Presentazione del libro “Cronache dal passato. Palermo 1860. Intrighi, Segreti. Misteri” a Villa Piccolo
Presentazione del libro di Anna Maria Corradini, presso Villa Piccolo a Capo d’Orlando.
Dialoga con l’Autrice Milena Romeo.
L'articolo Presentazione del libro “Cronache dal passato. Palermo 1860. Intrighi, Segreti. Misteri” a Villa Piccolo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Piano inclinato
O non se ne parla o ci si tiene sul vago. A scorrere i programmi dei partiti sembra che il solo problema legato al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) sia riuscire a spendere i soldi. C’è anche chi, dopo essersi speso nel criticare le istituzioni europee, ma volendo incassare la posta di quei fondi, pensa d’essere ficcante osservando che la parte prevalente è in prestito. Come se fosse un diritto avere regali, posto che ci sono anche soldi regalati, laddove non è un diritto neanche disporre di prestiti a tassi agevolati. Perché quel prestito lo riceviamo a un tasso, quindi un costo, nel tempo, inferiore a quello che paghiamo normalmente. Sottolineare che è un prestito segnala confusione d’idee. C’è dell’altro, a inclinare il piano.
Nel programma del centro destra si legge l’impegno (e vorrei vedere) al <<pieno utilizzo>> dei fondi europei, aggiungendo che, <<in accordo con la Commissione europea>>, taluni aspetti andranno rivisti. A dar voce a questo concetto è stata Giorgia Meloni. Come speso capita, alla ricerca di caratterizzarsi e con gli avversari alla ricerca dell’errore, le cose prendono a torcersi, tanto che Enrico Letta è intervenuto subito dopo dicendo che non si può rivedere l’impianto. Solo i dettagli, aggiunge Paolo Gentiloni, membro della Commissione. Fermi, state discutendo del nulla, perché: 1. che i piani possano essere rivisti, alla luce di cambiamenti intercorsi, è scritto nelle regole; 2. proprio per la natura dei cambiamenti non significa che modifichi il progetto, ma aggiusti l’attuazione; 3. se chi vuole aggiustamenti li propone in accordo con la Commissione, né potrebbe essere diversamente, state dicendo la stessa cosa, con il cipiglio di chi si rimbrotta.
Sarebbe bello e civile un impegno collettivo, coerente con i programmi presentati: affermiamo che chiunque vinca darà attuazione al Pnrr. Non lo diranno, troppo civile. Ma c’è dell’altro, su cui tacciono, che inclina ancor di più il piano.
Il tema non è (solo) quello degli impegni presi con le autorità europee, cui dobbiamo quelle disponibilità, venir meno ai quali sarebbe un micidiale rogo della credibilità nazionale. Il tema è che, fin dall’inizio, è stato chiarito che l’efficacia di quella imponente spesa, per investimenti, dipende dalla capacità e tempestività nell’accompagnarla con le riforme. Ed è qui che siamo messi male.
Perché se, in piena campagna elettorale, si parla di scuola con riferimento pressoché esclusivo a stabilizzazioni e stipendi, se si parla dei quattrini da spendere in digitalizzazione senza aggiungere un pensiero che sia uno sulla didattica digitale (ad esempio la valorizzazione degli insegnanti migliori, socializzando le loro lezioni, o facendo sparire il mercato assurdo dei libri di testo) butta male. Se si parla di fisco per dire che “deve diminuire la pressione fiscale”, concetto vacuo che può essere attributo a diversi, oppure per proporre flat tax con diverse aliquote, che è come volere millepiedi bipedi, o, ancora, per proporre patrimoniali e regalare salari costruiti con meno prelievi, senza una parola su coperture e costi, siamo messi male. Se si parla di pensioni non per equilibrare un sistema che contiene una terribile ingiustizia a carico dei giovani, ma per promettere di poterci andare prima e fregarli meglio, siamo messi peggio.
La politica latita proprio sulla parte di Pnrr che le compete, quella della produzione parlamentare e governativa. Serve a niente e significa anche meno affermare, come si legge in diversi programmi: occorre fare le riforme che gli italiani aspettano da anni. Primo, perché mi devi dire quali e come, chi ci perde e chi ci guadagna. Secondo, perché chi lo scrive si trova in quel posto da lunga pezza, sicché porta la sua parte di responsabilità per il tempo e i quattrini che si sono persi. Molte riforme non si sono fatte perché i “vincitori”, a destra e sinistra, erano diversi e avversari fra loro. Tal quale quello che ripropongono. E il piano diviene scosceso.
La Ragione
L'articolo Piano inclinato proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Gli Stati Uniti e l’influenza russa in America Latina
Come gli Stati Uniti dovrebbero rispondere all'influenza russa in America Latina. Washington ha bisogno di un piano a lungo termine per il reimpegno in America Latina
L'articolo Gli Stati Uniti e l’influenza russa in America Latina proviene da L'Indro.
Angola, elezioni 2022: una gara senza gara per l’MPLA
Le elezioni parlamentari di fatto presidenziali si preannunciano non corrette con l'MPLA al potere destinato a vincere
L'articolo Angola, elezioni 2022: una gara senza gara per l’MPLA proviene da L'Indro.
Piantare miliardi di alberi per combattere l’effetto serra
“Questo Ferragosto 2022 sarà ricordato sia per il caldo torrido che ha raggiunto temperature insostenibili, sopra i 40° provocando grande siccità, che per il vento assassino a 140 all’ora con trombe d’aria che hanno sconvolto vaste zone del nostro territorio: mai vista una cosa del genere!” : chi parla è Gianni, uno degli abitanti di Grassina, [...]
L'articolo Piantare miliardi di alberi per combattere l’effetto serra proviene da L'Indro.
Amazzonia. La compagnia petrolifera contro la creazione di riserve indigene
Survival International – Comunicato stampa
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La compagnia petrolifera anglo-francese Perenco sta premendo sul governo del Perù affinché sia cancellata la proposta di creazione di una riserva per le tribù incontattate del Napo-Tigre, nel nord dell’Amazzonia peruviana.
La compagnia vuole infatti poter continuare le sue attività di trivellazione nella zona, mettendo in estremo pericolo le tribù incontattate che vi vivono.
La compagnia diretta da François Perrodo, pilota automobilistico amatoriale e tra gli uomini più ricchi di Francia, conta una lunga storia di denunce per gravi danni all’ambiente e alle comunità locali, in Africa e in America Latina – e le sue operazioni sono notoriamente riservate.
La Perenco si oppone alla creazione della riserva Napo-Tigre da anni, e la recente istanza legale di opposizione alla creazione della nuova riserva non è un’azione isolata. Insieme ad autorità della regione di Loreto e a portatori di grandi interessi petroliferi e del gas, la compagnia è coinvolta anche in una campagna pubblica contro la creazione e protezione delle riserve indigene.
Ad esempio, in aprile hanno chiesto al governo di abrogare la legge nazionale per la protezione dei popoli indigeni in isolamento (conosciuta in Perù come legge PIACI); negano costantemente l’esistenza dei popoli incontattati; e, ai primi di agosto, il Governatore di Loreto ha scritto al governo chiedendo “l’annullamento dell’intero iter PIACI”.
François Perrodo incontra l’allora Presidente del Perù Alan Garcia. © Sepres
Le organizzazioni ORPIO, AIDESEP e Survival International hanno espresso la loro profonda preoccupazione in relazione a questi attacchi.
“La Perenco viola e disprezza i diritti umani dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in isolamento” ha dichiarato Apu Jorge Pérez, presidente di AIDESEP, l’Organizzazione indigena dell’Amazzonia peruviana.
Immagini aeree di case di popoli incontattati nell’area Napo-Tigre, Perù. © ORPIO
Il 25 luglio scorso, dopo anni di lotte da parte delle organizzazioni indigene, la Commissione incaricata della creazione della Riserva ha finalmente riconosciuto l’esistenza delle tribù incontattate di Napo-Tigre.
Un passo fondamentale per la tutela dell’area che ha richiesto quasi 20 anni e che oggi è messo a rischio dalla richiesta della Perenco e dalla campagna del governo regionale, compromettendo ancora una volta la sopravvivenza dei popoli incontattati, i più vulnerabili del pianeta.
“Adesso che ha finalmente riconosciuto in modo ufficiale l’esistenza delle tribù incontattate di Napo-Tigre, il Perù non può voltare loro le spalle” ha dichiarato Teresa Mayo, ricercatrice di Survival International. “Il governo ha l’obbligo di agire tempestivamente per la creazione e protezione della riserva. Non gli permetteremo di cedere di nuovo alle pressioni delle aziende, per quanto potenti siano.”
François Perrodo, direttore della compagnia Perenco, con una delle automobili della sua vasta collezione personale. © Facebook
– Survival ha scritto al Presidente di Perenco, François Perrodo, ma ad oggi non ha ottenuto risposta.
– Nel dicembre 2019, ORPIO e Survival hanno diffuso per la prima volta fotografie aeree dei popoli incontattati di Napo-Tigre, rendendo la loro esistenza innegabile. Inoltre, sono state presentate più di 400 prove scientifiche, tra cui anche dichiarazioni giurate di residenti locali.
– L’azienda Barrett Resources, che operava nel territorio di Napo-Tigre prima di Perenco, aveva confermato l’esistenza di tribù incontattate nella zona.
– La compagnia petrolifera spagnola Repsol si ritirò dall’area dopo un’indagine del Consiglio etico del Ministero delle Finanze norvegese che portò al ritiro degli investimenti fatti dal Fondo pensionistico nazionale norvegese nella compagnia, per violazioni dei diritti dei popoli incontattati. Ciò nonostante, il Perù ha assegnato nuovamente le concessioni sul lotto petrolifero, alla Perenco.
L'articolo Amazzonia. La compagnia petrolifera contro la creazione di riserve indigene proviene da Pagine Esteri.
GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.
Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.
Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).
Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.
Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili. Pagine Esteri
L'articolo GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen proviene da Pagine Esteri.
TURCHIA-SIRIA. Erdogan pronto a riconciliarsi con Assad. Damasco alza l’asticella
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 22 agosto 2022 – La protesta ad Al Bab e nel resto dei territori siriani occupati dalla Turchia va avanti già da un po’. Da quando il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha parlato della necessità che Damasco e l’opposizione raggiungano una soluzione politica e scrivano una nuova costituzione. Parole nuove per Ankara che, dopo il 2011, ha fatto di tutto abbattere il presidente Bashar Assad. Ha accolto tre milioni di profughi della guerra in Siria, ha finanziato e addestrato una milizia mercenaria siriana impiegandola anche in Libia e contro le popolazioni curde. Ha fatto della provincia siriana di Idlib una sorta di protettorato a disposizione di milizie anti-Assad di ogni tipo, anche jihadiste e qaediste. Ora, per la prima volta, teorizza una soluzione che lasci al potere il presidente siriano.
Erdogan sta mollando i «ribelli» siriani che per dieci anni lo hanno servito puntualmente ricevendo in cambio promesse di ogni tipo, a cominciare dall’abbattimento del «regime». Bashar Assad però ha resistito, grazie all’appoggio militare e politico di Vladimir Putin, alleato/avversario di Erdogan. È rimasto al potere e ha ripreso gran parte del territorio siriano. Ankara ha capito di aver perduto la battaglia. Così, imitando la politica estera di Putin prima della guerra contro l’Ucraina – amici di tutti, nemici di nessuno (ad eccezione di Kiev) –, Erdogan ora stringe la mano a tutti: agli ex rivali sauditi, agli influenti emiratini, ai monarchi del Golfo. E ha riallacciato pieni rapporti con Israele, per anni bersaglio dei suoi attacchi. Non è un mistero che il presidente turco, alle prese con una pesante crisi economica e il declino del suo partito Akp, spera di recuperare consensi grazie ai ricavi derivanti da possibili intese con Israele per portare gas all’Europa.
Che Ankara abbia passato il Rubicone è stato chiaro quando Bulent Orakoglu, editorialista del giornale Yeni Safak, molto vicino a Erdogan, ha descritto i siriani che protestano ad Azaz, Jarablus e Tal Abyad, non più come degli alleati, bensì come degli «individui con le mani sporche…provocatori espulsi a causa dei crimini che avevano commesso in Turchia e infiltrati del regime e del Pkk». La scorsa settimana lo stesso Erdogan rispondendo a una domanda sul dialogo con la Siria al ritorno dal vertice a Leopoli, ha affermato che «il dialogo politico e la diplomazia tra Stati non possono mai essere interrotti …Dobbiamo fare ulteriori passi con la Siria. Facendoli romperemo molti giochi nell’intera regione».
Si è riferito non solo all’aiuto Usa ai curdi siriani ma anche al coordinamento tra Damasco e i vertici delle Sdf curde avviato dopo la minaccia di un’altra offensiva turca nel Rojava. Da parte sua Bashar Assad alza l’asticella, vuole il ritiro totale delle forze turche di occupazione in Siria e non si sente obbligato a riconciliarsi con l’opposizione che per dieci hanno ha trovato ospitalità in Turchia e con le milizie armate e finanziate da Ankara. Putin, dopo il summit di Sochi del 5 agosto con Erdogan, gli ha chiesto di non opporsi a un possibile vertice con il leader turco. In una intervista, il presidente siriano ha replicato «Dico che non sarei onorato di farlo…Tuttavia se incontrarlo porterebbe risultati favorevoli alla Siria, allora va fatto». Assad in realtà il summit con Erdogan lo vuole, sa bene che la riconciliazione con la Turchia significherebbe per lui la vittoria definitiva.
Erdogan punta a demolire l’autogoverno curdo nel nord-est della Siria e ad avviare il rimpatrio dei rifugiati siriani che sono considerati un peso da molti turchi e che potrebbero pesare sul risultato del partito Akp alle elezioni del 18 giugno 2023. Vuole inoltre lungo il confine con la Siria un’ampia “zona di sicurezza” – così la chiamano in Turchia – sgomberata dalle Sdf. In gioco c’è la sopravvivenza politica di Erdogan. L’economia turca, il cui successo per lunghi anni ha favorito quello personale del presidente, è in caduta libera. Il risentimento contro i profughi è alle stelle e le aggressioni ai siriani sono sempre più frequenti. L’opposizione da tempo sostiene che non appena salirà al potere, “manderà a casa i siriani”, quindi, la normalizzazione con Assad è diventata quasi obbligata per Erdogan, se vuole alimentare di sue speranze di riconferma al potere. Pagine Esteri
L'articolo TURCHIA-SIRIA. Erdogan pronto a riconciliarsi con Assad. Damasco alza l’asticella proviene da Pagine Esteri.
La fame in Sri Lanka: una catastrofe che ci riguarda
di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 8 agosto 2022 – I distributori di carburante sono chiusi, le case e gli uffici restano al buio per molte ore al giorno. Nella capitale Colombo, fuori dalle farmacie i pazienti depennano dalla lista della spesa i farmaci ai quali possono rinunciare, per ognuno di quelli salvavita tirano un sospiro pensando al riso o al latte che per alcuni giorni non potranno permettersi. Tre persone su quattro, ogni giorno, sono costrette a saltare un pasto. Lo Sri Lanka è affondato in una disastrosa crisi economica, la peggiore dal 1948, anno della sua indipendenza.
Il debito estero ammonta a oltre 51 miliardi di dollari e lo Sri Lanka ha dovuto dichiarare il fallimento: le sue riserve di valuta estera sono esaurite. Lontano dai riflettori internazionali, un Paese di 22 milioni di abitanti, con una popolazione istruita e con un reddito pro-capite tra i più alti dell’Asia meridionale, è scivolato nella catastrofe, fino a dover dichiarare la bancarotta. L’Onu chiede “immediata attenzione globale” per la crisi economica del Paese.
I tre mesi neri dello Sri Lanka – La catabasi dello Sri Lanka è stata lenta e inesorabile. Il debito che cresceva, le coltivazioni che non producevano più a sufficienza beni di sussistenza, il carburante che scarseggiava insieme a tutti gli altri prodotti di importazione che il Paese non poteva più permettersi: negli ultimi tre mesi, la situazione è precipitata.
In notti concitate di telefonate e riunioni segrete, nel mese di aprile il gabinetto del premier Rajapaksa si è rapidamente svuotato. A dimettersi anche il governatore della banca centrale, da settimane impegnato a rifiutare le proposte di aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale. All’ennesima dimissione, quella del nuovo ministro delle finanze, nominato solo ventiquattro ore prima, è stato dichiarato lo stato di emergenza. Sono seguite settimane di proteste, i cittadini affamati raccolti nelle strade chiedevano pane, carburante e un nuovo governo: la polizia rispondeva con una repressione sempre più violenta, uccidendo almeno dieci manifestanti e ferendone centinaia. L’ordine era – e rimane – quello di sparare a vista contro “chiunque costituisca un pericolo”.
A inizio maggio è intervenuta l’Onu, allarmata dalla “crisi umanitaria” nel Paese, con il 75% della popolazione ridotta alla fame. Il 9 maggio, il primo ministro Mahinda Rajapaksa si è dimesso da primo ministro ed fuggito a Singapore. A luglio, anche il Presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, fratello dell’ex primo ministro, ha rassegnato le sue dimissioni ed è fuggito alle Maldive. Il palazzo presidenziale è stato preso d’assalto dai manifestanti, che si sono fatti immortalare mentre si tuffavano nelle sue piscine e mettevano a ferro e fuoco le sue camere da letto. Gli è succeduto un veterano della politica di Colombo, Ranil Wickremesinghe.
Il vecchio e il nuovo – Per decenni, lo Sri Lanka è stato amministrato da un governo ultranazionalista a conduzione familiare. Una vera dinastia, quella dei Rajapaksa, che ha controllato il Paese dal 2004. Mahinda Rajapaksa è stato Primo ministro nel 2004, poi Presidente per dieci anni, poi di nuovo Primo ministro dal 2018 al 2022. Suo fratello Gotabaya lo ha affiancato come Ministro della Difesa per un decennio e dal 2019 è stato Presidente. Due altri fratelli della famiglia Rajapaksa hanno ricoperto posizioni di potere nello stesso ventennio. Durante la guerra civile, i Rajapaksa furono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità a causa della violentissima repressione di cui furono autori contro la formazione ribelle delle Tigri Tamil. Su di loro, anche dopo la riappacificazione del Paese, continuarono ad allungarsi le ombre delle accuse di corruzione e di omicidi e sparizioni di oppositori politici, attivisti e giornalisti. Il soprannome di Gotabaya divenne “terminator”.
Dopo quasi diciott’anni al potere, a luglio la famiglia Rajapaksa è stata costretta ad abbandonare il Paese. Il popolo in rivolta accusava il governo di essere il responsabile della catastrofe dello Sri Lanka, a causa della corruzione e delle politiche economiche e agricole dei Rajapaksa di questi anni.
I nuovi volti al governo non sono, però, molto incoraggianti. Il nuovo Presidente, Ranil Wickremesinghe, non è certo un neofita: veterano dell’estrema destra, per sei volte primo ministro, protagonista della guerra civile e delle violenze contro i ribelli Tamil. Una storia molto familiare, per la popolazione. Fresco di nomina, come da tradizione Rajapaksa, ha scelto un suo vecchio amico come primo ministro, Dinesh Gunawardena, un fedelissimo del vecchio governo. Ha poi confermato lo stato di emergenza nel Paese: l’esercito è stato mandato nelle strade a reprimere nel sangue qualsiasi tentativo di protesta. Sul Paese è calato definitivamente il buio.
Le cause di una tragedia annunciata – I fratelli Rajapaksa sono considerati i prinicipali responsabili della crisi economica del Paese. La dinastia al potere ha accumulato debiti esteri, principalmente con Cina e India. Circa il 10 per cento del debito estero locale dello Sri Lanka è detenuto da Pechino, un creditore non certo affabile, che negli anni ha moltiplicato i suoi interessi e che adesso pretende risarcimenti immediati. Che Colombo non può certo offrire, dal momento che, dopo aver contratto la metà dei suoi debiti vendendo titoli di stato in valuta estera, se n’è trovato completamente sprovvisto. A inizio anno, degli oltre 51 miliardi di dollari che doveva restituire ai suoi creditori, le casse dello Sri Lanka ne possedevano a malapena uno.
Nelle mani dei Rajapaksa, tutto sembrava possibile in nome della liberalizzazione del mercato e dei fondi provenienti dai Paesi più ricchi: ai loro conoscenti venivano garantiti appalti per infrastrutture finanziate a suon di debiti. Adesso molte di loro sono ancora cantieri aperti, cattedrali a cielo aperto in un Paese alla fame.
Tra le cause della crisi, c’è poi la guerra russo-ucraina, che ha messo in crisi i Paesi ricchi ma ha completamente prostrato i Paesi a medio e basso reddito, che ancora stavano facendo i conti con le conseguenze della pandemia e addirittura della crisi economica del 2008. In Sri Lanka, l’emergenza da Covid19 aveva già determinato un danno disastroso all’economia, con un taglio netto a uno dei suoi settori principali, il turismo. La scarsità di materie prime, nel mercato di Colombo ormai completamente dipendente dalle importazioni, ha spinto le banche a contrarre nuovi vincoli con i suoi creditori.
La crisi dello Sri Lanka è, però, anche una crisi agro-alimentare, che affonda le sue radici ancora una volta nelle scelte dell’ex governo di Colombo ma che riguarda anche le nostre tavole, principalmente quelle dei ceti abbienti dell’Occidente democratico. Secondo molti studiosi, a rovinare irrimediabilmente il Paese è stata l’agricoltura biologica.
L’agricoltura biologica che affama i poveri – “Un’applicazione generalizzata del «bio» condannerebbe alla fame la maggioranza dell’umanità”, scriveva qualche settimana fa il giornalista Federico Rampini sulle pagine del Corriere, a proposito di quello che definiva “un piccolo, sporco segreto” della crisi dello Sri Lanka.
Nell’aprile del 2021, all’improvviso, letteralmente dalla sera alla mattina, il governo Rajapaksa annunciò la conversione dell’intero settore agricolo del Paese in agricoltura biologica. A consigliarlo in questa scelta erano stati indubbiamente i suoi soci economici orientali e occidentali, Paesi ricchi attratti dalle potenzialità di mercato dei prodotti biologici. La produzione “bio” attrae molto i ceti abbienti: i prodotti vengono coltivati senza l’uso di sostanze chimiche, non sono contaminati e non contaminano l’ambiente, costituiscono quindi una scelta salutista ed ecologica al tempo stesso. Un lusso virtuoso, in breve, ma adottarla su larga scala in un Paese povero può portarlo alla catastrofe.
E’ quello che è successo in Sri Lanka, dove da un giorno all’altro i contadini sono stati costretti a fare i conti con un nuovo sistema agricolo molto meno produttivo. Non potendo più usare fertilizzanti né pesticidi, i contadini hanno visto i loro campi impoverirsi a vista d’occhio. La produttività si dimezzava nelle loro mani, mentre il governo di Colombo continuava a pretendere il “bio”. Finché tre quarti della popolazione non hanno avuto più di che alimentarsi. Molto prima che il popolo si ribellasse contro la dinastia Rajapaksa, nelle strade erano gli agricoltori a manifestare, chiedendo di poter tornare ai metodi tradizionali di coltivazione e di “salvare il salvabile”. Non sono stati ascoltati.
Quando il governo si è reso conto delle proporzioni della catastrofe “bio”, era troppo tardi. In primavera, il primo ministro aveva annunciato che il Paese sarebbe tornato ad acquistare fertilizzante per l’agricoltura. Una promessa che aveva lasciato impassibili i contadini: non c’era più denaro, in Sri Lanka, neppure per il fertilizzante.
Nella morsa del Fondo Monetario – Per un Paese della nuova via della seta come lo Sri Lanka, i creditori preferenziali sono sempre stati la Cina e l’India. Miliardi di debito sono stati accumulati da Colombo prima che si rendesse conto di non poterli restituire, né di poter fare fronte ai pesantissimi tassi di interesse di Pechino. Sono serviti mesi di proteste, morti per le strade, una crisi di governo e un’intera popolazione in emergenza umanitaria perché Colombo guardasse davanti a sé, verso l’enorme mostro dei propri creditori esigenti.
Per anni il Paese ha rifiutato il dialogo con Il Fondo Monetario Internazionale, ma secondo la nuova leadership non sembrano più esserci alternative. Un inverno cupo si prepara. Come annunciato dai portavoce del governo, la posizione dello Sri Lanka al tavolo delle trattative con il Fondo Monetario Internazionale non potrà che essere di estrema inferiorità e vulnerabilità. Per risanare la sua situazione economica, il Paese sarà costretto ad accettare qualsiasi condizione: privatizzazioni su larga scala, tagli alla previdenza sociale, sudditanza agli interessi delle economie di Stati Uniti ed Europa occidentale. I debiti saranno, insomma, pagati come sempre dagli ultimi, che ne usciranno soltanto più poveri e affamati.
Mai così vicino – Le dimensioni umane della tragedia che il Paese sta affrontando ci coinvolgono senz’altro, ma non è solo per questo che la “catastrofe Sri Lanka” potrebbe insegnarci molto e metterci in guardia. Sul disastro del “biologico”, ad esempio: un lusso della sinistra benestante e al tempo stesso un pericolo umanitario per le economie più povere, se gestito in maniera sprovveduta.
Il caso Sri Lanka costituisce, poi, la punta di un iceberg immenso che la liberalizzazione dei mercati dei Paesi poveri, incoraggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha creato. La fame improvvisa di 21 milioni di persone potrebbe essere un campanello d’allarme potentissimo, se l’Occidente fosse pronto ad ascoltarlo.
Per anni il Paese ha accumulato debiti esteri da Paesi ricchi che li offrivano con tassi di interesse bassissimi, un miraggio per le economie più povere del mondo. I fondi dei creditori ricchi sono liberamente fluiti verso le economie “in crescita” del pianeta, inclusa quella di Colombo, che, però, al primo segnale di cedimento è stata lasciata completamente sola, con debiti e interessi improvvisamente altissimi da pagare.
“Considerato in questa luce, è chiaro che lo Sri Lanka non è solo; semmai, è solo un presagio di una tempesta in arrivo di sofferenza del debito in quelli che gli economisti chiamano i “mercati emergenti””, scrive sul Guardian Jayati Ghosh, professoressa di economia all’Università del Massachusetts. “Il Fondo Monetario Internazionale si lamenta della situazione e non fa quasi nulla, e sia esso che la Banca Mondiale si aggiungono al problema con la loro rigida insistenza sui rimborsi e lo spaventoso sistema di supplementi imposto dal FMI. Mancano in azione il G7 e la “comunità internazionale”, il che è profondamente irresponsabile data la portata del problema e il loro ruolo nel crearlo”.
Secondo Ghosh, lo Sri Lanka non è che l’esempio dello tsunami che si abbatterà su molti altri Paesi vittime della stessa politica economic,a e di conseguenza anche sui Paesi ricchi in Occidente e in Asia. “La triste verità è che il “sentimento degli investitori” si muove contro le economie più povere indipendentemente dalle condizioni economiche reali in determinati Paesi.”, e aggiunge che “il contagio interesserà non solo le economie che stanno già attraversando difficoltà (…) Libano, Suriname e Zambia sono già formalmente inadempienti; La Bielorussia è sull’orlo; e l’Egitto, il Ghana e la Tunisia sono in grave difficoltà di indebitamento”. Una catastrofe annunciata che potrebbe aggredire i Paesi creditori da più fronti. Il potenziale di destabilizzazione politica ed economica delle crisi che l’Occidente ha contribuito a preparare è enorme.
Una fonte diplomatica singalese, intanto, ha anche annunciato “uno tsunami di migranti in Europa”. Nel solo mese di giugno, le richieste di passaporto da parte di cittadini singalesi sono state più di 80.000, quattro volte di più rispetto all’anno precedente. Un’altra delle conseguenze della propria economia con le quali l’Occidente prima o poi dovrà fare i conti.
L'articolo La fame in Sri Lanka: una catastrofe che ci riguarda proviene da Pagine Esteri.
Tasse e fisco da cambiare: vecchi problemi antiche ricette
Da anni Techetecheté è il programma più visto del palinsesto estivo. Pescando nel ricco archivio della Rai, questa striscia quotidiana consola gli spettatori con il tepore zuccheroso della nostalgia. In campagna elettorale, i partiti sembrano ispirarsi a quel modello. Rischiamo un autunno con energi e riscaldamento razionati. Veniamo da un’esperienza di pandemia e lockdown di cui porteremo a lungo i segni. Ci viene quotidianamente spiegato che dobbiamo cercare di spendere i fondi del Pnrr, e di farlo nei tempi concordati se non limitando sprechi e spese inutili.
Eppure la campagna elettorale è per ora un juke box di grandi classici: flat tax, patrimoniale, dote giovani, presidenzialismo, eccetera.
I nostri politici non saranno molto creativi, ma l’eterno ritorno di alcune promesse non va preso sotto gamba: da una parte, segnala che quelle promesse non sono mai state mantenute (infatti restano attuali). Dall’altra, se esse hanno ancora presa è perché quei problemi non sono stati risolti nel corso degli anni, fra una elezione e l’altra semplicemente si smette di parlarne. Questo è vero soprattutto in campo fiscale. La proposta del centrodestra di una flat tax, ovvero di un’imposta ad aliquota unica, viene facilmente liquidata come una posticcia reminiscenza reaganiana. Nel 1994, Forza Italia prometteva già una semplificazione del sistema fiscale (da 200 a 10 imposte) e una aliquota unica «al 30%». Nella legislatura del centrodestra, il governo fece approvare una delega (2004) che avrebbe dovuto portare a due soli scaglioni dell’imposta sul reddito, 23 e 33%. Nell’ultima campagna elettorale (2018), la Lega proponeva, come fa ora, una flat tax al 15%, mentre Forza Italia si fermava su un valore più alto, il 23% del reddito.
Il guaio è che la pressione fiscale pesava per il 40% del Pil nel 1994, quando il Cavaliere propose per la prima volta il passaggio a una aliquota unica; era scesa, di poco, al 39,5% nel 2001 e nel 2021 è stata del 43,5%. Se dovessimo ragionare sul numero dei tributi, difficilmente avremmo l’impressione di un trentennio di grandi semplificazioni.
In compenso, il sistema fiscale ha una sua fisionomia che tutti sappiamo essere problematica ma a cui non mette mano nessuno. Anzitutto, è molto oneroso per chi lavora: come ricorda un rapporto della Commissione finanze della Camera, «l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro, che include anche i contributi sociali versati dal datore e dal lavoratore, è stata pari nel 2018 al 42,7 per cento (la terza più alta), a fronte di una media del 38,6 per cento per l’area dell’euro».
Contro l’ipotesi di una aliquota proporzionale, in molti sbandierano il requisito costituzionale della progressività del nostro Fisco: ma più che progressivo il sistema è opaco. Non è detto che due persone che hanno lo stesso reddito paghino le stesse imposte, dipende da come ciascuno dei due è capace di navigare il vasto mare di detrazioni e deduzioni. Le «spese fiscali» in Italia contavano, nel 2020, di 602 voci. Più in generale, gli interventi che sono stati fatti, negli ultimi vent’anni, vanno tutti nella direzione di definire dei «regimi di eccezione», che coincidono con attività che si ritiene auspicabile vengano intraprese, e dunque coi gruppi sociali che le presidiano.
L’imposta ad aliquota unica non basta, è stato detto più volte, a «semplificare» il sistema. È vero. Ma essa rappresenterebbe quello che non si è fatto in questi anni: cioè una riforma ambiziosa, del tipo che in qualche modo costringe a mettere ordine. È probabile che la moltiplicazione delle spese fiscali sia un effetto collaterale inevitabile della nostra democrazia. Rappresenta il tentativo della classe politica di rispondere a domande specifiche, che le vengono sottoposte da questo o quel gruppo d’interesse. Proprio per questo, però, varrebbe la pena intraprendere una drastica revisione di quelle che ci sono: ne verranno delle altre, lo sappiamo, ma intanto facciamo pulizia.
Il rischio della campagna elettorale Techetecheté è confondere le cose di cui si parla da anni con quelle che effettivamente sono state fatte, e alla fine indurci a cambiare canale, un po’ stufi di rivedere sempre le stesse scene. Se il centrodestra parla di nuovo della flat tax, il centrosinistra di nuovo le oppone i medesimi argomenti di cinque anni fa. Sarebbe incostituzionale: in realtà, non è vero, è il sistema fiscale nel suo complesso che deve essere progressivo non l’aliquota della singola imposta (altrimenti sarebbero incostituzionali anche la cedolare secca o l’imposta sulle plusvalenze finanziarie). È iniqua. Non si può fare. Ce l’ha l’Ungheria di Orbán (ma anche la Lituania e la Georgia antiputiniane e, per la verità, la Bolivia di Evo Morales).
In questa cacofonia di vecchie canzoni, si rischia di perdere di vista il punto. La pressione fiscale in Italia è ancora troppo alta oppure no? Lo è nonostante l’ampio ricorso al deficit di bilancio che sposta le tasse sulle spalle dei nostri figli? Come fare per non ritrovarci di nuovo, fra cinque anni, con gli stessi problemi e le stesse promesse?
Corriere della Sera, 22 agosto 2022
L'articolo Tasse e fisco da cambiare: vecchi problemi antiche ricette proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
I partiti fragili
C’erano una volta i partiti. Erano associazioni e si erano sviluppate con la conquista del suffragio universale, che aveva portato alla cittadinanza attiva milioni di persone. Nel secondo dopoguerra, quasi il 9 per cento della popolazione italiana con più di 14 anni era iscritto a un partito. Avevano poderose articolazioni territoriali, organizzazioni laterali giovanili e organizzazioni collaterali. Riunivano ogni due o tre anni i rappresentanti degli iscritti in congressi dove si scontravano correnti, si presentavano mozioni contrapposte, si votava sui programmi e sulle persone. La Democrazia cristiana ha avuto per molti anni fino a due milioni di iscritti (anche se talvolta i tesseramenti erano «gonfiati»), distribuiti in più di un migliaio di sezioni; un congresso, che
si riuniva ogni due o tre anni, composto di rappresentanti degli iscritti e di rappresentanti dei parlamentari; un consiglio nazionale di circa duecento componenti, che si riuniva tre o quattro volte per anno; una direzione di una trentina di membri, che si riuniva ogni mese; numerose organizzazioni collaterali. Il Partito comunista aveva dimensioni e articolazione simili.
Ha avuto in qualche anno fino a due milioni e mezzo di iscritti, un numero di cellule oscillante tra 30 e 60 mila e di sezioni tra 7 e 16 mila, e i suoi organi collegiali erano altrettanto, se non più attivi, di quelli democristiani. Il Partito socialista, pur se di dimensioni più ridotte quanto a iscritti, aveva una vita interna altrettanto democratica. Insomma, per quasi cinquanta anni della storia repubblicana, i partiti hanno rispecchiato la frase pronunciata da Piero Calamandrei alla Assemblea costituente il 4 marzo 1947: «una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti».
Se allora era iscritto ai partiti quasi il 9 per cento della popolazione con più di 14 anni, oggi è solo poco più dell’1 per cento che si iscrive ai partiti. Anche i votanti diminuiscono (mentre la popolazione è aumentata): nel secondo dopoguerra si recava alle urne circa il 93 per cento degli aventi diritto al voto; la percentuale è scesa ora al 73 per cento, e tende a diminuire. Le stesse basi dei partiti diventano fluide: agli iscritti si aggiungono gli esterni, si tende ad assimilare elettori ed eletti, si distinguono iscritti e militanti. Si diffondono quelli che sono stati definiti «falsi antidoti»: le «agorà» diventano succedanei delle sezioni; «primarie aperte» prendono il posto di scelte fatte dagli iscritti. C’è chi si iscrive temporaneamente, per far vincere un candidato a elezioni interne. Il dirigente di un partito ha segnalato recentemente il fenomeno di adesioni per motivi di gestione del potere, più che per motivi ideali. La struttura dei partiti è quella propria delle oligarchie. Quando si debbono formare le liste, una volta frutto di faticose riunioni degli organi collegiali, in periferia e al centro, si riuniscono ora i pochi stretti collaboratori del «leader», che scelgono all’interno e all’esterno dei partiti (i «candidati civici»), che vengono «paracadutati» in uno o più collegi (il moto della politica è dal basso verso l’alto, mentre qui la tendenza si inverte).
Da un sondaggio di due anni fa emerge che solo il 9 per cento della popolazione ha fiducia nei partiti. Questo è confermato anche dai pochi che contribuiscono al loro finanziamento: solo poco più del 3 per cento dei contribuenti destina ai partiti il 2 per mille e sono poco più di 7 mila le persone che danno ai partiti donazioni liberali. Quanto alla vita interna, gli statuti dei partiti sono stati definiti «simulacri formali»; i programmi non nascono da dibattiti interni, ma sono commissionati ad esperti capaci di sfiorare il ridicolo inserendo il tonno rosso nel programma; i plebisciti prendono il posto delle elezioni; gli organi di garanzia non sono pienamente indipendenti; l’organizzazione è verticalizzata, intorno a un «leader»; persino i siti dei partiti dicono pochissimo, facendo apparire modelli quelli della tanto vituperata burocrazia.
Il Pd ha un segretario che non è passato al vaglio di un congresso nazionale, ma che ha preparato le liste dei candidati alle elezioni nazionali, mentre ha due ex segretari che hanno traslocato in altre formazioni (fenomeno unico al mondo, credo). La Lega dovrebbe tenere un congresso nazionale ogni tre anni: la scadenza è dicembre di quest’anno, ma non sono ancora cominciate le «conte» provinciali, ed è difficile che si possa svolgere a quella data. Il Movimento 5 Stelle ha svolto le «parlamentarie», ma meno della metà degli iscritti si è espresso.
Tutti questi dati mostrano che è in corso una vera e propria agonia dei partiti. Questi sono «fragili, volatili, inconsistenti», come ha scritto Mauro Calise, che ha studiato a lungo la forma partito. Stiamo vivendo una «recessione democratica», ma non della democrazia statale, bensì della sua principale componente, che si riflette sulla democrazia nazionale. La politica attiva, che era impegno di molti, è ora diventata cosa di pochi. Gli elettori vanno in numeri sempre più ridotti alle urne non perché siano indolenti o disinteressati (la partecipazione politica passiva è quasi dieci volte più alta di quella attiva), ma perché i partiti offrono loro scelte sempre più ridotte (un nome, una lista bloccata, nessuna possibilità di esprimere preferenze), mentre consentono ai candidati di presentarsi in più collegi, decidendo poi quale scegliere. I partiti, fatti di vertici, mostrano incapacità di interrogare le istanze popolari e di offrire una sintesi delle soluzioni. Vengono chiamati forze politiche, ma non sono né forze, né politiche. Contano solo in quanto occupano le istituzioni.
Passata la fase elettorale, ai partiti si impone una duplice riflessione. La prima riguarda i modi per assicurare la democrazia nel loro interno. La costituzione tedesca richiede ai partiti di darsi ordinamenti democratici. Quella italiana richiede ai sindacati di rispettare la democrazia al loro interno (ma questi non lo fanno), mentre ai partiti impone solo di competere con metodo democratico. Per anni, si è tentato di stabilire per legge che i partiti debbono rispettare principi democratici. Ma i partiti potrebbero provare a farlo autonomamente. Seconda riflessione: cercare di capire come può servire a rendere più democratici i partiti la democrazia digitale, imparando dagli errori del Movimento 5 Stelle e cercando di coniugare la democrazia ottocentesca con quella del nuovo millennio e di trasformare le comunità virtuali in comunità di interessi e di idealità. Come può essere democratico lo Stato, se non lo sono i partiti, che rappresentano ancora il principale strumento di democratizzazione dello Stato?
Corriere della Sera, 22 agosto 2022
L'articolo I partiti fragili proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Elezioni 2022: da Lollo a Meloni, la propaganda che infinocchia
Attenti, cari concittadini, attenti alla propaganda: vi stanno infinocchiando
L'articolo Elezioni 2022: da Lollo a Meloni, la propaganda che infinocchia proviene da L'Indro.
Elezioni 2022: ogni partito dà il peggio di sé. E’ la ‘peste italiana’
Quello che scorre sotto i nostri occhi è un film perfetto che descrive e 'giustifica' l’antipolitica
L'articolo Elezioni 2022: ogni partito dà il peggio di sé. E’ la ‘peste italiana’ proviene da L'Indro.
Court ruling on passenger data: protection against general suspicion and false accusation
Today, the Court of Justice of the European Union, in its fundamental PNR judgment in the case “Ligue des droits humains v Conseil des ministres (Case C-817/19)” rejected the years-long retention of flight passenger data of all citizens as contrary to fundamental rights. In principle, the data of passengers on non-European flights may not be retained for longer than six months. Passengers on flights within the EU may only be stored if there is an acute risk of a terrorist attack or if special circumstances justify storage. No black box machine-learning algorithms may be used to assign a risk value to travellers.
Pirate Party MEP and digital freedom fighter Dr Patrick Breyer comments on the ruling:
“The EU surveillance fanatics have once again disregarded our fundamental rights. Today’s ruling protects travellers better from general suspicion and false suspicion rates with error rates of up to 99.9%. Constant observation and suspicion does not protect us against attacks, but destroys our free and open society. The fact that non-transparent black-box machine learning risk evaluation systems have been banned is a particular success against dystopian AI technologies in general, such as ‘video lie detectors’.I am disappointed that a six-month retention of information of all travellers to and from non-EU countries was allowed at all. In practice It may be difficult to record departures and then delete them individually. However, this decision can not be seen as precedent for the continued ban on blanket retention of call details and mobile phone movement data, which is more sensitive data than air travel information.”
Ubuntu: quando le lettere cambieranno il mondo
Dal 18 al 30 giugno 2022 è allestita all’Accademia di Belle Arti di Catania una mostra itinerante di Armando Milani, co-curata da Gianni Latino, intitolata Ubuntu. All’inaugurazione è stato presente il graphic design che forse più di tutti in Italia ha parlato, col segno, la lingua della pace, dei diritti civili, della tolleranza, dell’ecumenismo e del cosmopolitismo tra i popoli. Nell’occasione Milani ha tenuto una lectio magistralis seguitissima da un folto pubblico di studenti e follower.
Ubuntu è una parola di origine sudafricana che Nelson Mandela ebbe a pronunciare molte volte nella sua lotta epica contro l’apartheid. In estrema sintesi essa significa: io sono perché Noi siamo. Un messaggio di fraternità universale che Milani ha interpretato con due segni semplicissimi e di immediata leggibilità: un cuore rosso appuntato in una graffetta. L’icona che ne deriva è solo la punta dell’iceberg, perché la serie di manifesti presenti in mostra vi è intimamente consonante: un miscuglio di ‘cambi’ enigmistici in cui la sostituzione di una lettera, la sua sottrazione oppure l’aggiunta modificano il significato delle parole migrandole verso una dimensione pacifista. È il caso della A di War che una colomba in volo sottrae al lemma trascinandola verso l’alto, verso lo spazio vuoto in Pe_ce che così, compiutamente, diventa Peace (2005).
Nell’opera di Milani la parola è il segno grafico che modifica lo statuto del nostro essere al mondo, una chiara ‘poesia visiva’, saremmo portati a dire se lo stesso autore non si sottraesse alla natura poetica dei suoi interventi. Egli precisa e rivendica, invece, la sola forza del segno grafico, la sua chiarezza, l’immediata sua comprensione se e quando esso si spoglia d’ogni artificioso intendimento, rimanendo nudo e immanente a se stesso. Si prenda la E che percorre tutte le parole maggiormente significanti l’Unione Europea (2004): happinEss, pEace, tolErance, poEtry, resEarch, culturE, valuEs, Ethics, naturE; Milani le dispone una sotto l’altra formando un binario campito d’azzurro, come una via serena verso l’unità continentale. Oppure, per sottrazione, si prenda The forgoTTen conTinenT (2011), manifesto campito di nero (nero d’Africa > nero di lutto) il quale denuncia i milioni di bambini che ogni anno muoiono di stenti nel continente africano. Le t che diventano croci vi sono disseminate come su un cimitero australe.
Le meditazioni linguistiche di Armando Milani fanno parte di una campagna etica generazionale che potrebbe annoverare artisti come Oliviero Toscani, se non fosse che il medium del fotografo milanese è quasi interamente votato al marketing del brand Benetton. Oppure il Robert Indiana di Love, che negli anni sessanta elaborava una delle sculture maggiormente iconiche del secondo novecento, partendo da lettere-objet trouvé tinte di rosso. Anche in quel caso il valore fondamentale della scultura si rafforzava per via di scostamenti linguistici minimi: quella O che piega d’un lato, O, conferendo alla parola ‘amore’ un valore universalmente riconoscibile.
La tappa catanese, magistralmente allestita da Armando Milani e Gianni Latino, si arricchisce del contributo grafico di dieci docenti e quaranta allievi dei bienni specialistici di Design per l’editoria e di Design della comunicazione visiva, portando al numero di ottanta gli originari trenta manifesti. La mostra rafforza la vocazione internazionale che l’Accademia di Belle Arti etnea va costruendo da qualche tempo a questa parte. È la giusta direzione da intraprendere in una stagione fondamentale per l’affermazione culturale dell’Alta Formazione Artistica e Musicale in Italia.
Note immagine: Armando Milani all'ABACatania durante la lectio magistralis del 18 giugno 2022, mostra al pubblico il prototipo di Ubuntu.
Ph. Alessandro Spitale
L'articolo Ubuntu: quando le lettere cambieranno il mondo proviene da ilcaffeonline.
Il gas viene in aiuto del Sud Europa, e anche di Meloni
Per una volta, a Bruxelles, sono i Paesi mediterranei ad avere il coltello dalla parte del manico. Il che sarà utile anche per una eventuale Meloni premier
L'articolo Il gas viene in aiuto del Sud Europa, e anche di Meloni proviene da L'Indro.
Indo-Pacifico: la Germania cambia passo
L’Europa ha combattuto una guerra persa nel riaffermare la sua posizione nell’Indo-pacifico, ulteriormente aggravata dalla limitata capacità economica e militare nel garantire i propri interessi nella regione. Le conseguenze delle due grandi guerre hanno visto un programma obbligato di ripensamento e ricostruzione, con capacità limitate nel riorientare le sue strategie sulle sue ex colonie. La [...]
L'articolo Indo-Pacifico: la Germania cambia passo proviene da L'Indro.
I diritti delle minoranze come arma e l’invasione russa dell’Ucraina
Il rispetto dei diritti delle minoranze resta di fondamentale importanza e può essere considerato un parametro relativo al grado in cui un Paese si impegna a rispettare i diritti umani nel loro insieme. Infatti, il persistere di tendenze negative in merito al rispetto dei diritti delle minoranze razziali, etniche, culturali o linguistiche potrebbe essere un [...]
L'articolo I diritti delle minoranze come arma e l’invasione russa dell’Ucraina proviene da L'Indro.
Brasile tra giubbotti antiproiettile e timori di colpo di Stato
La violenza politica è aumentata del 335% rispetto al 2018 e 46 leader politici sono stati assassinati. La società civile si ribella
L'articolo Brasile tra giubbotti antiproiettile e timori di colpo di Stato proviene da L'Indro.
Ciò di cui l’Ucraina ha bisogno per vincere la guerra
Nei sei mesi trascorsi da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’esercito ucraino ha condotto una difesa forte e commovente, infliggendo pesanti perdite alle unità russe e contestando ogni piede di terra. Contro una lunga previsione, l’Ucraina è riuscita a difendere la capitale, Kiev, così come la sua seconda città più grande, Kharkiv. Ciò ha [...]
L'articolo Ciò di cui l’Ucraina ha bisogno per vincere la guerra proviene da L'Indro.
Ucraina: gli USA avrebbero potuto evitare l’invasione russa?
L'incapacità di Washington di cercare un risultato diplomatico reciprocamente accettabile in Ucraina è particolarmente sorprendente
L'articolo Ucraina: gli USA avrebbero potuto evitare l’invasione russa? proviene da L'Indro.
Populismo in Brasile: come liberalizzazione e austerità hanno portato all’ascesa di Lula e Bolsonaro
Lula ha approfittato delle politiche di austerità dei suoi predecessori nei primi anni 2000, Bolsonaro ha approfittato delle politiche di austerità attuate dal governo di Dilma Rousseff
L'articolo Populismo in Brasile: come liberalizzazione e austerità hanno portato all’ascesa di Lula e Bolsonaro proviene da L'Indro.
Ma ci vogliamo andare sulla Luna?
Il prossimo 29 agosto, o in alterantiva il 2 o il 5 settembre, dal Kennedy Space Centerin Florida sarà lanciato il primo dei razzi SLS destinati a riaprire la corsa verso la Luna. Seguiremo con entusiasmo questa missione, su cui è imbarcata un bel po’ di tecnologia italiana. In continuità con i prossimi eventi, noi [...]
L'articolo Ma ci vogliamo andare sulla Luna? proviene da L'Indro.