L’acqua degli asteroidi aridi
La composizione dei pianeti del Sistema solare cambia in funzione della distanza dal Sole: i pianeti più interni come Mercurio, Venere, Terra e Marte sono di piccole dimensioni, ad alta densità, con atmosfere rarefatte e sono poveri d’acqua. Al contrario Giove, Saturno, Urano e Nettuno sono pianeti di grandi dimensioni, a bassa densità, ricchi di gas e materiale volatile con satelliti ricchissimi d’acqua, basta pensare a Europa ed Encelado. Un andamento analogo vale anche per gli asteroidi, la cui composizione cambia in funzione della distanza di formazione dal Sole: i corpi che si sono formati più vicini al Sole sono fatti per lo più di silicati, mentre quelli più distanti dal Sole hanno anche una componente di materiali volatili come l’acqua. Ad esempio, il maggiore asteroide di tipo C, Hygiea, ha un diametro dell’ordine di 430 km è composto di un materiale simile a quello delle meteoriti del tipo condrite carbonacea e sulla superficie sono stati rilevati composti alterati dalla presenza di acqua. Anche sull’asteroide carbonaceo Themis (diametro di circa 200 km), nel 2009 è stata rilevata la presenza di ghiaccio d’acqua in superficie. La distribuzione dell’acqua sugli asteroidi è di particolare interesse perché può far luce su come l’acqua sia stata portata sulla Terra, con implicazioni importanti anche per i pianeti che si trovano nella fascia di abitabilità di altre stelle. In effetti, in base al diverso rapporto deuterio/idrogeno dell’acqua delle comete rispetto a quella degli oceani terrestri, si pensa che l’acqua sia stata portata sul nostro pianeta per lo più in seguito alle collisioni con asteroidi primordiali di tipo C avvenute quasi cinque miliardi di anni fa.
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Lo Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy (Sofia) della Nasa utilizzato per le detection dell’acqua sugli asteroidi di tipo S. Crediti: Nasa/Carla Thomas/SwRI
Chiaramente gli asteroidi che hanno portato l’acqua sulla Terra sono andati distrutti al momento della “consegna”, ma è possibile andare alla ricerca dei loro “cugini” che sono riusciti a sopravvivere, come è stato fatto per Hygiea e Themis. Durante l’evoluzione del Sistema solare, questi asteroidi hanno subito alterazioni acquose, formando fillosilicati, solfati, ossidi, carbonati, idrossidi e i composti possono essere identificati mediante la spettroscopia nel visibile e nel vicino infrarosso nel range 0,4–4,0 μm. Un metodo ampiamente utilizzato per determinare l’eventuale idratazione degli asteroidi è attraverso il rilevamento di una caratteristica banda di assorbimento nell’infrarosso alla lunghezza d’onda di 3 μm.
Questa banda è dovuta all’assorbimento della radiazione solare da parte dello stato vibrazionale fondamentale del legame O–H e può essere causata da qualsiasi molecola che abbia O e H, come l’acqua (H2O) o l’idrossile (OH). Tuttavia ci sono altre molecole che hanno bande di assorbimento in questa regione, come lo ione ammonio, il metano e composti organici complessi, rendendo complicata l’identificazione della molecola che crea la banda. Sono stati scoperti centinaia di asteroidi che hanno questo assorbimento e per lo più si tratta di corpi carbonacei di tipo C: sono asteroidi primitivi che si sono formati lontano dal Sole, quindi che abbiano la banda di assorbimento a 3 μm, che potrebbe essere dovuta all’acqua, non sorprende.
Più recentemente però è stata riscontrato l’assorbimento a 3 μm anche nel caso degli asteroidi di tipo S, quelli propriamente rocciosi da cui si originano le meteoriti del tipo condrite ordinaria che, essendosi formati più vicino al Sole, dovrebbero essere molto poveri d’acqua. Si tratta degli asteroidi Iris, Melpomene e Massalia, ma come risolvere l’ambiguità nella specie molecolare? In realtà basta spostarsi di qualche micron verso lunghezze d’onda maggiori e si arriva a una banda a 6 μm, dovuta al livello energetico vibrazionale del legame H-O-H. A questa lunghezza d’onda non ci sono interferenze con altre molecole e la sua presenza indicherebbe sicuramente l’esistenza di acqua alla superficie dell’asteroide. Alla temperatura degli asteroidi main belt la banda a 6 μm è in emissione e non in assorbimento.
Le osservazioni infrarosse sugli asteroidi di tipo S alla ricerca della emissione a 6 μm sono state fatte da un team di ricercatori guidato da Anicia Arredondo (Southwest Research Institute), fra gennaio e maggio 2022, utilizzando la Faint Object infraRed CAmera di Sofia, lo Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy. Si tratta di un telescopio del diametro di 2,5 metri che vola su un Boeing 747 – oppurtunamente modificato – a 12 km di quota, così da trovarsi al di sopra dello strato di vapore acqueo della troposfera e poter osservare il cielo nell’infrarosso nel range da 1 a 210 μm. Per gli asteroidi di tipo S le osservazioni sono state fatte fra 4,9 e 13,7 μm e per mettere in evidenza l’emissione a 6 μm è stato necessario mettere a punto un modello della luce solare riflessa dalla superficie dell’asteroide per toglierne il contributo. In questo modo sono usciti dei forti picchi di emissione per Iris e Massalia, mentre per Melpomene lo spettro è troppo rumoroso per poter dire qualcosa. Le abbondanze d’acqua stimate per i due asteroidi di tipo S sono di 454 ± 202 μg/g per Iris e 448 ± 209 μg/g per Melpomene, valori simili a quelli trovati da Sofia in uno dei più grandi crateri dell’emisfero meridionale della Luna.
Quindi l’acqua c’è, ma non bisogna immaginarsi l’esistenza di pozze d’acqua libere: sugli asteroidi l’acqua può essere legata ai minerali di superficie così come adsorbita dai silicati oppure intrappolata o disciolta nei vetri da impatto. Per ricavare un grammo di acqua su Iris sarebbe necessario trattare 2,2 kg di materiale quindi, per ottenerne un litro, supponendo di avere un rendimento del processo di estrazione del 100 per cento, bisognerebbe scavarne più di 2 tonnellate. In ogni caso si tratta della prima detection senza ambiguità della presenza di acqua anche negli asteroidi di tipo S. Adesso saranno necessarie osservazioni mirate con il telescopio spaziale infrarosso Webb per confermare i risultati e allargare la statistica su altri asteroidi “aridi”.
Per saperne di più:
- Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “Detection of molecular HO on nominally anhydrous asteroids”, Anicia Arredondo et al.
Guarda l’intervista a Davide Perna (Inaf) andata in onda il 13/2/2024 su Tgr Leonardo:
Onu: costellazioni satellitari e astronomia in agenda
Dopo intense discussioni, la Commissione delle Nazioni Unite sull’uso pacifico dello spazio extra-atmosferico (Copuos) ha deciso di inserire nella sua agenda provvisoria per i prossimi cinque anni un punto dal titolo “Dark and Quiet Skies, astronomy and large constellations: addressing emerging issues and challenges”. In qualità di massimo organo delle Nazioni Unite per le questioni spaziali, con delegati provenienti da oltre 102 Paesi, il Copuos si occupa di tutti i temi legati alla cooperazione internazionale e all’esplorazione dello spazio e dei corpi planetari, tra cui il dispiegamento di satelliti, la mitigazione dei detriti spaziali, la sostenibilità a lungo termine dello spazio e l’uso degli slot orbitali.
Un arcobaleno cosmico sopra il Very Large Telescope. Crediti: Eso/P. Horálek
La proposta, sostenuta da Cile e Spagna – entrambi paesi che ospitano importanti infrastrutture astronomiche internazionali – e dalla comunità astronomica, ha ricevuto un ampio sostegno ed è stata co-firmata da numerose delegazioni [fra le quali l’Italia, ndr]. L’Unione astronomica internazionale (Iau), l’Osservatorio europeo australe (Eso), la Società astronomica europea (Eas) e lo Square Kilometre Array Observatory (Skao), tutti osservatori permanenti della Commissione, hanno incoraggiato e sostenuto gli sforzi.
«Questo è un momento diplomatico importante per l’astronomia», ha dichiarato Richard Green, direttore ad interim del Cps (Centre for the Protection of the Dark and Quiet Sky from Satellite Constellation Interference) dell’Unione astronomica internazionale. «Dal lancio della prima costellazione nel 2019, abbiamo lavorato duramente per sensibilizzare tutte le parti interessate, e a tutti i livelli, su questo tema. È molto gratificante vedere che le Nazioni Unite ne riconoscono l’importanza e accettano di esaminare le questioni e le sfide poste dalle grandi costellazioni».
La bozza dell’agenda provvisoria sarà sottoposta all’approvazione dell’intera Commissione a giugno. Avendovi dedicato un punto all’ordine del giorno, ci sarà più tempo per discussioni approfondite tra le delegazioni, con l’obiettivo finale di sviluppare e concordare le raccomandazioni da far adottare agli Stati membri.
Questo recente successo riflette l’aumentato riconoscimento dell’importanza di preservare cieli bui e silenziosi sia per la ricerca astronomica che per il patrimonio culturale dell’umanità. Il sostegno a queste iniziative è cresciuto costantemente in seno al Copuos negli ultimi due anni. Lo scorso ottobre, in occasione di una riunione di esperti dell’Iau sulle costellazioni satellitari, le delegazioni di Spagna e Cile hanno lanciato un Group of Friends del cielo buio e silenzioso per la scienza e la società, al quale il Cps fornisce la segreteria tecnica. Il gruppo comprende già 16 delegazioni e 6 osservatori permanenti ed è stato riconosciuto come un forum prezioso in cui discutere la questione fino alla prossima sessione della Commissione.
L’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna, in Austria, ospita l’Unoosa (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico) e le riunioni della Commissione del Copuos. Crediti: Iau Cps/M. Isidro (Skao)
«Il Cile attribuisce grande importanza alla protezione degli investimenti pubblici internazionali in infrastrutture astronomiche, molte delle quali ospitate in Cile», ha spiegato Mila Francisco, diplomatica cilena e rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. «È stato molto prezioso confrontarsi con gli astronomi per capire le loro preoccupazioni e discuterne con le altre delegazioni in uno spirito di compromesso per concordare una strada da seguire».
Dopo quattro anni di lavoro approfondito da parte degli astronomi per quantificare e comunicare l’impatto delle costellazioni satellitari sulle strutture astronomiche esistenti e future, negli ultimi mesi è cresciuto il numero di diplomatici e politici che riconoscono il problema e prendono provvedimenti. Nel maggio 2023 i ministri della Scienza e della Tecnologia del G7 hanno sottolineato l’importanza di continuare a discutere di questo problema nei forum internazionali. Nel dicembre 2023 le delegazioni dei 193 paesi rappresentati all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu) – l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione – hanno concordato di studiare nuove potenziali protezioni dai satelliti per la radioastronomia nei prossimi quattro anni.
«Sono trascorsi più di dieci anni dall’ultima volta in cui c’è stato, all’Itu, un punto all’ordine del giorno dedicato alla radioastronomia, e questo dimostra il profilo significativo e l’attenzione che l’astronomia ha raccolto presso gli organismi internazionali come le Nazioni Unite», ha detto Federico di Vruno, co-direttore del Cps con sede allo Skao
Mentre proseguono gli sforzi in forum internazionali come l’Onu e l’Itu, anche i singoli paesi stanno iniziando ad attuare una legislazione per proteggere meglio l’astronomia. Negli Stati Uniti, la Federal Communications Commission ha iniziato a richiedere agli operatori satellitari di collaborare con la National Science Foundation per mitigare il loro impatto. Allo stesso tempo, l’industria continua a impegnarsi in modo proattivo con la comunità astronomica, sviluppando e testando nuove misure di mitigazione che gli astronomi poi valutano. Una dozzina di operatori satellitari si stanno già impegnando regolarmente nell’ambito del Cps della Iau.
Il Cps della Iau è impaziente di sostenere il lavoro del Group of Friends nello sviluppo di posizioni per il Copuos e continuerà a impegnarsi con tutte le parti interessate per sviluppare misure pratiche di mitigazione e proporre, ove necessario, una regolamentazione che sostenga lo sviluppo tecnologico e salvaguardi la scienza dell’astronomia.
Fonte: press release Iau
In cerca di una terra come la Terra
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Altre Terre. Viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari, Giovanni Covone. HarperCollins Italia, 2023, pp. 336, 9,90 euro
Una scrivania affollata di articoli, l’ansia per l’ultima materia ancora da superare – “l’incomprensibile chimica” – e la sua passione per le leggi fondamentali della cosmologia. Inizia così l’itinerario interstellare raccontato da Giovanni Covone, professore di astrofisica e cosmologia all’Università Federico II di Napoli, nel suo primo libro Altre Terre. Viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari, edito da HarperCollins Italia e selezionato come finalista all’edizione 2024 del Premio Asimov – riconoscimento che premia le opere di divulgazione e saggistica scientifica in lingua italiana.
L’autore “nello studio del professore” scoprirà il suo destino nella ricerca e lo intreccerà con quello dei più grandi studiosi del passato – da Epicuro a Galilei – che per primi hanno tentato di osservare il cielo oltre le stelle. Un volume scorrevole, puntuale, esilarante. L’autore sceglie di raccontare la storia della ricerca esoplanetaria attraverso le sconfitte, gli errori, le delusioni non soltanto sue, ma anche dei grandi scienziati del passato che siamo soliti conoscere e apprezzare solo attraverso le loro vittorie. Anche se, come dirà lo stesso Covone, “Il momento-èureka non è parte della giornata tipo di un ricercatore”.
Nella storia dell’umanità abbiamo sempre desiderato scoprire altri mondi oltre al nostro, ma ancora non siamo in grado di dire se la vita sulla Terra sia un irripetibile scherzo del caso o se invece si tratta di qualcosa di consueto ed essenziale per l’evoluzione dell’universo. Fra non molti anni potrebbe essere una domanda alla portata nostra abilità tecnologiche, e il perché è presto spiegato dall’autore: un osservatore alieno affascinato dal sistema planetario del nostro Sole, utilizzando la nostra attuale tecnologia, cosa vedrebbe? Sicuramente non riuscirebbe a individuare la Terra al primo colpo, troppo piccola e troppo vicino alla sua stella. Dovrebbe star lì a studiare le perturbazioni del pianetino roccioso in orbita attorno al Sole. Questa è una delle tecniche di rilevazione esoplanetaria – ma non l’unica – oggi impiegata dai ricercatori per individuare pianeti fuori dal nostro sistema Solare.
La ricerca esoplanetaria si è evoluta rapidamente negli ultimi trent’anni, tant’è che oggi siamo abituati a sentir parlare di “pluralismo dei mondi”, i media sono sempre molto interessati alle notizie che riguardano questo tema. Nuove missioni spaziali, dedicate esclusivamente alla scoperta di nuovi pianeti e addirittura all’analisi della loro atmosfera, partiranno nei prossimi anni e molte altre sono già all’opera. Ma, come sottolinea spesso Covone, non è sempre stato così. A causa del pregiudizio, fino al 1995, anno in cui i Premi Nobel Michel Mayor e Didier Queloz rivelarono la presenza del primo esopianeta, gli scienziati che provavano a lavorare sull’osservazione di nuovi mondi erano considerati degli “svalvolati”, dei folli ai margini della ricerca astronomica. L’autore ci racconta gli alti e bassi di questa nuova scienza partendo dalle teorie proposte da Democrito, oltre un secolo prima di Epicuro, riprese poi dai filosofi atomisti che furono messi a tacere da Aristotele e dalla sua teoria cosmologica che poneva la Terra al centro dell’universo. Finché non arrivò Copernico a rimettere tutto al suo posto, o quasi.
La storia della ricerca degli esopianeti raccontata da Covone si rivela, dunque, ricca di molti ingredienti inattesi. Non solo luce, massa, atmosfere, osservazioni e transiti fortuiti, ma anche di errori di valutazione, piste che si rivelano sbagliate e, soprattutto, persone. Perché, come ricorda più volte l’autore, il mondo scientifico è fatto da essere umani, uomini e donne appassionati, che lo animano con i loro sogni, il loro talento e il loro coraggio. Storie che spingono il lettore a credere nelle proprie passioni.
Ultimo appunto, ma non meno importante, il libro è arricchito da disegni fatti a mano dall’autore che “somigliano a quelli che si fanno sulla lavagna quando si spiega“, come chiarisce lui stesso nell’introduzione. Il lettore osserverà orbite, pianeti e stelle dalle forme semplificate, variazioni della velocità, numeri e persino la rappresentazione di un piccolo astronomo che osserva il moto di una stella dalla Terra.
L’esperienza e i risultati finora prodotti ci fanno anche comprendere che trovare una terra come la Terra non solo è difficile, ma è anche molto raro. Dunque, saremo mai in grado di dire da dove veniamo e quale ruolo abbiamo nell’ordine delle cose? Ai posteri l’ardua sentenza.
Emissione radio da mondi binari
media.inaf.it/wp-content/uploa…Le stelle non disdegnano la vita di coppia, anzi. Alcuni studi suggeriscono che addirittura la maggior parte di loro – in particolare, le stelle di massa maggiore – trascorra la propria esistenza in sistemi binari. Questo gli astronomi lo sanno da tempo. Ma soltanto da qualche mese si ha il sospetto che anche i pianeti, una volta liberi dal vincolo gravitazionale che li teneva legati a una stella, tendano a cercarsi un compagno. A proporlo è uno studio dell’ottobre scorso, al momento disponibile solo come preprint, condotto da Samuel Pearson e Mark McCaughrean dell’Esa osservando con il telescopio spaziale James Webb la nebulosa di Orione, e in particolare l’ammasso del Trapezio, a circa 1400 anni luce da noi. È lì che i due scienziati dell’Esa hanno individuato una quarantina di possibili sistemi binari formati da coppie di pianeti di massa paragonabile a quella di Giove: Jumbo, li hanno chiamati, dall’inglese Jupiter Mass Binary Objects.
A seguito della scoperta, un team di astronomi dell’Universidad Nacional Autónoma del Messico, guidato da Luis Rodríguez, ha deciso di approfondire il risultato osservando nuovamente le quaranta coppie di mondi, questa volta però da terra. Hanno dunque orientato verso Jumbo le 27 antenne del Vla, il Very Large Array, e con una certa sorpresa hanno rilevato una controparte radio – nella banda da 6 a 10 GHz – da una coppia di pianeti soltanto: la numero 24, o meglio Jumbo 24.
Il nuovo studio, pubblicato il mese scorso su The Astrophysical Journal Letters, mette in discussione le teorie attuali sulla formazione di stelle e pianeti. La luminosità radio dei due pianeti del sistema binario Jumbo 24 è significativamente più alta di quella rilevata dalle nane brune. Un’anomalia che potrebbe aiutare a comprendere meglio la natura di questi pianeti privi di stella, si augurano gli autori dello studio.
«Ciò che è davvero incredibile», sottolinea Rodriguez, «è che questi oggetti potrebbero avere lune simili a Europa o Encelado, entrambe dotate di oceani sotterranei di acqua liquida potenzialmente in grado di sostenere la vita».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “A Radio Counterpart to a Jupiter-Mass Binary Object in Orion”, di Luis F. Rodriguez, Laurent Loinard e Luis A. Zapata
Pronti, via: Euclid inizia la survey scientifica
Il telescopio spaziale Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha ufficialmente iniziato la sua survey il 14 febbraio 2024. Attualmente si prevede che il telescopio osservi un’area di 130 gradi quadrati – oltre 500 volte l’area della Luna piena nel cielo – nel corso dei prossimi 14 giorni. La porzione di cielo in questione si trova in direzione delle costellazioni del Bulino e del Pittore, nell’emisfero sud.
La porzione di cielo osservata dal satellite Euclid (in grigio/blu, in alto a sinistra e in basso a destra). Le diverse tonalità di grigio/blu raffigurano l’area del cielo coperta durante la survey di sei anni. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium – CC BY-SA 3.0 IGO
Nel corso del prossimo anno, Euclid coprirà circa il 15 per cento della sua survey. Questo primo anno di dati cosmologici sarà reso pubblico nell’estate del 2026, mentre una data release più piccola, con le osservazioni di campo profondo, è prevista per la primavera del 2025.
Euclid, uno dei telescopi spaziali più precisi e stabili mai costruiti, è stato lanciato il primo luglio 2023. Durante i primi mesi nello spazio, team di tutta Europa hanno avviato, testato e preparato la missione per le osservazioni scientifiche di routine, e non si è trattato di un gioco da ragazzi.
50mila galassie in un colpo solo
Uno dei punti di forza di Euclid è la capacità di osservare una vasta area del cielo in un colpo solo. Questo è fondamentale per una missione il cui obiettivo primario è mappare più di un terzo del cielo in sei anni. La modalità di osservazione adottata da Euclid è la cosiddetta step-and-stare: osserverà una zona del cielo per circa 70 minuti, producendo immagini e spettri, e poi impiegherà quattro minuti per spostarsi alla zona successiva. Durante l’intera missione, Euclid eseguirà più di 40mila di questi puntamenti.
Illustrazione di Euclid mentre scruta il cielo. Crediti: Esa – CC BY-SA 3.0 IGO
«Grazie al suo sguardo ampio sul cosmo, al lungo tempo di esposizione e alla sensibilità, il numero di galassie che Euclid può vedere con un solo puntamento è enorme», spiega Roberto Scaramella, Euclid survey scientist presso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che, fin dall’inizio della missione, è a capo del gruppo che si occupa della survey all’interno del consorzio.
Scaramella ha dovuto sincerarsi che la survey fosse progettata in modo tale da soddisfare gli obiettivi scientifici. Uno degli obiettivi principali di Euclid è misurare in modo più dettagliato che mai la forma di miliardi di galassie nel corso di miliardi di anni di storia cosmica, per fornire una visione 3D della distribuzione di materia oscura nell’universo. «Per studiare le distorsioni individuali causate dalla materia oscura sulle galassie, dobbiamo osservare almeno un miliardo e mezzo di galassie. Euclid osserverà la forma di circa 50mila galassie con la precisione necessaria in un colpo solo, e individuerà molte altre galassie più deboli», aggiunge.
Tuttavia, subito dopo aver acceso gli strumenti di Euclid per la prima volta, il team si è reso conto che l’intera survey doveva essere riprogettata.
Cambio di assetto
Il problema era dovuto a una piccola quantità di luce solare indesiderata che raggiungeva lo strumento visibile di Euclid (Vis) ad angoli specifici, anche se lo schermo parasole della navicella (posto sulla parte posteriore) era rivolto verso il Sole.
Il lato posteriore di Euclid, con lo schermo parasole e i pannelli solari. Crediti: Esa. – CC BY-SA 3.0 IGO
«Il piano originale prevedeva che Euclid mantenesse il suo schermo parasole rivolto verso il Sole. Ma subito dopo il lancio, nelle immagini di prova è stata rilevata una luce disturbante proveniente dal Sole», spiega Ismael Tereno dell’Università di Lisbona, Portogallo, e capo del team di supporto alle operazioni della survey di Euclid, gestito con il supporto dell’Agenzia spaziale portoghese.
«Dopo un intenso periodo per identificare e risolvere i problemi, i team scientifici, ingegneristici e industriali hanno scoperto che, per far scomparire questa luce indesiderata, Euclid avrebbe dovuto osservare con un assetto diverso rispetto al Sole. Ciò significava che il progetto originale della survey non avrebbe più funzionato. Abbiamo dovuto elaborare rapidamente una nuova strategia, implementarla e testarla», aggiunge João Dinis, anch’egli dell’Università di Lisbona, che insieme a Tereno è stato responsabile della (ri)progettazione della survey.
Per ridurre al minimo l’effetto della luce solare “diffusa”, i team hanno scoperto che Euclid deve osservare con un angolo di rotazione più ristretto, in modo tale che il parasole non sia rivolto direttamente verso il Sole, con un’inclinazione piccola ma efficace in una direzione. Con questo nuovo assetto, alcune parti del cielo non potevano essere raggiunte da nessun punto dell’orbita di Euclid attorno al punto lagrangiano L2. «È stato molto difficile trovare una buona soluzione per la survey e siamo dovuti ripartire da zero», nota Tereno.
Un enorme puzzle
È stato l’inizio di una fase molto intensa per Dinis, Tereno e i team scientifici e operativi della survey. «João ha capito subito cosa doveva essere cambiato e ha lavorato giorno e notte per proporre una riprogettazione praticabile», afferma Tereno.
La posizione nel cielo dei campi nel cielo che saranno coperti dalla survey ampia (blu) e da quella profonda (giallo) di Euclid. Credit: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa/Planck Collaboration/A. Mellinger – CC BY-SA 3.0 IGO
Progettare la survey di Euclid è stato un puzzle gigantesco. Oltre agli obiettivi scientifici e all’angolazione da cui osservare, ci sono molti altri fattori da considerare. La maggior parte delle osservazioni della missione sarà dedicata alla survey “ampia”, che coprirà più di un terzo del cielo; questa viene completata da una survey approfondita, che prende circa il dieci per cento del tempo totale di osservazione. Inoltre, è stato necessario programmare anche le osservazioni di calibrazione di routine per far quadrare il tutto.
Xavier Dupac, scienziato dell’Esa per il Science Operation Center presso il centro Esac in Spagna, si è assicurato che la survey progettata da Dinis, Tereno e il loro team potesse essere eseguita. «Bisogna tenere conto, per esempio, del tempo impiegato dalla sonda per ruotare da una posizione di osservazione a quella successiva. Questi tempi vanno inclusi nel progetto della survey, oltre al tempo di osservazione effettivo», spiega Dupac.
Alla fine, i team hanno trovato una soluzione praticabile, in cui era necessario effettuare più sovrapposizioni tra osservazioni adiacenti. La survey di Euclid adesso è leggermente meno efficiente, ma è possibile raggiungere tutte le aree necessarie del cielo e la perdita complessiva nell’area della survey è ridotta al minimo.
«I team si sono impegnati molto per riprogettare la survey in un breve lasso di tempo, questo è un risultato importante», afferma Valeria Pettorino, Euclid project scientist all’Esa. «E questa non è la fine della storia. Man mano che la missione avanza e i risultati scientifici inizieranno ad arrivare, i team continueranno a ottimizzare la survey e saranno pronti ad adattarla se necessario».
Un filo di perle di migliaia di anni luce
Una collana di perle srotolata nello spazio per migliaia di anni luce. Così dalla Nasa hanno definito la struttura che abbraccia la galassia Am 1054-325 in questa immagine immortalata dal Telescopio Spaziale Hubble. Ogni preziosissima perla è costituita da un ammasso stellare, ovvero un gruppo di stelle appena nate dalla stessa nebulosa.
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La galassia Am 1054-325 in interazione con una galassia compagna, immortalata dal telescopio Hubble. A causa dell’interazione, milioni di nuove stelle stanno nascendo in una struttura che somiglia a una collana di perle e che si estende per migliaia di anni luce. Crediti: Nasa, Eesa, StScI, Jayanne English (University of Manitoba)
L’immagine fa parte di una compilation di dodici galassie, studiate da Michael Rodruck del Randolph-Macon College di Ashland, in Virginia, e da alcuni collaboratori in un lavoro apparso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Le dodici protagoniste dello studio hanno in comune il fatto che stanno interagendo con delle galassie situate nei paraggi. Gli astronomi hanno contato ben 425 “perle” nelle dodici sorgenti osservate. E non sarebbe un caso. Quando due galassie interagiscono la forza di gravità ne rimodella la forma generando lunghissime code mareali e comprimendo le nubi di gas sparpagliate al loro interno. Dal collasso di queste nubi si generano dunque nuovi astri, «stelle che altrimenti non sarebbero mai esistite», afferma Rodruck. Si stima che ogni perla contenga un milione di stelle novelle, la cui età sarebbe di “appena” dieci milioni di anni.
Riguardo al destino di queste regioni si profilano diversi scenari. Gli ammassi stellari potrebbero rimanere gravitazionalmente legati ed evolversi in ammassi globulari, analoghi a quelli che si osservano fuori dal disco della Via Lattea. Un’altra possibilità è che col tempo le stelle si disperdano, andando a contribuire all’alone stellare di Am 1054-325. Infine, non si esclude che le stelle sfuggano all’attrazione gravitazionale della galassia e si ritrovino a girovagare nel cosmo come stelle intergalattiche, vere e proprie vagabonde degli spazi interstellari, in quanto prive di una galassia ospitante.
A destare interesse non sono però solo gli scenari futuri. Nei primi miliardi di anni di vita dell’universo le collisioni fra le galassie erano piuttosto frequenti. È dunque plausibile che numerose galassie “indossassero” collane di perle come quella che adorna Am 1054-325. Lo studio dei processi di formazione stellare in queste strutture può dunque esserci di aiuto per comprendere ciò che accadde miliardi di anni fa.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Star clusters in tidal debris” di M. Rodruck, J. Charlton, S. Borthakur, A. Chitre, P. R. Durrell, D. Elmegreen, J. English, S. C. Gallagher, C. Gronwall, K. Knierman, I. Konstantopoulos, Y. Li, M. Maji, B. Mullan, G. Trancho, W. Vacca
Agile ha concluso la sua missione
Il satellite Agile con parte del suo team scientifico
Dopo 17 anni di attività, il satellite scientifico dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) Agile(Astrorivelatore gamma a immagini leggero) è rientrato in atmosfera ponendo così fine alla sua intensa attività di cacciatore di sorgenti cosmiche tra le più energetiche dell’universo che emettono raggi gamma e raggi X. Agile ha rappresentato un programma spaziale unico e di enorme successo nel panorama delle attività spaziali italiane.
Agile è stato realizzato dall’Asi con il supporto dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), di università e dell’industria italiana, con Ohb Italia, Thales alenia space, Rheinmetall e Telespazio. In oltre 87.200 orbite intorno alla Terra, Agile ha monitorato il cielo alle alte energie osservando una grande varietà di sorgenti di raggi gamma galattiche ed extra galattiche, evidenziandone i cambiamenti molto rapidi, frequenti episodi di emissione X e gamma provenienti da stelle di neutroni, resti di esplosioni di supernove e buchi neri.
Le osservazioni acquisite dal satellite sono state ricevute a terra dalla stazione del Centro spaziale Luigi Broglio dell’Asi a Malindi, in Kenya. I dati sono stati poi ritrasmessi al Centro di controllo di Telespazio, per poi arrivare all’Asi Space Science Data Center (Ssdc) di Roma, responsabile di tutte le operazioni scientifiche: dalla gestione, analisi e archiviazione fino alla distribuzione dei dati e dei relativi cataloghi accessibili alla comunità internazionale.
La produzione scientifica di Agile è costituita da più di 800 riferimenti bibliografici, di cui più di 160 articoli con referaggio e 12 cataloghi di missione pubblicati fino a gennaio 2024. Tra le principali scoperte scientifiche di Agile ricordiamo la prima individuazione delle sorgenti di raggi cosmici galattici in resti di supernove, l’evidenza di accelerazione di particelle estremamente rapida dalla Nebulosa del Granchio con al centro una pulsar rapidamente ruotante (Premio Bruno Rossi 2012), e l’individuazione di emissione gamma in corrispondenza dell’emissione di getti relativistici dal sistema binario con buco nero galattico Cygnus X-3. Agile inoltre ha fornito una mappatura dell’intera Galassia molto dettagliata e studiato centinaia di sorgenti galattiche ed extra-galattiche.
Nel corso della sua vita operativa, Agile ha anche rivelato migliaia di eventi transienti di origine cosmica come Gamma Ray Bursts (Grb), eventi associati a neutrini e a Fast radio burst (Frb), brillamenti solari, nonché eventi di origine terrestre come i Terrestrial gamma-ray flashes (Tgf). Agile ha contribuito con un ruolo di primo piano alla ricerca delle possibili controparti di sorgenti di onde gravitazionali (Gw). Le osservazioni di follow-up di Agile hanno infatti fornito la risposta più rapida e i limiti superiori più significativi sopra i 100 MeV su tutti gli eventi Gw rilevati dalla collaborazione Ligo-Virgo-Kagra fino ad oggi.
«Agile può considerarsi una missione “da record” non solo per la durata di quasi 17 anni in orbita, ma anche per gli importanti risultati scientifici ottenuti», commenta Teodoro Valente presidente dell’Asi. «Si tratta di una missione scientifica tutta italiana, realizzata dalla nostra industria (satellite e payload), operata dalla Base di Malindi e dal Centro di controllo del Fucino e gestita dallo Space science data center di Asi per le attività di analisi e archiviazione dei dati. A tutto ciò si aggiunge l’ottimo lavoro di interpretazione dei dati svolto dalla comunità scientifica nazionale, che è riuscita a sfruttare al meglio le potenzialità di questa straordinaria “macchina” messa a disposizione dall’Asi».
«Agile ci ha regalato moltissime sorprese e scoperte scientifiche di primo piano, frutto dell’ingegno e dell’enorme lavoro di tutti quelli che lo hanno visto prima crescere e poi lanciato in orbita», dice Marco Tavani presidente dell’Inaf. «Un programma di prim’ordine sia per l’astrofisica che per la tecnologia, che ha visto Asi, istituzioni scientifiche e industria lavorare insieme in modo straordinario. Con il rientro in atmosfera di Agile si chiude la fase operativa in orbita ma se ne apre un’altra di intenso lavoro sull’archivio dei tanti dati accumulati che può riservare ancora sorprese. Chi ha avuto la fortuna di “dialogare” con Agile nel corso degli anni, lo ha considerato come una sorta di “amico” spaziale, sempre pronto, sempre all’erta, sempre capace di scandagliare l’universo. Si può voler bene a un satellite ? Forse sì. Grazie Agile. Grazie a tutti gli Agilisti che lo avranno nel cuore».
«Agile è stata davvero una missione di successo, un piccolo satellite che ha fatto una grande scienza», commenta Antonio Zoccoli, presidente dell’Infn. «Siamo orgogliosi di aver contribuito al cuore di questo successo con il tracciatore al silicio-tungsteno del Gamma Ray Imaging Detector, il cuore, appunto, del principale rivelatore di Agile, che ha fatto anche da apripista all’impiego “dei silici” nello spazio per l’astrofisica gamma delle alte energie, adottata poi anche dal Large Area Telescope della missione Fermi della Nasa. Inoltre, aver lavorato congiuntamente all’analisi dei dati di Agile ha anche dimostrato quanto la collaborazione tra la fisica delle particelle e l’astrofisica delle alte energie sia produttiva e porti a grandi risultati», conclude Zoccoli.
Per saperne di più:
Due facce dello stesso Sole
In questa pagina potete vedere due immagini del Sole riprese dallo strumento Extreme Ultraviolet Imager di Solar Orbiter. In particolare, è evidente il grande cambiamento avvenuto tra febbraio 2021 e ottobre 2023. Avvicinandosi al massimo del suo ciclo di attività magnetica, la nostra stella manifesta un comportamento irrequieto: brillanti esplosioni, macchie solari, anelli di plasma e vortici di gas super-caldo.
Il Sole ripreso da Solar Orbiter a febbraio 2021 e ottobre 2023 (cliccare per usare lo slider interattivo). Crediti: Esa & Nasa/Solar Orbiter/Eui Team
Sappiamo che il Sole attraversa un ciclo di attività che dura circa 11 anni, causato dalla dinamo solare, il processo fisico che genera il campo magnetico solare. All’inizio di questo ciclo (il minimo solare) l’attività è relativamente scarsa e le macchie solari sono poche. L’attività aumenta costantemente fino a raggiungere il picco (il massimo solare) e poi diminuisce nuovamente fino a raggiungere il minimo.
Il minimo solare più recente si è verificato nel dicembre 2019, appena due mesi prima del lancio di Solar Orbiter. Le prime immagini della sonda mostrano che nel febbraio 2021 (a sinistra, nell’immagine) il Sole era ancora relativamente tranquillo. Ora ci stiamo avvicinando al massimo solare, che si prevede avverrà nel 2025. Immagini più recenti di Solar Orbiter, scattate durante un avvicinamento al Sole nell’ottobre 2023 (a destra, nell’immagine), mostrano un sorprendente aumento dell’attività solare. Questa evidenza sembra supportare recenti teorie secondo le quali il massimo potrebbe arrivare fino a un anno prima del previsto.
Solar Orbiter ci aiuta a prevedere i tempi e la forza dei cicli solari. Anche se non è facile, è fondamentale perché l’attività solare può influenzare seriamente la vita sulla Terra: i brillamenti e le eruzioni coronali di massa possono danneggiare le reti elettriche terrestri e mettere fuori uso i satelliti in orbita.
M’illumino di… candele
Anche quest’anno, in occasione di “M’illumino di meno”, la Specola di Padova spegne le luci. All’imbrunire di venerdì 16 febbraio, tutte le stanze all’interno della storica torre padovana appariranno come le vivevano gli astronomi che un tempo non disponevano di energia elettrica. Purtroppo, a causa dell’inquinamento luminoso, che in Italia come nel resto del mondo sta inesorabilmente peggiorando e rende ormai impossibile la vista delle stelle dagli ambienti urbani, il cielo stellato non sarà lo stesso che poteva apprezzare Galileo nel 17esimo secolo. Ma la magia, nella sede dell’Inaf di Padova, si assaporerà all’interno. Tutti gli ambienti della torre e del museo, tutti gli strumenti utilizzati dagli astronomi dei secoli scorsi e gli affreschi, saranno infatti illuminati solamente dalla luce delle candele. A partire dalle 18 sarà possibile visitarli, dotati di piccole luci artificiali allo scopo di muoversi in sicurezza.
Vista sulla Torre della Specola di Padova, sede dell’Inaf, che in occasione di “M’illumino di meno” si spegnerà, illuminando le sue stanze solamente con delle candele. Crediti: R. Cerisola/Inaf
«Si sa che una divulgazione scientifica efficace passa anche per le emozioni, emozioni che le persone possano provare direttamente, sperimentare su sé stesse», dice a Media Inaf Caterina Boccato, responsabile nazionale della didattica e divulgazione all’Istituto nazionale di astrofisica. «E una visita a lume di candela, di un osservatorio che poggia su una torre millenaria, è effettivamente un’esperienza emozionante che le persone ricordano facilmente. Anche il racconto di come è sorto l’osservatorio nel 1767, e di come lavoravano gli astronomi di ieri, rimarrà impresso nella memoria dei visitatori».
“M’illumino di meno”, nata da un’idea della trasmissione di Rai Radio 2 Caterpillar ormai vent’anni fa per promuovere nel grande pubblico una sensibilità nei confronti del risparmio energetico, è diventata con voto unanime del Parlamento la Giornata nazionale del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili. Un’iniziativa che invita cittadini, aziende e istituzioni a unirsi in un gesto comune e semplice, quello di spegnere le luci non necessarie riflettendo sull’utilizzo consapevole e responsabile dell’energia. E non è questa l’unica attività verso la sostenibilità energetica intrapresa dall’Inaf. Nell’ultimo anno è nato un gruppo interno di riorganizzazione ecologica ed energetica dell’ente che, con l’aiuto e l’impegno di referenti in ogni sede sul territorio italiano, ha lo scopo di intraprendere azioni concrete per rendere la vita dell’ente più sostenibile nel quotidiano.
«L’Inaf – Osservatorio astronomico di Padova aderisce ogni anno con entusiasmo all’iniziativa “M’illumino di meno” fin dal 2008», dice a Media Inaf Bianca Poggianti, prima direttrice donna dell’Inaf di Padova, che ha assunto l’incarico a inizio anno. «L’inquinamento luminoso, cioè l’aumento dei livelli di luce all’aria aperta causato dagli esseri umani rispetto ai livelli naturali, è un problema molto sentito da chi fa ricerca astronomica. Per noi questa iniziativa ha una doppia valenza: quella di sensibilizzare noi stessi e gli altri nei confronti del risparmio energetico e la sostenibilità dei nostri stili di vita, ma anche riguardo all’importanza di preservare il cielo notturno, sia per la ricerca astronomica che per il benessere umano e dell’ecosistema intero. Inoltre, l’inquinamento luminoso compromette la bellezza naturale e l’esperienza della natura; quindi, indebolisce la nostra connessione ad essa, impoverendo le nostre vite. E poi, la Specola senza luci artificiali è ancora più suggestiva, quando è illuminata come lo era quando fu costruita. Per questo abbiamo previsto delle visite speciali a lume di candela dalle 18 in poi del 16 febbraio. Ci sono ancora pochi posti disponibili, venite ad ammirarla».
Se volete partecipare a una delle quattro visite guidate organizzate, dovrete prenotare il biglietto in anticipo sul sito del museo della Specola di Padova. Il costo è di 10 euro per i singoli, 20 per le famiglie. Prima delle visite guidate, alle 17, ci sarà anche la presentazione del libro Oltre i bastioni della Via Lattea. Dalle nebulose alle galassie lontane, di Valeria Zanini e Roberto Rampazzo, entrambi astronomi all’Inaf di Padova. In questo caso l’ingresso è libero fino a esaurimento posti. L’ultimo turno di visita, alle 20, sarà invece su invito e vedrà, per la prima volta, la presenza del sindaco di Padova Sergio Giordani.
La migrazione all’origine della “valle dei raggi”
Rappresentazione artistica di un esopianeta il cui ghiaccio d’acqua in superficie, durante il suo avvicinamento alla stella del sistema planetario, si vaporizza sempre più e forma un’atmosfera. Questo processo aumenta il raggio planetario misurato rispetto al valore che il pianeta avrebbe nel suo luogo di origine. Crediti: Thomas Müller (Mpia)
Normalmente, i pianeti dei sistemi planetari evoluti (come il nostro) seguono orbite stabili intorno alla loro stella. Tuttavia, molti indizi suggeriscono che durante la prima fase della loro evoluzione, alcuni pianeti potrebbero allontanarsi dai loro luoghi di nascita, migrando verso l’interno o verso l’esterno. Tale migrazione potrebbe spiegare un’evidenza osservativa che sta lasciando perplessi gli astronomi da diversi anni: il numero relativamente basso di esopianeti con dimensioni circa doppie rispetto alla Terra. Questo gap nella distribuzione dei raggi degli esopianeti è noto come valle dei raggi.
«Sei anni fa, una rianalisi dei dati del telescopio spaziale Kepler ha rivelato una carenza di esopianeti con dimensioni intorno a due raggi terrestri», ricorda Remo Burn, ricercatore del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) di Heidelberg e primo autore di un articolo pubblicato su Nature Astronomy. «In realtà, noi – come altri gruppi di ricerca – avevamo previsto, sulla base dei nostri calcoli, anche prima di questa osservazione, che un tale divario dovesse esistere», spiega il coautore Christoph Mordasini, membro del National Centre of Competence in Research (Nccr) PlanetS e direttore della Divisione di Ricerca Spaziale e Scienze Planetarie dell’Università di Berna.
Il meccanismo comunemente suggerito per spiegare l’esistenza della valle dei raggi è che i pianeti potrebbero perdere una parte della loro atmosfera originaria a causa dell’irradiazione della stella centrale, in particolare i gas volatili come l’idrogeno e l’elio. «Tuttavia, questa spiegazione trascura l’influenza della migrazione planetaria», dice Burn. Da circa 40 anni si ritiene che nel corso del tempo, in determinate condizioni, i pianeti possono spostarsi verso l’interno e verso l’esterno dei rispettivi sistemi planetari. E tale migrazione sembra avere un impatto non trascurabile sulla formazione della valle dei raggi.
Alle estremità di questo gap di raggi, si trovano due diversi tipi di esopianeti. Da un lato, ci sono i pianeti rocciosi, che possono essere più massicci della Terra e sono quindi chiamati super-Terre. Dall’altro lato, gli astronomi stanno scoprendo sempre più spesso i cosiddetti sub-nettuniani, che sono in media leggermente più grandi delle super-Terre. Poiché questa classe di esopianeti non è presente nel Sistema solare, gli astronomi non sono sicuri della loro struttura e composizione, anche se concordano sul fatto che questi pianeti possiedano atmosfere molto più estese rispetto ai pianeti rocciosi.
«Sulla base delle simulazioni che abbiamo già pubblicato nel 2020, gli ultimi risultati indicano e confermano che l’evoluzione dei sub-nettuniani dopo la loro nascita contribuisce in modo significativo alla valle dei raggi osservata», conclude Julia Venturini dell’Università di Ginevra, che ha guidato lo studio del 2020.
Nelle fredde regioni in cui si sono formati, dove i pianeti ricevono poca radiazione dalla stella, i subnettuniani dovrebbero avere dimensioni che di fatto non si riscontrano nella distribuzione osservata. La ragione potrebbe essere ricercata nella migrazione planetaria. Quando questi pianeti presumibilmente ghiacciati si spostano più vicino alla stella, il ghiaccio si scongela formando una spessa atmosfera di vapore acqueo. Questo processo si traduce in un aumento delle dimensioni dei pianeti, perché con le osservazioni non siamo in grado di distinguere se le dimensioni sono dovute alla sola parte solida del pianeta o a un’ulteriore atmosfera densa. Nello stesso tempo, i pianeti rocciosi si “restringono” perdendo la loro atmosfera. Nel complesso, entrambi i meccanismi – migrazione dei sub-nettuniani e perdita dell’atmosfera dei pianeti rocciosi – generano una mancanza di pianeti con dimensioni intorno ai due raggi terrestri.
Distribuzione delle dimensioni degli esopianeti osservati e simulati con raggi inferiori a cinque raggi terrestri. Il numero di esopianeti diminuisce tra 1,6 e 2,2, dando luogo a una pronunciata valle nella distribuzione. Sono invece presenti più pianeti con dimensioni intorno a 1,4 e 2,4 raggi terrestri. Le ultime simulazioni, che per la prima volta tengono conto delle proprietà realistiche dell’acqua, indicano che i pianeti ghiacciati che migrano verso l’interno dei sistemi planetari formano spesse atmosfere di vapore acqueo. Ciò li fa apparire più grandi di quanto sarebbero nel loro luogo di origine. Questi producono il picco a circa 2,4 raggi terrestri. Allo stesso tempo, i pianeti rocciosi più piccoli perdono parte del loro involucro gassoso originario nel corso del tempo, causando una riduzione del loro raggio misurato e contribuendo così all’accumulo intorno a 1,4 raggi terrestri. Crediti: R. Burn, Ch. Mordasini / Mpia
I risultati riportati nell’articolo appena pubblicato sono stati ottenuti partendo da calcoli effettuati con modelli fisici che tracciano la formazione dei pianeti e la loro successiva evoluzione, considerando anche i processi nei dischi di gas e polvere che circondano le giovani stelle e che danno origine a nuovi pianeti. Questi modelli includono l’emergere di atmosfere, la miscelazione di gas diversi e la migrazione radiale.
«Il punto centrale di questo studio riguarda le proprietà dell’acqua alle pressioni e alle temperature che si verificano all’interno dei pianeti e delle loro atmosfere», spiega Burn. Capire come si comporta l’acqua in un’ampia varietà di pressioni e temperature è fondamentale per le simulazioni. Solo negli ultimi anni queste conoscenze hanno raggiunto una qualità sufficiente. È questa componente che ha permesso di calcolare in modo realistico il comportamento dei sub-nettuniani, spiegando così l’evidenza di atmosfere estese nelle regioni più calde.
«Se dovessimo estendere i nostri risultati alle regioni più fredde, dove l’acqua è liquida, questo potrebbe suggerire l’esistenza di mondi acquatici con oceani profondi», afferma Mordasini. «Tali pianeti potrebbero potenzialmente ospitare la vita e, grazie alle loro dimensioni, sarebbero obiettivi relativamente semplici per la ricerca di biomarcatori».
Sebbene la distribuzione dimensionale simulata corrisponda molto bene a quella osservata e la valle dei raggi sia al posto giusto, i dettagli presentano ancora alcune incongruenze. Ad esempio, nei calcoli troppi pianeti ghiacciati finiscono troppo vicino alla stella centrale. Ciononostante, i ricercatori sono positivi e si augurano, anche grazie alle simulazioni, di vederci più chiaro sulla migrazione planetaria. Inoltre, le osservazioni con telescopi come il James Webb Space Telescope (Jwst) o l’Extremely Large Telescope (Elt) in fase di costruzione potrebbero essere d’aiuto, poiché sarebbero in grado di determinare la composizione dei pianeti in base alle loro dimensioni, fornendo così un test per le simulazioni qui descritte.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A radius valley between migrated steam worlds and evaporated rocky cores” di Remo Burn, Christoph Mordasini, Lokesh Mishra, Jonas Haldemann, Julia Venturini, Alexandre Emsenhuber e Thomas Henning
Il più giovane sistema multi-planetario compatto
TOI-5398 b è un gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo F. Impiega 10,6 giorni per completare un’orbita della sua stella e la sua scoperta è stata annunciata nel 2022. Crediti: Nasa
Toi-5398, una sigla che potrebbe non dirci molto eppure nasconde un record: si tratta del più giovane sistema multi-planetario “compatto”, in cui vi è la compresenza di un piccolo pianeta vicino alla stella assieme a un compagno planetario gigante con periodo orbitale di circa dieci giorni. Questo sistema è solamente il sesto con tale caratteristica compresenza tra i più di 500 sistemi che ospitano pianeti giganti a corto periodo. I dati relativi a questa conferma sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics da un gruppo guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica e dall’Università di Padova. Secondo gli autori dell’articolo, questo sistema è praticamente unico nel suo genere, potenzialmente una “pietra miliare” per lo studio e la comprensione dei pianeti giganti a corto periodo.
Le misurazioni sono state ottenute con lo spettrografo Harps-N al Telescopio nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf, alle Canarie, nell’ambito della collaborazione nazionale Gaps (Global Architecture of Planetary Systems). In questo studio, è stato inoltre fondamentale l’utilizzo di dati spaziali del Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa, e del coordinamento di numerosi ricercatori ed osservatori astronomici sparsi in tutto il mondo.
Il Telescopio nazionale Galileo (Tng) di Inaf, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell’isola di San Miguel de La Palma. Il Tng è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan
Toi-5398 è di gran lunga il più giovane tra i cosiddetti sistemi “compatti”: 650 milioni di anni contro i 3-10 miliardi di anni degli altri sistemi. Un infante, si potrebbe dire. Inoltre, il pianeta maggiore nel sistema risulta il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica tramite il telescopio spaziale James Webb della Nasa tra tutti i giganti caldi conosciuti. Per “giganti caldi” (in inglese, warm giants) si intende pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale, da non confondere con gli “hot giants”, che possiedono periodi orbitali sotto i 10 giorni”. Toi-5398 è costituito da un “sub-Nettuno” caldo (Toi-5398 c) orbitante internamente rispetto al suo compagno di massa simile a Saturno a corto periodo orbitale (Toi-5398 b).
«Il nostro studio supporta una delle teorie di formazione dei pianeti giganti a corto periodo», spiega Valerio Nascimbeni, ricercatore all’Inaf di Padova, «la quale vede questi ultimi formarsi nelle regioni esterne del sistema e farsi spazio (in un sistema multi-planetario) tramite migrazioni “tranquille”, che prevengono la sovrapposizione delle orbite planetarie e la conseguente distruzione del sistema. Tale teoria risale al 1996, frutto di uno studio teorico guidato da Douglas Lin della University of California, Santa Cruz, ma è da pochissimi anni che abbiamo un riscontro osservativo di simili sistemi (solo 5 su più di 500 sistemi con pianeti giganti a corto periodo mostra tale configurazione/architettura orbitale)».
Gli altri cinque sistemi planetari con queste caratteristiche, ossia un’origine non violenta e la compresenza di piccoli pianeti assieme al pianeta gigante a corto periodo, sono Wasp-47, Kepler-730, Wasp-132, Toi-1130 e Toi-2000, ovvero pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (in inglese, warm Jupiters), da non confondere con gli hot Jupiters, i quali possiedono periodi orbitali inferiori a 10 giorni.
Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato Inaf. Crediti: G. Mantovan
Toi-5398, come detto, è solo il sesto sistema in questa ristrettissima cerchia e mostra una caratteristica molto particolare, perché rispetto agli altri è giovanissimo. «La sua formazione, infatti, anziché datare, come gli altri, fra i 3 e 10 miliardi di anni, viene misurata in circa 650 milioni di anni», aggiunge Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova, nonché associato Inaf. «Questo è l’aspetto eccezionale, perché tale sistema non si trova in una situazione congelata e definitiva come gli altri, ma è appunto giovane e quindi in evoluzione. Può offrire quindi nuove risposte rispetto all’evoluzione dei pianeti e della loro atmosfera».
«Comprendere il processo di formazione e sviluppo dei pianeti giganti a corto periodo», prosegue il ricercatore, «è di estrema importanza anche per la comprensione del Sistema solare, in quanto non esiste un corrispettivo planetario del nostro vicinato planetario. Per comprendere questa mancanza nel nostro sistema e le sue possibili implicazioni – ad esempio sulla presenza della vita – è fondamentale esaminare la storia di formazione di tali pianeti nei sistemi planetari in cui essi sono presenti».
Mantovan analizza gli sviluppi futuri di questa ricerca. «Toi-5398 è un interessante sistema in ottica futura, in quanto entrambi i pianeti del sistema sono candidati ideali per svolgere caratterizzazioni atmosferiche precise, e anche grazie alla loro giovane età. L’unione di queste due proprietà e alla presenza di due pianeti con differenti caratteristiche (raggio, massa, eccetera), offre la rara opportunità di poter studiare i segni distintivi di differenti storie di formazione planetaria sotto l’influenza della stessa stella, solitamente inaccessibili in sistemi planetari più evoluti e vecchi».
«Toi-5398 potrebbe quindi potenzialmente diventare una pietra miliare per comprendere la formazione di sistemi planetari dove sono presenti giganti a breve periodo orbitale», conclude Mantovan, «e potrebbe diventare un punto di riferimento anche all’interno del limitatissimo sottocampione di sistemi ove sono presenti anche piccoli compagni planetari tra il gigante a corto periodo e la stella».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The GAPS programme at TNG XLIX. TOI-5398, the youngest compact multi-planet system composed of an inner sub-Neptune and an outer warm Saturn”, di G. Mantovan, L. Malavolta, S. Desidera, et al.
Con Laniakea la tensione di Hubble sale
Il Superammasso Laniakea. Crediti: Andrew Z. Colvin
Uno dei più grandi misteri della cosmologia moderna è la cosiddetta tensione di Hubble, che deriva dalla nostra apparente incapacità di determinare con precisione e in modo univoco la velocità di espansione cosmica. Esistono diversi modi per calcolare tale velocità, dall’osservazione delle supernove lontane alla misurazione delle anisotropie della radiazione cosmica di fondo a microonde. Sarebbe ovviamente auspicabile ottenere lo stesso risultato, con i diversi metodi, ma purtroppo non è così: le varie misure danno risultati leggermente diversi. Forse non comprendiamo appieno la struttura dell’universo, o forse la nostra visione del cielo è distorta, ad esempio dal fatto che ci troviamo in un superammasso di galassie, conosciuto come Laniakea. Uno studio appena pubblicato su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, provando a far luce sull’effettiva influenza di Laniakea, conclude che in realtà il problema potrebbe essere ancora più grave. Il primo autore dello studio in questione è Leonardo Giani dell’Università del Queensland, in Australia, che abbiamo raggiunto per farci raccontare i dettagli di questa interessante ricerca.
Giani, che cos’è il superammasso di Laniakea?
«Laniakea è quella che tecnicamente viene definita large-scale structure o struttura cosmica di grande scala. Il nome ha origine hawaiana, e può essere tradotto con “paradiso immenso”. Dato che questa struttura contiene la Via Lattea, è spesso chiamata “la nostra casa nel cosmo” o “la nostra casa superammasso”. La densità media di materia oscura in questa regione è circa l’un per cento maggiore che nel resto dell’universo, e di conseguenza contiene un grande numero di galassie intrappolate dal suo campo gravitazionale (circa 100mila). Per avere un’idea della dimensione, occupa lo stesso volume di una sfera di raggio tra i 100 e i 150 megaparsec (Mpc, ovvero centinaia di milioni di anni luce). Il numero esatto dipende dal valore della costante di Hubble, il cui valore preciso è uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna».
Come si fa per identificarla? A riconoscerne i confini?
«Per identificarla, un team di scienziati nell’ambito del progetto “Cosmic Flows” ha misurato migliaia di velocità peculiari di galassie, e costruito una mappa della loro distribuzione nell’universo locale. Il nome velocità peculiari deriva dal fatto che queste sono le velocità ottenute dopo aver sottratto quelle dovute all’espansione dell’universo. A titolo di esempio, se vedessimo un individuo correre in una barca che si allontana da noi, la sua velocità peculiare sarebbe la velocità a cui corre nella barca, non la velocità totale della barca sommata a quella della sua corsa. In poche parole, queste velocità possono essere negative, ovvero l’individuo potrebbe correre verso di noi, anche se la barca si allontana. Collezionando queste velocità è possibile distinguere regioni dell’universo dove la gravità trattiene le galassie, in gergo tecnico gravitational basins. Laniakea è appunto il gravitational basin che contiene la Via Lattea».
Nato a Ragusa, Leonardo Giani ha studiato fisica all’Università di Bologna dove nel 2016 ha ottenuto la laurea magistrale in Fisica Teorica. Successivamente, ha conseguito un dottorato in Astrofisica e Cosmologia a Vitoria, in Brasile. Attualmente è Postdoctoral fellow all’Università del Queensland, a Brisbane (Australia), dove studia la natura dell’energia e della materia oscura. Crediti: L. Giani
In che modo Laniakea può influenzare la velocità di espansione dell’universo?
«Per misurare la velocità di espansione dell’universo utilizziamo delle sorgenti di luce di cui conosciamo la luminosità intrinseca, in gergo candele standard, per esempio le supernove di tipo Ia. Per via dell’espansione dell’universo, queste candele si allontanano da noi e la loro luce subisce un effetto doppler che rende il loro colore apparente più rosso. L’idea alla base del nostro lavoro è che il tasso di espansione dell’universo dentro Laniakea è leggermente differente da quello all’esterno a causa della differente distribuzione di materia oscura. In relatività generale la curvatura dello spaziotempo (che causa l’espansione dell’universo) dipende dalla quantità di materia ed energia al suo interno, ed è dunque naturale che un superammasso delle dimensioni di Laniakea possa influenzarla (localmente). Non tenendo conto di questo differente tasso di espansione all’interno di Laniakea, il tasso di espansione misurato con una supernova al suo esterno diventa una media pesata dei due. Il nostro lavoro fornisce una prescrizione per calcolare opportunamente questa media pesata».
E cosa avete scoperto?
«La forma di Laniakea è estremamente complicata, e dunque in principio non è facile ottenere “correzioni” per le luminosità di tutte le candele standard. Nel nostro studio suggeriamo che in prima approssimazione Laniakea possa essere descritta come un ellissoide omogeneo (da cui il termine effective model) il cui tasso di espansione lungo due assi principali è leggermente più piccolo di quello del resto dell’universo, e leggermente più grande nel terzo. Nonostante la semplicità, l’approssimazione descrive notevolmente bene la distribuzione statistica delle velocità all’interno di Laniakea. Data la semplicità del modello ellissoidale, è facile calcolare per ogni sorgente (per esempio ogni supernova) la correzione per le loro luminosità, che sarà differente a seconda della direzione del cielo in cui si trovano (per esempio positiva lungo l’asse che espande più velocemente che il resto dell’universo). Quando applicate al più importante catalogo di supernove utilizzate per la misura del tasso di espansione, troviamo che queste correzioni inducono una variazione della costante di Hubble dell’ordine di 0.5 km/s/Mpc. Applicate a un altro catalogo di candele standard, in gergo Sbf (acronimo di surface brightness fluctuations), la correzione della costante di Hubble è di 1.1 km/s/Mpc».
Vi aspettavate questo risultato?
«Personalmente no. La nostra motivazione principale dietro l’analisi è la cosiddetta tensione di Hubble, uno dei più importanti enigmi della cosmologia moderna. In breve, le misure della costante di Hubble ottenute analizzando supernove (e altre sorgenti locali) e quelle ottenute tramite le fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo (e altre sorgenti dell’universo primordiale) discordano significativamente. Dato che le prime non sono distribuite omogeneamente nel cielo, la nostra speranza era che l’anisotropia (termine tecnico per identificare asimmetria spaziale) di Laniakea potesse essere responsabile, almeno in parte. In parole povere, se le supernove fossero distribuite per lo più nelle direzioni in cui Laniakea espande più velocemente del resto dell’universo, le correzioni indotte tenderebbero ad alleviare la tensione di Hubble. Tuttavia, la maggioranza di queste si trova in direzioni in cui Laniakea espande più lentamente, e il risultato ottenuto è esattamente l’opposto. Riassumendo, il nostro studio peggiora (leggermente) la tensione di Hubble».
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics l’articolo “An effective description of Laniakea: impact on cosmology and the local determination of the Hubble constant“, di Leonardo Giani, Cullan Howlett, Khaled Said, Tamara Davis e Sunny Vagnozzi
Trovata in Calabria una “micrometeorite proibita”
Ingrandimento al microscopio elettronico della micrometeorite recuperata sul Monte Gariglione. Crediti: G. Agrosì et al., Communications Earth & Environment, 2024
Una nuova e importante scoperta nell’ambito delle scienze planetarie è stata messa a segno da un gruppo di ricerca tutto italiano. Si tratta del rinvenimento di una meteorite estremamente rara, in quanto contiene rarissime leghe metalliche di alluminio e rame e che presenta al suo interno materiali con una simmetria proibita, i quasicristalli. La scoperta è descritta in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Communications Earth & Environment appartenente al gruppo editoriale di Nature-Portfolio.
La strana meteorite è stata studiata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Bari (Giovanna Agrosì, Daniela Mele, Gioacchino Tempesta e Floriana Rizzo del Dipartimento di scienze della terra e geoambientali), in collaborazione con l’Università di Firenze (Luca Bindi e Tiziano Catelani del Dipartimento di Scienze della Terra) e l’Agenzia spaziale italiana (Paola Manzari).
Il ritrovamento si è rivelato immediatamente eccezionale: si tratta del terzo caso al mondo di materiale extraterrestre contenente leghe metalliche di questo tipo e il secondo rinvenimento di una micrometeorite contenente un quasicristallo di origine naturale, dopo il ritrovamento della meteorite di Khatyrka, avvenuto nel 2011, grazie ad una costosissima e avventurosa spedizione internazionale che si era spinta fino ai confini dell’estremo Oriente russo, in Chukotka, luogo del ritrovamento della meteorite che le ha dato il nome.
La scoperta fatta rappresenta un tipico caso di citizen science; infatti, la micrometeorite, avente la forma di una piccola sferula, è stata trovata sul Monte Gariglione, in Calabria, da un collezionista che, notando una strana e inusuale lucentezza metallica, ha deciso di spedirla agli studiosi dell’Università di Bari per indagare sulla natura di questo oggetto apparentemente inspiegabile. Le analisi effettuate hanno prontamente messo in luce un’incredibile scoperta: la sferula era extraterrestre. La sua singolare lucentezza metallica, dovuta alla presenza di una lega metallica di rame e alluminio, conta rarissimi ritrovamenti precedenti. Gli studiosi sono rimasti impressionati nel constatare di avere tra le mani un elemento mai trovato in natura: un nuovo e rarissimo quasicristallo presente nella meteorite.
«I quasicristalli sono materiali in cui gli atomi sono disposti come in un mosaico, in modelli regolari ma che non si ripetono mai nello stesso modo, diversamente da quello che succede nei cristalli ordinari», racconta Luca Bindi, ordinario di mineralogia e direttore del Dipartimento di scienze della Terra dell’ateneo fiorentino. «Fu Dan Shechtman, poi premiato nel 2011 con un Nobel per le sue scoperte, a studiarne negli anni ’80 la struttura, che li rende preziosi anche per applicazioni in vari settori industriali. Quindici anni fa, fui proprio io a scoprire che tale materiale esisteva anche in natura, grazie all’individuazione del primo quasicristallo in un campione appartenente alla meteorite Khatyrka, conservato nel Museo di storia naturale dell’Università di Firenze».
La scoperta è decisamente eccezionale per il fatto che si tratta del secondo rinvenimento di una micrometeorite contenete quasicristalli, ma anche per il fatto che la piccola sferula è stata scoperta in Italia meridionale, a migliaia di chilometri dal primo ritrovamento, ed è stata studiata da un gruppo di ricerca interamente italiano con capofila l’Università di Bari.
«Lo sviluppo delle scienze planetarie in Italia meridionale è un punto su cui abbiamo sempre creduto e questa scoperta dimostra come il contributo degli studi geologico-mineralogici siano essenziali per il progresso delle conoscenze sul nostro Sistema solare», dice Giovanna Agrosì, docente di mineralogia dell’Università di Bari e coordinatrice dello studio.
«I risultati di questa ricerca», commenta Paola Manzari dell’Unità di coordinamento ricerca e alta formazione (Ucr) del Centro spaziale di Matera dell’Asi, «mostrano che esiste un universo ancora ignoto di fasi mineralogiche alla nanoscala nei materiali di origine extraterrestre, che riesce ancora a sorprenderci. La scoperta di questa lega anomala in una matrice condritica, insieme alla presenza dei quasicristalli, apre nuovi scenari sulle origini del materiale originario da cui si è staccato il frammentino e fornisce nuovi elementi per comprendere i meccanismi di formazione del Sistema solare».
La preziosissima micrometeorite è attualmente custodita nel Museo di scienze della terra dell’Università di Bari, luogo nel quale si è in procinto di allestire una sezione dedicata a campioni extraterrestri.
«La scoperta», conclude Giuseppe Mastronuzzi, direttore del Dipartimento di scienze della Terra e geoambientali dell’Università di Bari, «è importantissima non solo per le scienze mineralogiche e planetarie ma anche per la fisica e la chimica dello stato solido; essa dimostra ancora una volta che i quasicristalli possono formarsi spontaneamente in natura e, soprattutto, rimanere stabili per tempi geologici».
Per saperne di più:
- Leggi su Communications Earth & Environment l’articolo “A naturally occurring Al-Cu-Fe-Si quasicrystal in a micrometeorite from southern Italy”, di Giovanna Agrosì, Paola Manzari, Daniela Mele, Gioacchino Tempesta, Floriana Rizzo, Tiziano Catelani e Luca Bindi
Supernove termonucleari, fonti di polvere cosmica
Rappresentazione artistica di una supernova. Crediti: Nasa/Cxc/M.Weiss
L’universo è pieno di polvere. Polvere cosmica. Polvere che, se da una parte può sembrarci fastidiosa, oscurando la visuale dei telescopi ottici e traendo di tanto in tanto in inganno i cosmologi, dall’altra gioca un ruolo fondamentale in numerosi processi fisici – non ultimo la formazione dei mondi come quello nel quale viviamo. Proprio come la polvere che troviamo ovunque qui sulla Terra, la polvere cosmica è costituita da grumi di molecole che si sono condensate e unite a formare granelli. Ma da dove arriva, tutta questa polvere? Chi la produce? La sua origine ha rappresentato a lungo un mistero. Un mistero che ora – grazie a un’osservazione durata oltre mille giorni di Sn 2018evt, una supernova vista esplodere nell’agosto 2018 a oltre 300 milioni di anni luce da noi – inizia a dissiparsi.
A dire il vero, esistono fabbriche di polvere straordinarie conosciute da tempo: le supernove. Ma finora la polvere che generano era stata osservata solo per una famiglia particolare di supernove: quelle a collasso nucleare, prodotte appunto dal collasso del nucleo – e dalla conseguente esplosione – di stelle molto massicce, almeno nove volte la massa del Sole. Sono le cosiddette supernove di tipo II. Il problema è che le supernove di tipo II difficilmente avvengono nelle galassie ellittiche – enormi agglomerati di stelle d’aspetto sferoidale e senza strutture definite quali, per esempio, i bracci a spirale della nostra Via Lattea.
Da dove arriva, dunque, la polvere presente nelle galassie ellittiche? I dati raccolti dallo spazio e da terra – con satelliti come Spitzer e NeoWise della Nasa, con la rete globale di telescopi dell’Osservatorio di Las Cumbres e altri in Cina, Sud America e Australia – nei tre anni di osservazione di Sn 2018evt, pubblicati la settimana scorsa su Nature Astronomy da un team guidato da Lingzhi Wang dell’Accademia cinese delle scienze, offrono una risposta proprio a questa domanda: la polvere può essere prodotta anche dalle supernove di tipo Ia.
Sn 2018evt, infatti, non è una un supernova a collasso nucleare, bensì appartiene alla famiglia delle supernove termonucleari, quelle di tipo Ia, prodotte dall’esplosione di nane bianche in sistemi binari con stelle compagne, alle quali sottraggono man mano massa fino a raggiungere il cosiddetto limite di Chandrasekhar. E, diversamente dagli altri tipi di supernove, quelle di tipo Ia – studiatissime dagli astronomi perché possono essere usate come candele standard per stimare le distanze cosmiche – si trovano in qualunque tipo di galassia, ellittiche comprese.
A fornire la prova della formazione di polvere a seguito dell’esplosione di Sn 2018evt è stato il repentino diminuire della sua luminosità in banda ottica, oscurata appunto dalla polvere, accompagnato da un aumento della luminosità in banda infrarossa, dovuto al fatto che il gas circumstellare, dopo il passaggio dell’onda d’urto della supernova, stava tornando a raffreddarsi. «La polvere si forma quando il gas si raffredda al punto da condensare», spiega infatti uno dei coautori dello studio, Andy Howell, dell’Osservatorio di Las Cumbres e dell’Università della California a Santa Barbara.
«Le origini della polvere cosmica sono state a lungo un mistero. Il nostro studio», conclude Wang, primo autore dell’articolo pubblicato su Nature Astronomy, «rappresenta il primo rilevamento di un processo di formazione di polvere significativo e rapido in una supernova termonucleare che interagisce con il gas circumstellare».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Newly Formed Dust within the Circumstellar Environment of SNIa-CSM 2018evt”, di Lingzhi Wang, Maokai Hu, Lifan Wang, Yi Yang, Jiawen Yang, Haley Gomez, Sijie Chen, Lei Hu, Ting-Wan Chen, Jun Mo, Xiaofeng Wang, Dietrich Baade, Peter Hoeflich, J. Craig Wheeler, Giuliano Pignata, Jamison Burke, Daichi Hiramatsu, D. Andrew Howell, Curtis McCully, Craig Pellegrino, Lluís Galbany, Eric Y. Hsiao, David J. Sand, Jujia Zhang, Syed A Uddin, J. P. Anderson, Chris Ashall, Cheng Cheng, Mariusz Gromadzki, Cosimo Inserra, Han Lin, N. Morrell, Antonia Morales-Garoffolo, T. E. M üller-Bravo, Matt Nicholl, Estefania Padilla Gonzalez, M. M. Phillips, J. Pineda-García, Hanna Sai, Mathew Smith, M. Shahbandeh, Shubham Srivastav, M. D. Stritzinger, Sheng Yang, D. R. Young, Lixin Yu e Xinghan Zhang
Cieli bui, dove trovarli?
L’immagine che vedete qui sotto è una rappresentazione della cosiddetta scala di Bortle, e mostra come cambia la visione del cielo a seconda del grado di inquinamento luminoso del luogo in cui vi trovate. Se vivete in città o nella prima periferia, vi sarete probabilmente accorti di quanto sia diventato difficile vedere le stelle di sera, o nel corso della notte: il cielo sopra le vostre teste somiglierà molto a uno dei primi due riquadri da sinistra. Se siete un po’ più fortunati, vi troverete forse in una condizione più simile al terzo. Solo una piccola parte di voi potrà dire di avere la fortuna di vedere, sopra la propria casa, un cielo come quello del quarto riquadro o oltre. I dati indicano, infatti, che oggi l’inquinamento luminoso impedisce a un terzo degli abitanti a livello globale di vedere la Via Lattea, e fra questi quasi l’80 per cento dei nordamericani e il 60 per cento degli europei; e che meno dell’1 per cento dei residenti in Nord America e in Europa gode di cieli notturni incontaminati.
Questa immagine illustra la scala di Bortle, che misura l’impatto dell’inquinamento luminoso sul cielo buio in una determinata località. Mostra, da sinistra a destra, l’aumento del numero di stelle e di oggetti notturni visibili in condizioni di cielo più o meno inquinato da sorgenti artificiali. L’illustrazione è una modifica di una fotografia originale scattata all’Osservatorio del Paranal dell’Eso in Cile, un luogo con eccellenti condizioni di cielo buio, perfetto per l’astronomia. Crediti: Eso/P. Horálek, M. Wallner
Si tratta di un problema che riguarda l’intera società e che ha un impatto diretto su chi, con il cielo, ci lavora. Gli astronomi, ad esempio, che negli ultimi cinquant’anni sono passati da registrazioni a occhio nudo delle condizioni del cielo notturno – negli anni ’70 e ’80 – a veri e propri studi strumentali e sistematici del peggioramento dell’inquinamento luminoso nei siti di osservazione da terra. Il mese scorso, su The Astronomical Journal, è stato pubblicato uno studio condotto da astronomi che lavorano in osservatori cileni che valuta, con una copertura e una risoluzione senza precedenti, il grado di inquinamento luminoso in quattro siti della regione cilena di Coquimbo: il Parco Nazionale di Fray Jorge, una riserva stellare certificata; l’Osservatorio di Las Campanas, un osservatorio astronomico professionale in cima a una montagna nel deserto di Atacama; l’Osservatorio Astroturistico di Collowara, situato vicino a una città di 11mila abitanti; e La Serena, una città di 450mila abitanti. Il primo autore dello studio è Rodolfo Angeloni, astronomo classe 1979 originario di Amelia, una piccola cittadina umbra al confine con il Lazio e che, dopo il dottorato a Padova, ha seguito le stelle in Cile al Gemini Observatory.
«L’inquinamento luminoso sta avanzando molto più rapidamente (il 7-10 per cento all’anno) di quanto stessimo precedentemente immaginando», spiega a Media Inaf Angeloni. «Stanno aumentando rapidamente sia i livelli di intensità specifica che le aree illuminate. Un problema particolarmente insidioso poi è l’avanzata delle luci led, soprattutto di quelle bianco-azzurre che sono più inquinanti per vari motivi legati sia alla fisica di per sé (i.e., scattering) che all’impatto su svariati processi biologici, con pesanti influenze negative a livello ecologico e medioambientale, oltre che sociale, economico e culturale».
In particolare, nell’articolo si riporta che le misurazioni hanno confermato che il Parco nazionale Fray Jorge – già noto per essere uno dei luoghi più bui al mondo – rimane un sito di cielo buio eccezionale, con appena il 4 per cento della luminosità del cielo notturno proveniente da luci artificiali, e va pertanto preservato e protetto dall’inquinamento luminoso.
All’Osservatorio di Las Campanas, futura sede del Giant Magellan Telescope di 25 metri, invece, le luci artificiali hanno aggiunto circa un 11 per cento alla luminosità del cielo, con i maggiori contributi provenienti dalle città di La Serena e Vallenar, città che si trovano rispettivamente a 117 e 49 chilometri di distanza. Fortunatamente, l’impatto dell’inquinamento luminoso sull’osservatorio è ancora ridotto, ma la crescita delle città vicine e il progetto in corso dell’autostrada Panamericana potrebbero peggiorare la situazione. Infine, i cieli che circondano La Serena sono illuminati in modo preponderante da fonti artificiali e l’impatto delle luci della città è stato avvertito a grande distanza. La Serena, infatti, è risultata anche la maggiore fonte di luminosità artificiale del cielo negli altri tre siti monitorati. E pensare che solo negli anni ’80 dalla città era ancora visibile la Via Lattea.
Rodolfo Angeloni, astronomo all’osservatorio Gemini, in Cile, e primo autore dello studio sull’inquinamento luminoso in Cile pubblicato su The astronomical Journal
Gli autori dello studio intendono proseguire gli sforzi nella regione monitorando continuamente la luminosità del cielo di La Serena e installando altri 40 sensori nei siti di cielo buio. Angeloni ci anticipa anche che sta lavorando a un nuovo studio in cui presenta l’evoluzione della brillanza e della cosiddetta spectral energy distribution – o Sed, ovvero la distribuzione di energia della luce a diverse lunghezze d’onda – del cielo notturno dal 2019 ad oggi nei principali osservatori professionali del Cile (Ctio, Gemini, La Silla, Paranal, Las Campanas, etc), attraverso dati che provengono da un monitoraggio che per alcuni di questi siti ha una risoluzione addirittura trimestrale. I risultati, purtroppo, non sembrano essere incoraggianti.
E se in Cile la situazione è piuttosto preoccupante, dal momento che il territorio ospita moltissimi telescopi internazionali ed europei, in Europa e in Italia il cielo versa in condizioni anche peggiori. In Europa sembra che i luoghi davvero scuri, i cosiddetti dark skies, si contino sulle dita di una mano. Lo scorso anno è stato pubblicato uno studio in cui ne veniva individuato uno nelle alpi austriache, dove si trova il Sölktäl Naturpark.
«In Italia non ci sono indicazioni quantitative precise e prolungate nel tempo, che io sappia: a parte pochi esempi virtuosi come quello dell’Arpav in Veneto, non ci sono network dedicati», racconta Angeloni, «anche se le cose si stanno un po’ muovendo, anche grazie agli astrofili». Nella riserva naturale del Monte Rufeno, al confine tra Umbria Lazio e Toscana, ad esempio, si trova un osservatorio amatoriale gestito dall’associazione Nuova Pegasus che da circa un anno sta monitorando la qualità del cielo notturno attraverso un fotometro: i dati sono disponibili pubblicamente.
E non è tutto. Le condizioni di osservabilità del cielo non dipendono solo dalla brillanza di questo – anche se in grande misura è così – ma devono tenere in considerazione anche il disturbo arrecato dal sempre crescente numero di satelliti artificiali in orbita attorno al nostro pianeta, che disturbano il puntamento dei telescopi lasciando, al loro passaggio, strisciate luminose nelle immagini. Ha davvero senso continuare a investire nell’astronomia da terra?
«Personalmente credo che abbia senso continuare a investire nell’astronomia da Terra, anche se le sfide sono molteplici», commenta Angeloni. «Forse la strategia vincente per almeno arginare il problema dell’inquinamento luminoso è, paradossalmente, non centrare il discorso sulla perdita del cielo stellato (come se fosse un problema della sola comunità scientifica astronomica) ma spiegare al grande pubblico che, in realtà: primo, l’inquinamento luminoso è un problema trasversale che ci riguarda tutti direttamente, a causa delle comprovate conseguenze economiche e di salute che un mal uso dell’illuminazione tanto pubblica come privata comporta; e che, secondo, nessuno vuole spegnere le città in una utopica “decrescita felice”: non parliamo necessariamente di illuminare meno, ma semplicemente di illuminare meglio. Sfatando anche alcuni miti urbani che vedrebbero il livello della sicurezza delle nostre strade direttamente legato al loro livello di illuminazione. Anche in questo caso, la chiave del discorso è illuminare meglio, ad esempio garantendo un’illuminazione uniforme e costante lungo una via, piuttosto che illuminare più intensamente – creando paradossalmente delle zone di ombra dove la sensazione di insicurezza cresce. È un discorso multifattoriale piuttosto complesso, che per essere compreso, affrontato, e combattuto ha bisogno della collaborazione di molti attori: agli scienziati il compito di fornire il punto quantitativo della situazione, per poter poi permettere ai decision makers di prendere decisioni “informate” basate su dati oggettivi e non su sensazioni distorte o, peggio ancora, tornaconti politici elettorali a breve termine».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “Toward a Spectrophotometric Characterization of the Chilean Night Sky. A First Quantitative Assessment of ALAN across the Coquimbo Region” di Rodolfo Angeloni, Juan Pablo Uchima-Tamayo, Marcelo Jaque Arancibia, Roque Ruiz-Carmona, Diego Fernández Olivares, Pedro Sanhueza, Guillermo Damke, Ricardo Moyano, Verónica Firpo, Javier Fuentes e Javier Sayago
Girotondo da capogiro per la binaria J0526
Il sistema stellare binario TMmts J0526 raffigurato da un artista. La stella più grande a sinistra rappresenta la stella subnana calda, mentre quella più piccola a destra rappresenta la stella nana bianca. Crediti: Jingchuan Yu, Planetario di Pechino
È un girotondo da record quello giocato dal sistema binario Tmts J0526, composto da una nana bianca di ossigeno e carbonio e una stella subnana calda. Il periodo dell’orbita è infatti di appena venti minuti, talmente breve che il sistema è stato individuato come la variabile più rapida dal telescopio cinese Ma Huateng Telescope for Survey (Tmts) e potrebbe diventare un’importante fonte di onde gravitazionali osservabili da interferometri come Lisa, TianQin e Taiji. La scoperta, guidata da Jie Lin, Chengyuan Wu e Heran Xiong della Tsinghua University (Cina), è stata pubblicata oggi su Nature Astronomy.
Delle due stelle, però, solo una è visibile. Si tratta della subnana calda, una stella che ha perso il proprio involucro esterno di idrogeno prima di raggiungere questa fase ed è composta principalmente da elio, ha una massa appena di 0.33 la massa del Sole e un raggio 0.66 volte quello della nostra stella. Caratteristiche, le ultime due, che ne fanno la subnana non degenere più densa mai scoperta, e che, assieme alla brevità del periodo orbitale, aprono la strada a un’ipotesi precisa riguardo la sua formazione: il cosiddetto canale di doppia espulsione dell’inviluppo comune. Uno scenario complesso che confermerebbe uno degli scenari proposti per la formazione delle subnane calde, la cui origine è ancora controversa. Ce lo spiega Nancy Elias-Rosa, ricercatrice dell’Inaf di Padova e coautrice dello studio assieme a Irene Salmaso, dottoranda dell’Inaf di Padova.
«Questo studio conferma una delle teorie di formazione di queste subnane calde, la cosiddetta doppia eiezione dell’inviluppo comune. In generale», ricorda Elias-Rosa, «si ritiene che queste stelle siano un prodotto dell’evoluzione di un sistema binario. In particolare, quando il trasferimento di massa da una delle due componenti del sistema binario all’altra è instabile, si può formare un inviluppo comune. Il sistema binario al suo interno si avvicina e accorcia il suo periodo orbitale. Alla fine, questo inviluppo potrebbe essere espulso lasciando un sistema binario compatto composto da una subnana e da una stella di sequenza principale. Se ciò avvenisse alla fine dell’evoluzione della stella compagna, potrebbe verificarsi un’altra espulsione dell’involucro comune, lasciando un sistema composto da una subnana e una nana bianca. In entrambi i casi, il periodo orbitale sarebbe breve, dell’ordine di ore o giorni».
Nancy Elias-Rosa, ricercatrice dell’Inaf di Padova e coautrice dello studio
La seconda stella, nel caso di J0526, sembrerebbe essere una nana bianca con una massa di circa 0,74 masse solari, e quindi un po’ più grande ma meno luminosa e calda della subnana. Anch’essa, dunque, è il prodotto finale dell’evoluzione di una stella e ha già consumato tutto il suo combustibile nucleare. Per raggiungere un periodo orbitale così breve, secondo la teoria, il sistema sta perdendo energia emettendo onde gravitazionali. D’altra parte, comunque, una condizione necessaria affinché un sistema binario emetta onde gravitazionali è proprio che le due stelle che lo compongono siano in una configurazione estremamente compatta, come quella proposta dall’esplosione dell’inviluppo comune.
Dopo aver individuato, usando il telescopio Tmts, J0526 come una delle sorgenti variabili con periodo più breve, gli autori hanno condotto nuove osservazioni spettroscopiche utilizzando il telescopio Keck I di 10 m, alle Hawaii, e il Gran Telescopio Canarias (Gtc) da 10,4 m situato a La Palma, in Spagna, e infine alcune osservazioni fotometriche in serie temporale con il telescopio da 2,4 m di Lijiang. Hanno così potuto calcolare con precisione il periodo di 20.5 minuti, e stabilire la composizione del sistema. Hanno notato, in particolare, che la componente più luminosa – la stella visibile, ovvero la subnana – subisce una deformazione a causa delle forze gravitazionali mareali esercitate dall’altra compagna più debole – la stella invisibile, cioè la nana bianca.
«Finora sono stati trovati solo quattro sistemi binari contenenti questo tipo di subnane e con periodi inferiori a un’ora», continua Elias-Rosa, «ma solo quello scoperto in questo studio ha il periodo più vicino al limite fissato dalla teoria per avere radiazione di onde gravitazionali. Nei sistemi binari ultracompatti, come quello di questo studio, formato da una stella subnana calda di tipo B e da una stella nana bianca, con periodi orbitali molto brevi (circa 20 minuti), si ritiene che le onde gravitazionali aiutino le due stelle a entrare in contatto e che la massa venga trasferita dalla subnana alla nana bianca prima che la subnana cessi la combustione nucleare e si contragga per diventare una nana bianca. Queste onde gravitazionali sono deboli per gli interferometri a terra come Ligo o Virgo, ma potrebbero essere rilevate da osservatori spaziali come Lisa».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A seven-Earth-radius helium-burning star inside a 20.5-min detached binary“, di Jie Lin, Chengyuan Wu, Heran Xiong, Xiaofeng Wang, Péter Németh, Zhanwen Han, Jiangdan Li, Nancy Elias-Rosa, Irene Salmaso, Alexei V. Filippenko, Thomas G. Brink, Yi Yang, Xuefei Chen, Shengyu Yan, Jujia Zhang, Sufen Guo, Yongzhi Cai, Jun Mo, Gaobo Xi, Jialian Liu, Jincheng Guo, Qiqi Xia, Danfeng Xiang, Gaici Li, Zhenwei Li, WeiKang Zheng, Jicheng Zhang, Qichun Liu, Fangzhou Guo, Liyang Chen e Wenxiong Li
Cosa è nato prima: i buchi neri o le galassie?
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Illustrazione di un buco nero supermassiccio nell’universo primordiale, il cui campo magnetico genera flussi di plasma turbolento che aiutano a trasformare le nubi di gas vicine in stelle. Nuove scoperte suggeriscono che questo processo potrebbe essere responsabile dell’accelerazione della formazione di stelle nei primi 50 milioni di anni dell’universo. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University
Una nuova analisi dei dati del James Webb Space Telescope suggerisce che i buchi neri supermassicci non solo esistevano già all’alba dei tempi, ma potrebbero aver accelerato drasticamente la nascita di nuove stelle durante i primi 50 milioni di anni dell’universo.
«Sappiamo che questi buchi neri mostruosi esistono al centro delle galassie vicine alla Via Lattea, ma la grande sorpresa è che erano presenti anche all’inizio dell’universo e che sono stati quasi dei mattoni o dei semi per le prime galassie», spiega Joseph Silk, professore di fisica e astronomia alla Johns Hopkins University e all’Istituto di Astrofisica dell’Università Sorbona di Parigi, primo autore dello studio appena pubblicato su Astrophysical Journal Letters. «Hanno davvero intensificato tutto, come giganteschi amplificatori della formazione stellare, e questo rappresenta un’inversione di tendenza rispetto a quanto pensavamo fosse possibile, tanto che potrebbe sconvolgere completamente la nostra comprensione di come si formano le galassie».
Gli scienziati hanno riscontrato che le galassie dell’universo primordiale, osservate dal telescopio Webb, appaiono molto più luminose di quanto previsto e rivelano un numero insolitamente elevato di stelle giovani e buchi neri supermassicci. I buchi neri sono regioni dello spazio in cui la gravità è così forte che nulla può sfuggire alla loro attrazione, nemmeno la luce. A causa di questa forza, danno origine a potenti campi magnetici che generano violente tempeste, espellendo plasma turbolento e agendo in ultima analisi come enormi acceleratori di particelle. Questo processo è probabilmente il motivo per cui i rivelatori di Webb hanno individuato un numero maggiore di buchi neri e galassie luminose rispetto a quanto previsto dagli scienziati.
Secondo Silk e il suo team, l‘universo giovane potrebbe aver attraversato due fasi. Durante la prima fase, i flussi di gas ad alta velocità provenienti dai buchi neri hanno accelerato la formazione stellare. Nella seconda fase, i flussi sono rallentati. In particolare, alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, le nubi di gas sono collassate a causa delle tempeste magnetiche dei buchi neri supermassicci e sono nate nuove stelle a un ritmo di gran lunga superiore a quello osservato miliardi di anni dopo nelle galassie normali. Con il tempo la creazione di stelle è rallentata perché questi potenti flussi di plasma hanno ridotto il gas disponibile.
«Pensavamo che all’inizio le galassie si formassero quando una gigantesca nube di gas collassava», conclude Silk. «La grande sorpresa è che al centro di quella nube c’era un seme, un grande buco nero, che ha contribuito a trasformare rapidamente la parte interna della nube in stelle, a una velocità molto superiore a quella che ci saremmo mai aspettati. E così le prime galassie sono incredibilmente luminose».
Il team prevede che le future osservazioni del telescopio Webb, con un conteggio più preciso delle stelle e dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, contribuiranno a confermare i loro calcoli. Silk si aspetta anche che queste osservazioni aiuteranno gli scienziati a mettere insieme altri indizi sull’evoluzione dell’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Which Came First: Supermassive Black Holes or Galaxies? Insights from JWST” di Joseph Silk, Mitchell C. Begelman, Colin Norman, Adi Nusser, e Rosemary F. G. Wyse
We Love Science: arte e scienza alle Canarie
Fotografia di “The Other” (L’Altra), 2022, tratta dalla pagina Instagram dell’artista, Ruth Beraha, con il suo consenso. Crediti: Carlo Favero
Giulio Bensasson, Ruth Beraha, Antonio Della Guardia, Irene Fenara, Margherita Raso, Davide Stucchi, Serena Vestrucci e Jonathan Vivacqua: sono gli otto giovani artisti riuniti dal progetto “We Love Science“, nato come punto di incontro tra scienza ed arte. Sponsorizzato dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci) e curato da Ludovico Pratesi e Marco Bassan di Spazio Taverna, ha chiesto agli otto artisti di creare opere ispirate alle attività di altrettanti centri scientifici italiani di eccellenza, identificati dal Ministero, con lo scopo di allestire un’esposizione itinerante di arte contemporanea.
Fra i centri selezionati c’è anche il Telescopio nazionale Galileo (Tng), il più grande telescopio interamente italiano, situato sull’isola di La Palma, alle Canarie. Il Tng ha contribuito attivamente alla creazione di una delle opere d’arte contemporanea, intitolata “L’Altra”, nata dalla visita dell’artista Ruth Beraha all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos durante l’estate del 2022. In quell’occasione Beraha ha avuto la possibilità di visitare i laboratori e gli uffici del telescopio, nonché di vivere l’esperienza del cielo stellato del Roque de Los Muchachos e partecipare alle osservazioni direttamente dalla sala di controllo del Tng.
Il risultato di questa esperienza è stata l’opera d’arte, accompagnata da un video in cui l’artista descrive le sensazioni vissute durante il suo soggiorno a La Palma. Nell’opera il volto dell’artista è impresso sul fondo di una massa di vetro scuro, che lo distorce e lo rende intuibile solo da certe angolazioni. E per Beraha è proprio qui il punto d’incontro tra arte e astronomia: è come se lo sguardo del Tng, lanciato lontano alla ricerca di un’altra Terra, fosse in realtà uno sguardo rivolto verso se stessi.
Grazie a una collaborazione con l’Inaf e il Vice Consolato d’Italia ad Arona (Tenerife), il Tng è ora riuscito a portare l’esposizione delle otto opere sull’isola, presso l’Osservatorio del Roque de Los Muchachos. La cerimonia di inaugurazione, presieduta dal vice console d’Italia alle Isole Canarie, Gianluca Cappelli Bigazzi, e dal direttore del Tng, Adriano Ghedina, si è tenuta sabato 3 febbraio al Centro de Visitantes dell’Osservatorio, e si è conclusa con una visita al telescopio.
La visita dell’esposizione è gratuita ed è aperta tutti i giorni, dal 3 febbraio al 15 marzo 2024, dalle 10:00 alle 16:30, presso il Centro de Visitante del Roque de Los Muchachos.
Guarda il video con Ruth Beraha sul canale YouTube della Farnesina:
Tondi da grandi, piatti alla nascita
La forma dei giganti gassosi alla nascita non è sferica come si potrebbe immaginare, bensì appiatta. È quanto emerge da una nuova ricerca condotta da due scienziati della University of Central Lancashire (Uclan), nel Regno Unito. Secondo quanto riportato nello studio, pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics Letters, l’espetto di questi mondi allo stadio di protopianeti sarebbe quello di uno sferoide oblato, cioè una sfera schiacciata ai poli.
Immagine che mostra un embrione planetario simulato visto dall’alto, a sinistra, e visto di lato, a destra. Crediti: Adam Fenton e Dimitris Stamatellos, A&AL, 2024
Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno condotto sofisticate simulazioni sfruttando la potenza di calcolo dei computer della Dirac High Performance Computing Facility. Facendo girare sulle macchine di questa struttura di ricerca il codice Sph Phantom, hanno poi seguito l’evoluzione dei protopianeti da cui i giganti gassosi si formano.
L’obiettivo dei ricercatori era quello di determinare la struttura tridimensionale degli embrioni planetari. Non di qualsiasi embrione planetario, però: solo di quegli embrioni il cui processo di formazione avviene attraverso la cosiddetta instabilità del disco – il modello utilizzato per spiegare la formazione dei pianeti che hanno orbite ampie, cioè pianeti che si trovano molto distanti dalla loro stella madre, tipicamente giganti gassosi.
«Si ritiene che i pianeti si formino o per accrescimento del nucleo, cioè a partire da particelle di polvere che si uniscono per formare corpi via via più grandi, su tempi scala lunghi, o per instabilità del disco, cioè per rottura dei grandi dischi protostellari attorno alle giovani stelle, su tempi scala brevi», spiega Adam Fenton, ricercatore al Jeremiah Horrocks Institute for Mathematics, Physics and Astronomy di Uclan e coautore della pubblicazione.
«Quest’ultima teoria», aggiunge Fenton, «è interessante perché i pianeti di grandi dimensioni possono formarsi molto rapidamente e a grandi distanze dalla loro stella ospite, il che spiega alcune osservazioni».
Secondo il modello della instabilità del disco, i giganti gassosi si formano dunque per frammentazione del disco protoplanetario della stella, frammentazione dovuta a instabilità gravitazionali. Gli aggregati di gas e polvere risultanti dal processo evolvono poi in pianeti per condensazione del gas.
Per modellare l’evoluzione dei protopianeti che si formano attraverso questo meccanismo, i ricercatori hanno imposto al codice di simulazione specifiche condizioni iniziali. Una di queste ha riguardato la massa del disco della stella, regolata al valore di 0.6 masse terrestri, in modo che l’instabilità della struttura producesse molti frammenti. Il team ha quindi avviato le simulazioni e seguito l’evoluzione di ogni singolo frammento, esaminando poi le proprietà degli embrioni planetari prodotti in varie condizioni di temperatura e densità.
Al termine delle simulazioni, i risultati hanno dipinto tutti lo stesso quadro, sottolineano i ricercatori. Un quadro in cui la forma degli embrioni planetari non è quella di una sfera perfetta, come precedentemente ipotizzato, bensì quella di uno sferoide appiattito, cioè un’ellisse schiacciata ai poli. I ricercatori, inoltre, hanno scoperto che i giovani pianeti in formazione accrescono materia prevalentemente dai poli piuttosto che dall’equatore. Si tratta di risultati con importanti implicazioni per le osservazioni dirette di questi “semi” planetari, poiché suggeriscono che il modo in cui essi appaiono al telescopio dipende dall’angolo di visione.
«Studiamo la formazione dei pianeti da molto tempo, ma mai prima d’ora avevamo pensato di determinare la forma dei protopianeti attraverso le simulazioni», dice a questo proposito l’altro autore della pubblicazione, il ricercatore, anche lui dell’Uclan, Dimitris Stamatellos. «Abbiamo sempre pensato che fossero sferici. Rilevare che sono degli sferoidi oblati simili agli smarties, ci ha lasciati molto sorpresi».
I ricercatori stanno ora dando seguito alla ricerca utilizzando modelli computazionali migliorati, per esaminare come la forma di questi pianeti è influenzata dall’ambiente in cui si formano e per determinarne la composizione chimica, che sarà poi confrontata con le future osservazioni del James Webb Space Telescope.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The 3D structure of disc-instability protoplanets”, di Adam Fenton e Dimitris Stamatellos
Cascata di molecole eruttata da un quasar
Infografica che rappresenta l’espulsione delle molecole di OH dal quasar (in alto). La freccia (in basso) indica l’assorbimento dovuto alle molecole di OH che fuoriescono dalla galassia che ospita il quasar. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao) modificato da D. Salak et al.; D. Salak et al., ApJ, 2024
Che certe galassie un po’ irrequiete eruttassero nubi di gas dalle regioni nucleari non è una novità. Nel corso degli anni si sono susseguite numerose osservazioni che hanno rivelato, in galassie più e meno lontane dalla nostra, ingenti espulsioni di materiale utilizzando i traccianti chimici più svariati. Questi eventi sono stati registrati in galassie contraddistinte da una poderosa attività di formazione stellare (galassie starburst) e in quelle ospitanti buchi neri supermassici alimentati dalla caduta di gas (galassie attive). Le enormi quantità di energia sprigionate in queste fasi generano infatti espulsioni rapidissime di materiale, con il gas che viene scagliato via anche a diverse migliaia di chilometri al secondo.
Tuttavia, se proviamo a riavvolgere il nastro, ben poco si sa in questo senso di ciò che accadde nel primo miliardo di anni di vita dell’universo, epoca ardua da investigare anche con le tecnologie attuali. Ad oggi, di questo periodo remoto della storia del cosmo, si registrano infatti solo poche evidenze di espulsioni di gas, alcune delle quali ancora controverse.
Adesso un team internazionale di astronomi sembra aver rivelato per la prima volta un’eruzione di gas molecolare in un quasar lontanissimo dalla Terra. J2054-0005 è il nome del protagonista di questa vicenda uscita la scorsa settimana su The Astrophysical Journal. La scelta di tale oggetto non è stata casuale. Come affermato da Takuya Hashimoto, uno dei coautori del lavoro, «J2054-0005 è uno dei quasar più brillanti dell’universo lontano, così abbiamo deciso di osservarlo in quanto rappresenta un candidato eccellente per studiare poderose espulsioni di gas». Le sorgenti estremamente energetiche sono infatti gli oggetti ideali per ospitare tali fenomeni.
La scoperta è stata compiuta studiando la molecola di idrossile (OH). In particolare, il gas espulso si sta muovendo a una velocità di oltre 600 km/s. «L’espulsione di gas molecolare è stata scoperta in assorbimento», dice Dragan Salak dell’Università di Hokkaido (Giappone) e primo autore dello studio. «Questo significa che le molecole di OH hanno assorbito parte della radiazione emessa dal quasar. Così è stato come rivelare la presenza del gas vedendo l’ “ombra” che genera davanti alla sorgente luminosa». Una tecnica analoga viene utilizzata per individuare le galassie situate per caso davanti ai quasar.
Alcune antenne dell’interferometro Alma in Cile. Ciascuna delle antenne con cui è stato compiuto lo studio ha un diametro di 12 metri. Crediti: Eso/Y. Beletsky
Le osservazioni sono state realizzate con l’interferometro Alma, localizzato nel nord del deserto di Atacama, in Cile. Questo strumento è attualmente l’unico in grado di raggiungere la sensibilità necessaria per rivelare le espulsioni di gas molecolare in oggetti remoti come il quasar al centro di questa scoperta. Per raccogliere i dati sono state utilizzate dalle 41 alle 46 antenne, puntate sul quasar per oltre sette ore.
Fenomeni di questo tipo potrebbero avere un’importanza cruciale nell’evoluzione delle galassie. Un vero e proprio rompicapo per gli astronomi è senza dubbio l’interruzione della formazione stellare nelle galassie sferoidali. Per ragioni che ancora non si comprendono sembra che questi oggetti abbiano cessato di produrre nuovi astri già svariati miliardi di anni fa. Alcuni modelli teorici prevedono che le eruzioni di gas, come quella osservata in J2054-0005, possano avere un ruolo determinante nell’inibire il processo di formazione stellare. Il gas molecolare costituisce infatti la materia prima da cui si formano le stelle. Le espulsioni di questo ingrediente finirebbero dunque per ripulire le galassie del combustibile per alimentare la nascita di nuovi astri, spiegando perché certe galassie massicce sono state di colpo “sterilizzate”. In particolare, gli astronomi hanno stimato che la galassia che ospita J2054-0005 potrebbe venire svuotata della sua riserva di gas molecolare in dieci milioni di anni, un’inezia per le tempistiche astronomiche.
Tuttavia le cose non sono così semplici. Così come espellono il gas, le galassie possono rifornirsi di nuovo materiale dal mezzo circumgalattico. Le galassie non sono infatti oggetti sospesi nello spazio vuoto, ma sono circondate da estesi aloni di gas. È dunque fondamentale trovare dei meccanismi che inibiscano l’accrescimento di nuovo materiale, che potrebbe riaccendere la formazione stellare. Resta il fatto che quella riportata nello studio rappresenterebbe la prima forte evidenza di eruzioni di gas molecolare nell’infanzia dell’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Molecular outflow in the reionization-epoch quasar J2054-0005 revealed by OH 119 μm observations” di D. Salak, T. Hashimoto, A. K. Inoue, T. J. L. C. Bakx, D. Donevski, Y. Tamura, Y. Sugahara, N. Kuno, Y. Miyamoto, S. Fujimoto e S. Suphapolthaworn
Mimas cela un inatteso oceano d’acqua liquida
Che alcuni satelliti dei pianeti esterni del Sistema solare ospitino grandi oceani sotterranei d’acqua liquida, come la luna gioviana Europa, o Encelado attorno a Saturno, lo sappiamo. Così come sappiamo che possono essercene altri. Che uno di questi fosse Mimas, la luna più interna del pianeta con gli anelli, sembrava però poco probabile. Invece, stando a quanto si riporta in uno studio uscito oggi su Nature, sarebbe proprio così: un oceano recente di acqua liquida circonda tutto il corpo del satellite, e ne causa oscillazioni dell’orbita altrimenti non spiegabili.
Al centro, fra altri mondi con oceani sotterranei, la luna di Saturno Mimas, che secondo quanto presentato in un articolo pubblicato su Nature, sotto la sua spessa crosta di ghiaccio ospiterebbe anch’esso un vasto oceano di acqua liquida. Crediti: Frédéric Durillon, Animea Studio; Observatoire de Paris – Psl, Imcce
Mimas è un piccolo satellite con una forma leggermente a uovo che rivoluziona attorno a Saturno in maniera sincrona, ovvero rivolgendo al pianeta sempre la stessa faccia. Quella che guarda verso l’esterno, invece, è caratterizzata da un enorme cratere da impatto largo 140 km e che si estende per circa un terzo del diametro dell’intero satellite. Lo potete vedere nell’immagine qui sopra, nella quale Mimas è il corpo grigio al centro. La densità di questo satellite è appena 1.17 volte quella dell’acqua, il che significa che è composto prevalentemente da ghiaccio d’acqua e solo in piccola parte da roccia. Un’altra caratteristica del satellite che gli scienziati avevano notato grazie alle osservazioni della sonda Cassini era che il suo moto di rivoluzione attorno a Saturno presentava delle librazioni, ovvero dei movimenti oscillatori causati dall’interazione gravitazionale con il pianeta, molto più pronunciati di quanto ci si aspettasse. Non solo: l’orbita di Mimas ha una precessione retrograda: in altre parole, le posizioni di pericentro e apocentro (rispettivamente i punti più vicini e lontani al pianeta, in un’orbita ellittica) si spostano in direzione opposta al moto di rivoluzione della luna.
Dal momento che le variazioni nell’orbita di un corpo in moto attorno a un centro gravitazionale sono influenzate dalla forma del corpo stesso e anche dalla sua composizione interna, per spiegare queste anomalie le ipotesi al vaglio degli scienziati erano due: la prima, che il nucleo roccioso del satellite avesse una forma molto allungata, che influenzasse la distribuzione interna della materia al punto da causare differenze nei momenti di inerzia lungo l’orbita; la seconda, che sotto la superficie ci fosse un vasto oceano liquido che consentisse alla crosta di muoversi e di oscillare in maniera indipendente dal nucleo interno del pianeta.
La presenza di oceani sotterranei, nei satelliti finora noti, è solitamente tradita da alterazioni superficiali causate dalla dinamica interna di queste enormi masse d’acqua. Non sempre, però, e non nel caso di Mimas, motivo per cui gli scienziati avevano sempre pensato che l’ipotesi più plausibile fosse quella del nucleo allungato.
Nel nuovo studio gli autori hanno fatto una ricostruzione dettagliata del moto di Mimas, combinando informazioni sulla precessione retrograda dell’orbita con misure dettagliate delle sue librazioni; hanno visto però che il loro modello non funziona se si assume che il pianeta sia un mondo ghiacciato con un nucleo roccioso allungato. Funzionerebbe, invece, se si assumesse la presenza di un vasto oceano di acqua liquida. Come mai, allora, in superficie non si vedono le tracce tipiche indotte da questa enorme distesa d’acqua? Perché non c’è stato il tempo di formarle, sostengono gli autori. Non ancora: l’oceano sarebbe infatti troppo recente per aver apportato modifiche visibili sulla crosta di ghiaccio della luna. Sarebbe comparso fra i 25 e i 2 milioni di anni fa, e si troverebbe sotto uno spessore di 25-30 km di ghiaccio. E, fra l’altro, secondo gli autori non è escluso che anche Europa ed Encelado inizialmente mostrassero un comportamento simile a quello di Mimas. Di certo questo studio apre molte possibilità su altri corpi finora esclusi come potenziali detentori di acqua liquida e, con essa, di attività biologica presente o passata.
«Le scoperte di Lainey e dei suoi colleghi», pronosticano sempre su Nature Matija Ćuk e Alyssa Rose Rhoden nella loro “News and views”,un articolo di accompagnamento alla pubblicazione scientifica, «stimoleranno un esame approfondito delle lune ghiacciate di medie dimensioni in tutto il Sistema solare. Il Sistema solare riserverà ancora delle sorprese e i ricercatori devono essere abbastanza aperti a nuove idee e a possibilità inaspettate per riconoscerle».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A recently formed ocean inside Saturn’s moon Mimas“, di V. Lainey, N. Rambaux, G. Tobie, N. Cooper, Q. Zhang, B. Noyelles, e K. Baillié
Giornata delle donne e delle ragazze nella scienza
Anche per la nona edizione, l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) partecipa alla Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, promossa dall’Onu e celebrata in contemporanea in tutto il mondo, con una serie di eventi in numerose sedi in Italia e, quest’anno, anche all’estero. Tutte le iniziative intendono promuovere la partecipazione nella ricerca scientifica senza distinzione di genere e cercano di sensibilizzare la società sulle sfide e le opportunità che le donne affrontano nel campo della scienza. Di seguito, vi proponiamo una panoramica degli eventi che, a partire dal 9 febbraio, vedranno coinvolti in prima linea ricercatori e ricercatrici di diversi osservatori astronomici Inaf.
Cinque fra le scienziate italiane nella top-500 di Research.com. Da sinistra: l’epidemiologa Eva Negri e le astronome Elena Pian, Marcella Brusa, Lucia Pozzetti ed Elena Zucca. Crediti: Federica Loiacono/Inaf
Genova, venerdì 9 febbraio – Partendo dalla riviera ligure, vi segnaliamo la proiezione del film Il diritto di contare, seguita dal dibattito sul ruolo delle donne e delle minoranze nella ricerca scientifica. L’appuntamento sarà al Cinema Ariston e nasce all’interno della collaborazione dell’Inaf con “Circuito Cinema Scuole” e il Dipartimento di fisica dell’Università di Genova. Partecipano all’evento, per il gruppo Univers@ll dell’Inaf, che si occupa di equità nell’accesso alla cultura scientifica, Eleonora Fiorellino e Claudia Mignone, qui in veste di moderatrice, oltre a studentesse e ricercatrici di fisica dell’Università di Genova.
Bologna, lunedì 12 febbraio – Un’altra proiezione è al centro dell’evento organizzato dall’Inaf Oas presso la Cineteca del capoluogo emiliano. Questa volta si tratta del documentario Picture a scientist e a intervenire sarà Stefania Varano a capo del gruppo inclusione Univers@ll dell’Inaf.
Roma, dal 9 al 12 Febbraio – La capitale ospiterà diversi eventi sul tema, a partire da “Creatività femminile e metodologia scientifica”, un convegno al Cnr per evidenziare – attraverso testimonianze personali, professionali, accademiche – quanto sia importante l’attitudine femminile, creativa ed emozionale, per l’avanzamento della ricerca scientifica. Organizzato da “Rete per la parità” il 9 febbraio, l’incontro vedrà interventi di Martina Cardillo, Enrico Costa e Stefano Orsini dell’Inaf Iaps di Roma. Martina Cardillo, terrà anche un seminario scientifico e una serie di letture di poesie in romanesco presso l’Istituto comprensivo “E. Montale”, in Via Casal Bianco, lunedì 12 febbraio nell’iniziativa “Space Science Club”. Sempre la mattina del 12 febbraio il Comitato unico di garanzia dell’Inaf, insieme a quelli di altri enti e istituzioni di ricerca (Asi, Infn, Cnr, Enea, Università di Roma Tor Vergata), organizzeranno “Scienza e Tecnologia? Giochi da ragazze!”, una giornata ricca di incontri e testimonianze in collaborazione con l’associazione Women in Aerospace (Wia) e con il patrocinio dell’Unione astronomica internazionale (Iau). L’evento, dedicato alle scuole superiori di II grado dell’area di Frascati, ma disponibile anche online su Teams, vede la partecipazione de “La scienza coatta” e di “GenerazioneStem”, la testimonianza della ricercatrice Inaf Francesca Panessa e Silvia Piranomonte e Chiara Badia del Cug Inaf tra gli organizzatori. Ospite d’eccezione, l’astrofisica Marica Branchesi, presidente del Consiglio scientifico dell’Inaf.
Locandina di “STEMano ponno esse donne e ponno esse scienziate”, di e con “La Scienza Coatta”, progetto di divulgazione scientifica, e Ludovica Di Donato, autrice e attrice
Nella stessa giornata, il Cug Inaf ha concesso il patrocinio all’evento “She rocks science”, presso il Dipartimento di fisica dell’Università La Sapienza, che ospiterà una tavola rotonda e un’esposizione di poster sul progetto “Did this really happen?” e sulle ricerche svolte dalle giovani ricercatrici in astrofisica e astronomia rivolta a studenti e studentesse dei primi anni dell’università. Nella stessa giornata, anche l’Osservatorio astronomico di Roma dell’Inaf accoglierà studenti e studentesse per un incontro tutto al femminile, durante il quale le scuole secondarie di primo e secondo grado avranno l’opportunità di conoscere più da vicino alcune delle ricercatrici dell’Osservatorio grazie ai contributi di Ilaria Ermolli, Mariarita Murabito, Silvia Tosi, Flavia Dell’Agli, Chiara Ventura, Giuliana Fiorentino e Maria Teresa Menna. Infine, per chi ha voglia di affrontare il tema della parità di genere nella scienza con il sorriso sulle labbra, vi suggeriamo lo spettacolo “STEMano ponno esse donne e ponno esse scienziate” de “La Scienza Coatta” programmato per l’11 febbraio alle 20.00 e ospitato all’interno della mostra Inaf “Macchine del Tempo” al Palazzo delle Esposizioni.
Napoli, 15, 16 febbraio e 22 marzo – Nel capoluogo campano, l’Università Parthenope ospiterà, nei giorni 15 e 16 febbraio, “La vita e lo spazio”, un evento in cui docenti, studenti e studentesse rappresenteranno potenziali role-models per le generazioni più giovani. Per Inaf parteciperà Rosaria Sara Bonito dell’Osservatorio astronomico di Palermo. Il 22 marzo a Napoli ci sarà la presentazione dei risultati di “The fight against Gender Stereotypes begins in the classroom”, il progetto – seguito da Clementina Sasso dell’Inaf di Napoli – che ha proposto un corso di formazione per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado sul tema degli stereotipi di genere e di come essi agiscono in ambito scolastico e sullo sviluppo di attività didattiche ad hoc. Le attività didattiche sviluppate e testate in alcune classi campione in forma di gioco e di storytelling saranno poi messe a disposizione di tutti i docenti interessati a includerle nella propria pratica didattica. L’iniziativa, realizzata con il supporto dell’Inaf di Napoli, è interamente finanziata dall’U.S. Department of State Bureau of Education and Cultural Affairs attraverso il Meridian International Center, partner esecutivo, grazie al Piano lauree scientifiche del Dipartimento di fisica “E. Pancini” dell’Università di Napoli Federico II, all’Inner Wheel Club Torre del Greco e Comuni Vesuviani e con il patrocinio della missione diplomatica degli Stati Uniti in Italia.
Palermo, venerdì 9 febbraio – L’Osservatorio astronomico di Palermo, come negli scorsi anni, rinnova il suo impegno nella “Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza” organizzando un evento in collaborazione con l’Iss “Mario Rutelli” e con interventi da parte di colleghe e colleghi dell’Inaf, dell’Università di Palermo, dei Cug dell’Inaf (con Fabio D’Anna) e della Regione Sicilia, del gruppo inclusione Univers@ll dell’Inaf (con Silvia Pietroni), dell’associazione “Spazio Donna Zen”. In tale occasione si svolgerà la premiazione e l’esposizione degli elaborati sul tema “Donne e scienza” prodotti dalle studentesse e dagli studenti partecipanti selezionati dalla commissione nazionale. I progetti saranno tradotti nella lingua dei segni italiana durante l’evento che si terrà in presenza e in diretta nazionale sul canale YouTube dell’Inaf di Palermo.
Tracy Caldwell Dyson, chimica e astronauta della Nasa, osserva la Terra dalla Stazione spaziale internazionale. Crediti: Tracy Caldwell Dyson/Nasa
Catania, domenica 11 febbraio –Rimaniamo in Sicilia, dove anche le ricercatrici catanesi effettueranno esperimenti e dimostrazioni pratiche su varie tematiche scientifiche in occasione dell’evento “Meet LE Researchers”, che si terrà l’11 febbraio mattina presso Città della Scienza, a Catania. L’evento prevede anche alcuni stand in cui, tra le altre cose, il pubblico sarà invitato a osservare la cromosfera del Sole al telescopio insieme alle ricercatrici dell’Inaf. L’evento è organizzato dal Csfnsm, il Centro siciliano di fisica nucleare e struttura della materia, in collaborazione con l’Università di Catania, l’Osservatorio astrofisico di Catania dell’Inaf e la Sezione di Catania dell’Infn.
Cagliari, venerdì 9 febbraio – Saltiamo da un’isola all’altra. Durante la masterclass “A caccia di Frb!”, organizzata nell’ambito del Piano lauree scientifiche dal Dipartimento di fisica dell’Università di Cagliari, studenti e studentesse saranno coinvolti in laboratori e attività di analisi su alcuni set di dati radio – realmente acquisiti con il Sardinia Radio Telescope o simulati – per capire le problematiche della rivelazione di Fast Radio Burst. Gli studenti e le studentesse partecipanti alla masterclass, ospitata nella Cittadella universitaria dalle ore 9.00 alle 17.00, presenteranno gli elaborati sulle attività svolte agli altri gruppi coinvolti nell’evento che, per Inaf, vedrà la partecipazione di Silvia Casu e Maura Pilia dell’Osservatorio astronomico di Cagliari.
Isole Canarie (Spagna), venerdì 9 febbraio – Un’altra isola, questa volta in Spagna, partecipa alla Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza: presso la sede del Tng, il Telescopio nazionale Galileo, a La Palma, l’appuntamento “El Universo como laboratorio” del 9 febbraio, alle 12.45, organizzato dall’Instituto de Astrofísica de Canarias (Iac), avrà in programma una conferenza online di scienziate per la scuola di Tenerife “IES Los Cristianos” nell’ambito del programma “Habla con Ellas”. Tra le relatrici, Gloria Andreuzzi, astronoma dell’Inaf.
Padova, giovedì 15 febbraio– In concomitanza con la serie di eventi per la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza segnaliamo “Dai fiocchi rosa ai femminicidi”, un incontro sulla costruzione sociale dei ruoli di genere promosso dall’Università di Padova – e in particolare dai dipartimenti di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione e di Fisica e astronomia – con il patrocinio dell’Inaf.
Torino, domenica 11 febbraio – Aderisce alla giornata internazionale, con la tavola rotonda in programma alle 16.00 “Le donne della fisica”, anche il planetario Infini.to, a Pino Torinese, con cui l’Inaf collabora.
Concludiamo con una novità: quest’anno, il Ministero dell’università e della ricerca ha istituito, per la prima volta, la Settimana nazionale delle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche nei giorni dal 4 all’11 febbraio 2024. Per tale ricorrenza, annunciata con un messaggio ai giovani dalla scienziata Amalia Ercoli Finzi, è stato realizzato un video che ha visto la partecipazione di ricercatrici dell’Inaf e che sarà trasmesso l’11 febbraio sui canali del Mur.
Per saperne di più:
- Vai all’elenco completo di tutte le iniziative Inaf
- Vai alla pagina dell’Onu (in inglese) dedicata all’International Day of Women and Girls in Science
Probabilmente roccioso, potenzialmente abitabile
Un nuovo pianeta extrasolare, la prima super-Terra scoperta nella zona abitabile conservativa della propria stella: è questa la notizia con cui il cacciatore di esopianeti della Nasa, Tess, inaugura il 2024.
Il pianeta in questione si chiama Toi-715 b. È tre volte più massiccio e una volta e mezza più grande della Terra. E orbita attorno alla sua stella madre in una regione in cui ci sono le condizioni adatte affinché sul pianeta possa esistere acqua liquida, elemento essenziale per la vita come la conosciamo. Il periodo orbitale del pianeta e la temperatura effettiva della stella suggeriscono infatti un flusso di insolazione pari a 0.62 volte quello che riceve la Terra dal Sole, il che posiziona Toi-715 b all’interno della zona abitabile conservativa della sua stella.
Illustrazione artistica che mostra il pianeta Toi-715 b in orbita alla sua stella madre, la nana rossa Toi-715. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Scoperto con il metodo dei transiti da un team di scienziati guidato dall’Università di Birmingham, nel Regno Unito, Toi-715 bè un pianeta con un periodo di rivoluzione molto breve: se vivessimo su questo mondo, festeggeremmo capodanno ogni 19 giorni. Il pianeta si trova dunque vicino alla sua stella, dalla quale dista poco più di 12 milioni di chilometri: circa 13 volte meno della distanza Terra-Sole, pari a 150 milioni di chilometri.
La stella madre di Toi-715 b è Toi-715. Si tratta di una nana rossa di circa 6.6 miliardi di anni, situata a 137 anni luce dalla Terra nella costellazione del Pesce Volante. Le nane rosse come Toi-715 sono stelle più piccole e più fredde del Sole. Le loro temperature superficiali fanno sì che la zona di abitabilità di questi astri sia più interna rispetto ad altre stelle, consentendo ai pianeti in orbita ravvicinata come Toi-715 b di mantenere comunque temperature adatte a sostenere, eventualmente, la vita. Rispetto ad altre nane rosse Toi-715 ha però un’ulteriore peculiarità. Una caratteristica che riguarda il suo tasso di emissione di brillamenti. Secondo i ricercatori, l’attività di flaring di Toi-715 è rara e comunque non abbastanza forte da influenzare ipotetici processi di chimica prebiotica su Toi-715 b. Ciò, spiegano i ricercatori, suggerisce che se mai su Toi-715 b fosse comparsa una qualche forma di vita, questa potrebbe ancora esistere. Naturalmente a patto che vi siano tutte le altre condizioni necessarie a sostenerla, come la presenza di acqua liquida e di un’atmosfera.
La scoperta di Toi-715 b è descritta in dettaglio in un articolo pubblicato l’anno scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. I ricercatori hanno validato e confermato la presenza del pianeta utilizzando diversi strumenti. Tra questi, oltre il telescopio Gemini-South, i telescopi della rete del Las Cumbres Observatory, quelli del progetto ExTrA, i telescopi Speculoos e il telescopio Trappist south, c’è anche il Campo Catino Austral Observatory, un telescopio situato all’Osservatorio El Sauce, in Cile, gestito da remoto dallo staff dell’Osservatorio di Campo Catino, in provincia di Frosinone – staff che comprende Giovanni Isopi, Franco Mallia e Aldo Zapparata, tutt’e tre fra i coautori dello studio.
Oltre che di Toi-715 b, nella pubblicazione gli scienziati parlano anche di un secondo pianeta, anch’esso roccioso e anch’esso situato nella zona abitabile conservativa della stella, ma al bordo più esterno della regione. Al momento soltanto un candidato pianeta, Tic 271971130.02 – questo il suo attuale nome in codice – avrebbe un periodo orbitale di circa 25 giorni e, cosa ancor più interessante, un raggio quasi uguale a quello della Terra. Una caratteristica che, qualora fosse confermato il suo status di pianeta, ne farebbe il più piccolo mondo scoperto da Tess all’interno della zona abitabile conservativa della sua stella.
Toi-715 b si aggiunge all’elenco dei pianeti che potrebbero essere esaminati in dettaglio dal telescopio spaziale James Webb. Il telescopio della Nasa è infatti progettato non solo per rilevare questi mondi lontani, ma anche per studiarne le caratteristiche peculiari. Ciò include anche lo studio della composizione dell’eventuale atmosfera, la cui caratterizzazione è fondamentale per avere indicazioni sul potenziale dei pianeti di sostenere la vita.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A 1.55 R⊕ habitable-zone planet hosted by TOI-715, an M4 star near the ecliptic South Pole” di Georgina Dransfield, Matilde Timmermans, Amaury HMJ Triaud, Martin Dévora-Pajares, Cristiano Aganze, Khalid Barkaoui, Adam J Burgasser, Karen A Collins, Marion Cointepas, Elsa Ducrot, Massimiliano N. Günther, Steve B Howell, Catriona A Murray, Prajwal Niraula, Benjamin V. Rackham, Daniele Sebastiano, Keivan G Stassun, Sebastián Zúñiga-Fernández, Josè Manuel Almenara, Saverio Bonfils, Francois Bouchy, Christopher J. Burke, David Charbonneau, Jessie L Christiansen, Laetitia Delrez, Tianjun Gan, Lionel J. Garcia, Michele Gillon, Yilen Gómez Maqueo Chew, Katharine M. Hesse, Matthew J. Hooton, Giovanni Isopi, Emanuele Jehin, Jon M. Jenkins, David W. Latham, Franco Mallia, Filippo Murgas, Peter P. Pedersen, Francisco J. Pozuelos, Didier Queloz, David R. Rodriguez, Nicole Schanche, Sara Seager, Gregor Srdoc, Chris Stockdale, Joseph D. Twicken, Roland Vanderspek, Roberto Pozzi, Joshua N. Winn, Julien de Wit e Aldo Zapparata
Le aubriti dell’asteroide 2024 BX1
Una aubrite proveniente dall’asteroide 2024 BX1, fotografata al Museo di storia naturale di Berlino da Laura Kranich, una studentessa che ha partecipato alla ricerca e ha trovato questa meteorite vicino al villaggio di Ribbeck. Il cubo serve per dare un’idea delle dimensioni, il lato misura 1 cm. Crediti: Laura Kranich/Museum für Naturkunde Berlin
In una precedente news, vi avevamo raccontato la storia della caduta del piccolo asteroide 2024 BX1, di circa 1 metro di diametro, scoperto la sera del 20 gennaio ad appena tre ore dalla collisione con la Terra, avvenuta il 21 gennaio alle 00:32:43 Utc. Nella stessa news vi avevamo informati che il 26 gennaio alcuni ricercatori del Museo di storia naturale di Berlino, della Libera Università di Berlino e del Centro aerospaziale tedesco avevano recuperato anche le prime probabili meteoriti appartenenti all’asteroide. Ora la nostra vicenda si arricchisce di ulteriori dettagli.
La ricerca di queste meteoriti non è stata facile, perché appartengono al raro gruppo delle aubriti. Il nome di queste meteoriti deriva dal villaggio di Aubrés, in Francia, dove il 14 settembre 1836 cadde il primo meteorite noto di questo tipo. In generale le aubriti sono acondriti composte principalmente da grandi cristalli bianchi di ortopirosseno, poveri di ferro e ricchi di magnesio, con fasi minori di olivina, ferro-nichel e troilite che indicano una formazione di tipo magmatico. La struttura a breccia della maggior parte delle aubriti testimonia la violenta storia collisionale del corpo genitore, probabilmente il Nea (3103) Eger oppure l’asteroide main belt (44) Nysa, un raro asteroide di tipo E.
Come si vede dall’immagine in apertura di questa news, che mostra una delle meteoriti raccolte, le aubriti di 2024 BX1 mancano della tipica crosta di fusione scura che caratterizza quasi tutti i tipi di meteoriti. Questa crosta si forma durante la caduta in atmosfera, quando la crosta del meteoroide in caduta raggiunge temperature dell’ordine di 2500-3000 K. Di solito anche le aubriti mostrano una crosta di fusione brunastra, in questo caso però la crosta di fusione era costituita da una sottile patina vetrificata e translucida che ne lascia vedere l’interno. Le meteoriti di 2024 BX1 assomigliano così a normali sassi terrestri: da qui la difficoltà del riconoscimento lungo lo strewn field e l’incertezza sulla natura dei primi frammenti ritrovati. Le analisi condotte su uno dei frammenti raccolti dai ricercatori del Museo di storia naturale di Berlino, usando una microsonda elettronica, hanno dimostrato che la mineralogia e la composizione chimica sono quelle tipiche di un’acondrite del tipo aubrite. L’uso della microsonda elettronica permette un’analisi non-distruttiva del campione: in effetti bombardando il materiale con un fascio di elettroni si possono analizzare le radiazioni X emesse dal materiale e identificarne così la composizione (ogni elemento chimico emette a ben definite frequenze). Questo risultato è stato sottoposto all’International Nomenclature Commission della Meteoritical Society il 2 febbraio, per il riconoscimento ufficiale della meteorite.
Lo strewn field ottenuto da un modello a “pancake” per la caduta dell’asteroide 2024 BX1 con strength di 1 MPa visualizzato in Google Earth, senza ricorrere alla triangolazione del fireball. Crediti: A. Carbognani/Inaf-Oas
La velocità di ritrovamento delle meteoriti avvenuta a pochi giorni dalla caduta è dovuta alla precisa triangolazione del fireball generato da 2024 BX1 durante la caduta in atmosfera fatta dai ricercatori cechi Pavel Spurný, Jiří Borovička e Lukáš Shrbený (Astronomical Institute of the Academy of Sciences of the Czech Republic), che gestiscono la European Fireball Network. Tuttavia, nel caso di piccoli asteroidi che colpiscono la Terra poche ore dopo la scoperta, si possono usare i dati di posizione e velocità del punto di ingresso in atmosfera a 100 km di quota per propagare il moto dell’asteroide verso il suolo. Infatti questi dati sono noti dall’orbita eliocentrica determinata prima della caduta dalle osservazioni astrometriche al telescopio. Ipotizzando il valore della coesione del corpo si può avere un modello sia della frammentazione, sia del termine della fase di fireball e inizio del volo buio. Tutto questo permette di determinare l’istante della collisione al suolo dei frammenti, la cui posizione determina lo strewn field. Per curiosità, seguendo questa procedura, impiegando il modello a pancake per la caduta asteroidale con una coesione di 1 MPa e il profilo dell’atmosfera calcolato per l’inizio del volo buio (così da tenere conto di velocità e direzione del vento), quello che si trova è uno strewn field quasi coincidente con quello ottenuto dalla European Fireball Network. Se il prossimo piccolo asteroide che colpirà la Terra cadrà in una landa desolata, priva di camere all-sky per la triangolazione del fireball, c’è sempre il piano B per andare comunque alla ricerca delle meteoriti, rare testimonianze della storia del Sistema solare.
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El Gordo: ecco le linee del suo campo magnetico
Immagine dell’ammasso “El Gordo” osservato dal Chandra X-ray Observatory e da telescopi ottici a terra. Il campo magnetico visualizzato dalle linee di flusso è sovrapposto all’immagine. Crediti: Nasa/Esa/Csa; Hu et al., 2023
Un gruppo internazionale di ricerca è riuscito a tracciare per la prima volta il più esteso campo magnetico all’interno di un ammasso di galassie. L’ammasso in questione è quello di “El Gordo”, il più massiccio mai osservato a grandi distanze, risalente a quando l’universo aveva circa 6,2 miliardi di anni, poco meno di metà della sua età attuale. I risultati – pubblicati su Nature Communications – offrono nuove fondamentali indicazioni per la comprensione della composizione e del processo di evoluzione degli ammassi di galassie.
«I risultati che abbiamo ottenuto pongono le basi per nuove importanti esplorazioni, su scale che fino ad ora erano inaccessibili», dice Annalisa Bonafede, professoressa al Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. «Riuscire ad approfondire i misteri del magnetismo ci può aiutare a comprendere meglio i suoi effetti sull’evoluzione della struttura a grande scala dell’universo».
Formati da enormi quantità di galassie, di gas e di misteriosa materia oscura, gli ammassi di galassie sono gli elementi centrali che compongono la più grande struttura del nostro universo: la ragnatela cosmica. Questi ammassi non sono però solo ancore gravitazionali attorno a cui si raccolgono grandi quantità di materia, ma anche spazi dinamici profondamente influenzati dal magnetismo. I campi magnetici che si trovano all’interno degli ammassi di galassie sono infatti cruciali per modellare l’evoluzione del gas contenuto in questi giganti cosmici: dirigono i flussi termici e di accrescimento e sono fondamentali sia per accelerare che per confinare le particelle cariche ad alta energia e i raggi cosmici.
Chiara Stuardi, ricercatrice all’Inaf Ira di Bologna e seconda autrice dello studio pubblicato oggi su Nature Communications, accanto a un’immagine dell’ammasso “El Gordo”. Crediti: Media Inaf
Le grandi distanze a cui si trovano gli ammassi di galassie e le complesse interazioni tra flussi di gas che avvengono al loro interno rendono però estremamente difficile riuscire a mappare i campi magnetici su scale così vaste.
Per riuscirci, gli studiosi hanno applicato una tecnica innovativa – nota come Synchrotron Intensity Gradients (Sig) – sviluppata dal gruppo di ricerca dell’Università del Wisconsin-Madsion, guidato da Alexandre Lazarian. In questo modo, grazie a osservazioni realizzate con i radiotelescopi Very Large Array (Vla) e MeerKat, gli studiosi sono riusciti a tracciare i campi magnetici rivelati dall’emissione radio proveniente da cinque ammassi di galassie, compreso El Gordo.
«L’utilizzo di questo approccio innovativo ci offre un modo nuovo per osservare e comprendere la distribuzione del campo magnetico in regioni che erano inaccessibili ai metodi tradizionali», commenta Chiara Stuardi, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna, secondo nome dello studio. «Dopo questi risultati straordinari possiamo pensare di applicare il metodo Sig per analizzare strutture cosmiche ancora più grandi, come i filamenti che mettono in connessione gli ammassi di galassie. Queste enormi strutture potranno essere osservate solo con radiotelescopi di ultimissima generazione come Ska, lo Square Kilometre Array».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Synchrotron Intensity Gradient Revealing Magnetic Fields in Galaxy Clusters”, di Yue Hu, C. Stuardi, A. Lazarian, G. Brunetti, A. Bonafede e Ka Wai Ho
Radiazione X dal frammento d’una stella esplosa
Quattro osservazioni ai raggi X del nodo oggetto dello studio guidato da Roberta Giuffrida. Nel pannello in alto a sinistra è mostrata un’osservazione del satellite Chandra realizzata nel 2003, con la linea bianca a indicare la direzione del resto di supernova. Nel pannello in alto a destra, invece, è mostrata un’immagine Chandra del 2012, con evidenziata la posizione del 2003. Nei pannelli in basso sono mostrate le osservazioni ottenute dal satellite Xmm/Newton nel 2004 e nel 2010. Crediti: R. Giuffrida et al., A&A, 2024
I resti di supernova, ovvero le nebulose in rapida espansione create dalle esplosioni di supernova, possono costituire intense sorgenti di radiazione ad alta energia, in particolare raggi X. Tale radiazione può manifestarsi in due forme: termica e non termica. La radiazione termica deriva da materiale denso ed è strettamente correlata alla temperatura del materiale. Per emettere radiazione termica ai raggi X, il materiale deve raggiungere temperature dell’ordine dei milioni di gradi. L’emissione non termica, al contrario, è il risultato di processi fisici che coinvolgono particelle ad altissima energia, o causata da transizioni atomiche in atomi altamente ionizzati.
Un meccanismo alternativo per la generazione di emissione non termica di raggi X nei resti delle supernove è associato al movimento ad altissima velocità all’interno del denso mezzo interstellare dei frammenti stellari espulsi durante la supernova. Tali frammenti possono infatti generare un’onda d’urto capace di accelerare particelle a energie elevate. Queste particelle, a loro volta, possono ionizzare gli atomi presenti nel frammento, dando luogo all’emissione di raggi X.
Diversi resti di supernova sono stati oggetto di studio nel corso degli anni, incluse alcune ricerche guidate da astronomi dell’Inaf di Palermo, allo scopo di analizzarne l’emissione non termica di raggi X. Tra questi spicca sicuramente Sn 1006. Si tratta di un resto di supernova di tipo Ia, ossia la cui progenitrice era una nana bianca in un sistema binario. Sn 1006 è un resto giovane (la supernova da cui si è formato è avvenuta nel 1006) che occupa una posizione peculiare, trovandosi a soli 7200 anni luce da noi e a una distanza di circa 1800 anni luce dal piano galattico. Nel caso di Sn 1006, l’emissione di raggi X non termica è concentrata in due lobi che si trovano in due posizioni, speculari rispetto al centro del residuo di supernova, dove l’onda d’urto accelera elettroni in maniera più efficiente.
Roberta Giuffrida, ricercatrice all’Università di Palermo e all’Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo, prima autrice dello studio su Sn 1006 pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Crediti: Inaf
Date le sue caratteristiche peculiari, non sorprende che Sn 1006 sia stato oggetto di osservazioni da parte dei più importanti osservatori ai raggi X a nostra disposizione. Osservazioni come quelle – ottenute dai satelliti Chandra e NuStar della Nasa e da Xmm/Newton dell’Esa – recentemente analizzate da un team di ricercatori guidato dall’astrofisica Roberta Giuffrida (Università di Palermo e Inaf) al fine di comprendere l’origine dell’emissione non termica di raggi X in Sn 1006. In particolare, il loro studio – in uscita su Astronomy & Astrophysics – ha focalizzato l’attenzione su una regione luminosa e compatta nelle immagini ai raggi X, e visibile anche nell’infrarosso, situata a sud-ovest e distante circa sei anni luce dall’onda d’urto del resto di supernova. L’analisi delle immagini ai raggi X ha permesso di identificare un’intensa emissione dovuta ad atomi di neon, silicio e ferro altamente ionizzati. Tale emissione non termica non è compatibile con quella prodotta da particelle relativistiche, che, fuggite dallo shock, diffondono nella nube con cui il resto di supernova sta interagendo, bensì da un frammento della stella esplosa, con una massa totale di circa un millesimo della massa solare, che si sposta a velocità estremamente elevate (migliaia di km/s) all’interno della nube.
«I resti di supernova sono il prodotto finale di esplosioni stellari come supernove. L’emissione in banda X di Sn 1006 è stata largamente di studiata», ricorda Giuffrida, «e ha permesso di identificare la sua emissione termica dovuta all’espansione dei frammenti stellari, e la sua emissione non termica localizzata nei suoi lobi a nord-est e sud-ovest. Nonostante Sn 1006 stia evolvendo in un mezzo tenue e uniforme, nei suoi lobi a nord-ovest e sud-ovest interagisce con una nube atomica. L’emissione X di resti di supernova interagenti con nubi interstellari è interessante per lo studio di emissione non termica. Le righe di emissione in questi sistemi possono essere prodotte da raggi cosmici a bassa energia interagenti con la nube o frammenti della stella esplosa che viaggiano ad altissima velocità all’interno della nube. L’analisi combinata di tre telescopi X, un telescopio infrarosso e il confronto con modelli teorici ha permesso l’identificazione di un frammento stellare ricco di ferro che si è spinto ben oltre l’onda d’urto prodotta dall’esplosione. La scoperta di questo frammento stellare è importante per lo studio della natura dell’esplosione di supernove di tipo Ia, come Sn 1006».
L’emissione non termica ai raggi X da frammenti ad alta velocità è stata precedentemente osservata in altri resti di supernova, come Ic 443, ma questa rappresenta la prima volta in cui tale emissione è osservata provenire da frammenti ricchi di ferro, silicio e neon in supernove di tipo Ia.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Indication of a fast ejecta fragment in the atomic cloud interacting with the southwestern limb of SN 1006”, di R. Giuffrida, M. Miceli, S. Ravikularaman, V. H. M. Phan, S. Gabici, P. Mertsch, S. Orlando e F. Bocchino
Settecentomila buchi neri nel cielo di eRosita
In questa immagine, metà del cielo visto a raggi X proiettato su un cerchio, con il centro della Via Lattea a sinistra e il piano galattico in orizzontale. I fotoni sono stati codificati in base alla loro energia: rosso per l’intervallo 0,3-0,6 keV, verde per 0,6-1 keV, blu per 1-2,3 keV. Crediti: Mpe, J. Sanders for the eRosita consortium
È stato reso pubblico mercoledì scorso, ed è il più grande catalogo di sorgenti cosmiche a raggi X mai prodotto. Contiene oltre 900mila sorgenti individuali così suddivise: 710mila buchi neri supermassicci, 180mila stelle della nostra galassia, 12mila ammassi di galassie e, infine, un piccolo numero di altre classi di sorgenti esotiche – come stelle binarie che emettono raggi X, resti di supernove, pulsar e altri oggetti.
A mettere insieme questo tesoro senza precedenti per l’astrofisica delle alte energie è stato il consorzio tedesco del telescopio per raggi X eRosita, lanciato il 13 luglio 2019 a bordo del satellite russo-tedesco Spektr-RG. Ed è proprio alla natura di questo consorzio che è dovuta una particolarità di questo catalogo: presenta solo metà del cielo. Un’immagine a raggi X di metà dell’universo, è infatti il titolo dell’annuncio sul sito del Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik tedesco. Questo perché, sin dall’inizio, era previsto che lo sfruttamento scientifico dei dati della survey all-sky di eRosita fosse condiviso equamente tra il consorzio tedesco e quello russo. Sono dunque stati definiti due emisferi del cielo, sui quali ogni team ha diritti unici di sfruttamento dei dati scientifici. La cooperazione con la Russia ha però subito una pesante battuta d’arresto a seguito della guerra con l’Ucraina, al punto che nel febbraio 2022 eRosita è stato messo in safe-mode e da allora la campagna scientifica è interrotta.
Un’interruzione le cui ricadute non riguardano, però, questa prima release di dati (chiamata eRass1, acronimo per first eRosita All-Sky Survey Catalogue), essendo relativa allo scan del cielo eseguito dal 12 dicembre 2019 all’11 giugno 2020. Sei mesi – tanto dura ciascuno degli all-sky scan di eRosita – durante i quali il telescopio ha rilevato, nell’intervallo di energia al quale è più sensibile (0.2-2 keV), ben 170 milioni di fotoni X: una cifra record.
Andrea Merloni (Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik), principal investigator di eRosita
«Per l’astronomia a raggi X si tratta di numeri da capogiro», dice riferendosi alle oltre 900mila sorgenti il principal investigator di eRosita, l’italiano Andrea Merloni del Max Planck, primo autore del paper – pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics – sul catalogo di eRass1. «Abbiamo rilevato più sorgenti noi in sei mesi di quanto abbiano fatto le grandi missioni Xmm-Newton e Chandra in quasi 25 anni di attività». E non esagera: nei soli primi sei mesi di osservazione eRosita ha scoperto più sorgenti di raggi X di quante ne fossero state individuate nei precedenti 60 anni di storia dell’astronomia X. Tutti dati ora disposizione della comunità scientifica mondiale.
In concomitanza con il rilascio dei dati, il consorzio tedesco eRosita ha presentato anche una cinquantina di nuovi articoli scientifici a riviste specializzate, che si aggiungono agli oltre 200 già pubblicati dal team prima del rilascio dei dati. La maggior parte dei nuovi articoli è stata pubblicata questa settimana. Articoli che riportano scoperte rese possibili dal nuovo catalogo, fra le quali quella di oltre mille superammassi di galassie, quella di un gigantesco filamento di gas warm-hot incontaminato che si estende tra due ammassi di galassie e, infine, quella di due nuovi buchi neri a emissione quasi-periodica. E ancora, studi sul modo in cui l’irraggiamento X da una stella può influenzare l’atmosfera e la capacità di trattenere acqua nei pianeti che le orbitano attorno, nonché analisi statistiche sui buchi neri supermassicci “tremolanti”.
Le sorgenti puntiformi di eRass1. Crediti: Mpe, J. Sanders for the eRosita consortium
«La portata e l’impatto scientifico di questa survey sono davvero travolgenti, è difficile descriverlo in poche parole. Ma gli articoli pubblicati dal nostro team parleranno da soli», conclude un’altra scienziata italiana del team, Mara Salvato del Max Planck, inserita da Forbes fra le 100 donne di successo del 2023, e che in qualità di portavoce del consorzio tedesco eRosita coordina gli sforzi di circa 250 scienziati, fra i quali anche Gabriele Ponti dell’Inaf di Brera e gli associati Inaf Marcella Brusa, Blessing Musiimenta e Thomas Pasini.
Terminata la survey eRass1, eRosita ha continuato a scansionare il cielo fino a quando non è stato messo in safe-mode, completando così altri all-sky scan i cui dati saranno resi pubblici nei prossimi anni.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The SRG/eROSITA all-sky survey: First X-ray catalogues and data release of the western Galactic hemisphere”, di A. Merloni et al.
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
La chimica di Winchcombe, senza trattamenti
Un frammento della meteorite recuperata a Winchcombe. Crediti: Museo di storia naturale di Londra
Le origini della vita sul nostro pianeta sono ancora oggi avvolte nel mistero. Decenni di studi di chimica prebiotica hanno portato tuttavia gli scienziati a formulare varie teorie. Tra queste, ce n’è una, la teoria della pseudo-pansmermia, che prevede che la materia prima per lo sviluppo della vita si sia formata sui ghiacci interstellari e sia poi giunta sulla Terra primordiale – oltre quattro miliardi di anni fa – con le meteoriti. Secondo questa ipotesi, le meteoriti – frammenti di asteroidi e comete provenienti dallo spazio profondo – potrebbero dunque aver recapitato sulla Terra tutti o parte dei “semi” necessari per la nascita dei sistemi autoreplicanti e autosufficienti che chiamiamo esseri viventi. I “semi” in questione sono le molecole prebiotiche, in particolare quelle sostanze che gli addetti ai lavori chiamano materia organica solubile (soluble organic matter, Som, in inglese): aminoacidi e idrocarburi policiclici aromatici, molecole essenziali per la costruzione di Rna, Dna e proteine.
Ricercare questi mattoncini della vita all’interno delle meteoriti che ci sono giunte dallo spazio è un lavoro tutt’altro che semplice. L’approccio che gli scienziati utilizzano per individuarli prevede diverse fasi, la prima delle quali è la preparazione del campione, consistente generalmente nell’estrazione della materia organica dal frammento meteorico con solventi o acidi. Si tratta di una separazione chimica delle molecole dalla roccia che, sebbene minimamente, può modificare la composizione elementare dei campioni.
Negli studi di caratterizzazione chimica di queste pietre extraterrestri, l’ideale sarebbe dunque indagare la presenza di molecole prebiotiche in un contesto petrografico che sia il meno alterato possibile, magari non prevedendo alcuna estrazione chimica preliminare. Un team di ricercatori guidato dall’Università di Münster (Germania) è ora riuscito a farlo: utilizzando un nuovo approccio metodologico, ha dimostrato – ed è la prima volta che accade – che è possibile rilevare la presenza di aminoacidi e idrocarburi in un frammento di meteorite praticamente intonso, cioè non sottoposto ad alcun trattamento chimico preliminare.
La meteorite oggetto dello studio è la meteorite di Winchcombe, un pezzo di roccia caduto nella contea di Gloucestershire, in Inghilterra, il 28 febbraio 2021 e recuperato poche ore dopo il suo avvistamento da parte della telecamere coordinate dalla UK fireball alliance.
«Le meteoriti raccolte immediatamente dopo l’avvistamento del bolide, come ne caso della meteorite di Winchcombe, sono importanti “testimoni” della nascita del nostro Sistema solare. E ciò li rende particolarmente interessanti per scopi di ricerca», spiega Christian Vollmer, ricercatore all’Università di Münster e primo autore dello studio, pubblicato su Nature Communications, che riporta i risultati della ricerca.
Nel lavoro di ricerca, Vollmer e colleghi di questo meteorite ne hanno analizzato la composizione mediante tecniche di spettroscopia di sincrotrone e microscopia elettronica ad alta risoluzione.
Composizione che mostra un frammento di meteorite a sinistra), il nanomanipolatore e la minuscola lamella attaccata a un porta campione al centro e una micrografia che mostra grani di materia organica. Crediti: SuperStem laboratory, Daresbury, UK
Il microscopio utilizzato è quello del laboratorio SuperStem di Daresbury, in Inghilterra: uno strumento che non solo permette di visualizzare i composti del carbonio con risoluzione atomica, ma può anche analizzare chimicamente i campioni per mezzo di un nuovo tipo di rilevatore. La novità dell’approccio metodologico però sta anche a monte di queste analisi. I ricercatori, infatti, non sono partiti da campioni di materia organica estratta dal meteorite, bensì da una minuscola fettina di cinque per dieci micrometri tagliata utilizzando un nano-manipolatore e un fascio ionico focalizzato. Dopo aver ottenuto le sottilissime lamelle, gli scienziati le hanno analizzate, trovando la firma sia di amminoacidi come l’alanina, la treonina e la glutammina, sia di nucleobasi come l’imidazolo, la pirimidina e l’adenina.
«Dimostrare l’esistenza di questi composti organici biologicamente rilevanti in un meteorite non trattato è un risultato significativo per la ricerca», conclude Vollmer. «Ciò significa che gli elementi costitutivi della vita possono essere caratterizzati in questi sedimenti cosmici anche senza un loro estrazione chimica». I ricercatori sono fiduciosi che le indagini e la combinazione di tecniche implementate nel loro studio saranno direttamente applicabili alla possibile rilevazione e analisi di molecole prebiotiche nei campioni Osiris-Rex recentemente restituiti dall’asteroide Bennu.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “High-spatial resolution functional chemistry of nitrogen compounds in the observed UK meteorite fall Winchcombe”, di Christian Vollmer, Demie Kepaptsoglou, Jan Leitner, Aleksander B. Mosberg, Khalil El Hajraoui, Ashley J. King, Charlotte L. Bays, Paul F. Schofield, Tohru Araki e Quentin M. Ramasse
Feeling good, sulla Luna a testa in giù
Il lander giapponese Slim appoggiato “di muso” sul suolo lunare, fotografato dal rover ausiliario Lev2. Crediti: Jaxa
Li avevamo lasciati la sera di venerdì 20 gennaio reduci da un successo storico: aver portato il Giappone nella ristretta cerchia di paesi, appena cinque, che sono riusciti a compiere un atterraggio morbido sulla Luna. Eppure apparivano tutt’altro che felici, i responsabili della missione Slim della Jaxa: a rubar loro il sorriso, avevano spiegato, era un problema sorto con l’orientamento dei pannelli solari, che li aveva costretti a spegnere temporaneamente il lander dopo nemmeno tre ore dall’approdo. Se tutto andrà bene, avevano detto, dovremmo riuscire a riattivare il lander nell’arco di qualche giorno, quando il Sole si troverà in una posizione utile a illuminare le celle fotovoltaiche.
La natura esatta del problema è diventata immediatamente chiara a chiunque giovedì scorso, il 25 gennaio, quando è stata resa pubblica la foto scattata al lander da uno dei due piccoli rover ausiliari sganciati prima di toccare il suolo – il minuscolo Lev2, una sfera rotolante grande quanto una palla da baseball. Lo scatto, diffuso attraverso X dalla stessa Jaxa, mostrava infatti una scena – quella che vedete qui sopra – dalla quale, anche a un occhio non esperto, era subito evidente che c’era qualcosa di molto sbagliato: Slim era sì almeno apparentemente intatto, ma adagiato sul suolo lunare “di muso”. Insomma, a essere orientati male non erano solo i pannelli – era l’intero lander.
Nonostante questo sconcertante imprevisto, l’eroico Slim non s’è perso d’animo ed è riuscito a non deludere, anzi: degno concittadino dell’Hirayama protagonista di Perfect Days di Wim Wenders, ha portato a termine in silenzio i suoi compiti con dedizione e ammirabile perizia. Domenica scorsa, il 28 gennaio, non appena la luce del Sole gli ha restituito energia a sufficienza per caricare le batterie, non solo si è riattivato – riprendendo le comunicazioni con la Terra come promesso – ma ha pure acquisito e inviato immagini. Immagini scientifiche. Immagini come queste che vedete qui sotto.
Crediti: Jaxa, Ritsumeikan University, The University of Aizu
Il pannello a sinistra è un mosaico di foto acquisite dalla Multi-Band Camera montata su Slim, e mostra una porzione di superficie lunare nella quale sono evidenziate alcune rocce di particolare interesse. A ciascuna di esse è stato assegnato il nome di una razza di cane scelto in modo da suggerire le dimensioni della roccia stessa. Una di queste – il sasso “Barboncino” (Toy Poodle) – è mostrata in dettaglio nel pannello sulla destra. A prima vista, grigia e sfocata com’è, non si può dire che sia uno scatto entusiasmante. Ma per chi la sa interpretare è un’immagine straordinaria: la Multi-Band Camera, infatti, è una fotocamera funzionante nel visibile e nel vicino infrarosso in grado di rispondere in modo differente a seconda del tipo di minerale di cui è fatta la roccia osservata. Grazie ai suoi dieci filtri consente, per esempio, di distinguere fino a 30 metri di distanza fra pirosseni, olivine, plagioclasi, spinelli e altri tipi di rocce. Fornendo così informazioni utili anche in vista di future missioni di colonizzazione del nostro satellite, per le quali sarà cruciale conoscere in anticipo le sostanze disponibili sul posto.
Ma l’immagine più bella è quella del tweet di oggi, riportato qui sotto: mostra l’intero team, nella sala di controllo della missione, con i volti finalmente distesi e sorridenti. Una soddisfazione che più meritata non si potrebbe.
After completing operation from 1/30 ~ 1/31, #SLIM entered a two week dormancy period during the long lunar night . Although SLIM was not designed for the harsh lunar nights, we plan to try to operate again from mid-February, when the Sun will shine again on SLIM’s solar cells. pic.twitter.com/JO4ZgDaOxo— 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) February 1, 2024
Mostri marini in agguato
Costellazione dell’idra, la più estesa costellazione del cielo. Immagine ottenuta con stellarium-web.org
I primi giorni di questo mese sono ottimi per osservare il cielo. A inizio febbraio la Luna non disturberà le osservazioni, soprattutto nella prima parte della notte. Allontanandosi dalle luci cittadine si può andare alla ricerca delle belle costellazioni che questo periodo ci offre: la costellazione di Orione con la grande nebulosa M42, visibile anche a occhio nudo in cieli bui e splendida con un binocolo o un piccolo telescopio. Sempre nella prima parte della notte potremmo ancora farci stregare dalla costellazione del Toro, con le Pleiadi e la nebulosa Granchio, il più studiato e conosciuto resto di supernova vista esplodere nel 1054. Più alte sull’orizzonte si possono ammirare le costellazione dei Gemelli, con l’ammasso M35, dell’Auriga con gli ammassi M36, M37 ed M38 e di Perseo con il Doppio Ammasso. Con il passare delle ore, il Toro e Orione volgeranno verso il tramonto a Ovest mentre ad Est sarà sempre più visibile la costellazione del Leone che attraverserà il meridiano verso l’una del mattino.
C’è una costellazione, trascurata da quasi tutti, che a partire da questo periodo si rende sempre più visibile. È la costellazione dell’Idra: la più grande costellazione del cielo in termini di estensione. Da sola si estende per ben 1303 gradi quadrati coprendo poco più del 3% dell’intera volta celeste. Man mano che passano i giorni esce dall’orizzonte quasi minacciosa, se non fosse che è costituita da stelle poco brillanti praticamente invisibili in cieli cittadini. La sua testa è sotto la costellazione del Cancro, tipica costellazione di febbraio con il suo ammasso M44, visibile anche a occhio nudo. Mentre la sua coda risiede tra le tipiche costellazioni del cielo australe quali il Cratere, la Macchina Pneumatica e il Centauro. Se avete occasione di frequentare cieli bui, provate a cercarla con una buona mappa stellare e a immaginare con molta fantasia il mostro marino che si cela dietro a una manciata di stelle deboli!
In questo periodo Sirio, la stella più luminosa del cielo, a inizio mese solcherà il meridiano sud verso le dieci di sera e con Giove saranno gli astri serali più brillanti del cielo, ovviamente dopo la Luna. Giove infatti, attualmente nella costellazione dell’Ariete, spicca ancora brillante nel cielo, a partire da dopo il tramonto. A inizio del mese transita al meridiano poco prima delle sei di sera e tramonta poco prima dell’una di notte. Sarà quindi ben visibile per tutta la prima parte della notte splendendo di magnitudine –2. Con il passare dei giorni anticiperà gradualmente il suo tramonto che a fine mese avverrà poco dopo le 23. Congiungendo con una linea immaginaria Giove e le Pleiadi è possibile, circa a metà strada, trovare un punto luminoso che non esiste nelle mappe. È Urano! Di magnitudine di poco inferiore alla sesta, sarebbe visibile anche a occhio nudo in cieli bui e con una buona vista, ma è sicuramente visibile con un binocolo e con un telescopio, anche nelle periferie delle città. Venere sarà sempre più immerso nelle luci dell’alba e visibile per poco tempo al mattino a inizio mese, sopra l’orizzonte Sud-Est.
Il cielo stellato come appare il 14 febbraio 2024 dopo il tramonto. Giove e la Luna vicini, quest’ultima con la luce cinerea. Orione sulla sinistra e Sirio più in basso.
Per San Valentino, il 14 febbraio, la Luna si troverà vicina a Giove. Se siamo alla ricerca di una serata romantica, in questa sera, a soli quattro giorni dalla Luna nuova possiamo cercare di vedere la luce cinerea e quindi la parte in ombra della luna che, rischiarata dal riflesso della terra, è perfettamente visibile nel cielo, completando la sfera della falce lunare. Orione a sinistra e Sirio più in basso completeranno il bel panorama celeste.
Segnaliamo, osservabile solo con un telescopio e sotto cieli bui, il passaggio della cometa 144P / Kushida che attraverserà prospetticamente, nei primi giorni del mese, l’ammasso delle Iadi nella costellazione del Toro. Gli osservatori e astrofotografi più accaniti potranno avvantaggiarsi della mancanza della Luna ma la magnitudine della cometa, poco oltre la nona, renderanno le osservazioni piuttosto difficili anche ai più esperti.
Infine, siamo lieti di annunciare che è attivo il canale Telegram del nostro “Cielo del mese”. Lo trovate su Telegram come Notturno Inaf ed è basato su un bot sviluppato da Luca Benassi. Tramite il canale vi terremo informati su quello che è possibile osservare in cielo. Vi aspettiamo numerosi!
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
A tavola con diciotto buchi neri
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Gli scienziati del Mit hanno identificato 18 nuovi eventi di distruzione mareale (Tde), casi estremi in cui una stella vicina viene attratta da un buco nero e fatta a pezzi. I rilevamenti hanno più che raddoppiato il numero di Tde conosciuti nell’universo vicino. Crediti: Megan Masterson, Erin Kara, et al.
Un nuovo studio condotto da scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e pubblicato su The Astrophysical Journal riporta la scoperta di 18 nuovi eventi di distruzione mareale – tidal disruption events, o Tde. Tali eventi si verificano quando sfortunate stelle si avventurano troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e vengono distrutte. Mentre il buco nero banchetta, viene emessa un’enorme esplosione di energia a tutte le frequenze dello spettro elettromagnetico. Un bump, come lo chiamano gli astronomi.
I Tde conosciuti sono stati individuati cercando proprio questi bump caratteristici, nella banda ottica e nei raggi X. Finora, queste ricerche hanno rivelato circa una dozzina di eventi di distruzione stellare nell’universo vicino, e quindi i nuovi Tde del team del Mit raddoppiano il catalogo dei Tde conosciuti nell’universo.
I ricercatori hanno individuato questi eventi, precedentemente passati inosservati, utilizzando una banda non convenzionale: l’infrarosso. Oltre a emettere esplosioni ottiche e di raggi X, i Tde possono generare radiazione infrarossa, in particolare nelle galassie “polverose”, dove un buco nero centrale è avvolto da detriti galattici. La polvere in queste galassie normalmente assorbe e oscura la luce ottica e i raggi X e qualsiasi segno della presenza di un Tde in queste bande. Nel processo tuttavia la polvere si riscalda, producendo radiazioni infrarosse rilevabili. Il team ha scoperto che le emissioni infrarosse possono essere un forte indizio della presenza di eventi di distruzione mareale.
I 18 nuovi eventi si sono verificati in diversi tipi di galassie, sparse in tutto il cielo. «La maggior parte di queste sorgenti non appare nelle bande ottiche», spiega la prima autrice Megan Masterson, del Kavli Institute for Astrophysics and Space Research. «Se si vogliono comprendere i Tde nel loro complesso e utilizzarli per sondare la demografia dei buchi neri supermassicci, è necessario guardare nella banda dell’infrarosso».
Per il nuovo studio, i ricercatori hanno cercato tra le osservazioni d’archivio effettuate da Neowise, la versione rinnovata del Wide-field Infrared Survey Explorer della Nasa. Questo telescopio spaziale è stato lanciato nel 2009 e, dopo una breve pausa, ha continuato a scansionare l’intero cielo alla ricerca di “transienti” infrarossi, o brevi esplosioni. Il team ha esaminato tali osservazioni utilizzando un algoritmo sviluppato dal co-autore Kishalay De, che individua gli schemi delle emissioni infrarosse che sono probabilmente indicativi di un’esplosione transitoria. Il team ha poi incrociato i transienti segnalati con un catalogo di tutte le galassie vicine nel raggio di 600 milioni di anni luce. Hanno scoperto che i transienti infrarossi potevano essere ricondotti a circa mille galassie.
Hanno quindi zoomato il segnale del burst infrarosso di ogni galassia per determinare se provenisse da una sorgente diversa da un Tde, come un nucleo galattico attivo o una supernova. Dopo aver escluso queste possibilità, il team ha analizzato i segnali rimanenti, alla ricerca dello schema infrarosso caratteristico di un Tde: un ripido picco seguito da un graduale calo, che riflette il processo attraverso il quale un buco nero, facendo a pezzi una stella, riscalda improvvisamente la polvere circostante a circa mille kelvin, prima di raffreddarsi gradualmente.
Questa analisi ha rivelato 18 segnali “puliti” di eventi di perturbazione mareale. I ricercatori hanno effettuato un’analisi delle galassie in cui è stato trovato ognuno di questi e hanno visto che si sono verificati in una serie di sistemi, comprese le galassie polverose, distribuiti su tutto il cielo. «Se si guardasse in cielo e si vedesse un gruppo di galassie, i Tde si verificherebbero in modo rappresentativo in tutte», dice Masteron. «Non si verifichino solo in un tipo di galassia, come si pensava basandosi solo sulle ricerche ottiche e ai raggi X».
Le scoperte del team aiutano a risolvere alcune questioni importanti nello studio degli eventi di distruzione mareale. Prima di questo lavoro, ad esempio, gli astronomi avevano osservato i Tde soprattutto in un tipo di galassia: un sistema “post-stellare” che in precedenza era stato una fabbrica di stelle, ma che poi si era stabilizzato. Questo tipo di galassie è raro e gli astronomi erano perplessi sul perché i Tde sembrassero apparire solo in questi sistemi più rari. Di fatto questi sistemi sono relativamente privi di polvere, rendendo le emissioni ottiche o di raggi X di un Tde naturalmente più facili da rilevare.
Ora, guardando nella banda dell’infrarosso, gli astronomi sono in grado di vedere i Tde in molte più galassie. I nuovi risultati del team dimostrano che i buchi neri possono divorare le stelle in una grande varietà di galassie, non solo nei sistemi post-stellari.
I risultati risolvono anche un problema legato alla presunta “energia mancante”. I fisici hanno previsto teoricamente che i Tde dovrebbero irradiare più energia di quella effettivamente osservata. Ma il team del Mit sostiene che la polvere potrebbe spiegare la discrepanza: se un Tde si verifica in una galassia polverosa, la polvere stessa potrebbe assorbire non solo le emissioni ottiche e di raggi X, ma anche la radiazione ultravioletta estrema, in una quantità equivalente alla presunta energia mancante.
Inoltre, i 18 nuovi rilevamenti aiutano gli astronomi a stimare la velocità con cui si verificano questi eventi in una determinata galassia. Sommando i nuovi Tde con i rilevamenti precedenti, si stima che una galassia subisca un evento di distruzione mareale una volta ogni 50mila anni. Questo tasso si avvicina alle previsioni teoriche dei fisici. Con ulteriori osservazioni nell’infrarosso, il team spera di risolvere il tasso dei Tde e le proprietà dei buchi neri che li alimentano.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “A New Population of Mid-Infrared-Selected Tidal Disruption Events: Implications for Tidal Disruption Event Rates and Host Galaxy Properties” di Megan Masterson, Kishalay De, Christos Panagiotou, Erin Kara, Iair Arcavi, Anna-Christina Eilers, Danielle Frostig, Suvi Gezari, Iuliia Grotova, Zhu Liu, Adam Malyali, Aaron M. Meisner, Andrea Merloni, Megan Newsome, Arne Rau, Robert A. Simcoe e Sjoert van Velzen
Antico lago marziano, la conferma da Perseverance
Da circa tre anni il rover Perseverance passeggia sul suolo marziano. Sono 1048 Sol, o giorni marziani, durante i quali ha percorso quasi 25 km zigzagando nel cratere Jezero, sede di un antico lago marziano, e raccogliendo 23 campioni di suolo marziano da riportare sulla Terra. Fra il 10 maggio e l’8 dicembre 2022 Perseverance ha attraversato la zona di contatto fra il fondo del cratere e il delta di un antico fiume che lo alimentava, analizzando il sottosuolo con il suo strumento radar. I risultati sono stati pubblicati la scorsa settimana in un articolo su Science Advances.
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Secondo le ricostruzioni storiche e geologiche più accreditate, il cratere Jezero, la cui origine è da attribuirsi a un grosso impatto con un meteorite, è stato un grande lago di acqua liquida alimentato da un fiume che, nel tempo, ha depositato strati di sedimenti sul pavimento del cratere. Il lago si è poi ridotto e i sedimenti trasportati dal fiume hanno formato un enorme delta. Quando il lago si è prosciugato, i sedimenti del cratere sono stati erosi, formando alcune caratteristiche geologiche particolari visibili oggi in superficie.
Nella parte posteriore del rover Perseverance si trova uno strumento, il Radar Imager for Mars’ Subsurface Experiment, o Rimfax, che è in grado di “vedere” sotto la superficie di Marte fino ad almeno 10 metri (o più, in base al materiale che incontra) di profondità, con una risoluzione verticale da 15 a 30 centimetri. Rimfax ha campionato, misurando il sottosuolo ogni 10 centimetri lungo il suo percorso, tutta la regione di contatto fra il cratere e il delta del fiume, riuscendo a scavare con gli occhi fino alla base dei sedimenti, dove si trova la superficie sepolta del pavimento del cratere. Per capire come il rover ha campionato il sottosuolo potete guardare l’animazione qui sopra.
Le misure radar hanno confermato che laggiù, un tempo, vi era davvero un lago coperto d’acqua, e hanno permesso anche di ricostruire una sequenza di erosioni e successivi depositi lacustri che lasciano ben sperare gli astrobiologi che sperano di trovare tracce di vita passata nei campioni raccolti da Perseverance. In particolare, la ricostruzione del sottosuolo ha evidenziato, più in profondità, uno strato di sedimenti orizzontali depositati su una superficie già precedentemente erosa e craterizzata. Questa prima successione di sedimenti orizzontali, secondo le misurazioni, è stata depositata in un ambiente acquoso che probabilmente si estendeva ben oltre l’attuale posizione del delta. Su questi sedimenti basali si sono poi depositati strati successivi di sedimenti in intervalli di tempo variabili, tutti caratterizzati anche da un periodo di erosione intermedio. Gli autori dell’articolo attribuiscono questa sequenza di eventi e stratificazioni a due distinti periodi di deposizione di sedimenti e altrettanti periodi di erosione, concludendo che la storia geologica di questa regione potrebbe essere stata guidata da cambiamenti su larga scala – con tempi scala geologici – nell’ambiente marziano.
Insomma, tutto lascia pensare che la scelta del luogo di atterraggio di Perseverance sia stata oculata. «È bello poter vedere così tante evidenze di cambiamento in un’area geografica così piccola, e questo ci permette di estendere le nostre scoperte alla scala dell’intero cratere», dice il primo autore dello studio, David Paige, dell’Università della California – Los Angeles. Nel video qui sotto – di Lior Rubanenko, Emily Cardarelli, Justin Maki e dello stesso Paige (Ucla, Jpl/Nasa) – possiamo ammirare anche noi il suolo del cratere Jezero in soggettiva mentre Perseverance lo percorre. Per sapere che cosa si cela all’interno dei sedimenti, invece, dovremo attendere le missioni che riporteranno i campioni sulla Terra, con il programma Mars Sample Return.
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Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Ground penetrating radar observations of the contact between the western delta and the crater floor of Jezero crater, Mars“, di David A. Paige, Svein-Erik Hamran, Hans E. F. Amundsen, Tor Berger, Patrick Russel, Reva Kakaria, Michael T. Mellon, Sigurd Eide, Lynn M. Carter, Titus M. Casademont, Daniel C. Nunes, Emileigh S. Shoemaker, Dirk Plettemeier, Henning Dypvik, Sanna Holm-Alwmark e Briony H. N. Horgan
Nei dati di Lro, l’inquietudine sismica della Luna
Mosaico della regione del polo sud lunare ottenuto dalla Wide Angle Camera (Wac) montate sul Lunar Reconnaissance Orbiter. Crediti: Nasa/Gsfc/Arizona State University
Il nostro satellite naturale all’apparenza sembra un luogo tranquillo. Tuttavia, nonostante l’immagine di quiete e serenità che trasmette, la sua superficie è soggetta a stress di compressione globale che lo rendono un corpo dinamico e inquieto: sollecitazioni dovute al raffreddamento interno e stress mareali causati dal suo lento allontanamento dalla Terra – la cosiddetta recessione lunare – hanno prodotto e continuano a produrre una riduzione della sua circonferenza. L’effetto più evidente di questo raggrinzimento è la formazione, nei punti in cui le sezioni della crosta lunare si spingono l’una contro l’altra, di faglie tettoniche, ovvero creste rugose, formate per contrazione, e avvallamenti, formati per espansione, che sono spesso associate ad attività sismica.
Di questi squarci della superficie a oggi ne sono stati individuati diversi in diverse aree della Luna. Un team di scienziati guidati dallo Smithsonian Institution ha ora scoperto prove di simili deformazioni anche al polo sud lunare, alcune delle quali si trovano molto vicine a uno dei tredici siti proposti dalla Nasa per la missione con equipaggio Artemis III, rappresentando un pericolo per i futuri sforzi di esplorazione umana.
Le faglie in questione sono state individuate analizzando i dati raccolti dalla Narrow Angle Cameras (Nac) a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro), la sonda della Nasa che dal 2009 ci restituisce le immagini della Luna con la più alta risoluzione mai ottenuta dall’orbita del satellite. L’indagine, condotta dallo scienziato dello Smithsonian Institution Thomas Watters e colleghi, ha permesso di rilevare la presenza di 15 faglie già note, chiamate dagli addetti ai lavori scarpate lobate. Si tratta di lunghe strutture curvilinee di natura tettonica, risultanti dalla formazione di faglie inverse, il processo in cui una sezione di crosta (detta tetto) viene spinta sopra una sezione di crosta adiacente (detto letto). Insieme a queste strutture note, il team ha però individuato anche faglie precedentemente sconosciute. Una di queste, o meglio, un insieme di queste faglie, chiamato dai ricercatori de Gerlache cluster, ha catturato l’attenzione dei ricercatori. Il motivo? Si trova all’interno dell’area de Gerlache Rim 2, il sito proposto dalla Nasa per l’atterraggio dell’equipaggio di Artemis III, la missione che riporterà l’essere umano sulla Luna.
Il cluster de Gerlache, spiegano i ricercatori, è un insieme di faglie che si trovano entro i 60 chilometri dal polo sud lunare. All’interno del cluster, la scarpata più grande è lunga circa 4 chilometri e mostra un recente movimento di regolite verso il basso a livello di due depressioni, interpretate dai ricercatori come crateri da impatto di circa 160 m e 70 m di diametro rispettivamente.
L’immagine mostra le aree di instabilità delle scarpate superficiali nella regione del polo sud lunare. I punti blu indicano le aree meno instabili, i punti verdi quelle moderatamente instabili e i punti rossi le aree più instabili. Le posizioni dei siti di sbarco proposte per la missione Artemis III sono mostrate dai quadrati blu.. Crediti: Nasa/Lroc/Asu/Smithsonian Institution
Vista la vicinanza di queste faglie al sito di atterraggio di Artemis III, il team ha indagato la possibilità che queste deformazioni possano essere la diretta conseguenza di lunamoti, in particolare di uno dei più potenti mai registrati dai sismometri delle missioni dell’Apollo: il lunamoto superficiale conosciuto col nome in codice Smq n9.
Smq n9 sta per Shallow moonquake number 9, cioè lunamoto superficiale numero 9. I lunamoti superficiali sono sismi che si verificano vicino alla superficie della Luna, a circa centosessanta chilometri di profondità. Similmente ai terremoti, questi eventi sono causati da faglie all’interno della crosta. Ma a differenza delle scosse terrestri, che tendono a durare solo pochi secondi o minuti, i lunamoti superficiali possono durare ore, e possono essere molto più forti. Smq n9, in particolare, si è verificato il 13 marzo 1973 vicino al polo sud, con epicentro localizzato alle coordinate 84 gradi sud e 134 gradi est. Analizzando le mappe degli epicentri di tutti i 28 terremoti lunari registrati dal 1969 al 1977 dalle missioni Apollo, riviste utilizzando un nuovo algoritmo per reti sismiche, i ricercatori hanno scoperto che l’epicentro di Smq n9 si trova entro 24 chilometri dal cluster de Gerlache. È quindi plausibile, sottolineano i ricercatori, che le faglie di de Gerlache siano state la fonte del lunamoto Smq n9.
A questo punto i ricercatori si sono chiesti che cosa accadrebbe se si verificasse adesso un terremoto della potenza di Smq n9, paria circa 6 di magnitudo. E quale fosse il potenziale pericolo rappresentato da un simile evento.
Per rispondere a queste domande, hanno modellato la propagazione di onde sismiche lungo la serie di faglie in questione. Le simulazioni, una delle quali è mostrata nel filmato in basso, hanno generato lunamoti da moderati a forti, tutti in grado di estendersi fino a circa 50 chilometri di distanza. Ma non è finita. Le simulazioni hanno mostrato inoltre che alcune faglie sono particolarmente suscettibili a frane e instabilità, soprattutto là dove la regolite ha una bassa coesione. Ciò, secondo Nicholas Schmerr, professore presso l’Università del Maryland e coautore dello studio, significa chiaramente che un ipotetico terremoto superficiale al polo sud lunare potrebbe devastare ipotetici insediamenti umani sulla Luna.
«I nostri modelli suggeriscono che i lunamoti superficiali sono capaci di produrre forti scosse del terreno nella regione del polo sud lunare. Questi eventi possono essere prodotti da fenomeni di scivolamento di faglie tettoniche esistenti o di nuova formazione», spiega Thomas R. Watters, primo autore dello studio pubblicato su Planetary Science Journal. «La distribuzione globale delle giovani faglie inverse, il loro potenziale di essere attive e il potenziale di formarne nuove a causa della contrazione lunare in atto dovrebbero essere prese in considerazione quando si scelgono i siti degli avamposti permanenti sulla Luna», aggiunge lo scienziato.
L’obiettivo dei ricercatori è di continuare a mappare l’attività sismica del nostro satellite naturale, sperando di identificare più luoghi da inserire nella lista nera dei siti per l’esplorazione umana.
«Man mano che ci si avvicina alla data di lancio della missione Artemis con equipaggio, è importante mantenere i nostri astronauti, le attrezzature e le infrastrutture il più sicuri possibile», conclude Schmerr. «Questo lavoro ci sta aiutando a prepararci per ciò che ci aspetta sulla Luna, sia che si tratti di progettare strutture in grado di resistere meglio all’attività sismica della Luna o di proteggere le persone da zone potenzialmente pericolose».
Per saperne di più:
- Leggi su Planetary Science Journal l’articolo “Tectonics and Seismicity of the Lunar South Polar Region” di T. R. Watters, N. C. Schmerr, R. C. Weber, C. L. Johnson, E. J. Speyerer, M. S. Robinson e M. E. Banks
Guarda la simulazione di Nicholas Schmerr (Università del Maryland) di un lunamoto superficiale al polo sud lunare:
La decadenza del falso vuoto
Impressione artistica di ciò che i ricercatori sono riusciti a fare: gli atomi si trovano in una configurazione in cui sono allineati tutti verso l’alto, il “falso vuoto” (frecce nell’immagine). Grazie al controllo estremamente preciso dei parametri sperimentali (campo magnetico, etc) è stato possibile modificarne le proprietà e renderlo più o meno metastabile. Il decadimento avviene quando in una porzione spaziale della nuvola cambia l’orientamento di parecchi atomi e una bolla nasce (vedi frecce rosse nell’immagine). Crediti: A. Zenesini (Pitaevskii Bec Center)
Un esperimento condotto in Italia, al Pitaevskii Center for Bose-Einstein Condensation di Trento, ha prodotto la prima prova sperimentale del decadimento del falso vuoto. Questo processo avviene attraverso la creazione di piccole bolle localizzate che, sebbene previste dalla teoria, fino a oggi non erano mai state “viste”. Ora, un gruppo di ricerca internazionale che coinvolge scienziati dell’Università di Trento e dell’Università di Newcastle (Regno Unito) ha osservato per la prima volta la formazione di queste bolle in sistemi atomici attentamente controllati. Pubblicati sulla rivista Nature Physics, i risultati offrono una prova sperimentale della formazione di bolle attraverso il decadimento del falso vuoto in un sistema quantistico.
Per capire cosa sia il falso vuoto e come siano riusciti a rivelarne il decadimento, Media Inaf ha raggiunto e intervistato il primo autore, Alessandro Zenesini, primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica del Cnr, specializzato nella fisica sperimentale degli atomi ultrafreddi. Attualmente Zenesini lavora presso il Pitaevskii Bec Center, dopo un dottorato a Pisa e undici anni passati tra Austria e Germania.
Zenesini, ci può spiegare cosa si intende per decadimento del vuoto?
«Nella fisica moderna il vuoto è qualcosa di più complicato di quello che il senso comune ci dice. Il vuoto è popolato di particelle che nascono e scompaiono in tempi brevissimi e il vuoto può essere visto come una particolare configurazione in cui le particelle elementari e i loro campi del Modello standard si sono “organizzate” dopo il Big Bang. È quindi lecito aspettarsi che questa configurazione possa non essere quella con energia più bassa e possa esserci un’altra configurazione con minore energia, il vero vuoto. Nella terminologia comune, il falso vuoto è una configurazione metastabile di alta energia e il vero vuoto è quella stabile di energia complessiva minima. La possibilità che il falso vuoto decada nel vero vuoto è stata studiata per anni, in similitudine al fenomeno del tunneling quantistico della singola particella, ma con la notevole complicazione che il vuoto non è un oggetto singolo che attraversa una barriera imposta, ma una configurazione composta da molte particelle e campi estesi spazialmente».
Particolare del set-up strumentale al Pitaevskii Bec Center di Trento. Crediti: A. Zenesini (Pitaevskii Bec Center)
Lo studio riporta che il decadimento del falso vuoto avviene attraverso la creazione di piccole bolle localizzate. Cosa sono queste bolle?
«Il decadimento del falso vuoto non può avvenire con una riconfigurazione simultanea di tutto l’universo, perché violerebbe la conservazione dell’energia. Il decadimento avviene quindi in una regione limitata di spazio, almeno in una prima fase. La bolla appunto. Nella bolla, l’energia che si guadagna all’interno avendo creato il vero vuoto, viene controbilanciata dalla tensione superficiale della bolla che dipende dall’energia cinetica. Si ha quindi una configurazione con bolla che ha la stessa energia del sistema totalmente di falso vuoto. Questo permette un decadimento con conservazione dell’energia. Una volta nata la bolla, può espandersi senza barriere e occupare tutto il sistema. Una caratteristica interessante è che la bolla può nascere in un punto qualsiasi dello spazio e la nascita della bolla è un processo stocastico. Non si sa né quando né dove. Questo processo ha notevoli similitudini con quello che può essere osservato nell’acqua sopraffusa, cioè acqua purissima raffreddata sotto la temperatura di congelamento pur rimanendo liquida».
Come avete fatto a “vedere” le bolle? In cosa consiste il vostro esperimento?
«Nel nostro esperimento utilizziamo nuvole di atomi di sodio, circa un milione, raffreddati allo stato di condensazione di Bose Einstein. In questo stato si comportano all’unisono come piccoli magneti e l’equazione che regola la loro dinamica è analoga a quella di un campo quantistico, come il campo di Higgs per esempio. Abbiamo preparato gli atomi in una configurazione in cui erano allineati tutti verso l’alto, il nostro “falso vuoto” (vedi frecce nell’immagine d’apertura). Grazie al controllo estremamente preciso dei parametri sperimentali (campo magnetico, eccetera) possiamo modificarne le proprietà e renderlo più o meno metastabile. Il decadimento avviene quando, come detto, in una porzione spaziale della nuvola cambia l’orientamento di parecchi atomi e una bolla nasce (vedi frecce rosse nell’immagine). Bisogna considerare che il nostro processo di imaging distrugge la nuvola di atomi. Si tratta pur sempre di un oggetto quantistico che viene fortemente influenzato dall’osservatore. Dobbiamo ricreare una nuova nuvola ogni volta, con le stesse proprietà. Anche se non possiamo osservare la nascita e la dinamica della bolla come in un film, possiamo raccogliere tante immagini in cui una bolla è nata da poco o tanto tempo, può esserci o non esserci. Abbiamo misurato questa probabilità di apparizione al variare dei parametri sperimentali e corroborata dalle simulazioni numeriche del nostro sistema».
Alessandro Zenesini è primo ricercatore all’Istituto nazionale di ottica del Cnr ed è specializzato nella fisica sperimentale degli atomi ultrafreddi. Dopo il dottorato a Pisa e undici anni passati tra Austria e Germania, è tornato in Italia e lavora presso il Pitaevskii Bec Center
Quali ripercussioni può avere il fatto di aver validato l’esistenza del decadimento del vuoto?
«La teoria del decadimento di falso vuoto è nata con in mente processi cosmologici e la fisica delle alte energie, ma lì le energie in gioco sono ben lontane dalle capacità sperimentali attuali. Nel campo degli atomi ultrafreddi si ha invece un controllo così preciso e stabile dei parametri sperimentali che negli ultimi anni vari esperimenti sono stati in grado di studiare il Modello standard in situazioni dove non è importante quanto forte fai scontrare le particelle, ma quanto precisamente sai misurarne le proprietà. Nel nostro esperimento non osserviamo il decadimento di vuoto dell’universo, ma riusciamo a ricreare e studiare un processo analogo nel nostro emulatore atomico. Uno degli aspetti più spettacolari è che usiamo le stesse formule ed equazioni sviluppate in campo cosmologico, grazie alla collaborazione con Ian Moss dell’Università di Newcastle, noto cosmologo che in passato ha collaborato anche con Stephen Hawking».
Il comunicato stampa riporta che, secondo Moss, il decadimento del vuoto del bosone di Higgs altererebbe le leggi della fisica, producendo quella che è stata descritta come la catastrofe ecologica finale. C’è da preoccuparsi?
«Per questo possiamo stare tranquilli. Il nostro universo non collasserà a causa del nostro esperimento. I nostri risultati possono essere usati per raffinare le teorie esistenti o per svilupparne di nuove. In primis possono servire a capire meglio la dinamica degli atomi ultrafreddi e successivamente a migliorare le teorie cosmologiche attuali».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “False vacuum decay via bubble formation in ferromagnetic superfluids” di Zenesini, A. Berti, R. Cominotti, C. Rogora, I. G. Moss, T. P. Billam, I. Carusotto, G. Lamporesi, A. Recati & G. Ferrari
Una fornace di stelle dietro casa
Una pallida nuvoletta sfilacciata. All’osservatore che si trovi nell’emisfero australe tale è la parvenza con cui si mostra a occhio nudo la Grande Nube di Magellano, galassia satellite della Via Lattea, probabilmente ignota agli europei prima delle grandi esplorazioni geografiche iniziate nel XV secolo. Denominata “grande” per distinguerla dalla sua omonima più piccola, in realtà viene spesso indicata come una galassia nana, situata a circa centosessantamila anni luce dalla Via Lattea, presenza pacifica delle notti del sud.
La Grande (a sinistra) e la Piccola nube di Magellano fotografate dall’Osservatorio di La Silla in Cile. La striscia che solca l’immagine è un satellite. Crediti: F. Loiacono
Eppure, se andiamo ad esaminarla con un telescopio, questa nuvoletta appare tutt’altro che placida. Una tumultuosa attività di formazione stellare agita infatti diverse aree di questa galassia, molto più piccola della Via Lattea, e che eppure detiene il record di ospitare la più vasta e brillante regione di formazione stellare di tutto il Gruppo Locale (30 Dorado, anche nota come Nebulosa Tarantola). Di recente, il telescopio spaziale James Webb ha osservato un’altra regione di formazione stellare all’interno di questa galassia. Situata in una zona a sud-ovest della Grande Nube di Magellano, località pressoché inesplorata della nostra vicina di casa, la nebulosa N79 è una regione ricchissima di idrogeno ionizzato che si estende per oltre mille e seicento anni luce. Pare che questo oggetto sia stato addirittura due volte più efficiente rispetto alla più nota 30 Dorado, pure osservata di recente con Webb, nel convertire il gas in stelle nell’ultimo mezzo milione di anni.
Immagine della regione di formazione stellare N79 realizzata con MIRI, lo strumento del Telescopio Spaziale James Webb che osserva nel medio infrarosso. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, M. Meixner
Anche all’occhio più distratto non saranno sfuggiti i raggi che si diramano dalla stella che domina la parte alta dell’immagine. Sono la “firma” di Webb, dovuta alla geometria esagonale dello specchio del telescopio spaziale, e visibile attorno a tutti gli oggetti compatti, che siano stelle oppure quasar remoti, che vengano intercettati dallo sguardo acutissimo di questo strumento. L’immagine è stata realizzata da Miri, uno strumento di Webb che scruta l’universo nel medio infrarosso. A queste lunghezze d’onda l’emissione di molecole di carbonio e idrogeno e quella della polvere scaldata dalle stelle appena nate dominano la scena. Astri in formazione avviluppati dalla polvere sono infatti alcune dei “pallini” luminosi che si scorgono in questa immagine.
Le regioni di formazione stellare della Via Lattea e delle galassie limitrofe sono luoghi di particolare interesse poiché, in virtù della loro vicinanza, consentono agli astronomi di studiare nel dettaglio i processi fisici e chimici che si verificano nelle prime, nebulose fasi della vita delle stelle. In particolare, la Grande Nube di Magellano offre un ambiente unico per studiare i meccanismi di formazione stellare che agitavano l’universo nella sua gioventù. La composizione chimica che si misura nella nostra vicina è infatti non dissimile da quella che caratterizzava le galassie in quello che è probabilmente stato il momento di formazione stellare più rocambolesco nella storia del cosmo. L’universo ha infatti sperimentato fasi variabili nella generazione di nuovi astri. Gli astronomi pensano che il culmine di questo processo si sia verificato poco più di dieci miliardi di anni fa.
A N79 l’Agenzia spaziale europea ha dedicato l’immagine del mese di gennaio sulla pagina del telescopio Webb.
Grovigli di polvere dopo la fusione fra galassie
In questa immagine catturata dal telescopio Gemini South, sono evidenti le intricate corsie di polvere della galassia Ngc 4753. Uno studio del 1992 ha scoperto che la complessa rete di corsie che la caratterizza è probabilmente il risultato di una fusione con una vicina galassia nana compagna circa 1,3 miliardi di anni fa. Crediti: International Gemini Observatory/ NOIRLab/ NSF/ AURA; J. Miller (International Gemini Observatory/ NSF’s NOIRLab), M. Rodriguez (International Gemini Observatory/ NSF’s NOIRLab), M. Zamani (NSF’s NOIRLab)
L’universo osservabile è popolato da un numero sorprendente di galassie, che secondo stime recenti si aggira tra i 100 miliardi e i 2mila miliardi. Come fiocchi di neve, non ce ne sono due esattamente uguali. In base al loro aspetto e alle loro caratteristiche fisiche, possono essere suddivise in quattro grandi classi: ellittiche, lenticolari, irregolari e a spirale, con molte sottoclassi intermedie. Tuttavia, le galassie sono oggetti dinamici che si evolvono nel tempo interagendo con l’ambiente circostante, il che significa che nel corso della sua vita una singola galassia può rientrare in più classificazioni.
Si pensa che questo sia il caso di Ngc 4753, che gli astronomi ipotizzano sia nata come una normale galassia lenticolare, ma che si sia trasformata in una galassia peculiare dopo una fusione con una vicina galassia nana, più di un miliardo di anni fa. Le galassie peculiari sono galassie la cui dimensione, forma o composizione sono insolite, fuori dal comune. Si stima che tra il cinque e il dieci per cento delle galassie conosciute sia classificato come peculiare ed esiste un bellissimo catalogo compilato da Halton Arp nel 1966 – l’Atlante delle galassie peculiari – che raccoglie 338 galassie di questo tipo.
Ma torniamo a Ngc 4753. Scoperta dall’astronomo William Herschel nel 1784, la galassia presenta alcune caratteristiche davvero affascinanti. Nell’immagine che vi proponiamo, catturata dal telescopio Gemini South, si possono notare intricate corsie di polvere che sembrano girare intorno al nucleo della galassia.
Ngc 4753 si trova a circa 60 milioni di anni luce di distanza nella costellazione della Vergine. Fa parte del gruppo di galassie Ngc 4753 all’interno della nube Virgo II, una serie di almeno 100 ammassi di galassie e galassie singole che si estendono al margine meridionale del superammasso della Vergine.
Da tempo le distinte corsie di polvere di Ngc 4753 incuriosiscono gli astronomi e sono le caratteristiche irregolari che le conferiscono la classificazione di galassia peculiare. Effettivamente, vista quasi di profilo dalla Terra, questa galassia può apparire piuttosto misteriosa ma nel 1992 un gruppo di astronomi guidati da Tom Steiman-Cameron, oggi ricercatore presso l’Università dell’Indiana, ha pubblicato uno studio dettagliato di Ngc 4753 in cui ha scoperto che la sua forma complicata è probabilmente il risultato di una fusione con una piccola galassia compagna.
Un modello di Ngc 4753 visto da diversi punti di osservazione, che corrispondono a orientazioni diverse. Da sinistra a destra e dall’alto in basso, l’angolo della linea di vista rispetto al piano equatoriale della galassia varia da 10° a 90° con incrementi di 10°. Sebbene galassie simili a Ngc 4753 non siano rare, solo alcuni orientamenti di osservazione permettono di identificare facilmente un disco molto contorto. Crediti: NOIRLab/ NSF/ AURA/ Steiman-Cameron et al./ P. Marenfeld
Le fusioni galattiche si verificano quando due (o più) galassie si “scontrano”, causando il rimescolamento del loro materiale e alterando in modo significativo la forma e il comportamento di ciascuna galassia coinvolta. Nel caso di Ngc 4753, si pensa che circa 1,3 miliardi di anni fa la galassia lenticolare originale si sia fusa con una vicina galassia nana ricca di gas. Il gas della galassia nana, insieme alle esplosioni di formazione stellare innescate da questa collisione galattica, ha iniettato nel sistema grandi quantità di polvere. La spirale verso l’interno della galassia, dovuta alla gravità, ha poi fatto sì che la polvere accumulata si distribuisse a forma di disco. Ed è qui che la storia si fa interessante.
Steiman-Cameron e il suo team hanno scoperto che un fenomeno noto come precessione differenziale è responsabile delle corsie di polvere aggrovigliate di Ngc 4753. La precessione si verifica quando l’asse di rotazione di un oggetto cambia orientamento, come una trottola quando sta rallentando. La velocità di precessione varia a seconda del raggio. Nel caso di un disco di accrescimento polveroso in orbita attorno a un nucleo galattico, il tasso di precessione è più veloce verso il centro e più lento vicino ai bordi. Questo moto variabile, simile a un’oscillazione, deriva dall’angolo di collisione tra Ngc 4753 e la sua precedente compagna nana ed è la causa delle corsie di polvere aggrovigliate che vediamo oggi, avvolte attorno al nucleo luminoso della galassia.
«Per molto tempo nessuno sapeva cosa fare di questa galassia particolare», conclude Steiman-Cameron. «Ma partendo dall’idea di materiale accumulato spalmato in un disco e analizzando la geometria tridimensionale, il mistero è stato risolto. Ora è incredibilmente emozionante vedere questa immagine così dettagliata del Gemini South, 30 anni dopo».
Anche se Ngc 4753 sembra essere unica nel suo genere, potrebbe non essere così. Secondo Steiman-Cameron, se si osservasse il disco polveroso contorto dall’alto, probabilmente non sarebbe diverso da una normale galassia a spirale. È solo grazie al nostro punto di vista, grazie al quale la vediamo quasi di taglio, che siamo in grado di vedere l’intera portata delle sue intricate corsie di polvere. Questo significa che tali caratteristiche peculiari potrebbero non essere così rare come sembrano.
Per saperne di più:
Così Marte pompa il metano nell’atmosfera
Il rover Curiosity della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss
Uno degli obiettivi primari delle attuali missioni su Marte è rilevare segni di vita presente o passata sul pianeta. Uno di questi segni, che gli addetti ai lavori chiamano biofirme, è rappresentato dal metano. Costituito da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno, questo gas riveste particolare interesse astrobiologico per la sua potenziale associazione con la vita microbica.
Sul Pianeta rosso la molecola è stata rilevata più volte dal rover Curiosity della missione Mars Science Laboratory. In particolare, poco sopra la superficie del cratere Gale, nella porzione di atmosfera posta a diretto contatto con il suolo – il cosiddetto strato limite planetario, o Planetary Boundary Layer (Pbl) – la sonda della Nasa ha registrato concentrazioni del gas che sembrano fluttuare stagionalmente e su scala temporale giornaliera. Queste osservazioni hanno generato un dibattito nella comunità scientifica, dovuto al mancato rilevamento di metano a quote medio-alte da parte dell’orbiter dell’Esa ExoMars Trace Gas Orbiter (Tgo). Secondo i ricercatori, questa discrepanza tra le misurazioni può essere spiegata dall’esistenza di processi di migrazione ed emissione del metano verso la superficie di natura episodica, simili a quelli conosciuti sulla Terra come “trasudamenti di gas naturale” (gas seepage, in inglese), seguiti da un processo di distruzione rapida del gas.
Sorgono a questo punto diverse domande: a cosa è dovuta la natura episodica delle emissioni? E ancora: dato che la fonte di metano su Marte molto probabilmente si trova nel sottosuolo, come conciliare le variazioni atmosferiche del gas con un eventuale meccanismo di trasporto?
A rispondere a queste domande ci ha provato un team di ricercatori del Los Alamos National Laboratory (Lanl) che, utilizzando potenti supercalcolatori, ha simulato il trasporto di metano dal sottosuolo verso l’atmosfera guidato da un meccanismo che prevede il rilascio di gas sotto la spinta di fluttuazioni della pressione atmosferica. Un meccanismo noto come pompaggio barometrico.
«I sistemi meteorologici sono associati a cambiamenti nella pressione atmosferica» spiega a questo proposito John P. Ortiz, ricercatore al Los Alamos National Laboratory e primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Journal of Geophysical Research – Planets, che riporta i risultati della ricerca. «I sistemi temporaleschi, ad esempio, portano bassa pressione. Condizioni di cielo sereno sono associate invece ad alta pressione. Questi cambiamenti di pressione si impongono anche sui terreni e sulle rocce sotto i nostri piedi. Se i terreni e le rocce hanno fratture ben collegate, i cambiamenti della pressione atmosferica possono spingere o estrarre gas da questi materiali geologici. Questo fenomeno è noto come pompaggio barometrico».
Illustrazione che mostra come il meccanismo del pompaggio barometrico possa essere responsabile del trasporto di metano dal sottosuolo alla superficie di Marte. Crediti: John P. Ortiz et al., JGR Planets, 2024
Nello studio i ricercatori non solo hanno simulato il trasporto di metano attraverso questo meccanismo, ma hanno anche modellano l’adsorbimento delle molecole del gas sulla superficie delle fratture della roccia marziana al variare della temperatura, valutando infine la quantità della molecola che si mescola in uno strato limite planetario simulato.
Le abbondanze di metano modellate in questo lavoro sono controllate da due fattori, spiegano i ricercatori: il trasporto sotterraneo guidato dal pompaggio barometrico e la dinamica dello strato limite planetario.
I risultati delle simulazioni, aggiungono gli scienziati, sono compatibili con emissioni di metano nell’atmosfera che si verificano nella stagione estiva all’emisfero Nord del pianeta appena prima dell’alba, confermando i dati ottenuti dal rover Curiosity, secondo cui i livelli del gas variano non solo stagionalmente, ma anche giornalmente.
L’emissione di metano nei modelli è cambiata inoltre in modo significativo con la dimensione delle fratture del sottosuolo, dalle quali dipende l’effetto della pressione atmosferica sul trasporto di gas, suggerendo che le variazioni di metano nel cratere Gale siano influenzate anche dall’interazione tra la geologia del sottosuolo e le condizioni atmosferiche.
Per testare il meccanismo di trasporto proposto in questo studio ed estendere l’attuale caratterizzazione della variazione diurna del metano su Marte, i ricercatori propongono una serie di misurazioni con lo strumento Tunable Laser Spectrometer (Tls) a bordo di Curiosity, da condurre a metà della prossima estate nell’emisfero Nord di Marte. I ricercatori suggeriscono due opzioni di misurazione, una a metà/tarda mattinata e una in prima serata, ciascuna delle quali permetterebbe di vincolare meglio l’apparente calo mattutino del metano e l’evoluzione dell’aumento notturno. Inoltre, entrambe le misurazioni possono supportare o confutare l’influenza di un meccanismo di trasporto come il pompaggio atmosferico.
«Il nostro lavoro suggerisce diverse finestre temporali chiave in cui Curiosity può raccogliere dati» concludono i ricercatori. «Riteniamo che queste finestre temporali offrano le migliori possibilità di vincolare la tempistica delle fluttuazioni del metano e – si spera – di avvicinarci alla comprensione della sua provenienza su Marte».
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Geophysical Research: Planets l’articolo “Sub-Diurnal Methane Variations on Mars Driven by Barometric Pumping and Planetary Boundary Layer Evolution” di J. P. Ortiz, H. Rajaram, P. H. Stauffer, K. W. Lewis, R. C. Wiens, D. R. Harp
Diciannove galassie a spirale prêt-à-porter
Crediti: Nasa, ESsa, Csa, STScI, Janice Lee (STScI), Thomas Williams (Oxford), Phangs Team.
Sono appena state rese pubbliche le immagini mozzafiato di diciannove galassie a spirale immortalate dagli occhi potenti del James Webb Space Telescope (Jwst), il telescopio spaziale della Nasa lanciato alla fine del 2021. Le galassie ritratte da Jwst fanno parte nell’universo vicino – che astronomicamente vuol dire nel raggio di circa 65 milioni di anni luce da noi – e le loro immagini sono ricche di dettagli inediti di stelle, gas e polveri che forniranno informazioni nuove sulla struttura delle galassie e sui processi di formazione ed evoluzione stellare.
«Le nuove immagini di Webb sono straordinarie», dichiara Janice Lee, project scientist per le iniziative strategiche presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora. «Sono sorprendenti anche per gli stessi ricercatori che studiano galassie da decenni. Le strutture delle bolle e dei filamenti sono risolte fino alle scale più piccole mai osservate finora e sono in grado di raccontarci un’intera storia sul ciclo di formazione stellare».
I dettagli presenti nelle immagini sono frutto della combinazione di dati ottenuti nel vicino e medio infrarosso grazie a diversi strumenti a bordo del James Webb tra cui NirCam (o Near-Infrared Camera), che ha immortalato milioni di stelle visibili nelle immagini nei toni del blu, alcune delle quali sparse nei bracci di spirale delle galassie o raggruppate in ammassi stellari. I dati dello strumento Miri (Mid-Infrared Instrument) evidenziano invece la polvere incandescente, mostrandoci le zone in cui questa si localizza intorno e tra le stelle. A queste lunghezze d’onda inoltre sono visibili – nei toni del rosso – le stelle che non si sono ancora formate completamente e sono ancora avvolte nel gas e nella polvere che ne alimentano la crescita. Tra le strutture riconoscibili nelle immagini sono presenti inoltre ampi gusci sferici nel gas e nella polvere che potrebbero essere il residuo di esplosioni di una o più stelle che hanno causato zone di minore densità nel materiale interstellare. Seguendo la traccia dei bracci delle spirali galattiche, si trovano estese regioni di gas caratterizzate dai colori rosso e arancione. Proprio perché le strutture di una galassia sono ricche di informazioni sulla distribuzione del gas e della polvere al suo interno, poterle studiare in dettaglio è fondamentale per capire come i processi di formazione stellare si inneschino, si mantengono e infine si interrompano.
La collezione di immagini prodotte da Jwst fa parte del progetto Phangs (Physics at High Angular resolution in Nearby GalaxieS) a cui partecipano oltre centocinquanta astronomi di ogni parte del mondo e comprende osservazioni fatte su tutto lo spettro elettromagnetico con i più grandi osservatori sia da terra che dallo spazio, tra cui Alma, Vlt e Hst.
Francesco Belfiore. Crediti: Inaf Arcetri
«L’obiettivo del progetto è studiare il processo di formazione stellare, come questo venga influenzato dall’ambiente circostante e viceversa come la formazione stellare a sua volta lo influenzi attraverso processi cosiddetti di feedback», spiega Francesco Belfiore dell’Inaf di Arcetri, unico ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica a partecipare al progetto Phangs. «Il ciclo della materia all’interno dell’ecosistema galattico, cioè il collasso del gas per formare le stelle e la successiva iniezione di energia nel mezzo interstellare, è un processo intrinsecamente multiscala e multifase. Le galassie vicine offrono, quindi, un punto di vista unico per collegare la scala cosmologica e quella Galattica» specifica Belfiore. «Con Phangs vorremmo ottenere per la prima volta una visione complessiva su questi processi e questi dati che ci consentono di vedere attraverso la polvere, ci aiutano a determinare l’efficienza del processo di formazione stellare e, in ultima analisi, il futuro evolutivo delle galassie».
Grazie ai dati combinati di Phangs esistono molte linee di ricerca possibili che gli scienziati possono iniziare a percorrere, e certamente il numero senza precedenti di stelle risolte dal telescopio spaziale James Webb rappresenta un ottimo punto di partenza. Oltre a queste immagini, la collaborazione Phangs ha reso pubblico anche un catalogo di circa 100mila ammassi, il più grande mai realizzato. Si tratta di una mole di dati enorme da gestire che ora è a disposizione di tutta la comunità scientifica che vorrà contribuire alle nuove scoperte in questo campo.
Per saperne di più:
- La release, le immagini e i video sono disponibili alla pagina https://esawebb.org/news/weic2403/
Lattuga killer nello spazio
Noah Totsline ha lavorato nel laboratorio del College of Agriculture and Natural Resources di Harsh Bais a un progetto sponsorizzato dalla Nasa che studia come le piante coltivate nello spazio siano più soggette a infezioni da Salmonella rispetto a quelle terrestri. Crediti: University of Delaware
Oltre alle solite tortillas di farina e al caffè in polvere, da circa tre anni la Nasa ha introdotto nell’alimentazione degli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) anche l’insalata. Gli astronauti possono, infatti, gustare lattuga, rucola e altre piante a foglia verde coltivate direttamente nello spazio, in apposite camere di controllo che riproducono le condizioni ideali di temperatura, quantità di acqua e luce necessarie per la maturazione delle piante.
Ma c’è un problema. Sulla Iss sono presenti molti batteri e funghi patogeni – alcuni dei quali molto aggressivi – che possono facilmente colonizzare i tessuti vegetali. Di conseguenza, se gli astronauti mangiassero lattuga infettata da batteri quali Escherichia colio Salmonella, potrebbero ammalarsi, manifestando sintomi anche gravi. Il rischio che un’epidemia di malattie alimentari a bordo della Iss possa far deragliare una missione spaziale, ha suscitato una particolare attenzione nella comunità scientifica e nelle agenzie spaziali, soprattutto considerando i miliardi di dollari che la Nasa e le aziende private come SpaceX investono ogni anno nell’esplorazione dello spazio.
In una nuova ricerca pubblicata su Scientific Reports e su npj Microgravity, i ricercatori dell’Università del Delaware (Ud) hanno coltivato lattuga in condizioni che imitano l’ambiente all’interno della Stazione spaziale. Le piante, capaci di percepire la gravità attraverso le radici, sono state esposte a una microgravità simulata mediante rotazione grazie a un clinostato, un dispositivo per far ruotare le piante simile a quello utilizzato per i polli nelle rosticcerie. «Non si è trattato di una vera e propria simulazione in microgravità», spiega Noah Totsline, primo autore di entrambe le ricerche pubblicate, recentemente laureatosi al Dipartimento di Scienze delle Piante e del Suolo della Ud, «ma ha aiutato le piante a perdere il senso della direzione. Abbiamo confuso la loro risposta alla gravità e, in questo modo, la pianta non sapeva da che parte fosse l’alto o il basso». Il team di ricerca ha così scoperto che le piante sottoposte alla microgravità simulata erano in realtà più inclini a contrarre infezioni da agenti patogeni umani, in particolare, dalla Salmonella.
Gli stomi, i minuscoli pori delle foglie e degli steli che le piante usano per respirare, normalmente si chiudono per difendere la pianta quando percepisce nelle vicinanze un fattore di stress o un corpo estraneo. Durante la simulazione di microgravità, gli stomi della lattuga si aprivano e rimanevano aperti anziché chiudersi come risposta allo stress causato dalla presenza di batteri. «Il fatto che gli stomi siano rimasti aperti quando abbiamo aggiunto batteri durante la simulazione è stato davvero inaspettato», dice Totsline che insieme ai docenti di biologia vegetale, Harsh Bais, e di sicurezza alimentare microbica, Kali Kniel, e con Chandran Sabanayagam del Delaware Biotechnology Institute ha cercato delle possibili soluzioni al problema.
Immagini al microscopio degli stomi delle foglie di lattuga acquisite tre ore dopo la rotazione o il trattamento con i batteri a forma di bastoncino di Salmonella enterica serovar. A: stomi di una pianta non ruotata senza trattamento con batteri. Gli stomi sono completamente aperti. B: stomi di una pianta non ruotata, i batteri hanno impedito la completa chiusura e hanno iniziato a entrare nella pianta. C: stomi di una pianta ruotata senza batteri, più aperti rispetto a quelli non ruotati. D: stomi di una pianta ruotata con applicazione di batteri. La chiusura difensiva dello stoma appare minore e sono visibili più batteri che entrano nell’apertura e navigano a una profondità maggiore all’interno della pianta. Crediti: npj Microgravity
In alcuni studi precedenti, Bais e altri ricercatori dell’Ud hanno dimostrato che l’uso di un batterio ausiliario chiamato Bacillus subtilis Ud1022 riesce a promuovere la crescita e la forma fisica delle piante, aiutandole contro gli agenti patogeni o altri fattori di stress come la siccità. Ipotizzando che Ud1022 potesse aiutare le piante a difendersi dalla Salmonella anche in condizioni simili a quelle spaziali, lo hanno aggiunto alla simulazione di microgravità, constatando, con sorpresa, che il batterio non è riuscito a proteggere le piante che – in assenza dell’innesco di una risposta biochimica – non hanno chiuso i propri stomi. «Quanto riscontrato in condizioni di microgravità simulata è sorprendente e interessante e apre un’altra questione», riferisce Bais. «Sospetto che il batterio Ud1022, annullando la chiusura degli stomi in microgravità, possa sopraffare la pianta stessa aprendo la strada per l’invasione della Salmonella».
I microbi e i batteri sono ovunque: sono su di noi, sugli animali, sul cibo che mangiamo e nell’ambiente che ci circonda: ovunque si trovino gli esseri umani, c’è possibile coesistenza con gli agenti patogeni batterici. Secondo le informazioni della Nasa, circa sette persone per volta convivono e lavorano sulla Stazione Spaziale Internazionale nello stesso momento, occupando un ambiente grande quanto una casa con sei camere da letto. Non è l’ambiente più stretto che esista nello spazio, ma è comunque il tipo di luogo in cui i germi possono creare scompiglio. «Dobbiamo essere preparati e ridurre i rischi nello spazio per coloro che vivono ora sulla Iss e per coloro che potrebbero viverci in futuro», afferma Kniel, esperto di sicurezza alimentare microbica dell’Ud. «È importante capire meglio come i patogeni batterici reagiscono alla microgravità per sviluppare strategie di mitigazione adeguate».
Kniel e Bais collaborano da anni per studiare gli agenti patogeni umani presenti sulle piante. «Per ridurre i rischi associati alla contaminazione delle verdure a foglia e di altri prodotti di base, dobbiamo comprendere meglio le interazioni tra agenti patogeni umani e le piante coltivate nello spazio», spiega Kniel. «Il modo migliore per farlo è un approccio multidisciplinare».
L’astronauta Peggy Whitson con alcune foglie di insalata cresciute sulla Iss nella sua terza e ultima missione, nel 2017. Crediti: Nasa
Forse ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che gli esseri umani possano vivere sulla Luna o su Marte, ma la ricerca della Ud ha un grande impatto potenziale sulla convivenza umana nello spazio; argomento ancor più interessante se si considerano aspetti come la popolazione in continua crescita sulla Terra e la maggiore necessità di cibo sicuro ed equilibrato per gli astronauti delle numerose missioni future programmate. Da un rapporto delle Nazioni Unite, la Terra potrebbe ospitare 9,7 miliardi di persone nel 2050 e 10,4 miliardi nel 2100. «Le misure di sicurezza alimentare sono già al limite in tutto il mondo e, con la perdita di terreni agricoli per la coltivazione del cibo, le persone penseranno presto a spazi abitativi alternativi», afferma Bais. «Non si tratta più di finzione». Inoltre, sempre più spesso i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie o la Food and Drug Administration degli Stati Uniti certificano e fermano le produzioni di insalata in varie parti sulla Terra, intimando alle persone di non mangiarla a causa del rischio di Escherichia coli o Salmonella. Poiché le verdure a foglia sono l’alimento preferito da molti astronauti e sono facili da coltivare in ambienti chiusi come l’ambiente idroponico della Iss, è importante assicurarsi che queste verdure siano sempre sicure da mangiare e cercare delle soluzioni al problema della “lattuga killer”.
Cosa si può fare per contrastare l’azione delle piante che aprono i loro stomi in un ambiente di microgravità permettendo ai batteri di entrare facilmente? La risposta non è così semplice ma potrebbe essere nell’uso di semi sterilizzati o nel miglioramento genetico. «Iniziare con usare dei semi sterilizzati è un modo per ridurre i rischi di avere microbi sulle piante», afferma Kniel. «Ma ciò comunque non escluderebbe quei microbi già presenti nell’ambiente spaziale». Gli scienziati potrebbero dover modificare la genetica delle piante per impedire loro di aprire gli stomi nello spazio. Il laboratorio guidato da Bais sta già prendendo in considerazione diverse varietà di lattuga con genetiche differenti e le sta valutando in condizioni di microgravità simulata. «Se, per esempio, ne troviamo una che chiude gli stomi rispetto a un’altra che abbiamo già testato e che li apre, possiamo provare a confrontare la genetica di queste due diverse cultivar, cercando le differenze o i meccanismi in atto», conclude Bais. «Non vogliamo che un’intera missione spaziale fallisca solo per colpa di un’epidemia di sicurezza alimentare».
Diciamo, per colpa di qualche foglia di lattuga.
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Simulated microgravity facilitates stomatal ingression by Salmonella in lettuce and suppresses a biocontrol agent” di Noah Totsline, Kalmia E. Kniel, Chandran Sabagyanam e Harsh P. Bais.
- Leggi su npj Microgravity l’articolo“Microgravity and evasion of plant innate immunity by human bacterial pathogens” di Noah Totsline, Kalmia E. Kniel e Harsh P. Bais.
Ritrovate le meteoriti di 2024 BX1
I lettori di Media Inaf si ricorderanno del piccolo asteroide 2022 EB5 caduto nel Mare di Norvegia il 22 marzo 2022 e di 2023 CX1, caduto in Normandia il 13 febbraio 2023. La cosa che accomuna 2024 BX1 con i primi due, a parte le piccole dimensioni, è lo scopritore: l’astronomo ungherese Krisztián Sárneczky (Konkoly Observatory). Sárneczky per le sue scoperte di asteroidi near-Earth utilizza il telescopio Schmidt da 60 cm della Piszkéstető Mountain Station, situato circa 80 km a nord-est di Budapest. L’asteroide della nostra news è stato scoperto da Sárneczky alle 21:48 Utc del 20 gennaio quando era di magnitudine apparente +18,0 ed è stato subito inserito nella NeoCp (la near-Earth object confirmation page) con la sigla Sar2736. Come per tutti i NeoCp brillanti sono immediatamente partite le osservazioni di conferma da parte degli altri osservatori europei. Il primo a confermare Sar2736 è stato T. Felber dell’osservatorio Oberfrauendorf (Iau G34) alle 22:56 Utc, a cui sono seguiti diversi osservatori italiani, come San Marcello Pistoiese (Iau 104) e lo Schiaparelli Observatory di Varese (Iau 204).
Immagine di 2024 BX1 ottenuta dall’Osservatorio astronomico G. V. Schiaparelli (Iau 204) di Varese, circa 1h23m dopo la scoperta, quando l’asteroide era di magnitudine apparente +16,5. Crediti: Luca Buzzi
Sulla Mpml (Minor planet mailing list), alle 23 UT un’email di Peter Birtwhistle avvisava che Sar2736 avrebbe colpito l’atmosfera da lì a 90 minuti. La previsione di Birtwhistle è stata fatta usando Find Orb, il software per la determinazione orbitale scritto da Bill Gray, che i lettori ricorderanno per la previsione dell’impatto sulla luna di un razzo cinese Lunga Marcia 3C il 4 marzo 2022. Allo stesso risultato di Birtwhistle erano già arrivati i software per l’allerta rapida degli impatti, Scout per il Jpl, MeerKat per l’Esa e NeoScan system della SpaceDys di Pisa. NeoScan è in grado di fornire una probabilità d’impatto per tutti gli oggetti presenti nella NeoCp, e già con 7 osservazioni astrometriche, alle 22:48 Utc del 20 gennaio, aveva indicato una probabilità d’impatto del 100 per cento per Sar2736.
Come previsto, l’asteroide è caduto alle 00:32 Utc del 21 gennaio 2024 entrando in atmosfera (quota di 50 km), circa 60 km a ovest di Berlino, alle coordinate 52,6° N, 12,5° E, nei pressi della cittadina di Nennhausen. Il bolide generato dall’asteroide è stato ripreso da diversi osservatori allertati dai messaggi comparsi sulla Mpml, ma non è stato triangolato dalle camere all-sky della rete Fripon. In effetti alle 00:32:43 Utc del 21 gennaio 2024 c’è stata una detection singola da parte della stazione di Ketzur (collocata poco a ovest di Berlino), ma ne servono almeno due per la triangolazione di un fireball. Alle 01:41 Utc del 21 gennaio l’asteroide appena caduto, con la Mpec 2024-B76, ha ricevuto la designazione 2024 BX1 da parte del Minor Planet Center. L’orbita è risultata quella tipica di un oggetto Apollo, con semiasse maggiore di 1,34 unità astronomiche, inclinazione di circa 7,3°, perielio fra le orbite di Terra e Venere e afelio poco oltre l’orbita di Marte.
Immagine di una delle meteoriti recuperate dai ricercatori tedeschi. Crediti: Cevin Dettlaff
Grazie ai calcoli fatti dai ricercatori cechi Pavel Spurný, Jiří Borovička e Lukáš Shrbený (Astronomical Institute of the Academy of Sciences of the Czech Republic), che gestiscono la European Fireball Network, è stato possibile triangolare la traiettoria del fireball e avviare la ricerca delle meteoriti al suolo. Lo strewn field risulta qualche chilometro a ovest della cittadina tedesca di Nauen, attorno alle coordinate 52,629° N, 12,713° E. Per fortuna il bolide è caduto con un’elevata inclinazione rispetto alla superficie terrestre, quindi lo strewn field è relativamente compatto e lungo circa 3 km. Nella zona il suolo si presenta pianeggiante e non è stato difficile recuperare delle meteoriti. Infatti, pochi giorni dopo la caduta, il 26 gennaio, ricercatori del Museo di scienze naturali di Berlino, della Libera Università di Berlino e del Centro aerospaziale tedesco hanno recuperato frammenti che, con molta probabilità, sono meteoriti dell’asteroide 2024 BX1, entrambi delle dimensioni di una noce.
There it is! A team of researchers from the museum and its cooperation partners, among them @FU_Berlin and @DLR_de, have discovered suspected fragments of the astroid #2024BX1 today, both of them almost the size of a walnut: t.co/TvZSpG6RnM ☄️ #Sar2736 #Havelland pic.twitter.com/5i29vY5YZM— Museum für Naturkunde Berlin (@mfnberlin) January 26, 2024
Nei prossimi giorni le sospette meteoriti verranno esaminate nei laboratori del Museo per verificarne la composizione chimica e l’origine, mentre proseguiranno le ricerche sul campo. Grazie all’orbita eliocentrica determinata con le osservazioni telescopiche appena prima che l’asteroide si disintegrasse in atmosfera, queste saranno meteoriti con il “pedigree”, perché se ne potrà indagare anche l’origine dinamica. In tutto il mondo sono solo 50 le meteoriti con queste caratteristiche, su ben 70mila meteoriti raccolte.