmosferica e l’attrito che subiscono i satelliti mentre orbitano attorno alla Terra. L’orbita bassa è stata suddivisa in diversi “gusci” e all’interno di ciascuno di questi sono state modellate le dinamiche orbitali e la probabilità di collisioni in base al numero di oggetti all’interno del guscio. Nello scenario che vede continui aumenti delle emissioni di gas serra, il team stima che entro la fine di questo secolo il numero di satelliti che potranno essere ospitati in sicurezza fra 200 e 1000 chilometri di quota potrebbe essere ridotto del 50-66 per cento rispetto a uno scenario in cui le emissioni di gas serra rimangono ai livelli dell’anno 2000. Se il numero massimo di satelliti venisse superato, anche solo in una regione locale, allora si sperimenterebbe una “instabilità incontrollata”, ovvero una cascata di collisioni che creerebbe così tanti space debris che i satelliti non potrebbero più operare in sicurezza – in pratica, la sindrome di Kessler.

«Non c’é dubbio che le prospettive per l’utilizzo a lungo termine della regione dei Leo dipendono in larga misura dalla nostra capacità di mantenere l’alta atmosfera quanto più libera possibile dai detriti spaziali», commenta Alberto Buzzoni, astronomo all’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio dell’Inaf di Bologna ed esperto di tecnologie spaziali. «Difficilmente questa pulizia potrà delegarsi per intero a un nostro intervento attivo tramite missioni ad hoc di satelliti “spazzini”. La tecnologia è certamente matura e attuabile, ma a costi assolutamente proibitivi a fronte dei potenziali benefici sul lungo termine. Appare quindi realistico pensare che l’effetto auto-pulente dell’atmosfera rimarrà il vero meccanismo primario su cui contare per gestire in sicurezza il nostro accesso allo spazio nel futuro prossimo: un motivo in più per cercare di invertire (o per lo meno controllare) il trend attuale delle emissioni di gas serra».

Per saperne di più:

Guarda su MediaInaf Tv questo servizio del 2021:

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Lynds 483 come non si era mai vista



Oggi la Nasa l’ha scelta come immagine astronomica del giorno. È un nuovo scatto ad alta risoluzione catturato dal James Webb Space Telescope e mostra nuovi e straordinari dettagli della struttura di Lynds 483 (L483), una nebulosa oscura distante 650 anni luce, in direzione della costellazione del Serpente, nel cui centro due stelle si stanno attualmente formando. È l’immagine più dettagliata di L483 mai realizzata fino a oggi, ottenuta grazie alla sovrapposizione di diverse esposizioni della Near-Infrared Camera (NirCam), strumento che permette di osservare nell’intervallo delle lunghezze d’onda dell’infrarosso vicino. A ogni porzione di questo intervallo è stato assegnato un colore della luce visibile, ottenendo le sfumature arancioni, rosa e blu mostrate nell’immagine qui sotto.


L’immagine mostra Lynds 483 (cliccare per ingrandire). Le frecce della bussola indicano l’orientamento dell’immagine nel cielo. La relazione tra nord e est nel cielo (vista dal basso) è invertita rispetto alle frecce direzionali su una mappa terrestre (vista dall’alto). La barra delle scale è etichettata in anni luce, che è la distanza percorsa dalla luce in un anno terrestre. La legenda dei colori mostra quali filtri NirCam sono stati usati e quale colore della luce visibile è stato assegnato a ognuno. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci

Le due protostelle responsabili di questo spettacolo sono al centro della clessidra, in un disco di polvere e gas freddo che nell’immagine è grande quanto un pixel. Per oltre una decina di migliaia di anni hanno periodicamente emesso gas e polvere nel mezzo interstellare, creando enormi coni semitrasparenti illuminati di arancione. Una volta nello spazio, il materiale più recente colpisce quello più vecchio, compattandolo e facendolo vorticare, causando nel tempo una serie di reazioni chimiche che producono una varietà di molecole e composti organici.

Se si guarda la parte superiore della nube, dove il rosa incontra l’arancione, si può notare un’area dove il materiale appare disordinato. Questi nuovi dettagli incredibilmente fini rivelati da Webb, insieme a tutte le peculiari simmetrie e asimmetrie che le nubi presentano, in futuro potranno essere approfonditi e spiegati tramite la ricostruzione della storia delle espulsioni stellari e l’aggiornamento di modelli che ne riproducono gli effetti. Un’altra regione di rilevante importanza è quella oscura ai lati della regione centrale, resa tale da un’alta concentrazione di polvere che impedisce alla luce di passare facilmente. La NirCam di Webb rileva le stelle dietro questa polvere come tenui puntini arancioni, molto diverse da quelle rilevate fuori da questa regione, che brillano di un’intensa luce bianca e blu.

L483 è troppo grande per essere catturata in un’unica immagine di Webb. La foto è stata scattata specificatamente per catturare la sezione superiore, motivo per il quale la parte inferiore è mostrata solo parzialmente.

Tra milioni di anni, quando le due stelle avranno completato la loro formazione, potrebbero raggiungere ciascuna una massa simile a quella del nostro Sole. Il flusso di materiale in uscita avrà ripulito l’area nei loro dintorni, lasciando solamente un piccolo disco di gas e polvere dove potrebbero eventualmente formarsi dei pianeti.



Poker di mondi per la stella di Barnard



È una vecchia conoscenza degli astronomi, la stella di Barnard: antica e flebile nana rossa situata in direzione della costellazione dell’Ofiuco, è la stella a noi più vicina – meno di sei anni luce – subito dopo le tre che formano il sistema di Alpha Centauri. Già si sapevala conferma era giunta lo scorso ottobre grazie allo strumento Espresso del Vlt – dell’esistenza di un pianeta che le orbita attorno. Ora però i mondi si sono moltiplicati: da uno a quattro. Quattro minuscoli esopianeti, tutti molto più piccoli della Terra: le loro masse vanno dal 20 al 30 per cento di quella del nostro pianeta. A rendere possibile la scoperta, riportata ieri su The Astrophysical Journal Letters, è stato Maroon-X, uno strumento progettato specificamente per cercare esopianeti intorno a stelle nane rosse e montato sul telescopio Gemini North, alle Hawaii.


Rappresentazione artistica degli esopianeti in orbita attorno alla stella di Barnard. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/P. Marenfeld

Si tratta di una scoperta degna di rilievo per più d’un motivo. Anzitutto per l’astro attorno al quale questi mondi orbitano: quella di Barnard è infatti una stella singola, come il Sole. Non fa cioè parte di un sistema doppio o triplo, qual è per esempio quello di Alpha Centauri. Detto altrimenti, nel cielo dei quattro mondi che le ruotano attorno splende un sole soltanto – non due o più, come avviene nei sistemi stellari multipli. E fra i sistemi planetari formati da una sola stella quello di Barnard, come dicevamo, è quello a noi più vicino.

Ma c’è altro. Uno dei mondi appena annunciati è l’esopianeta meno massiccio che sia mai stato scoperto con la tecnica delle velocità radiali. Poiché il segnale rilevato da questo metodo dipende anche dalla massa del pianeta, essere riusciti a sfruttarlo per individuare l’esistenza di un pianeta così leggero induce un certo ottimismo sulla possibilità di trovarne altri attorno alle stelle più vicine. «È una scoperta che segna un punto di svolta nella precisione di questi nuovi strumenti rispetto alle generazioni precedenti», commenta entusiasta il primo autore dello studio, Ritvik Basant, dottorando all’Università di Chicago.


Lo strumento Maroon-X montato sul telescopio Gemini North. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/J. Bean

Se nella nuova scoperta ha avuto un ruolo fondamentale la sensibilità dello spettrografo Maroon-X, capace di riconoscere gli effetti gravitazionali impressi sul moto della stella dai pianeti che le ruotano attorno, non da meno è stata decisiva la perseveranza degli astronomi, che per avere la certezza di non aver preso un abbaglio hanno sorvegliato la stella di Barnard per ben 112 notti nell’arco di tre anni.

Proverbiale per essere ingannevole agli occhi dei cacciatori di mondi alieni, che in passato già avevano annunciato la presenza, là attorno, di esopianeti per poi essere smentiti, la stella di Barnard si era infatti guadagnata nel tempo il soprannome di “grande balena bianca” – in senso melvilliano, dunque di obiettivo inseguito ossessivamente ma capace di eludere ogni tentativo di raggiungerlo. Questa volta, invece, la fiducia nel risultato è pressoché totale, grazie anche al fatto che le osservazioni sono state condotte da due telescopi in due diversi emisferi – da quello australe con il Vlt, da quello boreale con Gemini North. «Abbiamo osservato a ore diverse della notte e in giorni diversi. Loro sono in Cile, noi alle Hawaii. Le nostre squadre non si sono coordinate in alcun modo», sottolinea Basant. «Questo ci dà la certezza che quelli che abbiamo visto nei dati non sono fantasmi».

Purtroppo, a causa dell’angolazione con la quale si presentano a noi che li osserviamo dalla Terra, i quattro pianeti non transitano mai davanti alla loro stella, e ciò rende difficile determinarne la composizione. Ma è quasi certo che siano tutti pianeti rocciosi, con periodi di rivoluzione che vanno dai 2.3 ai 6.7 giorni terrestri, dunque brevissimi. Gli autori dello studio sono anche stati in grado di escludere, con ragionevole certezza, che nella zona abitabile della stella di Barnard – quella compatibile con la presenza di acqua liquida in superficie – orbiti qualche esopianeta, perlomeno non di massa paragonabile a quella della Terra.

Per saperne di più:

Guarda l’animazione sul canale YouTube del NoirLab:

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William Herschel: intervista al pronipote Will




Caroline Herschel prende appunti mentre il fratello William osserva al telescopio il 13 marzo 1781, la notte in cui William scoprì Urano. Crediti: Wikimedia Commons

Mentre scrivevo il mio ultimo libro, Pianeti mancanti, mi sono ritrovato a raccontare di William Herschel, sua sorella Caroline e suo figlio John. Le vicende di questa famiglia sono infatti strettamente collegate alla storia dell’astronomia, e in particolare a quella dei pianeti mancanti: del resto Urano, scoperto per caso da William, è il primo pianeta mai scoperto dopo i cinque visibili a occhio nudo, e ha di colpo raddoppiato le dimensioni del Sistema solare. Quella scoperta avrebbe poi guidato alla caccia a Nettuno, nel secolo successivo, e a quella Planet X nel ‘900.

La scoperta di Urano è avvenuta nel 1781, che sembra lontano, ma a ben vedere è un battito di ciglia nella storia, e sono poche le generazioni che ci separano da quegli eventi. Allora mi sono chiesto: come posso trasmettere la vicinanza temporale di questi avvenimenti? La risposta è venuta da sé: ho cercato un discendente della famiglia Herschel per porgli qualche domanda sull’eredità scientifica della sua famiglia.

Ho contattato l’Herschel Museum of Astronomy, situato a Bath (Regno Unito), proprio nella casa in cui William viveva quando scoprì Urano. La segreteria del museo mi ha subito messo in contatto con Will Herschel-Shorland, uno dei pronipoti di William e curatore dei beni ereditati dalla famiglia. Un vero gentleman inglese, che è stato più che disponibile nel rispondere alle mie domande.


Will Herschel-Shorland, “champion of the archival cause” della famiglia Herschel

Qual è il suo rapporto di parentela con William Herschel?

«Sono un discendente diretto di William Herschel con il lignaggio più antico, ed egli è perciò direttamente il mio bis bis bis bisnonno. Il doppio cognome Herschel-Shorland è una conseguenza del fatto che la generazione di mia nonna era composta di sole figlie (e nessun figlio), ed essendo la figlia più grande mia nonna ha sposato Christopher Shorland. Il cognome è stato messo con il trattino per evitare che si perdesse il materno Herschel».

Nella sua famiglia sentite l’importanza dell’eredità astronomica – e scientifica – di William, Caroline e John Herschel?

«La ricca eredità dei traguardi di William, Caroline e John Herschel è molto apprezzata e rispettata dall’attuale famiglia estesa – che attualmente è davvero molto estesa visto che John ha avuto dodici figli, sette dei quali hanno avuto famiglie a loro volta. Il mio lignaggio è quello più antico tramite William, John, William James, eccetera. I risultati ottenuti dal triumvirato William, Caroline e John sono di grande ispirazione per tutta la famiglia (e lo sono stati per tutte le generazioni che si sono susseguite); questo fatto pone certamente l’asticella molto in alto per le nostre ambizioni. Anche se sappiamo che è impossibile da eguagliare, spesso rifletto a cosa loro avrebbero fatto in alcune situazioni di oggi o per affrontare alcune sfide nel quotidiano (desidererei la loro saggezza!)».


William Herschel, in un dipinto di fine ‘700. Crediti: Wikimedia Commons

Quale pensa sia stata la forza dei tre Herschel?

«I loro risultati sono particolarmente degni di nota per l’ampiezza e la profondità degli sforzi in una pletora di discipline diverse. Alcune sono molto ben note (astronomia, ottica, e musica), e altre meno note, come quelle in cui si cimentò il polimate John, come chimica, matematica, geologia, fotografia e tangenzialmente sociologia e pedagogia, per nominarne alcune. Sono tutte materie il cui interesse perdura attraverso le generazioni fino a oggi».

In cosa consiste la loro eredità materiale?

«Ogni generazione della famiglia, da William in poi, è stata riverente ed entusiasta nel condividere, conservare e archiviare la vastità di materiali di studio che sono stati generati. Questi sono in genere responsabilità del champion of the archival cause, che al momento sono io. Alcuni materiali sono ancora custoditi dalla famiglia, mentre nel corso degli anni altri sono passati nelle mani di alcune istituzioni accademiche come la Royal Astronomical Society e la Royal Society. Abbiamo comunque ancora il privilegio di possedere una certa quantità di materiali d’archivio e alcuni più effimeri, ma che ancora danno una grande ispirazione a noi in quanto famiglia, e ai ricercatori che li consultano per scopi accademici con una certa regolarità».


La camera lucida di John Herschel. Crediti: National Maritime Museum, Greenwich, London, Herschel Collection

Ci sono alcuni oggetti in particolare, fra quelli meno noti, di cui ci può raccontare?

«Non è facile citare solo alcuni oggetti che risaltino rispetto a tutti quelli che sono arrivati fino a oggi, ma ci sono tre favoriti che riflettono la varietà di attività svolte dai nostri illustri avi e li tengono vicini ai nostri cuori. Questi sono la scatola del tabacco di William (attualmente in prestito all’Herschel Museum of Astronomy di Bath), il delicato vestito di mussola di Caroline (anche questo in prestito allo stesso museo) e la fotocamera lucida di John, usata spesso e da lui molto amata. Questi tre oggetti evocano la vista, i suoni e gli odori che riportano i tre vicino a noi, con visioni di William che indulge su un pizzico di tabacco raffinato, Caroline che si aggira con il suo vestito, e John che disegna con la sua fotocamera che usò in tanti viaggi in Europa e in Sudafrica. Ed è così che l’eredità di William, Caroline e John è ancora molto evidente e fornisce quotidianamente alla famiglia una ricca ispirazione sia nei dettagli della vita quotidiana che nel perseguire ambizioni lontane senza confini!».

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Guarda il video di presentazione del libro di Luca Nardi:

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Ritorno al futuro: l’evoluzione dei cicli glaciali



Le possibili cause dei cicli glaciali sono state oggetto di numerose ricerche paleoclimatologiche negli scorsi decenni, ma senza ottenere risultati certi. Un significativo avanzamento arriva ora dai risultati delle analisi messe in atto da un team di ricercatori della Uc Santa Barbara, pubblicati il mese scorso su Science. Gli autori dello studio hanno rilevato come piccoli mutamenti nell’orbita terrestre siano correlati a cambiamenti nel clima del pianeta sul lungo periodo, ossia nell’arco di millenni.


La Terra si avvierebbe verso una nuova era glaciale tra circa 10mila anni. Ma le emissioni di gas serra d’origine antropica potrebbero aver spostato radicalmente la traiettoria del clima. Crediti:
Matt Perko/UC Santa Barbara

La Terra segue serie temporali che vedono alternarsi periodi di glaciazione, quando avviene un generale abbassamento delle temperature globali, e deglaciazione. I collegamenti tra parametri orbitali terrestri e le fluttuazioni climatiche sono sotto la lente d’ingrandimento della comunità scientifica da oltre un secolo, ma le prime reali conferme a riguardo sono giunte soltanto negli anni ’70. Si tratta di studi estremamente complessi, a causa della difficoltà di indagare ciò che è accaduto in epoche remote, ma ricercatori non si sono dati per vinti, e hanno posto la loro attenzione soprattutto sui fattori che portano all’esordio dei vari periodi glaciali.

Il team dell’università californiana ha esaminato un intervallo temporale molto grande, pari a circa un milione di anni, focalizzandosi sulle variazioni nelle dimensioni delle calotte terrestri presenti nell’emisfero boreale e sulla temperatura dell’oceano profondo. Da tali analisi è risultata evidente una forte correlazione tra l’alternanza dei cicli glaciali e alcuni parametri orbitali. L’avvio delle deglaciazioni è probabilmente dovuto a una combinazione degli effetti della precessione e dell’obliquità, cioè l’inclinazione dell’asse di rotazione della Terra rispetto all’asse dell’eclittica. Quanto alle glaciazioni, la principale responsabile del loro innesco sembrerebbe essere l’obliquità, mentre le diminuzioni dell’eccentricità consentirebbero la crescita di enormi calotte.


Nell’immagine soprastante sono evidenziate le correlazioni tra la morfologia dei cicli glaciali e i parametri orbitali della Terra. Crediti: Stephen Barker et al., Science, 2025

La peculiarità che ha sorpreso gli studiosi consiste nell’aspetto fortemente deterministico dei cicli glaciali degli ultimi 900mila anni. «Siamo rimasti stupiti nel trovare un’impronta così chiara dei diversi parametri orbitali sui dati climatici», sottolinea a questo riguardo il primo autore dello studio, Stephen Barker, dell’Università di Cardiff (Regno Unito). «Si fa fatica a credere che questo schema non sia stato notato prima».

Dallo studio emerge che i cicli glaciali rispettano uno schema prevedibile: uno schema che mostra come attualmente il pianeta si trovi nel bel mezzo di un periodo interglaciale e che lo attenda in futuro, tra circa 10mila anni, una diminuzione della temperatura in grado di dare il via a una nuova era glaciale – questo in assenza di emissioni di gas serra di origine antropica. «Abbiamo trovato un modello prevedibile per la tempistica dei cambiamenti climatici della Terra tra le ere glaciali e i periodi miti e caldi come quelli odierni, chiamati interglaciali», aggiunge una delle coautrici dello studio, Lorraine Lisiecki, del Dipartimento di scienze della Terra a Uc Santa Barbara.

Nonostante i risultati ottenuti, gli autori sottolineano come la possibilità che tutto vada secondo i “piani della natura” sia piuttosto bassa, considerando l’effetto dirompente dovuto alle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e, in generale, alle attività umane. La loro intenzione è ora quella di partire dai dati delle proprie scoperte per realizzare una linea temporale delle evoluzioni climatiche per i prossimi millenni, basandosi anche sulle variazioni passate. Tenendo questa volta conto anche di quanto questa evoluzione potrebbe essere perturbata dai cambiamenti climatici di origine antropica.

«È molto improbabile che una transizione verso uno stato glaciale avvenga nel giro di 10mila anni», conclude un altro dei coautori dello studio, Gregor Knorr, dell’Alfred Wegener Institute, Helmholtz Centre for Polar and Marine Research, «perché le emissioni umane di anidride carbonica nell’atmosfera hanno già deviato il clima dal suo corso naturale, con impatti a lungo termine nel futuro».

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Così si formano e si accendono le stelle



Il progetto AlmaGal inizia a fornire nuove e decisive informazioni su come si formano le stelle nella nostra galassia, osservando più di mille regioni di formazione stellare con un livello di dettaglio senza precedenti. Grazie alla potenza del radiotelescopio Alma (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array) situato sull’altopiano di Chajnantor, nel deserto di Atacama in Cile, il team di AlmaGal è riuscito a esplorare queste enormi “fucine cosmiche” in maniera completamente nuova, offrendo una visione impareggiabile dei processi che portano alla nascita delle stelle. Il progetto AlmaGal, una collaborazione internazionale guidata dall’Istituto nazionale di astrofisica, insieme all’Università di Colonia, l’Università del Connecticut e all’Academia Sinica, è nato per gettare nuova luce sui processi che portano le nubi molecolari a frammentarsi nei nuclei elementari da cui poi si formano le singole stelle.


Collage di alcune fra le più di mille regioni di formazione stellare osservate in AlmaGal. Le immagini rappresentano l’emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d’onda di 1.38mm. Crediti: Eso/Alma/AlmaGal. Created by C. Mininni

«AlmaGal rappresenta un salto quantico rispetto ad altri progetti che studiano la nascita di nuovi ammassi stellari», dice Sergio Molinari, responsabile italiano del progetto e ricercatore dell’Inaf di Roma. «Osservando più di mille di queste regioni, AlmaGal da solo è quattro volte più grande di tutti gli altri programmi simili messi insieme permettendo per la prima volta studi quantitativi statisticamente significativi».

Le nubi molecolari – enormi agglomerati di gas e polveri presenti nello spazio interstellare – sono le fucine in cui si generano le stelle. Da decenni i ricercatori che studiano la formazione stellare stanno cercando di comprendere perché le nebulose, pur utilizzando elementi costitutivi simili – per lo più idrogeno, elio e piccole quantità di elementi più pesanti – producono stelle con masse molto diverse da caso a caso. Il radiotelescopio Alma osserva la radiazione cosmica a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche molto più lunghe di quella visibile. Questo lo rende perfetto per osservare oggetti celesti freddi, proprio come la polvere e il gas delle nubi molecolari, che emettono proprio a quelle lunghezze d’onda. Inoltre, poiché Alma combina la luce di 66 antenne situate anche a chilometri di distanza l’una dall’altra, è in grado di distinguere dettagli in questa finestra osservativa come nessun altro strumento oggi operativo.

All’interno delle nubi molecolari, polvere e gas si addensano per creare strutture più piccole chiamate “grumi” (clumps in inglese), di dimensioni fino a qualche anno-luce. Questi grumi si frazionano ulteriormente in ammassi di oggetti più piccoli chiamati “nuclei” (o cores), densi agglomerati in cui si formano le singole stelle. Oltre alla gravità, si pensa che diversi processi come la turbolenza nel gas o i campi magnetici controllino il modo in cui le nebulose si frammentano in grumi e nuclei.

AlmaGal è progettato per capire meglio come tutto ciò avviene: è il primo censimento completo che ha osservato grumi di tutte le età, masse e ubicazioni in tutti i quartieri della nostra galassia, fornendo un quadro imparziale. I risultati iniziali basati sull’analisi di 800 grumi e più di 6000 nuclei, evidenziano che non tutte le regioni di formazione stellare sono uguali. Le analisi presentate in questi primi articoli suggeriscono che i grumi più densi tendono a produrre un numero maggiore di nuclei, e quindi di stelle. Curiosamente, è la maggiore concentrazione di materiale presente in un grumo, e non solo la sua quantità, che determina una sua maggiore capacità di formare nuove stelle. I nuclei hanno bisogno del materiale dei loro grumi iniziali per crescere, e i grumi più densi e massicci sono in grado di produrre un maggior numero di nuclei che sono anche più ricchi di massa.


Questa immagine mostra diverse antenne Alma durante le osservazioni. Sopra di esse, è visibile la luminosa Via Lattea. Crediti: Eso/Y. Beletsky.

«La vastità del campione di strutture analizzato ci ha permesso di rivelare e di descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la varietà delle caratteristiche fisiche (oltre che statistiche) di questi nuclei, ad esempio in termini di massa, dimensioni e densità», spiega Alessandro Coletta, dottorando dell’Inaf di Roma. «Inoltre, è stato possibile indagare se, e in quale misura, tali caratteristiche siano legate alle proprietà dei grumi ospitanti: ciò ci ha consentito di interpretare i risultati ricavati dalle osservazioni nel più ampio contesto del processo di formazione stellare, formulando dei primi scenari coerenti per arrivare a spiegarne i meccanismi».

Osservando infatti regioni di età diverse, AlmaGal ha scoperto che queste fucine si trasformano nel tempo. La maggior parte dei grumi più giovani mostrano solo pochissimi nuclei, e con il procedere del tempo la frammentazione ne produce un numero sempre crescente, che si distribuiscono nel modo più vario: da strutture circolari a distribuzioni filamentari, sviluppando geometrie più intricate.

«Questo è solo l’inizio», conclude Molinari. «Per comprendere davvero quali siano i meccanismi fisici dominanti che giustifichino questi risultati è di fondamentale importanza il confronto con predizioni teoriche. Con il progetto Rosetta Stone, sviluppato all’interno del progetto Erc Synergy EcoGal (di cui AlmaGal è parte), siamo pronti per il confronto delle immagini AlmaGal con un’ampia gamma di simulazioni numeriche in cui i processi di frammentazione e formazione stellare vengono riprodotti al computer».

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Un secondo per decifrare l’onda 



Quando due stelle di neutroni si scontrano e si fondono, producono onde gravitazionali che viaggiano nello spazio-tempo, percorrendo milioni di anni luce: un segnale che, talvolta, viene registrato sulla Terra. Segnale che con gli attuali rivelatori di onde gravitazionali produce alcuni minuti di dati, mentre nei futuri osservatori, più sensibili, potrebbe generare anche ore o giorni di dati. L’interpretazione di questi segnali è estremamente complessa e rappresenta, ogni volta, una vera e propria sfida tecnologica.


Rappresentazione artistica della fusione di una stella binaria di neutroni che emette onde gravitazionali e radiazioni elettromagnetiche. Crediti & copyright: Mpi for Intelligent Systems / A. Posada

L’analisi tradizionale di questi dati richiede ingenti risorse computazionali e tempi di elaborazione molto lunghi, rallentando così il processo di follow-up, vale a dire il successivo puntamento dei telescopi verso l’evento cosmico “per vederlo”, cioè per osservarne le controparti elettromagnetiche. Per superare queste difficoltà, un team di ricerca internazionale guidato dal Max Planck Institute for Intelligent Systems (Mpi-Is) ha sviluppato Dingo-Bns (Deep Inference for Gravitational-wave Observations from Binary Neutron Stars), un avanzato algoritmo di apprendimento automatico (machine learning) basato su una rete neurale addestrata per estrarre le informazioni contenute nelle onde gravitazionali e caratterizzare completamente le fusioni di stelle di neutroni in circa un secondo. Un progresso straordinario rispetto ai metodi tradizionali, che richiedono almeno un’ora per ottenere risultati simili.

«Un’analisi rapida e accurata delle onde gravitazionali è fondamentale per localizzare la sorgente e dirigere i telescopi nella giusta direzione, in modo da osservare tutti i segnali che l’accompagnano», spiega Maximilian Dax, ricercatore presso il Max Planck Institute e il Politecnico di Zurigo, primo autore dello studio pubblicato la scorsa settimana su Nature. L’importanza della rapidità nell’osservazione astronomica risiede nel fatto che le fusioni di stelle di neutroni emettono non solo onde gravitazionali, ma anche segnali elettromagnetici, come luce visibile e raggi gamma. Riuscire a rilevare questi due diversi tipi segnali simultaneamente rappresenterebbe un grande passo avanti per la cosiddetta astronomia multi-messaggera.

«Questo studio apre scenari potenzialmente molto interessanti per quanto riguarda la ricerca di controparti elettromagnetiche di eventi di onde gravitazionali registrate dagli interferometri terrestri», dice Paolo D’Avanzo, astrofisico dell’Inaf di Brera non coinvolto nello studio, al quale ci siamo rivolti per un commento. «Sebbene sia un’ipotesi preliminare, la possibilità di poter ridurre da qualche minuto a pochi secondi i tempi necessari per ricavare i parametri di un evento gravitazionale, localizzazione nel cielo inclusa, è sicuramente intrigante» .

Attualmente, gli algoritmi utilizzati dalla collaborazione Lvk (Ligo-Virgo-Kagra) per l’analisi rapida sacrificano la precisione a favore della velocità. Il nuovo metodo basato sull’intelligenza artificiale colma questa lacuna, aumentando la precisione della localizzazione dell’evento del 30 per cento rispetto alle tecniche approssimative. «Il nuovo algoritmo», aggiunge Jonathan Gair del Max Planck Institute for Gravitational Physics, «affronta le carenze di quelli attualmente in circolazione e fornisce un’inferenza completa della fusione binaria dei due oggetti cosmici in appena un secondo».

Dingo-Bns, infatti, non solo accelera il processo di identificazione delle fusioni stellari, ma fornisce anche informazioni cruciali come la posizione, la massa, l’inclinazione e gli spin delle stelle di neutroni coinvolte. La sua rapidità e precisione consentirebbero di sfruttare al meglio il tempo di osservazione dei telescopi, migliorando la sinergia tra interferometri per onde gravitazionali e rivelatori di segnali elettromagnetici.

«Qualunque sia il metodo utilizzato per ottenere i parametri e la localizzazione dell’evento che ha generato le onde gravitazionali, la possibilità di avere queste informazioni entro pochi secondi dall’evento – o addirittura prima della coalescenza – potrebbe avere ricadute significative. Ad esempio per la ricerca dell’eventuale gamma-ray burst (Grb) – una rapida emissione di lampi gamma di durata tipica inferiore a pochi secondi -– che segue la fusione».


Rappresentazione artistica del Grb 211211A e della kilonova a esso associata (sulla destra).. Crediti: Aaron M. Geller/Northwestern/Ciera and It Research Computing Services

La necessità di un metodo veloce per analizzare le onde gravitazionali è, quindi, cruciale per l’astronomia multi-messaggera che, grazie alla combinazione di osservazioni gravitazionali ed elettromagnetiche, consente di approfondire la nostra comprensione dell’universo. Un esempio storico è stato l’evento Gw 170817 del 2017, la prima fusione di stelle di neutroni osservata sia attraverso le onde gravitazionali sia mediante segnali elettromagnetici. Tuttavia, il ritardo nell’analisi dei dati ha impedito una localizzazione tempestiva della sorgente. L’efficacia della combinazione tra moderni algoritmi di apprendimento automatico e le conoscenze astrofisiche consentirà di identificare con estrema rapidità la posizione del segnale gravitazionale e di trasmettere le coordinate ai telescopi in tempo quasi reale. Non solo: Dingo-Bns potrebbe aiutare a rilevare segnali elettromagnetici prima che avvenga la fusione, permettendo di studiare in modo dettagliato anche il fenomeno delle kilonove, ancora poco compreso, e analizzare meglio i processi di fusione e le esplosioni che ne conseguono studiando gli eventi cosmici con maggiore dettaglio.

«Nello studio in questione si fa riferimento anche alla possibilità di ottenere le informazioni sugli oggetti compatti prima che la coalescenza abbia luogo. C’è da dire», precisa a questo proposito D’Avanzo, «che questa possibilità di early warning è, in linea di principio, già realizzabile con le procedure standard della collaborazione Ligo-Virgo-Kagra, sebbene finora questo sia avvenuto molto raramente».


Il Neil Gehrels Swift Observatory è un satellite che studia i gamma-ray burst, le esplosioni più potenti dell’universo, e altri oggetti ed eventi cosmici. Crediti: Nasa

«Il team del Neil Gehrels Swift Observatory – il satellite Swift, dedicato alla ricerca dei lampi gamma osservati da galassie lontane – ha implementato una modalità nota come continuous commanding che permette al satellite di puntare l’oggetto entro circa dieci secondi da quando il comando viene inviato», continua D’Avanzo. «In caso di un early warning ci sarebbe, quindi, la possibilità di avere gli strumenti del satellite già puntati verso la regione di cielo dove la coalescenza di stelle di neutroni sta per avere luogo ed essere così in grado di rivelare il Grb associato». In questo modo, la precisione nella localizzazione di un Grb è estremamente superiore rispetto a quella che si otterrebbe con gli interferometri. «Una volta ottenuta una localizzazione precisa, tutte le campagne osservative di follow-up con i telescopi dalla Terra e dallo spazio diventerebbero estremamente più semplici da gestire ed efficaci nel massimizzare le nostre conoscenze scientifiche», conclude D’Avanzo.

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Grosso buco nero nella Grande Nube di Magellano



Buttate fuori di casa come degli inquilini insolventi: è il destino toccato a certe stelle della Grande Nube di Magellano, galassia prossima alla Via Lattea, e che sono venute a chiedere asilo niente meno che alla nostra galassia. Sono le stelle iperveloci identificate da un gruppo internazionale di ricercatori in una regione periferica della Via Lattea, ma che con la Via Lattea non hanno proprio niente a che fare, stelle indiavolate che si muovono alla velocità forsennata di milioni di chilometri orari. Astri sbandati, che hanno consentito ai ricercatori di compiere una straordinaria scoperta, astronomicamente “dietro casa”. Scoperta che prende le mosse dalla semplice domanda: chi le ha buttate fuori di casa?


La Grande Nube di Magellano immortalata dal telescopio Vista dell’European Southern Observatory. Crediti: Eso/Vmc Survey

La risposta la troviamo in un articolo appena accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal e disponibile su arXiv. Utilizzando i dati del satellite europeo Gaia, i ricercatori, guidati da Jesse Han del Center for Astrophysics (Harvard & Smithsonian) di Cambridge, in Massachusetts, hanno potuto ricostruire da dove provengono queste stelle e il meccanismo che le ha fatte arrivare fin qua, nella Via Lattea. Meccanismo che vedrebbe come attore principale niente meno che un buco nero supermassiccio. Di cui nessuno si era accorto. E che troneggia indisturbato nella Grande Nube di Magellano.

«È sorprendente scoprire che abbiamo un altro buco nero supermassiccio proprio dietro l’angolo, cosmicamente parlando», commenta Han. «I buchi neri sono così furtivi che questo è stato praticamente sotto il nostro naso per tutto questo tempo».

Oltre ai dati di Gaia, che hanno tracciato le orbite delle stelle nella nostra galassia con una straordinaria accuratezza, fondamentale è stata una ricostruzione dettagliata dell’orbita che la Grande Nube di Magellano compie attorno alla Via Lattea, ricostruzione ottenuta da un altro gruppo di ricercatori. In totale, gli studiosi hanno identificato ventuno stelle ad alta velocità di origine sospetta. Secondo i modelli, le stelle iperveloci sono il prodotto di un incontro ravvicinato tra un sistema binario di stelle e un buco nero supermassiccio. L’irresistibile attrazione del buco nero separa irrevocabilmente i destini della coppia di stelle. Una viene catturata in un’orbita stretta attorno al buco nero. L’altra viene invece scaraventata lontano, a velocità di diverse centinaia di chilometri al secondo. Una metà delle stelle iperveloci studiate da Han e compagni sarebbe stata espulsa dal buco nero supermassiccio che alberga nella regione centrale della Via Lattea, grosso quattro milioni di volte il Sole. Le altre avrebbero un’origine esterna. Le avrebbe buttate fuori di casa il buco nero nella Grande Nube di Magellano, per l’appunto. Più piccino di quello della Via Lattea e con una massa di seicentomila stelle come il Sole.


Ricostruzione artistica che mostra uno zoom sul buco nero supermassiccio nella Grande Nube di Magellano. Notiamo un ex sistema binario di stelle, separato dall’attrazione gravitazionale del buco nero. Una stella rimane a orbitare attorno al buco nero mentre l’altra viene espulsa a grande velocità e diventa una stella iperveloce, che vediamo in basso a destra nel riquadro. Crediti: CfA/Melissa Weiss

«Sapevamo che queste stelle iperveloci esistevano da un po’, ma Gaia ci ha fornito i dati di cui avevamo bisogno per capire da dove provenissero realmente», afferma il coautore Kareem El-Badry del Caltech di Pasadena, in California. «Combinando questi dati con i nostri nuovi modelli teorici su come viaggiano queste stelle, abbiamo fatto questa straordinaria scoperta».

Secondo il modello elaborato dagli astronomi, un buco nero supermassiccio nella Grande Nube di Magellano avrebbe generato un gruppo di stelle iperveloci in una regione specifica della nostra galassia, a causa del moto orbitale della nostra vicina di casa attorno alla Via Lattea. In particolare, le stelle espulse nella direzione del moto della Grande Nube di Magellano avrebbero dovuto ricevere una dose extra di velocità, effetto che è stato confermato dalle osservazioni.

Gli studiosi hanno escluso altri meccanismi per l’origine delle stelle iperveloci. Le esplosioni di supernova in sistemi doppi di stelle, che pure potrebbero espellere stelle a folle velocità, non sarebbero compatibili con i dati osservati. Così come un meccanismo che coinvolga i sistemi doppi di stelle, senza però il contributo di un buco nero supermassiccio.

«L’unica spiegazione che possiamo trovare per questi dati è l’esistenza di un buco nero mostruoso nella nostra galassia accanto», conclude Scott Lucchini, sempre tra i coautori. «Quindi nel nostro vicinato cosmico il buco nero supermassiccio della Via Lattea non è il solo a scacciare le stelle dalla sua galassia».

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Riti primaverili a Lykosoura nel II secolo a.C.



Fiaccole accese nell’oscurità. Nell’aria un profumo intenso. Centinaia di individui, esausti, si stringono accovacciati nei loro mantelli nel rigore tagliente delle prime ore del mattino alle soglie della primavera. Tutti attendono con trepidazione e in religioso silenzio l’alba, assiepati nel vasto piazzale di fronte al tempio: tra poco i raggi del Sole nascente illumineranno il volto della Despoina, la loro dea – Signora della Natura – alla quale sono devoti.


In basso, Annalisa Lo Monaco fra due delle statue del santuario di Lykosoura. In alto, una ricostruzione di come dovevano apparire le statue

Siamo in Grecia, circondati da boschi sulle montagne scoscese dell’Arcadia, nel cuore del Peloponneso. È una notte intorno al 20 marzo, nei primi decenni del II secolo a.C. Gli uomini e donne che adesso riposano qualche ora prima hanno offerto sacrifici, mangiato, bevuto, assunto oppio e danzato sfrenati, al ritmo di flauti e strumenti a corde, con maschere animali sul volto. Il rito al quale hanno partecipato è stato coinvolgente, intenso e segreto: è un rituale misterico, che prevede tappe successive di iniziazione e il divieto assoluto di farne menzione ai non iniziati.

Location dell’evento è il santuario di Lykosoura, individuato nel 1889 dalla Società archeologica greca e oggetto di una rapida campagna di scavi, che permise il recupero di edifici e materiali votivi offerti in dono nell’area sacra. Intorno al 200 a.C. il santuario aveva conosciuto un’importante fase di restyling, con la straordinaria concezione del tempio nell’assetto che ci è stato restituito dagli scavi. Al suo interno era stato appositamente realizzato un nuovo gruppo di statue di culto, impostato su un’alta base che occupava quasi per intero lo spazio interno della cella. Sulla base erano le statue delle divinità: al centro, sedevano Demetra e la figlia Despoina – la dea a cui era intitolato il santuario –, ai loro lati erano invece Artemide (la dea dei boschi) e Anytos (un eroe locale che la tradizione vedeva come il padre putativo di Despoina). Un bel quadro di famiglia, in forme decisamente monumentali: le statue al centro erano alte quasi quattro metri!

Tutto questo era noto da tempo. Ora però, grazie al nostro lavoro, siamo di fronte a una nuova scoperta, riportata in due articoli – firmati dai due scriventi, Annalisa Lo Monaco, professoressa di archeologia classica presso il Dipartimento di scienze dell’antichità in Sapienza Università di Roma, e Salvo Guglielmino, ricercatore all’Inaf di Catania – usciti questa settimana sul nuovo Supplemento della rivista Scienze dell’Antichità in un volume dedicato al politeismo in Grecia.

L’unione dei dati astronomici con le evidenze fornite da documentazione archeologica e fonti letterarie ci ha portato a proporre che questo rituale segreto si svolgesse in due giornate all’inizio della primavera. Clou del sistema sono da considerare osservazioni accertate su base astronomica circa le fasce orarie relative all’illuminazione di alcuni edifici del santuario (il tempio, la gradinata teatrale a sud di esso). Sulla scorta di queste nuove evidenze sono state poi scanditi i diversi momenti del rito, sulla base di analogie con altri rituali misterici noti nel mondo greco.

Ma partiamo dall’inizio.

Non possediamo alcuna informazione diretta sul calendario di questa festa religiosa, in grado di farci sapere in quale momento dell’anno essa venisse celebrata. È proprio il suo carattere segreto ad avere tenuto nascosti fino ai nostri giorni molti dettagli del rituale. Tuttavia, la misurazione in pianta dell’orientamento del tempio all’interno del santuario ha permesso di osservare che il suo asse è rivolto esattamente a est, ad azimut uguale a 90° sull’orizzonte.

Tramite un’applicazione per le mappe satellitari di Google Earth che permette di ottenere l’orario e la direzione dell’alba, mezzogiorno e tramonto per un dato punto geografico, è stato possibile verificare questo allineamento. Questo fa sì che la luce del Sole batta perpendicolarmente alla facciata del tempio quando il Sole sorge all’equinozio di primavera e di autunno, mentre si trova in corrispondenza dell’equatore celeste e si leva esattamente nel punto cardinale est.


Crediti: Google Earth/Airbus, Cnes/Airvus, Maxar Technologies

Dato che il santuario è disposto su una stretta terrazza, arroccato sul fianco di un monte, e l’orizzonte est risulta libero, all’alba nei giorni attorno agli equinozi i raggi solari entravano all’interno del tempio fino a penetrare nella cella interna. Visto che il tempio era stato appena ricostruito, ciò non può essere frutto del caso: la festa doveva dunque cadere in un periodo dell’anno coincidente con uno dei due equinozi. Sin qui l’astronomia. La menzione delle offerte vegetali presentate alla dea (piante con fioritura nella prima parte dell’anno), la natura stessa del rituale sfrenato e orgiastico e la personalità della dea, che traspare dalle offerte votive e dal tipo di rituale svolto in suo onore, suggeriscono che si tratti di una festa legata alla fertilità umana, e in generale al risveglio della natura. Tutto porta dunque a ritenere che si trattasse di un rito primaverile.

Il rito solenne doveva essere celebrato a cadenza annuale, al ripresentarsi della primavera dopo il rigido inverno.

Nel primo giorno della festa, oltre all’arrivo e ad alcune operazioni preliminari, doveva avvenire la prima “catechesi” dei fedeli: è a questa funzione che è destinata la gradinata imponente e ripida sul lato meridionale del tempio, proprio di fronte a una piccola porta sulla parete laterale del tempio.

L’entrata laterale del tempio era esposta esattamente verso sud (azimut pari a 180° sull’orizzonte) e veniva illuminata frontalmente a mezzogiorno. È verosimile quindi che quello fosse il momento in cui la sacerdotessa, abbigliata opportunamente, apparisse alle centinaia di fedeli qui riuniti in attesa, seduti e in piedi sulla gradinata, per mostrare loro oggetti sacri o dare informazioni sulle fasi della liturgia che doveva seguire. Di questo purtroppo non sappiamo nulla di più. Non sappiamo quanto durassero queste catechesi: le gradinate restano illuminate dal Sole per qualche ora, fino al primo pomeriggio.

Qualche ora dopo doveva avvenire il grande sacrificio di animali (ognuno portava quello che voleva) dati alle fiamme su uno degli altari davanti al tempio, sulla terrazza accanto alla gradinata. Centinaia di persone si muovevano qui, e, intorno al fuoco, danzavano con il volto coperto da maschere di maiali, arieti e asini, abbandonate a ritmi sfrenati che duravano per gran parte della notte. Solo ad alcuni era riservata l’iniziazione vera e propria, all’interno di uno stretto porticato sulla terrazza superiore.


I gradini e il tempio di Despoina oggi

Per la conclusione dell’evento si doveva ancora aspettare l’alba. Solo poco prima delle sei del mattino, infatti, i fedeli assiepati nel piazzale avrebbero potuto vedere le statue di Demetra e della figlia Despoina illuminarsi, colpite dai raggi del Sole nascente. Considerando l’ampiezza della porta e lo spazio residuo tre le due colonne centrali del tempio, si può osservare che dal piazzale non sarebbero state visibili le statue laterali. Il cono di luce illuminava con effetto teatrale le sole due divinità principali, spostandosi via via sulla destra mentre il Sole iniziava la sua lenta ascesa diurna e determinando in tal modo un effetto di luce maggiore su Despoina. Soltanto a una distanza ravvicinata, entrati pochi alla volta nel tempio, nel campo visivo sarebbe apparso il gruppo nel suo insieme, con la luce che a poco a poco, e per una mezz’ora ancora, si sarebbe spostata pian piano sulla destra. Despoina al centro era la dea più a lungo illuminata del gruppo. La sua apparizione nella luce doveva sembrare una vera e propria “epifania”, una rivelazione liturgica che chiudeva e coronava con grande effetto scenografico l’iniziazione dei fedeli avvenuta nelle ore precedenti.


Copertina del volume che ospita i due studi

Archeologia e astronomia insieme hanno ora così permesso di fare nuova luce su un rituale tenuto segreto per molti secoli. È uno dei risultati più recenti nel campo dell’archeoastronomia nel mondo classico, che rimane ancora poco esplorato sotto questa prospettiva. Nell’ultimo decennio, i contesti archeologici greci e romani sono stati oggetto di una revisione negli approcci di interazione tra archeologia e astronomia, e promettono per il futuro di riservare nuove scoperte grazie alla collaborazione degli studiosi di queste due discipline.

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Nova rovente nella Grande Nube di Magellano



Le nove sono esplosioni prodotte da sistemi binari di stelle in cui una nana bianca, il residuo di una stella simile al Sole al termine della sua evoluzione, sottrae materia a una stella gigante rossa compagna. Questo processo, noto come accrescimento, porta all’accumulo di materiale sulla superficie della nana bianca fino a quando pressione e temperatura diventano sufficientemente elevate da innescare una colossale esplosione termonucleare. Tale evento provoca il brillamento del sistema binario, dando origine a quella che viene definita, appunto, “nova”.


Illustrazione artistica che mostra un’esplosione di nova in un sistema binario di stelle costituito da una nana bianca e una gigante rossa. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/M. Garlick, M. Zamani

Esistono due principali tipologie di nove: le nove classiche, che esplodono una sola volta su scale temporali relativamente lunghe, e le nove ricorrenti, che si manifestano periodicamente a intervalli regolari di anni o decenni. Mentre nella Via Lattea sono state individuate meno di una dozzina di nove ricorrenti, nelle galassie esterne il loro numero risulta significativamente più elevato. Un esempio di nova ricorrente extragalattica è Lmc 1968-12a, alias Lmc68: la prima di questo tipo a essere scoperta. Situata nella Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea, Lmc68 presenta un intervallo di esplosione di circa quattro anni, il terzo più breve tra le nove conosciute. La sua prima esplosione osservata risale al 1968, mentre l’evento più recente si è verificato nell’agosto del 2024.

Utilizzando il telescopi cileni Gemini South e Magellan Baade Telescope, un team di ricercatori guidati dalla Keele University, nel Regno Unito, ha studiato per la prima volta questa nuova esplosione alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso, raccogliendo dati fondamentali sulle sue caratteristiche. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Gli astronomi hanno osservato Lmc68 rispettivamente 8 e 22 giorni dopo l’esplosione. Per farlo hanno utilizzato lo spettrografo Flamingos-2 montato sul telescopio Gemini South e lo spettrografo Fire del Magellan Telescope. Grazie a queste indagini, è stato possibile analizzare la fase ultra-calda della nova, durante la quale gli elementi presenti nel materiale espulso vengono altamente energizzati. Dall’analisi degli spettri ottenuti, è emerso un segnale particolarmente intenso prodotto da specifici atomi ionizzati. In particolare, i ricercatori hanno identificato la firma dell’emissione di atomi di silicio privati di nove dei loro quattordici elettroni, un processo che richiede un’energia estremamente elevata.

Oltre a questa peculiare riga di emissione del silicio ionizzato – che dà conto dell’elevata luminosità del brillamento, pari a 95 volte quella del Sole a tutte le lunghezze d’onda -– gli spettri hanno mostrato un’altra caratteristica che ha lasciato gli scienziati sorpresi: l’assenza di firme prodotte da altri elementi pesanti ionizzati. Negli spettri di emissione delle nove osservate nella Via Lattea sono generalmente presenti righe di emissione dello zolfo, del fosforo, del calcio e dell’alluminio, ma negli spettri di Lmc68 l’unica riga visibile era quella del silicio ionizzato [Si X]. Per gli scienziati, questi risultati indicavano una cosa soltanto: una temperatura eccezionalmente elevata del gas esploso.

«Questa sorprendente assenza, combinata con la presenza della forte firma del silicio, implica una temperatura del gas insolitamente alta, che la nostra modellazione ha confermato», dice a questo proposito Sumner Starrfield, scienziato dell’Arizona State University e co-autore dello studio.


Grafico che mostra gli spettri nel vicino infrarosso di Lmc68 ottenuti con il telescopio Magellan Baade (in rosso) e il telescopio Gemini South (in giallo) rispettivamente 8 e 22 giorno dopo l’esplosione del 2024 della nova (cliccare per ingrandire). L’emissione del silicio ionizzato intorno a 1.4 micron, che domina entrambe gli spettri, è evidenziata In azzurro. Crediti: International Gemini Observatory/Noirlab/Nsf/Aura/T. Geballe/J. Pollard

Le simulazioni condotte dai ricercatori indicano che, nella sua fase post-esplosione nota come fase coronale, la temperatura del gas espulso abbia raggiunto i tre milioni di gradi, un valore che rende Lmc68 una delle nove più calde mai registrate. Una temperatura così estrema implica un’esplosione particolarmente violenta, probabilmente legata alle particolari condizioni ambientali della galassia, sottolineano i ricercatori.

Ma quali condizioni? Una di queste potrebbe essere la metallicità della galassia. Rispetto alla Via Lattea, La Grande Nube di Magellano presenta una minore abbondanza di atomi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, elementi che gli astronomi chiamano metalli. Nei sistemi ad alta metallicità, gli elementi pesanti intrappolano il calore sulla superficie della nana bianca, favorendo esplosioni precoci durante l’accrescimento.

Nel caso della Grande Nube di Magellano, i ricercatori ipotizzano che la mancanza di questi elementi potrebbe determinare un maggiore accumulo di materia sulla nana bianca prima che la temperatura e la pressione raggiungano i valori critici per l’innesco della fusione termonucleare. Ciò potrebbe spiegare la violenza dell’esplosione di Lmc68. Inoltre, il gas espulso potrebbe aver interagito con l’atmosfera della stella compagna, generando un violento shock che potrebbe aver ulteriormente aumentato la temperatura dell’ambiente.

«Con solo un piccolo numero di nove ricorrenti rilevate all’interno della nostra galassia, la comprensione di questi oggetti è progredita in modo episodico», conclude Martin Still, responsabile dell’International Gemini Observatory. «Ampliando il numero di nove extragalattiche scoperte utilizzando grandi telescopi come il Gemini South, gli astronomi potranno accelerare il progresso della ricerca e comprendere meglio il comportamento di questi oggetti in ambienti chimici diversi».

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Così prendono forma i pianeti senza stella



Li chiamano oggetti rogue, termine inglese che può significare sia ribaldo, canaglia sia isolato, solitario. E in effetti si tratta di pianeti – o meglio, di oggetti di massa planetaria, nome in codice Pmo (planetary-mass objects) – che più asociali non si può: vagano per la galassia senza alcuna stella attorno alla quale orbitare. Sulle loro origini è mistero fitto, ma ora un team d’astronomi guidato da Deng Hongping dello Shanghai Astronomical Observatory (Cina), utilizzando simulazioni avanzate, ha mostrato un possibile processo di formazione per questi enigmatici oggetti, basato sulle interazioni tra dischi interstellari nei giovani ammassi di stelle. Il risultato è stato pubblicato il mese scorso su Science Advances.


Questa regione di formazione stellare di un milione di anni contiene migliaia di nuove stelle e centinaia di oggetti di massa planetaria. Crediti: Nasa, Esa, Csa /M. McCaughrean, S. Pearson

Pur avendo origini oscure, l’esistenza dei Pmo è ben nota. Si tratta di corpi celesti spesso osservati in giovani ammassi stellari, come quello del Trapezio nella costellazione di Orione. Sono oggetti con masse inferiori a tredici volte quella di Giove che vagano liberamente nello spazio, non essendo legati, appunto, ad alcuna stella. Precedenti teorie riguardo la loro origine affermavano che i Pmo potessero essere nane brune o pianeti eiettati dal proprio sistema solare, ma questi modelli non riescono a spiegare il loro grande numero, il fatto che vengano frequentemente osservati in accoppiamenti binari e il loro moto sincronizzato con le stelle all’interno dell’ammasso.

«I Pmo non si lasciano incasellare in alcuna categoria esistente di stelle o pianeti», osserva Deng. «Le nostre simulazioni mostrano che probabilmente si formano attraverso un processo completamente diverso, legato alle dinamiche caotiche dei giovani ammassi stellari».

Usando simulazioni idrodinamiche ad alta risoluzione i ricercatori hanno ricreato gli incontri ravvicinati tra due dischi circumstellari, le corone rotanti di gas e polvere che circondano le giovani stelle. Quando i dischi collidono – avvicinandosi, a velocità di 2-3 km/s, fino a distanze di 300-400 unità astronomiche – le loro interazioni gravitazionali stirano e comprimono il gas in “ponti mareali” elongati. Questi ponti collassano in densi filamenti destinati a frammentarsi in nuclei compatti una volta raggiunta una massa critica, producendo Pmo con masse circa dieci volte quella gioviana.


Rappresentazione della formazione di Pmo binari attraverso gli incontri di dischi circumstellari. Crediti: Deng Hongping

Lo studio ha mostrato che fino al 14 per cento degli oggetti di massa planetaria si forma in coppie o triplette, con una separazione tra le 7 e 15 unità astronomiche, spiegando così l’elevato tasso di Pmo binari in alcuni ammassi. Negli ambienti densi degli ammassi, inoltre, gli incontri fra dischi circumstellari sono frequenti, dunque possono arrivare a generare centinaia di Pmo, e questo contribuisce a giustificare il grande numero osservato di questi oggetti.

Oltre a suggerire una nuova ipotesi riguardo la nascita di questi strani corpi celesti, la ricerca ha dato un’interpretazione alla particolare composizione chimica dei Pmo. Essi, infatti, ereditano materiale dalle regioni più esterne dei dischi circumstellari, finendo così per avere una composizione unica, che riflette quella delle zone periferiche povere di metalli dei dischi, dove gli elementi pesanti sono scarsi. È stato inoltre osservato che molti Pmo sono circondati da dischi gassosi, fino a 200 unità astronomiche di diametro, suggerendo la possibilità che attorno a questi oggetti ribelli possano formarsi lune o addirittura pianeti.

«La scoperta ridisegna in parte il modo in cui vediamo la diversità cosmica», dice uno dei coautori dello studio, Lucio Mayer dell’Università di Zurigo. «I Pmo potrebbero rappresentare una terza classe di oggetti, nati non dalla materia prima delle nubi di formazione stellare o da processi di costruzione planetaria, ma piuttosto dal caos gravitazionale delle collisioni dei dischi».

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Cattura anche tu un radio burst solare



Immaginate di poter contribuire in prima persona alla scoperta dei misteri del Sole, l’affascinante e complessa stella al centro del nostro sistema planetario. Con il progetto “Solar Radio Burst Tracker”, dedicato all’analisi dei burst solari di tipo III e disponibile sulla piattaforma di citizen science Zooniverse, è ora possibile. Provenienti dall’atmosfera del Sole e dallo spazio interplanetario, i burst radio solari offrono un’opportunità unica per comprendere come il Sole rilascia energia e particelle nello spazio. Passando al setaccio i dati inviati a terra dalla sonda Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea, raccolti attraverso lo strumento Radio & Plasma Waves (Rpw), i partecipanti al progetto avranno il compito di identificare questi segnali contribuendo così a creare il catalogo più completo mai realizzato.


La schermata iniziale del progetto “Solar Radio Burst Tracker” sulla piattaforma Zooniverse

La campagna, ideata da Aikaterini Pesini e Antonio Vecchio della Radboud University (Nijmegen, Paesi Bassi) insieme ad alcuni colleghi dell’Observatoire de Paris e dell’Inaf di Roma, prenderà il via la prossima settimana, dalle ore 15:00 di martedì 11 marzo. Ne parliamo con Monica Laurenza, prima ricercatrice Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’Inaf di Roma, coinvolta nell’iniziativa.

Qual è lo scopo del vostro progetto? E come vi è venuta l’idea di aprirlo alla citizen science?

«L’obiettivo di “Solar Radio Burst Tracker”, nell’ambito di Zooniverse, è creare per la prima volta un catalogo completo di radio burst solari di tipo III, utilizzando dati dallo spazio che permettono di osservare frequenze non visibili da terra. Sebbene siano stati fatti degli studi per rilevare automaticamente questi burst, gli algoritmi attuali hanno difficoltà a identificare i segnali più deboli o più complessi. L’iniziativa è nata pensando che la partecipazione del pubblico potesse aiutare a risolvere questo problema. Chiediamo alle persone di identificare le regioni degli spettri in cui sono visibili i burst solari, consentendoci di creare un catalogo affidabile. Tale catalogo, che sarà reso pubblico, rappresenterà uno strumento prezioso per la fisica solare e per lo space weather – vale a dire la meteorologia spaziale».


Monica Laurenza, prima ricercatrice all’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali

Quale sarà il contributo scientifico di “Solar Radio Burst Tracker” alla ricerca sul Sole?

«I radio burst solari di tipo III sono strettamente connessi ai brillamenti solari, cioè improvvise e intense emissioni di luce su molte frequenze che avvengono durante le cosiddette eruzioni solari. In concomitanza dei brillamenti solari, vengono accelerate particelle molto veloci che viaggiano attraverso il mezzo interplanetario. Queste particelle interagiscono con il plasma circostante, producendo i radio burst che osserviamo. Il nostro progetto, tramite la realizzazione del catalogo dettagliato di questi burst, consentirà di studiare in maniera più approfondita il rilascio di energia nei brillamenti solari, i meccanismi alla base dell’accelerazione delle particelle e il modo in cui le onde radio viaggiano nello spazio. Questa ricerca permetterà di migliorare anche la nostra capacità di previsione degli eventi di space weather che possono influenzare e compromettere sistemi tecnologici e infrastrutture, le attività umane e la vita stessa».

Cosa devono fare i partecipanti per contribuire al progetto?

«Anzitutto occorre andare sul sito di Zooniverse ed entrare nella sezione dedicata a “Solar Radio Burst Tracker”. Dopo aver completato un tutorial obbligatorio per imparare a identificare con precisione i burst di tipo III, l’identificazione vera e propria può iniziare cliccando su “Classify”. La pagina web del progetto fornisce anche ulteriori informazioni sulla scienza alla base dei burst di tipo III e offre uno spazio per domande e discussioni. Chi è interessato ad altri progetti di citizen science può creare un account per esplorare e rimanere aggiornato sui vari progetti in corso».

Qual è il contributo che può dare una comunità di appassionati rispetto a un team di esperti?

«Spesso si crede che la scienza sia distante e inaccessibile, ma in realtà è parte della vita di tutti. Progetti di citizen science come il nostro permettono di abbattere queste barriere consentendo a chiunque di contribuire a vere scoperte scientifiche. Gli esperti possono condividere le proprie conoscenze, formare volontari e suscitare curiosità, rendendo la scienza più fruibile e appassionante. Coinvolgere il pubblico comporta anche vantaggi unici. Mentre gli esperti offrono conoscenze specializzate e strumenti analitici, una vasta comunità di volontari può elaborare grandi quantità di dati più rapidamente e spesso individuare schemi o eventi rari che i sistemi automatizzati potrebbero non notare. Questa collaborazione ci consente di creare un catalogo di burst di tipo III dettagliato e accurato, cosa che sarebbe impossibile per un piccolo team di ricerca da solo».

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Cosa vi augurate che possa imparare – o scoprire – chi parteciperà al vostro progetto?

«Anzitutto speriamo che il pubblico impari a conoscere i burst radio solari [avviando il video qui sopra ne potete “sentire” uno grazie a una sonificazione, ndr] e gli obiettivi più ampi della nostra ricerca. Puntiamo a creare un maggiore interesse riguardo al Sole, la stella a noi più vicina, e una maggiore consapevolezza dei suoi effetti sull’ambiente terrestre e circumterrestre e delle ricadute sulla nostra società. Più in generale, coinvolgendo i partecipanti con dati scientifici reali, puntiamo a suscitare curiosità sul processo scientifico e a ispirare un interesse più profondo per la scienza nel suo complesso. Crediamo che coinvolgere il pubblico nella ricerca sia un modo potente per promuovere consapevolezza e pensiero critico, entrambi essenziali per comprendere il mondo che ci circonda e prendere decisioni informate».

Per la ricerca solare, invece, quale potrebbe essere l’apporto della citizen science?

«La speranza è di avanzare le nostre conoscenze della fisica solare e delle relazioni Sole-Terra sfruttando a pieno le potenzialità che derivano dalla grande mole di dati che le missioni in corso – e future – ci stanno fornendo. Il contributo del pubblico è fondamentale perché i sistemi automatici, basati ad esempio sul machine learning, hanno necessità di dati precompilati per essere addestrati e in alcuni casi, come lo studio in oggetto, non sono ancora abbastanza precisi nell’identificare tutte le caratteristiche delle emissioni radio».

Come vede il futuro della ricerca sul Sole? Quali scoperte ci attendono nei prossimi anni?

«Credo la ricerca sul Sole abbia un futuro brillante e pieno di scoperte. Siamo in una fase in cui le osservazioni continue da terra sono coadiuvate da molte missioni spaziali che forniscono dati in quantità e qualità senza precedenti. Inoltre, missioni di nuova generazione sono in fase concettuale o di design per essere lanciate nel prossimo futuro. La sonda Solar Orbiter ha da poco iniziato il suo viaggio fuori dal piano dell’eclittica e permetterà presto di osservare le regioni polari del Sole per la prima volta con diverse tipologie di strumenti. Questo consentirà di avanzare la nostra conoscenza sui meccanismi di generazione del campo magnetico del Sole. Inoltre, la presenza di sonde mai così vicino al Sole, quali Parker Solar Probe oltre a Solar Orbiter, in combinazione con gli osservatori da terra, può favorire la comprensione di fenomeni quali il riscaldamento della corona solare e dell’accelerazione delle particelle energetiche solari. Misure effettuate contemporaneamente da diverse sonde in diversi punti di osservazione consentiranno di capire l’evoluzione e la propagazione delle perturbazioni emesse dal Sole che investono la Terra e gli altri pianeti. Ne conseguirà una maggiore precisione nella previsione degli eventi di space weather per mitigarne gli effetti e proteggere il pianeta e la nostra società».



Due oggetti enigmatici nel Braccio del Centauro



Biologi e astrofisici discutono da tempo della possibilità che le molecole complesse alla base della vita sulla Terra siano state “importate” dallo spazio profondo. Uno dei siti di provenienza di queste molecole potrebbe essere rappresentato dai ghiacci interstellari. Si tratta di grani di dimensioni micrometriche che si formano nelle regioni più fredde e dense d’una galassia, tipicamente all’interno di nubi molecolari, per apposizione di atomi e molecole sulla superficie della polvere interstellare, particelle composte principalmente da carbonio, ossigeno, silicio, magnesio e ferro presenti nel mezzo interstellare. Poiché le reazioni chimiche che avvengono su substrati solidi sono molto più efficienti nel produrre molecole organiche complesse rispetto a quelle che avvengono allo stato gassoso, gli scienziati ritengono che i ghiacci interstellari siano cruciali per la formazione molecolare, funzionando di fatto da vere e proprie fabbriche molecolari.


Illustrazione artistica della Via Lattea. I quadratini verdi sono le posizioni dei due oggetti interstellari stimate dai ricercatori. Crediti: Takashi Shimonishi et al., ApJ, 2025

Utilizzando i dati del satellite a infrarossi Akari, nel 2021 un team di astronomi ha scoperto due luminose regioni interstellari che presentavano profonde bande di assorbimento tipiche di questi ghiacci. La prima ipotesi considerata dai ricercatori fu che si trattasse di due nubi molecolari. Tuttavia, le successive analisi spettrali mostrarono che i due oggetti, situati nel piano galattico della Via Lattea, in direzione del Braccio del Centauro, non appartenevano a nessuna regione di formazione stellare nota, lasciando numerosi interrogativi sulla loro natura. Un team di ricerca guidato dall’Università di Niigata (Giappone) ha ora indagato a fondo le caratteristiche questi oggetti, confermando quanto suggerito dagli studi precedenti. La loro conclusione, riportata in un articolo pubblicato lo scorso mese sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal, è che i due corpi – chiamati dai ricercatori Oggetto 1 e Oggetto 2 – potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari.

Per studiare le proprietà dei due misteriosi oggetti gli scienziati hanno utilizzato Alma, la schiera di 66 antenne radio situate nelle Ande cilene. Utilizzando i dati di Alma, il team ha calcolato la distanza e studiato il movimento e la composizione chimica del gas molecolare associato ai due oggetti.

Le osservazioni nell’infrarosso condotte con il satellite Akari indicavano caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e delle polveri che sono spesso osservate in oggetti stellari giovani, stelle evolute che mostrano un’intensa perdita di massa o stelle luminose situate dietro dense nubi molecolari. Le indagini con Alma raccontano invece una storia diversa. La distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso dei due oggetti, la presenza di caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e della polvere, le dimensioni compatte della sorgente e l’ampia emissione molecolare dominata dall’ossido di silicio rilevata dai ricercatori non possono essere facilmente spiegate da nessuna delle sorgenti interstellare note che formano ghiaccio interstellare.

I risultati delle indagini suggeriscono che i due oggetti si trovano a circa 30mila e 40mila anni luce di distanza dalla Terra rispettivamente. Sarebbero oggetti isolati, caratterizzati da una forte emissione di monossido di carbonio e ossido di silicio, con un rapporto tra i due gas insolitamente alto. La rilevazione di ampie linee di emissione molecolare indica inoltre che questi oggetti sono associati a fonti di energia turbolente.


Le linee di emissione molecolare ottenute da Alma hanno consentito di stabilire la composizione dei due misteriosi oggetti (a sinistra). In alto a destra, lo spettro infrarosso, con bande d’assorbimento, relativo all’oggetto più in alto dell’immagine di sinistra osservato dal satellite Akrai. In basso a destra, posizione dei due oggetti ghiacciati nel piano galattico (immagine modificata dai dati di Gaia). Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), T. Shimonishi et al. (Niigata Univ.)

Le osservazioni hanno anche fornito informazioni sulle dimensioni dei due oggetti. Comparando i dati di Alma con quelli ottenuti dal satellite Akari, i ricercatori hanno scoperto che Oggetto 1 e Oggetto 2 hanno dimensioni comprese tra cento e mille unità astronomiche. Si tratta di dimensioni considerevoli, ma comunque più piccole rispetto a quelle tipiche delle tipiche regioni di formazione stellare.

Gli oggetti interstellari noti per essere associati alla formazione di ghiacci solitamente sono immersi in grandi quantità di polvere interstellare che li fa brillare intensamente nell’intervallo di lunghezza d’onda che va dal lontano infrarosso al sub-millimetrico. Le osservazioni di Alma non hanno rilevato alcuna radiazione sub-millimetrica provenire dai due oggetti. I due corpi, inoltre, hanno mostrato un’insolita distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso. Tutte queste caratteristiche, spiegano i ricercatoti, non sono compatibili con alcun oggetto noto in grado di formare ghiacci interstellari.

Ma cosa potrebbero essere, allora, Oggetto 1 e Oggetto 2? Come anticipato, l’ipotesi dei ricercatori è che si tratti di oggetti interstellari di un tipo precedentemente sconosciuto.

«Studio i ghiacci interstellari da quasi 18 anni, ma questi due oggetti mi hanno lasciato perplessa», sottolinea il primo autore dello studio, Takashi Shimonishi, della Niigata University. «In quanto diversi da qualsiasi altra sorgente nota associata alla formazione di ghiacci interstellari, le due regioni potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari al cui interno c’è un ambiente favorevole alla formazione di ghiacci e molecole organiche».

La vera natura di questi due oggetti interstellari compatti e isolati rimane al momento ancora sconosciuta, concludono gli autori. Tuttavia, nuove osservazioni ad alta risoluzione del gas associato ai due oggetti condotte con Alma, insieme a studi più dettagliati dei ghiacci e delle polveri che li costituiscono con il telescopio spaziale James Webb, potrebbero aiutare a svelare il mistero.

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Lune che nascono dalle polveri



Essendo nati in un sistema planetario di mezza età – il Sole ha ormai 4,5 miliardi di anni – siamo costretti a immaginarne l’origine ricostruendo la storia a posteriori, cercando indizi e tracce provenienti dal passato come degli archeologi dello spazio. Oppure, e questo forse ci regala uno strumento in più rispetto agli archeologi, possiamo guardare cosa succede in sistemi planetari che vediamo formarsi proprio ora, e scoprire per esempio come si formano le lune attorno ai pianeti più giovani. È quanto ha fatto un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona, osservando due giovani pianeti in orbita attorno a Pds 70 – una stella molto giovane di circa 5 milioni di anni nella costellazione del Centauro, a 370 anni luce dalla Terra – e vedendo anelli di polvere che circondano pianeti appena nati. L’articolo è pubblicato su The Astronomical Journal.


Ciambelle di polvere: illustrazione artistica del sistema Pds 70 con i suoi due protopianeti, ciascuno circondato da anelli di polvere illuminati dalla luce stellare. I pianeti stessi (non in scala) hanno sottili anelli di plasma riscaldati a circa 14 mila gradi, che brillano alla linea di emissione rossa della luce H-alfa. Crediti: Emmeline Close e Laird Close

Per come è raccontata qui sopra, sembrerebbe una procedura lineare e semplice: si sceglie una stella giovane attorno alla quale si è visto un sistema planetario altrettanto giovane, magari appena formato, e si osservano nel dettaglio i pianeti per vedere come sono fatti e, appunto, se stanno sviluppando delle lune. La verità, però, è che fino a pochi anni fa una frase simile avrebbe fatto sorridere qualunque astrofisico, perché la tecnologia non consentiva affatto di raggiungere un simile dettaglio nelle osservazioni. Al massimo si poteva pensare di avvicinarsi alla risoluzione richiesta usando un telescopio spaziale, o sperando nell’arrivo di giganti come Webb, ma certamente era un’operazione impensabile da fare con gli strumenti a terra. Invece, e qui sta la notizia nella notizia, la stella Pds 70, i suoi pianeti e gli anelli di polvere attorno ad essi sono stati osservati con uno strumento chiamato Magellan Adaptive Optics Xtreme, o MagAo-X, situato ai telescopi Magellano di 6,5 metri di diametro dell’Osservatorio di Las Campanas, in Cile. Nemmeno i più grandi che ci siano.

Si tratta, come dice il nome stesso, di un sistema di ottica adattiva: uno specchio deformabile che cambia forma rapidamente (si potrebbe dire in tempo reale) e corregge la distorsione atmosferica in un modo che ricorda il modo in cui le cuffie a cancellazione attiva filtrano il rumore. Le immagini che si riescono a ottenere con questo sistema ottico superano addirittura la risoluzione di telescopi spaziali come Hubble o James Webb. In pratica, annulla il grosso svantaggio di rimanere sulla Terra invece di osservare dallo spazio, ovvero corregge le turbolenze dell’atmosfera che degradano le osservazioni astronomiche. In pratica, il sistema elimina lo “scintillio” delle stelle, consentendo al telescopio di produrre immagini che rivaleggiano con quelle di un telescopio ottico spaziale.

«La forma dello specchio cambia così velocemente che sarebbe come modificare la regolazione ottica di un occhiale da vista duemila volte al secondo», spiega Laird Close, professore di astronomia all’Osservatorio Steward, nel College of Science dell’Università di Los Angeles, e primo autore dell’articolo. «Poiché la nostra tecnologia elimina le perturbazioni dell’atmosfera, è un po’ come prendere lo specchio di un telescopio di 6 metri e mezzo e metterlo nello spazio con un clic del mouse. Per darvi un’idea della risoluzione, immaginate me a Phoenix e voi a Tucson [circa 180 km, la distanza che separa Roma da Napoli, ndr], e con MagAo-X sareste in grado di vedere se sto tenendo in mano una moneta da un quarto di dollaro o due».

Close e coautori ritengono che il Sistema solare, ai tempi della sua nascita, potesse assomigliare a una versione più piccola del sistema planetario Psd 70. La stella osservata, infatti, è circondata un disco gigante a forma di pancake (gli astronomi usano spesso questo termine per descrivere oggetti celesti) di gas e polvere, interrotto però da un’ampio vuoto di polveri nel mezzo, sintomo della presenza di pianeti. «Più pianeti massicci agiscono come scope o aspirapolvere», continua Close. «In pratica disperdono la polvere e ripuliscono il grande vuoto che osserviamo in questo grande disco che circonda la stella».

È davvero raro riuscire a vedere pianeti nascenti, in gergo protopianeti, come Pds 70 b e c (quelli che orbitano attorno a Pds 70), e questi sono gli unici noti agli astronomi su cinquemila esopianeti confermati. Hanno solo cinque milioni di anni, contengono già diverse volte la massa di Giove e non hanno ancora finito di crescere. Lo si capisce, ancora una volta, dalle osservazioni condotte con MagAo-X. Quando i pianeti guadagnano massa dalla nube di gas e polvere che circonda la giovane stella (il disco protoplanetario), “cascate” di idrogeno gassoso cadono su di loro, facendo brillare i pianeti a una precisa lunghezza d’onda che gli astronomi chiamano H-alfa, emessa proprio dall’idrogeno gassoso quando si trova in uno stato eccitato provocato dall’urto del gas che colpisce la superficie del pianeta.

Ricapitolando, quindi, osservando il sistema planetario attorno alla stella Pds 70 con i telescopi Magellano, in Cile, con un filtro che ha selezionato la lunghezza d’onda H-alpha emessa da un processo che avviene tipicamente nei protopianeti e rimuovendo il rumore grazie al nuovo strumento di ottica adattiva MagAo-X, i ricercatori sono riusciti a vedere per la prima volta gli anelli di polvere che circondano i protopianeti. Polvere che, nei prossimi milioni di anni, probabilmente collasserà formando delle lune attorno a ciascuno di questi. E c’è di più: i ricercatori hanno visto uno dei pianeti (Pds 70 b) ridursi a un quinto della sua luminosità originale nell’arco di soli tre anni, mentre l’altro (Pds 70 c) è raddoppiato, come se fosse cambiata drasticamente la quantità di idrogeno gassoso che cade su entrambi. Un’osservazione che, per ora, rimane senza spiegazione, ma che sicuramente avrà creato un precedente, considerando che MagAo-X ha dato vita a un nuovo modo osservativo dalla terra.

«Uno dei nostri obiettivi principali era dimostrare quanto bene si possano fare queste osservazioni con i telescopi a terra», conclude Jared Males, principal investigator di MagAo-X e coautore dell’articolo. «Possiamo costruire grandi telescopi più facilmente a terra che nello spazio, e questo risultato dimostra quanto sia importante costruire la prossima generazione di telescopi ancora più grandi e dotarli di strumenti come MagAo-X».

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Due giorni con Simp 0136, solitario e mutevole




Rappresentazione artistica dell’oggetto celeste “solitario” Simp 0136. Crediti: Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)

Simp 0136 è un gigante gassoso, molto gigante e molto gassoso. E assai peculiare. Anzitutto, a differenza di Giove e Saturno, non vive in un condominio planetario come il nostro Sistema solare, ma se ne sta isolato, per i fatti suoi, a circa vent’anni luce da noi, in direzione della costellazione dei Pesci. Senz’alcuna stella attorno alla quale orbitare. Anzi, forse è lui stesso la “stella”: la sua importante massa – oltre 13 volte quella di Giove – lo colloca infatti sull’incerta zona di confine fra pianeti e nane brune.

Gigante e solitario, senza alcuna fonte di luce nei dintorni che accecando l’osservatore ne pregiudichi la visibilità, è dunque un soggetto ideale per essere studiato dai telescopi, complice anche la distanza relativamente ridotta che lo separa da noi. Hanno puntato lo sguardo su di lui molti telescopi da terra. Lo hanno fatto dallo spazio i due osservatori della Nasa Hubble e Spitzer. E ora anche il telescopio spaziale Webb, che non l’ha perso di vista per due “giorni” interi, vale a dire per quasi cinque ore, considerando che un giorno, là su Simp 0136, dura poco più di 140 minuti. Collezionando con NirSpec (lo spettrografo nel vicino infrarosso di Webb) migliaia di spettri da 0.6 a 5.3 micron – uno ogni 1.8 secondi per più di tre ore, mentre Simp 0136 compiva una rotazione completa. E immediatamente dopo, durante una successiva rotazione, acquisendo centinaia d’altre misure spettroscopiche – una ogni 19.2 secondi, questa volta con lo strumento Miri (sensibile al medio infrarosso), da 5 a 14 micron. Scoprendo così un altro tratto peculiare di questo eremita celeste: la varietà della sua composizione atmosferica.

Le centinaia di curve di luce dettagliate raccolte da Webb mostrano infatti, per ciascuna lunghezza d’onda, come la luminosità cambia man mano che l’oggetto ruota. Per capire il motivo di questa variabilità, il team che ha compiuto le osservazioni si è avvalso di modelli atmosferici, così da individuare la regione atmosferica d’origine delle emissioni alle diverse lunghezze d’onda. «Le diverse lunghezze d’onda forniscono informazioni sulle diverse profondità dell’atmosfera», spiega Allison McCarthy, dottoranda alla Boston University e prima autrice dello studio che riporta questa settimana i risultati delle osservazioni su The Astrophysical Journal Letters. «Abbiamo iniziato a capire che le lunghezze d’onda con forme delle curve di luce fra loro più simili erano anche riconducibili alle stesse profondità, rafforzando così l’idea che a causarle sia lo stesso meccanismo».


Queste curve di luce mostrano la variazione di luminosità di tre diverse serie di lunghezze d’onda della luce nel vicino infrarosso proveniente dall’oggetto isolato di massa planetaria Simp 0136 durante la sua rotazione. Il diagramma a destra illustra la possibile struttura dell’atmosfera di Simp 0136, con le frecce colorate che rappresentano le stesse lunghezze d’onda della luce mostrate nelle curve di luce. Le frecce spesse rappresentano più luce, le frecce sottili meno luce. Crediti:
Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)

Il gruppo di lunghezze d’onda indicato nell’infografica qui sopra in colore rosso, per esempio, ha origine in strati profondi dell’atmosfera, dove potrebbero esserci nubi a chiazze composte da particelle di ferro. Un secondo gruppo, quello in giallo, proviene da nubi più alte, che si pensa siano costituite da minuscoli grani di minerali silicati. Le variazioni in entrambe le curve di luce sono dunque legate alla disomogeneità degli strati di nubi. Un terzo gruppo di lunghezze d’onda, qui rappresentato dal colore blu, ha invece origine ad altissima quota, molto al di sopra delle nubi, e sembra seguire l’andamento della temperatura.

Ci sono poi anche alcuni hot spot – “punti caldi” luminosi – che potrebbero essere collegati alle aurore, rilevate in precedenza a lunghezze d’onda radio, oppure alla risalita di gas caldo da zone più profonde dell’atmosfera. Non mancano, infine, curve di luce il cui andamento non può essere spiegato né dalla presenza di nuvole né dal variare della temperatura, esibendo piuttosto cambiamenti che potrebbero essere dovuti alla presenza, in atmosfera, di sacche di monossido di carbonio e anidride carbonica che entrano ed escono dalla visuale, oppure a reazioni chimiche che alterano l’atmosfera nel corso del tempo.

«La chimica ancora ci sfugge», ammette la principal investigator del programma osservativo condotto con Webb, Johanna Vos, del Trinity College di Dublino. «Ma si tratta di risultati davvero entusiasmanti, perché ci mostrano che le abbondanze di molecole come il metano e l’anidride carbonica potrebbero cambiare da un luogo all’altro e nel tempo. Se stiamo dunque osservando un esopianeta e possiamo ottenere una sola misurazione, dobbiamo mettere in conto che potrebbe non essere rappresentativa dell’intero pianeta».

Per saperne di più:



Al via la quarta edizione di “Donne fra le stelle”




La locandina dell’iniziativa

Donne spaziali che apriranno le porte dei loro mondi di ricerca nel settore astrofisico, aerospaziale e astronautico in una conferenza di due giorni a cavallo proprio dell’8 marzo. Anche quest’anno l’evento “Donne fra le stelle”, giunto alla sua quarta edizione, si terrà ad Abano Terme, in provincia di Padova, al teatro “Pietro D’Abano”.

«Per sfatare lo stereotipo che la scienza non sia un mestiere per donne ci vogliono modelli di ruolo che dimostrino che è possibile che le donne si realizzino e abbiano successo nelle carriere scientifiche e tecnologiche», dice a Media Inaf Patrizia Caraveo, astrofisica dell’Inaf e presidente del comitato scientifico dell’associazione “Donne fra le stelle”. «In altre parole, occorrono esempi di scienziate e ingegnere che sono perfettamente a loro agio nel loro ambiente di lavoro e che sono felici di condividere il loro entusiasmo. Per questo, “Donne fra le stelle” darà voce ad astronaute, astrofisiche, geofisiche, ingegnere aerospaziali e ricercatrici per fornire una panoramica che spazia dallo studio del nostro pianeta, con particolare attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico, allo studio dell’universo e all’esplorazione umana dello spazio. Le relatrici mostreranno l’impegno e i risultati delle donne in un settore tradizionalmente dominato dalla presenza maschile per dimostrare che la ricerca, la tecnologia, l’esplorazione non hanno genere».

E, se non si può fare a meno di notare che una conferenza interamente dedicata al ruolo delle donne nel settore astrofisico e spaziale si svolga proprio a cavallo dell’8 marzo, scorrendo il programma salta subito agli occhi come anche l’organizzazione degli argomenti rispecchi temi di grande attualità: la prima giornata si apre con una mattinata dedicata ai temi dell’ambiente, delle variazioni climatiche e dell’ecologia spaziale. Si parlerà di qualità dell’aria che respiriamo, di innalzamento delle temperature, ma anche di costellazioni di satelliti, spazzatura spaziale e legislazione spaziale. E proprio alla gestione dello spazio è dedicata la sessione pomeridiana, che tratterà i temi dell’esplorazione umana dello spazio, della possibilità di creare colonie e insediamenti a lungo termine portando ad esempio l’agricoltura fuori dalla Terra; ma anche di architettura spaziale, e del Sole, la stella che permette la vita sulla Terra e l’unica che abbiamo per poterla salvaguardare, la vita. Entrambe le sessioni si chiuderanno con la presentazione di un libro sull’argomento: il mattino, Ecologia spaziale, l’ultimo libro di Patrizia Caraveo; il pomeriggio, Due soli nel Sole, la stella a noi più cara fra verità scientifiche e fantasie, di Francesco Veltri. Sabato 8 marzo è giornata di premiazioni: alle 10 verrà consegnato ad Amalia Ercoli Finzi il premio “Donne fra le stelle”, mentre il pomeriggio, dopo una sessione dedicata all’esplorazione del cosmo e alle nuove tecnologie, ci sarà la consegna del premio nazionale “Rossella Panarese”, giunto alla seconda edizione e dedicato alla giornalista scientifica di Rai Radio3Scienza scomparsa nel 2021.

«Sono molto felice di poter contribuire a “Donne fra le stelle”, un evento rivolto al grande pubblico che mira a far conoscere il contributo delle donne all’attuale comprensione della fisica dell’universo», dice a Media Inaf Viviana Casasola, ricercatrice all’Inaf di Bologna e relatrice durante la seconda giornata dell’evento. «Presenterò alcuni dei miei risultati scientifici con l’obiettivo di condividere la conoscenza e la bellezza del cosmo, ma anche di incoraggiare le giovani e i giovani a inseguire i propri sogni senza farsi scoraggiare dalle difficoltà che inevitabilmente incontreranno».

Due giorni vivaci e molto vari, con partecipazione libera, di cui trovate informazioni più dettagliate sul sito web dell’iniziativa e nel programma qui sotto.


Il programma dettagliato (cliccare per ingrandire) della quarta edizione di “Donne fra le stelle”, che si terrà il 7 e l’8 marzo ad Abano Terme (Pd), al Teatro Marconi

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Quando attraversammo la Nebulosa di Orione




Immagine della costellazione di Orione prodotta con Stellarium, un software gratuito e open-source. Le sue stelle principali sono collegate da linee rette blu e alcune di esse sono etichettate con il loro nome. La Nebulosa di Orione, detta anche M 42, è identificata dal quadrato rosso. Crediti: Stellarium (Gnu); Efrem Macon

Il Sistema solare non sta mai fermo: è in continuo movimento attorno al centro della Via Lattea. E questo suo peregrinare fa sì che interagisca con svariati ambienti galattici, incluse regioni gassose molto dense. Incontri che possono comprimere l’eliosfera, la bolla protettiva del sistema planetario, potenzialmente esponendo l’atmosfera terrestre alla polvere interstellare.

Utilizzando osservazioni spettroscopiche e dati ottenuti dalla missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un team di ricercatori guidato dall’Università di Vienna ha scoperto che, in un’epoca compresa tra 14.8 e 12.4 milioni di anni fa, il Sistema solare – attraversando l’Onda di Radcliffe, una struttura sottile e vasta, formata da regioni di formazione stellare interconnesse tra loro – ha solcato anche la grande nube molecolare del complesso di Orione.

«Questa regione è facilmente osservabile dall’emisfero nord durante l’inverno e dall’emisfero sud durante l’estate», dice João Alves, professore di astrofisica all’Università di Vienna e coautore di uno studio che il mese scorso, su Astronomy & Astrophysics, riporta il risultato. «Guardate verso la costellazione di Orione e la nebulosa di Orione: il Sistema solare proviene da quella direzione!»

«Immaginatelo come una nave che salpa attraverso mari dalle condizioni molto differenti. Quando il Sole ha attraversato l’Onda di Radcliffe, nella costellazione di Orione, ha incontrato una regione ad alta densità gassosa», aggiunge il primo autore dello studio, Efrem Maconi, dottorando all’Università di Vienna.

«Questa scoperta si basa sul nostro lavoro precedente che aveva l’obiettivo di individuare l’Onda di Radcliffe,» ricorda Alves. «Abbiamo attraversato la regione di Orione nel momento in cui ammassi stellari conosciuti, come Ngc 1977, Ngc 1980 e Ngc 1981 si stavano formando».

Lo studio evidenzia come l’incremento del flusso di polvere interstellare dovuto a questo incontro potrebbe aver causato svariati effetti. È possibile che essa abbia penetrato l’atmosfera terrestre lasciando tracce, nei registri geologici, di elementi radioattivi provenienti dalle supernove. Inoltre, una maggiore quantità di polvere potrebbe aver alterato il bilancio radiativo della Terra, con un conseguente effetto di raffreddamento. «Sebbene la tecnologia attuale non sia abbastanza sensibile per la rilevazione di queste tracce, futuri rilevatori potrebbero renderlo possibile», suggerisce Alves.

La ricerca del team indica che il passaggio del Sistema solare attraverso la regione di Orione avvenne circa 14 milioni di anni fa. Questo periodo temporale coincide con la transizione climatica del Medio Miocene, che fu un significativo spostamento da un clima variabile e caldo a un clima più freddo, portando alla riorganizzazione del clima terrestre e all’espansione della calotta glaciale antartica. Nonostante lo studio suggerisca la possibilità di un collegamento tra la traversata del Sistema solare nel vicinato galattico e l’influenza della polvere interstellare sul clima terrestre, gli autori enfatizzano la casualità della connessione e la necessità di ulteriori studi.


Rappresentazione dell’onda di Radcliffe. Le nubi che compongono questa struttura sono evidenziate in rosso e sovrapposte a un’illustrazione della Via Lattea. La posizione del Sole è evidenziata dal punto giallo. Crediti: Alyssa A. Goodman/Harvard University

«Anche se i processi fondamentali responsabili della transizione climatica del Medio Miocene non sono stati completamente identificati, le ricostruzioni disponibili suggeriscono che una diminuzione della concentrazione di anidride carbonica, il gas serra atmosferico, sia la spiegazione più probabile, sebbene esistano molte incertezze. Tuttavia, il nostro studio evidenzia come la polvere interstellare correlata al passaggio attraverso l’Onda di Radcliffe possa aver influenzato il clima del pianeta Terra e possa aver avuto un ruolo in questa transizione climatica. Per poter alterare il clima terrestre, la quantità di polvere extraterrestre presente sulla Terra dovrebbe essere molto maggiore di quanto suggeriscano i dati finora. Future ricerche approfondiranno il significato di questo contributo. È cruciale notare», sottolinea Maconi, «che questa passata transizione climatica e l’attuale cambiamento climatico non sono paragonabili, dal momento che la transizione climatica del Medio Miocene è avvenuta durante un periodo temporale durato centinaia di migliaia di anni, e l’attuale riscaldamento globale sta evolvendo a un ritmo senza precedenti, nell’arco di decenni o secoli, a causa delle azioni dell’uomo».

Questo studio è importante perché aggiunge un altro pezzo del puzzle che compone la storia del Sistema solare. «Siamo abitanti della Via Lattea», dice Alves. «La missione Gaia dell’Esa ci ha fornito i mezzi per tracciare il nostro percorso più recente nel mare interstellare, permettendo agli astronomi di confrontare le proprie conoscenze con geologi e paleoclimatologi. È davvero emozionante».

In futuro, il team guidato da Alves intende approfondire lo studio dell’ambiente galattico incontrato dal Sole durante il suo viaggio, e le possibili conseguenze sulla Terra.

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