🌙 Quando non riesci a dormire 😴, e ti discriminano per questo 🚫.
Sembrava che la vita mi stesse abbandonando. In treno, qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme. Figurati come potevo sentirmi.
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 12), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
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In questo episodio ti racconto le luci e le ombre del mio momento di massima evoluzione musicale e anche alcuni miei pensieri sul sonno.
Ti è mai capitato di pensare al sonno? Quella cosa che da giovane dai per scontata, ma andando avanti con gli anni ti ritrovi a desiderarlo e a trovarlo con difficoltà? Secondo me viviamo in una società che ha un rapporto molto conflittuale con il sonno: da un lato tutti abbiamo sempre più problemi di sonno e, dall'altro, chi dorme viene criticato. Se ci pensi, dormire ha un significato metaforico abbastanza brutto nella nostra lingua, nella nostra società.
Quando diciamo che qualcuno dorme, in tanti casi stiamo dicendo che è poco sveglio, che non è una persona intelligente. Quando abbiamo qualcosa di importante da fare, invece, diciamo che non dobbiamo “dormirci sopra”, dando automaticamente un significato negativo al sonno. Quando una persona vive nel mondo dei sogni, significa che non sta coi piedi per terra, non è una persona concreta. Pensaci bene: quanti modi di dire conosci che sono legati al sonno come cosa negativa? Quanti ne ho dimenticati? Se ne conosci altri, fammelo sapere con un commento e lo leggerò davvero con molto piacere.
Quindi, dicevamo, da un lato tutti vorremmo dormire e, dall'altro, chi dorme tanto viene giudicato come poco intelligente o sfaticato. Poi ci siamo noi, malati invisibili che, per non sbagliarci, riusciamo sia a non dormire sia a dormire. Non dormiamo di notte per i motivi più strani e fantasiosi e poi dormiamo di giorno, essendo stravolti dalla notte in cui abbiamo fatto di tutto tranne che riposare. Anzi, usiamo pure il plurale: le notti sono tutte così per noi. Il giudizio della società nei nostri confronti, quindi, è una cosa abbastanza automatica, vista la nostra cultura di partenza. Anche questo è un modo per essere malati invisibili: la carenza di sonno non si vede, provoca effetti che non saltano all'occhio e l'insonnia è una brutta bestia, che sia l'ansia, o la psoriasi, o l'artrite a tenerti sveglio, qualsiasi cosa. Quindi, in sostanza, per noi non solo non c'è mai pace neanche da questo punto di vista, ma non veniamo visti di buon occhio se mostriamo sonnolenza o stanchezza.
Ti raccontavo della mia situazione negli episodi precedenti: praticamente quasi ogni notte è un incubo per me, immagino anche per te se soffri delle mie stesse patologie, perché, nonostante io sia stanchissimo, spesso non riesco a chiudere occhio prima dell'una del mattino. Questa cosa è inspiegabile, ma è così. Dovendo andare al lavoro e con tutta la trafila che devo fare per svegliarmi, che ti raccontavo nell'episodio 2 del podcast, diventa impossibile svegliarsi più tardi delle 6 per essere al lavoro alle 8:00/8:15 e considera che vivo a 20 minuti di bici dall'ufficio. Ormai sono così sregolato che non ci sono bioritmi che tengano: nei fine settimana mi sveglio comunque prestissimo e, anche quando faccio qualcosa di particolarmente stancante, non c'è nulla da fare, fino all'una non se ne parla.
Come ti dicevo, se hai ascoltato il secondo episodio del podcast, ricorderai che il mio problema, come quello degli altri malati invisibili, non è tanto ansiogeno, ma è causato da mille fattori: dolore, prurito, bassissima soglia di tolleranza al rumore e così via. E quindi qui mi rivolgo in particolare agli amici e conoscenti che, in totale buona fede, mi dicono se ho già provato con la melatonina o con qualche ansiolitico. Sì, abbiamo già provato con la melatonina e anche con gli ansiolitici, ma dormire bene resta un sogno per noi, che a volte si avvera, almeno per me, e ti racconterò come, ma non è così frequente. Il fatto è che i nostri non sono problemi di ansia, o almeno non solo quelli, la situazione è molto più complessa di così.
Ricordo, però, momenti della vita in cui non era così, anzi era molto più facile dormire. Ci sono stati momenti in cui per me dormire era ancora una cosa bella, piacevole, naturale. Quando mi avvicinavo ai 30 anni, ad esempio; erano gli anni tra il 2004 e il 2007 più o meno, dopo varie peripezie acrobatiche per distribuire il mio curriculum vitae in tutto l'emisfero nord del pianeta, finalmente avevo trovato un buon impiego, ma c'era un problema: era a Bologna e dalle colline di Parma, dove vivevo in quegli anni, fino al centro del capoluogo emiliano, beh, c'era tanta strada. Mangiare bisogna pur mangiare e, alla fine, senza un diploma [universitario] era difficile pretendere di meglio. Accettai dunque il lavoro e iniziai a fare il pendolare: in un'ora arrivavo alla stazione di Reggio Emilia, dove prendevo il treno e poi un'altra ora fino a Bologna in treno e poi un'altra mezz'ora a piedi fino all'ufficio, vicinissimo alle Due Torri, in centro. Una lunghissima tirata sia all'andata che al ritorno, che mi stancava moltissimo, di notte, però, dormivo beatamente. In quegli anni ne approfittavo, anzi, per dormire anche in treno, sia all'andata che al ritorno, mettendo una sveglia sul mio cellulare nuovo di zecca per evitare di rimanerci sopra.
Quel cellulare mi aiutava tantissimo a passare il tempo: era un modello tutto blu a conchiglia ed era uno dei primi a basso costo in grado di leggere gli MP3 e usarli come suoneria: avanguardia pura per quegli anni. La cosa che preferivo, però, era il mio iPod, uno dei primi, dove iniziai ad innamorarmi dei podcast. Con un piccolo sforzo, potevo ascoltare la musica e cose nuove per ore su questo dispositivo facilmente trasportabile che per me aveva qualcosa di magico. Naturalmente c'erano anche i libri a tenermi compagnia, ma, come dicevo, tanta, tanta musica. In quegli anni uscirono molti album di un paio di chitarristi che in poco tempo erano diventati i miei preferiti. Si trattava di Joe Satriani e Steve Vai, entrambi statunitensi, ma con radici italiane. Negli episodi precedenti del podcast ti ho già fatto i loro nomi. Se sei un chitarrista, senz'altro li conoscerai perché sono due dei pezzi grossi del nostro tempo per quanto riguarda la chitarra elettrica. Quei due signori sono individui molto influenti che, se non ci fossero stati, la chitarra moderna non sarebbe la stessa cosa.
Come dicevo, entrambi hanno lontane origini italiane pur essendo statunitensi. Te ne parlerò brevemente perché è importante per la mia storia farti capire chi siano. Joe Satriani, nel corso degli anni, ha insegnato a molti altri chitarristi di grande successo, come quello dei Metallica, ad esempio, cioè Kirk Hammett, e lo stesso Steve Vai ha portato nel mondo della chitarra moderna uno stile che è semplice soltanto all'apparenza: melodie canticchiabili con la voce, ma suonate divinamente e, a ben guardare, proprio difficili da suonare, quantomeno come le suona lui. Uno dei suoi brani famosi, ad esempio, è un pezzo iconico che tutti ricordiamo: la colonna sonora del film Top Gun.
Avendo ascoltato Satriani, il passo per conoscere Steve Vai è stato brevissimo. Nonostante Satriani sia stato il suo maestro, Steve Vai ha uno stile completamente diverso. Nei suoi dischi trovano posto suoni tremendamente elaborati, ma che sembrano quanto di più naturale esista. La sua chitarra sembra quasi possederlo, piuttosto che il contrario. È capace di velocità supersoniche, ma anche di avere un timbro speciale che lo distingue da chiunque altro e, naturalmente, una grande capacità di comporre brani e melodie. Steve sa leggere e scrivere perfettamente la musica fin dalla tenera età e il suo cervello, come ti raccontavo anche del mio, anche se non vorrei fare paragoni azzardati, ha la capacità di gestire note anche senza suonarle; ha la capacità di gestirle, diciamo, di sentirle nella sua testa. Nella sua carriera ha scritto pezzi per intere orchestre senza toccare neanche uno strumento, ma la sua musica di solito è quanto di più lontano dal genere orchestrale si possa immaginare. Come il sonno, la sua musica può essere delicata e inquietante, a volte nello stesso tempo. Prova a cercare qualche suo pezzo su internet e capirai di cosa parlo. A volte sembra ascoltabile e un disco intero, in effetti, si ascolta a fatica tutto in una volta, ma lentamente, almeno da chitarrista, ti chiedi: “Ma come fa a fare quei suoni? Cioè, com'è possibile che quella sia una chitarra?”. Sentire per credere.
Per me era naturale che, a forza di ascoltare la musica di Steve Vai, mi venisse voglia di suonarla. Con la mia chitarra del '94, che si prestava molto bene a quel tipo di musica, il passo fu ancora più breve. Le cose che ascoltavo sui dischi dello “zio Steve” mi erano sembrate subito inarrivabili e lo erano. Era frustrante, in un certo senso. Mi chiudevo nel garage della mia casa di Reggio Emilia, dove mi ero trasferito...cioè nella casa, non nel garage...e alla fine suonavo, suonavo, suonavo davanti al mio computer, dove la musica veniva artificiosamente rallentata per cercare di renderla più facilmente suonabile per me. Mi ricordo che mi sedevo alla scrivania spesso alle due del pomeriggio, magari in estate, nei giorni liberi, suonavo e, quando guardavo fuori dalla finestra, mi rendevo conto che era arrivato il buio, era buio pesto e stavo suonando lì da solo al buio da ore. Proprio come mi capitava quando vivevo coi miei nelle montagne. Suonare mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ecco quanto era importante per me.
Nonostante questo, nonostante questo impegno, la musica di Steve Vai restava irraggiungibile per le mie dita. Suonavo bene i Led Zeppelin e anche tante cose dei Pink Floyd, ero felicissimo di questo, ero al settimo cielo per le capacità che avevo appreso tutto sommato da solo, ma Steve Vai...niente da fare, era proprio di un altro livello e mi frustrava moltissimo non poterlo suonare.
A furia di viaggi in treno arrivarono persino i 30 anni, tra mille stress sul lavoro. Mi capitava già di non dormire e la causa allora era semplicemente l'ansia. Il pendolarismo era lungo e pesante e, in più, da qualche anno mi ero anche iscritto in palestra. Adoravo come il mio corpo reagisse agli allenamenti. Sul lavoro ero un punto di riferimento per l'assistenza informatica e anche questo mi rendeva tutto tronfio e sicuro di me; diciamolo pure, presuntuoso su alcune cose. Ero persino un po' dittatoriale e sicuramente i colleghi dell'epoca, se sono in ascolto, potranno darmi ragione. Quando ero convinto che una soluzione fosse la migliore, per esempio adottare un nuovo software in particolare ci mettevo tutto me stesso per implementarlo. E fin qui niente di male, ma, se era il caso e potevo farlo, imponevo le mie scelte. In fondo io ero l'esperto lì, i colleghi avrebbero dovuto imparare. Intendiamoci, trovare soluzioni ai problemi e implementarle è uno dei compiti degli informatici e sì, spesso siamo noi quelli che decidono che cosa implementare e come. Comunque, abbiamo una pesante voce in capitolo nel processo, ma io ci mettevo un po' troppo zelo, spesso mi rendevo antipatico e oggi non ho alcun dubbio su questo, ma allora mi veniva spontaneo a credermi un po' migliore degli altri. D'altra parte, non solo sapevo fare un sacco di cose, ma suonavo sempre meglio, sapevo suonare il basso, la batteria, tante cose. Quanti potevano dire di saperlo fare?
Arrivato, ai 30 anni, decisi di iscrivermi all'università, ingegneria informatica, niente meno. Certamente mi sarebbe stata utile, magari anche per trovare un nuovo lavoro più vicino a casa, magari anche più soddisfacente. Non avevo messo in conto, però, che studiare e lavorare a tempo pieno era pesantissimo. Conoscevo così bene la musica di Steve Vai ormai che in treno me la sparavo in cuffia insieme a Satriani, a Guthrie Govan, un altro grande chitarrista contemporaneo, e a tutti gli altri. Mi faceva l'effetto dei Deep Purple quando tornavo a casa dalle scuole superiori. Mi ci ritrovavo così bene che ormai mi rilassava, mi faceva venire voglia di dormire, ma mi imponevo di stare sveglio e, isolandomi dalla confusione del treno, sceglievo io una confusione che conoscevo e che mi consentiva di studiare per l'università. Le serate e i fine settimana liberi erano interamente dedicati allo studio, ma ogni minuto che avevo libero lo passavo sulla chitarra.
All'improvviso, senza che ci fosse nessun segnale ad avvisarmi, accadde qualcosa di veramente terribile per me. Le mie dita iniziarono ad aprirsi, la pelle delle mani perdeva elasticità, i polpastrelli diventavano duri e si spaccavano come se un coltello li avesse tagliati e, per un chitarrista, i polpastrelli sono tutto. Queste lesioni di cui ti sto raccontando sanguinavano, si infettavano e non guarivano più. Suonare stava diventando impossibile. Toccando le corde sottilissime della chitarra elettrica, spesso queste si incastravano nei tagli sui polpastrelli e li aprivano ancora di più. Non sapevo veramente cosa fare. Suonare con i cerotti era impossibile. Un chitarrista è un tutt'uno con le corde, deve poterle sentire, deve tirarle, deve maltrattarle o accarezzarle sapendo dosare bene la forza per tutti i sentimenti diversi che vuole esprimere attraverso lo strumento. Tentai di tutto, dai cerotti spray ai guanti, a creme varie per fare guarire le dita più in fretta, ma niente, nessun risultato apprezzabile.
In quello stesso periodo, una specie di grande macchia violacea che avevo sulla tibia e che mi prudeva già da qualche anno, prese ad allargarsi fino a ricoprire tutta la tibia e una parte del polpaccio, dal ginocchio alla caviglia. Altre due macchie dello stesso colore comparvero al centro dei palmi delle mani. Anche queste, come le dita, come la tibia, si spaccavano e sanguinavano. Immagina la mia gioia nel girare su e giù per i treni con ferite aperte!
Il medico mi mandò da una dermatologa piuttosto in gamba nella nostra regione e lei, dopo avere fatto qualche test e sentita la mia storia, emise un verdetto: allergia al nichel. Le corde della chitarra elettrica, in effetti, sono di nichel. Nella mia testa tutto cominciava ad avere un senso. Toccavo continuamente del nichel nella chitarra, nelle posate e nei computer che configuravo per lavoro, e anche le monete che tenevo in tasca, in fondo, erano anch'esse di nichel. Questo, a detta della dermatologa, poteva benissimo causare una reazione allergica più giù lungo la tibia e sulle mani, e poi quella era una zona colpita dall'ustione dieci anni prima (la tibia, intendo), e quindi tutto poteva succedere a quella povera pelle.
Cominciai quindi a trattare il problema come se fosse un'allergia.
Localmente mettevo del cortisone e, dopo un po', passai alle cose naturali. L'estratto di ribes sembrava farmi ottenere qualche piccolo risultato, ma solo per qualche mese. Funzionò. Si pensò allora che fosse celiachia e, anche in quel caso, migliorai un pochino con la dieta senza glutine, ma non del tutto. Si pensò all'HIV, ma risultai negativo. Si pensò allo stress, ma niente da fare, niente di tutto questo sembrava essere la risposta.
Un po' frustrato, pensai che l'unica soluzione possibile era quella di suonare ancora di più, sacrificando le dita. Vivevo quindi con i cerotti perché le dita sanguinavano sempre. Penso di avere alimentato da solo l'industria dei cerotti fino a pochi anni fa. Me li toglievo soltanto per suonare, i tagli si aprivano, sanguinavano e a quel punto io smettevo di suonare, ma non mi importava, appena potevo ricominciavo. Ogni nota era un bruciore infinito, con le corde che spesso mi penetravano nei polpastrelli. Chi ha visto suonare un chitarrista avrà notato che le corde spesso vanno percorse con il dito lungo tutta la loro lunghezza. Un martirio. Mi ero abituato a suonare in tanti nuovi modi. Se il polpastrello aveva un taglio a destra, mi abituavo a spostare il dito e a usare la parte sinistra del dito e viceversa, se invece era spaccato ai lati, cercavo di usare la punta quando possibile oppure direttamente l'unghia. A un certo punto dovetti rallentare perché capii che avrei perso le dita a furia di infezioni. Ti racconto tutto questo non per disgustarti, ma per farti capire quanto fosse importante per me lo strumento. Non mi fermavo di fronte a niente. Non so se anche tu nella tua vita hai trovato qualcosa che ti piace e che ti completava così tanto da non farti sentire i problemi. Questo per me era la chitarra.
Ma nel 2010 accadde un altro evento terribile, come se non fossero bastati i precedenti.
All'improvviso non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ma intendo letteralmente, non ne avevo la forza né le energie. È difficile spiegarti come mi sentissi, ma tutto partì dalla palestra. Un bilanciere con 80 kg che solitamente alzavo come se fosse uno scherzo mi parve all'improvviso pesante come una montagna, non c'era modo di gestirlo. Peccato che in quel frangente l'avessi già sollevato e fosse direttamente sopra la mia testa e in qualche modo avrei dovuto riportarlo in basso. Ci provai, ma ci rimasi sotto e, per fortuna, senza danni gravi quella volta. Chi era lì mi vide in difficoltà e mi aiutò immediatamente, ma io non riuscivo a spiegarmelo il motivo.
Qualche giorno dopo non riuscivo a risvegliarmi al mattino come se fossi drogato, fare una scala era un'impresa, dovevo fermarmi due volte ogni 10 gradini, mantenere la concentrazione sembrava qualcosa di impossibile, mi addormentavo a volte anche guidando e anche mentre parlavo con i colleghi al lavoro. Immaginati cosa avranno pensato di me. Sembrava che la vita mi stesse abbandonando in treno. Qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme; figurati come potevo sentirmi.
In tutto questo, per i miei familiari più o meno stretti era impossibile che io avessi qualcosa di serio. Più o meno esplicitamente mi stavano comunicando che, secondo loro, mi stavo inventando tutto, stavo fingendo per non mettere a posto la legna nella cantina, era chiaro, per non andarli a trovare, era evidente, per non andare alle tanto pubblicizzate riunioni dei gruppi spirituali che continuavo a frequentare. Mi sentivo tremendamente confuso, non capivo cosa stesse succedendo. Non c'era una risposta e io avevo solo 30 anni. Com'era possibile tutto questo? Era questa la vecchiaia?
I miei amici mi chiedevano di uscire e accettavo sempre, poi all'ultimo non potevo presentarmi alle cene, alle uscite, ero già esausto alle 7:00 di sera. Se tu che mi ascolti sei sano, ti ricordi com'erano i tuoi 30 anni? Ti chiederei la gentilezza di farmelo sapere con un commento perché io non ho conosciuto i 30 anni come tutti gli altri e quindi per me è importante sapere qual è, diciamo, la normalità.
Non ci volle molto prima che mi venisse l'ansia. Come potevo impegnarmi con i miei amici se poi non potevo uscire con loro? Iniziai quindi a non programmare più nulla, evitavo il problema direttamente. Conoscevo solo il lavoro e il sonno, il sonno e il lavoro. Mi ero completamente ritirato dalla mia vita sociale, sabati e domeniche interminabili a letto. Il mio era un sonno malato, innaturale, narcotico. Studiare era diventato impossibile, tentavo di suonare qualcosa, ma riuscivo a malapena a stringere il manico e le dita erano lente, non rispondevano alla velocità che io avevo in testa.
Chiesi consiglio a più di un medico, ma nessuno riusciva a unire i puntini. Alla fine, un otorinolaringoiatra mi disse che la causa di tutto questo poteva essere nei denti del giudizio: erano in brutte condizioni e sarebbero stati da togliere, ma un dentista non ce l'avrebbe fatta.
Strano, perché in generale sono stato così fortunato con la salute!
Più di un dentista mi confermò che non sarebbe stato in grado di toglierli, quella era cosa per un reparto di maxillo-facciale, una vera e propria mini-chirurgia. Mi feci togliere il primo e, dopo tante altre settimane di sonno, di gelato e di dolore, circa tre, finalmente mi sentivo un po' meglio. Stranamente le spaccature sulle dita e la mia chiazza viola sulla gamba e sui palmi si erano molto attenuate. Che fossero state le massicce dosi di antibiotici? Ma allora il mio era un problema battereico? Cosa c'entrava l'allergia al nichel? Non riuscivo più a capirci veramente nulla.
Dopo molte altre settimane tornai in palestra e in un giorno come tanti vidi un annuncio che mi lasciò di stucco: Steve Vai stava per venire a Reggio Emilia. Non potevo aver letto bene. Steve Vai a Reggio Emilia? Il mio idolo, la mia ispirazione, qui vicino a me? No, non era vero.
E invece lo era. Il mio sogno di avvicinarlo stava per avverarsi. Non si trattava di un concerto, ma di una masterclass. In poche parole, un incontro in cui si suppone che il maestro insegni i suoi trucchi e i suoi segreti. Non credo di poterti raccontare cosa provai in quel momento, un misto di gioia e senso di colpa per la spesa che si doveva affrontare, ma dovevo assolutamente andarci, anche se quei soldi me li sarei cavati dalla pelle. L'occasione era davvero allettante. L'incontro non era in una grande città, anzi era un piccolo paese di provincia. Steve non era molto conosciuto come lo è oggi e, in più, non era neanche un concerto. In quanti saremmo mai potuti essere interessati in zona? In quanti avremmo potuto partecipare? Pochi, e l'avrei quindi visto da vicino finalmente.
Nell'episodio precedente ti dicevo che ho perso fiducia nelle entità superiori, l'unica entità superiore che sono certo che esista oggi è l'inquilino del secondo piano, ma nel 2010 ero ancora certo che qualcuno vegliasse su di me e quindi ancora una volta...per me era evidente: cose terribili in quell'anno, cose inspiegabili che non avevano neanche un nome, ma ricompensate da una gioia immensa.
“Grido Muto” nasce per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili in una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è una sfida in termini di tempo, energia e competenza, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi nella descrizione di questa puntata del podcast, quel posto dove nessuno guarda mai. Ti aspetto martedì prossimo con un nuovo episodio in cui ti racconterò il mio incontro con il mio idolo Steve Vai.
Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥
“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”
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L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”
Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.
Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.
In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?
Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.
Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.
In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!
Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.
All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.
Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.
In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.
Ma il rientro non fu tanto semplice.
L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.
Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.
Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.
In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.
In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.
Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.
Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.
Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.
Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.
Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.
La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!
Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!
L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.
Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?
E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.
Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.
Attenzione!
Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.
Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?
È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.
Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.
Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.
Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).
Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.
Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.
Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.
Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.
Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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Cosa succede se il dolore non può passare mai più? 💊 Rimedi e conseguenze dei farmaci. E...✈️ il mio viaggio in India! 🌍
“La vita di un malato invisibile ruota attorno al dolore, e ogni giorno si devono fare scelte difficili per affrontarlo”
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
- Castopod (piattaforma sul Fediverso): castopod.it/@gridomuto/episode…
- Spotify: open.spotify.com/episode/6Xg7v…
- Youtube: youtube.com/@gridomuto
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Quando sei un malato invisibile, la tua vita ruota attorno al dolore. Mi dispiace farti riflettere su questo, ma non c'è un modo più gentile o più delicato di parlarne. Da invisibile, il tuo rapporto con il dolore è diverso da quello di una persona normale. Le persone sane provano un dolore forte nella loro vita soltanto di rado, a seguito di incidenti magari, o di eventi ben pianificati, come un intervento o l'estrazione di un dente. Una persona sana, anche inconsciamente, sa che il dolore se ne va e, se non se ne andrà, prenderà qualcosa di facile: una pillola, una qualche polvere magica, e non sarà più un problema.
[Il dolore] può presentarsi anche così, senza un motivo apparente, in un attimo, e noi invece sappiamo che non se ne andrà.
Arriviamo a maturare questa consapevolezza dopo qualche tempo che siamo ammalati, ed è una cosa che ti cambia nel profondo. Non c'è modo di abituarsi. A volte qualcuno mi dice: “Mah, guarda, ormai hai queste patologie da tanto, ti sarai abituato!” E invece no, come si fa ad abituarsi? Sì, uno può avere la soglia del dolore più o meno alta, ma quando arrivi a sentirlo, non è che ti abitui. Quella sensazione è nata dall'evoluzione della specie umana, proprio per attirare la nostra attenzione, proprio per farsi notare. È impossibile ignorarla.
Tutti i giorni per noi sono uguali: ci alziamo al mattino, combattiamo il dolore sin da subito, o già da prima, durante la notte, e poi dobbiamo capire una cosa molto importante, cioè come si può affrontare la giornata. Ce la faremo? Se anche ci alziamo con meno dolore del solito, poi la situazione resterà così? Ci arriveremo a fine giornata?
Mah.
Allora dobbiamo fare una scelta tutti i giorni. E questa scelta è: prendo qualcosa oppure no? È uno di quei giorni in cui si riesce a resistere? Oppure, tra un paio d'ore, avrò così tanto male che non riuscirò neanche a ragionare? E credimi, non è una scelta da poco, perché gli antidolorifici non si possono prendere all'infinito. Dobbiamo cercare di limitarli il più possibile per evitare effetti collaterali anche sul lungo periodo.
In passato il mio istinto mi diceva di aspettare, ma le cose sono cambiate. Ora, purtroppo, tendo a prendere più farmaci e forse faccio male. Non so, ma ci sono tanti giorni in cui non posso rischiare di ragionare male con il lavoro che faccio. Io lavoro col pensiero, con la testa. Devo poter pensare, devo essere in condizioni di poter pensare.
Anni fa era tutto diverso. Ci ho messo un po' a prendere coscienza di come stava cambiando la mia vita con il dolore che aumentava, anno dopo anno. Ci sono arrivato gradualmente, un po' alla volta, e a un certo punto mi sono guardato indietro e ho pensato a quando è stata la prima volta in cui ho provato un dolore così intenso da sembrare fuori scala. Me lo ricordo bene quel periodo, e oggi so che lo spartiacque della mia salute risale proprio a quegli anni, in cui le scelte che dovevo fare erano molto più semplici e conducevo ancora una vita spensierata.
Era il 1998, e la mia nuova vita a Parma era certamente stimolante. Trasferirsi lì era stata una scelta naturale, anche se più che ragionata. I miei due fratelli vivevano lì già da tempo, così come alcuni amici, Danilo e Lorenzo, quelli con cui suonavo nel fine settimana quando tornavo dai miei in paese. Ci ricongiungevamo a Pontremoli, ci vedevamo là e dedicavamo almeno un'ora alla domenica pomeriggio per provare le nostre vecchie canzoni, e in più c'era anche un nuovo amico in quegli anni, che aveva iniziato a suonare con noi. Si trattava di Giorgio, molto abile con il basso. A quel punto Marco decise di dedicarsi al canto, mentre a suonare ci avremmo pensato noi. Con questa formazione eravamo anche andati a un festival musicale locale, il Lunigiana Rock. Visto che in questo episodio parliamo di scelte, queste erano le scelte semplici che dovevo fare in quegli anni.
Una scelta che farei oggi, invece, se mi entrasse ancora, sarebbe quella di indossare, ancora una volta, la maglietta che ci avevano dato per l'evento, tutta nera con una scritta gialla sul davanti: Lunigiana Rock.
È un bel ricordo che conservo e rappresenta un periodo davvero spensierato. Era la prima volta che suonavo di fronte a così tante persone, cioè un campo sportivo abbastanza affollato, ed era stato bellissimo. Ero molto tranquillo mentre suonavo, anche grazie alle lezioni che avevo preso negli anni precedenti da un chitarrista professionista a La Spezia. Mi stavo abituando all'idea che quella vita da musicista avrei potuto farla per sempre, perché era davvero l'unica cosa che mi faceva arrivare a sera rilassato e felice.
A volte suonavo per mio conto anche per 7, 8, 10 ore consecutive, senza accorgermene. Una scelta importante di quel periodo, invece, venne presa da me a proposito di un viaggio, cioè una delle passioni che si stava risvegliando in me insieme alla curiosità per il mondo, al volere scoprire cosa ci fosse oltre il proprio confine personale.
Prima di trovare un lavoro stabile, avevo deciso di andare in India a cercare Dio da un maestro spirituale.
Il viaggio mi attirava da sempre e più tardi avrei capito che questa esperienza avevo fatto mi aveva calmato nel profondo, anche se tutto era andato storto sin dall'inizio. In un certo senso, il mio era stato un viaggio risparmio, ma la sorte invece non si era risparmiata. All'arrivo, scoprii che le mie valigie erano state perse e dovetti ricomprare tutto il vestiario, facendomi fare anche qualche abito su misura, visto che laggiù sembravano non esserci abiti della mia taglia.
Nelle settimane successive, poi, mi venne una strana febbre per ben tre volte, senza tosse o raffreddore, ma soltanto una temperatura molto alta che mi faceva venire voglia solo di stare a letto. E a proposito del letto, era un materasso sul pavimento, anzi uno stuoino, possiamo dire, alto solo pochi centimetri. Ma peggio di tutto il resto, al momento di ripartire per tornare a casa, scoprii che il mio biglietto aereo non era stato emesso correttamente.
Così, avevo potuto fare l'andata, ma il ritorno non era valido. Sarei dovuto restare in India per un lungo periodo, in attesa di chiarire questo equivoco con la compagnia aerea, un periodo che durò ben oltre le due settimane che avevo previsto in origine. Insomma, un disastro sotto molti punti di vista. Le notti erano spesso tormentate per il gran caldo che c'era nelle stanze della comune e anche per il vociare degli animali della giungla, stridulo e irritante, che andava avanti tutta la notte. La sveglia suonava molto presto per la meditazione, già alle 3:30 del mattino, e sui monti dell'altopiano del Deccan a dicembre faceva freddo, anche se eravamo quasi all'equatore.
Nel giro di poco tempo iniziai ad avere un gran mal di schiena e non c'erano medici che potessi consultare a poco prezzo nel villaggio per contenere le spese. Andai allora da qualcosa di un po' diverso, un medico ayurvedico, uno di quelli che praticavano l'antica arte curativa tradizionale dell'India, decisamente a buon mercato, ma meglio di niente, mi dissi. Il medico riuscì a capire cosa avevo semplicemente toccandomi una mano e l'avambraccio.
Chiese consigli sull'alimentazione, sugli alimenti che le persone con il mio tipo di fisico avrebbero potuto mangiare oppure no, e tante altre cose. Mi disse che il mal di schiena era dovuto a un eccesso di energia, un eccesso di fuoco. Con qualche massaggio avrebbe potuto alleviare il dolore, ma la causa era molto profonda. Secondo lui avrei dovuto prendere anche alcune compresse che mi prescrisse. Il suo assistente, tale Shrinivas, mi aveva praticato i massaggi. Le sue mani enormi mi sembravano bollenti e anche se alla fine mi ritrovavo tutto unto come un panzerotto uscito dalla friggitrice, in poche sedute il dolore era scomparso.
Effettivamente, Shrinivas sapeva il fatto suo e grazie a lui le compresse che mi aveva suggerito il medico non servirono, e per fortuna! Perché già l'aspetto ricordava gli escrementi di pecora; ti lascio immaginare l'odore! La causa di quel mal di schiena per me era lampante: qualcosa su cui non perdere neanche un momento a riflettere, e cioè che in India si passa la vita seduti sul pavimento e camminando a piedi nudi, e tutto questo, da occidentale, probabilmente non mi aveva giovato.
A parte questo aspetto, però, in India ero stato veramente bene, e ben presto mi scordai del medico ayurvedico. Al mio rientro in Italia, quando l'India era ormai poco più di un bel ricordo, il mal di schiena tornò. Era localizzato in basso, nell'area del bacino, proprio come quando era venuto fuori in India. Il mio medico curante mi fece fare una lastra e per la prima volta in vita mia sentii dire la parola che nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi dire: artrite.
L'artrite è una malattia infiammatoria persistente e cronica, caratterizzata da dolore e infiammazione a livello delle articolazioni, con importanti ripercussioni sulla mobilità e il sostegno dello scheletro. Le forme più gravi di artrite possono deformare le articolazioni, determinando rigidità e compromissione dei movimenti e limitando notevolmente la capacità di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani. L'artrite può svilupparsi in persone di ogni età, anche nei bambini, e con il passare degli anni, se non riconosciuta e curata adeguatamente, l'infiammazione tende a peggiorare.
[Fonte: ISS]
Il mio medico curante allora mi disse: “Sei ancora giovane, hai solo 20 anni; non ti preoccupare, per ora hai ancora tutta la vita davanti.” Lui era uno di quei medici di una volta, quelli che riuscivano a fare diagnosi anche senza mandarti da uno specialista, e molto spesso ci azzeccava.
Mi chiedo ancora oggi se con quella diagnosi precoce, magari confermata da un reumatologo, si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Allora ero nel pieno delle mie forze e scelsi di ignorare del tutto quella parola, che poi neanche sapevo bene cosa fosse, a dire il vero.
Sì, ok, c'era l'artrosi e l'artrite, ma l'artrite era quella meno grave, giusto? Nei miei pensieri c'era solo il lavoro e la chitarra. In quel momento non so perché, ma avevo l'idea che questa artrite fosse qualcosa di non troppo grave, e non ci pensai più. Altrimenti, come avrebbe potuto venire proprio a me, che stavo benissimo ed ero all'apice delle mie condizioni fisiche? Mi ricordo proprio di aver pensato: “Ci penserò quando sarò più vecchio.” Mi sbagliavo di un bel po'. Dimmi: al mio posto, tu come ti saresti sentito? Avevi la consapevolezza necessaria per capire qual è stato il momento chiave della tua vita? Fammelo sapere in un commento. Per me è stato proprio il momento di cui ti ho raccontato. Sono curioso di sapere il tuo.
A Parma non mi annoiavo mai, impegnato com'ero a cercare un lavoro. Ne ho cambiati molti prima di trovarne uno a tempo indeterminato come impiegato. Ricordo bene la sensazione di avere finalmente risolto un enorme problema, di essere finalmente a posto. Espandevo scuola in quel lavoro, creando programmi per tanti diversi istituti bancari. Fu lì che scoprii che le lezioni di dattilografia che avevo preso a scuola, alle scuole superiori, erano una delle cose più utili che possano esserci nel mondo moderno, perché bene o male tutti abbiamo a che fare con una tastiera e tanto vale saperla usare ad occhi chiusi. Digitavo in fretta e i programmi prendevano vita sotto i miei occhi. Era un lavoro creativo, in un certo senso. Il mal di schiena era a quel punto soltanto un ricordo, tanto più che lavoravo finalmente seduto senza fare fatica e finalmente al riparo dal freddo e dal caldo e dai pericoli.
Qualche mese dopo, però, in estate mi sarei dovuto ricredere. C'era bisogno di una riunione fatta in fretta e furia e decidemmo di farla attorno alla scrivania di una collega. Non c'erano sedie per tutti e scelsi di sedermi sul davanzale della finestra, appena sopra il condizionatore, che buttava sulle mie gambe e su tutto il corpo quella piacevolissima aria fresca. Fresca eh, niente di più. Nelle estati umide della pianura, il condizionatore è una manna.
Nel giro di 24 ore ero di nuovo bloccato dal mal di schiena, questa volta ancora più forte di come mi era venuto in India, un dolore mai provato neanche laggiù. Shrinivas era un po' troppo lontano a quel punto e decisi di prendere qualche giorno di malattia e aspettare. Ero giovane e forte, certo che sarebbe passato! Bastava solo...aspettare!
E invece no.
Il dolore era insopportabile e più passavano i giorni, più la situazione peggiorava e questo dolore nel bacino diventava più forte. In qualche angolo molto remoto del mio cervello continuavo a ripetermi che i farmaci non si dovevano prendere. Si sa, gli antidolorifici fanno male, lasciamoli ai vecchi. Li avevo già presi qualche anno prima per le ginocchia che mi facevano male. Non volevo sovraccaricarmi. Ero così giovane e inesperto che paradossalmente non avevo niente in casa e in più, in quel periodo, vivevo in realtà sulle colline di Parma. La farmacia più vicina era lontana, tanto più che non sarei neanche riuscito a guidare, neanche con tutta la buona volontà del mondo. Mi era proprio impossibile estendere le braccia e le gambe.
Il dolore era fortissimo, già a letto, ancora più forte da seduto e impossibile da gestire stando eretti. Camminavo chino come un novantenne e se avessi avuto un bastone, sicuramente l'avrei usato. Ripensandoci oggi, quell'evento avrebbe dovuto mettermi in allarme. Non è normale che un uomo di 22 anni si riduca così per un colpo di aria condizionata. Potrà sembrarti strano, ma non collegai quell'evento con la diagnosi di artrite del medico. Nella mia famiglia tutti avevano e avevano sempre avuto mal di schiena, sembrava una cosa normale, quindi.
Riuscii a procurarmi dei farmaci e tutto passò per un po'. quella che allora mi era sembrata una situazione del tutto eccezionale, oggi è la mia realtà. A distanza di 25 anni da quegli eventi chiave, ci sono ancora le crisi di dolore, anzi, più raro che non ci siano le crisi di dolore. Spesso sono improvvise e in luoghi diversi del corpo, non soltanto nel bacino, e si presentano senza avvisare.
Ogni giorno bisogna alzarsi con calma, come ti raccontavo nel primo [edit: secondo] episodio del podcast, e fare delle scelte molto difficili. Se non è il dolore cervicale o l'emicrania ad avermi svegliato, magari alle 2 del mattino, devo per prima cosa capire come mi sento. Certo, mi sento quasi sempre male, purtroppo, ma bisogna andare oltre questa sensazione. Devo ascoltarmi per capire se il malessere deriva dal fatto che il corpo non si è ancora messo in movimento e magari più tardi passerà un po', oppure se è qualcosa che non passerà.
È una valutazione molto difficile, perché dovendo lavorare, la tentazione è quella di prendere un antinfiammatorio sempre, tutti i giorni, o non riuscirò a stare concentrato quando serve. In fondo, come ti dicevo, io lavoro con la testa, coi miei pensieri, con il ragionamento, con analisi di dati, di problemi per cercare la loro soluzione. Come fai se hai un'ascia piantata in testa o in un fianco? Ti è impossibile.
Purtroppo, però, sappiamo bene che degli antinfiammatori non possiamo abusare. Oltre a rovinarci lo stomaco, non si possono assumere per più di qualche giorno per evitare di andare in sovradosaggio, tirandoci addosso anche molti altri problemi. Capisci bene, dunque, che la decisione di prendere qualcosa oppure no, per un paziente che soffre di artrite o fibromialgia, non è una decisione da poco. Il nostro non è un dolore sporadico che se ne andrà. Domani, dovremo fare le stesse scelte e quindi di nuovo sottoporci al rischio di effetti collaterali dell'antinfiammatorio.
Però questa scelta la dobbiamo fare tutti i giorni. La differenza tra prendere un antinfiammatorio oppure no è quella che passa tra il non poter fare fronte ai propri impegni o effetti gravi legati al sovradosaggio.
Tu cosa sceglieresti? Non è una scelta da poco, credimi.
Per evitare tutto questo, infatti, il medico mi ha consigliato di usare il più possibile il paracetamolo, che non “pesa” sullo stomaco. È vero, ma il problema è che ormai non riesce a togliermi il dolore e mentre l'antinfiammatorio di solito mi lascia in buone condizioni per un giorno, il paracetamolo non ha questo effetto. Quindi dovrei prendere una dose veramente molto, molto alta nel tempo.
L'unica cosa certa è che un antinfiammatorio può togliere il dolore per diverse ore e aiutarci a svolgere i nostri doveri, ma allo stesso tempo, quando li assumiamo, diamo un'immagine falsata di noi. Diamo l'immagine di una persona che sì, ha qualche problema, ma in fondo neanche troppi, visto che può comunque lavorare, può comunque farcela. Ma se questa è la percezione che possono avere gli altri, i sani, dei nostri problemi, beh, è sbagliata, è troppo semplicistica. Come ti ho raccontato, per noi è molto più complesso. E poi non è che sotto antinfiammatori uno stia così bene. A volte non fanno abbastanza, neanche quelli.
Se non conoscevi le patologie di cui soffro, forse starai cominciando a capire perché i pazienti come me vivono una vita davvero difficile. E credimi, siamo tantissimi. Se invece soffri delle mie stesse malattie, avrai capito perfettamente cosa intendo. Ci sarebbe ancora tanto da dire sui farmaci che può dovere assumere chi soffre di artrite o fibromialgia, ma ti prometto che ne parleremo più avanti. Ti do appuntamento alla prossima puntata, come sempre di martedì. Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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🌟 I miei anni '90: quando le mie mani funzionavano da Dio! 🙌✨
“Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.
Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.”
Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
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- Spotify: open.spotify.com/episode/2va2e…
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In questo episodio ti racconto come le mie mani siano sempre state forti, capaci e molto attive e di come la malattia le abbia cambiate radicalmente. All'incirca alla metà degli anni '90, gli anni delle superiori volavano via tra lo stress della scuola, che richiedeva un impegno sempre crescente, e la scoperta di nuovi gruppi musicali: i Queen, ad esempio, ma anche i Mr Big, i Metallica e diversi chitarristi virtuosi come Joe Sateiani e, soprattutto, Steve Vai, di cui mi innamorai istantaneamente. Non tanto per le melodie che produceva con lo strumento, che erano quasi sempre incomprensibili, ma per i suoni che riusciva a tirare fuori dalla sua chitarra elettrica, qualcosa di incredibile, mai sentito prima. Riusciva a farla addirittura parlare in inglese, ad esempio. Non si distinguevano chiaramente le parole, ma era come se una persona stesse parlando e intonando il senso del discorso sulla chitarra. Ed era chiaro: la sua tecnica mi avrebbe dato tantissimi nuovi spunti più avanti e avrebbe anche definitivamente modificato il mio orecchio musicale, che da quel momento avrebbe considerato musica anche melodie che, fino a poco prima, mi sarebbero sembrate suoni buttati lì a caso. E invece no, c'era un disegno, una logica in quelle note che aspettava solo di essere scoperta. Non per niente Steve Vai era stato il chitarrista prodigio di Frank Zappa, un altro pioniere della musica moderna.
Per un periodo mi ero distaccato dal mio gruppo storico a causa della nostra differenza di vedute dal punto di vista musicale. Avevo bisogno di suonare più cose che mi piacessero, mentre il gruppo stava insistendo molto sulla musica italiana, in quel periodo, che a me piaceva meno. Così, a Pontremoli, incontrai Emanuele e Giovanni. Emanuele era un chitarrista, ma anche un bassista, mentre Giovanni era un pianista di talento. Entrambi mi fecero fare un salto evolutivo enorme: due persone molto in gamba a suonare, a cui però era più difficile stare dietro. E in più c'era un altro problema: volevano fare un concerto di fine anno all'Azione Cattolica di Pontremoli. Tutto bello, ma mancavano un bassista e un batterista per fare qualcosa di decente. Il batterista si trovò facilmente, mentre il basso... beh, iniziai a suonarlo io!
Che emozione! Uno strumento simile alla chitarra, ma completamente diverso nella sua funzione, che aspettava solo di essere scoperto. Riesci a immaginare qualcosa di più bello? Io, no!
Emanuele era già abituato a suonare il basso perché lo usava come strumento principale a casa, e così mi insegnò cosa significasse suonare senza accordi, cercare la nota giusta lungo il manico piuttosto che vicino a quella che stai già suonando, perché l'effetto sonoro che si ottiene è completamente diverso. E spesso è proprio quello l'effetto che si cerca sul basso! Imparai i vari modi di creare ritmo in una canzone, perché il basso in fondo è di quello che si occupa. Mi incantava quel suono pieno, non distorto, che ti faceva vibrare la pancia e faceva da collante tra tutti gli altri strumenti. Uno strumento che non si notava, insomma, ma la sua voce c'era, eccome, ed era importante. Insomma, un altro invisibile.
Se la chitarra metteva sotto stress le dita, il basso era ancora più difficile da suonare. Ci voleva ancora più forza sulla punta delle dita; ci voleva più forza per stringere abbastanza le corde, che erano molto più spesse rispetto a quelle della chitarra. E poi, visto che con la mano destra suonavo le corde direttamente, senza il plettro che usavo sulla chitarra, l'avambraccio mi faceva malissimo. L'indice e il dito medio, infatti, dovevano muoversi molto rapidamente per pizzicare le corde; anche i polsi mi facevano molto male all'inizio. Insomma, quello strumento mi costringeva anche a una serie di esercizi per preparare il fisico a poterlo suonare, ma ne valeva assolutamente la pena. Ti racconto tutto questo per farti capire qual era la mia abilità di ignorare il dolore, o persino di sentirlo: quella che viene chiamata soglia del dolore, insomma, e poi anche per farti capire la mia determinazione. Non ero una persona che si tirava indietro di fronte agli ostacoli o a quello che non conosceva; anzi.
Il tempo trascorse velocemente e arrivò anche Capodanno. Il concerto andò molto bene e ne conservo ancora una registrazione. Suonammo musica dei Queen, dei Doors, dei Nomadi, di Baglioni e naturalmente anche dei Pink Floyd, la nostra passione comune. Subito dopo però tornai al gruppo storico, quello del mio paese, un po' per impegni vari, ma anche perché il gruppo di Capodanno non aveva più ragione di essere. Mi presentai ai miei amici del paese con il mio nuovo basso in mano: finalmente avevamo un bassista: io!
Per un po' suonai con piacere quello strumento insieme a loro, ma non bastava. Decidemmo allora che ci serviva un batterista. Ma chi? In paese non c'era nessuno che suonasse la batteria. Il tempo passava e questo salto di qualità non si riusciva a fare. Così, pur di continuare a suonare con loro, decisi che il batterista sarei stato io. Marco, che era il nostro cantante poeta, comprò il mio basso e da quel momento lo avrebbe suonato lui. Io invece acquistai una batteria economica, altra opportunità di imparare. È così che iniziai a suonare anche la batteria, e il mio super orecchio mi aiutò non poco. Riuscivo ad ascoltare le cassette dei miei musicisti preferiti e poi deducevo, dai suoni che ascoltavo, in quale sequenza colpire i pezzi della mia batteria per riprodurre la parte di batteria del brano musicale.
Tutto questo processo avveniva velocemente nella mia mente, a volte anche in pochi millisecondi, e riuscivo così a suonare anche sul momento alcuni semplici pezzi che non avevo mai sentito. A pensarci, oggi mi sento molto orgoglioso delle mie capacità di allora.
In breve tempo, un colpo di sfortuna ci costrinse a cambiare ancora. Danilo, per un infortunio grave a un dito, non avrebbe mai più potuto suonare la chitarra, o almeno non bene quanto prima. Poteva essere la fine e invece cogliemmo l'occasione: perché non scambiarsi le parti? Lui avrebbe suonato la batteria e io di nuovo alla chitarra, con il ruolo di solista che era stato suo. L'anno successivo avremmo dovuto incidere il nostro primo CD dimostrativo, che avremmo poi potuto distribuire. Però occorrevano strumenti migliori. Questa volta non avrei potuto contare sui miei: ero grande ormai e giustamente mi dissero che avrei dovuto guadagnarmi quello che volevo. Lavorai per tutta l'estate, tra la quarta superiore e la quinta, come cameriere. Imparai a conoscere il lavoro e pensai bene di iniziare col botto: 10, 12, anche 14 ore al giorno per tutta l'estate. Ma a settembre comprai il mio primo strumento, che mi ero guadagnato con le mie stesse mani: una soddisfazione incredibile. Era una bellissima chitarra elettrica Ibanez, completamente nera, con un amplificatore Fender a valvole che ancora oggi produce suoni fantastici.
Finalmente potevamo andare in studio e quell'esperienza ci fu molto utile per unirci ancora di più come amici e musicisti. I pezzi che avevamo preparato erano venuti abbastanza bene per le nostre possibilità ed eravamo molto soddisfatti.
Dopo pochi mesi partecipammo a un concorso a Castrocaro. Chi si fosse piazzato ai primi posti avrebbe potuto partecipare al famoso Festival di Castrocaro e, se fosse andata bene lì, a Sanremo. Con nostra grande sorpresa, la prima serata andò benissimo: arrivammo primi, ma decidemmo di non continuare. Il concorso sarebbe stato troppo impegnativo economicamente, considerando anche che qualcuno di noi lavorava già e non poteva mancare ai suoi impegni. Nel frattempo iniziai a frequentare altri gruppi che suonavano pezzi degli AC/DC, degli Iron Maiden, dei Metallica e dei Deep Purple. Mi dava sempre più soddisfazione saper suonare i pezzi dei grandi della musica, espormi come chitarra solista, sapere che tutti gli occhi, o meglio tutte le orecchie, sarebbero state puntate su di me. Era anche una grande responsabilità: bastava una nota sbagliata e avrei fatto una pessima figura. Mi stavo abituando sempre di più a essere un punto di riferimento, e a mio modo mi sarebbe stato molto utile poco tempo dopo.
La maturità fu l'esperienza forse più stressante della mia vita, ma per fortuna passò anche quella. Mi sentivo svuotato, esausto. Finalmente ero riuscito ad arrivare sulla cima di quella montagna che solo tre anni prima mi sembrava impossibile da scalare. Ero pronto a ricominciare? No, assolutamente no! E infatti decisi di non fare l'università, seguendo anche l'esempio dei miei fratelli maggiori, a cui stava costando moltissimo (prima che l'abbandonassero).
Finalmente non avevo più obblighi scolastici. Iniziai così ad affacciarmi al mondo del lavoro soltanto con un diploma da ragioniere programmatore in mano. Valeva poco anche allora, ma sicuramente qualcosa in più di quanto possa valere oggi. Salutai i miei, il paesello e i suoi inverni bui e lunghi e decisi di andare a cercare fortuna a Parma. Una città grande avrebbe offerto senz'altro di più a una persona in cerca di lavoro, ed era vero, ma non fu così facile ottenere il mio primo impiego da sviluppatore software. Ci vollero tre lunghi anni, in cui nel frattempo mi adattai a fare di tutto: il facchino in un hotel, con grande gioia per le mie giovani vertebre, e poi il fattorino, l'operaio in fabbrica e tante altre professioni. Non amavo nessuna di queste: ciascuna a proprio modo, tutte erano pericolose. Avevo visto alcune cose decisamente inquietanti nei reparti di verniciatura e montaggio delle varie fabbriche dove avevo lavorato. Avevo deciso, allora, che avrei dovuto fare l'impiegato, anche perché ci tenevo molto al mio corpo, alla sua integrità e alla sua salute. Questa cosa, detta oggi, è al limite del tragicomico, visto come sono andate le cose. Sono il genere di persona che non farebbe mai un piercing o un tatuaggio, non per chissà quale implicazione morale, ma semplicemente perché credo che i corpi siano belli così come sono, senza bisogno di cambiarli in maniera permanente, se non c'è un motivo di salute per farlo. Semplice gusto personale. E pensa a cosa è accaduto al mio corpo. Pensa a tutto quello che ti ho raccontato finora. Le mie dita allora erano capaci di muoversi agilmente e velocemente, in pochi millimetri, con grande precisione e velocità, applicando forze anche piuttosto importanti per un dito solo. I muscoli delle mie mani erano grandi, pulsanti e bene in vista. Riuscivo ad aprire le noci schiacciandole tra pollice e indice.
Oggi la forza le ha abbandonate. Ci sono momenti in cui quasi non riesco a credere che quello che ti sto raccontando sia vero. Ho la sensazione che siano i ricordi di un'altra persona e faccio fatica ad accettare quello che sono diventato oggi, soprattutto in relazione a ciò che sono stato.
Per effetto dell'artrite e della fibromialgia, le mie mani hanno poca forza e, fino a poco tempo fa, tremavano quando chiedevo loro di afferrare. Ora non tremano più, semplicemente perché la forza non c'è. Se voglio stringere la mano, questa rimane poco più che inerte. Al mattino le mani sono rigide, prima che si sciolgano un po', e sono gonfie e dolorose. Niente a che vedere con ciò che sono state.
Qualcuno mi dice che prima o poi invecchiamo tutti e io rispondo che sì, è vero, invecchiamo tutti, ma non tutti si ritrovano così prima dei 50 anni. Non è la stessa cosa ed è buffo notare che chi ci dice queste cose non soffre dei problemi degli invisibili.
Ma tant'è.
Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.
Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.
Non rimandare quello che vuoi fare. Fallo oggi, perché la vita può sorprenderti in modi che non ti aspetti neanche.
Accarezza qualcuno a cui vuoi bene; usale per aiutare: penso che sia la cosa più bella che si possa fare.
Crea qualcosa di bello, gioiscine, suona: io non posso più farlo.
Ci sentiamo martedì.
Stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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🔥💥🤒 Fibromialgia e Artrite: Come le Malattie Invisibili Cambiano la Vita Sociale 🤕💔🚫
“Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue.”
In questo episodio ti racconto il mio rapporto con gli altri, in particolare i gruppi di persone con cui ho avuto a che fare nella vita e come la malattia abbia cambiato questi rapporti.
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Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 7), anziché leggerlo, puoi farlo qui:
- Castopod (piattaforma sul Fediverso): castopod.it/@gridomuto/episode…
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Come esseri umani, tutti facciamo parte di un gruppo di persone: l'umanità, appunto, ma anche altri gruppi, anzi parecchi gruppi. Siamo animali sociali che spesso esprimono il meglio di sé quando fanno parte di un insieme di persone che hanno lo stesso scopo.
Che bello quando si sente di poter creare qualcosa con altri, creare qualcosa di più grande della semplice somma delle parti! Si prova una sensazione magnifica di inclusione, di potenza, di fratellanza, persino.
Oggi, da malato invisibile, mi è molto difficile sentirmi a mio agio come membro di un gruppo qualsiasi; uno di lavoro, ad esempio. Mi manca la sicurezza di poter dare il meglio di me.
Ma non è sempre stato così.
Nel 1990, ad esempio, vivevo ancora nel paese fra le montagne, a cavallo fra Toscana e Emilia, e avevo proposto ai miei pochi amici di suonare insieme. Era stato tutto molto spontaneo. Io avevo creato qualche motivetto con i pochi accordi che sapevo fare e Danilo, uno degli amici storici che frequentavo molto all'epoca, mi aveva dato una mano a sistemarli e a suonarli, facendomi nel frattempo ascoltare i suoi. Danilo aveva una voce squillante, a differenza della mia, e anche lui aveva una chitarra da suonare. Te l'ho dett; era il momento storico migliore per i chitarristi. Molti ragazzini volevano suonare quello strumento: erano gli anni degli AC⚡DC, dei Nirvana e dei Pearl Jam.
Ci divertivamo moltissimo, anche se io ero una schiappa con i testi. C'era un nostro amico, però, a Pontremoli, che era molto più in gamba di noi nell'arte di emozionare con le parole. Si trattava di Marco, e possedeva la chitarra acustica fantastica che avevo visto qualche settimana prima. Sapevo che gli piaceva scrivere poesie, oltre che strimpellare, e nel giro di poco tempo anche lui era entrato nel gruppo in maniera fisiologica e naturale. I testi che scriveva e cantava con la sua voce bassa e profonda ci avevano dato una grossa spinta a continuare.
Le canzoni fiorivano. Ora eravamo in tre, con tante possibilità in più di imparare l'uno dall'altro, di scambiarci suggerimenti di ascolto per scoprire nuova musica, aspirazioni e idee.
Dopo poco insistetti così tanto con i miei genitori che mi regalarono pure una chitarra acustica. Non li ho mai ringraziati abbastanza e quindi lo faccio adesso: grazie di cuore!
Se il dolore ai polpastrelli che avevo provato con la chitarra classica era già forte, quello provato con le corde in metallo della chitarra acustica era stato qualcosa di fuori scala. Erano più sottili e più tese; erano più vicine tra loro, quelle corde, e ci volle un bel po' ad abituarsi ad essere ancora più precisi, ancora più forti, ancora più determinati ad ignorare il dolore e andare avanti (una cosa che più tardi mi sarebbe stata davvero molto utile nella vita), ma era troppo importante per mollare. Dovevo andare avanti.
Ti racconto tutto questo per farti capire cosa potessero fare le mie mani e quanto era importante per me il suono della mia nuova chitarra. Mi piaceva tantissimo: potevo fare molte più cose e le mie dita diventavano sempre più forti, sempre più in grado di dosare la giusta quantità di forza in un punto piccolissimo per stringere le corde dove serviva e poi spostarsi velocemente sulla nota successiva. Un lavoro, insomma, di grande precisione che avrei continuato a fare ancora per molti anni.
Per la promozione in terza media, i miei cedettero di nuovo alle mie suppliche per avere una chitarra elettrica. Gliel'avevo chiesta fino allo sfinimento. Era ora di fare il salto di qualità, ma allora non mi rendevo conto che nel bilancio familiare una spesa di 650.000 lire era una grossa somma. Oggi me ne vergogno un po', ma in quegli anni questo fervore musicale mi stava dando un po' la testa. Mi sentivo sempre più importante, persino troppo, vista la situazione, e così mi sentivo in diritto di chiedere tutto, di avere tutto.
La mia nuova chitarra elettrica, tutta bianca, la comprammo a Parma in un pomeriggio di luglio del 1991. Senza sapere troppo di chitarre, avevo preso quella che mi piaceva di più esteticamente, pur restando nel budget. Ovviamente, con il suo piccolo amplificatore al seguito o sarebbe stata inutile per le mie mani. All'improvviso, si era aperto un nuovo universo di possibilità.
Questo strumento era un po' più facile da suonare; serviva meno forza per suonarlo, ma molta, moltissima precisione in più. I suoni distorti, infatti, se non sono suonati con una precisione maniacale, provocano soltanto un gran rumore, ma niente musica.
Anche per il nostro piccolo gruppo musicale si aprirono nuove prospettive, nuove possibilità di incastrare il suono di uno strumento con quello dell'altro. In breve tempo fu tutto un fiorire di chitarre. Anche Danilo ne prese una, una stupenda chitarra elettrica blu metallizzata, marca Fender. Ci divertivamo sempre di più suonando insieme a Marco, che continuava a sfornare testi su testi; insieme funzionavano bene. Dopo qualche mese, anche Lorenzo, un altro grande amico che viveva a Milano, si prese una chitarra elettrica. Era l'imitazione di uno strumento degli anni '60, con un suono fantastico quanto il suo colore rosso fuoco e un grande amplificatore adatto anche al rock pesante. Anche lui aveva scritto qualche canzone, guarda un po', e così lo inglobammo nel gruppo immediatamente.
Ognuno di noi aveva un'anima musicale diversa: chi amava la musica leggera italiana, chi il rock inglese e il pop, chi quello americano, chi il country e le ballate. Ciascuno portava un contributo e un punto di vista diverso al gruppo, e quello che nasceva era davvero qualcosa di più della somma delle parti: un genere unico. Eravamo al settimo cielo.
La prima crisi del gruppo arrivò qualche tempo dopo, quando ero già alle scuole superiori. Ci eravamo resi conto che c'erano davvero troppe chitarre e troppe voci nel gruppo, ma nessuno, giustamente, voleva fare un passo indietro. In particolare, io insistevo molto per fare un salto di qualità. Mi sentivo sempre più sicuro sullo strumento, stavo facendo progressi suonando i pezzi dei Nirvana, dei Deep Purple e naturalmente anche dei Pink Floyd. Essere in grado di suonare le canzoni dei miei idoli, che adoravo, mi dava tanta arroganza e sicurezza. Una cosa che ho notato solo a distanza di anni. Con i miei amici insistevo molto anche perché fossero d'accordo con me e per qualche ora siamo stati davvero a un passo dallo scioglimento. Non riuscivamo a trovare una soluzione. In quegli anni non c'era internet e WhatsApp, e le nostre discussioni duravano settimane, visto che ci vedevamo solo di sabato e di domenica. Per fortuna, la nostra amicizia non ne risentì, visto che poi facevamo anche molte altre cose insieme che stemperavano i toni. Si andava al fiume, a giocare a pallone, a fare le grigliate insieme nei boschi quando era stagione. Noi, in fondo, eravamo i “Crackers”, quel gruppo musicale così particolare che faceva tanti generi in uno. Finite le discussioni, si tornava più amici di prima, perché in tutti noi c'era la consapevolezza che potevano esserci dei dissapori, ma si doveva trovare una soluzione.
Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa oggi, da adulto e ammalato invisibile.
Quanti gruppi ho incontrato nella mia vita! Ho cambiato lavoro un sacco di volte: nuovi gruppi, nuove regole e nuove consuetudini da cambiare tutte le volte e, in questo caso, obiettivi che non sempre sono condivisi da tutti i membri del gruppo. I gruppi dell'età adulta spesso sono spietati: tolleranza zero, pressioni e manipolazioni varie: o sei come noi, o non sei uno di noi.
Avrei potuto fare parte di tanti gruppi musicali, come poi è stato, ma nessuno di questi mi avrebbe mai preparato abbastanza ai gruppi sociali dell'età adulta. Anzi, avere sperimentato l'unione intima dei gruppi musicali è qualcosa che ti porta nella direzione diametralmente opposta: a fidarti completamente, cosa che nei gruppi di persone che frequento oggi non posso fare fino in fondo.
Sì, perché da malato invisibile c'è sempre una certa tendenza degli altri ad ignorare chi sono. Sarebbe bello poter dire che la malattia non è ciò che ci definisce, ma nella società della produzione, purtroppo, è esattamente quello che accade: o sei produttivo, o fai quello che il gruppo si aspetta da te e come il gruppo se lo aspetta da te, oppure sei un problema e non c'è spazio né per la creatività né per il rispetto delle difficoltà di chi è ammalato.
Anche i gruppi sociali convenzionali sono un problema. Faccio fatica a partecipare a tutte le attività proposte dagli amici, dai conoscenti e anche dai parenti più o meno stretti. “Ma perché non ci vediamo martedì alle 7 di sera? Dai, una pizza...”
Come faccio a spiegare per l'ennesima volta che le mie energie finiscono già alle 5 del pomeriggio, quando va bene? Altro che martedì sera!
“Ma perché non ci vieni a trovare? Prendi la macchina, parti e via. Ah, io, alla tua età... Sapessi cosa facevo!”
Eh, se solo potessi guidare più di un'ora senza mal di schiena e senza addormentarmi, forse lo farei. Forse tu alla mia età non avevi l'artrite, la fibromialgia e la psoriasi.
Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue. Al gruppo che non ci capisce può sembrare che siamo sfaticati, che non ci interessi davvero quello che facciamo o che non siamo portati per farlo. So che tanti di noi, malati invisibili, hanno subito pesanti conseguenze sul lavoro a causa di questa enorme difficoltà di comprensione. Alla fine, noi malati invisibili sappiamo di essere soli anche in gruppo, anzi, spesso proprio in gruppo.
C'è una cosa che non sono ancora in grado di fare, nemmeno dopo tanti anni di vita: non generalizzare. È vero che noi malati invisibili facciamo fatica ad essere capiti e accettati in diversi tipi di gruppi, ma non dobbiamo neanche perdere la speranza. In fondo ci sono gruppi di persone davvero meravigliosi. Il gruppo musicale dei Def Leppard, ad esempio. Erano famosi negli anni '90. Il loro batterista perse un braccio in un incidente stradale, ma gli altri membri della band decisero di non sostituirlo. Attesero che si riprendesse e che imparasse a suonare quasi da zero una batteria modificata per essere suonata con un braccio solo. Wow! E se esistono gruppi come quello, allora c'è speranza che ne esistano di simili che possano capirci. Non dobbiamo perdere la speranza.
Nel frattempo dobbiamo fare un certo lavoro di pulizia, se mi passi il termine. Se un gruppo di persone non ci capisce, allora è inutile insistere: meglio abbandonarlo. Se possiamo, se ci è possibile, smettiamo di frequentare quel gruppo: continuare ci farebbe stare ancora peggio. E se non ci tuteliamo noi da soli, chi lo farà? Un consiglio che mi sento di darti è di non pensarci troppo, a costo di sembrare freddo, superficiale e maleducato.
Non abbiamo energie da perdere. Spostiamoci altrove. Nuove persone arriveranno, nuovi gruppi ci accoglieranno. Ci sarà sempre una nuova possibilità. Le persone che ci possono capire sono una su un milione, ma ci sono. Non smettiamo mai di cercarle, o la malattia ci avrà già sconfitti; ci trasformerà nei mostri che non siamo e che non dovremmo essere mai. E poi noi siamo tanti, tantissimi. Siamo in ogni gruppo. Siamo un gruppo. Troviamoci almeno fra di noi, nei commenti di questo podcast, nella pagina Facebook che trovi nella descrizione di questo episodio facebook.com/GridoMutoPodcast). Restiamo aperti a riconoscerci tra tanti invisibili, ma uniti, in qualsiasi gruppo sociale.
Ci sentiamo martedì, stammi bene!
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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🤲 Il Tatto: ti accorgi che è importante quando l'hai già perso ❌
In questo episodio ti racconto come la malattia ha cambiato il mio senso del tatto, un senso importantissimo che tutti noi tendiamo a sottovalutare finché non ci viene portato via.
Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 5):
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Le situazioni che possono rendere difficile la vita di un individuo sono tante; anzi, tantissime, e io non sono certo l'unico a doverle affrontare. È indubbio però che alcune siano molto conosciute, come la perdita della vista o dell'udito, mentre di altre non si parla mai.
Cosa succede, ad esempio, a una persona che perde completamente il senso del tatto? Anche questa è una situazione difficile, peggiore di quanto non sembri, e che dall'esterno non può essere percepita.
Un'altra delle esperienze impossibili da comunicare agli altri. Eppure, è un'altra delle cose che mi è capitata.
La causa di tutto questo è la psoriasi. Ne hai mai sentito parlare? Nella descrizione dell'episodio trovi un link all'Istituto Superiore di Sanità, con la definizione di cosa sia questa patologia cronica e non infettiva. Ma lascia che te la ripeta anche qui:
“La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle che si manifesta con aree ispessite ricoperte da squame di colorito grigio-argenteo che, in alcuni casi, possono dare prurito. In genere, le placche sono localizzate a livello dei gomiti, delle ginocchia, del cuoio capelluto, del viso, delle mani e dei piedi, ma possono essere presenti anche in altre parti del corpo.”
Confermo tutto, anche la parte in cui parla delle altre parti del corpo. È una patologia che è molto più problematica di quello che sembra, anche se da molti viene considerata soltanto come un problema estetico. Quella è la punta dell'iceberg, ma c'è molto di più. Nel mio caso, si è manifestata in forma visibile quando avevo 25 anni. Soltanto pochi anni dopo, quando è arrivata sui polpastrelli delle mani e dei piedi, rendendo difficile suonare e camminare, cominciai a capire che c'era qualcosa di grosso che non andava. Oggi pagherei oro per ritornare a quel periodo.
Ma in realtà la psoriasi si era manifestata già prima di quel periodo. Ricordo perfettamente il momento in cui la notai per la prima volta, perché ora so che si trattava di psoriasi. Era l'ottobre del 1990 e frequentavo la seconda media. All'improvviso la testa cominciò a prudere alla follia durante una lezione di musica. Non sapevo più cosa fare. Le dita non bastavano a placare quel prurito. Pensai di avere i pidocchi, perché non li avevo mai avuti e non sapevo che effetto facessero. Mi vergognavo moltissimo. Temevo di passare per quello lurido, che non si lava mai. Cercavo di non farmi vedere, ma non bastò. L'insegnante stesso se ne accorse e mi chiese cosa stesse succedendo: “C'è qualche problema?”
Risposi con la prima cosa che mi venne in mente: “Professore, mi scusi, stamattina ho messo il gel e devo essere allergico.” Ma il prurito continuava. Cominciai a usare una penna per grattarmi, e dopo quella che sembrava forfora, alla fine mi ritrovai del sangue tra i capelli.
Una volta a casa, mi lavai la testa. Il prurito dopo un poco passò, e mi convinsi che quello che avevo detto al professore era la verità. In fondo, avere la forfora succede, no? E anche essere allergici a qualcosa, giusto? Non ho messo mai più il gel per capelli in vita mia, e per fortuna quel prurito non si ripresentò più durante le lezioni di musica. Per fortuna, perché io amavo quelle lezioni.
Oltre a insegnarci la teoria e farci suonare il flauto, l'insegnante ci faceva ascoltare suoni diversi da uno xilofono che teneva nascosto, e ci chiedeva quale nota fosse la più acuta o la più grave. Ci faceva ascoltare piccoli motivetti, dicendoci solo quale fosse la prima nota, e noi avremmo dovuto individuare le altre. Sembrava un gioco, ma stavo allenando il mio orecchio a riconoscere le note, a capire se una nota era molto distante da un'altra sulla tastiera. Dell'ottava delle sette note non ha una fine. Arrivati all'ultima nota, si ricomincia con la prima, solo più acuta di prima e viceversa verso il basso. Un giorno, ci fece ascoltare dei pezzi di alcune big band, i gruppi musicali che si ispiravano allo stile del jazz anni '40. Ci insegnava quale dei suoni che ascoltavamo era la batteria, quale il basso, quale la chitarra. Io ero un po' avvantaggiato in questo giochetto, devo ammetterlo, anche grazie ai Pink Floyd e al loro ultimo disco del 1987, che avevo ascoltato fino a consumarlo. E poi, certo, anche grazie a tutti gli altri che cominciavo ad ascoltare, come i Supertramp, i Deep Purple, gli Alan Parsons Project, i Dire Straits, tutti dalla collezione di mio fratello, che non posso fare altro che ringraziare. Indovina com'erano i miei voti in musica!
In quello stesso anno, a furia di ascoltare i Deep Purple e gli assoli del chitarrista dei Pink Floyd, presi una decisione.
Al diavolo il flauto. io voglio suonare la chitarra come quello dei Pink Floyd!
Ne parlai con la mia mamma, a cui venne in mente che una nostra cugina nel paese ne aveva una che non usava. La cugina molto gentilmente me la prestò a tempo indefinito. Finalmente tra le braccia stringevo la mia prima chitarra. Anzi, a essere sinceri, la seconda, perché la prima l'avevo spaccata in testa a mio fratello quando avevo 3 anni. Mi dispiace che sia successo, perché era un bello strumento. Dai, sto scherzando; col senno di poi, mio fratello non si fece niente, ma ora mi dispiace molto.
Con la chitarra in mano, sfogliavo il libro di musica con la foga di chi sta morendo di sete e vede una bottiglia d'acqua. C'erano alcune piccole figure che facevano vedere dove mettere le dita sulla chitarra, per poterla suonare: gli accordi. Qualcosa con cui avrei avuto a che fare per molto tempo negli anni a venire. Provai subito a farne qualcuno, ma c'era un problema: le dita facevano male, anzi, malissimo. Dopo pochi minuti, la chitarra classica che avevo preso in prestito da mia cugina mi aveva già dato la prima grandissima lezione: se vuoi conquistarmi, dovrai impegnarti tanto, soffrire un po' e non stancarti mai. Ma poi sarà bellissimo. E lo sarebbe stato, in verità, almeno finché i miei polpastrelli non sarebbero stati devastati dalla psoriasi diversi anni più tardi. Ma di questo parleremo più avanti.
Oggi so che quello che all'epoca riconoscevo come prurito, mentre ero a scuola, era in realtà qualcos'altro. Lo so perché è la stessa cosa che sento ancora nei posti dove la psoriasi si è manifestata con le sue belle placche squamose e lucenti, rossastre e viola, nelle zone più strane del corpo. L'interno dell'orecchio, ad esempio, che specialmente nelle notti più calde non mi dà tregua, ma anche nelle piante dei piedi o tra le dita, sul cuoio capelluto, anche se di capelli non ne sono rimasti molti, forse uccisi proprio dalla psoriasi, o ancora sulle mani. Dove la psoriasi colpisce, la pelle non si abbronza mai più, anche quando la malattia sembrerà scomparire temporaneamente. Addio lentiggini, addio qualsiasi cosa. Restano solo aree bianche tondeggianti con delle aree dorate intorno.
Per essere più precisi, la psoriasi non dà solo prurito. Il prurito è quello che danno le zanzare o una piuma. Con la psoriasi è tutto diverso: la sensazione è quella di prurito insieme a mille spilli che ti pungono in un punto. A volte sembra quasi che ci sia uno sciame di insetti che ti sta pungendo o un animale che ti morde. Sai come si fa a dormire in queste condizioni? Non si può. E infatti, da quando questa patologia mi accompagna e si risveglia, non ho mai una notte tranquilla. Alle medie mi facevo sanguinare la testa; ora tocca alle orecchie.
La cosa peggiore di tutte, forse, è che nel mio caso si manifesta anche sui polpastrelli. Anche se non ho più i calli che avevo costruito con fatica quando suonavo, la psoriasi indurisce la pelle che si trova sulla punta delle dita. Qual è la parte delle dita che ci fa percepire maggiormente il mondo? Esatto: proprio la punta. È così che sentiamo se qualcosa è liscio o ruvido, se un tessuto è pungente sulla pelle ancora prima di indossarlo, o se qualcosa è caldo o freddo, ad esempio, o ancora, quanto è piacevole la pelle di un'altra persona quando la accarezziamo.
Ancora oggi la punta delle mie dita si ispessisce e diventa rigida. Come nelle altre zone colpite dalla psoriasi, la pelle perde elasticità fino a sgretolarsi e a spaccarsi, aprendo una piccola ferita che guarisce soltanto dopo molti mesi, se va bene. Prova a pensarci. Pensa a quante cose toccano le tue dita durante il giorno e a quante possibilità avresti di infettarle se fossero tutte aperte e sanguinanti. Se stai pensando a dei cerotti, posso dirti che non è una soluzione percorribile. Anche se non sei un musicista, pensa a che fatica potresti fare per cucinare, digitare su una tastiera o usare un cellulare con un cerotto su ogni dito.
Ultima chicca di tutta questa situazione è che con le dita in queste condizioni, che fanno male ogni volta che tocchi qualcosa, non puoi più tenere saldamente in mano gli oggetti. Come sarebbe possibile, d'altra parte? Non ti accorgi più se sono lisci e quindi devi fare più forza, oppure ruvidi, e allora ne basta meno. Sono tutte cose, piccoli movimenti involontari che il nostro cervello valuta e compie senza che noi ce ne accorgiamo, basandosi sul senso del tatto. Se questo non c'è più, la vita diventa molto più difficile. Bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. Eppure, quando lo racconti alle persone, ti guardano come se fossi un alieno. Alcuni pensano che esageri, ed è evidente quando gliene parli. Non ti capiscono perché loro il senso del tatto ce l'hanno, lo danno per scontato, come tutti, e non sanno cosa significhi perderlo. Spero soltanto che ascoltando questo podcast possano cambiare idea, e questo dipende anche da te. Dobbiamo raggiungere più persone possibili per far sapere al mondo come vive chi non ha più il tatto. Condividi questo episodio con quante più persone puoi. Io te ne sarò molto grato.
Allora, avevo ragione o no che perdere il senso del tatto è una disgrazia? Non sarà come perdere la vista o l'udito, ma è una cosa che peggiora molto la vita di chi la subisce, e ovviamente il mio destino non poteva farmela mancare. Più avanti ti racconterò ancora meglio quanto tutto questo sia determinante per la vita di un musicista, ma per ora voglio lasciarti con un invito a riflettere sulla perdita del tatto. Anche questo è un senso prezioso, e anche in questo caso la sua perdita è invisibile. Prova a dire a qualcuno che hai perso il senso del tatto e vedrai che non capirà al volo quello che significa. Se incontri qualcuno in questa condizione, per la psoriasi o per un altro motivo, sii gentile con lui o con lei: sta combattendo una battaglia interiore per capire come percepire di nuovo il mondo. Ti do appuntamento a martedì e, nel frattempo, stammi bene.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.”
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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!
In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.
Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):
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Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.
Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.
All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.
Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.
La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.
Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.
Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.
La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.
Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.
A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.
Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.
Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.
Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.
Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.
Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.
Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:
Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.
Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.
Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.
Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.
Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.
A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.
Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.
I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.
Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.
Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.
Tranne un'altra, a pensarci bene.
C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.
Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.
Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.
Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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L'udito 👂: perché non basta dirci "Va tutto bene!" 🗣️❗ L'ipersensibilità...
L'udito 👂: perché non basta dirci “Va tutto bene!” 🗣️❗ L'ipersensibilità uditiva.
In questo episodio ti racconterò di come la musica abbia plasmato la mia vita già da bambino e di come il mio udito eccezionale sia diventato, allo stesso tempo, una benedizione e una maledizione.
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Cos'è che scatena la compassione per la sofferenza? È la consapevolezza che potremmo anche noi subire la stessa sorte di quelli che vediamo soffrire. La vista è il senso più importante con cui noi esseri umani misuriamo il mondo ed è naturale che sia anche la prima cosa che ci avverte che qualcuno molto vicino a noi sta soffrendo. Il nostro cervello si mette subito all'erta, inconsciamente, per capire se c'è un pericolo imminente che potrebbe riguardare anche noi. Però, non tutte le patologie si vedono con gli occhi, e allora in questa puntata ti parlerò di un altro senso che può farci percepire la sofferenza: l'udito.
Pensa a quante volte, magari al telefono, ti sei accorto che un tuo amico o un tuo parente non stava bene semplicemente sentendolo parlare. Oppure pensa a quando qualcuno ha un'influenza: emette dei lamenti, non sta bene, tossisce. Ti accorgi subito quando qualcuno non sta bene perché la voce è davvero uno degli specchi dell'anima, ed è difficilissimo fingere di stare bene quando non è così. Al telefono è un po' più facile nascondere la propria sofferenza. Le persone dall'altra parte ci dicono “Va tutto bene” e scegliamo di fidarci delle loro stesse parole. “Va tutto bene”, ci sentiamo dire. È una frase rassicurante, no? Specie se pronunciata con voce ferma, con convinzione.
Io ho deciso che non voglio più nascondere come mi sento. Mi sono stancato di dire che va tutto bene. Per molti anni mi sono riparato dietro questa frase, non accettavo le patologie che stavano nascendo. Anche perché, all'inizio, i sintomi erano soltanto vaghi, non mi creavano troppi problemi apparentemente. Quindi era facilissimo dire che andava tutto bene, era facilissimo non mettere in mostra quella che era ed è una mia debolezza, non farlo sapere. Avevo paura di come mi avrebbero giudicato gli altri in una società che ci vuole perfetti. È facile dire che avrei dovuto fregarmene, ma non mi è mai stato facile perché non sono fatto così. Ci sono tanti condizionamenti che subiamo sin da piccoli e che ci tiriamo dietro per tutta la vita.
In alcuni casi era davvero indispensabile nascondere la mia sofferenza. Verso i genitori, ad esempio, li avrei preoccupati inutilmente, non avrebbero potuto farci nulla. Oppure anche durante un colloquio di lavoro. Sarai d'accordo con me che è un po' strano esordire con frasi del tipo: “Sì, so perfettamente gestire l'infrastruttura informatica dell'azienda, ma non garantisco di essere ancora in grado di muovere le dita nel prossimo futuro” o anche “Sì, adoro lavorare sotto stress e con orari flessibili. E ovviamente, anche se gli straordinari non sono pagati; il burnout per me è sempre dietro l'angolo, però non si preoccupi, sono il candidato migliore per questa posizione”.
Oltre a tutto questo, non mi andava proprio di dire a chi conoscevo che le cose andavano sempre peggio. Mi sono sempre sentito in difetto per queste patologie, diverso, in qualche modo rotto, senza possibilità di essere aggiustato. Mica bello parlarne con gli altri, poi come, con quali parole? Quando ci provavo non andava mai a finire bene. Più avanti ti racconterò. Ed ecco che allora il mio “Va tutto bene” aveva uno scopo quasi liberatorio per me, sarei riuscito a non affrontare l'argomento ancora una volta. Con il passare del tempo sono diventato bravissimo a dissimulare. “È tutto a posto, va tutto bene.” Si infarcisce la frase con un sorriso e si tira avanti. A lungo andare, e con l'aggravarsi dei sintomi, mi sono accorto che questa strada è stata controproducente, sia per me stesso che per fare dire agli altri, direttamente dalla mia voce, come stavo e che cosa non potevo più fare.
L'udito non ce l'hanno solo gli altri; può essere una grande risorsa anche per noi che siamo ammalati e ci apre un mondo di possibilità per fare cose che amiamo e che ci è ancora possibile fare. L'udito per me è sempre stato importantissimo. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, anche senza rendermene conto, ho sempre avuto un udito estremamente sensibile e allenato fin dagli anni '80.
Nel 1983, ad esempio, iniziavo a frequentare le scuole elementari a Livorno e le mie orecchie avevano cominciato ad avere pane per i loro denti. Cantavo le canzoncine che ci facevano imparare durante le lezioni e finalmente potevo cantare senza vergogna, sapendo che lì si poteva fare anche a squarciagola. Ovviamente continuavo ad ascoltare e canticchiare anche le canzoni dei cartoni animati dell'epoca, come Heidi o l'Apemaia. Tutto pane per i miei denti, gioia per le mie orecchie e possibilità di assorbire tutto quel mondo fantastico di note.
A Natale avevo ricevuto in regalo un giradischi portatile a batteria; gli si potevano dare in pasto soltanto i 45 giri e, a pensarci oggi, assomigliava molto a quelli che negli anni successivi sarebbero stati i lettori CD e poi i lettori MP3. Se hai vissuto gli anni '80 ti ricorderai senz'altro del famoso “mangiadischi”, oggetto del desiderio che ti faceva ascoltare la musica fuori casa, all'onestissimo peso di 1 kg. Io lo usavo molto spesso, fermandomi solo quando le batterie erano esauste, perché...sì, erano anche costose!
Io e la mia famiglia continuavamo ad andare dai miei nonni molto spesso in quegli anni, sia nei fine settimana che in estate, quando noi bambini potevamo fermarci lassù per settimane.
Fu in quella valle fresca della Lunigiana che scoprii per la prima volta la musica degli adulti.
Accadde per caso nell'estate dell'84, tra un calippo e l'altro. Mio fratello maggiore allora aveva 14 anni e tutte le sere ascoltava musica da un giradischi. Non quello portatile di cui ti parlavo prima ma uno di qualità superiore. Lui usava i 33 giri, quei grandi dischi in vinile che sono sopravvissuti al tempo e che ancora oggi possiamo trovare in commercio per gli appassionati.
Ricordo che me ne stavo sotto le coperte al buio ad ascoltare quei battiti intensi che provenivano dal piano di sopra, come se appartenessero a un cuore enorme. Sentivo tutto benissimo perché il pavimento di legno non isolava alcun suono, nel bene e nel male. In quel caso per me era un bene, e mi arrivavano i bassi intensi; i ritmi di quella musica strana, così diversa da quella che conoscevo, e soprattutto...così seria! Non ne capivo né le parole né gli argomenti, ma adoravo come mi arrivava il canto di quelle voci e i suoni erano molto più gradevoli e pieni rispetto al mio piccolo mangiadischi.
Uno dei dischi che mio fratello ascoltava più spesso si chiamava Mixage '84. Nella copertina stilizzata, una ragazza guardava fieramente verso l'alto, abbronzata e luccicante per la crema solare, con una spiaggia tropicale sullo sfondo. L'estate era scoppiata anche nelle valli degli Appennini proprio grazie alle radio e a quei dischi, con quei brani, tutti di autori diversi, tutti dello stesso genere: musica dance anni '80. Quel disco girava e girava una sera dopo l'altra, e mi addormentavo sulle note di “Movin' On” o di “Self Control” di Raf, oppure del remake improbabile di “Every Breath You Take dei Police”, e poi altri dischi con gli Alphaville, gli A-ha, Bronski Beat, Cyndi Lauper e tutti gli altri. In poco tempo, le canzoni che mi piaceva cantare erano diventate quelle, anche se non sapevo niente di inglese e biascicavo parole senza senso. Le canzoni tristi o quelle dai toni sospesi mi piacevano molto di più delle canzoni allegre, forse anche perché le canzoncine allegre le associavo alla scuola.
E poi un giorno arrivò la svolta. Mio fratello mise un disco diverso, un singolo: si chiamava “Jump” dei Van Halen.
Quella canzone mi entrò immediatamente in testa: un ritmo incalzante, una melodia che si poteva canticchiare facilmente e che mi faceva venire tanta voglia di muovermi, anche se ero già a letto. Poi, a metà canzone, accadde qualcosa di incredibile, di inaspettato, una roba mai sentita: un cambio di passo totalmente senza senso. La voce scomparve e la musica cambiò del tutto. Fece irruzione uno strumento magnetico, che nel giro di pochi secondi vomitò un mare di note nelle mie orecchie. Che cosa avevo appena sentito? Una chitarra elettrica! Wow, che suono e che potenza! A quel punto il resto della canzone passò per sempre in secondo piano. Teniamo a mente che, ancora ai giorni nostri, è un pezzo che è un po' difficile da eguagliare. Ce ne fossero di Jump! In quel momento era nata la mia passione per uno strumento che sarebbe esplosa più avanti.
La mia fame di musica continuava a crescere e così pure il mio udito. Può darsi che la mia capacità di riconoscere i suoni, di ricordarli o di avere l'udito fino che ho ancora oggi si sia sviluppata proprio in quegli anni. Oggi, avere l'udito più sviluppato della media è sì un piacere, ma anche un grande ostacolo per me. Percepisco più suoni dell'udito medio e soprattutto di notte, quando il dolore cervicale o quella sensazione che qualcuno mi stia accoltellando a un fianco non mi lasciano riposare. Allora comincio a sentire lo svolazzare di una farfalla nel buio della stanza, l'automobile o il treno che passano a mezzo chilometro di distanza o il vicino che rientra a casa due o tre appartamenti più in là. Il canto degli uccelli delle 3:30, però, è la cosa peggiore di tutte. Quelle sono note: è la fine. L'udito si concentra su quei suoni, il cervello comincia a elaborarli, a catalogarne la ripetitività, il ritmo, il timbro e le pause.
Ma va tutto bene, sorridiamo, no?
Adesso basta sorridere.
E' ora di far percepire agli altri come stiamo noi ammalati di patologie che non si vedono. Sta a noi guidarli, insistere perché si sforzino di capire. Con il “Va tutto bene” resteremo sempre le persone che eravamo, ricordiamocelo, quando in realtà non li siamo più.
Voglio lasciarti con un buon proposito per il futuro: non fare l'errore che ho fatto io, non avere paura di dire come stai. Chi ti sta intorno e ti vuole bene capirà. Sul posto di lavoro, con prudenza, cerca di fare capire quello che vivi e le tue esigenze. Non è facile, ma siamo tutti umani e troverai senz'altro chi comprenderà la situazione o un posto di lavoro dove questo sarà possibile. Fatti udire, sfrutta questa possibilità. Io ho deciso di farlo oggi tramite questo podcast e ho ancora tanto da raccontarti. Ci sentiamo tra una settimana per il prossimo episodio, in cui scoprirai un pezzettino in più della mia storia.
Nel frattempo, stammi bene!
Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.
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