✨ Le mie mani hanno una data di scadenza. Come farò dopo? 🤔
“Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare.”
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Sono passati tanti anni da quando ho perso il senso del tatto. Soltanto di recente sono riuscito a recuperarlo in parte, ma non ho più trovato niente che sia bello da toccare tanto quanto la prima chitarra che ho avuto fra le mani. Riesco ancora a sentirne l'odore, quell'odore della colla mista a quello del legno di diabete di cui era fatta. Fantastico! Spesso mi avvicinavo al foro centrale della chitarra, quello sotto le corde, per aspirarne il profumo a pieni polmoni.
A cavallo tra gli anni '80 e '90, la chitarra era ancora all'apice della sua gloria e ci sarebbe rimasta ancora per un po'. Il rock e l'heavy metal erano sempre più famosi in tutto il mondo e la chitarra elettrica era uno dei simboli più forti di quei generi musicali. Di conseguenza, anche i chitarristi di fama mondiale si moltiplicavano. Era normale che tra i ragazzi della mia età quello strumento esercitasse un fascino irresistibile. Di fatto, chi non voleva fare il cantante di una rock band voleva fare il chitarrista. Per me, questa attrazione magnetica si era concretizzata proprio nello strumento che stringevo, prestato da una cugina che non finirò mai di ringraziare, anche se ora non c'è più.
Avevo visto la chitarra in mano ai grandi del rock e ora finalmente potevo suonarla, o almeno provarci. Suonare era una parola un po' grossa all'epoca. Come mi diceva qualcuno, più che suonarla, la “facevo suonare”. Con il tempo ho imparato quale fosse la differenza enorme tra queste due cose, ma in quel momento la gioia di ascoltare questi suoni nuovi e sapere che ero io a produrli, a decidere quando farli iniziare e quando farli finire, era qualcosa di elettrizzante. Io ero il regista di quei suoni e nessun altro. Non era certo la chitarra elettrica dei Pink Floyd, d'accordo, ma era pur sempre una chitarra e passavo ore e ore chino sopra di lei, con il libro di scuola davanti, a cercare di imparare quei tre o quattro accordi che c'erano in quelle pagine. Alcuni di questi accordi, che si chiamavano barré, non riuscivo proprio a farli. Il Fa maggiore, ad esempio; bisognava mettere il dito totalmente disteso in verticale e stringere ben sei corde insieme. Si usava il lato destro dell'indice della mano sinistra. Ci voleva troppa forza e le sei corde di nylon della chitarra facevano così male che non riuscivo a premerle come si doveva per eseguire l'accordo correttamente. Ne uscivano dei suoni muti o gracchianti e mi chiedevo se ce l'avrei mai fatta.
Riuscivo a fare altre cose, però. Con quello che avevo imparato nelle lezioni di musica a scuola, imparai a suonare da solo le melodie di alcuni brani di Pink Floyd. Mentre eseguivo la prima nota della melodia, il mio cervello calcolava al volo la distanza della nota successiva sul manico della chitarra e, le volte successive, usavo semplicemente la memoria. Oggi mi rendo conto che questo non fosse il metodo migliore per imparare a suonare uno strumento, ma allora l'importante era il risultato. Ricordavo dove avevo messo le dita per suonare quella canzone, tutto lì. Ero al settimo cielo. La mia memoria e il mio orecchio musicale mi aiutavano moltissimo e riuscivo così a ripercorrere i passi dei grandi della musica.
Parlando con il professore di musica a scuola, riuscii a ottenere il permesso di suonare la chitarra al posto del flauto. Ero l'unico ragazzino che aveva uno strumento diverso dal flauto e gli occhi degli altri erano puntati su di me. Stavo in qualche modo cominciando a realizzare il mio sogno?
Mi sentivo diverso dagli altri, osservato, e questa volta non era per la vergogna di grattarmi in classe. Alcuni dei miei compagni erano un po' invidiosi e questo mi dava soddisfazione. Devo ammetterlo.
Sapendo che non riuscivo a fare i barré, il professore aveva scarabocchiato su un foglio a quadretti i punti in cui avrei dovuto mettere le dita per fare altri accordi. Si trattava di accordi nuovi, quelli che sul libro non c'erano e che mi sarebbero serviti per accompagnare le canzoni che i miei compagni suonavano col flauto.
Il prezzo da pagare per tutto questo era abbastanza alto per la mia età. La chitarra classica, con la sua custodia di plastica rigida e spessa, era uno strumento pesante e ingombrante, quasi quanto lo zaino pieno di libri. E portare tutto questo peso, avanti e indietro da scuola a casa e viceversa, su e giù per gli autobus e nei tragitti a piedi, era un po' faticoso, ma non mi importava perché mi stava rendendo più forte, sia nell'animo che nel fisico.
In quel periodo riuscii anche a partecipare a corsi di atletica nella mia scuola. Sono sempre stato una schiappa nelle gare di velocità, ma in quelle di forza lì riuscivo benissimo. Fui uno dei pochi in tutta la scuola a partecipare alle gare provinciali di salto in alto e in lungo e, in seguito, riuscii ad arrivare terzo alle competizioni provinciali e a piazzarmi bene anche alle regionali, pur gareggiando con ragazzi molto più alti di me. Anche questo, e sentirmi sempre più forte fisicamente, mi dava un senso di grande sicurezza. Mi faceva sentire migliore degli altri. Da lì a sviluppare una certa arroganza, anche in casa, il passo fu davvero breve. Mi sentivo sempre più importante.
L'inverno e le sue giornate buie e nevose passarono molto più rapidamente quell'anno. Dopo avere ricevuto per Natale una chitarra classica tutta mia, mi ritrovai velocemente alla primavera del ’90. Le mie mani diventavano sempre più forti a forza di esercizi, lezioni di musica e canzoni. Passavo tutto il tempo che potevo sullo strumento a suonare canzoni che conoscevo, o almeno le loro melodie, e un giorno, con grandissima sorpresa, riuscii a produrre un accordo decente di fa maggiore: uno di quelli che prevede il faticoso dito indice che blocca tutte le corde. Non riuscivo a contenere la gioia; ero così contento che al centro del petto sentii una bella sensazione che si allargava con il respiro fino a raggiungere le mie mani.
Era la forza creativa che mi spingeva a suonare accordi simili, provare a farli in altri punti del manico dello strumento e vedere che effetto si otteneva; cambiare il movimento della mano destra e vedere cosa sarebbe cambiato di conseguenza: il ritmo della canzone o l'effetto sull'accordo, perché non era la stessa cosa suonare le corde con la mano destra in un verso piuttosto che nell'altro.
Comprai un grande poster da appendere in camera su cui c'erano tutti gli accordi che si potessero desiderare, raggruppati per tonalità. Era in inglese, ma non era un problema. In breve tempo avrei imparato anche la terminologia musicale anglosassone, diversa dalla nostra. Non c'era più niente che potesse fermarmi, a quel punto, tranne una chitarra acustica che vidi per la prima volta dal vivo a casa di uno dei miei amici, Marco.
Era tutta nera con finiture rosso acceso ed emetteva un suono divino per le mie orecchie, molto più brillante e definito rispetto alla mia chitarra classica. Gli accordi eseguiti su quello strumento sembravano un coro di angeli rispetto a quelli della chitarra classica. Era incredibile come suonasse. Il mio orecchio comprese subito che tutti i musicisti che avevo amato fino a quel momento usavano chitarre acustiche nei loro dischi, oltre a quelle elettriche. Per le chitarre classiche non c'era posto, esattamente come nella società di oggi non c'è posto per i malati invisibili. La mia nuova chitarra classica, all'improvviso, mi sembrava già vecchia.
Da quel momento, iniziai ad ascoltare e riprodurre in testa le canzoni di diversi artisti che avevano fatto della chitarra acustica il loro segno distintivo. Tracy Chapman, ad esempio, o Neil Young, Bob Dylan, Suzanne Vega. Un nuovo vaso di Pandora si era aperto per il mio orecchio musicale. Nel frattempo, avevo in mente un po' di cose che io e il mio amico potevamo fare: suonare insieme, ad esempio. Se ci ripenso oggi mi sembra impossibile che le mie dita potessero fare tutte quelle cose e mi sembra impossibile anche la tenacia che avevo e che mi spingeva ad imparare tutto. Anzi, ad andare avanti, imparando, nonostante le dita che mi bruciavano sulle punte. Chi me lo faceva fare? In fondo, sicuramente il desiderio di spiccare in mezzo a tanti altri della mia età, ma c'era di più: amavo creare. Le dita si sarebbero adattate.
Oggi ci sono giorni in cui, con le stesse dita, non riescono ad aprire un barattolo di marmellata ed è così da tanto. E non ho neanche 50 anni. La perdita del senso del tatto, infatti, è solo uno dei problemi che affliggono le mie mani, purtroppo. Sicuramente vale per tutti il fatto che, andando avanti, le articolazioni stiano sempre peggio, ma è come se per me questo processo fosse accelerato di 10, di 20 volte. Penso al futuro, imminente, e mi chiedo come potrò fare ad essere autosufficiente.
Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare. Questo è quello che ho sempre fatto nella mia vita: non soltanto lavorando, ma in tutto il resto del tempo. Anzi, soprattutto nel resto del tempo. Le mie mani stanno perdendo la capacità di interagire con il mondo, di farmi interagire con il mondo. Cosa farò quando non sarò più in grado di creare? Potrò considerarmi ancora me stesso? Sembra banale, ma questi sono i miei pensieri e ci penso spesso e non ho una risposta. Forse potresti darmi tu il tuo punto di vista con un commento, ad esempio.
Spesso indugio in questi pensieri, ma mi sforzo di scacciarli via con prepotenza. Ci sono tante cose che non posso più fare, ma ce ne sono tante altre che a questo punto della mia vita non avrei immaginato di poter ancora fare, o di poter fare, in generale. Questo podcast, ad esempio, e questo mi dà conforto, perché penso a quante altre cose belle potrò fare in futuro, cose che ora nemmeno immagino e che neppure le malattie mi impediranno di fare.
Ci sentiremo presto per il seguito della mia storia; una storia che somiglia sempre di più a un lungo viaggio sulle montagne russe. Ti do appuntamento a martedì prossimo con un nuovo episodio.
A presto, e stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!
In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.
Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):
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Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.
Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.
All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.
Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.
La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.
Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.
Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.
La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.
Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.
A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.
Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.
Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.
Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.
Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.
Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.
Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:
Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.
Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.
Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.
Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.
Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.
A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.
Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.
I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.
Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.
Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.
Tranne un'altra, a pensarci bene.
C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.
Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.
Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.
Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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L'udito 👂: perché non basta dirci "Va tutto bene!" 🗣️❗ L'ipersensibilità...
L'udito 👂: perché non basta dirci “Va tutto bene!” 🗣️❗ L'ipersensibilità uditiva.
In questo episodio ti racconterò di come la musica abbia plasmato la mia vita già da bambino e di come il mio udito eccezionale sia diventato, allo stesso tempo, una benedizione e una maledizione.
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Cos'è che scatena la compassione per la sofferenza? È la consapevolezza che potremmo anche noi subire la stessa sorte di quelli che vediamo soffrire. La vista è il senso più importante con cui noi esseri umani misuriamo il mondo ed è naturale che sia anche la prima cosa che ci avverte che qualcuno molto vicino a noi sta soffrendo. Il nostro cervello si mette subito all'erta, inconsciamente, per capire se c'è un pericolo imminente che potrebbe riguardare anche noi. Però, non tutte le patologie si vedono con gli occhi, e allora in questa puntata ti parlerò di un altro senso che può farci percepire la sofferenza: l'udito.
Pensa a quante volte, magari al telefono, ti sei accorto che un tuo amico o un tuo parente non stava bene semplicemente sentendolo parlare. Oppure pensa a quando qualcuno ha un'influenza: emette dei lamenti, non sta bene, tossisce. Ti accorgi subito quando qualcuno non sta bene perché la voce è davvero uno degli specchi dell'anima, ed è difficilissimo fingere di stare bene quando non è così. Al telefono è un po' più facile nascondere la propria sofferenza. Le persone dall'altra parte ci dicono “Va tutto bene” e scegliamo di fidarci delle loro stesse parole. “Va tutto bene”, ci sentiamo dire. È una frase rassicurante, no? Specie se pronunciata con voce ferma, con convinzione.
Io ho deciso che non voglio più nascondere come mi sento. Mi sono stancato di dire che va tutto bene. Per molti anni mi sono riparato dietro questa frase, non accettavo le patologie che stavano nascendo. Anche perché, all'inizio, i sintomi erano soltanto vaghi, non mi creavano troppi problemi apparentemente. Quindi era facilissimo dire che andava tutto bene, era facilissimo non mettere in mostra quella che era ed è una mia debolezza, non farlo sapere. Avevo paura di come mi avrebbero giudicato gli altri in una società che ci vuole perfetti. È facile dire che avrei dovuto fregarmene, ma non mi è mai stato facile perché non sono fatto così. Ci sono tanti condizionamenti che subiamo sin da piccoli e che ci tiriamo dietro per tutta la vita.
In alcuni casi era davvero indispensabile nascondere la mia sofferenza. Verso i genitori, ad esempio, li avrei preoccupati inutilmente, non avrebbero potuto farci nulla. Oppure anche durante un colloquio di lavoro. Sarai d'accordo con me che è un po' strano esordire con frasi del tipo: “Sì, so perfettamente gestire l'infrastruttura informatica dell'azienda, ma non garantisco di essere ancora in grado di muovere le dita nel prossimo futuro” o anche “Sì, adoro lavorare sotto stress e con orari flessibili. E ovviamente, anche se gli straordinari non sono pagati; il burnout per me è sempre dietro l'angolo, però non si preoccupi, sono il candidato migliore per questa posizione”.
Oltre a tutto questo, non mi andava proprio di dire a chi conoscevo che le cose andavano sempre peggio. Mi sono sempre sentito in difetto per queste patologie, diverso, in qualche modo rotto, senza possibilità di essere aggiustato. Mica bello parlarne con gli altri, poi come, con quali parole? Quando ci provavo non andava mai a finire bene. Più avanti ti racconterò. Ed ecco che allora il mio “Va tutto bene” aveva uno scopo quasi liberatorio per me, sarei riuscito a non affrontare l'argomento ancora una volta. Con il passare del tempo sono diventato bravissimo a dissimulare. “È tutto a posto, va tutto bene.” Si infarcisce la frase con un sorriso e si tira avanti. A lungo andare, e con l'aggravarsi dei sintomi, mi sono accorto che questa strada è stata controproducente, sia per me stesso che per fare dire agli altri, direttamente dalla mia voce, come stavo e che cosa non potevo più fare.
L'udito non ce l'hanno solo gli altri; può essere una grande risorsa anche per noi che siamo ammalati e ci apre un mondo di possibilità per fare cose che amiamo e che ci è ancora possibile fare. L'udito per me è sempre stato importantissimo. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, anche senza rendermene conto, ho sempre avuto un udito estremamente sensibile e allenato fin dagli anni '80.
Nel 1983, ad esempio, iniziavo a frequentare le scuole elementari a Livorno e le mie orecchie avevano cominciato ad avere pane per i loro denti. Cantavo le canzoncine che ci facevano imparare durante le lezioni e finalmente potevo cantare senza vergogna, sapendo che lì si poteva fare anche a squarciagola. Ovviamente continuavo ad ascoltare e canticchiare anche le canzoni dei cartoni animati dell'epoca, come Heidi o l'Apemaia. Tutto pane per i miei denti, gioia per le mie orecchie e possibilità di assorbire tutto quel mondo fantastico di note.
A Natale avevo ricevuto in regalo un giradischi portatile a batteria; gli si potevano dare in pasto soltanto i 45 giri e, a pensarci oggi, assomigliava molto a quelli che negli anni successivi sarebbero stati i lettori CD e poi i lettori MP3. Se hai vissuto gli anni '80 ti ricorderai senz'altro del famoso “mangiadischi”, oggetto del desiderio che ti faceva ascoltare la musica fuori casa, all'onestissimo peso di 1 kg. Io lo usavo molto spesso, fermandomi solo quando le batterie erano esauste, perché...sì, erano anche costose!
Io e la mia famiglia continuavamo ad andare dai miei nonni molto spesso in quegli anni, sia nei fine settimana che in estate, quando noi bambini potevamo fermarci lassù per settimane.
Fu in quella valle fresca della Lunigiana che scoprii per la prima volta la musica degli adulti.
Accadde per caso nell'estate dell'84, tra un calippo e l'altro. Mio fratello maggiore allora aveva 14 anni e tutte le sere ascoltava musica da un giradischi. Non quello portatile di cui ti parlavo prima ma uno di qualità superiore. Lui usava i 33 giri, quei grandi dischi in vinile che sono sopravvissuti al tempo e che ancora oggi possiamo trovare in commercio per gli appassionati.
Ricordo che me ne stavo sotto le coperte al buio ad ascoltare quei battiti intensi che provenivano dal piano di sopra, come se appartenessero a un cuore enorme. Sentivo tutto benissimo perché il pavimento di legno non isolava alcun suono, nel bene e nel male. In quel caso per me era un bene, e mi arrivavano i bassi intensi; i ritmi di quella musica strana, così diversa da quella che conoscevo, e soprattutto...così seria! Non ne capivo né le parole né gli argomenti, ma adoravo come mi arrivava il canto di quelle voci e i suoni erano molto più gradevoli e pieni rispetto al mio piccolo mangiadischi.
Uno dei dischi che mio fratello ascoltava più spesso si chiamava Mixage '84. Nella copertina stilizzata, una ragazza guardava fieramente verso l'alto, abbronzata e luccicante per la crema solare, con una spiaggia tropicale sullo sfondo. L'estate era scoppiata anche nelle valli degli Appennini proprio grazie alle radio e a quei dischi, con quei brani, tutti di autori diversi, tutti dello stesso genere: musica dance anni '80. Quel disco girava e girava una sera dopo l'altra, e mi addormentavo sulle note di “Movin' On” o di “Self Control” di Raf, oppure del remake improbabile di “Every Breath You Take dei Police”, e poi altri dischi con gli Alphaville, gli A-ha, Bronski Beat, Cyndi Lauper e tutti gli altri. In poco tempo, le canzoni che mi piaceva cantare erano diventate quelle, anche se non sapevo niente di inglese e biascicavo parole senza senso. Le canzoni tristi o quelle dai toni sospesi mi piacevano molto di più delle canzoni allegre, forse anche perché le canzoncine allegre le associavo alla scuola.
E poi un giorno arrivò la svolta. Mio fratello mise un disco diverso, un singolo: si chiamava “Jump” dei Van Halen.
Quella canzone mi entrò immediatamente in testa: un ritmo incalzante, una melodia che si poteva canticchiare facilmente e che mi faceva venire tanta voglia di muovermi, anche se ero già a letto. Poi, a metà canzone, accadde qualcosa di incredibile, di inaspettato, una roba mai sentita: un cambio di passo totalmente senza senso. La voce scomparve e la musica cambiò del tutto. Fece irruzione uno strumento magnetico, che nel giro di pochi secondi vomitò un mare di note nelle mie orecchie. Che cosa avevo appena sentito? Una chitarra elettrica! Wow, che suono e che potenza! A quel punto il resto della canzone passò per sempre in secondo piano. Teniamo a mente che, ancora ai giorni nostri, è un pezzo che è un po' difficile da eguagliare. Ce ne fossero di Jump! In quel momento era nata la mia passione per uno strumento che sarebbe esplosa più avanti.
La mia fame di musica continuava a crescere e così pure il mio udito. Può darsi che la mia capacità di riconoscere i suoni, di ricordarli o di avere l'udito fino che ho ancora oggi si sia sviluppata proprio in quegli anni. Oggi, avere l'udito più sviluppato della media è sì un piacere, ma anche un grande ostacolo per me. Percepisco più suoni dell'udito medio e soprattutto di notte, quando il dolore cervicale o quella sensazione che qualcuno mi stia accoltellando a un fianco non mi lasciano riposare. Allora comincio a sentire lo svolazzare di una farfalla nel buio della stanza, l'automobile o il treno che passano a mezzo chilometro di distanza o il vicino che rientra a casa due o tre appartamenti più in là. Il canto degli uccelli delle 3:30, però, è la cosa peggiore di tutte. Quelle sono note: è la fine. L'udito si concentra su quei suoni, il cervello comincia a elaborarli, a catalogarne la ripetitività, il ritmo, il timbro e le pause.
Ma va tutto bene, sorridiamo, no?
Adesso basta sorridere.
E' ora di far percepire agli altri come stiamo noi ammalati di patologie che non si vedono. Sta a noi guidarli, insistere perché si sforzino di capire. Con il “Va tutto bene” resteremo sempre le persone che eravamo, ricordiamocelo, quando in realtà non li siamo più.
Voglio lasciarti con un buon proposito per il futuro: non fare l'errore che ho fatto io, non avere paura di dire come stai. Chi ti sta intorno e ti vuole bene capirà. Sul posto di lavoro, con prudenza, cerca di fare capire quello che vivi e le tue esigenze. Non è facile, ma siamo tutti umani e troverai senz'altro chi comprenderà la situazione o un posto di lavoro dove questo sarà possibile. Fatti udire, sfrutta questa possibilità. Io ho deciso di farlo oggi tramite questo podcast e ho ancora tanto da raccontarti. Ci sentiamo tra una settimana per il prossimo episodio, in cui scoprirai un pezzettino in più della mia storia.
Nel frattempo, stammi bene!
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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