Intercettazioni Witkoff-Putin: il piano economico che svende Kiev.
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I colloqui di pace tra #Ucraina e #Russia languono in un impasse totale, complicati da intercettazioni pubblicate dalla stampa che rivelano dettagli sensibili e dal recente vertice di cinque ore al Cremlino, il 2 Dicembre, tra #Putin, Steve Witkoff e Jared Kushner. “Bloomberg” ha diffuso un audio del 14 ottobre tra #Witkoff, inviato di #Trump, e Yuri Ushakov, consigliere di Putin, dove l'americano suggerisce a Mosca come approcciare Trump per una tregua, passando da #Gaza all' #Ucraina e lodando un cessate-il-fuoco rapido. #Ushakov ha bollato la fuga come “inaccettabile”, irritando Cremlino e repubblicani.
Il “New York Times”, in un'inchiesta su negoziati passati (2022) e attuali, evidenzia come i documenti esaminati mostrino compromessi territoriali ucraini (#Crimea esclusa, #Donbass ceduto) e rinunce #Nato, allarmando Washington per un “disarmo unilaterale” di #Kiev, pattern che persiste oggi con il piano Trump.
L'incontro Putin-Witkoff-Kushner, con pranzi e passeggiate, ha esaminato il piano USA in 28 punti più quattro documenti extra: Mosca accetta “alcuni aspetti”, ma respinge concessioni territoriali, con Ushakov che nota versioni “confuse” trasmesse informalmente. Dmitriev e Peskov definiscono i talks “costruttivi”, ma senza compromessi su #Donetsk, #Luhansk, #Cherson e #Zaporizhia,
Putin accusa la #UE di “ostacolare la pace”, minacciando ritorsioni. L'appuntamento salta per #Zelensky, mentre #Rubio annuncia “progressi” cauti con garanzie sicurezza per Kiev.
Il “New York Times” e altre fonti sottolineano come il piano #Trump, ideato da businessman come Witkoff-Dmitriev (non diplomatici), sia più economico che politico: prevede gli #USA leader in “ricostruzione e investimenti” in Ucraina post-pace, con spartizione territori (Donbass/Luhansk russi, linea fronte per sud-est), neutralità Kiev (no alla #Nato, no basi occidentali, ma aerei in Polonia) e azzeramento delle sanzioni.
Intercettazioni confermano l'approccio “deal-making”: Witkoff propone a Putin un “modo migliore” per Trump, focalizzato su tregua rapida, eco di passati negoziati dove l’economia sovrastava la sovranità. Questo privilegia i profitti (investimenti post-bellici) rispetto alla giustizia politica, con Trump che definisce il conflitto un “casino” da chiudere presto. Le intercettazioni, uscite post-vertice Ginevra, acuiscono contraddizioni: gli USA dialogano bilateralmente con Mosca, ma Kiev e UE denunciano il loro isolamento.
#Zelensky invoca una “pace dignitosa” e il vice di Trump, #Rubio, si dice ottimista. Mosca, però, appare irremovibile. L' #UE, invece, oppone solo rigidità: La Kallas e la von der Leyen insistono su una parità tra Kiev e Bruxelles, con controproposte che eliminano concessioni territoriali e spingono sui missili a lungo raggio. Criticano il piano Trump e lo bollano come “isolazionista”. Intanto Putin accusa l’Europa di volere una guerra, ma la UE appare impotente senza alternative concrete al deal economico USA-Russia.
Le intercettazioni Bloomberg e l'inchiesta NYT smascherano la farsa: Trump pedina Putin con emissari tycoon per un piano che puzza di affare immobiliare più che diplomazia, sacrificando territori ucraini per ricostruzione lucrativa e sanzioni azzerate, mentre UE pontifica e Zelensky implora. Questa “pace economica” non è salvezza, ma rapina geopolitica dove il business trumpiano trionfa sulla sovranità, lasciando macerie fisiche e morali sulle persone. Il tutto per profitti d'élite.
#Blog #Ucraina #Russia #UE #Politica #Pace #Opinioni
Dal cessate il fuoco all’assedio permanente: come Israele usa la tregua per consolidare l’annessione.
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L’attuale quadro in Medio Oriente, tra Striscia di #Gaza e #Cisgiordania, continua a smentire nei fatti la narrativa di una tregua solida e orientata alla pace. Nelle ultime settimane, mentre le autorità israeliane e statunitensi insistono sulla “fragilità”, ma ancora tenuta del cessate il fuoco, le operazioni militari israeliane in Cisgiordania e il perdurare dell’emergenza umanitaria a Gaza mostrano la distanza tra il linguaggio diplomatico e la realtà sul terreno. Organizzazioni per i diritti umani e osservatori indipendenti hanno parlato di una tregua “solo sulla carta”, che non ha interrotto il ciclo di violenza contro la popolazione palestinese.
A Gaza, il cessate il fuoco entrato in vigore nell’ottobre 2025 è stato più volte “messo alla prova” da raid israeliani giustificati come risposta a presunti attacchi di #Hamas, con decine di morti palestinesi anche dopo la proclamazione della tregua. Alcuni resoconti parlano di oltre 200 palestinesi uccisi nella Striscia dopo l’accordo di cessate il fuoco, a conferma del carattere estremamente fragile e unilaterale della tregua.
Nel frattempo, le condizioni di vita della popolazione restano drammatiche: la stragrande maggioranza degli oltre due milioni di abitanti è sfollata o senza casa, esposta a fame, malattie e mancanza di accesso ai servizi essenziali, in continuità con una crisi umanitaria aggravata da 18 anni di blocco israeliano.
Le organizzazioni umanitarie sul terreno, tra cui “Emergency”, “WeWorld“ e altre ONG internazionali, descrivono campi sovraffollati, mancanza di acqua potabile, elettricità e cure mediche adeguate, con l’arrivo delle piogge invernali che trasforma le aree di accampamento in distese di fango e rifiuti. I rapporti parlano di accesso agli aiuti ostacolato dalle autorità israeliane e di un sistema di “evacuazioni” che comprime la popolazione in aree sempre più ristrette, priva di infrastrutture vitali.
In questo contesto, la tregua appare come un dispositivo che congela l’assedio e ne normalizza gli effetti devastanti, piuttosto che come un passo verso la fine delle ostilità. Nella Cisgiordania occupata, tra fine novembre e oggi si è registrata una ulteriore intensificazione delle operazioni israeliane nel nord del territorio, in particolare nelle aree di Tubas, Tammun, Aqaba e Jenin.
Le IDF, affiancate dallo Shin Bet, hanno lanciato maxi-operazioni “antiterrorismo” con irruzioni notturne nelle abitazioni, arresti mirati, blocchi stradali, uso di bulldozer per isolare interi quartieri e il dispiegamento di mezzi corazzati ed elicotteri. Secondo fonti militari israeliane, tali azioni mirano a “decapitare le cellule terroristiche” nel nord della Cisgiordania, ma le conseguenze pratiche sono un ulteriore irrigidimento del regime di occupazione e la compressione degli spazi di vita per la popolazione palestinese.
Queste operazioni si inseriscono in un quadro più ampio di consolidamento del controllo israeliano sulla Cisgiordania, che comprende l’espansione delle colonie, la frammentazione territoriale e l’avanzamento di proposte legislative di annessione formale delle aree occupate. Analisi giornalistiche hanno parlato di “nessun ritiro” e di un processo di annessione strisciante, in cui la presenza militare e dei coloni prepara il terreno alla cancellazione di fatto della prospettiva di uno Stato palestinese contiguo.
La quotidianità palestinese è così segnata da check-point, incursioni armate e violenza dei coloni, in un contesto che molte organizzazioni definiscono di apartheid e pulizia etnica lenta.
Gli Stati Uniti continuano a presentare il piano del presidente #Trump come architettura di riferimento per la tregua e il processo politico, la cui “prima fase” ha costituito la base dell’accordo di cessate il fuoco del 9 ottobre. Tale piano prevede, nelle fasi successive, il progressivo ritiro israeliano verso la cosiddetta “Linea Gialla”, l’istituzione di un’autorità di transizione per governare Gaza, il dispiegamento di una forza di sicurezza multinazionale e l’avvio della ricostruzione. Importanti organizzazioni per i diritti umani hanno sottolineato come l’accordo non affronti le cause strutturali del conflitto (blocco, occupazione, impunità) e rischi di consolidare uno status quo di subordinazione palestinese.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ #ONU ha approvato a novembre 2025 una risoluzione su Gaza che, secondo il “Centro diritti umani” dell’Università di Padova, rappresenta un “piano di guerra e non di pace”, poiché trasferisce poteri essenziali a un nuovo “Board of Peace” guidato dagli Stati Uniti, svuotando di fatto il ruolo dell’Onu in materia di pace e sicurezza internazionale. L’Unione Europea, pur ribadendo nei suoi documenti il sostegno alla soluzione a due Stati e la necessità di preservare la tregua, continua a limitarsi a dichiarazioni e richiami al diritto internazionale, senza dotarsi di strumenti coercitivi efficaci per contrastare l’espansione militare e coloniale israeliana.
Ne deriva una asimmetria di potere in cui gli Stati Uniti dettano la cornice del processo, mentre l’UE rimane un attore essenzialmente reattivo e marginale. Appare sempre più evidente che la tregua ufficiale funzioni principalmente come cornice retorica dietro cui Israele continua a perseguire, con mezzi militari, politici ed economici, un piano di lungo periodo di disarticolazione del tessuto sociale palestinese.
Le offensive “mirate” in Cisgiordania, l’assedio strutturale di Gaza, l’ostacolo sistematico agli aiuti umanitari e l’assenza di reali garanzie internazionali configurano un processo di distruzione progressiva delle condizioni di esistenza del popolo palestinese, sotto l’ombrello di un cessate il fuoco che non interrompe, ma piuttosto normalizza, la violenza strutturale.
La tregua non rappresenta un passo verso la pace, bensì uno strumento di gestione del conflitto che consente a Israele di avanzare nel proprio progetto coloniale e di annessione, mentre la comunità internazionale, tra complicità e inerzia, assiste all’erosione ulteriore dei diritti e della stessa possibilità di autodeterminazione palestinese.
#Medioriente #Gaza #Israele #Peace #Blog #Opinioni
Mamdani a New York: vittoria simbolo, sfida per la sinistra italiana.
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Nota: non voglio, e non ne ho facoltà, minimizzare la vittoria di Mamdani, nè pormi in contrasto con chi ne gioisce. Diciamo che non amo molto che le vittorie della sinistra all'estero siano prese come esempio in questo paese, che deve, comunque, fare i conti con la sua, di politica.
#ZohranMamdani, eletto sindaco di New York a soli 34 anni, rappresenta una svolta storica per la politica americana. Primo sindaco musulmano della città, Mamdani ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo con il 50,4% dei voti, conquistando consenso soprattutto tra giovani, immigrati e lavoratori grazie a una piattaforma basata su trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare e giustizia sociale.
Già nel suo discorso di vittoria, Mamdani ha lanciato una sfida diretta a #DonaldTrump, definendolo un “despota” e affermando che “...la città che lo ha creato può anche sconfiggerlo”. Da parte sua, Trump ha risposto con sarcasmo, minimizzando la sconfitta: «Io non ero sulla scheda elettorale» e accusando le tensioni a Washington di aver danneggiato il movimento repubblicano. A Mamdani ha rivolto l’epiteto di “Comunista” e ha minacciato tagli ai fondi federali: “Se vince un comunista, pronti a tagliare miliardi a New York”. Questa contrapposizione incarna uno scontro tra due visioni opposte, ma con un comune uso di retorica fortemente polarizzante.
Le vittorie parallele di Abigail Spanberger in Virginia e Mikie Sherrill nel New Jersey consolidano il successo dei democratici in territori chiave, ponendo un ulteriore freno alla spinta trumpiana e segnando un chiaro avvertimento verso la leadership repubblicana.
In Italia, il successo di Mamdani è stato accolto con entusiasmo da settori della sinistra, ma la realtà politica appare ben diversa rispetto a quella statunitense. Qui la sinistra è dilaniata da una cronica divisione tra anime moderata e radicale, che impedisce la costruzione di un progetto unitario e coerente. L’assenza di una leadership convincente che sappia parlare ai bisogni concreti della società limita molto la capacità di mobilitazione e di creare un’alternativa credibile al governo Meloni.
L’opposizione italiana tende spesso a rifugiarsi in tentativi di emulazione di modelli esteri senza riuscire a tradurli nel contesto nazionale, rimanendo così frammentata e marginale. Manca, inoltre, un dialogo autentico con le nuove generazioni e con i settori più vulnerabili, fattori che in America invece hanno fatto la differenza per Mamdani.
Solo un’analisi critica e profonda di queste difficoltà interne potrà avviare un processo di rinnovamento e rilancio della sinistra in Italia, partendo dalla concretezza e non dall’astrazione.
Mamdani e i successi democratici statunitensi mostrano dunque un modello efficace di politica progressista da cui trarre ispirazione, ma la sinistra italiana deve affrontare le proprie contraddizioni interne per poter davvero sognare una rinascita simile.
#Blog #USA #Mamdani #Trump #Politica #Italia #Sinistra #Opinioni