🔥💥🤒 Fibromialgia e Artrite: Come le Malattie Invisibili Cambiano la Vita Sociale 🤕💔🚫
“Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue.”
In questo episodio ti racconto il mio rapporto con gli altri, in particolare i gruppi di persone con cui ho avuto a che fare nella vita e come la malattia abbia cambiato questi rapporti.
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Come esseri umani, tutti facciamo parte di un gruppo di persone: l'umanità, appunto, ma anche altri gruppi, anzi parecchi gruppi. Siamo animali sociali che spesso esprimono il meglio di sé quando fanno parte di un insieme di persone che hanno lo stesso scopo.
Che bello quando si sente di poter creare qualcosa con altri, creare qualcosa di più grande della semplice somma delle parti! Si prova una sensazione magnifica di inclusione, di potenza, di fratellanza, persino.
Oggi, da malato invisibile, mi è molto difficile sentirmi a mio agio come membro di un gruppo qualsiasi; uno di lavoro, ad esempio. Mi manca la sicurezza di poter dare il meglio di me.
Ma non è sempre stato così.
Nel 1990, ad esempio, vivevo ancora nel paese fra le montagne, a cavallo fra Toscana e Emilia, e avevo proposto ai miei pochi amici di suonare insieme. Era stato tutto molto spontaneo. Io avevo creato qualche motivetto con i pochi accordi che sapevo fare e Danilo, uno degli amici storici che frequentavo molto all'epoca, mi aveva dato una mano a sistemarli e a suonarli, facendomi nel frattempo ascoltare i suoi. Danilo aveva una voce squillante, a differenza della mia, e anche lui aveva una chitarra da suonare. Te l'ho dett; era il momento storico migliore per i chitarristi. Molti ragazzini volevano suonare quello strumento: erano gli anni degli AC⚡DC, dei Nirvana e dei Pearl Jam.
Ci divertivamo moltissimo, anche se io ero una schiappa con i testi. C'era un nostro amico, però, a Pontremoli, che era molto più in gamba di noi nell'arte di emozionare con le parole. Si trattava di Marco, e possedeva la chitarra acustica fantastica che avevo visto qualche settimana prima. Sapevo che gli piaceva scrivere poesie, oltre che strimpellare, e nel giro di poco tempo anche lui era entrato nel gruppo in maniera fisiologica e naturale. I testi che scriveva e cantava con la sua voce bassa e profonda ci avevano dato una grossa spinta a continuare.
Le canzoni fiorivano. Ora eravamo in tre, con tante possibilità in più di imparare l'uno dall'altro, di scambiarci suggerimenti di ascolto per scoprire nuova musica, aspirazioni e idee.
Dopo poco insistetti così tanto con i miei genitori che mi regalarono pure una chitarra acustica. Non li ho mai ringraziati abbastanza e quindi lo faccio adesso: grazie di cuore!
Se il dolore ai polpastrelli che avevo provato con la chitarra classica era già forte, quello provato con le corde in metallo della chitarra acustica era stato qualcosa di fuori scala. Erano più sottili e più tese; erano più vicine tra loro, quelle corde, e ci volle un bel po' ad abituarsi ad essere ancora più precisi, ancora più forti, ancora più determinati ad ignorare il dolore e andare avanti (una cosa che più tardi mi sarebbe stata davvero molto utile nella vita), ma era troppo importante per mollare. Dovevo andare avanti.
Ti racconto tutto questo per farti capire cosa potessero fare le mie mani e quanto era importante per me il suono della mia nuova chitarra. Mi piaceva tantissimo: potevo fare molte più cose e le mie dita diventavano sempre più forti, sempre più in grado di dosare la giusta quantità di forza in un punto piccolissimo per stringere le corde dove serviva e poi spostarsi velocemente sulla nota successiva. Un lavoro, insomma, di grande precisione che avrei continuato a fare ancora per molti anni.
Per la promozione in terza media, i miei cedettero di nuovo alle mie suppliche per avere una chitarra elettrica. Gliel'avevo chiesta fino allo sfinimento. Era ora di fare il salto di qualità, ma allora non mi rendevo conto che nel bilancio familiare una spesa di 650.000 lire era una grossa somma. Oggi me ne vergogno un po', ma in quegli anni questo fervore musicale mi stava dando un po' la testa. Mi sentivo sempre più importante, persino troppo, vista la situazione, e così mi sentivo in diritto di chiedere tutto, di avere tutto.
La mia nuova chitarra elettrica, tutta bianca, la comprammo a Parma in un pomeriggio di luglio del 1991. Senza sapere troppo di chitarre, avevo preso quella che mi piaceva di più esteticamente, pur restando nel budget. Ovviamente, con il suo piccolo amplificatore al seguito o sarebbe stata inutile per le mie mani. All'improvviso, si era aperto un nuovo universo di possibilità.
Questo strumento era un po' più facile da suonare; serviva meno forza per suonarlo, ma molta, moltissima precisione in più. I suoni distorti, infatti, se non sono suonati con una precisione maniacale, provocano soltanto un gran rumore, ma niente musica.
Anche per il nostro piccolo gruppo musicale si aprirono nuove prospettive, nuove possibilità di incastrare il suono di uno strumento con quello dell'altro. In breve tempo fu tutto un fiorire di chitarre. Anche Danilo ne prese una, una stupenda chitarra elettrica blu metallizzata, marca Fender. Ci divertivamo sempre di più suonando insieme a Marco, che continuava a sfornare testi su testi; insieme funzionavano bene. Dopo qualche mese, anche Lorenzo, un altro grande amico che viveva a Milano, si prese una chitarra elettrica. Era l'imitazione di uno strumento degli anni '60, con un suono fantastico quanto il suo colore rosso fuoco e un grande amplificatore adatto anche al rock pesante. Anche lui aveva scritto qualche canzone, guarda un po', e così lo inglobammo nel gruppo immediatamente.
Ognuno di noi aveva un'anima musicale diversa: chi amava la musica leggera italiana, chi il rock inglese e il pop, chi quello americano, chi il country e le ballate. Ciascuno portava un contributo e un punto di vista diverso al gruppo, e quello che nasceva era davvero qualcosa di più della somma delle parti: un genere unico. Eravamo al settimo cielo.
La prima crisi del gruppo arrivò qualche tempo dopo, quando ero già alle scuole superiori. Ci eravamo resi conto che c'erano davvero troppe chitarre e troppe voci nel gruppo, ma nessuno, giustamente, voleva fare un passo indietro. In particolare, io insistevo molto per fare un salto di qualità. Mi sentivo sempre più sicuro sullo strumento, stavo facendo progressi suonando i pezzi dei Nirvana, dei Deep Purple e naturalmente anche dei Pink Floyd. Essere in grado di suonare le canzoni dei miei idoli, che adoravo, mi dava tanta arroganza e sicurezza. Una cosa che ho notato solo a distanza di anni. Con i miei amici insistevo molto anche perché fossero d'accordo con me e per qualche ora siamo stati davvero a un passo dallo scioglimento. Non riuscivamo a trovare una soluzione. In quegli anni non c'era internet e WhatsApp, e le nostre discussioni duravano settimane, visto che ci vedevamo solo di sabato e di domenica. Per fortuna, la nostra amicizia non ne risentì, visto che poi facevamo anche molte altre cose insieme che stemperavano i toni. Si andava al fiume, a giocare a pallone, a fare le grigliate insieme nei boschi quando era stagione. Noi, in fondo, eravamo i “Crackers”, quel gruppo musicale così particolare che faceva tanti generi in uno. Finite le discussioni, si tornava più amici di prima, perché in tutti noi c'era la consapevolezza che potevano esserci dei dissapori, ma si doveva trovare una soluzione.
Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa oggi, da adulto e ammalato invisibile.
Quanti gruppi ho incontrato nella mia vita! Ho cambiato lavoro un sacco di volte: nuovi gruppi, nuove regole e nuove consuetudini da cambiare tutte le volte e, in questo caso, obiettivi che non sempre sono condivisi da tutti i membri del gruppo. I gruppi dell'età adulta spesso sono spietati: tolleranza zero, pressioni e manipolazioni varie: o sei come noi, o non sei uno di noi.
Avrei potuto fare parte di tanti gruppi musicali, come poi è stato, ma nessuno di questi mi avrebbe mai preparato abbastanza ai gruppi sociali dell'età adulta. Anzi, avere sperimentato l'unione intima dei gruppi musicali è qualcosa che ti porta nella direzione diametralmente opposta: a fidarti completamente, cosa che nei gruppi di persone che frequento oggi non posso fare fino in fondo.
Sì, perché da malato invisibile c'è sempre una certa tendenza degli altri ad ignorare chi sono. Sarebbe bello poter dire che la malattia non è ciò che ci definisce, ma nella società della produzione, purtroppo, è esattamente quello che accade: o sei produttivo, o fai quello che il gruppo si aspetta da te e come il gruppo se lo aspetta da te, oppure sei un problema e non c'è spazio né per la creatività né per il rispetto delle difficoltà di chi è ammalato.
Anche i gruppi sociali convenzionali sono un problema. Faccio fatica a partecipare a tutte le attività proposte dagli amici, dai conoscenti e anche dai parenti più o meno stretti. “Ma perché non ci vediamo martedì alle 7 di sera? Dai, una pizza...”
Come faccio a spiegare per l'ennesima volta che le mie energie finiscono già alle 5 del pomeriggio, quando va bene? Altro che martedì sera!
“Ma perché non ci vieni a trovare? Prendi la macchina, parti e via. Ah, io, alla tua età... Sapessi cosa facevo!”
Eh, se solo potessi guidare più di un'ora senza mal di schiena e senza addormentarmi, forse lo farei. Forse tu alla mia età non avevi l'artrite, la fibromialgia e la psoriasi.
Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue. Al gruppo che non ci capisce può sembrare che siamo sfaticati, che non ci interessi davvero quello che facciamo o che non siamo portati per farlo. So che tanti di noi, malati invisibili, hanno subito pesanti conseguenze sul lavoro a causa di questa enorme difficoltà di comprensione. Alla fine, noi malati invisibili sappiamo di essere soli anche in gruppo, anzi, spesso proprio in gruppo.
C'è una cosa che non sono ancora in grado di fare, nemmeno dopo tanti anni di vita: non generalizzare. È vero che noi malati invisibili facciamo fatica ad essere capiti e accettati in diversi tipi di gruppi, ma non dobbiamo neanche perdere la speranza. In fondo ci sono gruppi di persone davvero meravigliosi. Il gruppo musicale dei Def Leppard, ad esempio. Erano famosi negli anni '90. Il loro batterista perse un braccio in un incidente stradale, ma gli altri membri della band decisero di non sostituirlo. Attesero che si riprendesse e che imparasse a suonare quasi da zero una batteria modificata per essere suonata con un braccio solo. Wow! E se esistono gruppi come quello, allora c'è speranza che ne esistano di simili che possano capirci. Non dobbiamo perdere la speranza.
Nel frattempo dobbiamo fare un certo lavoro di pulizia, se mi passi il termine. Se un gruppo di persone non ci capisce, allora è inutile insistere: meglio abbandonarlo. Se possiamo, se ci è possibile, smettiamo di frequentare quel gruppo: continuare ci farebbe stare ancora peggio. E se non ci tuteliamo noi da soli, chi lo farà? Un consiglio che mi sento di darti è di non pensarci troppo, a costo di sembrare freddo, superficiale e maleducato.
Non abbiamo energie da perdere. Spostiamoci altrove. Nuove persone arriveranno, nuovi gruppi ci accoglieranno. Ci sarà sempre una nuova possibilità. Le persone che ci possono capire sono una su un milione, ma ci sono. Non smettiamo mai di cercarle, o la malattia ci avrà già sconfitti; ci trasformerà nei mostri che non siamo e che non dovremmo essere mai. E poi noi siamo tanti, tantissimi. Siamo in ogni gruppo. Siamo un gruppo. Troviamoci almeno fra di noi, nei commenti di questo podcast, nella pagina Facebook che trovi nella descrizione di questo episodio facebook.com/GridoMutoPodcast). Restiamo aperti a riconoscerci tra tanti invisibili, ma uniti, in qualsiasi gruppo sociale.
Ci sentiamo martedì, stammi bene!
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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