Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥
“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”
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L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”
Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.
Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.
In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?
Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.
Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.
In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!
Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.
All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.
Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.
In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.
Ma il rientro non fu tanto semplice.
L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.
Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.
Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.
In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.
In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.
Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.
Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.
Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.
Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.
Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.
La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!
Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!
L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.
Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?
E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.
Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.
Attenzione!
Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.
Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?
È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.
Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.
Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.
Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).
Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.
Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.
Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.
Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.
Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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Cosa succede se il dolore non può passare mai più? 💊 Rimedi e conseguenze dei farmaci. E...✈️ il mio viaggio in India! 🌍
“La vita di un malato invisibile ruota attorno al dolore, e ogni giorno si devono fare scelte difficili per affrontarlo”
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
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Quando sei un malato invisibile, la tua vita ruota attorno al dolore. Mi dispiace farti riflettere su questo, ma non c'è un modo più gentile o più delicato di parlarne. Da invisibile, il tuo rapporto con il dolore è diverso da quello di una persona normale. Le persone sane provano un dolore forte nella loro vita soltanto di rado, a seguito di incidenti magari, o di eventi ben pianificati, come un intervento o l'estrazione di un dente. Una persona sana, anche inconsciamente, sa che il dolore se ne va e, se non se ne andrà, prenderà qualcosa di facile: una pillola, una qualche polvere magica, e non sarà più un problema.
[Il dolore] può presentarsi anche così, senza un motivo apparente, in un attimo, e noi invece sappiamo che non se ne andrà.
Arriviamo a maturare questa consapevolezza dopo qualche tempo che siamo ammalati, ed è una cosa che ti cambia nel profondo. Non c'è modo di abituarsi. A volte qualcuno mi dice: “Mah, guarda, ormai hai queste patologie da tanto, ti sarai abituato!” E invece no, come si fa ad abituarsi? Sì, uno può avere la soglia del dolore più o meno alta, ma quando arrivi a sentirlo, non è che ti abitui. Quella sensazione è nata dall'evoluzione della specie umana, proprio per attirare la nostra attenzione, proprio per farsi notare. È impossibile ignorarla.
Tutti i giorni per noi sono uguali: ci alziamo al mattino, combattiamo il dolore sin da subito, o già da prima, durante la notte, e poi dobbiamo capire una cosa molto importante, cioè come si può affrontare la giornata. Ce la faremo? Se anche ci alziamo con meno dolore del solito, poi la situazione resterà così? Ci arriveremo a fine giornata?
Mah.
Allora dobbiamo fare una scelta tutti i giorni. E questa scelta è: prendo qualcosa oppure no? È uno di quei giorni in cui si riesce a resistere? Oppure, tra un paio d'ore, avrò così tanto male che non riuscirò neanche a ragionare? E credimi, non è una scelta da poco, perché gli antidolorifici non si possono prendere all'infinito. Dobbiamo cercare di limitarli il più possibile per evitare effetti collaterali anche sul lungo periodo.
In passato il mio istinto mi diceva di aspettare, ma le cose sono cambiate. Ora, purtroppo, tendo a prendere più farmaci e forse faccio male. Non so, ma ci sono tanti giorni in cui non posso rischiare di ragionare male con il lavoro che faccio. Io lavoro col pensiero, con la testa. Devo poter pensare, devo essere in condizioni di poter pensare.
Anni fa era tutto diverso. Ci ho messo un po' a prendere coscienza di come stava cambiando la mia vita con il dolore che aumentava, anno dopo anno. Ci sono arrivato gradualmente, un po' alla volta, e a un certo punto mi sono guardato indietro e ho pensato a quando è stata la prima volta in cui ho provato un dolore così intenso da sembrare fuori scala. Me lo ricordo bene quel periodo, e oggi so che lo spartiacque della mia salute risale proprio a quegli anni, in cui le scelte che dovevo fare erano molto più semplici e conducevo ancora una vita spensierata.
Era il 1998, e la mia nuova vita a Parma era certamente stimolante. Trasferirsi lì era stata una scelta naturale, anche se più che ragionata. I miei due fratelli vivevano lì già da tempo, così come alcuni amici, Danilo e Lorenzo, quelli con cui suonavo nel fine settimana quando tornavo dai miei in paese. Ci ricongiungevamo a Pontremoli, ci vedevamo là e dedicavamo almeno un'ora alla domenica pomeriggio per provare le nostre vecchie canzoni, e in più c'era anche un nuovo amico in quegli anni, che aveva iniziato a suonare con noi. Si trattava di Giorgio, molto abile con il basso. A quel punto Marco decise di dedicarsi al canto, mentre a suonare ci avremmo pensato noi. Con questa formazione eravamo anche andati a un festival musicale locale, il Lunigiana Rock. Visto che in questo episodio parliamo di scelte, queste erano le scelte semplici che dovevo fare in quegli anni.
Una scelta che farei oggi, invece, se mi entrasse ancora, sarebbe quella di indossare, ancora una volta, la maglietta che ci avevano dato per l'evento, tutta nera con una scritta gialla sul davanti: Lunigiana Rock.
È un bel ricordo che conservo e rappresenta un periodo davvero spensierato. Era la prima volta che suonavo di fronte a così tante persone, cioè un campo sportivo abbastanza affollato, ed era stato bellissimo. Ero molto tranquillo mentre suonavo, anche grazie alle lezioni che avevo preso negli anni precedenti da un chitarrista professionista a La Spezia. Mi stavo abituando all'idea che quella vita da musicista avrei potuto farla per sempre, perché era davvero l'unica cosa che mi faceva arrivare a sera rilassato e felice.
A volte suonavo per mio conto anche per 7, 8, 10 ore consecutive, senza accorgermene. Una scelta importante di quel periodo, invece, venne presa da me a proposito di un viaggio, cioè una delle passioni che si stava risvegliando in me insieme alla curiosità per il mondo, al volere scoprire cosa ci fosse oltre il proprio confine personale.
Prima di trovare un lavoro stabile, avevo deciso di andare in India a cercare Dio da un maestro spirituale.
Il viaggio mi attirava da sempre e più tardi avrei capito che questa esperienza avevo fatto mi aveva calmato nel profondo, anche se tutto era andato storto sin dall'inizio. In un certo senso, il mio era stato un viaggio risparmio, ma la sorte invece non si era risparmiata. All'arrivo, scoprii che le mie valigie erano state perse e dovetti ricomprare tutto il vestiario, facendomi fare anche qualche abito su misura, visto che laggiù sembravano non esserci abiti della mia taglia.
Nelle settimane successive, poi, mi venne una strana febbre per ben tre volte, senza tosse o raffreddore, ma soltanto una temperatura molto alta che mi faceva venire voglia solo di stare a letto. E a proposito del letto, era un materasso sul pavimento, anzi uno stuoino, possiamo dire, alto solo pochi centimetri. Ma peggio di tutto il resto, al momento di ripartire per tornare a casa, scoprii che il mio biglietto aereo non era stato emesso correttamente.
Così, avevo potuto fare l'andata, ma il ritorno non era valido. Sarei dovuto restare in India per un lungo periodo, in attesa di chiarire questo equivoco con la compagnia aerea, un periodo che durò ben oltre le due settimane che avevo previsto in origine. Insomma, un disastro sotto molti punti di vista. Le notti erano spesso tormentate per il gran caldo che c'era nelle stanze della comune e anche per il vociare degli animali della giungla, stridulo e irritante, che andava avanti tutta la notte. La sveglia suonava molto presto per la meditazione, già alle 3:30 del mattino, e sui monti dell'altopiano del Deccan a dicembre faceva freddo, anche se eravamo quasi all'equatore.
Nel giro di poco tempo iniziai ad avere un gran mal di schiena e non c'erano medici che potessi consultare a poco prezzo nel villaggio per contenere le spese. Andai allora da qualcosa di un po' diverso, un medico ayurvedico, uno di quelli che praticavano l'antica arte curativa tradizionale dell'India, decisamente a buon mercato, ma meglio di niente, mi dissi. Il medico riuscì a capire cosa avevo semplicemente toccandomi una mano e l'avambraccio.
Chiese consigli sull'alimentazione, sugli alimenti che le persone con il mio tipo di fisico avrebbero potuto mangiare oppure no, e tante altre cose. Mi disse che il mal di schiena era dovuto a un eccesso di energia, un eccesso di fuoco. Con qualche massaggio avrebbe potuto alleviare il dolore, ma la causa era molto profonda. Secondo lui avrei dovuto prendere anche alcune compresse che mi prescrisse. Il suo assistente, tale Shrinivas, mi aveva praticato i massaggi. Le sue mani enormi mi sembravano bollenti e anche se alla fine mi ritrovavo tutto unto come un panzerotto uscito dalla friggitrice, in poche sedute il dolore era scomparso.
Effettivamente, Shrinivas sapeva il fatto suo e grazie a lui le compresse che mi aveva suggerito il medico non servirono, e per fortuna! Perché già l'aspetto ricordava gli escrementi di pecora; ti lascio immaginare l'odore! La causa di quel mal di schiena per me era lampante: qualcosa su cui non perdere neanche un momento a riflettere, e cioè che in India si passa la vita seduti sul pavimento e camminando a piedi nudi, e tutto questo, da occidentale, probabilmente non mi aveva giovato.
A parte questo aspetto, però, in India ero stato veramente bene, e ben presto mi scordai del medico ayurvedico. Al mio rientro in Italia, quando l'India era ormai poco più di un bel ricordo, il mal di schiena tornò. Era localizzato in basso, nell'area del bacino, proprio come quando era venuto fuori in India. Il mio medico curante mi fece fare una lastra e per la prima volta in vita mia sentii dire la parola che nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi dire: artrite.
L'artrite è una malattia infiammatoria persistente e cronica, caratterizzata da dolore e infiammazione a livello delle articolazioni, con importanti ripercussioni sulla mobilità e il sostegno dello scheletro. Le forme più gravi di artrite possono deformare le articolazioni, determinando rigidità e compromissione dei movimenti e limitando notevolmente la capacità di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani. L'artrite può svilupparsi in persone di ogni età, anche nei bambini, e con il passare degli anni, se non riconosciuta e curata adeguatamente, l'infiammazione tende a peggiorare.
[Fonte: ISS]
Il mio medico curante allora mi disse: “Sei ancora giovane, hai solo 20 anni; non ti preoccupare, per ora hai ancora tutta la vita davanti.” Lui era uno di quei medici di una volta, quelli che riuscivano a fare diagnosi anche senza mandarti da uno specialista, e molto spesso ci azzeccava.
Mi chiedo ancora oggi se con quella diagnosi precoce, magari confermata da un reumatologo, si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Allora ero nel pieno delle mie forze e scelsi di ignorare del tutto quella parola, che poi neanche sapevo bene cosa fosse, a dire il vero.
Sì, ok, c'era l'artrosi e l'artrite, ma l'artrite era quella meno grave, giusto? Nei miei pensieri c'era solo il lavoro e la chitarra. In quel momento non so perché, ma avevo l'idea che questa artrite fosse qualcosa di non troppo grave, e non ci pensai più. Altrimenti, come avrebbe potuto venire proprio a me, che stavo benissimo ed ero all'apice delle mie condizioni fisiche? Mi ricordo proprio di aver pensato: “Ci penserò quando sarò più vecchio.” Mi sbagliavo di un bel po'. Dimmi: al mio posto, tu come ti saresti sentito? Avevi la consapevolezza necessaria per capire qual è stato il momento chiave della tua vita? Fammelo sapere in un commento. Per me è stato proprio il momento di cui ti ho raccontato. Sono curioso di sapere il tuo.
A Parma non mi annoiavo mai, impegnato com'ero a cercare un lavoro. Ne ho cambiati molti prima di trovarne uno a tempo indeterminato come impiegato. Ricordo bene la sensazione di avere finalmente risolto un enorme problema, di essere finalmente a posto. Espandevo scuola in quel lavoro, creando programmi per tanti diversi istituti bancari. Fu lì che scoprii che le lezioni di dattilografia che avevo preso a scuola, alle scuole superiori, erano una delle cose più utili che possano esserci nel mondo moderno, perché bene o male tutti abbiamo a che fare con una tastiera e tanto vale saperla usare ad occhi chiusi. Digitavo in fretta e i programmi prendevano vita sotto i miei occhi. Era un lavoro creativo, in un certo senso. Il mal di schiena era a quel punto soltanto un ricordo, tanto più che lavoravo finalmente seduto senza fare fatica e finalmente al riparo dal freddo e dal caldo e dai pericoli.
Qualche mese dopo, però, in estate mi sarei dovuto ricredere. C'era bisogno di una riunione fatta in fretta e furia e decidemmo di farla attorno alla scrivania di una collega. Non c'erano sedie per tutti e scelsi di sedermi sul davanzale della finestra, appena sopra il condizionatore, che buttava sulle mie gambe e su tutto il corpo quella piacevolissima aria fresca. Fresca eh, niente di più. Nelle estati umide della pianura, il condizionatore è una manna.
Nel giro di 24 ore ero di nuovo bloccato dal mal di schiena, questa volta ancora più forte di come mi era venuto in India, un dolore mai provato neanche laggiù. Shrinivas era un po' troppo lontano a quel punto e decisi di prendere qualche giorno di malattia e aspettare. Ero giovane e forte, certo che sarebbe passato! Bastava solo...aspettare!
E invece no.
Il dolore era insopportabile e più passavano i giorni, più la situazione peggiorava e questo dolore nel bacino diventava più forte. In qualche angolo molto remoto del mio cervello continuavo a ripetermi che i farmaci non si dovevano prendere. Si sa, gli antidolorifici fanno male, lasciamoli ai vecchi. Li avevo già presi qualche anno prima per le ginocchia che mi facevano male. Non volevo sovraccaricarmi. Ero così giovane e inesperto che paradossalmente non avevo niente in casa e in più, in quel periodo, vivevo in realtà sulle colline di Parma. La farmacia più vicina era lontana, tanto più che non sarei neanche riuscito a guidare, neanche con tutta la buona volontà del mondo. Mi era proprio impossibile estendere le braccia e le gambe.
Il dolore era fortissimo, già a letto, ancora più forte da seduto e impossibile da gestire stando eretti. Camminavo chino come un novantenne e se avessi avuto un bastone, sicuramente l'avrei usato. Ripensandoci oggi, quell'evento avrebbe dovuto mettermi in allarme. Non è normale che un uomo di 22 anni si riduca così per un colpo di aria condizionata. Potrà sembrarti strano, ma non collegai quell'evento con la diagnosi di artrite del medico. Nella mia famiglia tutti avevano e avevano sempre avuto mal di schiena, sembrava una cosa normale, quindi.
Riuscii a procurarmi dei farmaci e tutto passò per un po'. quella che allora mi era sembrata una situazione del tutto eccezionale, oggi è la mia realtà. A distanza di 25 anni da quegli eventi chiave, ci sono ancora le crisi di dolore, anzi, più raro che non ci siano le crisi di dolore. Spesso sono improvvise e in luoghi diversi del corpo, non soltanto nel bacino, e si presentano senza avvisare.
Ogni giorno bisogna alzarsi con calma, come ti raccontavo nel primo [edit: secondo] episodio del podcast, e fare delle scelte molto difficili. Se non è il dolore cervicale o l'emicrania ad avermi svegliato, magari alle 2 del mattino, devo per prima cosa capire come mi sento. Certo, mi sento quasi sempre male, purtroppo, ma bisogna andare oltre questa sensazione. Devo ascoltarmi per capire se il malessere deriva dal fatto che il corpo non si è ancora messo in movimento e magari più tardi passerà un po', oppure se è qualcosa che non passerà.
È una valutazione molto difficile, perché dovendo lavorare, la tentazione è quella di prendere un antinfiammatorio sempre, tutti i giorni, o non riuscirò a stare concentrato quando serve. In fondo, come ti dicevo, io lavoro con la testa, coi miei pensieri, con il ragionamento, con analisi di dati, di problemi per cercare la loro soluzione. Come fai se hai un'ascia piantata in testa o in un fianco? Ti è impossibile.
Purtroppo, però, sappiamo bene che degli antinfiammatori non possiamo abusare. Oltre a rovinarci lo stomaco, non si possono assumere per più di qualche giorno per evitare di andare in sovradosaggio, tirandoci addosso anche molti altri problemi. Capisci bene, dunque, che la decisione di prendere qualcosa oppure no, per un paziente che soffre di artrite o fibromialgia, non è una decisione da poco. Il nostro non è un dolore sporadico che se ne andrà. Domani, dovremo fare le stesse scelte e quindi di nuovo sottoporci al rischio di effetti collaterali dell'antinfiammatorio.
Però questa scelta la dobbiamo fare tutti i giorni. La differenza tra prendere un antinfiammatorio oppure no è quella che passa tra il non poter fare fronte ai propri impegni o effetti gravi legati al sovradosaggio.
Tu cosa sceglieresti? Non è una scelta da poco, credimi.
Per evitare tutto questo, infatti, il medico mi ha consigliato di usare il più possibile il paracetamolo, che non “pesa” sullo stomaco. È vero, ma il problema è che ormai non riesce a togliermi il dolore e mentre l'antinfiammatorio di solito mi lascia in buone condizioni per un giorno, il paracetamolo non ha questo effetto. Quindi dovrei prendere una dose veramente molto, molto alta nel tempo.
L'unica cosa certa è che un antinfiammatorio può togliere il dolore per diverse ore e aiutarci a svolgere i nostri doveri, ma allo stesso tempo, quando li assumiamo, diamo un'immagine falsata di noi. Diamo l'immagine di una persona che sì, ha qualche problema, ma in fondo neanche troppi, visto che può comunque lavorare, può comunque farcela. Ma se questa è la percezione che possono avere gli altri, i sani, dei nostri problemi, beh, è sbagliata, è troppo semplicistica. Come ti ho raccontato, per noi è molto più complesso. E poi non è che sotto antinfiammatori uno stia così bene. A volte non fanno abbastanza, neanche quelli.
Se non conoscevi le patologie di cui soffro, forse starai cominciando a capire perché i pazienti come me vivono una vita davvero difficile. E credimi, siamo tantissimi. Se invece soffri delle mie stesse malattie, avrai capito perfettamente cosa intendo. Ci sarebbe ancora tanto da dire sui farmaci che può dovere assumere chi soffre di artrite o fibromialgia, ma ti prometto che ne parleremo più avanti. Ti do appuntamento alla prossima puntata, come sempre di martedì. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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