Salta al contenuto principale

La scomparsa delle nubi di Nettuno


8828286
8828288
La sequenza di immagini del telescopio spaziale Hubble testimonia l’aumento e la diminuzione della copertura nuvolosa su Nettuno. I cambiamenti sono causati da processi fotochimici che avvengono nella parte alta dell’atmosfera di Nettuno. Nel 1989, Voyager 2 ha fornito le prime immagini ravvicinate di nubi bianche che ricordano i cirri sulla Terra, viste nella parte alta dell’atmosfera di Nettuno. Hubble ha ripreso da dove si era interrotta Voyager, tenendo continuamente d’occhio il pianeta ogni anno. Crediti: Nasa, Esa, Erandi Chavez (UC Berkeley), Imke de Pater (UC Berkeley)

Per la prima volta in quasi tre decenni di osservazioni, le nubi su Nettuno sono pressoché svanite. Le immagini riprese dal 1994 al 2022 dall’Osservatorio WM Keck, insieme a quelle del telescopio spaziale Hubble della Nasa, mostrano che le classiche striature bianche, che ricordano i cirri terrestri, non si vedono più, a eccezione del polo sud.

Le osservazioni, pubblicate sulla rivista Icarus, suggeriscono inoltre una apparente connessione tra la scomparsa delle nubi di Nettuno e il ciclo undecennale dell’attività solare: una scoperta sorprendente, visto che Nettuno è il pianeta più lontano dal Sole e riceve solo 1/900 della luce solare che riceve la Terra.

Autori della scoperta sono un gruppo di astronomi guidato dall’Università della California, Berkeley, che ha trovato che le nubi normalmente osservate alle medie latitudini del gigante ghiacciato hanno iniziato a svanire piuttosto velocemente nel 2019, nel giro di pochi mesi. «Anche quattro anni dopo, le immagini che abbiamo scattato lo scorso giugno hanno mostrato che le nubi non sono tornate ai loro livelli precedenti», afferma Erandi Chavez del Centro di astrofisica dell’Università di Harvard. «Questo è estremamente eccitante e inaspettato, soprattutto perché il precedente periodo di bassa attività nuvolosa di Nettuno non era stato così drammatico e prolungato».

Per monitorare l’evoluzione dell’aspetto di Nettuno, Chavez e il suo team hanno analizzato le immagini scattate dal 1994 al 2022 utilizzando la seconda generazione della Near-Infrared Camera (Nirc2) al Keck, accoppiata al suo sistema di ottica adattiva (dal 2002), così come le osservazioni effettuate all’Osservatorio Lick (2018-2019) e quelle del telescopio spaziale Hubble (dal 1994). Negli ultimi anni le osservazioni del Keck sono state integrate da immagini prese nell’ambito del Twilight Observing Program e da immagini del telescopio spaziale Hubble riprese nell’ambito del programma Outer Planet Atmospheres Legacy (Opal).

È dal confronto di tutti questi dati che è emersa l’intrigante correlazione tra i cambiamenti nella copertura nuvolosa di Nettuno e il ciclo solare – il periodo in cui il campo magnetico del Sole cambia ogni 11 anni, causando fluttuazioni dei livelli di radiazione solare. I ricercatori hanno osservato che quando il Sole ha emesso più intensamente luce ultravioletta (Uv) – in particolare la forte emissione Lyman-alfa dell’idrogeno – circa due anni dopo su Nettuno sono apparse più nubi. Il team ha inoltre trovato una correlazione positiva tra il numero di nubi e la luminosità del gigante gassoso dovuta alla luce solare che si riflette su di esso.

«Questi dati straordinari ci danno la prova più forte che la copertura nuvolosa di Nettuno è correlata al ciclo del Sole», riporta Imke de Pater, dell’Università di Berkeley. «Le nostre scoperte supportano la teoria secondo la quale i raggi Uv del Sole, quando sono abbastanza forti, potrebbero innescare una reazione fotochimica che produce le nubi di Nettuno».

La connessione tra il ciclo solare e il modello meteorologico nuvoloso di Nettuno è stata desunta da 2,5 cicli di attività nuvolosa registrati nell’arco di 29 anni di osservazioni di Nettuno. Durante questo periodo, la riflettività del pianeta è aumentata nel 2002 (luminosità massima), poi si è attenuata nel 2007 (luminosità minima), è tornata luminosa nel 2015, quindi è diminuita nel 2020 al livello più basso mai osservato, ovvero quando la maggior parte delle nubi è scomparsa. I cambiamenti nella luminosità di Nettuno causati dal Sole sembrano salire e scendere abbastanza in sincronia con la presenza delle nubi sul pianeta.

Tuttavia, è necessario ulteriore lavoro per chiarire questa correlazione, data la complessità di altri fattori in gioco; ad esempio, mentre un aumento della luce solare Uv potrebbe produrre più nubi e foschia, potrebbe anche renderle più scure, riducendo così la luminosità complessiva di Nettuno. Le tempeste che risalgono dalle profondità dell’atmosfera influenzano la copertura nuvolosa, ma non sono correlate alle nubi prodotte fotochimicamente, e quindi possono complicare gli studi di correlazione con il ciclo solare. Inoltre, sono necessarie continue osservazioni di Nettuno per vedere quanto durerà l’attuale mancanza di nuvole.

8828290
Sequenza di immagini del telescopio spaziale Hubble che testimonia l’aumento e la diminuzione della copertura nuvolosa su Nettuno. La serie di osservazioni di quasi 30 anni mostra che il numero di nubi cresce sempre dopo un picco nel ciclo solare, nel quale il livello di attività del Sole sale e scende in un periodo di 11 anni. Le osservazioni di Hubble (in alto) mostrano chiaramente una correlazione tra l’abbondanza delle nubi e il picco di attività solare. Crediti: Nasa, Esa, Lasp, Erandi Chavez (UC Berkeley), Imke de Pater (UC Berkeley)

Questa scoperta si aggiunge alle osservazioni dell’atmosfera attiva e caotica del gigante gassoso, che presenta nubi di metano sferzate da venti supersonici, le velocità del vento più elevate registrate nel Sistema solare. Una delle prime e più sorprendenti immagini è stata catturata dal Voyager 2 della Nasa durante il suo sorvolo di Nettuno nel 1989, rivelando un enorme tempesta chiamata Grande macchia scura, assente nelle successive osservazioni del 1994 effettuate con il telescopio spaziale Hubble. Da allora sono state individuate altre tempeste e macchie scure, in particolare una grande tempesta equatoriale nel 2017 e una grande macchia scura alle latitudini settentrionali nel 2018.

«È affascinante poter utilizzare i telescopi sulla Terra per studiare il clima di un mondo a più di quattro miliardi di km da noi», dichiara Carlos Alvarez, astronomo dell’Osservatorio Keck e coautore dello studio. «I progressi tecnologici e il nostro Twilight Observing Program ci hanno permesso di limitare i modelli atmosferici di Nettuno, che sono fondamentali per comprendere la correlazione tra il clima del gigante di ghiaccio e il ciclo solare».

Il team di ricercatori sta continuando a monitorare l’attività delle nubi di Nettuno. Le recenti immagini scattate nel giugno 2023 sono state ottenute nello stesso momento in cui il James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa catturava immagini nel vicino e medio infrarosso. «Nelle immagini più recenti abbiamo visto più nubi, in particolare alle latitudini settentrionali e ad alta quota, come previsto dall’aumento osservato del flusso Uv solare negli ultimi 2 anni», conclude de Pater.

I dati combinati di Jwst e dell’Osservatorio Keck consentiranno ulteriori indagini sulla fisica e la chimica che portano all’aspetto dinamico di Nettuno, che a sua volta potrà aiutare ad approfondire la conoscenza non solo di Nettuno, ma anche degli esopianeti.

Per saperne di più:

  • Leggi su Icarus l’articolo “Evolution of neptune at near-infrared wavelengths from 1994 through 2022” di Erandi Chavez, Imke de Pater, Erin Redwing, Edward M. Molter, Michael T. Roman, Andrea Zorzi, Carlos Alvarez, Randy Campbell, Katherine de Kleerf, Ricardo Hueso, Michael H. Wong, Elinor Gates, Paul David Lynam, Ashley G. Daviesi, Joel Aycock, Jason Mcilroy, John Pelletier, Anthony Ridenour e Terry Stickel


Agosto sulla Luna, Russia e India pronte all’approdo


8827772
8827774
Chandrayaan-3 e Luna-25 a confronto (cliccare per ingrandire)

Se tutto andrà nel migliore dei modi, la prossima settimana due navicelle spaziali approderanno sulla Luna. Entrambe nello stesso emisfero, quello australe. Entrambe più o meno alla stessa latitudine, attorno ai 70 gradi, dunque molto elevata, non troppo distanti dal polo sud. Entrambe con lo stesso sogno: trovare ghiaccio d’acqua. Sono le missioni Chandrayaaan-3 e Luna-25, la prima battente bandiera indiana, la seconda russa. Se riusciranno nell’impresa, se anche solo una delle due riuscirà ad atterrare senza schiantarsi, sarà un successo non da poco: dal 1976 a oggi, infatti, solo la Cina è riuscita ad arrivare sulla Luna, con un lander e un rover nel 2013 e nel 2019, e con la missione Chang’e-5 per il trasporto sulla Terra di campioni lunari nel 2020.

La prima a giungere a destinazione – l’approdo nel cratere Boguslawsky è in calendario per lunedì 21 agosto – dovrebbe essere quella che è partita per ultima, la navicella russa, che ha lasciato la Terra solo la settimana scorsa ma, seguendo un tragitto molto più diretto, lo scorso mercoledì era già entrata in orbita lunare, da dove ha iniziato a inviare a terra immagini ravvicinate della Luna. Immagini acquisite con la camera Sts-L, uno degli otto strumenti scientifici a bordo del lander di Luna-25, dotato anche di un braccio robotico per la raccolta di campioni – da analizzare in situ – fino a 50 cm di profondità. Alimentato non solo da pannelli solari ma anche da un generatore termoelettrico a radioisotopi (Rtg), in grado di fornire energia anche durante le lunghe notti lunari, il lander di Luna-25 è progettato per funzionare un intero anno.

Nel frattempo anche il lander Vikram della missione indiana – che proprio ieri si è separato con successo dal modulo di propulsione, salutandolo su Twitter con un “Grazie per il passaggio, amico!” – sta condividendo immagini sempre più ravvicinate del suolo lunare. Destinazione che dovrebbe raggiungere – sperando in un destino migliore di quello che la sorte ha riservato nel 2019 al suo predecessore – alle 14:17 ora italiana di mercoledì 23 agosto, dunque due giorni dopo Luna-25.

«Questa volta siamo ottimisti che tutto andrà secondo i piani», ha detto Shri Nilesh M. Desai, direttore dello Space applications centre di Isro, l’agenzia spaziale indiana. Piani che prevedono non solo l’atterraggio morbido del lander, stipato di strumenti scientifici per una massa totale di ben 1752 kg, ma anche il rilascio di un piccolo rover a sei ruote – Pragyan, parola che in sanscrito significa ‘saggezza’ – dotato di uno spettrometro a raggi X, di uno spettroscopio laser e in grado di perlustrare il terreno circostante allontanandosi fino a mezzo chilometro. Per l’India il successo significherebbe anche l’ingresso nella ristrettissima cerchia dei paesi capaci di compiere un atterraggio morbido sul suolo lunare: impresa riuscita, nell’intera storia storia dell’esplorazione spaziale, solo a Unione Sovietica, Stati Uniti e Cina.

Guarda il video su Chandrayaan-3 su MediaInaf Tv:

youtube.com/embed/wP-_JnzCyfY?…


Alla ricerca di visitatori interstellari con Rubin


8823318
8823320
Impressione artistica di un oggetto interstellare che si avvicina rapidamente al Sistema solare. L’oggetto, espulso dal suo sistema planetario di origine molto tempo fa, ha viaggiato attraverso lo spazio interstellare per miliardi di anni prima di passare attraverso il nostro vicinato cosmico. L’Osservatorio Rubin rivelerà presumibilmente molti di questi visitatori interstellari precedentemente sconosciuti. Crediti: Rubin Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/J. daSilva/ M. Zamani

Grazie agli strumenti attualmente esistenti, si è imparato molto sui corpi celesti più grandi e luminosi del Sistema solare. Ma gli astronomi non si accontentano e vorrebbero cercare più a fondo, per vedere se si trovano, nell’oscurità tra i pianeti, piccoli corpi che hanno avuto origine in sistemi planetari diversi.

Sebbene siano abbastanza convinti che sia così, ossia che esistano molti oggetti interstellari che probabilmente attraversano regolarmente il Sistema solare, a oggi ne sono stati confermati solo due: ʻOumuamua nel 2017 (noto anche come 1I/2017 U1) e la cometa 2I/Borisov nel 2019. I due oggetti sono stati scoperti grazie a un grande tempismo, molto impegno e un pizzico di fortuna: questi piccoli e deboli viaggiatori interstellari sono risultati visibili solo quando erano abbastanza vicini e quando sono stati inquadrati dai telescopi, che dovevano quindi puntare nel posto giusto al momento giusto.

Con l’imminente Legacy Survey of Space and Time (Lsst) condotta con l’Osservatorio Vera C. Rubin – che fotograferà, nel corso di dieci anni, l’intera volta celeste notturna dell’emisfero australe visibile dal Cile settentrionale – gli scienziati si aspettano di trovarne molti di più.

Ma perché ci si aspetta che siano parecchi questi visitatori interstellari?

Il Sistema solare si è originato da un’enorme nube di gas e polvere che collassò per formare nuove stelle, tra cui il Sole. Le stelle inghiottirono la maggior parte degli ingredienti cosmici, ma ciò che rimase attorno a ogni stella formò planetesimi di dimensioni comprese tra decine di metri e pochi chilometri. Alcuni di questi si unirono a formare pianeti, lune e anelli, ma migliaia di miliardi di planetesimi rimasti hanno continuato a orbitare attorno alle loro stelle ospiti.

8823322
Questa immagine cattura non solo l’Osservatorio Vera C. Rubin, un programma del NoirLab di Nsf, ma uno degli esemplari celesti che l’Osservatorio Rubin osserverà quando sarà online: la Via Lattea. L’alone luminoso di gas e stelle sul lato sinistro dell’immagine evidenzia il centro della Galassia. La Legacy Survey of Space and Time (Lsst) osserverà l’intero cielo australe nel corso di un decennio, catturando circa 1000 immagini del cielo ogni notte e dandoci una nuova visione dell’universo in evoluzione. Crediti: RubinObs/NoirLab/Nsf/Aura/B. Quint

Con l’aiuto delle osservazioni del Sistema solare e di simulazioni al computer, gli scienziati ipotizzano che la gravità dei pianeti più grandi e il passaggio ravvicinato con le stelle spesso “fiondi” la maggior parte di questi planetesimi lontano dai loro sistemi, nelle rispettive galassie. Viaggiando nello spazio, non legati a nessuna stella, prendono il nome di oggetti interstellari.

«I sistemi planetari sono un luogo di cambiamento e crescita, di scultura e rimodellamento», dice Michele Bannister della University of Canterbury, in Nuova Zelanda. «I pianeti sono come corrispondenti attivi in​​ quanto possono spostare migliaia di miliardi di minuscoli planetesimi nello spazio galattico».

Se i pianeti sono i corrispondenti, gli oggetti interstellari sono telegrammi contenenti preziose informazioni sui sistemi planetari distanti e su come si sono formati. «Calcoliamo che ci siano molti di questi piccoli mondi nel nostro Sistema solare, in questo momento», sostiene Bannister. «Non riusciamo ancora a trovarli perché non siamo abbastanza sensibili».

Utilizzando un telescopio di 8,4 metri dotato della fotocamera digitale con la più alta risoluzione al mondocirca 3,2 gigapixel – Rubin rileverà oggetti interstellari più deboli di quanto siamo mai stati capaci di vedere. Inoltre, il telescopio può scansionare l’intero cielo visibile in poche notti, catturando un timelapse degli oggetti interstellari durante i loro veloci viaggi attraverso il Sistema solare.

8823324
Questa illustrazione mostra i percorsi attraverso il Sistema solare dei due oggetti interstellari confermati, ʻOumuamua (formalmente noto come 1I/2017 U1), scoperto nel 2017, e la cometa 2I/Borisov, scoperta nel 2019. I percorsi di questi oggetti sono marcatamente diversi dalle orbite degli oggetti del Sistema solare, rendendoli facilmente riconoscibili come oggetti interstellari. L’Osservatorio Rubin e la Legacy Survey of Space and Time forniranno dati che consentiranno agli scienziati di identificare molti oggetti interstellari, già all’inizio della survey. Credito: Rubin Observatory/Nsf/Aura/J. Pinto

Sebbene ‘Omuamua e 2I/Borisov siano entrambi oggetti interstellari, hanno caratteristiche molto diverse. Come saranno i nuovi oggetti interstellari che verranno trovati? Entro il primo anno della survey decennale che dovrebbe iniziare nel 2025, gli scienziati si aspettano di poter dare una risposta a questa domanda. «Passeremo da uno studio di due singoli oggetti a uno studio di una popolazione di almeno una dozzina», conclude Bannister.

Per ora, gli scienziati possono solo fare previsioni su quanti oggetti interstellari rivelerà Rubin. Bannister scherzosamente scommette su 21, ma in realtà dice che non ne hanno ancora idea. Qualunque sia il risultato, l’Osservatorio Rubin è pronto a rivoluzionare gli studi sul Sistema solare, insieme a molte altre aree dell’astronomia e dell’astrofisica.


Diventerà una magnetar


8817628
8817630
Rappresentazione artistica di Hd 45166, la stella che potrebbe diventare una magnetar. Crediti: Eso/L. Calçada

Le magnetar sono i magneti più potenti dell’universo. Queste stelle morte super-dense con campi magnetici ultra-forti si trovano in tutta la nostra galassia, ma gli astronomi non sanno ancora esattamente come si formano. Ora, utilizzando più telescopi in tutto il mondo, comprese le strutture dell’Eso (l’Osservatorio europeo australe), alcuni ricercatori hanno scoperto una stella ancora attiva che probabilmente diventerà una magnetar. Questa scoperta segna la scoperta di un nuovo tipo di oggetti astronomici – stelle di elio massicce e magnetiche – e fa luce sull’origine delle magnetar.

Nonostante sia stata osservata per oltre cent’anni, la natura enigmatica della stella Hd 45166 non poteva essere facilmente spiegata dai modelli convenzionali, e poco si sapeva su di essa al di là del fatto che appartiene a una coppia di stelle, è ricca di elio ed è alcune volte più massiccia del Sole.

«Questa stella è diventata un po’ una mia ossessione», confessa Tomer Shenar, autore principale di uno studio di questo oggetto pubblicato oggi su Science e astronomo dell’Università di Amsterdam, nei Paesi Bassi. «Tomer e io ci riferiamo a Hd 45166 come alla stella zombi», aggiunge la coautrice e astronoma dell’Eso con sede in Germania Julia Bodensteiner. «Questo non solo perché questa stella è così unica, ma anche perché ho scherzosamente detto che trasforma Tomer in uno zombi».

Avendo già studiato simili stelle ricche di elio, Shenar pensava che i campi magnetici potessero risolvere il problema. In effetti, è noto che i campi magnetici influenzano il comportamento delle stelle e potrebbero spiegare perché i modelli tradizionali non sono riusciti a descrivere Hd 45166, che si trova a circa 3000 anni luce di distanza nella costellazione dell’Unicorno. «Ricordo di aver avuto un “momento Eureka” mentre leggevo la letteratura: “E se la stella fosse magnetica?”», afferma Shenar, che attualmente lavora presso il Center for Astrobiology di Madrid, in Spagna.

Shenar e il suo gruppo di lavoro hanno deciso di studiare la stella utilizzando vari strumenti in tutto il mondo. Le osservazioni principali sono state condotte nel febbraio 2022 utilizzando uno strumento del Canada-France-Hawaii Telescope in grado di rilevare e misurare i campi magnetici. Il gruppo si è anche affidato a importanti dati di archivio acquisiti con lo spettrografo Feros (Fiber-fed Extended Range Optical Spectrograph, cioè spettrografo ottico a portata estesa alimentato da fibre) presso l’Osservatorio dell’Eso di La Silla in Cile.

Una volta completate le osservazioni, Shenar ha chiesto al coautore Gregg Wade, esperto di campi magnetici nelle stelle e impiegato presso il Royal Military College in Canada, di esaminare i dati. La risposta di Wade ha confermato l’intuizione di Shenar: «Beh, amico mio, qualunque cosa sia, è decisamente magnetica».

Il gruppo di Shenar aveva scoperto che la stella ha un campo magnetico incredibilmente forte, di 43mila gauss, il che rende Hd 45166 la stella massiccia più magnetica trovata fino a oggi. «L’intera superficie della stella di elio ha un campo magnetico quasi 100mila volte più intenso di quello della Terra», spiega il coautore Pablo Marchant, astronomo dell’Istituto di astronomia Ku Leuven in Belgio.

Questa osservazione segna la prima scoperta in assoluto di una stella di elio massiccia e magnetica. «È emozionante scoprire un nuovo tipo di oggetto astronomico», dice Shenar, «soprattutto quando è sempre stato nascosto in bella vista».

Inoltre, fornisce indizi sull’origine delle magnetar, stelle morte compatte intrecciate con campi magnetici almeno un miliardo di volte più forti di quello di Hd 45166. I calcoli del gruppo suggeriscono che questa stella concluderà la propria vita come magnetar. Quando collasserà sotto la propria forza di gravità, il campo magnetico si rafforzerà e la stella alla fine diventerà un nucleo molto compatto con un campo magnetico di circa 100mila miliardi di gauss, il tipo di magnete più potente dell’universo.

Shenar e il suo gruppo hanno anche scoperto che Hd 45166 ha una massa più piccola di quanto riportato in precedenza, circa il doppio della massa del Sole, e che la sua stella compagna orbita a una distanza molto maggiore di quanto si credesse prima. Inoltre, la ricerca indica che Hd 45166 si è formata dalla fusione di due stelle più piccole ricche di elio. «Le nostre scoperte rimodellano completamente la nostra idea di come sia fatta Hd 45166», conclude Bodensteiner.

Fonte: comunicato stampa Eso

Guarda l’animazione dell’Eso:

youtube.com/embed/qwvwPqYYj9o?…


Nishimura, perielio a settembre


8809291
Lo scorso 11 agosto l’astrofilo giapponese Hideo Nishimura ha scoperto una nuova cometa di magnitudine apparente +11 riprendendo il cielo con un semplice teleobiettivo da 200 mm abbinato a una reflex. Dopo le necessarie verifiche e conferme da parte di altri osservatori, il 15 agosto 2023 il Minor Planet Center ha pubblicato la circolare Mpec 2023-P87 , dove la cometa ha ricevuto la designazione ufficiale C/2023 P1 (Nishimura). Questa cometa è la terza scoperta di Nishimura, che è anche un prolifico scopritore di novae e stelle variabili.

8809293
La cometa Nishimura (C/2023 P1) ripresa da Loiano all’alba del 17 agosto 2023 nella costellazione dei Gemelli (cliccare per ingrandire). Il diametro della chioma nell’immagine è di 2,5 primi d’arco pari a circa 180mila km. Il nord è in alto e l’est a sinistra. Crediti: A. Carbognani

Vale la pena osservare che la C/2023 P1 è stata scoperta quando era già molto brillante: non è stata rilevata prima dalle varie survey dedicate agli asteroidi near-Earth perché l’elongazione dal Sole era bassa, solo 33°, quindi era angolarmente troppo vicino alla nostra stella per la detection. Al momento della scoperta la Nishimura era a 1,73 unità astronomiche (au) dalla Terra e a 1,05 au dal Sole, quindi relativamente vicino a noi, ma si tratta di una cometa che ha un’orbita eliocentrica leggermente iperbolica, quindi probabilmente proviene direttamente dalla nube di Oort, la grande riserva di nuclei cometari che circonda il Sistema Solare posta fra le 10mila e le 100mila au dal Sole. L’orbita della Nishimura è inclinata di ben 129° sul piano dell’eclittica, quindi la cometa si muove in senso orario se vista dal polo nord dell’eclittica.

Il perielio della Nishimura è a sole 0,223 au dal Sole (ossia ben all’interno dell’orbita di Mercurio) e verrà raggiunto il 18 settembre 2023, fra appena un mese: è proprio il caso di dire che la Nishimura è stata scoperta all’ultimo momento. Dopo il passaggio al perielio, se il nucleo della cometa sopravvivrà, la Nishimura si porterà rapidamente al di sotto del piano dell’eclittica tornando verso la nube di Oort.

Per quanto riguarda la visibilità di questa cometa gli osservatori dell’emisfero nord sono avvantaggiati perché il passaggio al perielio avviene al di sopra del piano dell’eclittica. Purtroppo però la distanza angolare dal Sole sarà sempre ridotta, raggiungendo al massimo i 35° nell’ultima settimana di agosto. Chiaramente, nel suo moto di avvicinamento al Sole la cometa si sposterà continuamente in cielo: al momento la Nishimura è nella costellazione dei Gemelli, il 31 agosto sarà nel Cancro e il 18 settembre si troverà nella Vergine. A causa della ridotta distanza angolare dal Sole l’osservazione della Nishimura non sarà facile, ma la cometa potrà essere osservata agevolmente anche usando un piccolo telescopio abbinato a una camera Ccd/Cmos. Il momento migliore per osservare la Nishimura sarà da ora fino al 5 settembre 2023, sempre nelle 2-3 ore prima dell’alba, quando arriverà alla magnitudine +6,8. Dopo il 5 settembre la distanza angolare dal Sole diminuirà ostacolando le osservazioni mattutine anche se la luminosità della cometa sarà in aumento e poco prima del perielio arriverà -– secondo le previsioni del Minor Planet Center – alla magnitudine +3,3. Avvicinandosi al perielio, fino al 12-13 settembre la Nishimura sarà osservabile all’alba, poi sarà visibile immediatamente dopo il tramonto del Sole, ma sempre bassissima sull’orizzonte. Molto probabilmente si tratta di una cometa che giunge per la prima volta in prossimità del Sole, quindi dovrebbe essere ricca di materiali volatili e potrebbe anche diventare molto brillante tanto da essere ben visibile anche con il cielo chiaro. Seguiamo questa cometa, potrebbe riservare delle sorprese


Come studiare l’energia oscura dal cortile cosmico


8808231
8808233
Impressione artistica della “collisione” tra la Via Lattea e Andromeda. Crediti: Nasa; Esa; Z. Levay and R. van der Marel, STScI; T. Hallas; and A. Mellinger

Tutto ciò che possiamo vedere nel nostro mondo e nel cielo, dai minuscoli insetti alle enormi galassie, costituisce solo il cinque percento dell’universo osservabile. Il resto è oscuro. Gli scienziati ritengono che circa il 27 per cento dell’universo sia costituito da materia oscura, che tiene insieme gli oggetti, mentre il 68 per cento è energia oscura, che li allontana.

Ora, tre ricercatori dell’Università di Cambridge, hanno scoperto che potrebbe essere possibile rilevare e misurare l’energia oscura studiando la vicina galassia di Andromeda.

«Energia oscura è un nome generico per una famiglia di modelli che si possono aggiungere alla teoria della gravità di Einstein», spiega David Benisty, primo autore dell’articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, che riporta i risultati dello studio. «La sua versione più semplice è nota come costante cosmologica: una densità di energia costante che allontana le galassie le une dalle altre».

La costante cosmologica fu temporaneamente aggiunta da Einstein alla sua teoria della relatività generale, per contrastare la possibilità che l’universo potesse contrarsi sotto l’azione della gravità. Dagli anni ’30 agli anni ’90 è stata posta a zero, finché non si è scoperto che una forza sconosciuta – chiamata per l’appunto energia oscura – stava accelerando l’espansione dell’universo. A oggi, ci sono almeno due grossi problemi con l’energia oscura: non sappiamo cosa sia e non l’abbiamo rilevata direttamente.

Da quando è stata identificata per la prima volta, negli anni ’90, gli astronomi hanno sviluppato diversi metodi per rilevarla, la maggior parte dei quali prevede lo studio di oggetti nell’universo primordiale e la misurazione della velocità con cui si stanno allontanando da noi. Ma distinguere gli effetti dell’energia oscura miliardi di anni fa non è facile: poiché è una debole forza tra le galassie, è facilmente sormontata dalle forze molto più forti all’interno delle galassie stesse.

Tuttavia, c’è una regione dell’universo che è sorprendentemente sensibile all’energia oscura, ed è nel nostro cortile cosmico, dove risiede la galassia di Andromeda, in rotta di collisione con la Via Lattea. In realtà le due galassie non si scontreranno: man mano che si avvicinano, inizieranno a orbitare l’una attorno all’altra, molto lentamente. Una singola orbita impiegherebbe 20 miliardi di anni a completarsi ma a causa delle massicce forze gravitazionali, tra circa cinque miliardi di anni le due galassie si fonderanno.

I ricercatori di Cambridge hanno scoperto che studiando il modo in cui Andromeda e la Via Lattea si stanno avvicinando, è possibile porre un limite superiore al valore della costante cosmologica. «L’energia oscura colpisce ogni coppia di galassie: la gravità vuole unire le galassie, mentre l’energia oscura le allontana», spiega Benisty. «Nel nostro modello, se cambiamo il valore della costante cosmologica, possiamo vedere come cambia l’orbita delle due galassie. Sulla base della loro massa, possiamo porre un limite superiore alla costante cosmologica, che è risultato essere circa cinque volte superiore a quello che possiamo misurare dal resto dell’universo».

Gli autori precisano che, sebbene la tecnica potrebbe rivelarsi estremamente preziosa, non si può ancora parlare di rilevazione diretta dell’energia oscura. I dati del James Webb Space Telescope forniranno misurazioni molto più accurate della massa e del movimento di Andromeda, che potrebbero aiutare a ridurre i limiti superiori della costante cosmologica così misurata. Inoltre, studiando altre coppie di galassie, potrebbe essere possibile perfezionare ulteriormente la tecnica e determinare in che modo l’energia oscura influisce sull’universo. «L’energia oscura è uno dei più grandi enigmi della cosmologia», conclude Benisty. «Potrebbe essere che i suoi effetti varino con la distanza e nel tempo, ma speriamo che questa tecnica possa aiutare a svelare il mistero».

Per saperne di più:


I tesori di ‘El Gordo’ svelati da Jwst


8804121
8804123
L’ammasso di galassie El Gordo, osservato con Jwst (cliccare per ingrandire). Crediti: Nasa, Esa, Csa.

È l’ammasso di galassie più massiccio che sia mai stato osservato a grandi distanze da noi, quando l’universo aveva circa 6,2 miliardi di anni, poco meno di metà della sua età attuale. Per questo, il team che nel 2012 scoprì Act-Cl J0102-4915, gli affibbiò il soprannome di El Gordo, ‘il grasso’ in spagnolo. Con una massa pari a oltre un milione di miliardi di volte quella del Sole, l’ammasso esercita un forte effetto di lensing gravitazionale sulle galassie retrostanti, ancor più lontane, deflettendo la loro luce e dando origine a una moltitudine di archi e altre forme bizzarre. Se potevamo già percepirne un accenno nei dati raccolti una decina di anni fa da terra e dal telescopio spaziale Hubble, ora possiamo ammirarle in tutta la loro magnificenza in una recente immagine realizzata con il James Webb Space Telescope (Jwst).

Una delle caratteristiche più curiose è un arco brillante dal colore rossastro a forma di C rovesciata, o meglio di amo, visibile verso il bordo destro dell’immagine: è infatti stato chiamato informalmente El Anzuelo, spagnolo per ‘uncino’. In basso a sinistra rispetto al centro, invece, spicca una traccia sottile e allungata: un arco dalla forma insolitamente non ricurva, soprannominato La Flaca, che sempre in spagnolo significa ‘la magra’.

Questa immagine è stata ottenuta nell’ambito del programma Pearls (Prime Extragalactic Areas for Reionization and Lensing Science), dedicato all’osservazione di 7 campi del cielo centrati su ammassi che, come El Gordo, fungono da lente gravitazionale. Non è solo un caleidoscopio di multiformi galassie colorate ma una ricchissima fonte di informazioni, sia sulla composizione dell’imponente ammasso di galassie che sulle proprietà di alcune galassie che splendevano nei primi miliardi di anni della storia del cosmo. I risultati sono presentati in quattro articoli, pubblicati o in corso di pubblicazione su Astrophysical Journal e Astronomy & Astrophysics.

«La capacità di Jwst di catturare con nitidezza la radiazione infrarossa, anche estremamente debole, ci permette per la prima volta di osservare galassie risalenti a quando l’universo aveva appena 300 milioni di anni: la luce emessa dalle stelle in galassie lontane è osservabile nell’infrarosso perché dilatata a causa dell’espansione dell’universo. La radiazione infrarossa ha inoltre il vantaggio di poter attraversare la coltre di polveri che spesso avvolge le stelle durante le loro prime fasi di vita» spiega a Media Inaf Mari Polletta, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Milano e co-autrice di uno dei quattro articoli. «L’aggiunta di una potente lente di ingrandimento, come un ammasso di galassie interposto tra noi e queste galassie, aumenta l’intensità di questa radiazione e dilata e distorce l’immagine delle galassie retrostanti, permettendoci di vedere più lontano, e in maggior dettaglio. La lente inoltre deflette la luce di queste galassie, creando più immagini delle stesse».

8804125
Nell’immagine dell’ammasso di galassie El Gordo spiccano due galassie sullo sfondo, la cui luce è stata distorta e amplificata dalla lente gravitazionale: La Flaca, evidenziata nel riquadro A, e El Anzuelo, evidenziato nel riquadro B. I riquadri a destra mostrano un ingrandimento di entrambi gli oggetti. Crediti: Nasa, Esa, Csa.

«Per poter ricostruire l’immagine intrinseca di una galassia magnificata, bisogna conoscere la distribuzione di materia (oscura e barionica) della lente», chiarisce Polletta, che ricorda l’importante contributo al progetto da parte di Mario Nonino, ricercatore dell’Inaf di Trieste, scomparso di recente. «Con Jwst, i modelli di lente sono diventati più sofisticati e precisi di quanto fosse mai stato possibile finora grazie a un gran numero di immagini magnificate: 56 sistemi magnificati con immagini multiple in El Gordo».

All’origine de El Anzuelo, per esempio, si trova una galassia la cui luce ha impiegato 10,6 miliardi di anni per raggiungere la Terra. Il suo caratteristico colore rosso è dovuto a una combinazione dell’arrossamento dovuto alla polvere all’interno della galassia stessa e del redshift cosmologico, lo spostamento della lunghezza d’onda verso il rosso – o, come in questo caso, l’infrarosso – dovuto all’espansione dell’universo. Correggendo le distorsioni create dal lensing, si è scoperto che la galassia ha una forma di disco e un diametro di soli 26mila anni luce, circa un quarto delle dimensioni della Via Lattea, e che all’epoca la formazione stellare stava già rapidamente diminuendo nelle sue regioni centrali.

La Flaca, invece, deve la sua peculiare forma rettilinea a una coincidenza cosmica: una galassia molto distante, la cui luce è partita oltre 11 miliardi di anni fa, allineata lungo la nostra linea di vista con la parte centrale dell’ammasso che funge da lente, quasi esattamente a metà tra le due concentrazioni di massa che caratterizzano El Gordo – dove si trovano le galassie dell’ammasso stesso, riconoscibili dalla forma ovaleggiante e dal colore biancastro, in basso a sinistra e in alto a destra nell’immagine – e che contribuiscono entrambe a deflettere il percorso della luce proveniente dalla sorgente lontana. Ma non finisce qui. «La Flaca è un arco gigante, tra i più estesi di quelli noti» sottolinea Polletta. «Comprende immagini multiple di tre galassie: per una di queste ci sono ben sei immagini, e due per le altre. Il gran numero di immagini multiple è dovuto alla presenza di galassie che fungono da lenti addizionali, oltre all’ammasso stesso. Queste immagini sono come riflesse da uno specchio immaginario che taglia l’arco a metà».

Un’altra galassia amplificata dal lensing gravitazionale, la cui luce ha viaggiato per circa 10,7 miliardi di anni, è visibile nell’angolo in basso a destra dell’immagine, dove appare sotto forma di due archi rossastri. In uno di essi, che a sua volta comprende due immagini della galassia, fa capolino una stella, molto probabilmente una gigante rossa. Soprannominata Quyllur, che significa ‘stella’ nella lingua quechua parlata un tempo dagli Incas e ancora oggi da milioni di persone in diverse parti del Sud America, è la prima gigante rossa osservata individualmente a oltre un miliardo di anni luce da noi. «È quasi impossibile vedere giganti rosse che hanno subito lensing a meno che non si osservi nell’infrarosso. Questa è la prima che abbiamo trovato con Webb, ma prevediamo che ce ne saranno molte altre», commenta Jose Diego dell’Instituto de Física de Cantabria in Spagna, primo autore di un altro dei nuovi articoli.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal l’articolo “The Jwst Pearls view of the El Gordo galaxy cluster and of the structure it magnifies” di Brenda L. Frye, Massimo Pascale, Nicholas Foo, Reagen Leimbach, Nikhil Garuda1, Paulina Soto Robles, Jake Summers, Carlos Diaz, Patrick Kamieneski, Lukas J. Furtak, Seth H. Cohen, Jose Diego, Benjamin Beauchesne, Rogier A. Windhorst, S. P. Willner, Anton M. Koekemoer, Adi Zitrin, Gabriel Caminha, Karina I. Caputi, Dan Coe, Christopher J. Conselice, Liang Dai, Hervé Dole, Simon P. Driver, Norman A. Grogin, Kevin Harrington, Rolf A. Jansen, Jean-Paul Kneib, Matt Lehnert, James Lowenthal, Madeline A. Marshall, Felipe Menanteau, Belén Alcalde Pampliega, Nor Pirzkal, Mari Polletta, Johan Richard, Aaron Robotham, Russell E. Ryan Jr., Michael J. Rutkowski, Christóbal Sifón, Scott Tompkins, Daniel Wang, Haojing Yan, and Min S. Yun
  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Jwst’s Pearls: A new lens model for Act-Cl J0102−4915, “El Gordo,” and the first red supergiant star at cosmological distances discovered by Jwst” di Jose M. Diego, Ashish K. Meena, Nathan J. Adams, Tom Broadhurst, Liang Dai, Dan Coe, Brenda Frye, Patrick Kelly, Anton M. Koekemoer, Massimo Pascale, S. P. Willner, Erik Zackrisson, Adi Zitrin, Rogier A. Windhorst, Seth H. Cohen, Rolf A. Jansen, Jake Summers, Scott Tompkins, Christopher J. Conselice, Simon P. Driver, Haojing Yan, Norman Grogin, Madeline A. Marshall, Nor Pirzkal, Aaron Robotham, Russell E. Ryan Jr., Christopher N. A. Willmer, Larry D. Bradley, Gabriel Caminha, Karina Caputi
  • Leggi su Astrophysical Journal l’articolo “Pearls: Low Stellar Density Galaxies in the El Gordo Cluster Observed with Jwst” di Timothy Carleton, Seth H. Cohen, Brenda Frye, Alex Pigarelli, Jiashuo Zhang, Rogier A. Windhorst, Jose M. Diego, Christopher J. Conselice, Cheng Cheng, Simon P. Driver, Nicholas Foo, Rachana A. Bhatawdekar, Patrick Kamieneski, Rolf A. Jansen, Haojing Yan, Jake Summers, Aaron Robotham, Christopher N. A. Willmer, Anton Koekemoer, Scott Tompkins, Dan Coe, Norman Grogin, Madeline A. Marshall, Mario Nonino, Nor Pirzkal, Russell E. Ryan Jr
  • Leggi su ArXiv il preprint dell’articolo “Are Jwst/NirCam color gradients in the lensed z=2.3 dusty star-forming galaxy El Anzuelo due to central dust attenuation or inside-out galaxy growth?” di Patrick S. Kamieneski, Brenda L. Frye, Massimo Pascale, Seth H. Cohen, Rogier A. Windhorst, Rolf A. Jansen, Min S. Yun, Cheng Cheng, Jake S. Summers, Timothy Carleton, Kevin C. Harrington, Jose M. Diego, Haojing Yan, Anton M. Koekemoer, Christopher N. A. Willmer, Andreea Petric, Lukas J. Furtak, Nicholas Foo, Christopher J. Conselice, Dan Coe, Simon P. Driver, Norman A. Grogin, Madeline A. Marshall, Nor Pirzkal, Aaron S. G. Robotham, Russell E. Ryan Jr., Scott Tompkins


Grande come Giove, caldo più del Sole


8791827
8791829
Illustrazione artistica del pianeta estrasolare Kelt-9b. Crediti: M.C. Fortuna/L. Pino

Fino a che punto può fare caldo, su un oggetto che non sia una stella? E cosa accade, su mondi con temperature estreme? Per capirlo, gli astronomi studiano una classe in particolare di pianeti, i cosiddetti hot Jupiters – i gioviani caldi. Giganti gassosi con massa paragonabile o superiore a quella di Giove ma in orbita strettissima attorno alla propria stella – molto più di quanto non lo sia quella di Mercurio attorno al Sole. Mondi come Kelt-9b, che con una temperatura sul lato illuminato di 4600 kelvin è a oggi l’esopianeta più caldo che si conosca. Ma un nuovo esemplare, un oggetto la cui scoperta è riportata questa settimana su Nature Astronomy, promette ora di spingere la comprensione a temperature ancora più estreme. Temperature alle quali le atmosfere evaporano e le molecole si spezzano. Temperature più alte di quella del Sole.

È un oggetto di confine tra una stella e un pianeta: una nana bruna, in orbita attorno a una un’altra nana ma di tipo completamente diverso – una nana bianca, ovvero una stella giunta al termine del suo processo evolutivo – a circa 1400 anni luce da noi. L’esistenza di questa nana bruna è emersa analizzando 16 spettri della nana bianca acquisiti fra l’agosto del 2019 e il dicembre del 2020 con lo spettrometro per raggi ultravioletti Uves del Very Large Telescope dell’Eso, a Paranal (Cile). Spettri dai quali è emerso che Wd 0032–317 è in realtà un sistema binario.

«Quando abbiamo messo insieme gli spettri e visto che mostravano chiari segni di variazioni periodiche da due oggetti diversi e associati», ricorda uno degli autori dello studio pubblicato su Nature Astronomy, Filippo Mannucci, astrofisico all’Inaf di Arcetri, «abbiamo capito di avere tra le mani un sistema veramente unico nel suo genere: un oggetto simile a Giove ma più caldo del Sole».

Molto più caldo. La nana bruna (il cui nome completo è Wd 0032-317 B) orbita attorno alla nana bianca in rotazione sincrona, ovvero mostrandole sempre lo stesso emisfero, come fa la Luna con la Terra. Ebbene, nell’emisfero perennemente illuminato – irraggiato dalla radiazione ultravioletta estrema (Euv) emessa dalla nana bianca – la temperatura superficiale della nana bruna arriva a 8000 gradi kelvin (oltre 7700 °C). Facendone l’oggetto di questo tipo più caldo che si conosca. «Circa 2000 gradi in più rispetto alla superficie del Sole», sottolinea la prima autrice dello studio, Na’ama Hallakoun, ricercatrice postdoc al Weizmann Institute of Science, in Israele. Sul lato opposto, quello sempre in ombra, la temperatura si aggira invece attorno ai 2000 gradi kelvin: dunque ci sono ben 6000 gradi di differenza fra i due emisferi.

Certo, non stiamo parlando di un vero gioviano caldo, ma di quello che gli astronomi più propriamente chiamano hot Jupiter-like object, vale a dire un oggetto – una nana bruna, appunto, dunque una “stella fallita”, troppo piccola per accendersi – che assomiglia a un gioviano caldo. In particolare, Wd 0032-317 B ha «una massa 80 volte superiore a quella di Giove compressa nelle dimensioni di Giove», spiega Hallakoun. Questa densità estrema, continua la ricercatrice, «le permette di sopravvivere intatta e di formare un sistema binario stabile», senza che la compagna nana bianca le risucchi il gas di cui è fatta.

Dal punto di vista dello studio di mondi estremi, oltre alla temperatura record, l’enorme interesse per questa nana bruna è dovuto al fatto che è relativamente semplice osservarla. Queste perché le sue dimensioni, molto maggiori di quelle della nana bianca, fanno sì che la luce di quest’ultima non finisca per oscurare l’emissione della nana bruna – come invece avviene con l’accecante luce delle stelle attorno alle quali orbitano i gioviani caldi. «Questo la rende un laboratorio perfetto per i futuri studi sulle condizioni estreme che si possono incontrare sugli hot Jupiters», conclude Hallakoun.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “An irradiated-Jupiter analogue hotter than the Sun”, di Na’ama Hallakoun, Dan Maoz, Alina G. Istrate, Carles Badenes, Elmé Breedt, Boris T. Gänsicke, Saurabh W. Jha, Bruno Leibundgut, Filippo Mannucci, Thomas R. Marsh, Gijs Nelemans, Ferdinando Patat e Alberto Rebassa-Mansergas


Prima luce interferometrica per la Banda 2 di Alma


8763396
8763398
La foto mostra la cartridge di uno dei ricevitori della Banda 2 di Alma. Nello schema a destra, una descrizione delle parti della cartridge. I ricevitori di Banda 2 captano segnali dall’universo con frequenze comprese tra 67 e 116 GHz. Crediti: Nova/Eso (foto), Stefano Rini/Inaf (schema)

Un gruppo internazionale di astronomi e ingegneri di Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso è partner, ha effettuato le prime misure con nuovi ricevitori installati sulle antenne Alma. I ricevitori consentono ad Alma di osservare su tutto l’intervallo di frequenza finale – con lunghezze d’onda comprese tra 2,6 e 4,5 millimetri (67-116 GHz) – del progetto completo. La cosiddetta Banda 2 apre una nuova finestra sulle nostre origini cosmiche, consentendo misure che rivelano come si formano stelle e galassie lontane, fino alle origini dei pianeti e ai mattoni della vita.

Alma, situato sull’altopiano di Chajnantor in Cile, è costituito da un totale di 66 antenne, ciascuna dotata di un arsenale di ricevitori molto sensibili. Ogni tipo di ricevitore osserva all’interno di una particolare banda, o intervallo di lunghezze d’onda, nella regione submillimetrica/millimetrica dello spettro elettromagnetico. In totale le varie bande coprono una finestra da 0,3 a 8,6 millimetri (da 950 a 35 GHz; bande da 10 a 1, rispettivamente). La Banda 2 apre una finestra completamente nuova a 67-84 GHz, ampliando al contempo la larghezza di banda disponibile nell’intervallo di frequenze 84-116 GHz, coperto anche dalla Banda 3.

Il primo ricevitore di Banda 2 in pre-produzione era stato installato e verificato con successo su un’antenna Alma all’inizio di quest’anno. Di questi ricevitori di Banda 2 in pre-produzione ne sono ora stati installati un secondo e un terzo su altre due antenne di Alma, consentendo la vera interferometria: misurare il modello di frange che risulta dalla correlazione di più segnali da un oggetto astronomico brillante. Questa pietra miliare delle “prime frange” significa che gli astronomi sono riusciti per la prima volta a combinare i segnali in Banda 2 provenienti da più antenne. Con l’aggiornamento di ulteriori antenne Alma con ricevitori di Banda 2, la quantità di dettagli e il livello di sensibilità miglioreranno, consentendo osservazioni sempre più precise del nostro universo.

8763400
Il criostato di una delle 66 antenne di Alma completa – per la prima volta – di tutti e dieci i ricevitori. I ricevitori captano i segnali provenienti dallo spazio in bande di frequenza specifiche, che coprono una finestra da 950 a 35 GHz, e sono conservati in un criostato che li raffredda a temperature fino a -269 °C. Con l’installazione dei ricevitori di Banda 2 le antenne di Alma potranno osservare nell’intervallo di frequenze finale (da 67 a 116 GHz) per cui è stato progettato l’array. Crediti: S. Otarola/Jao/Eso

La Banda 2 di Alma consentirà importanti misure del mezzo interstellare freddo, la miscela di polvere e gas molecolare che si trova nello spazio tra le stelle e alimenta la formazione stellare. Inoltre, Alma sarà in grado di studiare le proprietà della polvere e delle molecole negli oggetti celesti, dai dischi di formazione planetaria alle galassie lontane, a un livello di dettaglio mai raggiunto prima.

Più vicino a noi, i nuovi ricevitori consentiranno l’osservazione di molecole organiche complesse nelle galassie vicine, fornendo indizi su come si creano le condizioni per l’inizio della vita. Inoltre, la Banda 2 sarà fondamentale per aiutare gli astronomi a capire meglio come si formano i pianeti, sondando la “linea della neve” del monossido di carbonio, quella zona nei dischi di formazione dei pianeti sufficientemente lontana dalla stella centrale da permettere la condensazione del gas.

Lo sviluppo della Banda 2 è stato guidato dall’Eso e ha incluso partner come l’Osservatorio astronomico nazionale del Giappone (Naoj), l’Università del Cile, diversi istituti europei e l’industria. La produzione delle prime cartucce di ricevitore è stata poi effettuata da un consorzio composto da Nova (Netherlands Research School for Astronomy), da Gard (il gruppo Advanced Receiver Development dell’Osservatorio spaziale di Onsala), dalla Chalmers University, in Svezia, e dall’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica italiano, in collaborazione con Naoj.

8763402
Scarica la brochure descrittiva del progetto iAlma

«Abbiamo iniziato quest’avventura più di dieci anni fa con i primi studi di fattibilità e poi di sviluppo dei primi prototipi del ricevitore e dei suoi componenti – studi dove l’Inaf ha avuto un ruolo fondamentale», ricorda a Media Inaf Fabrizio Villa, ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica, responsabile del laboratorio CryoWaves e, per l’Italia, dello sviluppo tecnologico della Banda 2 di Alma. «Grazie alle ricerche e ai test effettuati nei laboratori dell’Inaf di Bologna e dell’Inaf di Arcetri siamo riusciti a dimostrare la reale fattibilità di costruzione della Banda 2 per Alma. Portando in seguito la nostra esperienza all’interno del consorzio di produzione, siamo arrivati a questa importante tappa della “prima luce interferometrica” della Banda 2, tappa che racchiude tutto il lavoro e l’impegno di anni di ricerche sperimentali al fine di ottenere ricevitori in linea con i requisiti di performance imposti dall’Osservatorio Alma».

Adesso il gruppo si dedicherà a ottimizzare le prestazioni dei ricevitori di pre-produzione e quindi della produzione completa dei restanti ricevitori per l’installazione su tutte le 66 antenne, inaugurando una nuova era di osservazioni per Alma. Insieme agli aggiornamenti complementari di Alma pianificati intorno al 2030, l’installazione della Banda 2 consentirà una larghezza di banda istantanea oltre quattro volte superiore a quella che può raggiungere la maggior parte degli attuali ricevitori Alma, aumentando notevolmente la velocità di osservazione.

Fonte: comunicato stampa Eso

Guarda su MediaInaf Tv il servizio del 2020 sulla Banda 2 di Alma:

youtube.com/embed/FRrtpf2n5kc?…


Viaggio all’origine delle meteoriti


8717361
8717364
Crediti: Narsimha Rao Mangu/Pexels

Da dove provengono le meteoriti? Da quale oggetto celeste si sono “staccati” – a seguito di una collisione – i frammenti di materiale extraterrestre che ci arrivano ogni tanto dal cielo, attraversando l’atmosfera dando vita a brillanti meteore o fireball per poi raggiungere il suolo e diventare, appunto, meteoriti? Delle circa 70mila meteoriti a oggi raccolte e catalogate, 277 sembrano essere giunte da Marte (dati aggiornati al 2020) e 317 dalla Luna (dati aggiornati al 2019). A dircelo è la loro composizione. Siamo però così a meno dell’un per cento. E tutte le altre? La maggior parte ha sicuramente origine nella Fascia principale (la cosiddetta main belt), ovvero dagli asteroidi in orbita fra Marte e Giove, ma una percentuale significativa proviene dai Nea, gli asteroidi near-Earth. Dal Sistema solare interno, dunque.

Quale percentuale? Lo ha provato a stimare per la prima volta uno studio, pubblicato la settimana scorsa su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, condotto da due astronomi italiani, Albino Carbognani dell’Istituto nazionale di astrofisica (nonché assiduo collaboratore di Media Inaf) e Marco Fenucci del Neo Coordination Centre dell’Agenzia spaziale europea, a Frascati. E il risultato lascia sorpresi: ben una meteorite su quattro, fra quelle con orbite conosciute, avrebbe origine dai Nea, e in particolare da collisioni fra Nea.

Il metodo seguito

Prima di soffermarci su questo risultato, cerchiamo di capire come hanno fatto i due scienziati ad arrivarci. Partiamo proprio dal fireball, dalla scia che i meteoroidi lasciano in cielo. L’ultimo è quello di sabato scorso: una traccia sul cielo del Molise registrata da due fotocamere della rete Prisma. Triangolando i dati, gli astronomi sono riusciti a prolungarla in avanti fino a individuare la zona in cui la meteorite sopravvissuta all’ingresso in atmosfera potrebbe essere caduta. Per poi magari riuscire a ritrovarne alcuni frammenti, com’è successo lo scorso febbraio a Matera e all’inizio del 2020 a Cavezzo. Ebbene, se prolungare quelle tracce luminose in avanti permette di stimare quale possa essere la destinazione dei frammenti (il punto di arrivo), estendendole all’indietro – nello spazio e nel tempo – può consentire di risalire al mittente: l’oggetto di partenza.

Ed è proprio questa la strada che hanno percorso i due autori dello studio. Anzitutto hanno preso in esame le meteoriti di cui è nota con buona precisione l’orbita: sono pochissime, escludendo le più recenti sono appena 44, viste cadere sulla Terra fra il 1959 e il 2021. Fra queste ne hanno poi selezionate 38, quelle per le quali si conosce non solo l’orbita ma anche il radiante geocentrico, vale a dire la posizione in cielo dalla quale è arrivato il fireball associato alla meteorite.

8717366
Marco Fenucci, matematico ed esperto di dinamica dei near-Earth objects (Neo) al Centro di coordinamento sui Neo (Neocc) dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con sede all’Esrin di Frascati

A quel punto, «per trovare quali Nea potrebbero essere i possibili progenitori di una data meteorite», spiega Fenucci a Media Inaf, «abbiamo usato due passi. Nel primo passo si cercano dei candidati progenitori in tutta la popolazione conosciuta dei Nea, tramite una “distanza” che è possibile calcolare grazie ai dati osservativi della fireball e ai dati orbitali dei Nea. Se per un certo Nea questa distanza risulta piccola abbastanza, c’è una buona probabilità che questo sia l’asteroide progenitore della meteorite. Per verificare più in dettaglio questa ipotesi, al secondo passo si calcolano a ritroso le evoluzioni orbitali sia del Nea candidato progenitore, che del meteoroide. Se durante l’evoluzione passata le orbite del Nea e del meteoroide risultano vicine in qualche istante, allora la connessione tra i due oggetti è altamente probabile».

Raccontato così può sembrare semplice, ma in realtà il calcolo a ritroso dell’evoluzione passata delle due orbite – quelle delle meteoriti e quelle dei Nea – è assai complesso, e non può spingersi indietro nel tempo oltre i 100mila anni, «perché dopo questo intervallo le incertezze diventano troppo grandi per trarre conclusioni», sottolinea Fenucci. Nonostante questo limite, è stato comunque possibile riuscire ad associare 12 abbinamenti Nea-meteorite a un evento di collisione che ha coinvolto il Nea progenitore. «In particolare», dice Carbognani, «abbiamo determinato il probabile asteroide di origine delle meteoriti Pribram e Neuschwanstein con il Nea (482488) 2012 SW20 e la meteorite Motopi Pan con (454100) 2013 BO73. Quest’ultimo asteroide era già stato individuato come possibile progenitore da altri ricercatori, ed è una bella conferma».

Il processo all’origine delle separazioni

Oltre agli oggetti progenitori, dallo studio è poi emerso anche il processo all’origine del distacco dei meteoroidi. «Calcolando le velocità relative», spiega infatti Fenucci, «è possibile ipotizzare che tipo di evento ha dato origine alla separazione. Nel nostro caso, le velocità relative erano compatibili con quelle che si hanno tipicamente in una collisione tra due asteroidi».

Quanto alle dimensioni degli asteroidi coinvolti, «poiché fra il Nea e il meteoroide che ha generato la meteorite venivano età di separazione dell’ordine di 10mila anni», continua Carbognani, «abbiamo verificato se questo valore tornasse con l’intervallo medio di collisione fra i piccoli Nea (quelli da 1-2 metri di diametro di cui conosciamo la frequenza di collisione dai dati satellitari) e i Nea un po’ più grandi, dell’ordine di 100 metri di diametro, simili ai progenitori che avevamo trovato. In effetti è proprio così: in media possiamo aspettarci una collisione fra piccoli e piccolissimi Nea ogni 30mila anni, ossia lo stesso ordine di grandezza della separazione Nea-meteorite».

8717368
Albino Carbognani, ricercatore all’Inaf – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna. Crediti: Sveva Stallone

Conseguenze per la difesa planetaria

Riassumendo: circa il 25 per cento delle meteoriti parrebbe aver origine da collisioni fra coppie di asteroidi di tipo near-Earth, perlopiù fra oggetti piccoli e piccolissimi. Quest’ultimo aspetto è importante anche in riferimento all’eventuale rischio che queste collisioni fra Nea comportano per il nostro pianeta. «Durante una collisione tra un asteroide di circa 100 metri e un corpo della dimensione di 1 metro si creano dei frammenti che vengono poi espulsi nello spazio interplanetario, come anche dimostrato recentemente nella missione Dart della Nasa», ricorda Fenucci. «Questi frammenti possono poi colpire il nostro pianeta nel futuro. Fortunatamente, i frammenti generati da questo tipo di eventi sono generalmente più piccoli di 10 metri, quindi non causerebbero danni particolari in caso di impatto con la Terra».

«È vero che queste collisioni potrebbero anche alterare l’orbita del Nea più grande: nel caso in cui un evento del genere venga osservato», continua Fenucci, «sarebbe comunque possibile calcolare la nuova orbita grazie a osservazioni successive, e di conseguenza calcolare le nuove probabilità di impatto con la Terra. Questi compiti vengono effettuati giornalmente dal Neo Coordination Centre dell’Esa, dal servizio NeoDys e dalla Nasa. Tuttavia, c’è da sottolineare che è molto improbabile osservare questi eventi, data la frequenza stimata di uno ogni 30mila anni».

L’importanza del tracciamento delle meteore

Tornando al metodo seguito dagli autori dello studio, dunque dalla triangolazione dei dati messi a disposizione dalla registrazione delle tracce dei fireball, c’è infine un aspetto che va sottolineato: ogni meteorite della quale si riesca a stabilire con ragionevole certezza l’origine rappresenta per la scienza un dono inestimabile, in quanto è possibile analizzarne la composizione in laboratorio. Ma per arrivare al corretto abbinamento occorre, come abbiamo visto, aver registrato quelle tracce, per poterle poi prolungare avanti e indietro fino a trovare la meteorite stessa e a risalire al suo progenitore.

«Va notato che le 44 meteoriti di cui si conosce l’orbita sono pochissime rispetto alle circa 70mila meteoriti raccolte sulla Terra», sottolinea a questo proposito Carbognani. «Questo dato ci fa capire perché è importante cercare di triangolare i fireball che possono dare luogo a una caduta: in questo modo si può indagare direttamente sull’origine dinamica del meteoroide. E se risulta associato a qualche Nea noto, allora è possibile studiare la composizione chimica del Nea senza inviare sonde. Fino a poco tempo fa le meteoriti italiane erano assenti da questo particolare elenco, poi, grazie alla rete Prisma coordinata dall’Inaf, sono state recuperate le meteoriti Cavezzo e Matera».


Per saperne di più:


Lanciata Luna-25, la Russia è in volo verso la Luna


8718836
8718838
Fotogramma tratto dalla live del lancio trasmessa sul canale YouTube di Roscosmos

È stata lanciata alle 1:10 di venerdì 11 agosto la missione Luna-25, con cui la Russia punta a tornare sul suolo lunare dopo 47 anni. Il lancio è avvenuto con un razzo Soyuz dal cosmodromo di Vostochny. Il ritorno alla Luna, a quasi mezzo secolo dall’ultima missione, è un obiettivo ambizioso che la Russia persegue senza la collaborazione dell’Europa, interrotta dopo l’invasione dell’Ucraina.

Riportare l’uomo sulla Luna per restarci: era questo l’obiettivo che nel 2015 aveva spinto l’Agenzia spaziale europea e la sua omologa russa Roscosmos a unire le forze per mettere in campo una serie di missioni (Luna-25, Luna-26 e Luna-27) volte a verificare le condizioni per la creazione di un insediamento umano permanente sul nostro satellite naturale, realizzando così un sogno bruscamente interrotto negli anni Settanta. A metterlo nuovamente a repentaglio, questa volta, sono state le tensioni geopolitiche scatenate dall’invasione dell’Ucraina. La crisi ha spinto l’Esa ad annunciare dapprima la fine della cooperazione per la missione ExoMars diretta su Marte e poi, nel giro di poche settimane, anche quella per le missioni lunari. La decisione, assunta il 13 aprile 2022 dal Consiglio dell’Esa riunito in sessione straordinaria, è stata anche accompagnata dalla richiesta ai russi di restituire la telecamera di navigazione PilotD, che sarebbe dovuta partire con la missione Luna-25. Se la rottura dei rapporti ha portato l’Europa a concentrare i propri sforzi per la Luna sulle missioni previste dal programma Artemis della Nasa, dall’altra parte ha spinto la Russia a continuare da sola la sua corsa allo spazio, nel tentativo di riaffermare la propria potenza sulla scena internazionale.

Ci prova ora con una missione, Luna-25, che già nel nome porta un segno di continuità con il programma di esplorazione lunare dell’ex Unione Sovietica ‘Luna’: avviato nel 1959, ha portato al lancio di 24 missioni, di cui 15 di successo. L’ultima, Luna-24, si è conclusa il 22 agosto 1976 riportando sulla Terra circa 170 grammi di suolo lunare. A distanza di 47 anni, la Russia riparte con un lander da 800 chilogrammi progettato per effettuare il primo allunaggio nella regione del polo sud lunare, particolarmente ricca di ghiaccio.

A giugno, il capo dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, Yuri Borisov, aveva definito il lancio come ad alto rischio. «Questa missione prevede l’atterraggio al polo sud. Nessuno al mondo lo ha mai fatto prima», aveva detto durante un incontro con il presidente Putin. «La probabilità di completare con successo missioni come questa è stimata intorno al 70 per cento». L’ingresso in orbita lunare dovrebbe avvenire circa cinque giorni dopo il lancio, dunque il 16 agosto. Nei giorni successivi, il lander tenterà un atterraggio morbido sulla Luna per poi dare il via alla missione operativa vera e propria, della durata di circa un anno. Entreranno dunque in azione gli otto strumenti scientifici di bordo, che verranno impiegati per studiare la regolite lunare così come le polveri e il plasma che compongono l’esosfera del nostro satellite.

Fonte: Ansa

Rivedi la live del lancio sul canale YouTube di Roscosmos:

youtube.com/embed/cgi2pIFrnW4?…


Marte aveva stagioni umide e secche, ecco la prova


8716290
8716292
Forse esagonali rinvenute in rocce sedimentarie analizzate da Curiosity il 3154esimo giorno del suo viaggio attraverso il cratere di Gale su Marte. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss/Irap/Rapin et al./Nature

La superficie di Marte, a differenza di quella terrestre, non si rinnova continuamente con la tettonica a placche. Ciò ha portato alla conservazione di vaste aree di terreno rilevanti per la loro abbondanza di antichi fiumi e laghi, risalenti a miliardi di anni fa. Nel 2012, il rover Curiosity della Nasa – il primo ad aver esplorato resti così antichi – aveva già rilevato la presenza di semplici molecole organiche che potrebbero essersi formate da processi geologici oltre che biologici.

Tuttavia, l’emergere di forme di vita primitive, come ipotizzato dagli scienziati, richiede inizialmente condizioni ambientali favorevoli all’organizzazione spontanea di queste molecole in composti organici complessi. Tali condizioni sono esattamente quelle che sono state recentemente scoperte da un gruppo di ricerca dell’Institut de Recherche en Astrophysique et Planétologie (Cnrs/Université de Toulouse III – Paul Sabatier/Cnes) e del Laboratoire de Géologie: Terre, Planètes, Environnement (Cnrs/Ens de Lyon/Université Claude Bernard Lyon 1), insieme ai loro colleghi statunitensi e canadesi.

Utilizzando gli strumenti Mastcam e ChemCam su Curiosity, gli scienziati hanno scoperto depositi di sali che formano uno schema esagonale in strati sedimentari risalenti a un periodo compreso tra 3,8 e 3,6 miliardi di anni fa. Sono simili agli esagoni osservati nei bacini terrestri che si prosciugano stagionalmente, e potrebbero verosimilmente essere la prima prova geologica di un clima marziano ciclico e regolare con stagioni secche e umide. Esperimenti di laboratorio indipendenti hanno dimostrato che facendo interagire ripetutamente le molecole a diverse concentrazioni, questo tipo di ambiente fornisce le condizioni ideali per la formazione di composti complessi precursori e costitutivi della vita, come l’Rna.

Queste osservazioni dovrebbero permettere agli scienziati di guardare con occhi nuovi le immagini su larga scala ottenute dall’orbita marziana, con le quali si sono già identificati numerosi terreni con una composizione simile. Ora sanno dove cercare le tracce dei processi naturali che hanno dato origine alla vita, di cui non rimangono più tracce sulla Terra.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Sustained wet–dry cycling on early Mars” di W. Rapin, G. Dromart, B. C. Clark, J. Schieber, E. S. Kite, L. C. Kah, L. M. Thompson, O. Gasnault, J. Lasue, P.-Y. Meslin, P. J. Gasda & N. L. Lanza


A LiciaCube il premio “Missione smallsat” dell’anno


8708623
8708625
Rappresentazione artistica del nanosatellite LiciaCube. Crediti: Argotec

Il microsatellite italiano LiciaCube ha vinto il primo premio “Aiaa SmallSat Award”, conferito dall’American Institute of Aeronautics and Astronautics (Aiaa). La notizia è stata data oggi durante la Small Satellite Conference organizzata alla Utah State University di Logan, nello Utah.

La selezione della “Missione dell’anno” è il culmine di un processo iniziato con l’individuazione di una rosa di nove finaliste, tra le quali LiciaCube era l’unica missione italiana, seguito da un sondaggio online in cui persone di tutto il mondo hanno votato quella ritenuta la più meritevole. Infine, il comitato Aiaa Small Satellite Technical Committee, tenendo conto anche dell’esito del sondaggio, ha individuato nella missione italiana il vincitore.

Il nanosatellite LiciaCube è stato progettato, costruito e operato dalla società Argotec, e la missione – coordinata e gestita dall’Agenzia spaziale italiana – ha visto il coinvolgimento di un ampio team nazionale guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e composto dal Politecnico di Milano, dall’Università di Bologna, dall’Università di Napoli “Parthenope” e dal Cnr-Ifac “Nello Carrara”.

LiciaCube ha contributo alla prima missione di difesa planetaria attiva dell’umanità, attuata con successo dalla sonda Dart della Nasa che il 26 settembre 2022, a una distanza di 11 milioni di km dalla Terra, ha impattato contro l’asteroide Dimorphos, il più piccolo del sistema doppio Didymos, al fine di testare la tecnica dell’impatto cinetico per deviare la traiettoria di un corpo celeste.

LiciaCube è stato lanciato e ha viaggiato integrato su Dart fino a 15 giorni prima dell’impatto, quando è stato separato, si è attivato e ha iniziato a operare in autonomia. Dopo una fase di correzione orbitale e navigazione guidata dal team di missione al Mission Control Centre in Argotec, ha effettuato il passaggio ravvicinato a una distanza di 57 km dall’asteroide colpito da Dart e alla velocità di quasi 7 km al secondo, osservando gli effetti dell’impatto principalmente in termini di detriti sollevati. Le più di 600 immagini acquisite si sono rivelate anche cruciali per altri aspetti, quali ad esempio la ricostruzione della forma dell’asteroide, consentendo ai team scientifici, nei mesi successivi, di comprendere caratteristiche importanti sulla natura del piccolo corpo celeste.

Did you vote for @LICIACube as Mission of the Year? 😎
Let’s go down in history even more 🚀
👉 t.co/UA5Pv2pEnM@ASI_spazio @mediainaf @SmallSat @nasa #LICIACube #DartMission #NASA pic.twitter.com/ovzPstjUT2

— Argotec (@Argotec_Space) August 8, 2023

LiciaCube ha ottenuto un pieno successo e raggiunto diversi primati. Era difatti la prima volta che un piccolo satellite tentava una missione del genere nello spazio profondo, eseguendo un accuratissimo flyby di un corpo minore come un asteroide. Inoltre, si tratta del primo satellite italiano a operare oltre le orbite intorno alla Terra, e il terzo a livello internazionale dopo i MarCO di Jpl.

LiciaCube è un microsatellite 6U, pesa 15 kg e misura 30x20x10 cm. È dotato di due pannelli solari leggeri, un sistema di propulsione integrato con propulsori da 50 mN di spinta e ISP da 40 secondi, due telecamere, un sistema di comunicazione in banda X e un avanzato computer di bordo.

«Il premio a LiciaCube è un grande risultato per l’ampio team di missione e anche per l’intera comunità spaziale nazionale», dice Teodoro Valente, presidente Asi. «Il nostro satellite ha contribuito alla prima missione di difesa planetaria della storia, con immagini spettacolari e cruciali per le analisi successive, sia nella conferma del successo di Dart che per investigazioni scientifiche. Questo riconoscimento non può che consolidare il ruolo dell’Italia e dell’Asi come attore e partner affidabile nelle tante iniziative per l’esplorazione che ci vedono spesso protagonisti, come in questo caso».

8708627
Elisabetta Dotto, ricercatrice all’Inaf di Roma e coordinatrice del gruppo di ricercatori che lavora alla missione LiciaCube sin dalla sua ideazione

«LiciaCube è il risultato della straordinaria competenza ed esperienza di Argotec», aggiunge David Avino, Ceo e fondatore dell’azienda. «Con LiciaCube, abbiamo dimostrato ancora una volta l’affidabilità, l’eccellenza tecnologica e le incredibili prestazioni della nostra piattaforma. Stiamo già lavorando a diversi progetti e missioni – in Italia e negli Stati Uniti – per continuare a contribuire con la nostra esperienza e know-how non solo alle missioni scientifiche ma anche alla creazione di costellazioni in Leo e nello spazio profondo per fornire servizi di telecomunicazioni e osservazioni».

«LiciaCube è stata un grande successo tecnologico e scientifico», conclude Elisabetta Dotto dell’Inaf di Roma, a capo del team scientifico della missione. «Ha fornito le prime immagini mai acquisite in situ di un asteroide binario e ci ha consentito di studiare a distanza ravvicinata gli effetti prodotti dall’impatto della sonda Nasa Dart che ha realizzato la prima missione spaziale di difesa planetaria. Sono veramente molto contenta di questo premio e colgo l’occasione per ringraziare ancora volta Asi e tutto il team scientifico che, oltre a Inaf, comprende l’istituto Ifac del Cnr, il Politecnico di Milano e le università di Bologna e Parthenope di Napoli».

Fonte: comunicato stampa Argotec-Asi

Guarda su MediaInaf Tv il video del settembre 2022 sull’impatto documentato da LiciaCube:

youtube.com/embed/3WGgD4W7ZM4?…


I colori di Earendel, la stella più lontana


8704271
8704273
In questa immagine di Jwst è presente la galassia più ingrandita a oggi conosciuta nei primi miliardi di anni dell’universo, il Sunrise Arc (che appare come un arco rosso appena sotto il picco di diffrazione, a ore 5) e, in quella galassia, la stella più lontana mai rilevata. Crediti: Nasa, Esa, Csa, D. Coe (StScI/Aura per Esa; Johns Hopkins University), B. Welch (Goddard Space Flight Center della Nasa; Università del Maryland, College Park), Z. Levay.

A poco più di un anno dallo straordinario record che il telescopio spaziale Hubble ha stabilito osservando Earendel – o stella del mattino, in inglese antico, la stella più lontana mai rilevata – oggi è il telescopio spaziale James Webb che ci regala la sua immagine, di quando stava brillando in un’epoca in cui l’universo aveva solo un miliardo di anni.

La stella si trova nella galassia Sunrise Arc ed è rilevabile solo grazie alla sinergia tra la potente tecnologia impiegata da Webb e la Natura, attraverso un effetto noto come lente gravitazionale. Sia Hubble che Webb, infatti, sono stati in grado di rilevare Earendel grazie al suo fortunato allineamento con l’ammasso di galassie WHL0137-08. Tale ammasso, situato tra noi e la stella, è così massiccio da deformare il tessuto dello spaziotempo, consentendo agli astronomi di guardare oltre l’ammasso come se fosse una lente d’ingrandimento.

Mentre altre caratteristiche nella galassia appaiono più volte a causa della lente gravitazionale, Earendel appare come un singolo punto di luce anche nell’imaging a infrarossi ad alta risoluzione di Webb. Sulla base di questo, gli astronomi hanno capito che l’oggetto è ingrandito di almeno un fattore 4mila.

Lo strumento NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb ha rivelato che Earendel è una stella massiccia di tipo B, il doppio più calda del Sole e circa un milione di volte più luminosa. Stelle così massicce hanno spesso dei compagni. Gli astronomi non si aspettavano che Webb rivelasse alcun compagno di Earendel poiché sarebbero così vicini da essere pressoché indistinguibili nel cielo. Tuttavia, basandosi esclusivamente sui colori di Earendel, pensano di vedere tracce di una stella compagna più fredda e rossa. La sua luce è stata allungata dall’espansione dell’universo a lunghezze d’onda più lunghe di quelle che gli strumenti di Hubble possono rilevare, e quindi è stato possibile rilevarla solo con Webb.

La NirCam di Webb mostra anche altri dettagli nel Sunrise Arc, che di fatto è la galassia più ingrandita mai rilevata nel primo miliardo di anni dell’universo: giovani regioni di formazione stellare e ammassi stellari più vecchi, con un diametro di soli 10 anni luce. Su entrambi i lati dell’arco di massimo ingrandimento che attraversa Earendel, queste caratteristiche sono rispecchiate dalla distorsione della lente gravitazionale. La regione di formazione stellare appare allungata e si stima che abbia meno di 5 milioni di anni. I punti più piccoli su entrambi i lati di Earendel sono due immagini di un ammasso stellare più antico e consolidato, che si stima abbia almeno 10 milioni di anni. Gli astronomi hanno determinato che questo ammasso stellare è legato gravitazionalmente e probabilmente esiste anche ai giorni nostri. Quindi l’immagine ci mostra come potevano apparire gli ammassi globulari nella Via Lattea 13 miliardi di anni fa, quando si sono formati.

8704275
Lo strumento NirCam (Near-Infrared Camera) di Webb rivela che Earendel è una stella massiccia di tipo B, il doppio più calda del Sole e circa un milione di volte più luminosa. Crediti: Nasa, Esa, Csa, D. Coe (StScI/Aura per Esa; Johns Hopkins University), B. Welch (Goddard Space Flight Center della Nasa; Università del Maryland, College Park), Z. Levay.

Gli astronomi stanno attualmente analizzando i dati delle osservazioni dello strumento NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) di Webb della galassia Sunrise Arc e di Earendel, che forniranno misurazioni precise della composizione e della distanza per la galassia.

Dalla scoperta di Earendel da parte di Hubble, Webb ha rilevato altre stelle molto distanti utilizzando questa tecnica, sebbene nessuna così lontana come la stella del mattino. Sempre grazie a una lente gravitazionale, ad esempio, è stata trovata Quyllur, una gigante rossa a 3 miliardi di anni dopo il Big Bang.

Queste scoperte hanno aperto una nuova finestra sulla fisica stellare e offrono nuovi spunti agli scienziati che studiano l’universo primordiale, dove un tempo le galassie erano gli oggetti cosmici più piccoli rilevabili. Il team che si sta occupando di questa ricerca ha una cauta speranza che questo possa essere un passo verso l’eventuale rilevamento di una delle primissime generazioni di stelle – le cosiddette stelle di popolazione III – composte solo dai primissimi ingredienti dell’universo: idrogeno ed elio.


Ingenuity di nuovo in volo


8701402
8701404
Questa immagine del rover Perseverance della Nasa – visibile in alto, a destra – è stata scattata a circa 5 metri di quota dall’elicottero Ingenuity durante il suo 54esimo volo, il 3 agosto 2023, 872esimo sol della missione. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu/Msss

Il 3 agosto, Ingenuity della Nasa ha completato con successo il suo 54esimo volo su Marte, il primo da quando l’elicottero ha interrotto inaspettatamente quello del 22 luglio. L’ascensione e la discesa di 25 secondi hanno fornito dati che potrebbero aiutare a capire perché il volo precedente è terminato in anticipo.

Il volo 53 era stato pianificato come volo di ricognizione di 136 secondi, dedicato alla raccolta di immagini della superficie del pianeta. Ingenuity avrebbe dovuto dirigersi verso nord per 203 metri, mantenendosi a un’altitudine di 5 metri e una velocità di 2,5 metri al secondo, quindi effettuare una discesa verticale a 2,5 metri, dove avrebbe dovuto ottenere immagini di uno sperone roccioso. Poi su dritto fino a 10 metri, per consentire al suo sistema di deviazione del pericolo di avviarsi, prima di scendere verticalmente per atterrare. Questo sistema è stato aggiunto tramite un aggiornamento software all’elicottero alla fine del 2022 e consente a Ingenuity di identificare le aree non adatte all’atterraggio e quelle migliori per atterrare. Per attivarsi, ha bisogno di essere a una certa quota.

Ciò che invece è successo è che l’elicottero ha eseguito più o meno la metà del suo viaggio, volando verso nord a un’altitudine di 5 metri per soli 142 metri. Quindi si è attivato il programma di emergenza di volo e Ingenuity è atterrato automaticamente. Il tempo di volo totale è stato di 74 secondi.

«Sin dal primo volo abbiamo incluso un programma chiamato LAND_NOW progettato per portare l’elicottero sulla superficie il prima possibile nel caso in cui si verificasse uno qualsiasi di una dozzina di scenari non nominali», spiega Teddy Tzanetos, responsabile del team di Ingenuity al Jet Propulsion Laboratory della Nasa. «Durante il volo 53, abbiamo incontrato uno di questi scenari e l’elicottero ha funzionato come previsto e ha eseguito un atterraggio immediato».

Il team di Ingenuity pensa che l’atterraggio anticipato sia stato attivato quando i frame delle immagini della telecamera di navigazione dell’elicottero non si sono sincronizzati come previsto con i dati dell’unità di misurazione inerziale dell’aeromobile. Tale unità misura l’accelerazione e la velocità di rotazione di Ingenuity, dati che consentono di stimare dove si trova l’elicottero, quanto velocemente si muove e come è orientato nello spazio. Effettivamente, questa non è stata la prima occasione in cui i fotogrammi delle immagini della Navcam sono andati persi. Il 22 maggio 2021, più fotogrammi dell’immagine sono stati eliminati, con conseguente beccheggio e rollio eccessivi verso la fine del sesto volo. Dopo il sesto volo, il team ha aggiornato il software per mitigare l’impatto delle immagini perse e la correzione ha funzionato bene per i successivi 46 voli. Tuttavia, sul volo 53 la quantità di immagini di navigazione rilasciate ha superato quanto consentito dalla patch del software.

«Sebbene speravamo di non innescare mai un LAND_NOW, questo volo è un prezioso caso di studio che andrà a beneficio dei futuri velivoli che opereranno su altri mondi», conclude Tzanetos. «Il team sta lavorando per capire meglio cosa sia successo nel volo 53 e, con il successo del volo 54, siamo fiduciosi che il nostro piccolo sia pronto per continuare a volare su Marte».


Caccia alla meteorite di Macchia Valfortore


8693259
Recita Wikipedia: “Macchia Valfortore è un comune italiano di 484 abitanti in provincia di Campobasso in Molise”. Probabilmente non lo avete mai sentito nominare, ma vicino a questo paesino è caduta la meteorite associata al brillante fireball del 5 agosto scorso alle 22:21 ora locale, ripreso e triangolato dalle camere Prisma di Capua e Vasto. Questo fireball è stato visto e segnalato anche da 53 persone che hanno compilato il fireball report form dell’IMO. Facciamo un riepilogo dei fatti e vediamo esattamente dove si colloca la zona dello strewn field (o area della caduta).

8693261
Lo strewn field della meteorite di Macchia Valfortore. A sinistra la zona delle meteoriti più leggere, a destra quelle più pesanti. Crediti: Prisma/A. Carbognani

In base ai risultati della triangolazione geometrica, eseguita con i dati delle due camere Prisma, il fireball è comparso a un’altezza di circa 77 km, al confine tra la Campania e il Molise. Il meteoroide, con una velocità iniziale di poco superiore a 13,5 km/s, ha percorso in circa 5,2 secondi quasi 63 km con direzione da Sud-Ovest verso Nord-Est e un’inclinazione di circa 60 gradi sull’orizzonte. Il fireball si è estinto alla quota di 22,5 km, quando la velocità era scesa a 4,3 km/s, entrando nella fase di volo buio. Non sempre è così, anzi la maggior parte dei fireball si estingue perché il meteoroide si è completamente consumato, ma in questo caso le cose sono andate diversamente.

8693263
Il volo buio della meteorite di Macchia Valfortore determinato dai ricercatori della rete Prisma. Il percorso non lineare è dovuto all’effetto dei venti atmosferici. Crediti: Prisma/A. Carbognani

La massa del meteoroide originario è stata stimata fra 30 e 70 kg, mentre quella residua arrivata al suolo oscilla fra 250 g e 1,4 kg. Tuttavia non bisogna aspettarsi di ritrovare meteoriti così grandi, infatti il meteoroide durante la sua caduta ha subito due importanti frammentazioni a 34 e a 26 km di quota riducendo drasticamente le dimensioni di quello che si può ritrovare al suolo. Tenendo conto della frammentazione, ci si può aspettare di trovare meteoriti dalla decina fino al centinaio di grammi. Considerando il profilo della velocità e direzione dei venti per la zona della caduta, lo strewn field dove andare a cercare le meteoriti si colloca a Nord-Ovest dell’abitato di Macchia Valfortore, a sua volta a Ovest del Lago di Occhito. Grazie all’elevata inclinazione della traiettoria la zona in cui cercare le meteoriti è abbastanza compatta, misura circa 2,5 x 0,7 km (1,7 kmq), quindi la probabilità di successo con una ricerca sistematica è elevata. Lo strewn field è quasi esattamente in direzione Nord-Sud, compreso fra la coppia di coordinate geografiche (41,59167° N, 14,90717° E) e (41,614012° N, 14,90778° E). Quest’area è attraversata dalle ultime curve della SP39 poco prima di arrivare a Macchia Valfortore, quindi è possibile che qualche piccola meteorite si trovi direttamente sulla strada. Se qualcuno, abitante in zona, si imbattesse in un piccolo sasso – o in una serie di piccoli sassi – ricoperto da una patina scura (crosta di fusione) e con gli angoli smussati allora si tratta di una sospetta meteorite e per un corretto recupero deve fare le seguenti operazioni:

1-Fotografare la sospetta meteorite al suolo senza toccare niente per documentare il ritrovamento, magari mettendo di fianco una moneta da 1-2 € per dare un’idea delle dimensioni reali.

2-Rilevare e segnare le coordinate Gps del punto di ritrovo.

3-Indossare guanti di cotone, raccogliere la meteorite con delicatezza in modo che non si stacchi la crosta di fusione e avvolgerla in uno o più pezzi di carta assorbente pulita.

4-Mettere la sospetta meteorite, avvolta nella carta assorbente, in un vasetto di vetro e chiudere il tappo. In questo modo la candidata meteorite è al sicuro, lontano da contaminazioni umane.

5- Segnalare a Prisma il ritrovamento, inviando una foto con la descrizione delle modalità di ritrovamento e le coordinate Gps all’indirizzo email prisma_po@inaf.it, oppure telefonare al coordinatore nazionale di Prisma, Daniele Gardiol dell’Inaf-Osservatorio Astrofisico di Torino (tel. 3491977591).

In questo modo Prisma potrà verificare se si tratta di una meteorite oppure di una pietra comune. Nel primo caso andranno fatte ulteriori analisi in laboratorio, assolutamente gratuite. Alla fine delle analisi al ritrovatore verrà restituito l’80% della meteorite, il resto andrà in un museo come campione rappresentativo della meteorite. In seguito alle analisi la meteorite riceverà il nome e la classificazione ed entrerà a far parte dell’elenco delle meteoriti ufficialmente riconosciute. Va detto che le meteoriti non classificate sono prive di valore commerciale, quindi affinché il ritrovamento abbia un qualche valore il frammento deve prima essere analizzato e classificato dai ricercatori: non tenete mai nel solito cassetto una sospetta meteorite.


La contaminazione chimica sulla Stazione spaziale


8688846
8688848
Stazione spaziale internazionale (Iss). Crediti: Nasa

Un nuovo studio pubblicato su Environmental Science and Technology Letters rivela che le concentrazioni di alcuni composti chimici potenzialmente dannosi nella polvere raccolta dai sistemi di filtraggio dell’aria sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) superano quelle trovate nella polvere del pavimento di molte case degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. È il primo studio di questo tipo, condotto analizzando un campione di polvere dai filtri dell’aria all’interno della Iss.

I ricercatori coinvolti nello studio – dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito, e del Glenn Research Center della Nasa, negli Stati Uniti – affermano che le loro scoperte potrebbero guidare la progettazione e la costruzione di futuri veicoli spaziali.

I contaminanti trovati nella “polvere spaziale” includono eteri di difenile polibromurati (Pbde), esabromociclododecano (Hbcdd), nuovi ritardanti di fiamma bromurati (Bfr), esteri organofosfati (Ope), idrocarburi policiclici aromatici (Pah), sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) e policlorobifenili (Pcb).

I Bfr e gli Ope sono utilizzati in molti paesi per soddisfare le normative sulla sicurezza antincendio in applicazioni di consumo e commerciali come apparecchiature elettriche ed elettroniche, isolamento degli edifici, tessuti per arredamento e schiume.

I Pah sono presenti nei combustibili idrocarburici ed emessi dai processi di combustione, i Pcb sono stati utilizzati nei sigillanti per edifici e finestre e nelle apparecchiature elettriche come fluidi dielettrici, mentre i Pfas sono stati utilizzati in applicazioni come agenti antimacchia per tessuti e abbigliamento. Tuttavia, i loro potenziali effetti sulla salute umana hanno portato al divieto o alla limitazione dell’uso di alcuni di essi.

I Pcb, alcuni Pfas, Hbcdd e le formulazioni commerciali Penta- Octa- e Deca-Bde dei Pbde sono classificati come inquinanti organici persistenti (Pop) ai sensi della Convenzione di Stoccolma dell’Unep. Inoltre, alcuni Ipa sono classificati come cancerogeni per l’uomo, mentre alcuni Ope sono oggetto di restrizione da parte dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche.

«Le nostre scoperte hanno implicazioni per le future stazioni spaziali e gli habitat, dove potrebbe essere possibile escludere molte fonti contaminanti mediante attente scelte di materiali nelle prime fasi di progettazione e costruzione», commenta Stuart Harrad, dell’Università di Birmingham, co-autore dello studio. «Mentre le concentrazioni di contaminanti organici scoperti nella polvere della Iss spesso superavano i valori mediani trovati nelle case e in altri ambienti interni negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, i livelli di questi composti erano generalmente all’interno dell’intervallo trovato sulla terra».

I ricercatori osservano che le concentrazioni di Pbde nel campione di polvere che rientrano nell’intervallo di concentrazioni rilevate nella polvere domestica degli Stati Uniti possono dipendere dall’uso sulla Iss di ritardanti di fiamma inorganici come il diidrogenofosfato di ammonio, usato per rendere ignifughi tessuti e cinghie. Ritengono che l’uso di articoli “pronti all’uso” disponibili in commercio portati a bordo per l’uso personale degli astronauti – come macchine fotografiche, lettori mp3, tablet, dispositivi medici e abbigliamento – siano potenziali fonti di molte delle sostanze chimiche rilevate.

L’aria all’interno della Iss è costantemente reimmessa in circolo con 8-10 cambi all’ora. Sebbene si verifichi la rimozione di anidride carbonica e tracce di contaminanti gassosi, non è noto il grado in cui vengano rimosse sostanze chimiche come i Bfr. Alti livelli di radiazioni ionizzanti possono accelerare l’invecchiamento dei materiali, inclusa la scomposizione dei prodotti in plastica in micro e nanoplastiche, che si disperdono nell’aria nell’ambiente di microgravità. Questo potrebbe essere il motivo per cui le concentrazioni e l’abbondanza relativa di Pbde, Hbcdd, Nbfr, Ope, Ipa, Pfas e Pcb nella polvere della Iss differiscono notevolmente da quelle nella polvere dei microambienti interni terrestri.

Per saperne di più:


Marte ruota ogni anno un po’ più velocemente


8687021
Ogni anno, un giorno su Marte dura 760 nanosecondi in meno. Una differenza di tempo impercettibile, inferiore al milionesimo di secondo, ma misurabile. Significa che il pianeta sta accelerando il proprio moto di rotazione di circa 4 milliarcosecondi all’anno quadrato (4 mas/y2). I dati provengono dalla missione della Nasa InSight, e sono stati pubblicati in un articolo sulla rivista Nature.

8687023
Questo disegno del lander InSight della Nasa su Marte evidenzia le antenne sul ponte del veicolo spaziale. Insieme a un transponder radio nel lander, queste antenne costituiscono lo strumento chiamato Rotation and Interior Structure Experiment, o Rise, usato per stimare la rotazione di Marte. Crediti: Nasa/Jpl Caltech

Alla cabina di regia c’era InSight, dicevamo, il lander della Nasa che ha lavorato per quattro anni sul Pianeta rosso lasciando in eredità una grande quantità di dati, che verranno analizzati nei prossimi anni. La talpa – così è soprannominato InSight, proprio perché progettata per affondare e scavare il terreno marziano – infatti ha ufficialmente finito le batterie lo scorso dicembre, e in seguito a due tentativi di connessione falliti, la Nasa ha decretato la fine delle operazioni.

Per determinare il tasso di rotazione del pianeta, gli autori dello studio hanno sfruttato le informazioni provenienti da uno degli strumenti di InSight, il Rotation and Interior Structure Experiment, o Rise. Formato da un trasponder e alcune antenne, Rise si inserisce in una lunga tradizione di lander marziani che utilizzano le onde radio per scopi scientifici. Fra i suoi predecessori, i due lander Viking negli anni ’70 e il lander Pathfinder alla fine degli anni ’90. Ma nessuna di queste missioni aveva il vantaggio della tecnologia radio avanzata di InSight e né poteva contare sugli aggiornamenti alle antenne della Deep Space Network della Nasa sulla Terra: miglioramenti che hanno permesso di ottenere dati cinque volte più precisi.

Per cercare variazioni nel moto di rotazione di Marte, gli scienziati hanno utilizzato i dati raccolti nei primi 900 giorni di vita dello strumento: in particolare, hanno misurato le variazioni Doppler nel segnale riflesso dalla sonda verso le antenne del Deep Space Network. Qualsiasi ritardo o anticipo nel segnale in arrivo poteva essere causato, fra le altre cose, da cambiamenti nel moto di rotazione. Altri fenomeni che possono rallentare il segnale in arrivo e produrre un effetto simile sono, ad esempio, la presenza di acqua, il cambiamento nelle condizioni di umidità dell’atmosfera terrestre, o ancora il vento solare. Una volta eliminate queste fonti di rumore, gli scienziati sono andati alla ricerca del segnale: hanno trovato una piccola accelerazione residua che hanno imputato alla rotazione del pianeta ma della cui causa, però, stanno ancora discutendo. Il fenomeno fisico che l’ha innescata potrebbe essere l’accumulo di ghiaccio sulle calotte polari del pianeta rosso o qualche altro meccanismo post-glaciale, come il riemergere della terra dopo essere stata sepolta dal ghiaccio. Fenomeni che causano uno spostamento del centro di massa del pianeta che può alterare l’accelerazione, un po’ come come accade a un pattinatore sul ghiaccio quando ruota con le braccia distese e poi le ritira.

Grazie ai dati di Rise, poi, gli autori hanno misurato anche l’oscillazione di Marte – o nutazione – dovuta ai movimenti del nucleo liquido al centro del pianeta. Sono riusciti, in particolare, a separare i contributi del nucleo e del mantello nell’analisi, e a determinare anche le dimensioni e la forma del nucleo: in base ai dati, hanno calcolato un raggio di circa 1.835 chilometri, e una densità media di 5.955-6.290 kg/m3, che aumenta al confine nucleo-mantello fino a 1.690-2.110 kg/m3. Confrontando questo dato con le misure del sismometro di InSight, hanno determinato un intervallo di dimensioni più probabile per il nucleo, che avrebbe un raggio compreso tra 1.790 e 1.850 chilometri. Per quel che riguarda la forma e la composizione del nucleo, invece, i risultati hanno evidenziato la presenza di anomalie di massa in profondità, che non sono compatibili con l’esistenza di un nucleo interamente solido.

Insomma, dopo quattro anni di onorato servizio, i dati di InSight costituiranno un’eredità che gli scienziati si porteranno dietro ancora per molto tempo.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Spin state and deep interior structure of Mars from InSight radio tracking“, di Sébastien Le Maistre, Attilio Rivoldini, Alfonso Caldiero, Marie Yseboodt, Rose-Marie Baland, Mikael Beuthe, Tim Van Hoolst, Véronique Dehant, William M. Folkner, Dustin Buccino, Daniel Kahan, Jean-Charles Marty, Daniele Antonangeli, James Badro, Mélanie Drilleau, Alex Konopliv, Marie-Julie Péters, Ana-Catalina Plesa, Henri Samuel, Nicola Tosi, Mark Wieczorek, Philippe Lognonné, Mark Panning, Suzanne Smrekar e W. Bruce Banerdt


Un record di energia per i fotoni solari


8672315
8672317
La Michigan State University fa parte della collaborazione che utilizza High-Altitude Water Cherenkov Observatory in Messico per studiare i fenomeni ad alta energia nella nostra galassia. Crediti: Jordan A. Goodman/Wikimedia Commons

Secondo Edgar Allan Poe, il posto migliore per nascondere qualsiasi cosa è in piena vista.

Effettivamente, per quanto riguarda la nostra stella sembra proprio essere così. Un team internazionale di ricercatori ha infatti scoperto che il Sole è sorprendentemente brillante nei raggi gamma, molto più brillante del previsto, dimostrando che l’energia dei raggi solari si estende fino a quasi 10 TeV. I dettagli della scoperta sono presentati in un articolo pubblicato sulla rivista Physical Review Letters.

Sebbene la luce ad alta energia non raggiunga la superficie terrestre, questi raggi gamma generano firme che sono state rilevate da Mehr Un Nisa e dai suoi collaboratori, utilizzando uno strumento molto particolare: lo High-Altitude Water Cherenkov Observatory, o Hawc.

Finanziato dalla National Science Foundation e dal National Council of Humanities Science and Technology, Hawc, a differenza di altri osservatori, è sempre in funzione. «In questo particolare regime energetico, altri telescopi terrestri non potrebbero guardare il Sole perché funzionano solo di notte», spiega Nisa. «Il nostro è operativo 24 ore su 24, 7 giorni su 7».

Oltre a funzionare in modo differente dai telescopi convenzionali, Hawc ha un aspetto molto diverso dal tipico telescopio. Niente tubi dotati di lenti, ma una schiera di 300 grandi serbatoi d’acqua, ciascuno riempito con circa 200 tonnellate d’acqua. La schiera è incastonata sui fianchi del vulcano Sierra Negra, a più di 4mila metri sopra il livello del mare. Da questo punto di osservazione, può osservare ciò che accade quando i raggi gamma colpiscono l’aria nell’atmosfera terrestre. Le collisioni che avvengono creano quelli che vengono chiamati sciami d’aria, che sono un po’ come esplosioni di particelle impercettibili a occhio nudo.

8672319
Che aspetto ha un eccesso di raggi gamma solari per la High-Altitude Water Cherenkov Observatory Collaboration, che comprende ricercatori della Michigan State University. Crediti: Hawc Collaboration

L’energia del raggio gamma originale viene liberata e ridistribuita tra nuovi “frammenti” costituiti da particelle di energia più bassa e luce. Sono queste particelle – e le nuove particelle che creano mentre scendono verso il suolo – che Hawc può “vedere”. Quando le particelle dello sciame interagiscono con l’acqua nelle vasche, creano quella che è nota come radiazione Cherenkov che può essere rilevata con gli strumenti dell’osservatorio.

Nisa e i suoi colleghi hanno iniziato a raccogliere dati nel 2015. Nel 2021, ne avevano accumulati a sufficienza per iniziare a esaminare i raggi gamma del Sole in dettaglio. «Dopo aver esaminato i dati di sei anni, è emerso questo eccesso di raggi gamma», riporta la ricercatrice. Quando l’hanno visto per la prima volta, racconta Nisa, temevano di aver combinato qualcosa di sbagliato perché non si aspettavano che il Sole fosse così luminoso a queste energie.

Il Sole emette luce su una vasta gamma di lunghezze d’onda, o di energia. Attraverso le sue reazioni nucleari genera luce visibile, quella che vediamo. Ad esempio, a ciascun fotone di luce rossa (di lunghezza d’onda pari a circa 700 nm) che viene assorbito dalle piante per fare la fotosintesi clorofilliana, corrisponde un’energia di circa 2 elettronvolt (eV). I raggi gamma osservati da Nisa e dai suoi colleghi avevano circa mille miliardi di elettronvolt, o 1 tera elettronvolt, abbreviato in 1 TeV. Non solo questo livello di energia è sorprendente, ma lo è anche il fatto che ne abbiano vista così tanta.

Negli anni ’90, gli scienziati hanno predetto che il Sole potrebbe generare raggi gamma quando i raggi cosmici ad alta energia – particelle accelerate da una “centrale cosmica” come un buco nero o una supernova – si schiantano contro i protoni nel Sole. Ma, sulla base di ciò che si sapeva sui raggi cosmici e sul Sole, i ricercatori hanno anche ipotizzato che sarebbe stato raro vedere questi raggi gamma raggiungere la Terra.

A quel tempo, però, non esisteva uno strumento in grado di rilevare raggi gamma ad alta energia e non ci sarebbe stato per un bel po’. La prima osservazione di raggi gamma con energie superiori a un miliardo di elettronvolt è arrivata dal telescopio spaziale a raggi gamma Fermi della Nasa, nel 2011.

8672321
Mehr Un Nisa, la ricercatrice post-doc della Michigan State University, presso Hawc (High-Altitude Water Cherenkov Observatory). Crediti: Mehr Un Nisa

Negli anni successivi, la missione Fermi dimostrò non solo che questi raggi potevano essere molto energetici, ma anche che ce n’erano circa sette volte di più di quanto gli scienziati si aspettassero inizialmente. E sembrava che ce ne fossero altri da scoprire a energie ancora più elevate. Le misurazioni del telescopio Fermi dei raggi gamma del Sole hanno raggiunto un massimo di circa 200 miliardi di elettronvolt.

John Beacom e Annika Peter, due professori della Ohio State University, hanno incoraggiato la Hawc Collaboration a dare un’occhiata. La Hawc Collaboration include più di 30 istituzioni in Nord America, Europa e Asia, e una parte considerevole è rappresentata dai quasi cento autori del nuovo articolo.

Ora, per la prima volta, il team ha dimostrato che le energie dei raggi del Sole si estendono nella gamma dei TeV, fino a quasi 10 TeV.

La scoperta sta generando più domande che risposte. Secondo Nisa, gli scienziati solari avranno un bel da fare per capire come sia possibile che questi raggi gamma raggiungano energie così elevate e quale ruolo giochino i campi magnetici del Sole. Ma questa incertezza fa parte del gioco. Quello che i ricercatori hanno trovato ci dice che c’è qualcosa di sbagliato, o di mancante… o forse entrambe le cose, nella comprensione della nostra stella, che Hawc ci sta facendo vedere sotto una luce diversa. Letteralmente.

Per saperne di più:


M57, un anello per Webb


8670971
Il soggetto è famosissimo, fra gli appassionati di astronomia: è M57, meglio noto – per ovvi motivi – come Nebulosa Anello. Comodamente collocata a circa 2600 anni luce da noi nella costellazione della Lira (dunque ben visibile dal nostro emisfero per tutta l’estate) e girata com’è in modo da mostrare l’anello “dall’alto”, a favore di camera, M57 l’hanno immortalata praticamente tutti, dagli astrofili – qui alcuni bellissimi esempi – a Hubble, autore dell’incantevole Astronomy Picture of the Day del 2 aprile scorso. Ma un’immagine come quella prodotta il 4 agosto 2022 dal James Webb Space Telescope, resa pubblica la settimana scorsa da un team di astronomi guidato da Mike Barlow di Ucl (University College London, Regno Unito) e riportata qui sotto, non l’avevamo vista mai.

8670975
La nebulosa Messier 57 vista dal telescopio spaziale James Webb. Crediti: Nasa/Esa/Csa/The University of Manchester

È un’immagine composita ottenuta combinando le immagini ottenute con tre diversi filtri – F212N (blu), F300M (verde) e F335M (rosso) – dallo strumento NirCam, la fotocamera per il vicino infrarosso di Jwst. La prima cosa che lascia stupefatti è la definizione. «Siamo sorpresi dai dettagli delle immagini, migliori di tutte quelle mai viste prima», dice uno degli scienziati del team, Albert Zijlstra dell’Università di Manchester (Regno Unito). «Abbiamo sempre saputo che le nebulose planetarie sono belle. Ma quello che vediamo ora è spettacolare».

8670977
In alto, un dettaglio della regione centrale della nebulosa, con la nana bianca che l’ha originata al centro. In basso, un dettaglio della “parete” dell’anello, formata da aggregazioni di idrogeno molecolare. Crediti: Nasa/Esa/Csa/The University of Manchester

La spettacolarità è però solo la superficie, di quest’immagine. La sua vera ricchezza sta nell’informazione scientifica che contiene. Nebulosa planetaria, dicevamo. Un termine del tutto fuorviante, in quanto questi oggetti non hanno nulla a che fare con i pianeti. Sono ciò che resta al termine della vita di stelle di piccola massa – stelle come il Sole, che fra qualche miliardo di anni andrà probabilmente ad arricchire il ricco catalogo delle nebulose planetarie della Via Lattea.

Nell’immagine di Webb il “cadavere” della stella che ha dato origine alla nebulosa lo possiamo vedere proprio al centro: ancora caldissima – oltre 100mila gradi – ma già in fase di lento raffreddamento, sta diventando una nana bianca. Tutt’attorno, all’interno dell’anello, il gas caldo ionizzato espulso dalla stella all’epoca della formazione della nebulosa, circa quattromila anni fa. Infine, all’esterno, s’incontra l’anello vero e proprio, quello che dà il nome alla nebulosa. Ingrandendolo si può notare che è formato da decine di migliaia di piccoli “grumi” – clumps, in inglese: gli astronomi ne hanno contati circa 20mila – contenenti idrogeno molecolare, molto più freddi e densi del resto della nebulosa.

«Queste immagini non hanno solo un fascino estetico», sottolinea un altro dei membri del team, l’astronomo Nick Cox di Acri-St (Francia), «forniscono informazioni scientifiche sui processi di evoluzione stellare. Studiando la Nebulosa Anello con Jwst speriamo di arrivare a una comprensione più profonda dei cicli di vita delle stelle e degli elementi da esse rilasciati nel cosmo».

Guarda la sequenza di immagini prodotta da Roger Wesson della Cardiff University:

youtube.com/embed/78sjkGypk20?…


Dalle galassie submillimetriche ai superammassi


8659233
8659235
Rappresentazione artistica della formazione di un ammasso di galassie nell’universo primordiale. Crediti: Eso/M. Kornmesser

Un po’ come la popolazione umana tende ad aggregarsi in villaggi, città, metropoli e megalopoli, anche le galassie nell’universo – pur sotto la spinta di tutt’altra forza – si organizzano in gruppi piccoli, medi e grandi, fino a formare le più massicce strutture cosmiche tenute insieme dalla mutua gravità: gli ammassi di galassie. Questi agglomerati, che raccolgono da centinaia a migliaia di galassie oltre a grandi quantità di gas caldo e dell’invisibile materia oscura, hanno origine dai protoammassi di galassie, le strutture più estese che popolavano il cosmo primordiale appena un miliardo di anni dopo il Big Bang.

La comunità astronomica è particolarmente interessata ai protoammassi e alla loro popolazione galattica per studiare e comprendere a fondo la formazione ed evoluzione delle strutture a larga scala dell’universo. Scovarli nel cielo, tuttavia, è particolarmente arduo e così il numero di protoammassi noti è rimasto finora piuttosto limitato. Ma la situazione potrebbe cambiare presto: basta sapere dove cercare. Una collaborazione tra istituti di ricerca in Italia e Spagna propone un nuovo metodo, centrando l’indagine intorno a un tipo particolare di galassie: le galassie submillimetriche (submillimeter galaxies, o Smg), tra le più massicce dell’universo, caratterizzate da un tasso di formazione stellare che può superare di oltre cento volte quello della Via Lattea. Scoperte alla fine degli anni Novanta, queste galassie devono il loro nome all’intensa emissione che le distingue nella banda submillimetrica, la porzione dello spettro elettromagnetico tra l’infrarosso e le microonde.

«Diversi studi precedenti hanno mostrato evidenza che le galassie submillimetriche risiedono al centro di protoammassi di galassie. Tuttavia altri studi hanno riportato risultati contrastanti. Il nostro lavoro rappresenta il primo studio sistematico dell’ambiente su larga scala di un campione di Smg confermate spettroscopicamente», spiega Rosa Calvi, ricercatrice all’Università di Ferrara e associata all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), prima autrice del lavoro pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Calvi e colleghi hanno cercato protoammassi intorno a dodici galassie submillimetriche, trovandone in ben undici casi. I risultati hanno confermato in modo indipendente tre protoammassi già noti e indicando la presenza di cinque nuove strutture. Uno di essi, intorno alla galassia Gn10, è tra i più lontani mai osservati: la sua luce ha viaggiato per oltre dodici miliardi e mezzo di anni prima di raggiungere la Terra.

8659237
La distribuzione 3d dei protoammassi rivelati intorno a 12 galassie submillimetriche (quadrati rossi) utilizzando uno dei 3 campioni di galassie presi in esame. Il colore dei puntini indica distanze crescenti, dal giallo al verde fino al blu (cliccare per ingrandire). Crediti: Calvi et al. 2023

«Lo studio ha dimostrato che le galassie submillimetriche sono traccianti eccellenti di protoammassi», nota il co-autore Gianluca Castignani, ricercatore all’Università di Bologna e associato Inaf. «Il nostro lavoro ha anche gettato una nuova luce sulla connessione fisica tra le Smg e il loro ambiente circostante, mostrando una correlazione, mai osservata in precedenza, tra la quantità di gas molecolare delle Smg (il carburante da cui si formano le stelle) e la significatività delle sovradensità associate. Per spiegare questa correlazione abbiamo proposto lo scenario secondo cui le interazioni fra galassie negli ambienti più densi hanno agevolato la caduta di gas e il conseguente forte tasso di formazione stellare che caratterizza le Smg più brillanti».

Oltre a un innovativo metodo statistico per cercare agglomerati di galassie più densi della media attorno ad un dato punto nel cielo, sviluppato e applicato con successo da Castignani e collaboratori in lavori precedenti, è stata determinante la disponibilità di nuovi cataloghi di galassie in diverse lunghezze d’onda, che hanno permesso di caratterizzare i protoamassi fino a distanze remote. In parallelo, il recente sviluppo di interferometri radio come Noema, sulle Alpi francesi, ha reso possibile la rilevazione di un numero sempre crescente di galassie submillimetriche per stilare i cataloghi da cui è partita la ricerca. E le prospettive future sembrano ancor più promettenti.

«Gn10 e gli altri protoammassi di questo lavoro sono ottimi target per il James Webb Space Telescope», aggiunge Calvi. «Nei prossimi anni il numero di protoammassi confermati e caratterizzati crescerà notevolmente. In particolare il satellite Euclid, uno strumento rivoluzionario per lo studio delle strutture a larga scala, permetterà la scoperta e caratterizzazione di migliaia di protoammassi».

Per saperne di più:


Eruzione solare avvertita su Terra, Luna e Marte


8655815
8655817
L’espulsione di massa coronale del 21 ottobre 2021, vista da Soho. Durante questi rari eventi, conosciuti come ground level enhancement (Gle), le particelle solari sono abbastanza energetiche da passare attraverso la bolla magnetica che circonda la Terra e ci protegge da esplosioni solari meno energetiche. Questo è stato il 73esimo Gle da quando sono iniziate le registrazioni negli anni ’40 e da allora non ne sono stati registrati altri. Crediti: Soho (Esa & Nasa)

Il 28 ottobre 2021 il Sole ha emesso un brillamento solare di classe X1.0, ossia molto intenso. Così intenso da raggiungere sia la Terra che Marte, mentre si trovavano ai lati opposti del Sole e distanti circa 250 milioni di chilometri. È la prima volta che un evento solare è stato misurato simultaneamente sulla superficie della Terra, della Luna e di Marte, come riportato in un articolo pubblicato il 2 agosto su Geophysical Research Letters.

L’esplosione è stata rilevata da diversi veicoli spaziali tra cui ExoMars Trace Gas Orbiter (Tgo) dell’Esa, il rover Curiosity su Marte della Nasa, il lander lunare Chang’e-4 della Cnsa, il Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro) della Nasa e la missione EuCropis del Dlr. Si tratta di un esempio di un raro ground level enhancement(Gle), il 73esimo da quando sono iniziate le registrazioni negli anni ’40 e da allora non ne sono più stati registrati. Durante questi eventi, le particelle solari sono abbastanza energetiche da passare attraverso la bolla magnetica che circonda la Terra e ci protegge da esplosioni solari meno energetiche.

Poiché la Luna e Marte non hanno forti campi magnetici, le particelle solari possono raggiungere facilmente le loro superfici e persino interagire con il suolo per generare radiazioni secondarie. Tuttavia, Marte ha una sottile atmosfera che blocca la maggior parte delle particelle solari a bassa energia e rallenta quelle ad alta energia.

8655819
Le misurazioni della dose di radiazioni di queste missioni mostrano che i corpi sono protetti dalle radiazioni spaziali in modi diversi. La Terra ha un campo magnetico generato internamente che ci protegge dalle radiazioni delle particelle. La Luna non ha campo magnetico o atmosfera mentre Marte ha solo un debole campo magnetico indotto dall’interazione con il vento solare, quindi le particelle solari possono raggiungere la loro superficie più facilmente. L’interazione con il suolo può anche generare ulteriore radiazione secondaria. Marte ha un’atmosfera sottile che blocca la maggior parte delle particelle solari a bassa energia e rallenta quelle ad alta energia. Crediti: Esa, Atg

È chiaro che con la Luna e Marte al centro della futura esplorazione umana, è estremamente importante comprendere questi eventi solari e il loro potenziale impatto sul corpo umano. Una dose di radiazioni superiore a 700 milligray – l’unità di misura della dose assorbita di radiazione del sistema internazionale – può indurre la sindrome da radiazioni con conseguenti lesioni del midollo osseo, infezioni ed emorragie interne. Un astronauta esposto a più di 10 gray è estremamente improbabile che sopravviva più di due settimane. Una tale dose di radiazioni è di fatto arrivata sulla superficie lunare nell’agosto del 1972, in seguito a un’esplosione solare, ma fortunatamente si è verificata tra le missioni Apollo 16 e 17.

Per confronto, durante l’evento del 28 ottobre 2021 la dose in orbita lunare, misurata dal Lunar Reconnaissance Orbiter, era di soli 31 milligray. «I nostri calcoli sugli eventi Gle passati mostrano che in media un evento ogni 5,5 anni potrebbe aver superato il livello di sicurezza sulla Luna se non fosse fornita alcuna protezione dalle radiazioni. Comprendere questi eventi è fondamentale per le future missioni con equipaggio sulla superficie della Luna», afferma Jingnan Guo che ha studiato l’evento del 28 ottobre.

Quando confrontiamo le misurazioni effettuate da ExoMars Tgo e dal rover Curiosity, la protezione offerta dall’atmosfera di Marte diventa lampante: Tgo ha misurato 9 milligray, 30 volte di più rispetto agli 0,3 milligray rilevati in superficie.

8655821
Rendering nella sonda spaziale Orion della Nasa attraccata al Gateway (a sinistra) che porterà gli astronauti all’avamposto lunare. Crediti: Esa

Anche le missioni Solar Orbiter, Soho e BepiColombo hanno rilevato l’esplosione, fornendo ancora più punti di osservazione per studiare l’evento. «Attualmente, viviamo in un’età d’oro della fisica del Sistema solare. I rilevatori di radiazioni a bordo di missioni planetarie come BepiColombo, in viaggio verso Mercurio, e Juice, in viaggio verso Giove, aggiungono una copertura indispensabile per studiare l’accelerazione e la propagazione delle particelle energetiche solari», osserva Marco Pinto, ricercatore dell’Esa.

La comprensione e la previsione di eventi di radiazioni intense è di fondamentale importanza per proteggere gli astronauti nello spazio. Se avvertiti in tempo, potrebbero cercare protezione indossando specifici indumenti protettivi o trovando riparo nelle grotte. Ad esempio, l’attuale politica sulla Stazione spaziale internazionale è di ritirarsi nei dormitori o nella cucina, dove le pareti proteggono dalle radiazioni.

Il programma Artemis prevede una stazione spaziale in orbita lunare, il Gateway, nella quale ben tre suite di strumenti monitoreranno le radiazioni attorno alla Luna: l’European Radiation Sensors Array (Ersa) dell’Esa, l’Heliophysics Environmental and Radiation Measurement Experiment Suite (Hermes) della Nasa e l’Internal Dosimeter Array (Ida) dell’Esa/Jaxa. Insieme, questi esperimenti misureranno la radiazione ambientale all’esterno del Gateway e monitoreranno le dosi specifiche di radiazione all’interno, tra 3mila e 70mila chilometri dalla superficie lunare. Queste misurazioni saranno fondamentali per comprendere meglio l’ambiente che gli astronauti sperimenteranno nello spazio interplanetario.

8655823
Helga e Zohar, i due manichini che hanno sorvolato la Luna a fine 2022 nell’ambito della missione Artemis I. Dotata di oltre 5600 sensori, la coppia ha misurato la quantità di radiazioni a cui gli astronauti potrebbero essere esposti nelle future missioni con una precisione senza precedenti. Crediti: Lockheed Martin

Le agenzie spaziali stanno anche studiando l’abbigliamento protettivo per ridurre al minimo l’impatto delle radiazioni spaziali sul corpo. Due manichini identici, sviluppati dal Centro aerospaziale tedesco (Dlr), hanno volato su Artemis I, che ha sorvolato la Luna nei mesi di novembre e dicembre 2022. I manichini, soprannominati Helga e Zohar, sono stati modellati sulla base del corpo femminile ed erano dotati di sensori di radiazione forniti da Dlr e Nasa. Helga volava senza protezione, mentre Zohar indossava un giubbotto di protezione dalle radiazioni di nuova concezione che le copriva il busto. I ricercatori del Dlr stanno attualmente confrontando i due set di dati misurati da Helga e Zohar.

«Le radiazioni spaziali possono creare un vero pericolo per la nostra esplorazione in tutto il Sistema solare», conclude Colin Wilson, scienziato del progetto ExoMars Tgo. «Le misurazioni di eventi di radiazioni di alto livello da parte di missioni robotiche sono fondamentali per prepararsi a missioni con equipaggio di lunga durata. Grazie ai dati di missioni come ExoMars Tgo possiamo prepararci nel modo migliore per proteggere i nostri esploratori umani».

Per saperne di più:


Unknown: Cosmic Time Machine


8618007
8618009
La locandina del documentario su Jwst

Le meraviglie del James Webb Space Telescope ce le hanno raccontate in tanti. Il leitmotiv della narrazione dell’anno e mezzo trascorso dal lancio, e a poche settimane dall’anniversario delle prime immagini pubblicate, è sempre lo stesso: mostrare e dimostrare quanto il nuovo telescopio spaziale dorato, il più grande mai messo in orbita, possa rivoluzionare le nostre conoscenze sul cosmo. Ma la complessità viaggia sempre a braccetto con il rischio, e ha un’ombra a forma di insuccesso. Per questo, più che mai nel caso di Webb, “failure is an option”. Lo dicono proprio gli scienziati, gli ingegneri e i progettisti che hanno lavorato al James Webb Space Telescope, la missione spaziale con più punti di vulnerabilità della storia. Punti che troverete diverse volte enumerati nel documentario Unknown: cosmic time machine (in italiano, Unknown: la macchina del tempo cosmica), da poco disponibile su Netflix. I protagonisti della storia messa in scena dal regista Shai Gal sono loro, gli ideatori e i progettisti di Webb, che a turno ripercorrono, in 64 minuti, le tappe fondamentali che hanno visto nascere il telescopio spaziale: dall’idea alla realizzazione, sviscerando e spuntando, un po’ alla volta, i 344 singoli punti di vulnerabilità che lo caratterizzano. E che, se qualcosa dovesse andare storto, ne decreterebbero in maniera irreversibile la fine.

L’Apollo della scienza: così viene apostrofato Webb da Thomas Hansueli Zurbuchen, astrofisico svizzero-americano da cinque anni responsabile scientifico della Nasa. Una missione che poteva essere un successo così come un completo disastro: “chi pensa che la fortuna non conti, o è un folle o mente”, dice un ingegnere di missione, mentre Zurbuchen per tenere a bada l’ansia che qualcosa vada storto corre: minimo 1600 chilometri all’anno il suo obiettivo, ampiamente superato grazie al James Webb.

La storia raccontata in Unknown: Cosmic Time Machine passa in rassegna tutti i test eseguiti sul telescopio, analizzando le sfide tecnologiche e riportando gli obiettivi scientifici. Senza tralasciare le battute d’arresto. Nel 1998 si diceva che Webb sarebbe stato lanciato nel 2007, e che sarebbe costato 500 milioni di dollari. Nel 2011 non solo il progetto non era finito, ma il costo era già lievitato a 6 miliardi di dollari, e sarebbe aumentato ancora. Tanto che venne fatta un’indagine dal Congresso e il rischio di interruzione della missione era altissimo. Per non parlare dell’infangata mediatica scatenata in seguito al fallimento dei test di vibrazione. La ragione fa sorridere: alcune viti non erano bloccate. Le conseguenze un po’ meno: “ci sono diecimila viti su quell’affare”, ricorda Zurbuchen nel documentario, “per risolvere il problema ci sono voluti sei mesi e 150 milioni di dollari”.

Il documentario procede via via spuntando la lista dei punti di vulnerabilità: l’installazione dello scudo termico, l’apertura dello specchio, l’allineamento delle ottiche – con lo spettro dello specchio fuori fuoco del telescopio spaziale Hubble. Con la differenza, però, che Webb non può essere raggiunto fisicamente, dato che si trova a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Ne rimangono, infine, 49: sono i punti di vulnerabilità permanenti, quelli con i quali si deve imparare a convivere.

E finalmente arriviamo alle prime immagini. Le abbiamo viste tutti, sei mesi dopo il lancio. Ma in Unknown: Cosmic Time Machine possiamo vederle da dietro le quinte: l’elaborazione dei dati del telescopio, la scelta dei soggetti, l’aggiunta dei colori, e persino la preparazione del discorso del presidente Biden – che ha presentato la primissima immagine di un ammasso di galassie di Webb. Almeno settemila galassie, stelle, ammassi e lenti gravitazionali in un angolo di cielo grande quanto un granello di sabbia. Un’immagine che, come dice l’amministratore della Nasa Bill Nelson, “fa pensare che qualunque cosa sia là fuori, noi la vedremo”.

Un documentario che cambia spesso prospettiva, persone, che racconta il bello e il brutto, che mostra animazioni inedite, e lo fa con tutto il pathos e il sensazionalismo di cui è capace lo stile americano. Ma che con Webb c’entra abbastanza, considerando la quantità di sfide e difficoltà tecniche che lo caratterizzano. Con una riflessione finale sulla forza della collaborazione e dell’intelligenza umana, quando ben indirizzata. Piacevole e per nulla noioso. Adatto a tutti. Insomma, noi l’abbiamo visto per voi, ma un’oretta per guardarlo la potete trovare.

youtube.com/embed/X1G0cYnZBHo?…


Così suonano i buchi neri quando si uniscono


8614691
8614693
Increspature nello spaziotempo attorno a un sistema binario di buchi neri che si fonde, così come ottenuto da una simulazione di relatività numerica. Crediti: Deborah Ferguson, Karan Jani, Deirdre Shoemaker, Pablo Laguna, Georgia Tech, Maya Collaboration

La scoperta delle onde gravitazionali avvenuta nel 2015 – già postulate da Einstein cento anni prima – ha portato al Premio Nobel per la Fisica 2017 e ha rappresentato l’alba dell’astronomia con le onde gravitazionali. Quando due buchi neri di massa stellare si fondono, emettono onde gravitazionali che possono essere “sentite” sulla Terra. Dall’osservazione di questo segnale – conosciuto come chirp, perché ha la forma di una sinusoide di ampiezza e frequenza crescente nel tempo che, se riprodotta come onda acustica, ricorda il canto di certi uccelli – gli scienziati possono dedurre la cosiddetta massa di chirp, una combinazione matematica delle due singole masse dei buchi neri.

Finora si è ipotizzato che i buchi neri che si fondono possano avere qualsiasi massa. Tuttavia, secondo i ricercatori dello Heidelberg Institute for Theoretical Studies (Hits), in Germania, i buchi neri sembrano avere masse standard che poi si traducono in “cinguettii” universali.

«L’esistenza di masse di chirp universali», spiega Fabian Schneider, che ha guidato lo studio presso lo Hits, «non solo ci dice come si formano i buchi neri: può anche essere usata per dedurre quali stelle esplodono in supernove». Oltre a ciò, fornisce approfondimenti sul meccanismo delle supernove, sulla fisica nucleare e stellare e fornisce agli scienziati un nuovo modo per misurare l’espansione cosmologica accelerata dell’universo.

I buchi neri di massa stellare con masse pari a circa 3-100 volte la massa solare rappresentano la fase evolutiva finale di stelle massicce. I progenitori dei buchi neri che portano alle fusioni nascono originariamente in sistemi stellari binari e sperimentano diversi episodi di scambio di massa tra i componenti: in particolare, entrambi i buchi neri provengono da stelle alle quali sono stati strappati via i loro involucri.

8614695
Distribuzione delle masse di chirp di tutte le fusioni binarie di buchi neri osservate oggi. Il pannello superiore mostra i dati grezzi e le distribuzioni di probabilità delle masse di chirp di ogni singolo evento mentre il pannello inferiore mostra un modello dedotto dalle osservazioni combinate. Sono indicati il divario nelle masse di chirp a 10-12 masse solari e le caratteristiche finora identificate a circa 8, 14, 27 e 45 masse solari. Crediti: Abbott et al. 2021.

Il cosiddetto “cimitero stellare” – una raccolta di tutte le masse conosciute dei resti di stelle massicce, stelle di neutroni e buchi neri – sta rapidamente crescendo grazie alla sempre maggiore sensibilità dei rivelatori di onde gravitazionali e alle continue ricerche di tali oggetti. In particolare, sembra esserci un divario nella distribuzione delle masse di chirp dei buchi neri binari che si fondono, ed emergono prove dell’esistenza di picchi a circa 8 e 14 masse solari. Queste caratteristiche corrispondono ai cinguettii universali previsti dal team dello Hits.

Fin dalla scoperta della prima fusione di buchi neri, è diventato evidente che esistono buchi neri con masse molto più grandi di quelle trovate nella Via Lattea. Il gruppo di ricercatori potrebbe ora dimostrare che, indipendentemente dalla composizione chimica, le stelle che si spogliano dell’involucro in binarie strette formano buchi neri con masse inferiori a 9 masse solari e superiori a 16 masse solari, ma quasi nessuno nel mezzo.

Nella fusione di buchi neri, masse universali di circa 9 e 16 masse solari implicano masse di chirp universali, cioè suoni universali. Effettivamente, Schneider afferma che sono stati trovati i primi accenni di un’assenza di masse chirp e una sovrabbondanza esattamente in corrispondenza delle masse universali previste dai loro modelli. Ma gli stessi autori sono cauti: «Poiché il numero di fusioni di buchi neri osservate è ancora piuttosto basso, non è ancora chiaro se questa indicazione nei dati sia solo un colpo di fortuna statistico o meno», conclude Schneider.

Qualunque sia l’esito delle future osservazioni sulle onde gravitazionali, i risultati saranno entusiasmanti e aiuteranno gli scienziati a capire da dove provengono i buchi neri che cantano in questo oceano di voci.

Per saperne di più:


I molteplici significati di un segno nello spazio


8612307
8612309
Una rappresentazione grafica del messaggio. Fonte: github.com/BatchDrake

Prosegue il progetto A sign in space, che lo scorso 24 maggio ha simulato uno scenario di “primo contatto” con l’invio di un messaggio simil-alieno da Marte verso la Terra. Questa performance interplanetaria, orchestrata dall’artista multimediale Daniela de Paulis in collaborazione con l’Agenzia spaziale europea, che ha messo a disposizione una delle sue sonde in orbita marziana per la trasmissione, e l’Istituto nazionale di astrofisica, il Seti Institute e il Green Bank Observatory, che hanno sfoderato i loro radiotelescopi per la ricezione del segnale, ha messo in moto una sfida globale – attualmente ancora in corso – per decifrare la misteriosa comunicazione.

I dati catturati dai tre osservatori sono stati subito resi disponibili sul sito del progetto, invitando il pubblico a interrogarsi sul contenuto del messaggio, ideato dall’artista insieme a un astrofisico e un informatico. Per ospitare le conversazioni sul tema, è stato predisposto un apposito canale sulla piattaforma online Discord. La prima parte della decodifica, individuare il messaggio all’interno dell’enorme pacchetto di dati ricevuti a terra, è stata piuttosto rapida. Dopo circa una settimana, infatti, un gruppo di utenti ha svelato l’arcano, scovando il file binario di 8.212 byte che racchiude il messaggio: una sequenza di zeri e uni, per la precisione 65.696 (per lo più zeri: chi volesse darci un’occhiata, può trovarlo qui).

La vera difficoltà, tuttavia, è afferrarne il significato. Cosa avrà voluto dire l’artista con questa sequenza che simula un segnale inviato verso le immensità cosmiche da una lontana civiltà extraterrestre? È la domanda che si pongono da più di due mesi coloro che hanno raccolto la sfida. In quasi cinquemila si sono registrati su Discord, dove diverse centinaia di persone sono attive giornalmente, dibattendo possibili chiavi di lettura per cercare di interpretare collettivamente il contenuto della trasmissione. Nonostante la discussione molto vivace, il contenuto del messaggio, a oggi, rimane segreto. Media Inaf ha raggiunto l’artista de Paulis a Rotterdam, dove risiede, per conoscere gli ultimi sviluppi di questa iniziativa in cui il confine tra arte e scienza, se mai ce n’è stato uno, si fa assolutamente impalpabile.

A poco più di due mesi dalla performance, a che punto siamo nell’interpretazione del messaggio?

«Sono state tirate fuori tantissime idee, e ho ricevuto oltre ottocento proposte ispirate al progetto, alcune puramente grafiche, altre anche in 3d. Chi ha scritto un testo, chi addirittura un paper. Insomma, tantissimi tipi di riscontro, ma ancora non c’è un progresso particolare. È una dinamica interessante: procedono in maniera molto irregolare. A volte sembra che si stiano avvicinando alla soluzione, poi si riallontanano. Mi fa pensare al moto degli insetti verso i fiori, che si avvicinano e si allontanano sulla base dell’odore».

Quali idee hanno proposto?

«In questa fase di interpretazione, i partecipanti stanno trovando significati che vanno molto al di là di quello che volevo creare. Il messaggio se vogliamo è anche molto minimalista, ma loro stanno trovando dei significati molto interessanti, che stanno arricchendo molto quello originale. Tra le idee più interessanti c’è una conversione del segnale in codice Morse, c’è chi usa software di intelligenza artificiale come Chat Gpt, chi fa riferimento al modello matematico dell’automa cellulare, chi agli insetti… Alcuni usano la sonificazione, e poi sicuramente il gruppo più numeroso sta cercando di interpretare il messaggio in chiave della novella ‘Un segno nello spazio’ di Italo Calvino. Molti hanno letto le Cosmicomiche o quanto meno il racconto grazie al progetto, e il personaggio Qfwfq viene nominato spesso».

8612311
Qfwfq, sempiterno personaggio delle Cosmicomiche di Italo Calvino, viene chiamato in causa durante una conversazione sulla piattaforma Discord dedicata al progetto. Crediti: A sign in space

Quanti sono i partecipanti alla discussione, e che profilo hanno?


«Adesso ci sono circa trecento persone attive: sviluppatori di software, artisti, filosofi. Si parlano tra loro per capire il messaggio. Non mi pare di aver visto linguisti, il che è interessante. Sembra che abbiano un misto di età, ci sono anche dei pensionati. C’è sempre qualcuno attivo online, quindi deduco che ci siano partecipanti su quasi tutti i fusi orari».

Che cosa succederà se qualcuno propone la soluzione giusta?

«Questo ho dovuto un po’ chiarirlo su Discord. Da artista dò per scontate molte cose. Non puoi decodificare il messaggio se non lo interpreti mentre lo decodifichi. Quando qualcuno darà un’interpretazione che coincide con quella che ho dato io insieme ai miei collaboratori, diremo: Ok, avete trovato il messaggio che abbiamo creato noi. Ma a quel punto si apre una nuova discussione: allora inizia la vera conversazione sul significato del messaggio. Perché ha un certo significato che si presta molto alla discussione, anche filosofica».

Dunque se qualcuno volesse cimentarsi adesso con l’interpretazione, approfittando magari delle vacanze, è ancora possibile?

«Certo, anche se può essere un po’ difficile per qualcuno che si aggiunge adesso. È come vedere un film iniziato a metà. Sono stati già postati dodicimila messaggi solo nella chat di interpretazione, che è la più attiva, e poi ci sono una quarantina di chat minori. Per chi volesse cimentarsi ora da zero, conviene leggere un po’ la discussione già fatta, per non reinventare la ruota. Uno degli utenti, Batch Drake, sta creando una Wiki per organizzare tutte le idee più quotate, così che tutti coloro che arrivano da zero possano fare il punto rapidamente. Sarà utile a tutti».

8612313
Uno dei tantissimi “segni” inviati dal pubblico al team di A sign in space attraverso la tavolozza ‘Draw and Send your Sign’ disponibile sul sito web del progetto

Si è creata una piccola comunità intorno a questo messaggio. Era quello che si aspettava?


«Era difficile immaginare come avrebbe reagito il pubblico. Non mi aspettavo questa reazione così globale, così diversa e questo tipo di partecipazione su Discord. Pensavo che la gente avrebbe lavorato indipendentemente, magari con un gruppetto di amici, mandando la risposta tramite il sito, ma invece la piattaforma ha contribuito, con tutti i suoi limiti, a creare uno spirito di comunità».

È interessante anche vedere quanto interdisciplinare sia questa comunità…

«Questo è stato facilitato dai vari workshop organizzati insieme al Seti Institute su temi disparati, dalla poesia alla religione all’antropologia. Aiutano a mantenere il progetto aperto e interdisciplinare. Chi arriva su Discord atterra da vari canali: c’è chi ha letto un articolo su un quotidiano, chi su una rivista di fantascienza, tutte le radio ne hanno parlato».

Come funziona la collaborazione in un gruppo così variegato?

«Chi ha più esperienza in crittografia va avanti nella decodifica, alcuni tendono a seguire cosa dicono gli altri, ma è un ambiente molto collaborativo, c’è tanta conversazione. Le idee sono concatenate, si sviluppano l’una dall’altra, anche se poi ci sono cambi di direzione improvvisi come gruppo. Sicuramente si influenzano a vicenda. Tutti sono a conoscenza di quello che scrivono tutti, ogni tanto si aggiunge qualcuno di nuovo ma ormai si conoscono tutti, alcuni lavorano anche offline in gruppetti. La chat di interpretazione è la stanza principale, poi ci sono le altre stanzette: se qualcuno ha un’idea, crea un nuovo piccolo gruppo per lavorare ad esempio sul codice Morse, poi tornano tutti nel gruppo principale».

E lei, come fa a tenere le fila di tutto?

«Ho sempre la pagina di Discord aperta, leggo ogni volta che arrivano le notifiche, altrimenti si accumulano. Cerco di fare un riassunto ogni due, tre giorni. Ultimamente non ci sono stati grandi progressi. Le visite al sito si sono assestate su un valore stabile di 4500 a settimana. Ogni tanto escono nuovi articoli sulla stampa, quindi si rinnova l’interesse».

8612315
L’artista multimediale Daniela de Paulis, principal investigator del progetto A sign in space

Ci sono state anche delle tensioni?

«C’è stata per esempio una critica da parte di alcuni che hanno un approccio scientifico, verso un altro decoder che ha sì un approccio scientifico ma in ogni post parla anche di sé, della sua vita. È come se questa comunità fosse una microsocietà, un piccolo villaggio. Essendo un processo che si evolve in tempo reale, come direttore artistico del progetto mi pongo sempre domande su come relazionarmi ad esso. Quando vedo situazioni strane, mi chiedo se intervenire o lasciare che la comunità si organizzi da sola. Chiaramente rimane un po’ questa sottile differenza tra evento di outreach e performance art. Per il successo, i partecipanti devono collaborare: non è solo un hackathon ma ci sono voci anche diverse che devono essere ascoltate».

In questi casi, come ha deciso di procedere?

«Nei primi giorni non riuscivo a dormire, temevo che ci sarebbe stata l’anarchia totale. Ma per fortuna hanno trovato tutti posto e sono riusciti a collaborare. Ho imparato ad avere fiducia del pubblico: anche se ci sono dei piccoli attriti, si risolvono da soli».

Prima ha usato la parola decoder per descrivere chi partecipa alla sfida. Vuole spiegarci meglio?

«Per me non sono giocatori, sono partecipanti, partecipano alla decodifica quindi sono decoder. Sono persone, e piano piano sta emergendo la personalità di questi attori. Ecco, la parola più adatta è attori perché sono partecipanti attivi di questa performance. Si sta creando un testo teatrale, un po’ come nella commedia dell’arte. Adesso si inizia a capire chi è chi. Si sentono parte del progetto, sono performer. Lo chiamano “our project”. Siccome il progetto è un ibrido tra performance art, citizen science e alternate reality game (un tipo di gioco che mischia elementi di internet e del mondo reale attraverso uno storytelling transmediale) ci sono persone che si esprimono in modo diverso: chi con idee filosofiche, chi con immagini, suoni, per creare una storia come gruppo. La definizione del progetto è meglio che rimanga aperta: non solo un progetto d’arte, non solo di public engagement. Ho capito che l’arte è una parte di tutto quello che succede, non necessariamente la parte dominante.

Di quali temi parlano questi attori mentre cercano di decodificare il messaggio?

«Hanno fatto un sacco di brainstorming su come comunicare con una civiltà extraterrestre e si stanno facendo domande molto profonde sulla comunicazione. Il processo di messa in discussione dell’antropocentrismo, che abbiamo fatto per oltre un anno nel team prima di creare il messaggio, sta avvenendo anche nella comunità su Discord. Inevitabilmente si stanno ponendo tutte queste domande, altrimenti non potrebbero proprio trovare la strada che li metta in direzione verso la soluzione».

8612317
Una frittata compare in un’altra conversazione su Discord. Crediti: A sign in space

Sta già pensando a una forma da dare a tutte queste conversazioni?


«Ci vorrà un periodo di tempo per catalogare tutto, per cercare di cristallizzarlo e rendere l’idea di ciò che è successo. Mi chiedo se riuscirò a organizzare tutti i contributi, ce ne sono alcuni completamente “out of this world”. Forse cercherò di realizzare una performance con i personaggi ispirati al progetto. C’è anche dell’umorismo, che esce fuori quando sono disperati, quando hanno esaurito le idee. Ho messo in evidenza anche quello».

Sulla base di questa esperienza, come crede che reagirebbe il pubblico a una situazione reale di “primo contatto” con una civiltà aliena?

«Questo scenario ha suggerito sicuramente qualcosa agli scienziati del Seti. L’unico che avevano in mente prima era qualcosa tipo War of the Worlds (uno sceneggiato radiofonico trasmesso nel 1938 – ndr): più concreto, minaccioso. Se non altro, questo è un piccolo test di quella che potrebbe essere la reazione del pubblico e permetterà di aggiornare la ricerca in materia. Diversi paper che ho letto su scenari di post-detection prevedono il panico. Invece ho ricevuto solo reazioni positive: stupore, entusiasmo, addirittura desiderio di contatto, il che è molto toccante. Forse adesso inizierà a circolare qualche altra idea. Se succedesse davvero, sicuramente tutte queste reazioni sarebbero amplificate. È un evento che come umanità non abbiamo ancora vissuto. Pensandoci meglio, credo che la reazione sarà un misto di emozioni mai provate prima: dall’entusiasmo estremo alla paura e tutto quello che c’è in mezzo. Dovremo proprio dargli un nuovo nome».

Quanto manca alla soluzione, secondo lei?

«È difficile a dirsi. Forse due settimane, un altro mese, di più… A me non preoccupa la durata del processo, ma sto pensando a come strutturarlo se continuerà. Si potrebbe fare una mini conferenza in cui ciascuno presenta la sua teoria: la scienza come performance, pensando a chi si occupa della decodifica come attore, che crea nuova conoscenza, nuove idee. In fondo è quello che fa lo scienziato, che facciamo tutti noi che lavoriamo nel campo culturale. Un modo per mettere in evidenza che tutto ciò che è scienza e cultura è una forma della conoscenza umana e che ci immedesimiamo in ciò che creiamo, che inventiamo in questa performance nell’universo».


Per saperne di più:


Un nuovo albero genealogico delle galassie


8600648
8600650
Immagine dal telescopio Gemini North alle Hawaii che rivela una coppia di galassie a spirale interagenti – Ngc 4568 (in basso) e Ngc 4567 (in alto) – mentre iniziano a scontrarsi e fondersi. Le galassie finiranno per formare un’unica galassia ellittica in circa 500 milioni di anni. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura, T.A. Rettore (University of Alaska Anchorage/NoirLab di Nsf), J. Miller (Osservatorio Gemini/NoirLab di Nsf), M. Zamani (NoirLab di Nsf) e D. de Martin (NoirLab di Nsf)

Nel 1926 l’astronomo Edwin Hubble definì uno schema di classificazione morfologica delle galassie, che perfezionò dieci anni dopo, noto come sequenza di Hubble o diagramma a diapason. È molto semplice e intuitivo e, sebbene manchi dei percorsi evolutivi, è ancora ampiamente utilizzato per classificare le galassie in base al loro aspetto.

Le galassie possono avere miliardi di stelle che seguono ordinate orbite circolari su un disco affollato oppure si muovono caoticamente in un alone ellittico o sferico. I due casi si trovano rispettivamente a destra e a sinistra nel diagramma di Hubble. In questa sequenza, le galassie a forma di lente – note come galassie lenticolari, con una struttura sferica centrale in un disco senza spirale – sono considerate la popolazione di collegamento tra le galassie a spirale dominate dal disco, come la Via Lattea, e le galassie ellittiche, come M87.

In uno studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, l’astronomo Alister Graham della Swinburne Astronomy Online ha analizzato le immagini ottiche del telescopio spaziale Hubble e le immagini a infrarossi del telescopio spaziale Spitzer di cento galassie vicine. Confrontando la loro massa stellare e quella del buco nero centrale, ha scoperto due tipi di galassie lenticolari: galassie lenticolari vecchie e povere di polvere, e galassie lenticolari ricche di polvere.

Le galassie lenticolari ricche di polvere si formano dalla fusione di galassie a spirale e sono caratterizzate da sferoidi e buchi neri notevolmente più prominenti rispetto alle galassie a spirale e a quelle lenticolari povere di polvere. La ricerca di Graham ha dimostrato che le galassie a spirale si collocano a metà strada tra i due tipi di galassie lenticolari, ridisegnando la nota sequenza di galassie e lasciando intravedere, nella nuova versione, i percorsi evolutivi che legano le varie forme.

8600652
Questo “triangolo” (non proprio regolare) riproduce elementi degli schemi morfologici delle galassie del passato (Hubble 1936; van den Bergh 1976; Cappellari et al. 2011), riconosce le galassie ES, include resti di fusione, non presenta più le galassie S0 solo come una popolazione di collegamento tra le galassie E e S, collega le galassie S0 nane e povere di polvere tra loro e rivela l’accrescimento e i percorsi evolutivi guidati dalla fusione tra i tipi morfologici. Le galassie sferoidali sono di colore rosso, mentre quelle a disco sono di colore arancione (vecchie e povere di metalli/povere di polvere), ciano (popolazione giovane e ricche di metalli) e blu (ricche/polverose). I dischi di scala intermedia in diverse galassie ES hanno una gamma di popolazioni stellari. Crediti: Oxford University Press on behalf of Royal Astronomical Society, Graham 2023

In pratica, l’accumulo di gas e materiale nelle galassie lenticolari povere di polvere può disturbare gravitazionalmente il loro disco, inducendo la formazione dei bracci a spirale e alimentando la formazione stellare. In altre parole, le galassie possono cambiare forma.

La Via Lattea ha diverse galassie satelliti più piccole, come la Galassia Nana Ellittica del Sagittario e la Galassia Nana Ellittica del Cane Maggiore, e la sua struttura rivela una storia ricca di fusioni. Probabilmente un tempo era una galassia lenticolare povera di polvere che ha accresciuto materiale, compresa la Gaia Sausage-Enceladus, e si è evoluta nella galassia a spirale in cui viviamo oggi. L’imaging profondo di innumerevoli telescopi terrestri negli ultimi anni ha dimostrato che questa è una caratteristica comune alle galassie a spirale.

Certamente, alcune fusioni sono più drammatiche di altre. Tra 4 e 6 miliardi di anni, quando la Via Lattea e la galassia di Andromeda si scontreranno, la loro “collisione” distruggerà le attuali strutture a spirale di entrambe le galassie, producendo un’unica galassia dominata da uno sferoide, accompagnata da un aumento della massa del buco nero centrale. Questo evento porterà alla nascita di una galassia lenticolare ricca di polvere. La fusione di due galassie lenticolari polverose sembra sufficiente per cancellare completamente i loro dischi e creare una galassia di forma ellittica, incapace di trattenere nubi di gas freddo che ospitano polvere.

In un certo senso, le galassie lenticolari povere di polvere appaiono come una testimonianza fossile delle galassie primordiali dell’universo. Queste galassie dominate dal disco sono molto antiche e comuni. La fusione di due di queste galassie nell’universo giovane potrebbe spiegare la recente osservazione da parte del James Webb Space Telescope di un’enorme galassia sferoidale risalente a un’epoca in cui l’universo aveva circa 700 milioni di anni. Inoltre, la nuova ricerca ha anche rivelato che la fusione di due galassie ellittiche è sufficiente per spiegare le galassie più massicce dell’universo attuale, osservate al centro di ammassi di galassie di 1000 membri.

Graham osserva che molti indizi erano già noti ma dovevano essere combinati in un quadro coerente: «Le cose sono andate a posto una volta riconosciuto che le galassie lenticolari non sono l’unica popolazione di collegamento, come sono state a lungo rappresentate».

Il nuovo lavoro implica che le galassie hanno il loro albero genealogico. «È la sopravvivenza del più forte là fuori che alla fine comporta il dominio degli sferoidi sui dischi», conclude Graham. «L’astronomia ora ha una nuova sequenza anatomica e una sequenza evolutiva in cui si vede la speciazione delle galassie avvenire attraverso l’inevitabile “matrimonio” di galassie, ordinato dalla gravità».

Per saperne di più:


Ariel, nuovo passo per la definizione della missione


8600344
8600347
Il logo italiano della missione Ariel

Il payload della missione dell’Esa Ariel (Atmospheric Remote-sensing Infrared Exoplanet Large-survey), il futuro investigatore di esopianeti, ha superato con successo la Preliminary Design Review (Pdr). Il consorzio europeo di Ariel, di cui fanno parte Asi, Inaf e Università di Firenze, ha lavorato per nove mesi alla documentazione tecnica volta a valutare la fattibilità, le prestazioni e la robustezza del design del payload, al fine di garantire che i sistemi progettati fossero in grado di soddisfare i requisiti tecnici, scientifici e operativi della missione. A maggio 2023 il comitato di revisione dell’Esa ha confermato il completamento della Pdr. Un passo cruciale per la missione, che può ora procedere all’ultimo step prima della fase di produzione, la Critical Design Review.

«Asi è soddisfatta della positiva conclusione della Pdr, che gratifica per il lavoro svolto dal team scientifico nazionale e dalle aziende coinvolte», ha commentato Barbara Negri, responsabile Volo umano e sperimentazione scientifica dell’Asi. «Il principale contributo italiano al payload della missione Ariel è la realizzazione e test del telescopio, un progetto molto impegnativo non solo per l’ambiente criogenico in cui dovrà lavorare (-220 °C), ma anche per il materiale da utilizzare e per la sua forma ellittica. Nella missione Ariel ci sono anche altre importanti responsabilità italiane: l’elettronica di controllo dello strumento (Icu) e il ruolo dei nostri scienziati a livello di sistema di payload per gli aspetti elettronici e termici».

«Siamo molto soddisfatti del successo di questa fase cruciale del percorso che ci porterà al lancio di Ariel», commenta la ricercatrice Inaf Giusi Micela, uno dei due co-principal investigator italiani della missione e membro dell’Ariel Science Team per Esa. «L’Italia ha responsabilità importanti sia scientifiche che tecnologiche nella missione e il risultato ottenuto è il frutto del grandissimo lavoro svolto dal team, che ha lavorato intensamente e senza sosta, con grande spirito di sacrificio e adattamento alle situazioni. La comunità italiana, con il suo impegno e il suo talento, sta contribuendo attivamente su molteplici aspetti della missione. Inoltre, siamo felici di vedere un crescente coinvolgimento di giovani ricercatori entusiasti, che avranno l’opportunità di sfruttare al meglio le ricche opportunità scientifiche offerte da Ariel. I prossimi anni saranno impegnativi ma sicuramente gratificanti per tutta la comunità».

8600350
Il payload della missione Ariel. Crediti: Esa

Dedicata allo studio delle atmosfere di pianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole, Ariel osserverà un campione variegato di esopianeti – da giganti gassosi a pianeti di tipo nettuniano, super-Terre e pianeti terrestri – nelle frequenze della luce visibile e dell’infrarosso. Sarà la prima missione spaziale a realizzare un “censimento” della composizione chimica delle atmosfere planetarie, fornendo indizi fondamentali per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione dei pianeti al di là del Sistema solare. La missione indagherà il ruolo del nostro sistema planetario nel contesto cosmico, affrontando i complessi quesiti riguardanti l’origine della vita nell’universo.

L’occhio di Ariel, un telescopio con uno specchio ellittico di un metro di diametro per raccogliere la luce visibile e infrarossa proveniente dai lontani sistemi planetari, sarà realizzato in Italia, così come parte dell’elettronica di bordo. Scomponendo la luce in tutti i suoi “colori” mediante gli spettrometri sarà possibile identificare gli elementi chimici presenti nelle atmosfere degli esopianeti osservati durante il loro passaggio, o transito, davanti o dietro la stella.

«La missione spaziale Ariel è rilevante sia dal punto di vista scientifico, perché si studieranno le atmosfere di pianeti lontani che orbitano intorno ad altre stelle, sia tecnologico, perché il telescopio, la sua struttura e gli specchi interamente in alluminio sono innovativi», ha commentato Emanuele Pace, project manager nazionale del contributo italiano alla missione. «L’Italia, e in particolare l’Università di Firenze, è responsabile di questo telescopio progettato in collaborazione con Inaf, Cnr-Ifn e La Sapienza Università di Roma; la struttura sarà realizzata da Leonardo e gli specchi da Media Lario. Siamo particolarmente orgogliosi di aver colto una sfida tecnologica ad alto rischio; quando sarà completata nel 2026 rappresenterà una eccellenza nazionale nel mondo. Come responsabile del project management nazionale, il team dell’Università di Firenze guida anche lo sviluppo dell’elettronica di bordo portato avanti da Inaf – Osservatorio di Arcetri con l’azienda Kayser Italia e del software di controllo e acquisizione dati, prodotto da Inaf – Istituto di astrofisica e planetologia spaziale. Come si può vedere quindi, l’Italia è largamente impegnata e protagonista in questa missione dell’Esa».

La missione Ariel, il cui lancio è previsto nel 2029, è stata sviluppata da un consorzio che vede la partecipazione di oltre cinquanta istituti di 17 nazioni europee, nonché un contributo esterno della Nasa, coordinato dallo University College di Londra, Jaxa e l’Agenzia spaziale canadese (Csa). L’Italia, con il sostegno e il coordinamento dell’Agenzia spaziale italiana, è tra i principali contributori con l’Istituto nazionale di astrofisica e l’Università di Firenze, il Cnr di Padova e l’Università Sapienza di Roma.


Oscillazioni radio periodiche da un microquasar


8582467
8582469
Rappresentazione artistica del microquasar catturato dal radiotelescopio Fast. Crediti: Wei Wang, Wuhan University

Abituati a sbalordirci per l’imponenza dei buchi neri supermassicci, che risiedono più o meno tranquilli al centro della maggior parte delle galassie e alimentano i quasar, tendiamo a considerare “normali” i buchi neri stellari, molti dei quali passano inosservati mentre altri rivelano la loro esistenza fagocitando stelle compagne. Tra questi ultimi esiste una classe di oggetti estremamente affascinante, quella dei microquasar, che annovera tra le proprie fila niente di meno che Cygnus X-1 e Ss433. E Grs 1915+105 o V1487 Aquilae.

I microquasar devono il loro nome al fatto che, rispetto ai quasar, hanno in comune emissioni radio forti e variabili, spesso viste sotto forma di getti, e un disco di accrescimento che circonda un buco nero. Nei microquasar, la massa accresciuta deriva da una normale stella e il disco di accrescimento è molto luminoso nello spettro visibile e nei raggi X. Si tratta quindi di sistemi binari, chiamati anche binarie a raggi X a getto radio. I microquasar sono molto importanti per lo studio dei getti relativistici che si formano vicino al buco nero, perché sperimentano in un giorno le variazioni che quasar ordinari possono impiegare secoli per manifestare.

Nel numero del 26 luglio di Nature, un team internazionale di scienziati riporta l’esito di una campagna osservativa dedicata al microquasar galattico Grs 1915+105, rivelando caratteristiche inedite.

Utilizzando il radiotelescopio cinese Fast, gli scienziati hanno scoperto un’oscillazione quasi periodica (Qpo) nella banda radio mai vista prima in un microquasar. I Qpo sono un fenomeno che gli astronomi usano per capire come funzionano i sistemi stellari come i buchi neri e mentre sono stati osservati nei raggi X da parte di microquasar, la loro presenza in banda radio è unica.

«Il peculiare segnale Qpo ha un periodo approssimativo di 0,2 secondi, o una frequenza di circa 5 Hertz», spiega Wei Wang dell’Università cinese di Wuhan, alla guida del team che ha fatto la scoperta. «Un tale segnale non esiste sempre e si manifesta solo in particolari condizioni fisiche. Il nostro team ha avuto la fortuna di catturare il segnale due volte, rispettivamente nel gennaio 2021 e nel giugno 2022».

Secondo Bing Zhang, astrofisico della University of Nevada, Las Vegas, questa caratteristica unica potrebbe fornire la prima prova dell’attività del getto. «Nei sistemi di buchi neri in accrescimento, i raggi X di solito sondano il disco di accrescimento attorno al buco nero, mentre le emissioni radio sondano il getto lanciato dal disco e dal buco nero», spiega Zhang. «Il meccanismo dettagliato per indurre la modulazione temporale in un getto relativistico non è chiaro, ma un meccanismo plausibile sarebbe che il getto sottostà alla precessione, il che significa che la direzione del getto punta regolarmente verso direzioni diverse e ritorna alla direzione originale una volta ogni circa 0,2 secondi».

Zhang ha affermato che un disallineamento tra l’asse di rotazione del buco nero e il suo disco di accrescimento potrebbe causare questo effetto, che è una conseguenza naturale del trascinamento dello spaziotempo vicino a un buco nero in rapida rotazione.

«Esistono altre possibilità, tuttavia, e le continue osservazioni di questa e di altre sorgenti galattiche di microquasar porteranno ulteriori indizi per comprendere questi misteriosi segnali Qpo», conclude Zhang.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Subsecond periodic radio oscillations in a microquasar” di Pengfu Tian, Ping Zhang, Wei Wang, Pei Wang, Xiaohui Sun, Jifeng Liu, Bing Zhang, Zigao Dai, Feng Yuan, Shuangnan Zhang, Qingzhong Liu, Peng Jiang, Xuefeng Wu, Zheng Zheng, Jiashi Chen, Di Li, Zonghong Zhu, Zhichen Pan, Hengqian Gan, Xiao Chene Na Sai


ZePrion, sfida sulla Iss al morbo della mucca pazza


8582251
8582253
Crediti: Nasa

Un esperimento lanciato con successo oggi, mercoledì 2 agosto, verso la Stazione spaziale internazionale (Iss), potrebbe portare a una validazione del meccanismo di funzionamento di un protocollo del tutto innovativo per lo sviluppo di nuovi farmaci contro gravi malattie neurodegenerative e non solo. Frutto di una collaborazione internazionale che coinvolge diversi istituti accademici e l’azienda israeliana SpacePharma, l’esperimento ZePrion vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Università Milano-Bicocca, l’Università di Trento, la Fondazione Telethon, l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Istituto di biologia e biotecnologia agraria del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibba). Decollato con la missione spaziale robotica di rifornimento Ng-19 dalla base di Wallops Island, in Virginia (Usa), ZePrion si propone di sfruttare le condizioni di microgravità presenti in orbita per verificare la possibilità di indurre la distruzione di specifiche proteine nella cellula, interferendo con il loro naturale meccanismo di ripiegamento (folding proteico). L’arrivo di Ng-19 e ZePrion sulla Iss è previsto per venerdì 4 agosto, quando in Italia saranno all’incirca le 8:00.

Il successo dell’esperimento ZePrion fornirebbe un possibile modo per confermare il meccanismo molecolare alla base di una nuova tecnologia di ricerca farmacologica denominata Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting (Ppi-Fit), sviluppata da due ricercatori delle Università Milano-Bicocca e di Trento e dell’Infn. L’approccio Ppi-Fit si basa sull’identificazione di piccole molecole (dette ligandi), in grado di unirsi alla proteina che costituisce il bersaglio farmacologico durante il suo processo di ripiegamento spontaneo, evitando così che questa raggiunga la sua forma finale.

«La capacità di bloccare il ripiegamento di specifiche proteine coinvolte in processi patologici apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per malattie attualmente incurabili», spiega Pietro Faccioli, professore dell’Università Milano-Bicocca, ricercatore dell’Infn, coordinatore dell’esperimento e co-inventore della tecnologia Ppi-Fit.

8582255
Il logo della missione

Un tassello finora mancante per la validazione della tecnologia è la possibilità di ottenere un’immagine ad alta risoluzione del legame tra le piccole molecole terapeutiche e le forme intermedie delle proteine bersaglio (quelle che si manifestano durante il ripiegamento), in grado di confermare in maniera definitiva l’interruzione del processo di ripiegamento stesso. In genere, questo tipo di immagine viene ottenuta analizzando con una tecnica chiamata cristallografia a raggi X cristalli formati dal complesso ligando-proteina. Nel caso degli intermedi proteici, però, gli esperimenti necessari non sono realizzabili all’interno dei laboratori sulla Terra, in quanto la gravità genera effetti che interferiscono con la formazione dei cristalli dei corpuscoli composti da ligando e proteina, quando questa non abbia ancora raggiunto la sua forma definitiva. Questo ha spinto le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione ZePrion a sfruttare la condizione di microgravità che la Stazione spaziale internazionale mette a disposizione.

«Esiste infatti chiara evidenza che la microgravità presente in orbita fornisca condizioni ideali per la creazione di cristalli di proteine», illustra Emiliano Biasini, biochimico dell’Università di Trento e altro co-inventore di Ppi-Fit, «ma nessun esperimento ha provato fino ad ora a generare cristalli di complessi proteina-ligando in cui la proteina non si trovi in uno stato definitivo». Esattamente quanto si propone di fare l’esperimento ZePrion, lavorando in modo specifico sulla proteina prionica, balzata tristemente agli onori della cronaca negli anni Novanta durante la crisi del “morbo della mucca pazza”. Questa malattia è infatti causata da una forma alterata della proteina prionica chiamata prione, coinvolta in gravi malattie neurodegenerative dette appunto “da prioni” tra le quali la malattia di Creutzfeld-Jakob o l’insonnia fatale familiare.

«Anche grazie al sostegno di Fondazione Telethon, che da sempre supporta le mie ricerche per individuare nuove terapie contro queste malattie, abbiamo l’opportunità di validare del meccanismo di funzionamento della tecnologia Ppi-Fit, che potrebbe rappresentare veramente un punto di svolta in questo settore», aggiunge Biasini.

«In orbita sarà possibile generare cristalli formati da complessi tra una piccola molecola e una forma intermedia della proteina prionica, che in condizioni di gravità “normale” non sarebbero stabili. Questi cristalli potranno poi essere analizzati utilizzando la radiazione X prodotta con acceleratori di particelle, per fornire una fotografia tridimensionale del complesso con un dettaglio di risoluzione atomico. Campioni non cristallini ottenuti alla Stazione spaziale verranno inoltre analizzati per cryo-microscopia elettronica di trasmissione», sottolinea Pietro Roversi, ricercatore Cnr-Ibba.

ZePrion si compone di un vero e proprio laboratorio biochimico in miniatura (lab-in-a-box) realizzato da SpacePharma, che opererà a bordo della Stazione spaziale internazionale e verrà controllato da remoto. Oltre alla componente italiana, la collaborazione ZePrion si avvale della partecipazione delle scienziate e degli scienziati dell’Università di Santiago di Compostela.

Fonte: comunicato stampa Cnr


Perso il contatto, ma Voyager 2 trasmette ancora


8577454
8577456
Sonde ai confini dell’eliosfera. Crediti: Pixabay

Partiamo dalla notizia buona, che è anche quella più recente, annunciata su Twitter ieri pomeriggio, martedì primo agosto, dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa: il “cuore” di Voyager 2 batte ancora. Fuor di metafora, le antenne della Deep Space Network, nel corso della loro normale routine di scansione del cielo, hanno rilevato una portante radio trasmessa dalla sonda Nasa, che attualmente si trova a quasi 20 miliardi di km dalla Terra.

Non che sia una sorpresa, intendiamoci: il segnale era atteso. Ma è comunque motivo di sollievo dopo il contrattempo – e qui arriviamo alla notizia cattiva – che si è verificato il 21 luglio scorso quando, a seguito di un errore in una sequenza di comandi inviati da terra, l’antenna della sonda si è inavvertitamente spostata, disallineandosi di circa due gradi rispetto al nostro pianeta. Da allora le comunicazioni sono sospese, e Voyager 2 – in viaggio di sola andata da quasi 46 anni, fu lanciata il 20 agosto 1977 ­– non è in grado di ricevere comandi o trasmettere dati verso la Terra.

Earth to Voyager… 📡
The Deep Space Network has picked up a carrier signal from @NASAVoyager 2 during its regular scan of the sky. A bit like hearing the spacecraft’s “heartbeat,” it confirms the spacecraft is still broadcasting, which engineers expected. t.co/tPcCyjMjJY

— NASA JPL (@NASAJPL) August 1, 2023

I contatti dovrebbero ristabilirsi “naturalmente” il 15 ottobre, data del prossimo reset di sicurezza programmato nel software di bordo della sonda proprio per affrontare eventualità come questa. Ma l’attesa è lunga, soprattutto ora che si ha la conferma del corretto funzionamento del sistema di trasmissione. Dunque oggi gli ingegneri della Nasa hanno in programma l’invio verso la sonda di un comando per tentare di anticipare il ripuntamento dell’antenna verso la Terra. Viaggiando alla velocità della luce, il comando impiegherà 18 ore per raggiungere Voyager 2, e almeno altrettante saranno le ore necessarie per verificare l’eventuale riuscita dell’operazione. Se il tentativo avrà successo lo sapremo non prima di venerdì, insomma, altrimenti non resterà che attendere fino a metà ottobre. Del resto non è la prima volta che le comunicazioni con Voyager 2 vengono sospese per periodi piuttosto lunghi.


Nuovo algoritmo per la caccia agli asteroidi


8569498
8569500
Crediti: Rubin Obs/Nsf/Aura

Fin dalla scoperta casuale di Cerere, fatta da Giuseppe Piazzi il 1 gennaio 1801 dal Regio Osservatorio di Palermo, gli asteroidi si scoprono sfruttando il loro movimento angolare sulla sfera celeste, riflesso del moto orbitale attorno al Sole e degli stessi movimenti della Terra che cambiano il punto di osservazione nello spazio. Piazzi osservava con l’occhio all’oculare del telescopio misurando la posizione delle stelle in cielo: per questo si accorse che quella che sembrava una stella si era spostata rispetto alla posizione misurata nei giorni precedenti, rivelando così la sua natura di corpo del Sistema solare. Dopo l’invenzione della fotografia, la scoperta di nuovi asteroidi ha fatto notevoli progressi, che si sono accentuati con l’utilizzo dei dispositivi Ccd/Cmos, molto più sensibili alla radiazione delle vecchie lastre fotografiche. La tecnica attuale, che si utilizza per la scoperta di nuovi asteroidi near-Earth (Nea, quelli a potenziale rischio di collisione con la Terra), è la seguente: si riprendono almeno 4 immagini con pose dell’ordine di 30 secondi dello stesso campo stellare a intervalli di tempo di circa 10 minuti l’una dall’altra e si confrontano fra loro alla ricerca di punti di luce che abbiano cambiato posizione. Si tratta di una ricerca che va fatta esaminando tutto il campo di vista, perché non si sa dove si trovano gli asteroidi ancora da scoprire: la probabilità di successo aumenta all’aumentare del diametro del telescopio e dell’ampiezza del campo di vista.

La ricerca degli asteroidi, però, non può più essere fatta visualmente dall’astronomo: se il campo di vista è grande e la magnitudine limite elevata i punti di luce da ispezionare possono essere decine di migliaia, un’operazione che per un essere umano richiede troppo tempo per essere efficiente. Inoltre, nel campo di vista possono esserci asteroidi già noti, oppure tracce di raggi cosmici o pixel caldi, tutti elementi che vanno scartati. Per “scremare”, nel modo più semplice e rapido possibile, tutti i potenziali asteroidi e presentare all’astronomo solo quelli più sicuri, è meglio demandare questo lavoro preliminare a un software per la ricerca automatica. Il software, che codifica un algoritmo di ricerca, è scritto dagli astronomi e fa le stesse cose dell’essere umano, solo che è molto più rapido ed efficace.

8569502
Le immagini del sistema Atlas riprese nel settembre 2022 con il debole Nea 2022 SF289, indicato dai quadrati rossi, identificato da HelioLinc3D. Crediti: Atlas/University of Hawaii Institute for Astronomy/Nasa

Presto diventerà operativo il Vera C. Rubin Observatory, situato sul Cerro Pachón nel nord del Cile. L’osservatorio sarà dotato di un telescopio da 8,4 metri di diametro che avrà un campo di vista di 9,6 gradi quadrati. Dal momento dell’entrata in funzione e per i prossimi 10 anni, ogni notte serena il telescopio produrrà 15 TB di immagini a grande campo della sfera celeste che potranno essere usate per molteplici scopi fra cui la ricerca di nuovi asteroidi near-Earth. Chiaramente la sfida più importante con questo tipo di strumento non è la costruzione o la ripresa delle immagini, ma l’estrazione delle informazioni dall’enorme mole di dati prodotta ogni giorno. Per quanto riguarda la detection dei Nea, è in fase avanzata di realizzazione e test l’algoritmo HelioLinc3D, in grado di fare il collegamento fra diverse misure di posizione dello stesso asteroide, anche se le osservazioni sono sparse su più giorni, meglio di quanto possano fare gli algoritmi attuali. Il link delle osservazioni astrometriche è essenziale per ottenere l’orbita eliocentrica dell’asteroide così da stimare l’eventuale data e probabilità d’impatto con la Terra.

8569504
In verde, l’orbita di 2022 SF289 al suo massimo avvicinamento alla Terra. Crediti: Joachim Moeyens/University of Washington/OpenSpace

L’algoritmo è sviluppato principalmente da Ari Heinze dell’Universita di Washington che, in attesa che entri in funzione il Vera C. Rubin Observatory, lo sta testando su dataset già esistenti. Analizzando le immagini del dataset del sistema Atlas (Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System) riprese attorno al 19 settembre 2022, HelioLinc3D ha fatto la detection del suo primo near-Earth, ora chiamato 2022 SF289, quando era a circa 21 milioni di km dalla Terra. Atlas aveva osservato il Nea per tre volte in quattro giorni distinti senza raggiungere la soglia delle quattro osservazioni a notte necessarie per poter segnalare la scoperta al Minor Planet Center. Quindi, mentre l’algoritmo di Atlas ha fallito nel misurare quattro posizioni a notte perché l’asteroide era al limite delle possibilità dello strumento, HelioLinc3D è riuscito a determinare un’orbita usando osservazioni fatte in giorni diversi.

In questo modo diventa possibile la scoperta di asteroidi near-Earth che sono al limite delle capacità strumentali e che, ad esempio, diventano visibili per breve tempo e a distanza di ore per effetto della rotazione dell’asteroide attorno al proprio asse. Dopo la scoperta di 2022 SF289, andando ad analizzare le immagini riprese negli stessi giorni da Pan-Starrs e dalla Catalina Sky Survey, è stato possibile ritrovare l’asteroide e confermarlo. Anche in questo casi era al limite strumentale e non era stato riconosciuto. Per la cronaca, 2022 SF289 è un asteroide di circa 180 metri di diametro che può arrivare alla minima distanza di 223mila km dalla Terra, ma che non ha una probabilità di impatto significativa per i prossimi decenni. La scoperta di questo nuovo asteroide è stata annunciata nella circolare Mpec 2023-O26 : 2022 SF289 del Minor Planet Center.

Il test di HelioLinc3D ci fa capire quale sarà uno dei punti di forza dell’astronomia del prossimo decennio: l’analisi di immense quantità di dati con algoritmi sempre più sofisticati. Naturalmente però, l’ultima parola spetta sempre all’astronomo: per quanto sofisticato, nessun algoritmo potrà mai sostituire la mente umana.

Guarda il video (in inglese) dell’Universita di Washington:

youtube.com/embed/bsuUWt4udKg?…


L’imprevedibilità delle magnetar


8567686
8567688
Il Five-hundred-meter Aperture Spherical radio Telescope (Fast) in Guizhou, China. Crediti: Bojun Wang, Jinchen Jiang e Qisheng Cui

A più di 15 anni dalla scoperta del primo lampo radio veloce (Frb, dall’inglese fast radio burst), gli astronomi di tutto il mondo stanno continuando a setacciare l’universo per capire come e perché si formano. Quasi tutti gli Frb identificati a oggi hanno avuto origine nello spazio profondo, al di fuori della nostra galassia. Questo fino al 28 aprile 2020, quando è stato rilevato il primo lampo radio veloce galattico, denominato Frb 20200428, generato dalla magnetar Sgr J1935+2154, una stella di neutroni nella nostra galassia con un campo magnetico cento volte più intenso di quello delle normali pulsar.

Questa rivoluzionaria scoperta ha portato a credere che anche gli Frb a distanze cosmologiche, al di fuori della nostra galassia, possano essere prodotti da magnetar. Tuttavia, la pistola fumante per un tale scenario, un periodo di rotazione dovuto alla rotazione della magnetar, non è ancora stata trovata. Ora, una nuova ricerca su Sgr J1935+2154 fa luce su questa curiosa discrepanza.

Nel numero del 28 luglio della rivista Science Advances, un team internazionale di scienziati riferisce sul monitoraggio continuo di Sgr J1935+2154 successivamente al lampo radio veloce dell’aprile 2020 e sulla scoperta di un altro fenomeno cosmologico, cinque mesi dopo, noto come fase pulsar radio.

Utilizzando Fast, il radiotelescopio cinese più grande del mondo, gli astronomi hanno osservato che Frb 20200428 e la successiva fase pulsar radio hanno avuto origine da diverse regioni all’interno della magnetar, il che suggerisce origini diverse.

«Fast ha rilevato 795 impulsi dalla sorgente in 16,5 ore in 13 giorni», afferma Weiwei Zhu del National Astronomical Observatory of China (Naoc), primo autore dell’articolo. «Questi impulsi mostrano proprietà osservative diverse dai lampi osservati dalla sorgente».

Questa dicotomia nelle modalità di emissione aiuta gli astronomi a capire come – e dove – si verificano i lampi radio veloci e i fenomeni correlati all’interno della nostra galassia, e forse anche quelli a distanze cosmologiche.

Gli impulsi radio sono esplosioni elettromagnetiche simili agli Frb ma con una luminosità di circa 10 ordini di grandezza inferiore, che tipicamente si osservano nelle pulsar. Secondo Bing Zhang della University of Nevada, Las Vegas, la maggior parte delle magnetar non emette impulsi radio per la maggior parte del tempo, probabilmente a causa dei campi magnetici estremamente forti. Ma, come nel caso di Sgr J1935+2154, alcune di esse diventano temporaneamente pulsar radio dopo alcune attività esplosive.

Un altro tratto che differenzia i lampi radio dagli impulsi sono le loro “fasi” di emissione, vale a dire la finestra temporale in cui avviene l’emissione radio. «Come gli impulsi nelle pulsar radio, gli impulsi magnetar vengono emessi all’interno di una finestra temporale ristretta all’interno del periodo», spiega Zhang. «È il noto effetto faro, ossia il fascio di emissione spazza la linea di vista una volta per periodo e solo durante un breve intervallo di tempo in ciascun periodo. Si può così osservare l’emissione radio pulsata».

Zhang riporta che nel lampo radio veloce dell’aprile 2020, e in molti successivi, sono stati emessi burst meno energetici in momenti del tutto casuali, al di fuori della finestra degli impulsi nella fase pulsar. «Questo suggerisce fortemente che gli impulsi e i burst provengano da posizioni diverse all’interno della magnetosfera della magnetar, indicando possibili meccanismi di emissione diversi tra impulsi e lampi», afferma il ricercatore.

Un’osservazione così dettagliata di una sorgente Frb galattica aiuta a far luce anche sui lampi radio veloci a distanze cosmologiche. Molte sorgenti di Frb cosmologici si ripetono. Da alcune di queste, Fast ha rilevato migliaia di burst ripetuti. Sebbene in passato siano state effettuate ricerche approfondite sulla periodicità a livello di secondi utilizzando questi lampi radio, finora non è stato scoperto alcun periodo.

Secondo Zhang, questo mette in dubbio l’idea oggi diffusa che gli Frb ripetuti siano alimentati da magnetar. «La nostra scoperta che i burst tendono a essere generati in fasi casuali fornisce un’interpretazione naturale al mancato rilevamento della periodicità degli Frb ripetuti», conclude. «Per ragioni sconosciute, i burst tendono a essere emessi da una magnetar in tutte le direzioni, rendendo impossibile identificare periodi dalle sorgenti Frb».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science Advances l’articolo “A radio pulsar phase from SGR J1935+2154 provides clues to the magnetar FRB mechanism” di Weiwei Zhu, HengXu, DejiangZhou, Lin Lin, BojunWang, Pei Wang, Chunfeng Zhang, Jiarui Niu, Yutong Chen, Chengkui Li, Lingqi Meng, Kejia Lee, Bing Zhang, Yi Feng, Mingyu Ge, Ersin Göğüş, Xing Guan, Jinlin Han, Jinchen Jiang, Peng Jiang, Chryssa Kouveliotou, Di Li, Chenchen Miao, Xueli Miao, Yunpeng Men, Chenghui Niu, Weiyang Wang, Zhengli Wang, Jiangwei Xu, Renxin Xu, Mengyao Xue,Yuanpei Yang, Wenfei Yu, Mao Yuan, Youling Yue, Shuangnan Zhang, Yongkun Zhang


Forbes, un’astrofisica fra le 100 donne di successo


8566304
Nella classifica 2023 delle donne di successo di Forbes c’è un po’ di tutto: dalle massime cariche manageriali e aziendali, alle politiche, alle attrici, registe, cantanti. Ci sono anche la presidente di Poste Italiane, Silvia Rovere, un’ingegnera nonché astronauta di riserva dell’Agenzia spaziale europea, Anthea Comellini, e due scienziate: una matematica dell’Università di Parma, Cristiana De Filippis, e un’astrofisica che lavora al Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (Mpe) di Garching, una cittadina nella periferia nord di Monaco di Baviera, Mara Salvato. Cinquantaseienne originaria di Bertipaglia, un piccolo paesino in provincia di Padova, dopo la laurea in astronomia Salvato è andata via dall’Italia per non tornare più. Diverse esperienze lavorative in Germania e negli Stati Uniti l’hanno portata, infine, a rientrare a Monaco nel 2009, dove oggi vive e lavora. Una scienziata che, forse, più delle galassie – soprattutto quelle con nuclei attivi – ama solo suo marito e i suoi gatti. Le piace fare il pane in casa (da ben prima del Covid, ci tiene a precisare), e per distrarsi dal lavoro si diletta con le perle per farne bigiotteria. Media Inaf l’ha raggiunta per un’intervista poco prima della sua partenza per New York, dove seguirà la conferenza annuale della Sloan Digital Sky Survey, una delle campagne osservative di riferimento per l’astronomia osservativa.

8566306
Mara Salvato, ricercatrice al Max Planck for Extraterrestrial Physics di Monaco di Baviera e fra le 100 donne di successo nella classifica 2023 di Forbes. Crediti: Stefano Ciroi

Mara Salvato, fra le pochissime ricercatrici nella lista di Forbes. Solo due su cento, una delle quali lavora all’estero. È un caso?

«Non saprei: la mia carriera, sebbene interamente costruita all’estero, dove spesso si sente dire che le possibilità sono diverse e migliori rispetto all’Italia, non è stata per nulla lineare. Pensa che ho un posto fisso qui al Max Planck solo dal 2018, e gli ultimi due contratti prima di questo sono stati di 6 e 3 mesi. Non è stato semplice».

Come mai lei pensa di essere stata scelta da Forbes?

«Non ho idea di come sono finita in quella lista, né di come mi abbiano trovata e selezionata. Ho persino scritto loro per chiedere informazioni a riguardo, perché volevo capire la motivazione. Onestamente conosco moltissime donne, astronome, che lavorano in Italia o all’estero, e che meriterebbero di essere in quella lista: non vedo alcuna differenza fra me e loro. Non so come mai sia toccato a me. Tornando alla domanda di prima, se fossi rimasta in Italia non so se sarei stata nella lista. È vero, faccio un lavoro che serve a tantissimi, per cui vengo citata e sarebbe stato lo stesso anche in Italia. Ma, assumendo di essere stata scelta perché sono tra gli astrofisici più citati al mondo – dal 2017 al 2020 sono stata nella classifica ufficiale della Reuters e sono tra i 100 anche nella lista AD – allora la risposta è no. Questi risultati derivano soprattutto dal fatto che lavoro con collaborazioni molto grandi e il mio istituto ha pagato per esserne membro, quindi dall’Italia non avrei potuto contribuire».

Come ha scoperto di Forbes, quindi?

«È una storia buffa: lo scorso sabato la maestra in pensione di mio nipote ha mandato una foto a mia cognata con un ritaglio della rivista, chiedendo se potesse divulgare la notizia perché si sentiva orgogliosa che una compaesana avesse ottenuto un simile riconoscimento. Mia cognata mi ha chiesto il permesso, ma io non capivo di cosa parlasse. Ho cercato su Google e mi sono trovata. Ho detto subito di sì: per me era importante che lo sapessero in paese, che lo sapessero soprattutto le bambine del paese, e la mia scuola».

Come mai?

«Ho fatto l’istituto d’arte e dovevo diventare falegname per seguire il lavoro di mio padre. Poi all’inizio del quarto anno, quando ero già maestra d’arte, abbiamo fatto qualche lezione di geografia astronomica, e ho scoperto che la Luna si può vedere anche di giorno. Lì ho deciso che avrei fatto astronomia. Il riconoscimento che mi ha dato Forbes dimostra che non è vero che quando si comincia un percorso bisogna necessariamente continuarlo: si può cambiare e lo si può far bene».

C’è stato un momento nella sua carriera che ha segnato la svolta, o un articolo in particolare per cui è nota?

«C’è un lavoro sul quale ho costruito la mia carriera, sì. Quando ho finito il dottorato avevo preso una posizione per lavorare per una missione tedesca che doveva fare da precursore a Gaia. All’ultimo questa è stata soppressa per mancanza di fondi e io mi sono trovata senza lavoro. Grazie ad alcune conoscenze ho scoperto che qui al Max Planck uno dei direttori aveva aperto una posizione. Sono stata presa per lavorare su evoluzione di galassie, e con l’accordo che non avrei più lavorato sugli Agn, i nuclei galattici attivi, argomento sul quale mi ero specializzata durante il dottorato. Nel tempo però mi ero resa che nessuno, nel nostro campo, calcolava bene i redshift fotometrici degli Agn. E così nel mio tempo libero ho cominciato a trasferire le conoscenze che stavo acquisendo sulle galassie agli Agn, e questo mi ha permesso di acquisire una competenza che al tempo nessuno aveva, e di entrare in diverse collaborazioni internazionali con questa nuova expertise. Nel mio lavoro, quindi, sono conosciuta per questo: aver messo in piedi un metodo per calcolare le distanze degli Agn senza avere a disposizione lo spettro, usando appunto la tecnica del redshift fotometrico. Sono stata una pioniera in questo ambito, ho collaborato a un articolo di review su Nature Astronomy che spiega questa tecnica e questo mi ha dato visibilità. Penso anche di essermi guadagnata il posto fisso qui, dopo anni di precariato, proprio grazie a questo. È un lavoro che mi gratifica e mi appaga molto, anche se ho meno tempo per lavorare a progetti miei perché sono sempre impegnata a preparare il lavoro per altri».

Se dovesse spiegarmi in parole semplici qual è il suo lavoro, quindi?

«La domanda scientifica alla quale ho sempre cercato di rispondere è la relazione fra l’attività del buco nero supermassiccio al centro delle galassie – specialmente quelle in cui questo è attivo, gli Agn appunto – e l’evoluzione della galassia stessa. Cerco di capire come queste due componenti si influenzano a vicenda. Per poterci arrivare, c’è bisogno di un gran lavoro di preparazione. Negli ultimi anni, oltre al calcolo delle distanze di cui parlavamo prima, ho cercato un modo per capire come identificare in modo sicuro la galassia responsabile dell’emissione X. A questa frequenza è facile identificare un buco nero attivo, ma le surveys non riescono a raggiungere un’elevata precisione. Lavoro soprattutto per eRosita (l’Extended Roentgen Survey with an Imaging Telescope Array), il telescopio spaziale costruito qui nel nostro istituto e del quale sono portavoce, che sta mappando tutto il cielo ai raggi X, e che appunto non ha una risoluzione sufficiente da riuscire accoppiare l’emissione X rilevata alla sorgente ottica che l’ha emessa. Per dirla in parole semplici, eRosita vede un’emissione a raggi X in una determinata direzione, ma nella maggior parte dei casi non è in grado di dire quale delle centinaia di galassie o stelle che si trovano in quella regione l’abbia prodotta. Mischiando statistica bayesiana e machine learning, con i miei colleghi ho messo a punto un nuovo metodo per identificare la controparte ottica più probabile, per poi calcolarne la distanza. Grazie a questo, preparo e distribuisco i cataloghi ai miei collaboratori che li usano per fare scienza».

Se non erro lavora anche alla missione Euclid: sono appena state pubblicate le prime immagini. Che ne pensa, sarà un successo?

«Penso che avrà un sacco di successo, anche se non so se sarà il successo che ci si aspetta. La missione ha due classi di obiettivi: quelli primari, ovvero lo scopo scientifico per cui è stata costruita – derivare i parametri cosmologici sfruttando l’effetto di weak lensing e il clustering – e poi gli obiettivi della cosiddetta scienza di legacy, che riguardano tutte le altre informazioni scientifiche che si possono derivare dai dati raccolti. Per raggiungere i primi c’è bisogno non solo di una grande area di campionamento, ma anche di una precisione al limite del possibile e secondo me ci vorrà moltissimo tempo per ottimizzare strumenti e tecniche in modo da essere nelle condizioni migliori per provarci. Invece, come già accaduto per eRosita, la legacy fornirà da subito una miniera d’oro a cui attingere. Per la prima volta, avremo immagini profonde nel vicino infrarosso per 15mila gradi quadrati di cielo: un’enormità. Ci saranno immagini, spettri, e si vedranno cose mai viste prima. Non so dirti se e quando arriveranno i successi per la scienza primaria, perché i requisiti sulla precisione sono tanti e ambiziosi. Sulla carta ce la si dovrebbe fare, ma ci vorrà molto tempo».

Lei è anche una sostenitrice della causa femminile, specialmente nel mondo della scienza. Vuole dirci qualcosa a riguardo, anche alla luce della lista pubblicata da Forbes?

«Sono ufficiale delle pari opportunità da circa otto o nove anni qui a Mpe: è un argomento che mi sta molto a cuore. Abbiamo iniziato molte attività per far sì che le nuove generazioni capiscano che anche le donne possono fare questo lavoro. Qui in Baviera la frazione di donne nelle discipline Stem (science, technology, engineering, and mathematics) è ancora bassa, e per questo ci tengo a dedicare del tempo a presentare dei modelli di donne che ce l’hanno fatta. Da circa cinque anni qui in istituto abbiamo un evento che si chiama Women in astronomy, in cui invitiamo donne astrofisiche tedesche di alto profilo che lavorano in Germania sia per dare un talk scientifico al personale di ricerca, sia per tenere un incontro con le nuove generazioni e con il pubblico su temi di family-work balance, gestione familiare e lavorativa. L’obiettivo è normalizzare il nostro lavoro e invogliare le bambine a intraprendere discipline Stem».

La chiave sono le nuove generazioni secondo lei, quindi.

«Assolutamente. Credo nel potenziale che abbiamo di agire sui più piccoli, e penso anche che lentamente le cose stiano cambiando. Non siamo più mosche bianche, anche se la transizione non è così veloce come vorremmo. Un’altra cosa su cui lavoriamo è assicurarci che nelle interviste lavorative le donne vengano trattate allo stesso modo degli uomini. Abbiamo ancora tanti preconcetti che influenzano inevitabilmente l’esito finale. C’è anche un video che viene fatto vedere in alcuni istituti ai membri delle commissioni per ricordare loro i propri bias quando fanno interviste per posizioni lavorative».

Può fare qualche esempio?

«Me ne vengono in mente un paio. Parlo, nel caso di un’intervista per una posizione lavorativa, del fatto che di fronte alla stessa situazione la credibilità e professionalità di un ricercatore maschio non vengano messi in discussione, mentre se si tratta di una donna sì. È una modalità che si ripete in diverse forme. È capitato, ad esempio, anche se non saprei riferire né dove né quando sia successo, che a un ricercatore maschio dicessero “ho visto il tuo ultimo articolo come primo autore, complimenti”, mentre a una ricercatrice donna lo stesso riferimento diventasse “ho visto il tuo ultimo articolo come primo autore, quale parte del lavoro hai fatto tu?”. Oppure, circa una decina di anni fa ha fatto notizia il caso di un referee che ha chiesto esplicitamente alla donna prima autrice di un articolo in revisione di far controllare i risultati a un collega maschio. Queste cose, anche se in misura minore di un tempo, continuano a succedere. Per questo è importante è che noi donne continuiamo a dimostrare che la matematica, la fisica e la scienza fanno anche per noi. Penso che questo debba riguardare innanzitutto i più piccoli, perché ancora oggi maschi e femmine vengono trattati in modo diverso e vengono proposti loro giochi diversi che fanno loro sviluppare capacità distinte. Infine, faccio uno statement politico che probabilmente solleverà polemiche: il fatto di insistere che tutte le professioni vengano declinate anche al femminile non è solo una questione di forma, ma di concetto e di cultura sociale».

In che senso?

«Se si chiede a un bambino di disegnare un dottore, disegnerà un maschio. La stessa cosa per un avvocato, un calciatore, e per tutte le altre professioni – che solitamente sono le più prestigiose – attualmente declinate solo al maschile. Per altre, come la maestra, l’infermiera, la cameriera, è diverso. La componente femminile è contemplata. Cominciare a chiamare diversamente anche le professioni storicamente ricoperte da uomini e riconoscere il genere aiuterà le nuove generazioni a capire che qualunque posto lavorativo è per tutti. Il genere deve essere usato per abbattere la segregazione dei ruoli e far sapere ai bambini che si può essere pompiera, dottoressa, avvocatessa, tanto quanto operaia e professoressa. Per questo mi interessa di più parlare alle scuole piuttosto che a una conferenza per adulti, perché è la nuova generazione che deve abituarsi alla parità. È una cosa che mi sta davvero a cuore».


I segreti nascosti nel luccichio delle stelle giganti


8553557
8553559
Fotogramma di una simulazione 3D (clicca per vedere l’animazione) che mostra come la convezione turbolenta nel nucleo di una grande stella può generare onde che si spingono verso l’esterno e generano vibrazioni risonanti vicino alla superficie della stella stessa. Studiando i cambiamenti nella luminosità della stella causati dalle vibrazioni, gli scienziati possono capire meglio i processi che avvengono nel cuore delle grandi stelle. Crediti: E.H. Anders et al. / Nature Astronomy 2023

Twinkle twinkle little star, how I wonder what you are. Up above the world so high, like a diamond in the sky. Chi non conosce questa dolcissima ninna nanna, che culla i bambini facendoli addormentare protetti da una piccola stellina scintillante? Uno studio pubblicato il 27 luglio su Nature Astronomy parla anche di lei, della ninna nanna, e di come sia stata usata per testare la propagazione delle onde sonore all’interno di stelle – non così piccole come la protagonista del brano – e per dimostrare come queste, alla fine, scintillino.

Autori dello studio in questione sono un gruppo di astrofisici guidati dal Flatiron Institute e dalla Northwestern University che ha sviluppato simulazioni al computer uniche nel loro genere che mostrano come l’agitazione del plasma nelle viscere di una stella può causare lo sfarfallio della luce emessa dalla stella stessa. Ovviamente, questo effetto è ben diverso dal luccichio visibile delle stelle nel cielo notturno, causato dall’atmosfera terrestre.

Nell’articolo, gli scienziati spiegano come un giorno potrebbe essere possibile capire ciò che accade all’interno di stelle più grandi del Sole, osservando lo scintillio della loro luce e utilizzando simulazioni di questo tipo. Gli effetti sono troppo piccoli per essere rilevati dagli attuali telescopi, spiega il coautore Matteo Cantiello, ricercatore presso il Center for Computational Astrophysics (Cca) del Flatiron Institute di New York City, laureatosi all’Università di Pisa. Ma in futuro potrebbe non essere così, grazie all’impiego di telescopi avanzati: «Saremo in grado di vedere la firma del nucleo», dice Cantiello, «che sarà piuttosto interessante perché sarà un modo per sondare le regioni più interne delle stelle».

8553561
Visualizzazione dei flussi in un taglio equatoriale di una stella. Crediti: E.H. Anders et al./Nature Astronomy 2023

«Una migliore comprensione delle viscere stellari aiuterà gli astronomi a capire come si formano ed evolvono le stelle, come si assemblano le galassie e come vengono creati elementi pesanti come l’ossigeno che respiriamo», afferma Evan Anders della Northwestern University, primo autore dello studio. «I movimenti nei nuclei delle stelle generano onde come quelle dell’oceano», continua Anders. «Quando le onde arrivano sulla superficie della stella, la fanno brillare in un modo che gli astronomi possono essere in grado di osservare. Per la prima volta, abbiamo sviluppato modelli computerizzati che ci consentono di determinare quanto una stella dovrebbe brillare in seguito a queste onde. Questo lavoro consentirà ai futuri telescopi spaziali di sondare le regioni centrali dove le stelle forgiano gli elementi da cui dipendiamo per vivere e respirare».

Le nuove simulazioni contribuiscono anche ad alimentare un “mistero stellare” di lunga data, quello legato al cosiddetto rumore rosso osservato nelle stelle più calde e massicce: pulsazioni ancora inspiegate che causano fluttuazioni nella loro luminosità. Si riteneva che una possibile spiegazione potesse risiedere nella convezione nei loro nuclei, in grado di provocare lo sfarfallio, ma le nuove simulazioni mostrano che uno sfarfallio indotto dalla convezione del nucleo sarebbe troppo debole per corrispondere al rumore rosso osservato.

8553565
Matteo Cantiello, astrofisico del Center for Computational Astrophysics (Flatiron Institute, a New York City), qui nell’ufficio di Kip Thorne, al Caltech. Crediti: M. Cantiello (stellarphysics.org)

La convezione di una stella è alimentata dal reattore nucleare al suo interno. Nel cuore della stella, un’intensa pressione comprime insieme gli atomi di idrogeno per formare atomi di elio, rilasciando un po’ di energia in eccesso. Quell’energia genera calore, che fa salire bolle di plasma come accade in una lava lamp. Ma a differenza di una lava lamp, la convezione è turbolenta, come accade in una pentola di acqua bollente. Questo movimento genera onde proprio come quelle che si trovano negli oceani della Terra. Quelle onde poi si increspano verso l’esterno, verso la superficie della stella, dove comprimono e decomprimono il plasma della stella stessa, provocando l’aumento e l’attenuazione della sua luce. Studiando la luminosità di una stella, gli scienziati si sono resi conto che potrebbero essere in grado di capire cosa sta succedendo nel suo nucleo.

Tuttavia, spiega Cantiello, simulare la generazione e la propagazione delle onde al computer è molto difficile. Questo perché se un flusso che genera onde nel nucleo della stella dura alcune settimane, le onde generate possono persistere per centinaia di migliaia di anni. Riuscire a trovare una correlazione su tempi così diversi – settimane e centinaia di millenni – ha sempre rappresentato una grande sfida.

I ricercatori si sono ispirati a una diversa forma di onde: le onde sonore che compongono la musica. Si sono resi conto che la generazione delle onde indotte dalla convezione nel nucleo potrebbe essere assimilabile a ciò che accade in una sala da concerto quando un gruppo di musicisti inizia a suonare. I musicisti, ognuno con il proprio strumento, producono suoni che vengono alterati dalle multiple riflessioni all’interno del locale. I ricercatori hanno scoperto di essere in grado di risalire al brano musicale originale, invariato rispetto alle alterazioni indotte dalla stanza, e quindi – tornando all’analogo stellare – di applicare un filtro in grado di riprodurre le proprietà acustiche della stella. Di fatto è un processo simile a quello che può compiere un tecnico del suono professionista.

I ricercatori hanno testato il loro metodo utilizzando alcuni brani musicali, tra cui Jupiter della suite The Planets, scritta dal compositore inglese Gustav Holst, e la ninna nanna da cui siano partiti, Twinkle, Twinkle, Little Star. Hanno simulato il modo in cui le onde sonore dei brani musicali “rimbalzerebbero” all’interno di stelle di diverse dimensioni, producendo i risultati che potete ascoltare in questa pagina.

Questa è la clip tratta dalla suite The Planets, inalterata rispetto all’originale:
media.inaf.it/wp-content/uploa…
E questa è la stessa clip alterata utilizzando un filtro che replica come le onde si muovono attraverso stelle (dall’alto) di 3, 15 e 40 volte la massa del Sole:
media.inaf.it/wp-content/uploa…media.inaf.it/wp-content/uploa…media.inaf.it/wp-content/uploa…
Dopo la convalida del loro approccio, hanno simulato le onde indotte dalla convezione e le conseguenti fluttuazioni nella luce di stelle di massa pari a 3, 15 e 40 volte quella del Sole. Per tutte e tre le dimensioni, la convezione del nucleo ha effettivamente causato lo sfarfallio dell’intensità della luce vicino alla superficie, ma non alle frequenze o intensità caratteristiche del rumore rosso che gli astronomi avevano riscontrato.

Qui potete ascoltare una rappresentazione audio delle onde di superficie generate dalla convezione del nucleo all’interno di una stella 40 volte la massa del Sole, dove il battito ritmico delle onde provoca lo sfarfallio della luce della stella:
media.inaf.it/wp-content/uploa…
La convezione potrebbe ancora essere responsabile del rumore rosso, dice Cantiello, ma sarebbe probabilmente molto più vicina alla superficie della stella e quindi meno indicativa di ciò che sta accadendo nelle sue profondità.

I ricercatori stanno ora migliorando le loro simulazioni per considerare effetti aggiuntivi, come la rapida rotazione di una stella attorno al proprio asse, una caratteristica comune delle stelle più massicce del Sole. Sono curiosi di sapere se le stelle in rapida rotazione hanno uno sfarfallio abbastanza forte indotto dalla convezione del nucleo da poter essere rilevato dai telescopi attuali. «È una domanda interessante a cui speriamo di ottenere una risposta», conclude Cantiello.

Per saperne di più:


Ecco le prime immagini prodotte da Euclid


8549745
8549747
Galassie a spirale ed ellittiche, stelle vicine e lontane, ammassi stellari e molto altro nella prima immagine realizzata durante la fase di messa in servizio di Euclid con lo strumento Nisp. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cc By-Sa 3.0 Ig

Sono arrivate sulla Terra le prime immagini del telescopio spaziale europeo Euclid. Talmente incredibili per la loro nitidezza che alcuni scienziati le hanno definite “immagini ipnotizzanti”. A riprenderle sono stati i due strumenti, con forte contributo italiano, appena accesi: Vis (Visible Instrument) e Nisp (Near Infrared Spectrometer Photometer) che sono ancora in fase di calibrazione. Alla loro realizzazione hanno giocato un ruolo importante a livello continentale, l’Agenzia spaziale italiana (Asi), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).

Anche se mancano un paio di mesi prima che Euclid cominci a fornire la sua vera nuova visione del cosmo, il raggiungimento di questo traguardo mostra che gli scienziati e gli ingegneri sono fiduciosi che il telescopio ed i suoi strumenti funzionino bene. Gli ottimi risultati fin qui ottenuti, indicano che il telescopio spaziale raggiungerà gli obiettivi scientifici per cui è stato progettato, e forse molto di più.

«Dopo più di 11 anni di progettazione e sviluppo di Euclid, è esaltante ed estremamente emozionante vedere queste prime immagini», dice Giuseppe Racca, project manager di Euclid per l’Agenzia spaziale europea (Esa). «È ancora più incredibile se pensiamo di vedere solo poche galassie qui, prodotte con una messa a punto minima del sistema. Euclid, una volta calibrato completamente, osserverà miliardi di galassie per creare la più grande mappa 3D del cielo mai vista prima».

«Le immagini degli strumenti Vis e Nisp diffuse oggi dimostrano la bontà della catena di acquisizione della luce raccolta nel campo di vista del telescopio di Euclid» riferisce Mario Salatti, responsabile per ASI della realizzazione del contributo italiano agli strumenti scientifici a bordo del satellite Euclid. «Il team industriale coinvolto nella costruzione del cuore delle unità elettroniche dei due strumenti Vis e Nisp e il team scientifico che ne ha sviluppato il software guardano con grande soddisfazione alla qualità di queste immagini da cui viene confermato il raggiungimento delle specifiche di progetto».

Lo strumento Vis di Euclid scatterà immagini super nitide di miliardi di galassie per misurarne le forme. Già dalla prima immagine si intravede la capacità che avrà il Vis; mentre alcune galassie sono molto facili da individuare, molte altre sono macchie sfocate nascoste tra le stelle, in attesa di essere svelate da Euclid in futuro. Sebbene l’immagine sia ricca di dettagli, l’area di cielo che copre è in realtà solo circa un quarto della larghezza e dell’altezza della Luna piena.

8549749
A sinistra, l’intero campo di vista dello strumento Vis di Euclid, che osserva nelle frequenze della luce visibile (550–900 nm). A destra. lo zoom di una piccola porzione dell’immagine (il riquadro in alto, con un’estensione pari a circa un quarto del diametro della luna piena in cielo). Per realizzare questa immagine, Euclid ha raccolto la luce per 566 secondi (circa 9 minuti e mezzo). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cc By-Sa 3.0 Ig

«Accendere uno strumento spaziale è un’esperienza unica: quando tutto era pronto, abbiamo inviato al satellite il comando di power-on e letteralmente abbiamo smesso di respirare fino a che, qualche secondo dopo, non abbiamo visto i primi dati di telemetria scorrere sullo schermo, riportando lo stato dello strumento in funzione. L’emozione è stata tanta e tra applausi e abbracci, ci siamo rimessi subito tutti al lavoro, consapevoli che questo è solo l’inizio dell’avventura» racconta Anna Di Giorgio dell’Inaf, che coordina le attività italiane per la missione Euclid finanziate dall’Asi e ha partecipato, insieme ad altri ricercatori Inaf e Infn, al collaudo dei due strumenti presso il centro di controllo dell’Esa. «Altro momento critico è stato quello dell’accensione dei rivelatori e l’acquisizione dei primi dati, seguito dalla meraviglia di poter finalmente vedere delle immagini vere e non simulate. Certo ci sono stati degli imprevisti (senza i quali che avventura sarebbe?), come la scoperta di un fondo inaspettato di luce diffusa, che alla fine hanno dato all’intera squadra l’opportunità di lavorare se possibile in modo ancora più coeso e motivato. Anche in questi casi la professionalità del personale italiano, sia i ricercatori che il team industriale, ha contribuito in modo decisivo a tenere la situazione sotto controllo e a definire possibili strategie risolutive.»

Lo strumento Nisp di Euclid ha un duplice ruolo: fotografare le galassie nella luce infrarossa e misurare la quantità di luce che le galassie emettono a varie lunghezze d’onda. Questo secondo ruolo ci permette di capire direttamente quanto è lontana ogni galassia.

8549751
A sinistra, l’intero campo di vista dello strumento Nisp di Euclid, che osserva nelle frequenze del vicino infrarosso (900–2000 nm). A destra, lo zoom di una piccola porzione dell’immagine (il riquadro in basso a sinistra, con un’estensione pari a circa un quarto del diametro della luna piena in cielo). Per realizzare questa immagine, Euclid ha raccolto la luce per circa 100 secondi (poco meno di 2 minuti). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cc By-Sa 3.0 Ig

«Euclid rappresenta la prima missione del suo tipo a cui l’Infn contribuisce, e siamo molto soddisfatti per questo iniziale importante passo, reso possibile anche grazie al ruolo svolto dall’Infn, e che dimostra la capacità di Euclid di realizzare quanto si è prefisso: una mappa estesa dell’Universo, che sarà in grado di fornire decisive misure anche in quei settori in cui l’Infn è maggiormente coinvolto, come la fisica dei neutrini, andando a complementare le ricerche in questo ambito svolte in laboratorio», aggiunge Luca Stanco, ricercatore Infn della sezione di Padova e responsabile della missione Euclid per l’Infn.

Combinando le informazioni sulla distanza con quelle sulle forme delle galassie misurate dal Vis, saremo in grado di mappare come le galassie sono distribuite nell’Universo e come questa distribuzione cambia nel tempo. In definitiva, questa mappa 3D ci porterà a comprendere meglio la materia oscura (che interagisce gravitazionalmente con la materia ordinaria) e l’energia oscura (che causa l’attuale accelerazione dell’espansione dell’Universo).

In Euclid sono coinvolti oltre duecento scienziate e scienziati italiani, appartenenti all’Asi, all’Inaf, all’Infn e a numerose università, in primo luogo l’Università di Bologna e poi Università di Ferrara, Università di Genova, Università Statale di Milano, Università di Roma Tre, Università di Trieste, Sissa e Cisas.

Nei prossimi mesi, l’Esa continuerà a svolgere tutti i test e i controlli necessari per garantire che Euclid funzioni nel miglior modo possibile. Al termine di questa “fase di messa in servizio”, inizierà la vera scienza. A quel punto l’Esa rilascerà una nuova serie di immagini che mostreranno le straordinarie capacità della missione.

Su MediaInaf Tv, le prime immagini di Euclid commentate da Andrea Cimatti (UniBo):

youtube.com/embed/F6WDQiU9WVs?…


Ammassi globulari per falsificare teorie di gravità


8545160
8545162
L’ammasso globulare Ngc 5024. Crediti: Esa/Hubble & Nasa

È un giorno di dicembre, a Bologna corre l’anno 2021. Antonio Sollima, ricercatore presso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) fa visita a un collega del vicino dipartimento universitario di fisica e astronomia per parlare di gravità, estensioni alla teoria di Newton e ammassi stellari.

«Ho collaborato con Antonio per più di dieci anni», ricorda Carlo Nipoti, professore di astrofisica presso l’Università di Bologna, «nel corso dei quali, spesso e volentieri – e con mio grande piacere – si affacciava alla porta del mio ufficio dicendo che aveva avuto un’idea di cui mi voleva parlare».

Questa volta, l’idea era quella di effettuare un test della dinamica newtoniana modificata, o Mond (Modified Newtonian Dynamics), usando una particolare selezione di ammassi globulari, agglomerati stellari che raggruppano fino a centinaia di migliaia o addirittura milioni di stelle. Il termine Mond indica una famiglia di teorie gravitazionali che propongono una modifica alla gravità classica, quella descritta da Newton, teorizzate per la prima volta dal fisico Mordehai Milgrom nel 1983.

«Ci sono diverse formulazioni possibili di Mond, sia relativistiche che non-relativistiche, che differiscono tra loro dal punto di vista della formulazione Lagrangiana, ma che hanno effetti molto simili sulla dinamica dei sistemi astrofisici», spiega Nipoti.

Originariamente, la Mond è nata per spiegare la discrepanza tra le velocità delle stelle in alcune galassie e la loro luminosità. Secondo le osservazioni, infatti, queste stelle si muoverebbero a velocità inspiegabilmente alte rispetto alla quantità di materia visibile nelle loro galassie ospiti, portando a ipotizzare l’esistenza di una forma di materia che non emette luce e interagisce solo attraverso la gravità: la famosa materia oscura. Teorie come la Mond propongono una spiegazione alternativa, e gli ammassi globulari sono un utile “laboratorio” per metterle alla prova.

8545165
Gli ammassi globulari (circoletti blu) e le galassie nane (circoletti rossi) che orbitano attorno alla Via Lattea, nei dati del satellite Gaia (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa/Gaia/Dpac, Cc By-Sa 3.0 Igo

Dopo quasi un anno di lavoro, nell’ottobre 2022, Sollima contatta un altro collega, Francesco Calura dell’Inaf. Vuole mostrargli i risultati ottenuti insieme a Nipoti utilizzando i suoi modelli di dinamica newtoniana modificata, e confrontarli con modelli diversi.

«Io uso un codice numerico che include anche un trattamento della gravità modificata secondo la teoria Mond, e la richiesta di Antonio era che io considerassi un caso fisico simile a quello modellato da lui, ovvero un prototipo di ammasso globulare, e calcolassi il campo di forze in tale sistema per confrontarlo con i suoi risultati», racconta Calura. «Abbiamo avuto varie interazioni per definire e perfezionare il modello, in una sfida per noi molto avvincente e assai tipica della nostra attività di ricercatori, che aveva come scopo il controllo di tutti gli elementi di entrambi i modelli, quello di Antonio e il mio, tramite la verifica che i risultati ottenuti da entrambi fossero gli stessi».

Lo studio si concentra sulla QuMond, che sta per quasi-linear Mond, una formulazione non-relativistica della teoria, sviluppata dallo stesso Milgrom nel 2010. Rispetto ad altre formulazioni, ha il vantaggio di essere espressa tramite equazioni differenziali lineari e solo un’equazione algebrica non lineare.

Poco dopo si unisce al lavoro anche un altro ricercatore Inaf, Raffaele Pascale, per occuparsi di alcuni aspetti numerici. In particolare, controlla che i modelli di Sollima e Calura diano gli stessi risultati considerando condizioni iniziali molto simili. «Il lavoro era già in uno stato molto avanzato», chiarisce Pascale, «ma avevamo alcuni problemi di convergenza tra i due modelli dei quali, successivamente, siamo venuti a capo».

8545168
Antonio Sollima presso i telescopi dell’Eso a La Silla, in Cile

È autunno inoltrato e ormai la ricerca è in dirittura d’arrivo. Sollima inizia a scrivere un articolo e coinvolge anche un suo collaboratore di lunga data, Holger Baumgardt della University of Queensland, in Australia. A cavallo tra il 2022 e il 2023, i ricercatori si incontrano spesso per discutere i risultati e cercare di capire come migliorare ulteriormente i modelli. Ma da circa un anno Sollima sta affrontando una grave malattia, rara per la sua giovane età, e il 28 gennaio 2023 si spegne prematuramente, a soli 43 anni.

«Nell’ambito dei modelli dinamici degli ammassi globulari, il contributo scientifico di Antonio è stato fondamentale», sottolinea Calura. «Dopo la sua scomparsa, sentivamo il dovere di finalizzare questo lavoro non solo in sua memoria, ma anche per onorare la sua carriera e il suo importantissimo apporto alla conoscenza di questi sistemi molto complessi e dibattuti».

L’articolo è stato pubblicato il 20 luglio sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Nipoti ha presentato i risultati anche nell’ambito di un congresso internazionale dedicato agli ammassi globulari, tenutosi all’inizio di luglio a Sesto, vicino Bolzano, durante il quale è stata ricordata l’eredità scientifica di Sollima.

A differenza di quanto accade nelle galassie, i moti delle stelle negli ammassi globulari si possono spiegare nell’ambito della teoria newtoniana, senza dover necessariamente invocare la presenza di materia oscura. Questo li rende ottimi candidati per provare a falsificare teorie come la Mond. Per esempio, è possibile che, per spiegare i moti osservati delle stelle in un dato ammasso, la Mond richieda una massa inferiore a quella visibile: in tal caso, la predizione sarebbe in contrasto con le osservazioni.

«Era un progetto ambizioso e sofisticato, difficile sia dal punto di vista teorico che da quello osservativo», afferma Nipoti, «ma Antonio ci si è buttato a capofitto, ottenendo in meno di un anno gli interessantissimi risultati che ora sono stati pubblicati in questo suo ultimo prezioso articolo».

Per questo lavoro, Sollima e i suoi colleghi hanno analizzato i dati di 18 ammassi globulari raccolti con il satellite Gaia e il telescopio spaziale Hubble. Contrariamente ad altri studi simili, non hanno considerato solo ammassi che si trovano nell’alone esterno della nostra galassia, la Via lattea, per i quali il campo gravitazionale esterno è trascurabile, ma anche gli ammassi globulari dell’alone interno, dove bisogna tenere conto dell’effetto di campo esterno.

Dalla distribuzione spaziale e dai moti propri delle stelle, i ricercatori hanno ricavato i profili di densità e la dispersione di velocità delle stelle nei diversi ammassi per stimare il rapporto tra la massa e la luminosità sia secondo la teoria newtoniana che nella Mond. In tutti i sistemi tranne uno, nessuna delle due teorie è risultata essere in disaccordo con le osservazioni. Solo nel caso dell’ammasso Ngc 5024, il valore ottenuto dalla Mond risulta incompatibile con le osservazioni, anche se con un livello di significatività non sufficientemente alto da rappresentare una falsificazione della teoria. I ricercatori intendono approfondire questa interessante tensione tra osservazioni e predizioni Mond con nuovi dati in futuro.

«Grazie a questa e altre collaborazioni, ho potuto conoscere Antonio ed apprezzare che uomo instancabilmente appassionato ed entusiasta della propria ricerca scientifica fosse», nota Pascale. «Questo suo ultimo lavoro ne è la prova ora tangibile, e sono contento di aver potuto contribuire per renderlo accessibile».

Per saperne di più:


Perseidi, superlune blu e Saturno in opposizione


8510543
8510545
Meteore. Crediti: илья-бунин/Pexels

È tempo di stelle cadenti, di eredità cometarie in forma di minuscoli frammenti di polveri che, entrando nell’atmosfera terrestre, creano un incredibile spettacolo di scie luminose che a volte sono colorate e solcano il cielo per parecchi gradi.

Quelle del mese di agosto sono ovviamente le Perseidi, conosciute come lacrime di San Lorenzo. Il picco è atteso per il 13 del mese e quindi le sere migliori per osservarle sono intorno a questa data. Preparatevi quindi sicuramente per osservarle la sera del 12 agosto e poi anche quella del 13 da dopo le dieci e mezza di sera fino a notte fonda, quando la costellazione di Perseo, che dà nome allo sciame meteorico, è un po’ più alta nel cielo di nord-est.

Non c’è bisogno di strumenti particolari per osservarle. L’occhio nudo è lo strumento perfetto. Basta trovare un posto al buio lontano dalle luci cittadine e una posizione comoda in modo da osservare il cielo il più possibile senza stancarsi. La nostra Terra già dal mese scorso sta attraversando la polvere cometaria e quest’anno la Luna non disturberà le osservazioni, quindi potete dedicare tempo alle osservazioni già a partire dal 9 di agosto fino alla fine del periodo appena dopo il 20 di agosto.

Per chi volesse fare un giro tra le principali costellazioni visibili, verso sud, quando il cielo è già buio, lo spettacolo è assicurato dalle costellazioni del Sagittario, dello Scudo, dell’Aquila e del Cigno, che segnano l’arco della Via Lattea. Spostate più verso sud-ovest è possibile riconoscere la costellazione della Lira con la stella Vega, e poi la costellazione di Ercole. Verso est regna il grande quadrato di Pegaso, con vicino Andromeda e la sua galassia M31, visibile anche ad occhio nudo. A nord, poco sopra alla costellazione del Perseo, è possibile identificare la ‘W’ della costellazione di Cassiopea e la costellazione di Cefeo.

Questo mese avremo il vantaggio di avere addirittura due pleniluni, con la Luna che sarà al perigeo, ossia alla minima distanza dalla Terra. Quindi saranno due fantastiche superlune. La prima al primo del mese e la seconda all’ultimo giorno. Quest’ultima sarà anche una “superluna blu”. È proprio la Blue Moon, tradizionalmente chiamata così quando succedono due pleniluni nello stesso mese.

8510547
Saturno con i suoi anelli catturanti con incredibile dettaglio dall’Hubble Space Telescope nel 2019. Crediti: Nasa, Esa, A. Simon (Gsfc), M.H. Wong (University of California, Berkeley) and the Opal Team

In agosto, Giove e Saturno avranno un’ottima visibilità. Giove con la sua magnitudine di circa -2,5 sarà visibile per tutta la seconda parte della notte, quindi da circa mezzanotte in avanti, e aumenterà la sua visibilità con il passare dei giorni. Saturno sarà visibile per tutta la notte, da dopo il tramonto fino all’alba, e raggiungerà l’opposizione il 27 del mese. All’opposizione gli anelli saranno più luminosi del solito, in quanto l’ombra delle particelle che costituiscono gli anelli stessi è ridotta al minimo. Assolutamente da osservare al telescopio!

Non mancano anche questo mese gli incontri tra i pianeti visibili e la Luna. Il 3 di agosto il nostro satellite sarà vicino a Saturno. I due astri saranno visibili per tutta la notte a partire dalle dieci e mezza circa. L’8 del mese la Luna all’ultimo quarto si troverà in cielo poco distante da Giove ed entrambi daranno spettacolo per tutta la seconda parte della nottata. Per chi è mattiniero sarà un bellissimo spettacolo, all’alba, con i due astri ben alti nel cielo guardando verso sud. Non contenta, la Luna sarà nuovamente vicina a Saturno il giorno 30.

Per chi ama fare le ore piccole si segnala che la mattina del 9 agosto la Luna si troverà vicino alle Pleiadi e a Giove. Il nostro satellite mostrerà una bella falce, con a fianco Giove luminoso e l’ammasso di stelle dal sapore tipicamente invernale.

Guarda la videoguida al cielo del mese di agosto, a cura di Fabrizio Villa:

youtube.com/embed/n1fYCw23OrA?…


Con Webb là dove nascono le stelle


8510448
Il telescopio spaziale James Webb di Nasa, Esa e Csa ha immortalato le intemperanze di una coppia di giovani stelle in formazione, nota come Herbig-Haro 46/47, in un’immagine ad alta risoluzione nel vicino infrarosso. Si tratta del ritratto più nitido mai realizzato di queste stelle, che si trovano ad appena 1470 anni luce da noi, in direzione della costellazione delle Vele.

8510450
La coppia di stelle in formazione Herbig-Haro 46/47 immortalata da Webb. La legenda riportata in basso mostra quali filtri dello strumento NirCam sono stati utilizzati per produrre l’immagine e quale colore della luce visibile è assegnato a ciascun filtro. Da sinistra a destra: F115W è blu; F187N è azzurro; F200W è verde; F335M è giallo; F444W è arancione; F470N è rosso. Crediti: Nasa, Esa, Csa, J. DePasquale (Stsci)

La coppia di giovani stelle si trova all’interno della macchia bianco-arancione al centro dell’immagine, proprio là dove si intersecano i picchi di diffrazione rossi e rosa. Sono immerse a fondo in un disco di gas e polvere che alimenta la loro crescita man mano che continuano ad acquisire massa. Il disco non è visibile, ma lo è la sua ombra, proiettata sulle due regioni scure e a forma di cono che circondano le stelle al centro.

La coppia di stelle in formazione ha emesso getti in due direzioni per migliaia di anni. Sebbene Herbig-Haro 46/47 sia stata studiata fin dagli anni Cinquanta da molti telescopi, sia da terra che nello spazio, Webb è il primo a catturarla ad alta risoluzione nella banda del vicino infrarosso. Grazie a Webb, possiamo oggi comprendere meglio l’attività – passata e presente – delle due stelle e penetrare con lo sguardo all’interno della polverosa nube blu che le avvolge, e che nelle immagini a luce visibile appare completamente nera.


A spasso per la Luna con la serie di Fibonacci


8492822
8492824
Crediti: Esa

Per effetto della forza di gravità, nell’universo che conosciamo stelle, pianeti e altri oggetti orbitanti privilegiano, ove possibile, la simmetria sferica. Ma siccome la perfezione è un lusso che può concedersi solo la matematica, la sfericità dei corpi celesti è più che altro un’indicazione di massima. La Terra, ad esempio, è un geoide (o un ellissoide di rotazione un po’ schiacciato ai poli), mentre la Luna, sebbene apparentemente meno irregolare della Terra, somiglia più a un limone.

Conoscere con buona precisione la forma della Terra è fondamentale per alcune questioni pratiche, come la navigazione satellitare. I sistemi Gps, per funzionare, considerano l’ellissoide di rotazione che più si avvicina all’effettiva forma del geoide. Nel caso della Luna, invece, finora la sua forma era stata approssimata a quella di una sfera. In vista delle prossime missioni lunari però, Kamilla Cziráki, una studentessa di geofisica dell’università Loránd Eötvös (Elte) di Budapest, ha deciso insieme al suo supervisore, Gábor Timár, di provare a definire l’ellissoide di rotazione che meglio si adatta alla superficie del nostro satellite, in modo da poter riadattare più facilmente i metodi di navigazione già implementati sulla Terra. Per farlo, occorre definire almeno due numeri: il semiasse maggiore e il semiasse minore. I risultati sono stati pubblicati il mese scorso su Acta Geodaetica et Geophysica.

Cominciamo elencando un po’ di caratteristiche della Luna. Rispetto al suo raggio medio di 1737 chilometri, rispetto all’equatore i poli sono più vicini al centro di massa di circa mezzo chilometro. Inoltre, essa ruota più lentamente rispetto alla Terra, con un periodo di rotazione pari al suo periodo di rivoluzione intorno al nostro pianeta. Questo che rende la sua superficie più sferica. Per campionare in maniera precisa la superficie lunare, gli autori sono partiti dai parametri del selenoide lunare definito nella missione Grail, che ha messo in piedi un database che fornisce le altezze della superficie lunare su punti equispaziati, e dal quale diversi studi hanno cercato di calcolare il semiasse maggiore e minore che si adattano meglio a un ellissoide di rotazione lunare. Accanto a questi dati, per definire l’ellissoide lunare era necessario stabilire un campionamento adeguato della superficie per punti: secondo i calcoli degli autori, il numero di punti necessari (e sufficienti) a campionare in modo ottimale la superficie è circa 10mila. E per disporli in modo uniforme, gli autori hanno deciso di usare il cosiddetto reticolo di Fibonacci.

Si tratta di un reticolo che sfrutta la serie di Fibonacci per disporre in modo uniforme un numero dispari di punti sulla superficie di una sfera. Il reticolo di Fibonacci prende il nome dalla sequenza di Fibonacci, scoperta nell’antica India e riscoperta più tardi, nel Medioevo, da Leonardo Pisano, conosciuto appunto con il soprannome di Fibonacci. Funziona così: ogni termine della sequenza, dal terzo in poi, è la somma dei due precedenti: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, e così via. A partire da questa serie, si definiscono la spirale di Fibonacci e la sezione aurea. Per costruire un reticolo di Fibonacci, si disegna l’omonima spirale sulla superficie di una sfera partendo da un polo. La sua particolarità, rispetto ad altri reticoli a spirale, è che il passo longitudinale tra punti consecutivi lungo la spirale (come ben illustra questa immagine su Scientific Reports, 11, 2021) è l’angolo aureo o il suo complementare.

Una volta sistemati i punti sulla sfera e attribuita la loro altezza relativa, gli autori hanno ottenuto una vera e propria tabella di campionamento della superficie lunare, dalla quale hanno ricostruito la forma dell’ellissoide di rotazione più adatto. Hanno trovato che quello che rappresenta in modo ottimale la Luna ha un asse maggiore di 1.737.576,6 m e un asse minore di 1.737.046,8 m. Questi parametri differiscono di 176,6 e 353,2 m dalla sfera di rotazione che veniva utilizzata in precedenza. Il metodo è stato applicato anche alla Terra come verifica, ricostruendo una buona approssimazione dell’ellissoide WGS84 utilizzato dal Gps.

Un risultato tanto elegante quanto incoraggiante, dunque. Non resta che attendere i prossimi sistemi di navigazione lunare per vedere se può essere considerato anche efficace.

Per saperne di più:


Ghiaccio d’acqua ossigenata ai poli di Ganimede


8474374
8474376
Mappe dell’assorbimento della banda a 3,5 μm dell’H2O2 negli emisferi anteriore e posteriore (rispetto al moto orbitale) di Ganimede. Fonte: S. Trumbo et al., Science Advances, 2023

Se mai un giorno riusciremo a colonizzare Ganimede, una sostanza che non avremo necessità di portarci dalla Terra è l’acqua ossigenata. Una serie di osservazioni compiute nell’agosto del 2022 con lo spettrografo infrarosso NirSpec del telescopio spaziale James Webb ha infatti mostrato la presenza di perossido d’idrogeno – questo il nome scientifico della popolare molecola sbiancante, formata da due atomi di idrogeno e due di ossigeno – nelle regioni polari della grande luna di Giove.

Come mai proprio ai poli? Il motivo – spiegano gli autori dello studio pubblicato la settimana scorsa su Science Advances, guidato da Samantha Trumbo della Cornell University (Usa) – è che le latitudini più elevate della luna ghiacciata sono anche quelle più sottoposte alla radiazione del plasma magnetosferico gioviano. Ed è proprio questa radiazione, attraverso un processo noto come radiolisi, a trasformare il ghiaccio d’acqua presente ai poli di Ganimede in composti fra i quali, appunto, il perossido d’idrogeno.

«È una scoperta abbastanza sorprendente, ma non completamente inaspettata», dice a Media Inaf uno dei coautori dello studio, Alessandro Mura dell’Istituto nazionale di astrofisica. «Infatti, la presenza di perossido d’idrogeno era stata già rilevata nel 2019 sulla superficie di Europa per mezzo di spettri infrarossi restituiti dal telescopio Keck II. Ora Jwst ha evidenziato la sua presenza anche su Ganimede nelle regioni ad elevata latitudine in prossimità dei poli. Essendo un composto esogeno derivante dalla radiolisi del ghiaccio d’acqua, e dunque dall’incessante precipitazione di particelle cariche, il perossido di idrogeno è indicativo di quanto la superficie sia stata sottoposta a un elevato grado di alterazione (space weathering) che nel tempo modifica la composizione chimica originaria. Le regioni polari di Ganimede presentano questo composto perché sono soggette a una maggiore precipitazione di ioni rispetto alla regione equatoriale che invece è schermata, almeno in parte, dal campo magnetico intrinseco del satellite».

8474378
Alessandro Mura (sx) e Federico Tosi (dx), entrambi ricercatori all’Inaf Iaps di Roma e coautori dello studio sulla rilevazione di perossido d’idrogeno su Ganimede pubblicato su Science Advances. Credit: Inaf

La scoperta è di notevole interesse, perché aiuta a comprendere come i campi magnetici di Giove e di Ganimede – unica luna del Sistema solare con un campo magnetico proprio, per quanto ne sappiamo – potrebbero interagire e influenzare i processi di irradiazione del ghiaccio d’acqua sulla superficie della luna stessa. E potrebbe avere ricadute importanti anche per la ricerca della vita.

«La precipitazione di plasma», osserva a questo proposito un altro dei coautori dello studio, Federico Tosi dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è un processo che rende meno probabile il mantenimento di eventuali biofirme: di conseguenza, avere una mappatura del perossido d’idrogeno sulle lune ghiacciate ci permette di capire quali siano le regioni meno indiziate di essere “abitabili”, cioè di potere sostenere eventuali forme di vita primordiali».

«I dati spettroscopici di Jwst», aggiunge Tosi, «presentano un’alta risoluzione spettrale abbinata a un elevato rapporto segnale/rumore, impossibile da ottenere da telescopi terrestri o anche da strumenti a bordo di missioni spaziali che pure hanno la possibilità di osservazioni ravvicinate: questo è un fattore chiave per evidenziare firme spettrali molto deboli come quella del perossido di idrogeno e di altri potenziali composti».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science Advances l’articolo “Hydrogen peroxide at the poles of Ganymede”, di Samantha K. Trumbo, Michael E. Brown, Dominique Bockelée-Morvan, Imke de Pater, Thierry Fouchet, Michael H. Wong, Stéphanie Cazaux, Leigh N. Fletcher, Katherine de Kleer, Emmanuel Lellouch, Alessandro Mura, Olivier Poch, Eric Quirico, Pablo Rodriguez-Ovalle, Mark R. Showalter, Matthew S. Tiscareno e Federico Tosi