Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥
“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”
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L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”
Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.
Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.
In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?
Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.
Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.
In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!
Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.
All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.
Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.
In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.
Ma il rientro non fu tanto semplice.
L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.
Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.
Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.
In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.
In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.
Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.
Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.
Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.
Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.
Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.
La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!
Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!
L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.
Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?
E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.
Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.
Attenzione!
Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.
Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?
È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.
Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.
Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.
Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).
Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.
Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.
Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.
Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.
Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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Cosa succede se il dolore non può passare mai più? 💊 Rimedi e conseguenze dei farmaci. E...✈️ il mio viaggio in India! 🌍
“La vita di un malato invisibile ruota attorno al dolore, e ogni giorno si devono fare scelte difficili per affrontarlo”
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
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Quando sei un malato invisibile, la tua vita ruota attorno al dolore. Mi dispiace farti riflettere su questo, ma non c'è un modo più gentile o più delicato di parlarne. Da invisibile, il tuo rapporto con il dolore è diverso da quello di una persona normale. Le persone sane provano un dolore forte nella loro vita soltanto di rado, a seguito di incidenti magari, o di eventi ben pianificati, come un intervento o l'estrazione di un dente. Una persona sana, anche inconsciamente, sa che il dolore se ne va e, se non se ne andrà, prenderà qualcosa di facile: una pillola, una qualche polvere magica, e non sarà più un problema.
[Il dolore] può presentarsi anche così, senza un motivo apparente, in un attimo, e noi invece sappiamo che non se ne andrà.
Arriviamo a maturare questa consapevolezza dopo qualche tempo che siamo ammalati, ed è una cosa che ti cambia nel profondo. Non c'è modo di abituarsi. A volte qualcuno mi dice: “Mah, guarda, ormai hai queste patologie da tanto, ti sarai abituato!” E invece no, come si fa ad abituarsi? Sì, uno può avere la soglia del dolore più o meno alta, ma quando arrivi a sentirlo, non è che ti abitui. Quella sensazione è nata dall'evoluzione della specie umana, proprio per attirare la nostra attenzione, proprio per farsi notare. È impossibile ignorarla.
Tutti i giorni per noi sono uguali: ci alziamo al mattino, combattiamo il dolore sin da subito, o già da prima, durante la notte, e poi dobbiamo capire una cosa molto importante, cioè come si può affrontare la giornata. Ce la faremo? Se anche ci alziamo con meno dolore del solito, poi la situazione resterà così? Ci arriveremo a fine giornata?
Mah.
Allora dobbiamo fare una scelta tutti i giorni. E questa scelta è: prendo qualcosa oppure no? È uno di quei giorni in cui si riesce a resistere? Oppure, tra un paio d'ore, avrò così tanto male che non riuscirò neanche a ragionare? E credimi, non è una scelta da poco, perché gli antidolorifici non si possono prendere all'infinito. Dobbiamo cercare di limitarli il più possibile per evitare effetti collaterali anche sul lungo periodo.
In passato il mio istinto mi diceva di aspettare, ma le cose sono cambiate. Ora, purtroppo, tendo a prendere più farmaci e forse faccio male. Non so, ma ci sono tanti giorni in cui non posso rischiare di ragionare male con il lavoro che faccio. Io lavoro col pensiero, con la testa. Devo poter pensare, devo essere in condizioni di poter pensare.
Anni fa era tutto diverso. Ci ho messo un po' a prendere coscienza di come stava cambiando la mia vita con il dolore che aumentava, anno dopo anno. Ci sono arrivato gradualmente, un po' alla volta, e a un certo punto mi sono guardato indietro e ho pensato a quando è stata la prima volta in cui ho provato un dolore così intenso da sembrare fuori scala. Me lo ricordo bene quel periodo, e oggi so che lo spartiacque della mia salute risale proprio a quegli anni, in cui le scelte che dovevo fare erano molto più semplici e conducevo ancora una vita spensierata.
Era il 1998, e la mia nuova vita a Parma era certamente stimolante. Trasferirsi lì era stata una scelta naturale, anche se più che ragionata. I miei due fratelli vivevano lì già da tempo, così come alcuni amici, Danilo e Lorenzo, quelli con cui suonavo nel fine settimana quando tornavo dai miei in paese. Ci ricongiungevamo a Pontremoli, ci vedevamo là e dedicavamo almeno un'ora alla domenica pomeriggio per provare le nostre vecchie canzoni, e in più c'era anche un nuovo amico in quegli anni, che aveva iniziato a suonare con noi. Si trattava di Giorgio, molto abile con il basso. A quel punto Marco decise di dedicarsi al canto, mentre a suonare ci avremmo pensato noi. Con questa formazione eravamo anche andati a un festival musicale locale, il Lunigiana Rock. Visto che in questo episodio parliamo di scelte, queste erano le scelte semplici che dovevo fare in quegli anni.
Una scelta che farei oggi, invece, se mi entrasse ancora, sarebbe quella di indossare, ancora una volta, la maglietta che ci avevano dato per l'evento, tutta nera con una scritta gialla sul davanti: Lunigiana Rock.
È un bel ricordo che conservo e rappresenta un periodo davvero spensierato. Era la prima volta che suonavo di fronte a così tante persone, cioè un campo sportivo abbastanza affollato, ed era stato bellissimo. Ero molto tranquillo mentre suonavo, anche grazie alle lezioni che avevo preso negli anni precedenti da un chitarrista professionista a La Spezia. Mi stavo abituando all'idea che quella vita da musicista avrei potuto farla per sempre, perché era davvero l'unica cosa che mi faceva arrivare a sera rilassato e felice.
A volte suonavo per mio conto anche per 7, 8, 10 ore consecutive, senza accorgermene. Una scelta importante di quel periodo, invece, venne presa da me a proposito di un viaggio, cioè una delle passioni che si stava risvegliando in me insieme alla curiosità per il mondo, al volere scoprire cosa ci fosse oltre il proprio confine personale.
Prima di trovare un lavoro stabile, avevo deciso di andare in India a cercare Dio da un maestro spirituale.
Il viaggio mi attirava da sempre e più tardi avrei capito che questa esperienza avevo fatto mi aveva calmato nel profondo, anche se tutto era andato storto sin dall'inizio. In un certo senso, il mio era stato un viaggio risparmio, ma la sorte invece non si era risparmiata. All'arrivo, scoprii che le mie valigie erano state perse e dovetti ricomprare tutto il vestiario, facendomi fare anche qualche abito su misura, visto che laggiù sembravano non esserci abiti della mia taglia.
Nelle settimane successive, poi, mi venne una strana febbre per ben tre volte, senza tosse o raffreddore, ma soltanto una temperatura molto alta che mi faceva venire voglia solo di stare a letto. E a proposito del letto, era un materasso sul pavimento, anzi uno stuoino, possiamo dire, alto solo pochi centimetri. Ma peggio di tutto il resto, al momento di ripartire per tornare a casa, scoprii che il mio biglietto aereo non era stato emesso correttamente.
Così, avevo potuto fare l'andata, ma il ritorno non era valido. Sarei dovuto restare in India per un lungo periodo, in attesa di chiarire questo equivoco con la compagnia aerea, un periodo che durò ben oltre le due settimane che avevo previsto in origine. Insomma, un disastro sotto molti punti di vista. Le notti erano spesso tormentate per il gran caldo che c'era nelle stanze della comune e anche per il vociare degli animali della giungla, stridulo e irritante, che andava avanti tutta la notte. La sveglia suonava molto presto per la meditazione, già alle 3:30 del mattino, e sui monti dell'altopiano del Deccan a dicembre faceva freddo, anche se eravamo quasi all'equatore.
Nel giro di poco tempo iniziai ad avere un gran mal di schiena e non c'erano medici che potessi consultare a poco prezzo nel villaggio per contenere le spese. Andai allora da qualcosa di un po' diverso, un medico ayurvedico, uno di quelli che praticavano l'antica arte curativa tradizionale dell'India, decisamente a buon mercato, ma meglio di niente, mi dissi. Il medico riuscì a capire cosa avevo semplicemente toccandomi una mano e l'avambraccio.
Chiese consigli sull'alimentazione, sugli alimenti che le persone con il mio tipo di fisico avrebbero potuto mangiare oppure no, e tante altre cose. Mi disse che il mal di schiena era dovuto a un eccesso di energia, un eccesso di fuoco. Con qualche massaggio avrebbe potuto alleviare il dolore, ma la causa era molto profonda. Secondo lui avrei dovuto prendere anche alcune compresse che mi prescrisse. Il suo assistente, tale Shrinivas, mi aveva praticato i massaggi. Le sue mani enormi mi sembravano bollenti e anche se alla fine mi ritrovavo tutto unto come un panzerotto uscito dalla friggitrice, in poche sedute il dolore era scomparso.
Effettivamente, Shrinivas sapeva il fatto suo e grazie a lui le compresse che mi aveva suggerito il medico non servirono, e per fortuna! Perché già l'aspetto ricordava gli escrementi di pecora; ti lascio immaginare l'odore! La causa di quel mal di schiena per me era lampante: qualcosa su cui non perdere neanche un momento a riflettere, e cioè che in India si passa la vita seduti sul pavimento e camminando a piedi nudi, e tutto questo, da occidentale, probabilmente non mi aveva giovato.
A parte questo aspetto, però, in India ero stato veramente bene, e ben presto mi scordai del medico ayurvedico. Al mio rientro in Italia, quando l'India era ormai poco più di un bel ricordo, il mal di schiena tornò. Era localizzato in basso, nell'area del bacino, proprio come quando era venuto fuori in India. Il mio medico curante mi fece fare una lastra e per la prima volta in vita mia sentii dire la parola che nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi dire: artrite.
L'artrite è una malattia infiammatoria persistente e cronica, caratterizzata da dolore e infiammazione a livello delle articolazioni, con importanti ripercussioni sulla mobilità e il sostegno dello scheletro. Le forme più gravi di artrite possono deformare le articolazioni, determinando rigidità e compromissione dei movimenti e limitando notevolmente la capacità di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani. L'artrite può svilupparsi in persone di ogni età, anche nei bambini, e con il passare degli anni, se non riconosciuta e curata adeguatamente, l'infiammazione tende a peggiorare.
[Fonte: ISS]
Il mio medico curante allora mi disse: “Sei ancora giovane, hai solo 20 anni; non ti preoccupare, per ora hai ancora tutta la vita davanti.” Lui era uno di quei medici di una volta, quelli che riuscivano a fare diagnosi anche senza mandarti da uno specialista, e molto spesso ci azzeccava.
Mi chiedo ancora oggi se con quella diagnosi precoce, magari confermata da un reumatologo, si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Allora ero nel pieno delle mie forze e scelsi di ignorare del tutto quella parola, che poi neanche sapevo bene cosa fosse, a dire il vero.
Sì, ok, c'era l'artrosi e l'artrite, ma l'artrite era quella meno grave, giusto? Nei miei pensieri c'era solo il lavoro e la chitarra. In quel momento non so perché, ma avevo l'idea che questa artrite fosse qualcosa di non troppo grave, e non ci pensai più. Altrimenti, come avrebbe potuto venire proprio a me, che stavo benissimo ed ero all'apice delle mie condizioni fisiche? Mi ricordo proprio di aver pensato: “Ci penserò quando sarò più vecchio.” Mi sbagliavo di un bel po'. Dimmi: al mio posto, tu come ti saresti sentito? Avevi la consapevolezza necessaria per capire qual è stato il momento chiave della tua vita? Fammelo sapere in un commento. Per me è stato proprio il momento di cui ti ho raccontato. Sono curioso di sapere il tuo.
A Parma non mi annoiavo mai, impegnato com'ero a cercare un lavoro. Ne ho cambiati molti prima di trovarne uno a tempo indeterminato come impiegato. Ricordo bene la sensazione di avere finalmente risolto un enorme problema, di essere finalmente a posto. Espandevo scuola in quel lavoro, creando programmi per tanti diversi istituti bancari. Fu lì che scoprii che le lezioni di dattilografia che avevo preso a scuola, alle scuole superiori, erano una delle cose più utili che possano esserci nel mondo moderno, perché bene o male tutti abbiamo a che fare con una tastiera e tanto vale saperla usare ad occhi chiusi. Digitavo in fretta e i programmi prendevano vita sotto i miei occhi. Era un lavoro creativo, in un certo senso. Il mal di schiena era a quel punto soltanto un ricordo, tanto più che lavoravo finalmente seduto senza fare fatica e finalmente al riparo dal freddo e dal caldo e dai pericoli.
Qualche mese dopo, però, in estate mi sarei dovuto ricredere. C'era bisogno di una riunione fatta in fretta e furia e decidemmo di farla attorno alla scrivania di una collega. Non c'erano sedie per tutti e scelsi di sedermi sul davanzale della finestra, appena sopra il condizionatore, che buttava sulle mie gambe e su tutto il corpo quella piacevolissima aria fresca. Fresca eh, niente di più. Nelle estati umide della pianura, il condizionatore è una manna.
Nel giro di 24 ore ero di nuovo bloccato dal mal di schiena, questa volta ancora più forte di come mi era venuto in India, un dolore mai provato neanche laggiù. Shrinivas era un po' troppo lontano a quel punto e decisi di prendere qualche giorno di malattia e aspettare. Ero giovane e forte, certo che sarebbe passato! Bastava solo...aspettare!
E invece no.
Il dolore era insopportabile e più passavano i giorni, più la situazione peggiorava e questo dolore nel bacino diventava più forte. In qualche angolo molto remoto del mio cervello continuavo a ripetermi che i farmaci non si dovevano prendere. Si sa, gli antidolorifici fanno male, lasciamoli ai vecchi. Li avevo già presi qualche anno prima per le ginocchia che mi facevano male. Non volevo sovraccaricarmi. Ero così giovane e inesperto che paradossalmente non avevo niente in casa e in più, in quel periodo, vivevo in realtà sulle colline di Parma. La farmacia più vicina era lontana, tanto più che non sarei neanche riuscito a guidare, neanche con tutta la buona volontà del mondo. Mi era proprio impossibile estendere le braccia e le gambe.
Il dolore era fortissimo, già a letto, ancora più forte da seduto e impossibile da gestire stando eretti. Camminavo chino come un novantenne e se avessi avuto un bastone, sicuramente l'avrei usato. Ripensandoci oggi, quell'evento avrebbe dovuto mettermi in allarme. Non è normale che un uomo di 22 anni si riduca così per un colpo di aria condizionata. Potrà sembrarti strano, ma non collegai quell'evento con la diagnosi di artrite del medico. Nella mia famiglia tutti avevano e avevano sempre avuto mal di schiena, sembrava una cosa normale, quindi.
Riuscii a procurarmi dei farmaci e tutto passò per un po'. quella che allora mi era sembrata una situazione del tutto eccezionale, oggi è la mia realtà. A distanza di 25 anni da quegli eventi chiave, ci sono ancora le crisi di dolore, anzi, più raro che non ci siano le crisi di dolore. Spesso sono improvvise e in luoghi diversi del corpo, non soltanto nel bacino, e si presentano senza avvisare.
Ogni giorno bisogna alzarsi con calma, come ti raccontavo nel primo [edit: secondo] episodio del podcast, e fare delle scelte molto difficili. Se non è il dolore cervicale o l'emicrania ad avermi svegliato, magari alle 2 del mattino, devo per prima cosa capire come mi sento. Certo, mi sento quasi sempre male, purtroppo, ma bisogna andare oltre questa sensazione. Devo ascoltarmi per capire se il malessere deriva dal fatto che il corpo non si è ancora messo in movimento e magari più tardi passerà un po', oppure se è qualcosa che non passerà.
È una valutazione molto difficile, perché dovendo lavorare, la tentazione è quella di prendere un antinfiammatorio sempre, tutti i giorni, o non riuscirò a stare concentrato quando serve. In fondo, come ti dicevo, io lavoro con la testa, coi miei pensieri, con il ragionamento, con analisi di dati, di problemi per cercare la loro soluzione. Come fai se hai un'ascia piantata in testa o in un fianco? Ti è impossibile.
Purtroppo, però, sappiamo bene che degli antinfiammatori non possiamo abusare. Oltre a rovinarci lo stomaco, non si possono assumere per più di qualche giorno per evitare di andare in sovradosaggio, tirandoci addosso anche molti altri problemi. Capisci bene, dunque, che la decisione di prendere qualcosa oppure no, per un paziente che soffre di artrite o fibromialgia, non è una decisione da poco. Il nostro non è un dolore sporadico che se ne andrà. Domani, dovremo fare le stesse scelte e quindi di nuovo sottoporci al rischio di effetti collaterali dell'antinfiammatorio.
Però questa scelta la dobbiamo fare tutti i giorni. La differenza tra prendere un antinfiammatorio oppure no è quella che passa tra il non poter fare fronte ai propri impegni o effetti gravi legati al sovradosaggio.
Tu cosa sceglieresti? Non è una scelta da poco, credimi.
Per evitare tutto questo, infatti, il medico mi ha consigliato di usare il più possibile il paracetamolo, che non “pesa” sullo stomaco. È vero, ma il problema è che ormai non riesce a togliermi il dolore e mentre l'antinfiammatorio di solito mi lascia in buone condizioni per un giorno, il paracetamolo non ha questo effetto. Quindi dovrei prendere una dose veramente molto, molto alta nel tempo.
L'unica cosa certa è che un antinfiammatorio può togliere il dolore per diverse ore e aiutarci a svolgere i nostri doveri, ma allo stesso tempo, quando li assumiamo, diamo un'immagine falsata di noi. Diamo l'immagine di una persona che sì, ha qualche problema, ma in fondo neanche troppi, visto che può comunque lavorare, può comunque farcela. Ma se questa è la percezione che possono avere gli altri, i sani, dei nostri problemi, beh, è sbagliata, è troppo semplicistica. Come ti ho raccontato, per noi è molto più complesso. E poi non è che sotto antinfiammatori uno stia così bene. A volte non fanno abbastanza, neanche quelli.
Se non conoscevi le patologie di cui soffro, forse starai cominciando a capire perché i pazienti come me vivono una vita davvero difficile. E credimi, siamo tantissimi. Se invece soffri delle mie stesse malattie, avrai capito perfettamente cosa intendo. Ci sarebbe ancora tanto da dire sui farmaci che può dovere assumere chi soffre di artrite o fibromialgia, ma ti prometto che ne parleremo più avanti. Ti do appuntamento alla prossima puntata, come sempre di martedì. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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🌟 I miei anni '90: quando le mie mani funzionavano da Dio! 🙌✨
“Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.
Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.”
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
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In questo episodio ti racconto come le mie mani siano sempre state forti, capaci e molto attive e di come la malattia le abbia cambiate radicalmente. All'incirca alla metà degli anni '90, gli anni delle superiori volavano via tra lo stress della scuola, che richiedeva un impegno sempre crescente, e la scoperta di nuovi gruppi musicali: i Queen, ad esempio, ma anche i Mr Big, i Metallica e diversi chitarristi virtuosi come Joe Sateiani e, soprattutto, Steve Vai, di cui mi innamorai istantaneamente. Non tanto per le melodie che produceva con lo strumento, che erano quasi sempre incomprensibili, ma per i suoni che riusciva a tirare fuori dalla sua chitarra elettrica, qualcosa di incredibile, mai sentito prima. Riusciva a farla addirittura parlare in inglese, ad esempio. Non si distinguevano chiaramente le parole, ma era come se una persona stesse parlando e intonando il senso del discorso sulla chitarra. Ed era chiaro: la sua tecnica mi avrebbe dato tantissimi nuovi spunti più avanti e avrebbe anche definitivamente modificato il mio orecchio musicale, che da quel momento avrebbe considerato musica anche melodie che, fino a poco prima, mi sarebbero sembrate suoni buttati lì a caso. E invece no, c'era un disegno, una logica in quelle note che aspettava solo di essere scoperta. Non per niente Steve Vai era stato il chitarrista prodigio di Frank Zappa, un altro pioniere della musica moderna.
Per un periodo mi ero distaccato dal mio gruppo storico a causa della nostra differenza di vedute dal punto di vista musicale. Avevo bisogno di suonare più cose che mi piacessero, mentre il gruppo stava insistendo molto sulla musica italiana, in quel periodo, che a me piaceva meno. Così, a Pontremoli, incontrai Emanuele e Giovanni. Emanuele era un chitarrista, ma anche un bassista, mentre Giovanni era un pianista di talento. Entrambi mi fecero fare un salto evolutivo enorme: due persone molto in gamba a suonare, a cui però era più difficile stare dietro. E in più c'era un altro problema: volevano fare un concerto di fine anno all'Azione Cattolica di Pontremoli. Tutto bello, ma mancavano un bassista e un batterista per fare qualcosa di decente. Il batterista si trovò facilmente, mentre il basso... beh, iniziai a suonarlo io!
Che emozione! Uno strumento simile alla chitarra, ma completamente diverso nella sua funzione, che aspettava solo di essere scoperto. Riesci a immaginare qualcosa di più bello? Io, no!
Emanuele era già abituato a suonare il basso perché lo usava come strumento principale a casa, e così mi insegnò cosa significasse suonare senza accordi, cercare la nota giusta lungo il manico piuttosto che vicino a quella che stai già suonando, perché l'effetto sonoro che si ottiene è completamente diverso. E spesso è proprio quello l'effetto che si cerca sul basso! Imparai i vari modi di creare ritmo in una canzone, perché il basso in fondo è di quello che si occupa. Mi incantava quel suono pieno, non distorto, che ti faceva vibrare la pancia e faceva da collante tra tutti gli altri strumenti. Uno strumento che non si notava, insomma, ma la sua voce c'era, eccome, ed era importante. Insomma, un altro invisibile.
Se la chitarra metteva sotto stress le dita, il basso era ancora più difficile da suonare. Ci voleva ancora più forza sulla punta delle dita; ci voleva più forza per stringere abbastanza le corde, che erano molto più spesse rispetto a quelle della chitarra. E poi, visto che con la mano destra suonavo le corde direttamente, senza il plettro che usavo sulla chitarra, l'avambraccio mi faceva malissimo. L'indice e il dito medio, infatti, dovevano muoversi molto rapidamente per pizzicare le corde; anche i polsi mi facevano molto male all'inizio. Insomma, quello strumento mi costringeva anche a una serie di esercizi per preparare il fisico a poterlo suonare, ma ne valeva assolutamente la pena. Ti racconto tutto questo per farti capire qual era la mia abilità di ignorare il dolore, o persino di sentirlo: quella che viene chiamata soglia del dolore, insomma, e poi anche per farti capire la mia determinazione. Non ero una persona che si tirava indietro di fronte agli ostacoli o a quello che non conosceva; anzi.
Il tempo trascorse velocemente e arrivò anche Capodanno. Il concerto andò molto bene e ne conservo ancora una registrazione. Suonammo musica dei Queen, dei Doors, dei Nomadi, di Baglioni e naturalmente anche dei Pink Floyd, la nostra passione comune. Subito dopo però tornai al gruppo storico, quello del mio paese, un po' per impegni vari, ma anche perché il gruppo di Capodanno non aveva più ragione di essere. Mi presentai ai miei amici del paese con il mio nuovo basso in mano: finalmente avevamo un bassista: io!
Per un po' suonai con piacere quello strumento insieme a loro, ma non bastava. Decidemmo allora che ci serviva un batterista. Ma chi? In paese non c'era nessuno che suonasse la batteria. Il tempo passava e questo salto di qualità non si riusciva a fare. Così, pur di continuare a suonare con loro, decisi che il batterista sarei stato io. Marco, che era il nostro cantante poeta, comprò il mio basso e da quel momento lo avrebbe suonato lui. Io invece acquistai una batteria economica, altra opportunità di imparare. È così che iniziai a suonare anche la batteria, e il mio super orecchio mi aiutò non poco. Riuscivo ad ascoltare le cassette dei miei musicisti preferiti e poi deducevo, dai suoni che ascoltavo, in quale sequenza colpire i pezzi della mia batteria per riprodurre la parte di batteria del brano musicale.
Tutto questo processo avveniva velocemente nella mia mente, a volte anche in pochi millisecondi, e riuscivo così a suonare anche sul momento alcuni semplici pezzi che non avevo mai sentito. A pensarci, oggi mi sento molto orgoglioso delle mie capacità di allora.
In breve tempo, un colpo di sfortuna ci costrinse a cambiare ancora. Danilo, per un infortunio grave a un dito, non avrebbe mai più potuto suonare la chitarra, o almeno non bene quanto prima. Poteva essere la fine e invece cogliemmo l'occasione: perché non scambiarsi le parti? Lui avrebbe suonato la batteria e io di nuovo alla chitarra, con il ruolo di solista che era stato suo. L'anno successivo avremmo dovuto incidere il nostro primo CD dimostrativo, che avremmo poi potuto distribuire. Però occorrevano strumenti migliori. Questa volta non avrei potuto contare sui miei: ero grande ormai e giustamente mi dissero che avrei dovuto guadagnarmi quello che volevo. Lavorai per tutta l'estate, tra la quarta superiore e la quinta, come cameriere. Imparai a conoscere il lavoro e pensai bene di iniziare col botto: 10, 12, anche 14 ore al giorno per tutta l'estate. Ma a settembre comprai il mio primo strumento, che mi ero guadagnato con le mie stesse mani: una soddisfazione incredibile. Era una bellissima chitarra elettrica Ibanez, completamente nera, con un amplificatore Fender a valvole che ancora oggi produce suoni fantastici.
Finalmente potevamo andare in studio e quell'esperienza ci fu molto utile per unirci ancora di più come amici e musicisti. I pezzi che avevamo preparato erano venuti abbastanza bene per le nostre possibilità ed eravamo molto soddisfatti.
Dopo pochi mesi partecipammo a un concorso a Castrocaro. Chi si fosse piazzato ai primi posti avrebbe potuto partecipare al famoso Festival di Castrocaro e, se fosse andata bene lì, a Sanremo. Con nostra grande sorpresa, la prima serata andò benissimo: arrivammo primi, ma decidemmo di non continuare. Il concorso sarebbe stato troppo impegnativo economicamente, considerando anche che qualcuno di noi lavorava già e non poteva mancare ai suoi impegni. Nel frattempo iniziai a frequentare altri gruppi che suonavano pezzi degli AC/DC, degli Iron Maiden, dei Metallica e dei Deep Purple. Mi dava sempre più soddisfazione saper suonare i pezzi dei grandi della musica, espormi come chitarra solista, sapere che tutti gli occhi, o meglio tutte le orecchie, sarebbero state puntate su di me. Era anche una grande responsabilità: bastava una nota sbagliata e avrei fatto una pessima figura. Mi stavo abituando sempre di più a essere un punto di riferimento, e a mio modo mi sarebbe stato molto utile poco tempo dopo.
La maturità fu l'esperienza forse più stressante della mia vita, ma per fortuna passò anche quella. Mi sentivo svuotato, esausto. Finalmente ero riuscito ad arrivare sulla cima di quella montagna che solo tre anni prima mi sembrava impossibile da scalare. Ero pronto a ricominciare? No, assolutamente no! E infatti decisi di non fare l'università, seguendo anche l'esempio dei miei fratelli maggiori, a cui stava costando moltissimo (prima che l'abbandonassero).
Finalmente non avevo più obblighi scolastici. Iniziai così ad affacciarmi al mondo del lavoro soltanto con un diploma da ragioniere programmatore in mano. Valeva poco anche allora, ma sicuramente qualcosa in più di quanto possa valere oggi. Salutai i miei, il paesello e i suoi inverni bui e lunghi e decisi di andare a cercare fortuna a Parma. Una città grande avrebbe offerto senz'altro di più a una persona in cerca di lavoro, ed era vero, ma non fu così facile ottenere il mio primo impiego da sviluppatore software. Ci vollero tre lunghi anni, in cui nel frattempo mi adattai a fare di tutto: il facchino in un hotel, con grande gioia per le mie giovani vertebre, e poi il fattorino, l'operaio in fabbrica e tante altre professioni. Non amavo nessuna di queste: ciascuna a proprio modo, tutte erano pericolose. Avevo visto alcune cose decisamente inquietanti nei reparti di verniciatura e montaggio delle varie fabbriche dove avevo lavorato. Avevo deciso, allora, che avrei dovuto fare l'impiegato, anche perché ci tenevo molto al mio corpo, alla sua integrità e alla sua salute. Questa cosa, detta oggi, è al limite del tragicomico, visto come sono andate le cose. Sono il genere di persona che non farebbe mai un piercing o un tatuaggio, non per chissà quale implicazione morale, ma semplicemente perché credo che i corpi siano belli così come sono, senza bisogno di cambiarli in maniera permanente, se non c'è un motivo di salute per farlo. Semplice gusto personale. E pensa a cosa è accaduto al mio corpo. Pensa a tutto quello che ti ho raccontato finora. Le mie dita allora erano capaci di muoversi agilmente e velocemente, in pochi millimetri, con grande precisione e velocità, applicando forze anche piuttosto importanti per un dito solo. I muscoli delle mie mani erano grandi, pulsanti e bene in vista. Riuscivo ad aprire le noci schiacciandole tra pollice e indice.
Oggi la forza le ha abbandonate. Ci sono momenti in cui quasi non riesco a credere che quello che ti sto raccontando sia vero. Ho la sensazione che siano i ricordi di un'altra persona e faccio fatica ad accettare quello che sono diventato oggi, soprattutto in relazione a ciò che sono stato.
Per effetto dell'artrite e della fibromialgia, le mie mani hanno poca forza e, fino a poco tempo fa, tremavano quando chiedevo loro di afferrare. Ora non tremano più, semplicemente perché la forza non c'è. Se voglio stringere la mano, questa rimane poco più che inerte. Al mattino le mani sono rigide, prima che si sciolgano un po', e sono gonfie e dolorose. Niente a che vedere con ciò che sono state.
Qualcuno mi dice che prima o poi invecchiamo tutti e io rispondo che sì, è vero, invecchiamo tutti, ma non tutti si ritrovano così prima dei 50 anni. Non è la stessa cosa ed è buffo notare che chi ci dice queste cose non soffre dei problemi degli invisibili.
Ma tant'è.
Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.
Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.
Non rimandare quello che vuoi fare. Fallo oggi, perché la vita può sorprenderti in modi che non ti aspetti neanche.
Accarezza qualcuno a cui vuoi bene; usale per aiutare: penso che sia la cosa più bella che si possa fare.
Crea qualcosa di bello, gioiscine, suona: io non posso più farlo.
Ci sentiamo martedì.
Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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🤲 Il Tatto: ti accorgi che è importante quando l'hai già perso ❌
In questo episodio ti racconto come la malattia ha cambiato il mio senso del tatto, un senso importantissimo che tutti noi tendiamo a sottovalutare finché non ci viene portato via.
Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 5):
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Le situazioni che possono rendere difficile la vita di un individuo sono tante; anzi, tantissime, e io non sono certo l'unico a doverle affrontare. È indubbio però che alcune siano molto conosciute, come la perdita della vista o dell'udito, mentre di altre non si parla mai.
Cosa succede, ad esempio, a una persona che perde completamente il senso del tatto? Anche questa è una situazione difficile, peggiore di quanto non sembri, e che dall'esterno non può essere percepita.
Un'altra delle esperienze impossibili da comunicare agli altri. Eppure, è un'altra delle cose che mi è capitata.
La causa di tutto questo è la psoriasi. Ne hai mai sentito parlare? Nella descrizione dell'episodio trovi un link all'Istituto Superiore di Sanità, con la definizione di cosa sia questa patologia cronica e non infettiva. Ma lascia che te la ripeta anche qui:
“La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle che si manifesta con aree ispessite ricoperte da squame di colorito grigio-argenteo che, in alcuni casi, possono dare prurito. In genere, le placche sono localizzate a livello dei gomiti, delle ginocchia, del cuoio capelluto, del viso, delle mani e dei piedi, ma possono essere presenti anche in altre parti del corpo.”
Confermo tutto, anche la parte in cui parla delle altre parti del corpo. È una patologia che è molto più problematica di quello che sembra, anche se da molti viene considerata soltanto come un problema estetico. Quella è la punta dell'iceberg, ma c'è molto di più. Nel mio caso, si è manifestata in forma visibile quando avevo 25 anni. Soltanto pochi anni dopo, quando è arrivata sui polpastrelli delle mani e dei piedi, rendendo difficile suonare e camminare, cominciai a capire che c'era qualcosa di grosso che non andava. Oggi pagherei oro per ritornare a quel periodo.
Ma in realtà la psoriasi si era manifestata già prima di quel periodo. Ricordo perfettamente il momento in cui la notai per la prima volta, perché ora so che si trattava di psoriasi. Era l'ottobre del 1990 e frequentavo la seconda media. All'improvviso la testa cominciò a prudere alla follia durante una lezione di musica. Non sapevo più cosa fare. Le dita non bastavano a placare quel prurito. Pensai di avere i pidocchi, perché non li avevo mai avuti e non sapevo che effetto facessero. Mi vergognavo moltissimo. Temevo di passare per quello lurido, che non si lava mai. Cercavo di non farmi vedere, ma non bastò. L'insegnante stesso se ne accorse e mi chiese cosa stesse succedendo: “C'è qualche problema?”
Risposi con la prima cosa che mi venne in mente: “Professore, mi scusi, stamattina ho messo il gel e devo essere allergico.” Ma il prurito continuava. Cominciai a usare una penna per grattarmi, e dopo quella che sembrava forfora, alla fine mi ritrovai del sangue tra i capelli.
Una volta a casa, mi lavai la testa. Il prurito dopo un poco passò, e mi convinsi che quello che avevo detto al professore era la verità. In fondo, avere la forfora succede, no? E anche essere allergici a qualcosa, giusto? Non ho messo mai più il gel per capelli in vita mia, e per fortuna quel prurito non si ripresentò più durante le lezioni di musica. Per fortuna, perché io amavo quelle lezioni.
Oltre a insegnarci la teoria e farci suonare il flauto, l'insegnante ci faceva ascoltare suoni diversi da uno xilofono che teneva nascosto, e ci chiedeva quale nota fosse la più acuta o la più grave. Ci faceva ascoltare piccoli motivetti, dicendoci solo quale fosse la prima nota, e noi avremmo dovuto individuare le altre. Sembrava un gioco, ma stavo allenando il mio orecchio a riconoscere le note, a capire se una nota era molto distante da un'altra sulla tastiera. Dell'ottava delle sette note non ha una fine. Arrivati all'ultima nota, si ricomincia con la prima, solo più acuta di prima e viceversa verso il basso. Un giorno, ci fece ascoltare dei pezzi di alcune big band, i gruppi musicali che si ispiravano allo stile del jazz anni '40. Ci insegnava quale dei suoni che ascoltavamo era la batteria, quale il basso, quale la chitarra. Io ero un po' avvantaggiato in questo giochetto, devo ammetterlo, anche grazie ai Pink Floyd e al loro ultimo disco del 1987, che avevo ascoltato fino a consumarlo. E poi, certo, anche grazie a tutti gli altri che cominciavo ad ascoltare, come i Supertramp, i Deep Purple, gli Alan Parsons Project, i Dire Straits, tutti dalla collezione di mio fratello, che non posso fare altro che ringraziare. Indovina com'erano i miei voti in musica!
In quello stesso anno, a furia di ascoltare i Deep Purple e gli assoli del chitarrista dei Pink Floyd, presi una decisione.
Al diavolo il flauto. io voglio suonare la chitarra come quello dei Pink Floyd!
Ne parlai con la mia mamma, a cui venne in mente che una nostra cugina nel paese ne aveva una che non usava. La cugina molto gentilmente me la prestò a tempo indefinito. Finalmente tra le braccia stringevo la mia prima chitarra. Anzi, a essere sinceri, la seconda, perché la prima l'avevo spaccata in testa a mio fratello quando avevo 3 anni. Mi dispiace che sia successo, perché era un bello strumento. Dai, sto scherzando; col senno di poi, mio fratello non si fece niente, ma ora mi dispiace molto.
Con la chitarra in mano, sfogliavo il libro di musica con la foga di chi sta morendo di sete e vede una bottiglia d'acqua. C'erano alcune piccole figure che facevano vedere dove mettere le dita sulla chitarra, per poterla suonare: gli accordi. Qualcosa con cui avrei avuto a che fare per molto tempo negli anni a venire. Provai subito a farne qualcuno, ma c'era un problema: le dita facevano male, anzi, malissimo. Dopo pochi minuti, la chitarra classica che avevo preso in prestito da mia cugina mi aveva già dato la prima grandissima lezione: se vuoi conquistarmi, dovrai impegnarti tanto, soffrire un po' e non stancarti mai. Ma poi sarà bellissimo. E lo sarebbe stato, in verità, almeno finché i miei polpastrelli non sarebbero stati devastati dalla psoriasi diversi anni più tardi. Ma di questo parleremo più avanti.
Oggi so che quello che all'epoca riconoscevo come prurito, mentre ero a scuola, era in realtà qualcos'altro. Lo so perché è la stessa cosa che sento ancora nei posti dove la psoriasi si è manifestata con le sue belle placche squamose e lucenti, rossastre e viola, nelle zone più strane del corpo. L'interno dell'orecchio, ad esempio, che specialmente nelle notti più calde non mi dà tregua, ma anche nelle piante dei piedi o tra le dita, sul cuoio capelluto, anche se di capelli non ne sono rimasti molti, forse uccisi proprio dalla psoriasi, o ancora sulle mani. Dove la psoriasi colpisce, la pelle non si abbronza mai più, anche quando la malattia sembrerà scomparire temporaneamente. Addio lentiggini, addio qualsiasi cosa. Restano solo aree bianche tondeggianti con delle aree dorate intorno.
Per essere più precisi, la psoriasi non dà solo prurito. Il prurito è quello che danno le zanzare o una piuma. Con la psoriasi è tutto diverso: la sensazione è quella di prurito insieme a mille spilli che ti pungono in un punto. A volte sembra quasi che ci sia uno sciame di insetti che ti sta pungendo o un animale che ti morde. Sai come si fa a dormire in queste condizioni? Non si può. E infatti, da quando questa patologia mi accompagna e si risveglia, non ho mai una notte tranquilla. Alle medie mi facevo sanguinare la testa; ora tocca alle orecchie.
La cosa peggiore di tutte, forse, è che nel mio caso si manifesta anche sui polpastrelli. Anche se non ho più i calli che avevo costruito con fatica quando suonavo, la psoriasi indurisce la pelle che si trova sulla punta delle dita. Qual è la parte delle dita che ci fa percepire maggiormente il mondo? Esatto: proprio la punta. È così che sentiamo se qualcosa è liscio o ruvido, se un tessuto è pungente sulla pelle ancora prima di indossarlo, o se qualcosa è caldo o freddo, ad esempio, o ancora, quanto è piacevole la pelle di un'altra persona quando la accarezziamo.
Ancora oggi la punta delle mie dita si ispessisce e diventa rigida. Come nelle altre zone colpite dalla psoriasi, la pelle perde elasticità fino a sgretolarsi e a spaccarsi, aprendo una piccola ferita che guarisce soltanto dopo molti mesi, se va bene. Prova a pensarci. Pensa a quante cose toccano le tue dita durante il giorno e a quante possibilità avresti di infettarle se fossero tutte aperte e sanguinanti. Se stai pensando a dei cerotti, posso dirti che non è una soluzione percorribile. Anche se non sei un musicista, pensa a che fatica potresti fare per cucinare, digitare su una tastiera o usare un cellulare con un cerotto su ogni dito.
Ultima chicca di tutta questa situazione è che con le dita in queste condizioni, che fanno male ogni volta che tocchi qualcosa, non puoi più tenere saldamente in mano gli oggetti. Come sarebbe possibile, d'altra parte? Non ti accorgi più se sono lisci e quindi devi fare più forza, oppure ruvidi, e allora ne basta meno. Sono tutte cose, piccoli movimenti involontari che il nostro cervello valuta e compie senza che noi ce ne accorgiamo, basandosi sul senso del tatto. Se questo non c'è più, la vita diventa molto più difficile. Bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. Eppure, quando lo racconti alle persone, ti guardano come se fossi un alieno. Alcuni pensano che esageri, ed è evidente quando gliene parli. Non ti capiscono perché loro il senso del tatto ce l'hanno, lo danno per scontato, come tutti, e non sanno cosa significhi perderlo. Spero soltanto che ascoltando questo podcast possano cambiare idea, e questo dipende anche da te. Dobbiamo raggiungere più persone possibili per far sapere al mondo come vive chi non ha più il tatto. Condividi questo episodio con quante più persone puoi. Io te ne sarò molto grato.
Allora, avevo ragione o no che perdere il senso del tatto è una disgrazia? Non sarà come perdere la vista o l'udito, ma è una cosa che peggiora molto la vita di chi la subisce, e ovviamente il mio destino non poteva farmela mancare. Più avanti ti racconterò ancora meglio quanto tutto questo sia determinante per la vita di un musicista, ma per ora voglio lasciarti con un invito a riflettere sulla perdita del tatto. Anche questo è un senso prezioso, e anche in questo caso la sua perdita è invisibile. Prova a dire a qualcuno che hai perso il senso del tatto e vedrai che non capirà al volo quello che significa. Se incontri qualcuno in questa condizione, per la psoriasi o per un altro motivo, sii gentile con lui o con lei: sta combattendo una battaglia interiore per capire come percepire di nuovo il mondo. Ti do appuntamento a martedì e, nel frattempo, stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.”
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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!
In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.
Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):
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Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.
Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.
All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.
Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.
La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.
Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.
Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.
La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.
Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.
A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.
Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.
Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.
Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.
Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.
Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.
Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:
Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.
Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.
Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.
Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.
Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.
A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.
Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.
I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.
Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.
Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.
Tranne un'altra, a pensarci bene.
C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.
Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.
Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.
Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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