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✨ Le mie mani hanno una data di scadenza. Come farò dopo? 🤔

“Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare.”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 6), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

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Sono passati tanti anni da quando ho perso il senso del tatto. Soltanto di recente sono riuscito a recuperarlo in parte, ma non ho più trovato niente che sia bello da toccare tanto quanto la prima chitarra che ho avuto fra le mani. Riesco ancora a sentirne l'odore, quell'odore della colla mista a quello del legno di diabete di cui era fatta. Fantastico! Spesso mi avvicinavo al foro centrale della chitarra, quello sotto le corde, per aspirarne il profumo a pieni polmoni.

A cavallo tra gli anni '80 e '90, la chitarra era ancora all'apice della sua gloria e ci sarebbe rimasta ancora per un po'. Il rock e l'heavy metal erano sempre più famosi in tutto il mondo e la chitarra elettrica era uno dei simboli più forti di quei generi musicali. Di conseguenza, anche i chitarristi di fama mondiale si moltiplicavano. Era normale che tra i ragazzi della mia età quello strumento esercitasse un fascino irresistibile. Di fatto, chi non voleva fare il cantante di una rock band voleva fare il chitarrista. Per me, questa attrazione magnetica si era concretizzata proprio nello strumento che stringevo, prestato da una cugina che non finirò mai di ringraziare, anche se ora non c'è più.

Avevo visto la chitarra in mano ai grandi del rock e ora finalmente potevo suonarla, o almeno provarci. Suonare era una parola un po' grossa all'epoca. Come mi diceva qualcuno, più che suonarla, la “facevo suonare”. Con il tempo ho imparato quale fosse la differenza enorme tra queste due cose, ma in quel momento la gioia di ascoltare questi suoni nuovi e sapere che ero io a produrli, a decidere quando farli iniziare e quando farli finire, era qualcosa di elettrizzante. Io ero il regista di quei suoni e nessun altro. Non era certo la chitarra elettrica dei Pink Floyd, d'accordo, ma era pur sempre una chitarra e passavo ore e ore chino sopra di lei, con il libro di scuola davanti, a cercare di imparare quei tre o quattro accordi che c'erano in quelle pagine. Alcuni di questi accordi, che si chiamavano barré, non riuscivo proprio a farli. Il Fa maggiore, ad esempio; bisognava mettere il dito totalmente disteso in verticale e stringere ben sei corde insieme. Si usava il lato destro dell'indice della mano sinistra. Ci voleva troppa forza e le sei corde di nylon della chitarra facevano così male che non riuscivo a premerle come si doveva per eseguire l'accordo correttamente. Ne uscivano dei suoni muti o gracchianti e mi chiedevo se ce l'avrei mai fatta.

Riuscivo a fare altre cose, però. Con quello che avevo imparato nelle lezioni di musica a scuola, imparai a suonare da solo le melodie di alcuni brani di Pink Floyd. Mentre eseguivo la prima nota della melodia, il mio cervello calcolava al volo la distanza della nota successiva sul manico della chitarra e, le volte successive, usavo semplicemente la memoria. Oggi mi rendo conto che questo non fosse il metodo migliore per imparare a suonare uno strumento, ma allora l'importante era il risultato. Ricordavo dove avevo messo le dita per suonare quella canzone, tutto lì. Ero al settimo cielo. La mia memoria e il mio orecchio musicale mi aiutavano moltissimo e riuscivo così a ripercorrere i passi dei grandi della musica.

Parlando con il professore di musica a scuola, riuscii a ottenere il permesso di suonare la chitarra al posto del flauto. Ero l'unico ragazzino che aveva uno strumento diverso dal flauto e gli occhi degli altri erano puntati su di me. Stavo in qualche modo cominciando a realizzare il mio sogno?

Mi sentivo diverso dagli altri, osservato, e questa volta non era per la vergogna di grattarmi in classe. Alcuni dei miei compagni erano un po' invidiosi e questo mi dava soddisfazione. Devo ammetterlo.

Sapendo che non riuscivo a fare i barré, il professore aveva scarabocchiato su un foglio a quadretti i punti in cui avrei dovuto mettere le dita per fare altri accordi. Si trattava di accordi nuovi, quelli che sul libro non c'erano e che mi sarebbero serviti per accompagnare le canzoni che i miei compagni suonavano col flauto.

Il prezzo da pagare per tutto questo era abbastanza alto per la mia età. La chitarra classica, con la sua custodia di plastica rigida e spessa, era uno strumento pesante e ingombrante, quasi quanto lo zaino pieno di libri. E portare tutto questo peso, avanti e indietro da scuola a casa e viceversa, su e giù per gli autobus e nei tragitti a piedi, era un po' faticoso, ma non mi importava perché mi stava rendendo più forte, sia nell'animo che nel fisico.

In quel periodo riuscii anche a partecipare a corsi di atletica nella mia scuola. Sono sempre stato una schiappa nelle gare di velocità, ma in quelle di forza lì riuscivo benissimo. Fui uno dei pochi in tutta la scuola a partecipare alle gare provinciali di salto in alto e in lungo e, in seguito, riuscii ad arrivare terzo alle competizioni provinciali e a piazzarmi bene anche alle regionali, pur gareggiando con ragazzi molto più alti di me. Anche questo, e sentirmi sempre più forte fisicamente, mi dava un senso di grande sicurezza. Mi faceva sentire migliore degli altri. Da lì a sviluppare una certa arroganza, anche in casa, il passo fu davvero breve. Mi sentivo sempre più importante.

L'inverno e le sue giornate buie e nevose passarono molto più rapidamente quell'anno. Dopo avere ricevuto per Natale una chitarra classica tutta mia, mi ritrovai velocemente alla primavera del ’90. Le mie mani diventavano sempre più forti a forza di esercizi, lezioni di musica e canzoni. Passavo tutto il tempo che potevo sullo strumento a suonare canzoni che conoscevo, o almeno le loro melodie, e un giorno, con grandissima sorpresa, riuscii a produrre un accordo decente di fa maggiore: uno di quelli che prevede il faticoso dito indice che blocca tutte le corde. Non riuscivo a contenere la gioia; ero così contento che al centro del petto sentii una bella sensazione che si allargava con il respiro fino a raggiungere le mie mani.

Era la forza creativa che mi spingeva a suonare accordi simili, provare a farli in altri punti del manico dello strumento e vedere che effetto si otteneva; cambiare il movimento della mano destra e vedere cosa sarebbe cambiato di conseguenza: il ritmo della canzone o l'effetto sull'accordo, perché non era la stessa cosa suonare le corde con la mano destra in un verso piuttosto che nell'altro.

Comprai un grande poster da appendere in camera su cui c'erano tutti gli accordi che si potessero desiderare, raggruppati per tonalità. Era in inglese, ma non era un problema. In breve tempo avrei imparato anche la terminologia musicale anglosassone, diversa dalla nostra. Non c'era più niente che potesse fermarmi, a quel punto, tranne una chitarra acustica che vidi per la prima volta dal vivo a casa di uno dei miei amici, Marco.

Era tutta nera con finiture rosso acceso ed emetteva un suono divino per le mie orecchie, molto più brillante e definito rispetto alla mia chitarra classica. Gli accordi eseguiti su quello strumento sembravano un coro di angeli rispetto a quelli della chitarra classica. Era incredibile come suonasse. Il mio orecchio comprese subito che tutti i musicisti che avevo amato fino a quel momento usavano chitarre acustiche nei loro dischi, oltre a quelle elettriche. Per le chitarre classiche non c'era posto, esattamente come nella società di oggi non c'è posto per i malati invisibili. La mia nuova chitarra classica, all'improvviso, mi sembrava già vecchia.

Da quel momento, iniziai ad ascoltare e riprodurre in testa le canzoni di diversi artisti che avevano fatto della chitarra acustica il loro segno distintivo. Tracy Chapman, ad esempio, o Neil Young, Bob Dylan, Suzanne Vega. Un nuovo vaso di Pandora si era aperto per il mio orecchio musicale. Nel frattempo, avevo in mente un po' di cose che io e il mio amico potevamo fare: suonare insieme, ad esempio. Se ci ripenso oggi mi sembra impossibile che le mie dita potessero fare tutte quelle cose e mi sembra impossibile anche la tenacia che avevo e che mi spingeva ad imparare tutto. Anzi, ad andare avanti, imparando, nonostante le dita che mi bruciavano sulle punte. Chi me lo faceva fare? In fondo, sicuramente il desiderio di spiccare in mezzo a tanti altri della mia età, ma c'era di più: amavo creare. Le dita si sarebbero adattate.

Oggi ci sono giorni in cui, con le stesse dita, non riescono ad aprire un barattolo di marmellata ed è così da tanto. E non ho neanche 50 anni. La perdita del senso del tatto, infatti, è solo uno dei problemi che affliggono le mie mani, purtroppo. Sicuramente vale per tutti il fatto che, andando avanti, le articolazioni stiano sempre peggio, ma è come se per me questo processo fosse accelerato di 10, di 20 volte. Penso al futuro, imminente, e mi chiedo come potrò fare ad essere autosufficiente.

Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare. Questo è quello che ho sempre fatto nella mia vita: non soltanto lavorando, ma in tutto il resto del tempo. Anzi, soprattutto nel resto del tempo. Le mie mani stanno perdendo la capacità di interagire con il mondo, di farmi interagire con il mondo. Cosa farò quando non sarò più in grado di creare? Potrò considerarmi ancora me stesso? Sembra banale, ma questi sono i miei pensieri e ci penso spesso e non ho una risposta. Forse potresti darmi tu il tuo punto di vista con un commento, ad esempio.

Spesso indugio in questi pensieri, ma mi sforzo di scacciarli via con prepotenza. Ci sono tante cose che non posso più fare, ma ce ne sono tante altre che a questo punto della mia vita non avrei immaginato di poter ancora fare, o di poter fare, in generale. Questo podcast, ad esempio, e questo mi dà conforto, perché penso a quante altre cose belle potrò fare in futuro, cose che ora nemmeno immagino e che neppure le malattie mi impediranno di fare.

Ci sentiremo presto per il seguito della mia storia; una storia che somiglia sempre di più a un lungo viaggio sulle montagne russe. Ti do appuntamento a martedì prossimo con un nuovo episodio.

A presto, e stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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