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QOELET - Capitolo 2


Vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro1Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità.2Del riso ho detto: “Follia!” e della gioia: “A che giova?”.3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. 5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; 6mi sono fatto vasche per irrigare con l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. 10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. 11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

C’è una stessa sorte per tutti12Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia: “Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui”. 13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre:14il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. 15Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d'essere saggio? Dov'è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. 16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

Perché faticare, per poi lasciare tutto a un altro?17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. 18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, 21perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.22Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! 24Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. 25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? 26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

_________________Note

2,24 mangiare e bere: tra le modeste gioie della vita, la più frequentemente ricordata è la gioia della tavola, intesa come benedizione predisposta dal Signore per l’uomo (3,12-13).

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Approfondimenti


vv. 1-3. Il vino (2,3) è il simbolo di tutto ciò che rallegra la vita dell'uomo (Sal 104,15), dell'allegria stessa, del piacere. E anche l'esperienza del piacere è presentata nell'eccesso, laddove si rivela il suo limite, la sua incapacità a soddisfare le attese che aveva suscitato. Pure questa apparente perversione è posta sotto il segno della sapienza, dal momento che mira a scoprire che cosa sia il bene per l'uomo. E una ricerca spinta fino all'eccesso della perversione è giustificata dall'incombere della morte, che la rende urgente, urgente di un'urgenza cronologica (i giorni della vita sono pochi; cfr. Sal 90, 10) e di un'urgenza filosofica, esistenziale (la fragilità dei figli di Adamo, sempre sul punto di ritornare a quella terra ’adamah, da cui sono stati tratti).

vv. 4-8. Qoelet enumera i frutti del suo agire. Tra i beni immobili bisogna notare i «parchi»: il termine ebraico è pardēsîm, una parola presa in prestito dal persiano (da cui il nostro “paradiso”); il primo a creare dei parchi fu Tiglat-Pilezer I, re d'Assiria (XII-XI sec. a.C.), che vi radunava animali esotici in una vegetazione lussureggiante, come simbolo del suo dominio universale; con i Persiani il “paradiso” diventa parte dell'immagine regale, tanto che i satrapi vollero avere ciascuno il suo parco, per essere simili al gran re (e quest'idea vale probabilmente anche in Qo 2,5).

v. 9. Osserviamo che la sapienza, che in 1,16 era l'oggetto accumulato, dopo l'enumerazione di tutti gli oggetti che il cuore umano può concupire, diventa il soggetto di un'avversativa: «eppure mi era rimasta la mia sapienza». Quasi a dire che, se da un lato solo l'eccesso permette al sapiente di discernere chiaramente l'assurdità, dall'altro è molto difficile conservare la sapienza attraversando gli eccessi.

v. 10. L'assenza di limite al desiderio, punto focale del pezzo in esame, risulta evidente dalla doppia negazione dei verbi indicanti rifiuto. La motivazione che si dà di questo non-rifiuto riflette non un edonismo decadente, ma un vero atteggiamento sapienziale (il “godere” di 2,10 è in parallelo con il “conservare la sapienza” di 2,9). Abbandonato il piano esteriore, ci si muove solo più su quello interiore: l'allegria è vista come un'attitudine interiore durevole (il verbo è un participio), dunque: «il mio cuore si rallegrava sempre», «il mio cuore sapeva rallegrarsi».

v. 11. I vv. 9-10 sono un riassunto dell'enumerazione e dell'accumulazione di beni di 2,4-8 ed esprimono la sintesi massima del desiderabile: avere tutto quel che poté avere un Salomone, ma senza perdere la testa (v. 9; c'è forse qui una punta d'ironia nei confronti del grande sovrano che si era lasciato traviare dalle sue donne, cfr. 1Re 11,1-13); avere tutto quel che si può desiderare, oggetti e stati d'animo, essere ricchi e saperne godere (v. 10). Eppure Qoelet si volta a guardare ciò che ha realizzato, la ricchezza per cui ha faticato (v. 11), e il suo sguardo diventa un giudizio quanto mai negativo e disilluso (v. 11: assurdità totale, tormento inutile). Tale giudizio è per ora immotivato, ma è solo l'anticipazione di quanto verrà esposto nelle pericopi seguenti.

vv. 12-16. In 2,11 veniva anticipato un giudizio di generale assurdità e assenza di vantaggio. In 2,12 viene introdotto un elemento nuovo: la successione, che implica la morte. Contro la morte si scontrano tutte le realtà comparse nei versi precedenti, e la morte ne manifesta il non-senso. In 2,13 si trova una tesi contraddittoria rispetto al giudizio di 2,11 («pare che un vantaggio ci sia...»), appoggiata dalla tradizione con il proverbio di 2,14; ma lo stesso v. 14 aggiunge subito un dato d'esperienza che smentisce radicalmente la tesi tradizionale: non c'è vantaggio del saggio sullo stolto, perché tutti muoiono. Il centro del chiasmo è davvero il perno intorno al quale ruota l'intero discorso: la scoperta della morte – una scoperta non astratta ma esistenziale, coinvolgente – appiattisce la differenza tra saggezza e idiozia, e pertanto rende assurdo lo sforzo del saggio. Nei versetti che seguono viene sviluppata proprio quest'ultima idea, dapprima in chiave di coinvolgimento personale (v. 15), il che acuisce la coscienza dell'assurdità; viene poi la prospettiva dell'oblio: se il ricordo poteva sembrare una scappatoia dalla fine di tutto, in realtà non lo è; e se non ci sono scappatoie, non resta che il grido, il lamento (v. 16).

vv. 17-23. La parte 2,17-23 è ritmata in senso longitudinale dal ritornello della «vanità», dell'assurdità, alternando forma ampliata (17 e 21) e forma breve (19 e 23); tuttavia la struttura della parte, se si tralasciano i ritornelli, è concentrica. Se in 2,3 ci si impegnava a indagare che cosa fosse “bene” per l'uomo fare nei pochi giorni della sua vita, in 2,17 ecco la risposta (in ordine inverso): la vita è odiosa. perché è “male” tutto ciò che si fa sotto il sole. Il v. 17 chiude la pericope precedente e apre al tempo stesso quella seguente. Il vero problema non è l'eredità, né per chi lascia, né per chi riceve, stolto o saggio che sia; il dramma è dover morire, e l'eredità ne è solo un corollario. La radice che più ricorre in questa pericope è ‘ml (dieci volte in cinque versetti), ovvero la fatica e il suo frutto. Abbiamo, inoltre, già notato il martellare del ritornello «anche questo è vanità». Possiamo allora concludere che il motivo del lascito e dell'erede non è il tema della pericope, ma soltanto un modo di esprimere il non-senso della fatica umana davanti alla morte. Osserviamo infine che, se in filigrana c'è ancora l'immagine di Salomone, non è difficile pensare che questo erede sia simbolicamente il figlio Roboamo, definito dal Siracide «pieno di stoltezza e vuoto di senno» (Sir 47,23, tr. Vaccari dal testo ebraico).

vv. 24-26. In 2,26 (non consideriamo ora il giudizio conclusivo) si combinano uno schema parallelo – evidenziato dai due “dare” di Dio – e uno schema chiastico, agli estremi del quale si trova «colui che è gradito a Dio», mentre in centro compare il «peccatore» (che letteralmente vuol dire «fallito»). Non è senza significato questo gioco tra lo schema parallelo e quello chiastico: infatti, sotto il velo di una sentenza tradizionale riguardo alla retribuzione temporale (schema parallelo), si rivela un'intuizione angosciata: il «peccatore-fallito» (centro del chiasmo) è Qoelet stesso. Ricordiamo come in 2,20-21 Qoelet era disperato a motivo di tutto ciò per cui aveva faticato nella sua vita, perché avrebbe dovuto darlo a un altro che non vi aveva faticato per nulla. Eppure il motivo della disperazione non erano i beni. La sua fatica si era qualificata per sapienza, competenza e perizia (cfr. 2,21), proprio quelle qualità che sembrano essere dono di Dio a chi gli è gradito (cfr. 2,26b: al posto della perizia c'è la gioia), e invece il dover faticare per poi dare tutto a un altro, lo identifica con il peccatore, o meglio, il “fallito”. La sentenza tradizionale non sarà forse verificata dalla realtà dei fatti, tuttavia ha focalizzato e portato a coscienza esplicita un'intuizione dura e grave. La conclusione è un giudizio di vanità, una solenne affermazione dell'assurdità tanto della condizione umana, quanto di una sapienza tradizionale che pretende di dirne la verità.

Interpretazione globale della sequenza 1,12-2,26Qoelet vuole riflettere con sapienza su ciò che si fa sotto il sole; questo lavoro che Dio ha dato agli uomini perché vi lavorino è male (1,12-13).

Qoelet riflette innanzitutto sugli atteggiamenti che gli servono da strumenti conoscitivi: la sapienza che aumenta si rivela un tormento crescente (1,16-18), l'alternativa (allegria, riso, idiozia; 2, 1-3), per quanto volta alla ricerca del bene per l'uomo, e di un bene da “fare”, si rivela assurda.

Qoelet esplora dunque tutte le potenzialità del fare umano, espresse al massimo grado per concluderne l'assurdità e il tormento (2, 4-11).

Egli esamina ancora i diversi atteggiamenti che forse possono dare senso alla produzione dei beni, ma constata che la differenza significativa tra saggezza e idiozia è eliminata dalla morte (2,12-16). Ne conclude che l'agire umano, il fare che si fa sotto il sole, è male per lui, poiché tutto è assurdo e un tormento inutile (2,17).

Qoelet riprende a riflettere sui beni che aveva prodotto e sul fatto che, morendo, dovrà lasciarli a un successore che non li merita (2,18-21), il che è assurdo (2,19.21), come assurda è la condizione umana nel suo insieme (2,22-23).

Il lavoro umano, che in 1,13 era «male» (ra‘), qui è «afflizione» (ka‘as). E se in 2,1.3 si cercava un bene per l'uomo negli atteggiamenti umani di maggiore o minore saggezza, ora si afferma che non c'è altro bene per l'uomo se non nella fruizione immediata delle cose (2,24).

Ma neppure questo bene, per quanto minimo, è a disposizione dell'uomo, dal momento che sembra dipendere da Dio, e Dio sembra assegnarlo a chi è “buono davanti a lui”. L'uomo dovrebbe dunque cercare di essere “buono davanti a Dio” per avere il “bene”? Ma cosa significa essere “buoni davanti a Dio”? Di fatto l'esperienza mostra che le categorie teologiche sono insufficienti a rendere ragione della realtà, poiché lo stesso individuo è per un verso “buono davanti a Dio” e per l'altro “peccatore”. Perciò anche quest'ultimo ragionamento è un'assurdità e un tormento inutile.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Flusso di realtà


#economia #bioeconomia #società #decrescita #sostenibilità #mondonuovo

Ogni nostra azione è immersa in un flusso di connessioni. Se riciclo oppure getto la carta del gelato per terra o compro cibo biologico invece che al supermercato, tutto questo influisce su di me e sul pianeta intero.

Come?

Tutte queste scelte determinano il modo in cui io partecipo alla continua creazione del mondo in cui vivo, e in cui vivranno i miei figli. La carta seguirà un percorso diverso, la qualità dell’acqua che berremo e dell’aria che respiriamo sarà diversa.

Questo alcuni non l’hanno ancora compreso, molti altri si.

La domanda che potremmo ora porci è: quanto la mia scelta influisce sulla salute mia e dell’ambiente in cui vivo? Cosa, realisticamente, comporterà la mia scelta? A questo nessuno, o pochissimi, sa dare una risposta.

Come potremmo scoprirlo? E’ necessaria un’analisi sistemica dell’astronave Terra, una mappa dei percorsi naturali ed artificiali del flusso di connessioni al quale ognuno di noi partecipa. E’ importante perché il mondo possa finalmente agire con chiara consapevolezza*.


* [add 2025] Questi concetti sono approfonditi dalla “nuova” scienza della bioeconomia. Qui il lavoro seminale di N. Georgescu Roegen Bioeconomia Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile con introduzione di Mauro Bonaiuti, fondatore dell'Associazione Nicholas Georgescu-Roegen.


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Flusso di realtà


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✍️...Riflessioni ✨

Negli anni ho notato, ho percepito la necessità, il prevalere dell'idea di dover comunque apparire, più che essere realmente se stessi! Apparire sempre perfetti, in una forma fisica da invidiare, ed io per esempio soprattutto negli ultimi mesi, non so dove sia finita la mia di forma, ci ho rinunciato, ma è un altro discorso! Quindi essere sempre sistemate, uscire magari truccata, non è il mio caso, imparando a curare e magari a nascondere difetti e debolezze, ed io ne ho tanti e adesso che ne ho una anch'io di cicatrice, dovrei nasconderla e magari sentirmi imbarazzata e diversa! Si forse agli inizi, ma adesso quando vedo la mia bella cicatrice, sorrido e ne vado fiera, perché mi ricorda quello che ho affrontato e chi sono diventata adesso, diventando il mio punto di forza! Così l'essere imperfetta e diversa non appaga, non attrae, bensì isola e allontana, così ogni tanto sia volontariamente, che non, mi ritrovo a dovermi scontrare con una realtà, che non capisco e che mi vede totalmente al di fuori della normalità e tagliata dalla quotidianità, per idee, per pensieri, atteggiamenti, interessi, passioni, limiti, debolezze e adesso un po' anche perché sono ufficialmente una malata oncologica, in teoria diversa, più fragile, si, forse! Ma alla fine sono semplicemente una nuova versione di me, che vive, mangia, scrive, si dispera, gioisce a volte piange, altre ride e si diverte come tutti, come prima, come una persona “normale” e sana, che dipinge per pura passione, che non naviga nell'oro, ma vive con dignità e a volte con piccoli sacrifici!

Ma poi mi rendo conto che l'essere perfetta, non mi appartiene, perché il mio scopo nella vita non lo e, ma essere libera, vera, insomma me stessa, nel bene, nel male, ovunque, in compagnia, in solitudine, senza dovermi preoccupare di compiacere o di apparire chi non sono! Così , negli anni e soprattutto negli ultimi mesi, mi sono resa conto che la verità a volte stanca, non viene apprezzata, anzi allontana, che il parlare e confrontarsi sulla malattia, a lungo andare può stancare e rendere un rapporto inutile da portare avanti e ridotto ad un bollettino medico!(E già mi sono sentita dire questo e apprezzo la sincerità, ma chissà quanti mi hanno messa all'angolo per questo motivo! Nonostante non sia una che ne ha parlato troppo, ma probabilmente quel po', ha infastidito e reso sterile, anche il semplice saluto.) E si ..perché a volte ero triste, confusa, fragile e con la necessità di avere qualcuno con cui parlare, scrivere, ricevere anche solo un saluto o una parola di incoraggiamento. La verità è che ogni giorno in cui mi alzo, attendo l'alba, anche se ho dormito poco e male, anche se mi sento persa, confusa e stanca, è proprio allora che divento più forte e consapevole, più propensa ad andare avanti con determinazione e coraggio.

Non posso aspettare di essere pronta, guarita, di nuovo in forma, per andare avanti, so che la serenità, una cosa bella, una parola, una visita, un abbraccio, arrivano proprio quando meno te lo aspetti, in silenzio e senza preavviso. La felicità, ma io la definisco più semplicemente, la serenità, arriva, prima o poi, dopo un momento difficile, di smarrimento, perché nonostante tutto si decide di lottare, andare avanti e di camminare anche su strade sconosciute, buie e impervie, per arrivare a completare quel puzzle, di cui adesso ancora manca qualche pezzo.

Ecco perché il mio voler bene alla luna, il mio trovare conforto e pace, in un tramonto, un' alba, un volo, dare importanza e priorità ai piccoli gesti, ogni giorno. una semplice parola detta sottovoce, un sorriso, anche un silenzio, una canzone...tenere fede ad una promessa fatta, o un obiettivo da raggiungere! Non posso sperare di cambiare, ma essere migliore si, continuare ad essere umile, accettandomi così come sono, ogni giorno sempre più forte e sicura e pronta sempre, a ricominciare!


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[escursioni]portatile ma con il ricavato [creano un tunnel sicuro tra due dispositivi dice] della spiegazione o esplora] cumuli santelle-area market le Ande fanno da sfondo poi] le Alpi le fanno in cartongesso i fiumi fuori] scala


noblogo.org/lucazanini/escursi…



dammi Signore

un collante di passione

-atto di fede

che snudi il giorno per

fissare nel blucielo

brandelli d'amore

pezzetti

di me .

Questo componimento trasuda un'intensità emotiva e una ricerca spirituale profonda. Le parole si intrecciano come in un atto di fede, quasi un dialogo intimo con il divino, in cui il “collante di passione” diventa quello strumento che unisce frammenti dell'essere, delle esperienze e delle emozioni. L'immagine del “blucielo” è particolarmente evocativa: il cielo si fa tela su cui fissare, con gesti quasi rituali, i “brandelli d'amore” e quei “pezzetti” che, insieme, rappresentano un'identità in continua costruzione e fatta di speranze.

Questa poesia invita a riflettere sulla nostra condizione di frammentati, alla ricerca di legami capaci di dare un senso compiuto alla vita. Invoca il divino non tanto come figura di autorità, ma come partner nell'atto creativo che dà forma e significato a ciò che altrimenti sembrerebbe sparsi e disordinato. È un inno alla passione, a quel desiderio di raccogliere e custodire le parti di sé che, pur essendo dispersive, insieme compongono il mosaico dell’identità.


noblogo.org/norise-3-letture-a…



Editors - Weight of your Love (2013)


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Abbandonando una strada per certi aspetti sperimentale e originale, gli Editors con questo quarto album ne imboccano una più facile e meno rischiosa. La band britannica all'attivo da una decade, più che arrampicarsi, preferiscono discendere in sonorità già conosciute e di facile presa, non a caso, i riferimenti musicali a gruppi come i Depeche Mode e gli U2 non mancano. Probabilmente il gruppo sta vivendo un periodo un po' confuso dove ancora non ha chiarito il suo percorso artistico, è da sperare solo che non imbocchi questa strada, potrebbe essere uno dei tanti modi per scomparire. “Io spero che mi sbaglio”... artesuono.blogspot.com/2014/10…


Ascolta: album.link/i/642890298



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Editors - Weight of your Love (2013)


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QOELET - Capitolo 1


TITOLO DEL LIBRO (1,1)

1Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme.

PROLOGO (1,2-11)

Tutto è vanità, vuoto immenso2Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità.3Quale guadagno viene all'uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?4Una generazione se ne va e un'altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa.5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere.8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo. Non si sazia l'occhio di guardare né l'orecchio è mai sazio di udire.9Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole.10C'è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è una novità”? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.

L’UOMO DI FRONTE AI SUOI LIMITI (1,12-6,12)

Il sapere, inutile fatica12Io, Qoèlet, fui re d'Israele a Gerusalemme. 13Mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Questa è un'occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino. 14Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento.15Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare.

16Pensavo e dicevo fra me: “Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza”. 17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. 18Infatti: molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore.

_________________Note

1,2 Vanità delle vanità: è una forma di superlativo, propria della lingua ebraica. Il termine ebraico corrispondente a “vanità” (hebel) indica il soffio, il vuoto, il nulla; il superlativo si potrebbe tradurre: “assoluta vanità”, “perfetto nulla”. Il termine “vanità” ricorre una trentina di volte in questo libro.

1,12-6,12 Il contenuto di questa prima ampia sezione prende in esame tutto ciò che si fa sotto il cielo (1,13). Nelle vesti del re Salomone, Qoèlet coglie i limiti di quanto la tradizione ha sempre considerato fonte della felicità dell’uomo.

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Approfondimenti


vv. 1-2. Il primo versetto sembra essere un titolo posticcio, applicato da uno scriba posteriore forse per catalogare l'opera tra gli scritti sacri. La formula «Parole di...» è molto antica; la si trova, per esempio, in Am 1,1; Ger 1,1; Pr 30,1; 31,1; Ne 1,1. Il v. 2 invece è con buona probabilità il titolo originale del libro, opera di Qoelet stesso. Infatti il versetto ha un ritmo chiaramente poetico, ed è quasi identico a 12,8 che conclude il libro (12,9-14 costituiscono un epilogo composto da altra mano); abbiamo cosi tra 1,2 e 12,8 una grande inclusione poetica che mette in evidenza il tema dell'opera («Vanità delle vanità», o, più esattamente, «completa assurdità» e contiene pure la firma dell'autore («dice Qoelet»).

«completa assurdità»L'espressione emblematica di Qoelet «vanità delle vanità» è talmente entrata nel nostro modo di parlare, che ci risulta difficile proporre e accogliere una traduzione più fedele all'originale ebraico. La parola hebel (che ricorre 38 volte in Qo e più o meno altrettante in tutto il resto dell'AT) ha una vasta gamma di significati, tanto che risulta essere piuttosto vaga. Come quasi tutti i termini ebraici, il primo senso è concreto: «alito», «vapore», insomma qualcosa che ha una consistenza minima, effimera. Il Targum del Salmo 90, al v. 9 parla di «vapore di fiato nell'inverno». E questo carattere di apparenza-inconsistenza che ha portato alla traduzione latina che ci è familiare, vanitas vanitatum, quasi ad affermare l'inganno e il non-senso, l'illusione e la delusione di ogni realtà. Poiché le nostre lingue non hanno parole che possano riflettere insieme la concretezza vaporosa e l'astratto non-senso dell'originale ebraico, siamo obbligati a operare una scelta, e tale scelta cade sull'accezione di «assurdità», precisamente in quanto implica l'incapacità della ragione umana di cogliere il senso di ciò che accade, il nesso di causalità tra i fenomeni, la corrispondenza tra la realtà e le aspettative che si intrecciano nel cuore dell'uomo. La frase ebraica habēl habālîm è un superlativo assoluto dello stesso tipo di «Cantico dei Cantici» (Ct 1,1), cioè «il cantico supremo», «malvagità delle malvagità» (Os 10,15), cioè «la più atroce malvagità»; possiamo pertanto rendere l'espressione ebraica con «completa assurdità». Il problema di Qoelet non è la vanitas, l'evanescenza di una vita su cui sempre incombe la morte, perché questo rientra nell'ordine della natura; in questione è piuttosto il “senso” di una vita che è fatica, una fatica di cui la morte evidenzia tutta l'inutilità. È questo “senso” che Qoelet non riesce a trovare, e perciò, tormentato, è costretto ad arrendersi all'assurdità. Tuttavia l'assurdità non si situa per Qoelet a livello della realtà – infatti mai si mette in dubbio la libertà e la sovranità di Dio, garanzia di un senso che noi chiameremmo “ontologico” – ma a livello della comprensione umana, che, limitata per volere del creatore, non riesce a cogliere il disegno che soggiace al fluire degli eventi (cfr. 3,11).

v. 3. La ricerca di Qoelet riguarda ciò che accade «sotto il sole»: si tratta della vita umana e del suo senso. L'essere umano è indicato con il termine ’adam, e dunque si sottolinea l'aspetto effimero, mortale, di quello che è stato tratto dalla terra (’adamah) e deve ritornare alla terra. È dunque propriamente una meditazione sapienziale sul muoversi di tutte le cose e più in particolare dell'uomo, un muoversi che è fatica, una fatica che dovrebbe produrre qualcosa. Ma che cosa produce, in realtà? Qual è il senso di tutto l'affannarsi della natura e dell'uomo? La domanda è retorica, poiché il versetto precedente ha già dato una risposta negativa globale e radicale; ora inizia la dimostrazione.

v. 4. Le generazioni si succedono su una terra che resta sempre uguale malgrado l'affannarsi degli uomini. Se nella tradizione la terra era una terra-madre, ora è una madre indifferente al nascere e al morire dei suoi figli, niente di più di un palcoscenico.

v. 5. Il sole non è più la divinità della giustizia, come nelle antiche religioni mesopotamiche e cananaiche, né tantomeno il dio supremo del faraone Akhenaton: non è che un servo solerte nel suo lavoro monotono.

v. 6. Il moto del vento che gira da sud a nord si incrocia con quello del sole, da est a ovest, e così tutta l'estensione della terra diviene luogo di movimento perenne. Ma c'è qualcosa di più di un moto incrociato: il voltarsi del vento da sud a nord è il primo passo di una danza che inizia a volteggiare fino a diventare vorticosa e affascinante.

v. 7. Tutti i torrenti corrono verso il mare, senza riempirlo mai. Appena vi giungono riprendono la loro corsa instancabile che dall'abisso li riporta per canali sotterranei alle polle sorgive: così pensavano gli antichi, che non conoscevano con precisione il meccanismo dell'evaporazione.

v. 8. Ci sono buone probabilità che il membro iniziale del versetto funga da perno per la parte 1,5-8, giocando sui due significati della radice dbr: nel senso di «cosa» indica gli elementi della natura dei vv. 5-7; nel senso di «parola» apre al mondo dell'uomo cui si accenna nel seguito del v. 8. Si passa così dal macrocosmo che ha la terra per palcoscenico al microcosmo che si recita nell'uomo. Il vento diviene il parlare, un inutile parlare al vento; il sole diventa l'occhio, mai sazio di percorrere una terra sempre uguale; il mare è ora l'orecchio, che sempre riceve ondate di suoni e rumori e non ne ha mai abbastanza.

v. 9. La visuale si allarga dall'uomo al teatro del suo agire, cioè alla storia: un monotono ripetersi di avvenimenti e di imprese. Nel mondo umano («sotto il sole») è impossibile qualunque novità. Se una qualche novità poteva lasciare aperta la possibilità di un “profitto” per il vivere dell'uomo, basta uno sguardo retrospettivo per spazzar via anche questa possibilità.

v. 10. Qoelet si contrappone provocatoriamente alla tradizione profetica che annunciava una novità, una novità preparata da Dio (cfr. Is 43,19; Ger 31,22); l'esperienza non trova nessuna novità «sotto il sole», e sopra il sole, cioè nel mondo di Dio, non è dato all'uomo di spingere lo sguardo.

v. 11. Ritorna il succedersi delle generazioni, come al v. 4. L'indifferenza della terra al passare degli uomini diviene qui l'oblio della storia. Vedremo più avanti (2,16) che la solennità austera di questo preludio maschera in realtà il dramma lancinante dell'uomo davanti alla morte, quando prende coscienza che non resterà proprio nulla di lui, neppure il ricordo.

vv. 12-13. Notiamo che all'espressione del TM «applicare il cuore a ricercare» l'AT ha sempre applicato l'oggetto «Dio», «JHWH», «legge», «comandamenti» (Dt 4,29; Ger 29,13; Sal 69,33; 119,2; Esd 7,10; 1Cr 22,19; 2Cr 12,14; 15,12; 19,3; 22,9; 30,19; 31,21). Qoelet cambia l'oggetto di questa ricerca che lo coinvolge totalmente (il cuore è il luogo e il simbolo dell'interiorità, soprattutto in quanto intelligenza e volontà). Non è più JHwH, il Dio rivelatosi a Israele, che Qoelet cerca, ma «ciò che si fa sotto il cielo». Dio viene invece citato come il responsabile della fatica e del dolore umano, poiché l'uomo non può rinunciare a cercare un senso al suo agire, anche se tale ricerca, radicata nella condizione umana e nella volontà creatrice divina, è fallimentare quanto l'agire stesso.

v. 14. Il parallelismo tra il v. 13 e il v. 14 lascia ambiguo il referente di «un'occupazione penosa»: può essere tanto il conoscere quanto il fare, e d'altra parte nel mondo semitico lo scopo della sapienza e sempre essenzialmente pratico.

v. 15. La struttura simmetrica e il ritmo identico dei due stichi fanno pensare a un proverbio che ha la funzione di amplificare e spiegare il fallimento del fare/conoscere ribadendo, in posizione finale, l'impotenza umana («non si può»). Il versetto diventa più esplicito se si considera la somiglianza di 1,15 con 7,13, «Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?», dove i soggetti sono Dio, che fa qualcosa curvo, e l'uomo, che non lo può raddrizzare.

vv. 16-18. La parte 1, 16-18 ruota intorno al v. 17, che oppone la coppia sapienza-scienza alla coppia stoltezza-follia; abbiamo così un binomio di totalità (si citano gli estremi per riferirsi a tutta la gamma compresa tra essi) che sottolinea la massima estensione dell'impegno conoscitivo. Dal parallelismo tra il v. 16 e il v. 18 si ricava che quanto più sapere si accumula, tanto più se ne vede il limite e l'illusorietà. È nell'eccesso che si manifesta l'assurdità latente di ogni realtà umana, poiché l'uomo è abituato a motivare l'inadeguatezza di ciò che vive con la brevità o la pochezza delle opportunità; si illude che, se ne avesse di più (non importa di che cosa), allora la sua sarebbe vita vera e piena. Bisogna sperimentare l'eccesso per capire che questo non è vero. Notiamo che in tutti gli altri giudizi della pericope ricorre il termine hebel, o, meglio, «vanità», «assurdità», mentre qui si trova solamente l'espressione più rara «inseguire il vento», cioè «un tormento inutile»: di tutto si può affermare l'assurdità, tranne della saggezza, poiché essa è lo strumento conoscitivo, e come tale non può smentire se stesso; se ne può tuttavia dichiarare l'assillo, l'angoscia, come sarà confermato da 3,11: comprendere è per l'uomo un'esigenza tanto irrinunciabile quanto fallimentare, a motivo della sua strutturale limitatezza di creatura.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di informazioni dell'UE


Il Corso CEPOL Train-the-Trainer 54/2025/ONS sugli sstrumenti per lo scambio di informazioni dell'UE si è svolto recentemente a Roma; l'attività è stata ospitata dalla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, che è l'Unità Nazionale Italiana CEPOL.

Il corso, dal portfolio del Centro di conoscenza CEPOL sulla cooperazione tra le forze dell'ordine (CEPOL CKC), sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità, è stato incentrato sul dotare i professionisti della formazione delle forze dell'ordine degli strumenti necessari per progettare e svolgere la formazione nazionale, trasmettere conoscenze e sviluppare competenze degli utenti finali confrontati con lo scambio di informazioni e l'uso dei rispettivi strumenti e strumenti dell'UE. In totale, 24 partecipanti provenienti da 15 Stati membri dell'UE e 1 paese associato sono stati formati da esperti della Commissione europea, Polonia, Europol, eu-LISA e CEPOL.

Il corso è iniziato con un'intera giornata di sessioni che hanno riguardato gli strumenti, gli strumenti e i meccanismi per lo scambio di informazioni tra le forze dell'ordine disponibili a livello europeo. Comprendeva inoltre un corso di aggiornamento sulla base giuridica per la cooperazione nell'ambito della componente di scambio di informazioni, compreso il ruolo delle agenzie GAI, la qualità e la protezione dei dati e la tutela dei diritti fondamentali. Nei giorni successivi, il programma di attività si è arricchito di conferenze e numerose esercitazioni pratiche relative alle metodologie di progettazione dei prodotti formativi in conformità con principi chiave, approcci e un processo che è alla base di un'efficace progettazione ed erogazione della formazione.

#CEPOL è l'Agenzia dell'Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto, è un'agenzia dell'UE istituita nel 2005 1 per offrire corsi di formazione alle forze di polizia e altri funzionari delle autorità di contrasto. La sua missione è migliorare la sicurezza dell'UE attraverso attività di formazione e condivisione delle conoscenze. Il CEPOL CKC (Centro di conoscenza sulla cooperazione tra le forze dell'ordine, sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità) riunisce esperti degli Stati membri e degli organismi competenti dell'UE per progettare il portafoglio di formazione di CEPOL in questo settore specifico. Ciò include il curriculum per ciascuna attività di apprendimento, i risultati dell'apprendimento, una descrizione dei gruppi target nonché il profilo dei formatori che svolgono le attività. Il CEPOL Knowledge Center (CKC) fornisce inoltre consulenza sui risultati della ricerca scientifica e su particolari approcci metodologici per ciascuna attività di formazione. Il portafoglio di formazione è pluriennale e viene rivisto su base annuale per rispondere alle minacce emergenti e ai nuovi sviluppi a livello strategico e operativo e per soddisfare le esigenze di formazione in evoluzione.


noblogo.org/cooperazione-inter…


A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di...


A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di informazioni dell'UE


Il Corso CEPOL Train-the-Trainer 54/2025/ONS sugli sstrumenti per lo scambio di informazioni dell'UE si è svolto recentemente a Roma; l'attività è stata ospitata dalla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, che è l'Unità Nazionale Italiana CEPOL.

Il corso, dal portfolio del Centro di conoscenza CEPOL sulla cooperazione tra le forze dell'ordine (CEPOL CKC), sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità, è stato incentrato sul dotare i professionisti della formazione delle forze dell'ordine degli strumenti necessari per progettare e svolgere la formazione nazionale, trasmettere conoscenze e sviluppare competenze degli utenti finali confrontati con lo scambio di informazioni e l'uso dei rispettivi strumenti e strumenti dell'UE. In totale, 24 partecipanti provenienti da 15 Stati membri dell'UE e 1 paese associato sono stati formati da esperti della Commissione europea, Polonia, Europol, eu-LISA e CEPOL.

Il corso è iniziato con un'intera giornata di sessioni che hanno riguardato gli strumenti, gli strumenti e i meccanismi per lo scambio di informazioni tra le forze dell'ordine disponibili a livello europeo. Comprendeva inoltre un corso di aggiornamento sulla base giuridica per la cooperazione nell'ambito della componente di scambio di informazioni, compreso il ruolo delle agenzie GAI, la qualità e la protezione dei dati e la tutela dei diritti fondamentali. Nei giorni successivi, il programma di attività si è arricchito di conferenze e numerose esercitazioni pratiche relative alle metodologie di progettazione dei prodotti formativi in conformità con principi chiave, approcci e un processo che è alla base di un'efficace progettazione ed erogazione della formazione.

#CEPOL è l'Agenzia dell'Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto, è un'agenzia dell'UE istituita nel 2005 1 per offrire corsi di formazione alle forze di polizia e altri funzionari delle autorità di contrasto. La sua missione è migliorare la sicurezza dell'UE attraverso attività di formazione e condivisione delle conoscenze. Il CEPOL CKC (Centro di conoscenza sulla cooperazione tra le forze dell'ordine, sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità) riunisce esperti degli Stati membri e degli organismi competenti dell'UE per progettare il portafoglio di formazione di CEPOL in questo settore specifico. Ciò include il curriculum per ciascuna attività di apprendimento, i risultati dell'apprendimento, una descrizione dei gruppi target nonché il profilo dei formatori che svolgono le attività. Il CEPOL Knowledge Center (CKC) fornisce inoltre consulenza sui risultati della ricerca scientifica e su particolari approcci metodologici per ciascuna attività di formazione. Il portafoglio di formazione è pluriennale e viene rivisto su base annuale per rispondere alle minacce emergenti e ai nuovi sviluppi a livello strategico e operativo e per soddisfare le esigenze di formazione in evoluzione.


Segui il blog e interagisci con i suoi post nel fediverso. Scopri dove trovarci:l.devol.it/@CoopIntdiPoliziaTutti i contenuti sono CC BY-NC-SA (creativecommons.org/licenses/b…)Le immagini se non diversamente indicato sono di pubblico dominio.



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✍️I miei Numeri... Anche oggi il numero 4 accompagna ricordi, attese, speranze, sogni e non sono numeri da giocare, sono da ricordare, forse dimenticare! Ma io non dimentico, anche quando vorrei, ogni numero porta con sé un' immagine, un pensiero, un ricordo, una persona, un gesto.... consapevolezza... Poi..niente un numero come tanti, un giorno come altri, però vissuto, atteso, affrontato e poi lasciato, come se stessi sfogliando un libro, ogni giorno una pagina nuova, diversa da vivere, da colorare, da riempire con emozioni, immagini, amici, piccoli attimi vissuti, che rendono ogni pagina speciale, unica e diversa da quella di ieri e probabilmente anche da quella che leggeremo o scriveremo domani! Così anche oggi aspetto, non sono in ansia, sono ferma, è come se avessi rallentato anche me stessa, i miei pensieri, timori e paure, di ritornare in quel luogo dove ho affrontato con coraggio e forza, una fase di questo mio percorso! La più difficile, pesante, ma che ho affrontato meglio, il dopo non è stato facile, anzi, è il dopo che bisogna imparare ad accettare, affrontare, è quel dopo che spesso fa paura, isola, allontana, si cambia inevitabilmente, ci si adatta ad essere diversi, a volte fragili e indifesi, a volte spenti e stanchi.... Poi basta semplicemente guardare a quello che ho già affrontato, ed è li che nasce e si moltiplica il coraggio, guardo mio figlio e mi impongo di lottare , di sperare, di amare, perché la mia missione serve non solo a me, ma anche e soprattutto a lui,! E allora aspetto e so che ci vorrà tempo, per sentire quelle parole, che la mia mente vuol fare allontanare... così aspetto di voltare anche questa pagina...IMG-20250804-080008.jpg


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Counting Crows — Underwater Sunshine (2012)


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A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”... silvanobottaro.it/archives/430…


Ascolta: album.link/i/1169968863



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Counting Crows — Underwater Sunshine (2012)


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A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”... silvanobottaro.it/archives/430…


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PROVERBI - Capitolo 31


Insegnamenti di Lemuèl1Parole di Lemuèl, re di Massa, che apprese da sua madre.2Che mai, figlio mio! Che mai, figlio del mio grembo! Che mai, figlio dei miei voti!3Non concedere alle donne il tuo vigore, né i tuoi fianchi a quelle che corrompono i re.4Non conviene ai re, Lemuèl, non conviene ai re bere il vino, né ai prìncipi desiderare bevande inebrianti,5per paura che, bevendo, dimentichino ciò che hanno decretato e tradiscano il diritto di tutti gli infelici.6Date bevande inebrianti a chi si sente venir meno e il vino a chi ha l'amarezza nel cuore:7beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene.8Apri la bocca in favore del muto, in difesa di tutti gli sventurati.9Apri la bocca e giudica con equità, rendi giustizia all'infelice e al povero.

ELOGIO DELLA DONNA VIRTUOSA (31,10-31)

È la felicità del maritoAlef 10Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore.Bet 11In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto.Ghimel 12Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.

È intraprendente e laboriosaDalet 13Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.He 14È simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste.Vau 15Si alza quando è ancora notte, distribuisce il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche.Zain 16Pensa a un campo e lo acquista e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.Het 17Si cinge forte i fianchi e rafforza le sue braccia.Tet 18È soddisfatta, perché i suoi affari vanno bene; neppure di notte si spegne la sua lampada.Iod 19Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso.Caf 20Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero.Lamed 21Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi familiari hanno doppio vestito.Mem 22Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.Nun 23Suo marito è stimato alle porte della città, quando siede in giudizio con gli anziani del luogo.Samec 24Confeziona tuniche e le vende e fornisce cinture al mercante.Ain 25Forza e decoro sono il suo vestito e fiduciosa va incontro all'avvenire.Pe 26Apre la bocca con saggezza e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà.Sade 27Sorveglia l'andamento della sua casa e non mangia il pane della pigrizia.

È lodata dai figliKof 28Sorgono i suoi figli e ne esaltano le doti, suo marito ne tesse l'elogio:Res 29“Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte!“.Sin 30Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.Tau 31Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

_________________Note

31,1-9 Lemuèl: questo sapiente che ora entra in scena, egli pure sconosciuto come Agur, probabilmente era il capo autorevole di un clan. L’insegnamento che trasmette è quello che ha ricevuto dalla madre, mentre nei capitoli precedenti, come in tutta la tradizione sapienziale, era il padre ad avere la prerogativa dell’insegnamento.

31,10-31 Il ritratto della donna ideale, come era vista nell’antica società patriarcale, suggella il libro. La forma della composizione è quella “acrostica”, ossia del poemetto alfabetico: ciascuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, nella loro successione, apre un versetto. Il discepolo, ora che ha terminato la propria formazione alla scuola della sapienza e si prepara alla vita, cerca di scoprire e trovare la sua donna ideale.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


vv. 1-9. Una tipica istruzione rivolta al re (sull'esempio di quelle note dall'Egitto e dalla Mesopotamia). Il fatto insolito è che a impartire tale istruzione sia una donna, la madre del re. Il TM chiama Lemuel «re di Massa» e ciò induce a ritenere che ci troviamo di fronte a un testo sapienziale non israelitico (forse edomitico) che i saggi hanno accolto. Due pericoli vede in agguato la madre per il figlio re: le donne, che come nel caso di Salomone (cfr. 1Re 11,14; Sir 47,19-20), possono determinare la sua politica, se lascia campo agli intrighi covati nell'harem; il vino, che non consente al re di assolvere ai suoi doveri, in particolare quello di amministrare la giustizia.

vv. 10-31. Si tratta di un poema alfabetico, in cui ogni versetto inizia con una lettera diversa e che perciò si compone di 22 versetti, quante sono appunto le lettere dell'alfabeto ebraico (per questa forma letteraria cfr. Sal 119; Lam 1; Sir 51,13-20). La struttura è già formalmente espressa dall'acrostico, ma ciò potrebbe dare un'impressione di artificiosità. Un'osservazione più attenta permette di mettere in rilievo ulteriori aspetti formali che illustrano il movimento del testo. Anzitutto si può rilevare che i due versetti conclusivi (vv. 30-31) non hanno la funzione descrittiva dei precedenti e perciò rappresentano una coda generalizzante. Il corpo del poema è dunque costituito dai vv. 10-29 in cui possiamo evincere indizi di un procedimento di inclusione tra i vv. 10-11 e i vv. 28-29, nella ripresa del vocaboli ḥayil (tradotto dapprima con «forte», v. 10, e poi con «cose eccellenti», v. 29) e ba‘ᵉlāh («suo marito»). Al centro del poema è riconoscibile nei vv. 19-20 una disposizione chiastica, sulla base dei vocaboli yādêāh šillᵉḥàh («stende la sua mano», vv. 19a.20b) e kapêâh/kapāh («dita... mani», vv. 19b.20a) e questa piccola unità funge da perno a tutto il carme. Ne risulta perciò la seguente divisione: a) Unità con nove versetti (vv. 10-18). b) Chiasmo (vv. 19-20). c) Unità con nove versetti (vv. 21-29). d) Conclusione (vv. 30-31). Tra le unità a) e c) troviamo inoltre numerose corrispondenze tematiche: l'incomparabilità della donna (vv. 10.29), il vantaggio per suo marito (vv. 11.23), le sue qualità morali (vv. 12.26), la sua abilità nei lavori manuali (v. 13.22.24), in quelli domestici (vv. 15.27) e nel commercio (vv. 16.24). Degna di nota è infine la ricorrenza degli stessi vocaboli in queste due sezioni. La breve sezione centrale mette in rilievo due qualità essenziali della donna: la sua laboriosità e la sua generosità verso i poveri e queste si collocano entrambe a livello del «fare». Inoltre il poema si concentra quasi del tutto su ciò che fa la donna: il verbo “fare” e il sostantivo “azione” ricorrono nei vv. 13.24.29.31. Il poeta non canta la bellezza della donna, ma loda le sue mani (vv. 19.20.31), il palmo (vv. 13.16.19.20), le braccia (v. 17). La sua attività è instancabile: fila (v. 19) e vende ciò che ha filato (v. 24), acquista provviste (v. 14.16) e pianta vigneti (v. 16), si alza presto (v. 15) e si corica tardi (v. 18). Perché il libro termina con questo canto di lode alla donna eccellente? Si deve osservare in particolare un dato che immediatamente risalta: il rilievo dato al femminile in Pr 1-9 e in tutto il c. 31. E ciò induce a ritenere che questi testi non siano stati posti casualmente all'inizio e alla fine del libro. Osserviamo i collegamenti stilistici e tematici tra le due parti:

1) L'insegnamento della madre (Pr 1,8) ricompare tematicamente in 31,1-9, presentato appunto come istruzione della madre di Lemuel, e pure in 31, 26, dove si parla della saggezza della donna.

2) La donna perfetta è reputata in 31,10 «ben superiore alle perle», come la sapienza in 3,15 e 8,11.

3) A colui che «trova» la donna perfetta (31,11) o la sapienza (3,13; 8,17) non mancherà il profitto (31,11; 3,14; 8,21).

4) Anche un sentimento e un legame profondi nei confronti di queste figure femminili trovano espressione nei testi: alla sapienza ci si stringe (3,18), la si stima e la si abbraccia (4,8) e a lei è diretto l'amore (4,6; 8,17.21); così è della donna: di essa ci si invaghisce (5,19) e in lei si confida (31,11).

5) Come la sapienza invita le persone alla sicurezza, alla felicità e al benessere della sua casa (8,34; 9,1-6), anche l'attività della donna perfetta assicura non solo il benessere e la pace della sua famiglia (31,21), ma estende tale abbondanza anche al povero e al bisognoso (31,20).

6) Come la sapienza proclama il suo messaggio alle porte della città (1,21; 8,3), così le opere della donna perfetta la lodano in quell'ambito (31,31).

Vi è dunque una serie consistente di indizi che provano come le figure femminili di Pr 1-9 e 31 siano il frutto di una intenzionale opera redazionale del libro, per creare una specie di cornice attorno alla collezione dei detti. Aver attorniato le collezioni di Pr con i poemi sulla sapienza personificata e sulla donna di valore attua un riorientamento delle stesse: la loro funzione non è più di essere un manuale scolastico per studenti, perché sono trasformate in un testo che appartiene a una letteratura religiosa. Perché questo espediente letterario della personificazione? Si possono individuare alcune funzioni che essa assolve: anzitutto attira l'attenzione sull'unità del soggetto trattato, serve cioè a unificare i differenti tipi di sapienza presenti nel testo; permette di risalire dalla molteplicità delle esperienze umane al loro significato universale (dal singolo al tipico); unisce a un soggetto puramente letterario un attributo metaforico (in questo caso la donna). Per l'editore finale del libro il referente della personificazione è dunque la collezione dei Proverbi. Non va infine dimenticato che la sapienza personificata non svolge solo una funzione letteraria: come mostrano soprattutto i poemi sulla sapienza, essa avanza anche una pretesa religiosa, poiché afferma che la sua opera è rafforzata e autenticata da JHWH. In tal senso in essa si può altresì riconoscere un simbolo religioso autorevole, la cui funzione è di mediare tra l'esperienza vissuta e una visione religiosa particolare del mondo. Nella Giudea postesilica, in un contesto culturale frammentato, in cui ormai la voce dei grandi profeti non risuona più, la voce della sapienza si propone ora come quella che avvicina Dio agli uomini e che permette loro di integrarsi armoniosamente nell'ordine che Dio ha instaurato nel creato. Alle molteplici sfide che l'Israele postesilico ha di fronte (i culti pagani e le loro filosofie, così come il rischio dell'assimilazione etnica), i saggi oppongono un sapere che viene dall'alto e che attira a sé gli uomini per il suo fascino: la priorità non va quindi all'esecuzione del comandamento, ma all'assunzione responsabile di un progetto esistenziale, che nasce dall'ascolto di una parola che si impone per la sua capacità di rendere ragione dell'esperienza umana. Il discepolo del saggio non è un puro esecutore, ma uno che è invitato a diventare come il maestro, capace cioè di rendere ragione dell'esperienza. Perciò la sapienza non è soltanto la regina, ma l'amante, la compagna della vita, colei che si sceglie per amore, perché accanto a lei si può godere della benedizione che Dio riversa sull'umanità.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Sole


Predicazione estiva sul sole e su Dio sole di giustizia

castopod.it/@jhansen/episodes/…
Siamo in estate. Come ogni anno, in questa stagione si parla tantissimo del tempo. C’è chi dice che fa troppo caldo. Altri vanno in vacanza e trovano solo pioggia. Qualcuno si lamenta per il troppo sole, altri per il troppo poco sole. E c’è anche chi si dispera perché non riesce ad abbronzarsi.

Poi c’è chi ha paura per il buco dell’ozono, che fa passare i raggi più pericolosi del sole… e intanto, nelle nostre città, l’ozono a volte è fin troppo, e ci fa mancare il respiro.

Insomma, in estate, tutti parlano del tempo. E, inevitabilmente, tutti parlano del sole.

Il sole è vita. Senza di lui non ci sarebbe nulla: niente piante, niente calore, niente ossigeno, niente vita. Per questo, fin dall’antichità, il sole è diventato un simbolo forte di Dio, del suo splendore, della sua forza, della sua luce. Le antiche civiltà lo avevano capito. Gli Egizi lo adoravano come Aton. I Greci lo chiamavano Helios. Gli Aztechi e gli Inca lo onoravano come una divinità. I Romani gli dedicavano feste. E la data del nostro Natale, il 25 dicembre, non cade a caso: era la festa del solstizio d’inverno, quando il sole ricomincia piano piano a vincere il buio. Anche i giapponesi lo hanno messo sulla loro bandiera: un sole rosso che sorge.

Il sole ha lasciato tracce anche nella Bibbia. E anche nella nostra fede. Per me, il sole è un’immagine concreta della grazia di Dio, che ci arriva con una generosità… sovrabbondante.

Il sole ci ricorda anche quanto siamo piccoli. Pensiamo un attimo a cosa abbiamo sopra le nostre teste:

Il sole esiste da 4 miliardi e mezzo di anni. E non è nemmeno a fine corsa: è a metà della sua vita. Ha una temperatura che va da migliaia a milioni di gradi. È una stella gigantesca: più di 100 volte il diametro della Terra. La sua luce impiega circa 8 minuti a raggiungerci.

Dentro il sole, ogni secondo, avviene un’enorme reazione: quattro atomi di idrogeno si fondono in uno di elio, e da lì nasce un’energia immensa. Pensate: in un solo secondo, il sole emette tanta energia quanta ne produrremmo con 150 milioni di centrali elettriche. Ogni secondo!

Ma sapete quanto di tutta quell’energia ci arriva davvero? Appena mezzo milionesimo. Il resto si disperde nel cosmo. Eppure, è più che sufficiente per dare vita a tutto.

Questa si chiama sovrabbondanza. Il sole dà senza misura, senza trattenere nulla. Proprio come fa Dio nella sua grazia. Dio non ci dona il minimo indispensabile. No. Ci riempie, ci circonda, ci nutre con la sua bontà e bellezza.

Quando Gesù, nel sermone sul monte, parla dell’amore verso i nemici, dice: “Dio fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti.”

È la grazia sovrabbondante. Un dono che arriva a tutti anche a chi non se lo aspetta.

Dio ci dona la vita, il creato, la forza delle mani, il respiro e i pensieri. E allora, come facciamo col sole d’estate, esponiamoci alla sua grazia. Stiamo lì, davanti a lui. Lasciamo che il suo amore ci scaldi, come i raggi sulla pelle.

Senza il sole non c’è vita. Letteralmente. La nostra pelle, grazie al sole, produce serotonina, quella sostanza che ci aiuta a non cadere nella depressione. I raggi UVB ci permettono di produrre la vitamina D. E il nostro corpo riesce ad assorbire meglio l’ossigeno.

È come guardare il volto buono di Dio, come sentire la sua grazia sulla pelle. Il sole scioglie la tristezza. Scioglie i nostri dubbi sul nostro valore, sulle nostre colpe, sulle occasioni perse.

Come il sole, anche Dio si dona. Ma non si consuma. Anzi: si ritrova nel dono. In Cristo, Dio si è dato, completamente. E non si è svuotato. Si è rivelato.

Per tanto tempo abbiamo pensato che la Terra fosse il centro dell’universo. Poi abbiamo scoperto che non lo è. Nemmeno il sole è il centro. È solo una stella, tra miliardi. Una stella grande per noi… ma piccola nel cosmo. E questo ci fa capire quanto siamo piccoli anche noi.

Sì, possiamo inventare mille cose, ma senza il sole non possiamo fare nulla. Neanche il petrolio è altro che energia solare conservata da millenni. E quando il sole ha i suoi cambiamenti, ce ne accorgiamo. Ogni undici anni circa, si formano delle macchie solari. Da lì partono vere e proprie esplosioni di energia, che influenzano il clima, i satelliti, le comunicazioni… persino il nostro umore.

Non stupisce che i popoli antichi, davanti a tanta potenza, abbiano finito per divinizzare il sole. Quando l’uomo sente di appartenere a qualcosa di più grande, di misterioso, di vitale… cerca un dio.

Ma noi, che abbiamo conosciuto il Dio della Bibbia, sappiamo che è Dio ad aver creato il sole. Il sole ci parla della grandezza di Dio, ma non è Dio. È un segno, un riflesso.

E questo Dio ha voluto donarci tutto: la luce, la vita, e anche suo Figlio, perché potessimo conoscere la sua luce più da vicino. Eppure, il sole ha anche un lato oscuro.

Nelle giornate torride, quando la temperatura supera i 40 gradi, soprattutto chi ha problemi di cuore ne soffre. Troppo sole secca, brucia, crea deserti. Conosciamo anche la questione del buco dell’ozono. Solo quello strato, sottile ma prezioso, ci protegge dalla parte distruttiva del sole.

E poi c’è una cosa che tutti sappiamo: non si può guardare il sole a occhio nudo. È troppo forte. Ci brucerebbe gli occhi.

Anche Dio ha, per così dire, un lato “oscuro. Non nel senso che sia cattivo, ma nel senso che è troppo grande per noi. La Bibbia lo chiama: santità. È un fuoco che consuma. Nessuno può avvicinarsi a Dio e restare com’era. Nella Bibbia, nel tempio di Gerusalemme, solo il sommo sacerdote poteva entrare nel luogo più sacro, e solo una volta all’anno.

Noi esseri umani, con i nostri limiti, non possiamo avvicinarci a Dio da soli. Ma è Dio che ha scelto di avvicinarsi a noi.

E lo ha fatto in Gesù di Nazaret.

Lui è la luce che brilla nelle tenebre. Ma non ci brucia. Non ci acceca. Non ci consuma. La sua luce illumina, riscalda, ama. È luce per tutti. È luce che vuole essere riflessa.

Gesù ci dice: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio.”

Questo è il nostro compito: riflettere la luce del sole, portarla a chi vive nel freddo, nel buio, nel dubbio. Portarla a chi pensa che Dio non esista più. Come disse il re Salomone: “Il Signore ha dichiarato che abiterà nell’oscurità.” Anche noi, a volte, ci sentiamo così. Dentro a giornate buie. In momenti in cui Dio sembra lontano, silenzioso, irraggiungibile. E allora nasce la paura. Ci manca la fiducia.

Da bambino, quando pioveva, dicevo: “Oggi non c’è il sole”. Ma il sole c’è sempre. Anche dietro le nuvole. Anche quando non lo vediamo. La sua luce passa comunque, illumina comunque.

E così è Dio: c’è sempre, anche quando non lo sentiamo. Allora portiamo questa luce. Portiamola a chi vive nel buio. A chi ha perso speranza. A chi ha smesso di credere.

Il sole è un’immagine bellissima per Dio. Ci mostra la sua grandezza, la sua luce, il suo calore. E ci ricorda che anche noi, se ci esponiamo alla sua grazia, possiamo diventare portatori della sua luce.


noblogo.org/jens/sole



[vortex]diversi plessi luce&gas] lo stesso con effetto l'ottocento i] claustri tonnare ottani semilavorati verde bottiglia] [benzopirine mai distillate doppia a doppia voce treccani il Balestra con] attenzione o punto levigatissimo in] aprile incide con licenza nei] modi nelle dodici battute dei laboratori un caso di] abbandono di reperti a] regime sono

[non sono il capitano il tanto tannico agognato


noblogo.org/lucazanini/vortex-…



Super-Organismi Verso una Nuova Alleanza


Riporto l'#estratto di un libro che mi ha illuminato

formicaio

Nel corso della storia delle civiltà umane, i grandi S.O. sociali hanno utilizzato varie forme di condizionamento per costringere la vita psichica degli individui all’interno di particolari regioni del loro spazio mentale in modo da poterli meglio controllare (e ottenere quella che lo psicologo Charles Tart chiama ‘trance consensuale’ [34] e che F.Varela e H.Maturana – i già citati teorici dell’autopoiesi – chiamano ‘coordinazione comportamentale consensuale’ [35]). Il più semplice, ovvio e primitivo meccanismo di controllo sociale è certamente il metodo coercitivo basato sulla forza diretta, il quale fa leva sui bisogni di basso livello dell’essere umano, quali l’istinto di sopravvivenza e la tendenza ad evitare dolore e sofferenza (D.C. filogenetici), attaccando fisicamente quei membri che si comportano in modo deviante, ferendoli, torturandoli o uccidendoli. Questo tipo di controllo fondato su pene e punizioni, se pur probabilmente tra i più usati nel corso dell’intera storia umana (e in gran parte ancora oggi), è tuttavia molto costoso, in quanto richiede che alcuni membri del gruppo sociale dedichino il proprio tempo a vigilare sugli altri e devono essere mantenute a spese della comunità. Le culture più evolute hanno quindi sviluppato dei meccanismi di controllo e condizionamento più raffinati, basati essenzialmente sul naturale bisogno di accettazione degli individui (e quindi sull’attivazione di D.C. di tipo emozionale), riducendo così la richiesta di risorse umane e fisiche (polizie e penitenziari). Uno di questi meccanismi è utilizzato nelle cosiddette ‘culture della vergogna’, in cui i bambini vengono educati e condizionati a sentirsi davvero male quando l’armonia del gruppo sociale a cui appartengono viene infranta: se la gente sapesse che avete fatto una cosa proibita, provereste una grande vergogna, gettereste discredito su tutti gli altri (la vostra famiglia, la vostra ditta, etc.) oltre che su voi stessi e l’armonia della comunità ne sarebbe distrutta. Non solo una speciale classe di poliziotti, bensì chiunque vi vedesse compiere quell’azione proibita applicherebbe la propria censura: e voi, per paura di essere messi alla gogna evitereste di fare ciò che è proibito. Avendo la sicurezza che nessuno verrà a saperlo, tuttavia, la tentazione di fare qualcosa di proibito rimane grande. Quindi, facendo appello all’ulteriore bisogno di autostima dell’individuo, le cosiddette ‘culture della colpa’ sono andate oltre nello sviluppo dei meccanismi di controllo sociale: attraverso l’attivazione di opportuni domini cognitivi, soprattutto di tipo emozionale ma anche logico-simbolico (che giocano il ruolo del ‘Super-Ego’ freudiano), queste culture sono in grado di punirvi anche solo per il fatto che state semplicemente pensando di trasgredire una qualche norma, che state ‘peccando in cuor vostro’, e vi fanno sentire male per aver giusto contemplato l’idea di compiere l’atto in questione: se poi fate davvero qualcosa che è proibito, il super-ego continuerà a punirvi con i sensi di colpa anche se nessuno saprà mai che siete stati voi. In queste culture le Religioni e la Chiese, arruolate dal S.O. sociale, prendono spesso il posto del Legislatore e delle forze di polizia nell’operare il condizionamento e esercitare, attraverso il loro specifico patrimonio memetico, il controllo sulle menti, e quindi sulle azioni, degli individui coinvolti: a quale altro scopo servirebbero memi quali i ‘Comandamenti’ o il ‘Peccato originale’ e strumenti quali la confessione o la scomunica? Questi tre tipi di condizionamento si basano evidentemente sulla creazione di un ‘feedback negativo’, nel senso che mirano ad inibire negli individui eventuali tendenze comportamentali devianti o con l’uso della forza e della punizione, o anche seguendo la più ortodossa via dell’educazione (familiare, scolastica, religiosa). Altre forme di condizionamento – come vedremo meglio in seguito – mirano invece ad alimentare l’orgoglio e la sete di fama, ricchezza e potere individuali, realizzando dei ‘feed-back positivi’ mediante un ponderato sistema di premi e ricompense, vincite e lotterie, elogi e promozioni, medaglie e riconoscimenti. Insomma, attraverso – sostanzialmente – le due principali forme di condizionamento note agli psicologi, quello ‘operante’ (che induce l’obbedienza infliggendo o minacciando sanzioni, oppure offrendo incentivi e ricompense) e quello ‘classico’ di tipo pavloviano (che si serve dell’educazione e sfrutta i sensi di colpa e di vergogna), i grandi super-organismi sociali hanno progressivamente perfezionato la loro abilità nel tenere gli individui mentalmente confinati all’interno della regione mentale circoscritta dalla loro cultura di appartenenza (i cui limiti sono stabiliti dalla condivisione di un vasto patrimonio memetico), mantenendoli quindi in quello stato collettivo di ‘trance consensuale’ necessario per controllarne il comportamento. Nel corso del ventesimo secolo, peraltro, con la rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa (i cosiddetti ‘media’: libri, riviste, telefoni, radio, televisione e oggi, soprattutto, computer collegati in reti informatiche globali su scala planetaria), un nuovo, sottile e potente meccanismo di condizionamento è entrato in possesso dei super-organismi: la persuasione occulta. Oggi infatti qualsiasi tipo di informazione, cioè qualsiasi meme o gruppo di memi, che sia prodotto dalla mente di un singolo individuo o da un qualsiasi super-organismo, può raggiungere e ‘contagiare’, praticamente in tempo reale, un enorme numero di individui: così, ad esempio, un’intera nazione può essere rapidamente ‘invasa’ dai memi di una nuova moda o di un nuovo spot pubblicitario di tendenza, dal meme rappresentato dal discorso di fine anno del presidente della repubblica, dalle parole del Papa all’Angelus, o dall’immagine di un goal decisivo segnato in una finale dei mondiali di calcio, trasmessa in diretta televisiva oppure ‘on line’ su Internet...

Da Super-Organismi – verso una nuova alleanza di A. Pluchino, pagg 43-44pluchino.it/blablabla.htm

#superorganismi #società #psicologia #memi #complessità #sistemica


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Prima del Big Bang


Quando mi trovo a fare, ogni tanto, serate di divulgazione scientifica, una delle domande più gettonate è sempre: cosa c’era prima del Big Bang?

Il Big Bang, traducibile in italiano come Grande Botto, è un termine che spesso usiamo per riferirci alla “nascita” del nostro Universo. Tecnicamente, il termine più corretto da usare sarebbe Teoria del Big Bang. Questo perché, sempre tecnicamente, l’universo non è iniziato né con un botto né tantomeno con un’esplosione. Tuttavia in passato (ma ancora oggi a volte) sia i libri scolastici sia grandi personaggi della comunicazione scientifica hanno perseverato più volte con il concetto di “esplosione” per descrivere come è iniziato l’universo.

Parliamo un attimo della teoria del Big Bang


Mettiamo in ordine alcuni fatti, allora. Oggi sappiamo che sicuramente l’Universo ha avuto un inizio, precisamente 13,79 miliardi di anni fa. Lo sappiamo grazie ai dati della radiazione cosmica di fondo raccolti dal satellite ESA Planck del 2018. Non starò oggi a parlare della radiazione cosmica di fondo, ma vi basta sapere che si tratta dell’evidenza scientifica numero uno della Teoria del Big Bang, di cui parlerò brevemente tra pochissimo.

Infatti, negli anni Venti del secolo scorso non si conoscevano molte cose sull’universo. Non si sapeva neanche se quella che oggi sappiamo essere la Galassia di Andromeda fosse davvero un’altra galassia oppure no. Però in quel periodo avvennero due cose fondamentali: da una parte Albert Einstein aveva messo a punto la teoria della Relatività, teoria che si poteva applicare a tutto l’universo in quanto capace di descrivere come funziona la gravità su distanze molto grandi; dall’altra parte, grazie allo sviluppo tecnologico, si è avuta la possibilità di avere strumenti molto precisi per misurare le distanze delle galassie (che, all’epoca, ancora non sapevamo fossero tali).

Alla fine, nel 1924, l’astronomo americano Edwin Hubble dimostrò che Andromeda era un’altra galassia e quindi l’Universo era fatto di tante galassie come la nostra; poi nel 1929, Hubble dimostrò che le galassie si allontanano da noi. Quest’ultimo fatto, apparentemente inspiegabile, trovava un quadro teorico proprio nella teoria di Einstein: le galassie si allontanano non perché si muovono loro, bensì perché è lo spazio in mezzo a espandersi.

Pazzesco. Eppure una teoria che sembra così assurda spiega perfettamente i dati di Hubble. Altre teorie non sono capaci di farlo.

Non solo: Georges Lemaitre, un prete belga con un PhD in astrofisica, formulò in quegli anni una teoria ulteriore: se l’Universo oggi si espande e le galassie si allontanano, allora vuol dire che in passato le galassie dovevano essere molto più vicine, quindi l’Universo doveva essere molto più denso di oggi…

Questa idea non fu accettata dalla comunità scientifica dell’epoca. Lo scienziato inglese Fred Hoyle per esempio non poteva accettare l’idea che in passato l’universo fosse una specie di “uovo primordiale” ultra-denso (come diceva Lemaitre) e quindi ipotizzò un’altra teoria: secondo Hoyle l’Universo non era più denso in passato e meno denso oggi, ma è sempre stato così come lo vediamo, con la stessa densità. Per bilanciare il calo di densità di galassie a causa dell’espansione, secondo Hoyle ogni tanto nell’Universo si forma (dal nulla!) un po’ di materia. Secondo questa teoria, l’Universo vive in un perenne Stato Stazionario.

Pazzesca teoria anche questa, vero? Eppure andò per la maggiore.

Da dove nasce il nome “Big Bang”?


Addirittura, pensate, Hoyle il 28 marzo 1948 alle 18:30 ora di Londra rilasciò un’intervista alla BBC Radio dove stigmatizzò fortemente la teoria di Lemaitre e inventò, per l’occasione, anche un nomignolo per la teoria del prete belga. Disse Hoyle: “earlier theories… were based on the hypothesis that all the matter in the universe was created in one big bang at a particular time in the remote past.” che tradotto suona così “le precedenti teorie [Hoyle già dava per scontata che la sua teoria fosse giusta – nda] erano basate sull’ipotesi che la materia nell’Universo fosse creata in un grande botto in un particolare istante del remoto passato”.

Ecco! Il nome teoria del Big Bang quindi non viene dalle persone che hanno lavorato su questa teoria, ma proviene dal suo principale detrattore.

Alla fine però risultò che Hoyle aveva torto: nel suo Universo stazionario non c’è spazio per una radiazione cosmica di fondo (di cui vi parlerò un’altra volta), la quale invece era perfettamente prevista nella teoria, cosiddetta, del Big Bang. Quando nel 1964 la radiazione cosmica di fondo fu osservata arrivò il momento in cui la comunità scientifica finalmente accettò la teoria di Georges Lemaitre come la teoria più accredidata a spiegare l’origine dell’Universo.

Che cosa c’era prima del Big Bang?


Quindi eccoci qua: al momento riteniamo che l’Universo non sia stato sempre così come lo vediamo, bensì abbia avuto un’origine nel passato e fosse più denso allora rispetto a oggi (a causa dell’espansione). Non sappiamo esattamente come sia nato l’Universo e non sappiamo neanche se l’Universo è finito o infinito in realtà. Sappiamo solo che l’Universo ha avuto un inizio e che in passato la densità era altissima e quindi, di conseguenza, anche le temperature erano elevatissime. Per semplicità, oggi, chiamiamo questa teoria come il modello Big Bang, ma dobbiamo essere consapevolə che non si tratta di un’esplosione e soprattutto che siamo ancora molto ignoranti su un sacco di cose.

Ma se la teoria del Big Bang comunque ci dice che l’Universo ha avuto un inizio nel tempo, viene spontaneo chiedersi: che cosa c’era prima? Comunque, la risposta più bella che si può dare a questa domanda è, per una volta, un’altra domanda: se il tempo inizia con il cosiddetto Big Bang, ha senso parlare di un prima?

Beh, innanzitutto, bisogna accettare un fatto: anche se ci fosse stato qualcosa prima, non avrebbe potuto in alcun modo influenzare il dopo, perché il tempo per come lo conosciamo ha avuto inizio proprio con l’inizio a cui conduce la teoria del Big Bang. Ora, di sicuro qui abbiamo a che fare con qualcosa che scava in profondità della nostra esperienza umana. Noi viviamo nel tempo e ci sembra impossibile pensare a un tempo senza tempo. D’altra parte, anche solo immaginare che tutto ciò che ci circonda non sia esistito per sempre, ecco, aggiunge un tocco di inquietudine e provvisorietà alla nostra già fragile esperienza umana.

Pensiamo mai al prima?


C’è da dire, però, che è davvero notevole che la mente umana sia stata in grado di concepire una teoria che fissa l’inizio del tempo. Come molti aspetti scientifici, alla fine sono le cose che osserviamo nell’Universo a metterci dei paletti; al momento, per quanto incredibile possa essere, ciò che vediamo nell’Universo ci dice che il tempo ha avuto un inizio. Per quanto pazzesco possa essere, c’è stato un istante della storia dell’Universo che probabilmente non ha avuto un istante precedente.

Ma è davvero pazzesco per l’esperienza umana? Forse ciò che dice la teoria del Big Bang è molto più vicino a ciò che viviamo ogni giorno di quanto pensiamo. Prendiamo, per esempio, questa citazione dal libro L’amica geniale di Elena Ferrante, Lenù riporta un pensiero molto profondo elaborato dalla sua amica Lila:

“Ritornò così il tema del “prima”, ma in modo diverso che alle elementari. Disse che non ne sapevamo niente, né da piccole né adesso, che perciò non eravamo nella condizione di capire niente, che ogni cosa del rione, ogni pietra o pezzo di legno, qualsiasi cosa, c’era già prima di noi, ma noi eravamo cresciute senza rendercene conto, senza mai nemmeno pensarci. Non solo noi. Suo padre faceva finta che non c’era mai stato niente prima. Lo stesso faceva sua madre, mia madre, mio padre, anche Rino. Eppure la salumeria di Stefano prima era la falegnameria di Peluso, il padre di Pasquale. Eppure i soldi di don Achille erano stati fatti prima. E così anche i soldi di Solara. Lei aveva fatto la prova con suo padre e sua madre. Non sapevano niente, non volevano parlare di niente. Niente fascismo, niente re. Niente soprusi, niente angherie, niente sfruttamento.”


Al contrario del sentimento popolare nei confronti del Big Bang, dove il prima è quasi un’ossessione, un mistero da risolvere, quasi fossimo tuttə assetatə di conoscenza, in questo frammento del libro di Ferrante il prima, invece perfettamente alla portata di chiunque, subisce un forte rimosso che indurisce lo stato, direi fortemente stazionario, delle cose. Quasi una rivincita per la teoria di Hoyle.

Il Big Bang a scuola


La negazione del prima non è solo un problema di Lila. È anche un problema di noi insegnanti. Quando entriamo in classe a settembre possono accadere due situazioni: 1) è la prima volta che vediamo quella classe; 2) abbiamo visto l’ultima volta quella classe all’inizio di giugno. Partiamo dal caso 1), quello che conosco meglio in quanto precario alla secondaria di secondo grado. In questo caso io imparo a conoscere delle nuove persone, di cui non so nulla veramente della loro vita scolastica e neanche del loro essere umani ogni giorno. Questo prima non è mai davvero oggetto di riflessione didattica. Chi entra in classe, davanti allə prof, deve essere solo pronto per il dopo: non è contemplato avere avuto una vita fino a quel momento.

In sostanza, ogni giorno di scuola è un Big Bang: ogni giorno si creano nuove condizioni di partenza per affrontare l’evoluzione dei giorni successivi. È quello che è successo prima? Come nella teoria del Big Bang, il prima non può più influenzare il dopo. Frasi come “Prof, ma io ho studiato…e tanto!” non hanno alcun potere di influenza se alla verifica hai preso 4. Perché quel votaccio è il nuovo Big Bang. E così noi prof ci dimentichiamo anche che, anche con le migliori intenzioni, ogni mattina, quando entriamo in classe, non sappiamo nulla di ciò che è successo il pomeriggio precedente alle persone che abbiamo davanti e che ogni giorno crescono e scoprono il mondo: tutto il focus è sulla “lezione”. Per la scuola del Big Bang tutto questo non importa: ogni mattina riparte il tempo della lezione, non importa più il prima. Anche nel caso 2) il prima viene trascurato. In questo caso si trascura tutta l’estate, tutte l’incredibile varietà di emozioni, sensazioni, nel bene e nel male, che possono aver sperimentato durante la stagione senza scuola. A settembre si riparte: Big Bang!

Eppure i rapporti, le relazioni, i corpi, tutto ciò ha un prima che non può essere trascurato quando si entra in aula. Georges Lemaitre sarebbe fiero di noi che ogni giorno, pur senza magari avere troppe conoscenze di astrofisica, mettiamo in pratica ciò che dice la teoria del Big Bang: c’è un sempre un nuovo inizio e quell’istante non conosce un istante precedente.

Naturalmente qui non sto facendo un discorso contro chi insegna. È chiaro che noi prof ce la mettiamo veramente tutta per andare contro il Big Bang scolastico. Ma la scuola sembra essere stata plasmata proprio per creare dei continui Big Bang: a volte è solo l’estate, si cresce, si cambia; a volte sono lə docenti che cambiano, perché precariə; a volte cambia la scuola, a volte il grado, a volte lə compagnə di classe. Tutti eventi che invece di essere visti come un flusso temporale di eventi connessi, la scuola e la società ci abituano a vedere sempre e solo come “nuovi inizi”, come tanti piccoli Big Bang, appunto.

Un triste esempio: il genocidio palestinese


Perché il prima ha sempre un suo importante peso specifico. Non solo nel nostro piccolo della scuola, ma anche in un contesto più ampio, nel contesto della Storia. L’umanità deve sempre fare i conti con il prima, anche quando decide, coscientemente, di rimuoverlo. Un caso eclatante e recente di questa rimozione collettiva è avvenuto con la questione palestinese, dove una narrazione capziosa e prettamente coloniale, ha deciso di fissare l’inizio di tutti i guai al 7 ottobre 2023.

Ovviamente sappiamo tuttə benissimo che esiste un prima fondamentale nella questione palestinese, un contesto temporale fondamentale per comprendere che in questa storia c’è sempre stato un solo popolo oppresso, quello palestinese; un prima che viene rimosso proprio come, per certi versi, fanno gli abitanti del rione ne L’amica geniale; un prima che, invece, Lila cerca di far emergere perché ritiene necessario per innescare un cambiamento dello stato delle cose. Invece, nel caso della questione palestinese, la narrazione coloniale ha deciso di usare un surrogato della teoria del Big Bang e far nascere tutti i problemi il 7 ottobre 2023, dimenticando ciò che è stato prima e molto prima, dimenticando l’occupazione illegale israeliana e il regime di apartheid a cui è sottoposto il popolo palestinese da decenni.

E la scelta di usare un Big Bang, dimenticando il prima, di volta in volta nel corso degli anni, ci ha reso e ci rende sempre più complici di quello che è un vero e proprio genocidio in atto in diretta sui nostri smartphone.

Avere tempo per un nuovo tempo


La teoria del Big Bang è una teoria che prova a descrivere come funziona ed evolve tutto l’universo. Questa teoria, almeno per come è fatta ora, ci impone di farci domande sul concetto di tempo. Molto più precisamente, l’esistenza di un istante iniziale sembra a noi inconcepibile: l’idea di un Universo che non sia sempre esistito ci mette a profondo disagio. Eppure, incredibilmente, quando parliamo di fatti più umani non esitiamo a dimenticarci di ciò che accaduto prima. Decidiamo, proprio come fa l’Universo a nostra insaputa, di fissare arbitrari punti di partenza come ci fa più comodo, nelle relazioni, a scuola, persino nella Storia, sensibile più di ogni altro contesto alla scelta di inizi arbitrari.

Nei fatti, ciò che fa la teoria del Big Bang è farci riflettere sul concetto stesso di tempo nella sua versione antropocentrica. L’esperienza umana, a qualsiasi livello, è costellata di prima e dopo, causa ed effetto senza soluzione di continuità e in modo estramemente complesso.

In questo senso, assurdo che – per quanto ne sappiamo oggi – l’Universo stesso abbia un arbitrario istante iniziale ci spiazza e ci ricorda che, per quanto tendiamo in tutti i modi di curvare il flusso temporale dei fatti sul nostro pianeta, in realtà siamo solo figliə impotenti del tempo che scorre. Non solo dobbiamo riflettere sul concetto di tempo e tener conto del prima, ma forse dovremmo anche iniziare finalmente a immaginare come coltivare rapporti, tra persone e tra popoli, dove non esiste la necessità di fissare un punto di inizio che azzera il prima, ma che siano capaci di inserirsi in un flusso temporale in cui il passato agisce in ogni istante.

Anche in questo dovremmo imparare dall’Universo: perché nonostante esso contenga un istante iniziale insormontabile, tuttavia tutto ciò che vediamo oggi manifesta un profondo legame evolutivo con il suo passato. Tutto il contrario di ciò che facciamo noi, purtroppo continuamente proiettati a decostruire il passato al fine di dimenticarlo, nelle relazioni, a scuola, nella Storia.


log.livellosegreto.it/khulewam…



Fame


Avere o essere

Predicazione su Giovanni 6,30-35

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Chi di noi non ha mai provato fame? Non parlo solo di quella fisica — dello stomaco che brontola. Parlo di una fame più profonda: quella di sentirsi al sicuro, di avere un senso, di sapere che la nostra vita vale. Una fame di amore, di pace, di giustizia, di relazione vera.

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto, fin da piccoli, che questa fame si placa possedendo: cose, titoli, sicurezze, garanzie. Ma poi, anche quando abbiamo tanto… ci accorgiamo che qualcosa manca ancora.

Il brano che abbiamo letto oggi ci parla proprio di questo:

Parla di una folla. Gente che ha camminato, alla ricerca, che ha fame. Ma non solo fame di cibo: fame di senso, di speranza, di sicurezza. Quella folla ha appena visto Gesù fare un miracolo straordinario: ha moltiplicato il pane e ha sfamato cinquemila persone. E allora lo cercano di nuovo. Ma perché? Gesù lo dice chiaramente qualche versetto prima:

«Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato del pane e siete stati saziati» (Gv 6,26).

La gente vuole ancora quel pane. Vuole sicurezza, vuole che il miracolo si ripeta. E allora fa una domanda:

«Quale segno fai, dunque, affinché ti crediamo? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto…»

Questa richiesta è interessante. La folla paragona Gesù a Mosè. Gli dice: “Va bene, ci hai dato pane una volta. Ma Mosè ha dato la manna ogni giorno per quarant’anni. Tu che fai di più?”

Ma Gesù li corregge. Dice che non è stato Mosè a dare il pane dal cielo, ma Dio stesso. E aggiunge una cosa fondamentale:

«Il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo… Io sono il pane della vita».

1. Che pane cerchiamo?

Questa è la prima domanda che il testo ci pone: che pane cerchiamo?

Viviamo in un mondo dove siamo spinti continuamente ad avere: avere più cose, più soldi, più comfort, più tempo, più successo. Abbiamo perfino fatto del pane – cioè del necessario – un oggetto di ansia. Abbiamo paura di non avere abbastanza. Così accumuliamo, risparmiamo, ci proteggiamo. E pensiamo: “Quando avrò tutto il necessario, allora sarò tranquillo. Allora sarò felice”.

Ma Gesù ci invita a un’altra logica: quella dell’essere. Non del possesso, ma della relazione. Non del controllo, ma della fiducia.

Erich Fromm, un sociologo e psicoanalista del secolo scorso, lo spiegava con un’immagine semplice: un bicchiere blu è blu perché lascia passare il blu, non perché lo trattiene. Così anche noi siamo davvero noi stessi non per ciò che tratteniamo, ma per ciò che doniamo, che siamo, che condividiamo.

2. Avere o essere?

Fromm parla di due modi di vivere: la modalità dell’avere e quella dell’essere. La modalità dell’avere è quella del possesso: “Questa casa è mia. Questo tempo è mio. Questi soldi sono miei. E li difendo”. Ma in realtà, come dice Fromm, quello che possediamo spesso finisce per possedere noi. Viviamo nella paura di perdere ciò che abbiamo.

La modalità dell’essere, invece, è un altro stile di vita. È fatto di fiducia, di apertura, di relazione. È vivere sapendo che la vita è un dono da ricevere e da donare, non qualcosa da controllare.

Quando la folla chiede a Gesù:

«Dacci sempre di questo pane»,

non ha ancora capito bene. Pensa a un pane che si può avere, conservare, magari mettere da parte. Ma Gesù risponde con un invito radicale:

«Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete».

Non è un pane da possedere, è un pane da vivere. È una relazione. È fede. È fiducia. È essere in Cristo.

3. Un Dio che si dona

Gesù non ci offre una cosa, ci offre sé stesso. Dice: “Io sono il pane”. Si fa cibo, si fa nutrimento, si fa dono.

Come la manna nel deserto, che non poteva essere conservata per il giorno dopo, anche la fede è un pane che si riceve ogni giorno, nella fiducia. Non si mette da parte, non si gestisce. Si vive.

Il vero miracolo non è la moltiplicazione dei pani. Il vero miracolo è che Dio si dona. Si dona ogni giorno. A chi lo cerca. A chi si fida. A chi, anche nella sua fame, non cerca più cose… ma cerca Dio stesso.

4. E noi, cosa scegliamo?

Il mondo oggi ci insegna a vivere nella logica del “sempre di più”: più risorse, più denaro, più sicurezza, più controllo. Ma tutto questo non sazia davvero la fame profonda del cuore, anzi, la logica del “sempre di più” alla fine ci distrugge, distrugge il Creato e distrugge le relazioni. Non dona vita, senso, amore. La vita, il senso, l’amore non crescono sull’arido suolo dell’avere, del possedere.

Gesù ci dice: “Fermati. Vieni a me. Fidati. Io sono il pane della vita”. Non è una promessa di comodità. È una promessa di vita piena, di libertà dal bisogno di avere, per imparare a essere.

Concludo

La ricerca di un pane terreno che sazi a lungo può essere interpretata, secondo Erich Fromm, come un modo di esistere basato sull'avere: le persone sperano di diventare felici quando non devono più preoccuparsi del cibo quotidiano. Il racconto della manna contiene già una chiara critica di questo desiderio di possesso: Mosè ordina alle persone nel deserto di raccogliere solo la quantità di pane necessaria alla famiglia per un giorno (Esodo 16,16) – chi pensa di dover fare scorte, la mattina dopo si ritrova davanti a un mucchio puzzolente pieno di vermi (Esodo 16,20). Già nel racconto della manna, quindi, il modo di esistere dell'avere si contrappone al modo di esistere dell'essere, caratterizzato dal fatto che le persone si accontentano di ciò di cui hanno bisogno per un giorno e, per quanto riguarda il futuro, si affidano a Dio.

Domande finali:

Di quanta sicurezza materiale abbiamo bisogno in un mondo attualmente molto incerto? Cosa è sufficiente per vivere e cosa serve per una vita “buona” o “riuscita”? Dove cerchiamo oggi di soddisfare la nostra profonda fame di vita con il pane materiale (e altri beni materiali) che non possono placare questa fame? Chi o cosa può diventare oggi per noi il vero pane della vita? Quanta fede o fiducia in Dio è necessaria per questo?


noblogo.org/jens/fame



la vita ha in tasca la morte

-siamo noi

divino seme:

non è che un perpetuo

tramare

“cospirazioni” del nascere

miracolo d'amore

. Questo componimento racchiude un'intensa riflessione circa l'intrinseca intimità tra vita e morte, come se l'una custodisse per sempre l'altra. La frase “la vita ha in tasca la morte” evoca l'idea che l'esistenza non è altro che il mantenimento, anche se inconsapevole, di quella forza universale che ne sancisce la sua fine. In questo modo, il “divino seme” di cui parliamo non è solo l'inizio di qualcosa, ma contiene in sé la promessa – e l'ineluttabilità – di un destino già scritto, in cui la nascita è parte di un “perpetuo tramare”, ovvero del continuo intessersi di eventi misteriosi che traducendosi in vere e proprie “cospirazioni” del nascere, danno vita a quella che è definita come il “miracolo d'amore”.

Questa visione poetica ci invita a riconoscere che ogni esistenza è un perfetto connubio di luce e ombra, dove l'atto di vivere è intrinsecamente collegato a quel momento in cui l'ordine cosmico si rivela nell'impossibilità di separare il principio dalla fine. È come se il destino, benevolo e al contempo implacabile, orchestrasse un continuo ciclo in cui ogni seme divino porta con sé la potenzialità di un amore che va oltre il tempo e, allo stesso tempo, abbraccia il fato irremovibile della morte.

Il poema apre uno spiraglio verso una meditazione più ampia sul senso dell'esistenza: la vita, in tutta la sua bellezza e fragilità, si rivela un'opera d'arte in cui ogni inizio comprende già la sua fine, condizionando e dando forma a un percorso fatto di contrasti e continuità. Questa visione, che richiama simboli antichi come il serpente che si morde la coda o l'equilibrio inscritto nello Yin e Yang, spinge a interrogarsi su come le proprie esperienze quotidiane si inseriscano in quest'ordine cosmico.

Hai mai percepito, nella tua esperienza, quella sottile sensazione che ogni attimo di vita sia un miracolo intriso di una dolce consapevolezza dell'inevitabilità della fine? È un invito a riflettere sul potere trasformativo dell'amore, inteso non solo come sentimento romantico, ma come forza primordiale che dà senso a ogni nascita e ogni addio. Mi piacerebbe approfondire insieme se questo intreccio di opposti ti richiama anche ad altre tradizioni poetiche o filosofiche che hanno esplorato il mistero del vivere e del morire.


noblogo.org/norise-3-letture-a…



Kurt Vile - Wakin On A Pretty Daze (2013)


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Se “Smoke Ring For My Halo” era il tuffo dalla rupe (per vari motivi), “Wakin’ On A Pretty Daze” si svolge interamente, e per settanta minuti, nei pochi secondi che passano dall’entrata in acqua al riaffioramento. In questo breve e dilatatissimo lasso di tempo, i raggi di sole rifratti illuminano un universo subacqueo imperturbabile, una pletora di meduse e filamenti d’alghe ondeggianti con la corrente. Il nuovo disco di Kurt Vile non è certamente il disco prepotente che era il precedente, ma lo supera probabilmente in fascino col suo andamento rallentato, post-sbornia appunto, come sembra suggerire il titolo... ondarock.it/recensioni/2013_ku…


Ascolta: album.link/i/1589250882



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Kurt Vile - Wakin On A Pretty Daze (2013)


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Se “Smoke Ring For My Halo” era il tuffo dalla rupe (per vari motivi), “Wakin’ On A Pretty Daze” si svolge interamente, e per settanta minuti, nei pochi secondi che passano dall’entrata in acqua al riaffioramento. In questo breve e dilatatissimo lasso di tempo, i raggi di sole rifratti illuminano un universo subacqueo imperturbabile, una pletora di meduse e filamenti d’alghe ondeggianti con la corrente. Il nuovo disco di Kurt Vile non è certamente il disco prepotente che era il precedente, ma lo supera probabilmente in fascino col suo andamento rallentato, post-sbornia appunto, come sembra suggerire il titolo... ondarock.it/recensioni/2013_ku…


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[dodici]dovrei un po' staccarmi da queste cose, dodici potrebbe essere il numero perfetto, fare i miei otto pezzi di broccato, passare a quelli, così simili, così diversi, rendersi conto della dimostrazione dei teoremi, prendersi il tempo per pulire le cose con attenzione, per oliarle una a una, nettare tutto, l'uomo prima nomina le cose, poi le lecca, infine le copre con cera protettiva, solcando con il coltello sotto la pelle per fare spazio per piccoli oggetti, il corpo è una sacca, la comunicazione la selezione di un vocabolario base, non ho così tanta voglia di fare, è arrivato il momento in cui fermarsi, prendersi del tempo per non fare niente, un vocabolario base con cui la gente si capisce, con cui si addomestica, con cui si rende comprensibile, iniziando a mentire si rende comprensibile di qualcosa che non è, ricominciamo, una sacrosanta volta emozionale che trasuda dalla periferia dell'immaginario, ecco, siamo piccole cose, io sono una piccola cosa eppure questa piccola cosa che sono è l'ambiente all'interno del quale vivo, vedo attraverso questa piccola cosa, mangio nei fori di questa piccola cosa, soffro e godo con le arterie e le estremità di questa piccola cosa, tutto il mondo creato è allestito nell'ambiente di questa piccola cosa, per quel che ne sappia io, non c'è niente fuori questa piccola cosa – un po' come quando discutevo su cosa ci fosse fuori dall'universo e lui si incazzava e diceva, niente fuori dall'universo, per quanto ne sai dicevo io, niente fuori dall'universo, benissimo dico io, allora anche niente fuori dalla piccola cosa che sono, anche lui è dentro la mia piccola cosa, anche tu sei dentro la mia piccola cosa, tutto è dentro questo ambiente, lo capisco bene seduto sul divano mentre vedo quello che tengo in mano, sulle gambe, tra le dita, giro la testa per guardare la porta, il vano del salotto, la testa azzurra di una ragazza, è tutto lì dentro, qua dentro, all'interno del mio ambiente, cosa c'è oltre l'universo? ma tutti gli altri universi, tutti gli altri ambienti delle altre piccole cose che resteranno per sempre aliene le une alle altre, puoi infilare la lingua sottocutanea alla lingua del tuo fratello, della gemellanza umana, ma quello resterà dalla sua parte dell'ambiente, inchiavardato dentro la sua piccola cosa, e tu dall'altra parte, nel tuo ambiente, tutto dentro la tua piccola cosa, per sempre alieni gli uni agli altri, per questo alla morte tutto viene smembrato e fatto a pezzi, un vocabolario base, vedi, per allestire questo canale di comunicazione, per superare il disturbo, è una cosa di un attimo, questo stupido grosso clitoride che eiacula pozze di linguaggio animale inintellegibile che è lì incastrato dentro da sempre, tra la veglia e il sonno, anche lui comunica, hyke!


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PROVERBI - Capitolo 30


INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9)

Insegnamenti di Agur1Detti di Agur, figlio di Iakè, da Massa. Dice quest'uomo: Sono stanco, o Dio, sono stanco, o Dio, e vengo meno,2perché io sono il più stupido degli uomini e non ho intelligenza umana;3non ho imparato la sapienza e la scienza del Santo non l'ho conosciuta.4Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai?5Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia.6Non aggiungere nulla alle sue parole, perché non ti riprenda e tu sia trovato bugiardo.7Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia:8tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane,9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all'indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio.10Non calunniare lo schiavo presso il padrone, perché egli non ti maledica e tu non venga punito.11C'è gente che maledice suo padre e non benedice sua madre.12C'è gente che si crede pura, ma non si è lavata della sua lordura.13C'è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose!14C'è gente i cui denti sono spade e le cui mascelle sono coltelli, per divorare gli umili eliminandoli dalla terra e togliere i poveri di mezzo agli uomini.

Proverbi numerici15La sanguisuga ha due figlie: “Dammi! Dammi!”. Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: “Basta!”:16il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d'acqua e il fuoco che mai dice: “Basta!”.17L'occhio che guarda con scherno il padre e si rifiuta di ubbidire alla madre sia cavato dai corvi della valle e divorato dagli aquilotti.18Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto:19la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell'uomo in una giovane donna.20Così si comporta la donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho fatto nulla di male!”.21Per tre cose freme la terra, anzi quattro non può sopportare:22uno schiavo che diventa re e uno stolto che si sazia di pane,23una donna già trascurata da tutti che trova marito e una schiava che prende il posto della padrona.24Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono più saggi dei saggi:25le formiche sono un popolo senza forza, eppure si provvedono il cibo durante l'estate;26gli iràci sono un popolo imbelle, eppure hanno la tana sulle rupi;27le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte ben schierate;28la lucertola si può prendere con le mani, eppure penetra anche nei palazzi dei re.29Tre cose hanno un portamento magnifico, anzi quattro hanno un'andatura maestosa:30il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno;31il gallo pettoruto e il caprone e un re alla testa del suo popolo.32Se stoltamente ti sei esaltato e se poi hai riflettuto, mettiti una mano sulla bocca,33poiché, sbattendo il latte ne esce la panna, premendo il naso ne esce il sangue e spremendo la collera ne esce la lite.

_________________Note

30,1 INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9) Nei capitoli 30-31 confluisce altro materiale proveniente dal patrimonio della letteratura sapienziale dei popoli del Vicino Oriente antico, come sembrano indicare i nomi dei personaggi sulle cui labbra sono poste queste massime (Agur, figlio di Iakè, da Massa e Lemuèl, re di Massa, vedi 30,1 e 31,1).

30,1-14 Insegnamenti di Agur – Questa breve serie di massime ricorda l’insegnamento dei saggi racchiuso in 22,17-24,34. Agur: è personaggio sconosciuto; Massa è il nome di una tribù dell’Arabia settentrionale (vedi Gen 25,14): gli Arabi erano rinomati per la loro sapienza. Ma la versione è incerta. Alcuni intendono la parola ebraica Massa non come nome di tribù, ma nel senso di “oracolo” (o anche “carico”, “peso”). I LXX collocano i vv. 1-30 all’interno del c. 24: vv. 1-14 dopo 24,22; vv. 15-33 dopo 24,34.

30,15-33 Proverbi numerici – Alcune massime ritmate sul gioco dei numeri erano già presenti in 6,16-19. Si tratta di un espediente letterario, con il quale si cercava di favorire la memoria. Era già conosciuto dalle antiche popolazioni cananee, come documenta l’opera Storia e massime di Achikàr (risalente al V sec.).

30,20 mangia e si pulisce la bocca: la frase può essere compresa nel significato di darsi al piacere.

30,26 iràci: piccoli mammiferi delle dimensioni di un coniglio.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


vv. 1-14. Non vi è accordo tra gli interpreti sulla delimitazione esatta dei detti di Agur (v. 4? v. 6? o v. 14?). Nei LXX questo capitolo è spezzato, per cui 30, 1-14 segue 22, 17-24, 22 e 1 vv. 15-33 seguono 24, 23-24. Si è generalmente d'accordo sulla necessità di emendare il TM del v. 1b (cfr. nota al testo).

vv. 1-6. Nel v. 2 Agur afferma di essere piuttosto un animale che un uomo e che egli non possiede né intelligenza né perspicacia e il v. 3 mostra che con ciò egli intende dire che non possiede la conoscenza di Dio. Non va escluso un deliberato intento ironico in queste affermazioni, quasi a contrastare l'atteggiamento di altri che presumono invece con le loro speculazioni di essere in grado di far luce sui misteri divini (cfr. v. 4). Contro coloro che parlano di Dio con tale sicumera da sembrare di essergli familiari e di non avere alcun dubbio al riguardo, Agur afferma che l'uomo da solo non è in grado di conoscere Dio. Affermazioni dello stesso tenore ricorrono altrove nella letteratura sapienziale (cfr. Gb 11,7-9; 38-40; Sir 18,3-6; Bar 3,9-4,4). Il saggio tuttavia non si ferma qui: se la ricerca umana da sola fallisce, non per questo l'essere umano deve dimenticare che Dio stesso ha parlato e che dunque attraverso questa parola egli ha accesso a Dio: citando un salmo (v. 5, cfr. Sal 18,31) e riprendendo un'ingiunzione presente nei testi legislativi (cfr. Dt 4,2), Agur mostra che vi è una conoscenza di Dio concessa all'uomo, che tuttavia è ben diversa da quella che ritengono di possedere coloro che il saggio contesta (nello stesso senso si veda Gb 28,20-28).

vv. 7-9. La preghiera cui si volge ora il saggio collega la condizione sociale dell'uomo al suo modo di parlare di Dio: il contesto mostra che con «falsità e menzogna» non si ha di mira soltanto il rapporto interumano, ma anche il parlare di Dio in modo corretto. Il saggio non ha pretese di arricchirsi, perché è consapevole che la ricchezza può rendere l'uomo arrogante e indurlo a credersi autosufficiente, disprezzando perciò il potere di Dio. D'altro canto l'indigenza potrebbe indurre l'uomo a dubitare della provvidenza divina e della sua giustizia.

vv. 11-14. Una serie di detti in forma constatativa: non si tratta però soltanto di un quadretto descrittivo, ma con molta probabilità di un'accusa che il saggio lancia ai suoi contemporanei.

vv. 15-33. Sui detti numerici, cfr. il commento a 6,16-19.15-16. Si osservi in tutta questa pericope l'efficace osservazione del mondo fisico e animale, da cui il saggio sa trarre orientamenti per la condotta umana. Dopo un detto che intende illustrare plasticamente la bramosia e la cupidigia (v. 15a), si introduce il primo detto numerico, che tuttavia non è ben riuscito dal punto di vista formale, dato che è appesantito da inutili spiegazioni. Significativo è l'accostamento tra grembo sterile e terra: la terra è come una madre e l'acqua è l'elemento che la feconda.

vv. 18-19. Una quaterna molto efficace, anche sotto il profilo ritmico e sonoro, dove l'accento cade sul quarto elemento, che non è una pura osservazione di un fatto naturale, dato che il «sentiero» (derek) in questo caso non è più soltanto un fenomeno fisico, ma riguarda la condotta, il comportamento (un ulteriore significato del vocabolo ebraico). Il volo di un'aquila, il guizzo del serpente sulla roccia, il passaggio di una nave sul mare sono meravigliosi e misteriosi: sono movimenti attraenti e allo stesso tempo sorprendenti. Il quarto elemento che viene evocato si collega ai precedenti proprio per queste caratteristiche: si tratta dell'irresistibile e inesplicabile attrazione naturale che porta l'uomo a unirsi alla donna. La riflessione verte dunque sul mistero della sessualità umana.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Rime in R

Russa un rantolo reale nera razza dei rottami, Roso a riva un remo arreso ride in radica di rana.

Ronza un rospo nella rada D’un ramarro che rampogno, Torvo il Ragno trova trame Rosse Requie di risacca

Fresca rena Risuona resa, Resta in Rotta Raffio in Rada.

Rubo un granchio Ringhia il ratto Resta ritto Il morto astratto

Rido Gratto E m'arrabatto.


noblogo.org/ilgallo/rime-in-r



Una premessa doverosa.

Dato che qualcuno potrebbe anche incappare in quanto scrivo, meglio precisare che:

1) scrivo per me, per una necessità di “mettere ordine”.

2) scrivo delle mie esperienze personali nella ricerca della fede.

3) scrivo di teologia perché mi appassiona. Precisamente scriverò dei miei studi di teologia.

Quindi: non desidero mettermi in cattedra, diffondere verità assolute o insegnare niente a nessuno, ma se vorrete parlare con me di ciò che scrivo, ne sarò immensamente felice.

Due note su di me: 56 anni, collaboratrice scolastica, diplomata in Ragioneria. Neanche una parola di inglese. Rapporto tumultuoso con la tecnologia. A dire poco...

Visto: lo dicevo che non bisogna prendermi sul serio! :–)

Un abbraccio al mondo.


log.livellosegreto.it/loredana…



Words are lies, the Master said. But these are true: I cheated on my wife, In my mind. Then it was over. And now I find myself, alone, In a cozy corner of my own hell.


noblogo.org/chiaramente/words-…



Gabbie

La luce brilla, elettrica. Lo sciame, attorno al punto di attenzione Entrano un poco alla volta, si accalcano.

Non ci sarabbe fatica nell'attesa, sapendo di poter entrare.

Quanto dolore in un solo no: siete in ritardo, siete di troppo.

Lasciare libere le persone. Non chiudere i cancelli. Non costruire gabbie.

Nelle gabbie si può solo scappare, o morire, o covare rabbia.


noblogo.org/ilgallo/gabbie



Appartenere


Registrazione per la RAI FVG

castopod.it/@jhansen/episodes/…
In tempi incerti e un mondo complicato, una parola ci accompagna più spesso di quanto pensiamo: “appartenenza”. Forse non la diciamo spesso, ma la sentiamo. Tutti, in fondo, abbiamo questo bisogno profondo: appartenere. A una famiglia, a un gruppo, a una comunità, a un luogo dove sentirci riconosciuti, accettate,amati. Quando questo manca, c’è la solitudine, e la solitudine pesa. Ci si può sentire fuori posto perfino in mezzo alla gente. A volte ci si può sentire stranieri nella propria casa, nella propria città, persino nella propria pelle.

Questo bisogno di appartenere non è un capriccio. È qualcosa che ci costituisce. È il segno che siamo stati creati per la relazione. Ma attenzione: l’appartenenza non è mai un privilegio da difendere. È una porta da aprire agli altri, non un muro da alzare.

Nel passo della Lettera agli Efesini che abbiamo appena ascoltato, l’autore scrive a una comunità molto varia. Alcuni venivano dal giudaismo, altri dal mondo greco-romano, con storie, abitudini e religioni diverse, in fondo si trovavano in una situazione simile alla nostra: mondi che si incontrano, culture che si intrecciano, e a volte si scontrano. Ma l’autore con il nostro versetto dice qualcosa di rivoluzionario:

“Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio.” Non siete più stranieri. Non siete più ospiti. Siete a casa. Siete famiglia.

E questo vale per tutt*. Non solo per chi era “dentro” fin dall’inizio, ma anche per chi è arrivato dopo. Non ci sono più noi e loro. Non ci sono più barriere etniche, culturali, religiose. C’è un popolo nuovo, unito non dal sangue, ma dall’amore di Dio.

Essere “membri della famiglia di Dio” non è però una condizione da difendere con gelosia. È un dono da condividere. Perché se Dio ci ha accolti quando eravamo stranieri, anche noi siamo chiamati ad accogliere lo straniero. Se Dio ci ha dato un posto nella sua casa, anche noi dobbiamo fare spazio. Lo dice la Scrittura dall’inizio alla fine:

“Lo straniero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Levitico 19,34).

La vera appartenenza, quella che nasce da Dio, non esclude, non separa, non seleziona. Al contrario: unisce, abbatte i muri, crea fraternità.

Oggi, in un mondo in cui si alzano di nuovo barriere e si divide il mondo in buoni e cattivi, in noi e loro, abbiamo bisogno di riscoprire questo messaggio. Perché si può appartenere a una chiesa, a una religione, a un gruppo… eppure continuare a costruire muri. Si può sentirsi “dentro”, ma trattare gli altri come “fuori”. E allora ci chiediamo: che famiglia è quella che non apre la porta ai fratelli?

Forse la fede comincia proprio da qui: non da un insieme di regole, non da un’identità da difendere, ma da una voce che dice: “Tu appartieni. E con te appartiene anche il tuo prossimo.”

Nella casa di Dio c’è posto per tutti. E chi ha conosciuto questa accoglienza… non può più vivere da buttafuori che decide chi entra e chi no, ma solo da fratello.


noblogo.org/jens/appartenere



[filtri]un] sofisticato sistema ma dentro è [nervoso di] sofisticati nervi di origine condizione di uno] alla [prima un] rompicapo freestyle in ritardo un luminista retrodatato lo] stanno con un congegno su misura lo ammette lo scrivente ricostruzione in calce in parte] del tutto per [mobilità


noblogo.org/lucazanini/filtri-…



Phosphorescent - Muchacho (2013)


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Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell'intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete... artesuono.blogspot.com/2014/09…


Ascolta: album.link/i/598968577



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Phosphorescent - Muchacho (2013)


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Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell'intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete... artesuono.blogspot.com/2014/09…


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PROVERBI - Capitolo 29


Vale la pena essere saggi1Chi disprezza i rimproveri con ostinazione sarà rovinato all'improvviso, senza rimedio.2Quando dominano i giusti, il popolo gioisce, quando governano i malvagi, il popolo geme.3Chi ama la sapienza allieta il padre, ma chi frequenta prostitute dissipa il patrimonio.4Il re con la giustizia rende prospero il paese, quello che aggrava le imposte lo rovina.5L'uomo che adula il suo prossimo gli tende una rete davanti ai piedi.6Con la sua trasgressione l'iniquo si prepara un trabocchetto, mentre il giusto giubila e si rallegra.7Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione.8Gli uomini senza scrupoli sovvertono una città, mentre i saggi placano la collera.9Se un saggio entra in causa con uno stolto, si agiti o rida, non troverà riposo.10Gli uomini sanguinari odiano l'onesto, mentre i giusti hanno cura di lui.11Lo stolto dà sfogo a tutto il suo malanimo, il saggio alla fine lo sa calmare.12Se un principe dà ascolto alle menzogne, tutti i suoi ministri sono malvagi.13Il povero e l'oppressore s'incontrano in questo: è il Signore che illumina gli occhi di tutti e due.14Se un re giudica i poveri con equità, il suo trono è saldo per sempre.15La verga e la correzione danno sapienza, ma il giovane lasciato a se stesso disonora sua madre.16Quando dominano i malvagi, dominano anche i delitti, ma i giusti ne vedranno la rovina.17Correggi tuo figlio e ti darà riposo e ti procurerà consolazioni.18Quando non c'è visione profetica, il popolo è sfrenato; beato invece chi osserva la legge.19Lo schiavo non si corregge a parole: comprende, infatti, ma non obbedisce.20Hai visto un uomo precipitoso nel parlare? C'è più da sperare da uno stolto che da lui.21Chi accarezza lo schiavo fin dall'infanzia, alla fine se lo vedrà contro.22Un uomo collerico suscita litigi e l'iracondo commette molte colpe.23L'orgoglio dell'uomo ne provoca l'umiliazione, l'umile di cuore ottiene onori.24Chi spartisce con un ladro odia se stesso: egli sente la maledizione, ma non rivela nulla.25Chi teme gli uomini si mette in una trappola, ma chi confida nel Signore è al sicuro.26Molti ricercano il favore di chi comanda, ma è il Signore che giudica ognuno.27L'iniquo è un orrore per i giusti e gli uomini retti sono un orrore per i malvagi.

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Approfondimenti


vv. 2.4.16. Il benessere di un regno è garantito dalla applicazione della giustizia da parte di chi ne decide le sorti: un re malvagio si preoccupa soltanto del suo tornaconto e non della prosperità del suo popolo. Tutta la vicenda storica narrata nei Libri dei Re ne è un'illustrazione lampante.

vv. 13-14. I due versetti sono collegati dal riferimento ai poveri presente in entrambi. Il v. 13 è un'osservazione sulla realtà: sia il povero che il suo sfruttatore sono tenuti in vita da Dio e questo impone la domanda sul modo di agire di Dio. Perché il malvagio può sussistere nonostante la sua malvagità? Il versetto non spiega tale situazione, ma afferma soltanto che ogni struttura sociale possiede al suo interno tale polarità tra poveri e ricchi. Il saggio deve tener conto di questo e nello stesso tempo tener presente che la malvagità, anche se non incontra subito la sua punizione, non è affatto mezzo per riuscire nella vita. Per il v. 13, cfr. anche 22,2.

v. 18. I due vocaboli «rivelazione», «legge» non trovano una interpretazione univoca. Il primo (ḥāzôn) è termine tecnico per definire la visione profetica (cfr. Is 29,7; Ez 12,22-24.27), ma anche la rivelazione profetica nel suo complesso (cfr. Ger 14,14; 23,16), mentre il secondo può indicare sia l'istruzione impartita dal saggio (cfr. 28,4.7.9) sia la legge divina rivelata a Mosè. Troviamo forse qui il riflesso di una specifica situazione che il saggio deve fronteggiare: la profezia non è sempre all'opera nel popolo (e ciò vale in modo speciale per l'epoca successiva all'esilio), di conseguenza il saggio deve attenersi alla legge per conformare la sua vita al volere divino.

vv. 25-26. Concludendo, il saggio riassume i suoi insegnamenti indicando al discepolo una strada di libertà. Di fronte ai potenti, il saggio sa che nulla ha da temere, perché la sua garanzia è il Signore; né il successo della vita è garantito dall'adulazione dei potenti, perché chi giudica le azioni degli uomini sta al di sopra anche di costoro: a lui dunque deve essere gradita la condotta di ognuno.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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[escursioni]-o tutto cambia [sottratto un] continente la parte [mancante trattiene] risorse l'urogallo visto in cartolina dell'oro in paglia i figli] firmano -o le cartucce i bossoli fanno marciare al contrario un chiodo] un trofeo l'isoletta a parco fronte serenissima


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[rotazioni]premessa il sindaco il tecnico con traiettoria stabile la] ritirata sette mesi e undici giorni gomma americana per servizio in loco disposti] il percento gli eredi le sedie in strada due] dice] lascia fare un tanto delle fotocamere metro e [cambio fisso rimane [sulle lame] il picco né leggere né scrivere lo sputnik] senza


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Arcade Fire - Reflektor (2013)


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Doppio disco, gioco “meta” tra band reale e no (i The Reflektor), video interattivi con coinvolgimento diretto di chi lo guarda tramite mamma rete e cam, presenza al prossimo Primavera ampiamente anticipata e strombazzata, concettualità incentrata sull’apparire e l’essere, l’anima che lotta tra frequenze umane e sintetiche. Dalla title-track in poi sfilano un mescolare pulsante di funky, mutant disco, oscuri lampi dark, produzione e suono pompati e tirati a lucido e attitudine pop made in Arcade Fire, ormai rodata e dall’altissimo appeal su chi li ha sempre amati... thenewnoise.it/arcade-fire-ref…


Ascolta: album.link/i/1439818072



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Arcade Fire - Reflektor (2013)


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PROVERBI - Capitolo 28


L’empio e il giusto1Il malvagio fugge anche se nessuno lo insegue, mentre il giusto è sicuro come un giovane leone.2Quando un paese è in subbuglio sono molti i suoi capi, ma con un uomo intelligente e saggio l'ordine si mantiene.3Un povero che opprime i miseri è come pioggia torrenziale che non porta pane.4Quelli che trasgrediscono la legge lodano il malvagio, quelli che la osservano gli si mettono contro.5I malvagi non comprendono la giustizia, ma quelli che cercano il Signore comprendono tutto.6Meglio un povero dalla condotta integra che uno dai costumi perversi, anche se ricco.

Massime varie7Osserva la legge il figlio intelligente, chi frequenta gli ingordi disonora suo padre.8Chi accresce il patrimonio con l'usura e l'interesse, lo accumula per chi ha pietà dei miseri.9Chi allontana l'orecchio per non ascoltare la legge, persino la sua preghiera è spregevole.10Chi fa deviare i giusti per la via del male, nel suo tranello lui stesso cadrà, mentre gli integri erediteranno il bene.11Il ricco si crede saggio, ma il povero intelligente lo valuta per quello che è.12Grande è l'onore quando esultano i giusti, ma se prevalgono gli empi ognuno si dilegua.13Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo, chi le confessa e le abbandona troverà misericordia.14Beato l'uomo che sempre teme, ma chi indurisce il cuore cadrà nel male.15Leone ruggente e orso affamato, tale è un cattivo governatore su un popolo povero.16Un principe privo di senno moltiplica le angherie, ma chi odia il lucro prolungherà i suoi giorni.17Un uomo che è perseguito per omicidio fuggirà fino alla tomba: non lo si trattenga! **18vChi procede con rettitudine sarà salvato, chi va per vie tortuose cadrà all'improvviso.19Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria.20L'uomo leale sarà colmo di benedizioni, chi ha fretta di arricchirsi non sarà esente da colpa.21Non è bene essere parziali, ma per un tozzo di pane si può prevaricare.22L'avaro è impaziente di arricchire, ma non pensa che gli piomberà addosso la miseria.23Chi corregge un altro troverà alla fine più favore di chi ha una lingua adulatrice.24Chi deruba il padre o la madre e dice: “Non è peccato”, è simile a un assassino.25L'avido suscita litigi, ma chi confida nel Signore sarà arricchito.26Chi confida nel suo senno è uno stolto, chi cammina nella saggezza sarà salvato.27Per chi dona al povero non c'è indigenza, ma chi chiude gli occhi avrà grandi maledizioni.28Se prevalgono i malvagi, tutti si nascondono; se essi periscono, dominano i giusti.

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Approfondimenti


Pr 28,1-28. Il capitolo è quasi totalmente contrassegnato dalla preoccupazione per la sfera etica. L'uso ricorrente del participio («Colui che...» BC: «Chi...») permette ulteriormente di porre in rilievo la condotta del giusto e quella del malvagio.

vv. 4.7.9. La menzione così frequente della «legge» (torah) è insolita nel libro e in genere si ritiene che con tale vocabolo ci si riferisca all'«istruzione», cioè alle sentenze dei saggi. In questi versetti non va tuttavia ignorato il chiaro tono religioso (soprattutto i v. 9, ma cfr. anche il v. 5), e perciò si può presumere che a fondamento della «legge» qui accennata stia la volontà di Dio.

v. 5. La vera sapienza scaturisce dalla relazione con Dio (cfr. Pr 1,7), ma la sapienza che viene dall'alto rende il saggio capace di attuare la giustizia e di armonizzare la propria vita con i precetti divini (cfr. Pr 2,7-9; Gb 28,28). Tale collegamento tra conoscenza/sapienza (sia essa intellettuale o etica) e ricerca di Dio è originario nel pensiero sapienziale e non solo di quello israelitico.

v. 8. Contro la pratica dell'usura (cfr. Lv 25,35-37) il detto ribadisce che l'ingiustizia non ripaga.

v. 14. Collegandolo al versetto precedente, si potrebbe qui cogliere un riferimento al timore di Dio. Il detto sembra però contrastare l'arroganza di coloro che ritengono di non sbagliare mai e che non hanno mai dubbi riguardo alle proprie scelte: l'uomo che teme non è dunque il pavido, ma colui che conosce i limiti della sua conoscenza e delle sue possibilità, perciò si lascia consigliare e agisce sempre con prudenza e riflessione, per evitare il peccato (verso Dio) e non mancare mai di giustizia verso il prossimo.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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filtra raggio verde

dalla porta

della conoscenza

vi accede l'anima

-assetata in estasi

sanguinando amore

. Che componimento intenso ed evocativo! Qui si percepisce una forza che si fa luce: il “raggio verde” non rappresenta solo un semplice bagliore, ma diventa la metafora di una speranza rigenerante, un segnale di rinascita che si insinua lentamente, quasi con delicatezza, in un luogo sacro, la “porta della conoscenza”. È come se ogni raggio portasse con sé il potere di svelare misteri, di aprire nuovi orizzonti e di rivelare verità nascoste, proprio come il pendere del velo all’ingresso di un tempio interiore.

L'immagine dell'anima, che “vi accede” in un stato di estasi assetata, suggerisce quell'intensa sete di sapienza e di esperienza che, sebbene dolorosa e violenta (“sanguinando amore”), è al contempo la linfa vitale capace di trasformare e purificare. Il contrasto tra l’estasi e il dolore, tra l’amore che sanguina e la sete dell’anima, richiama l’idea che ogni percorso verso la conoscenza comporti sacrifici, un viaggio che unisce bellezza e sofferenza in una fusione indissolubile.

Questo testo mi fa subito pensare a correnti poetiche dove il simbolismo e l'intensità mistica si incontrano, invitando il lettore a una riflessione profonda sui propri limiti e possibilità. Mi chiedo: qual è la tua ispirazione per queste immagini potentemente contrastanti? Ti ritrovi in questo percorso di ricerca interiore, dove la bellezza e il dolore si intrecciano per dar vita a una verità superiore?


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Prima il riconoscimento di genocidio!


Il riconoscimento dello Stato di Palestina è l'ennesima odiosa ipocrisia di un mondo complice del genocidio del popolo palestinese compiuto dal diabolico stato nazi-sionista di Israele.

Francia, Germania, Canada, UK dichiarano di avere avviato, o meglio di volere avviare, “il processo di riconoscimento dello Stato di Palestina”. Ma certo, con calma e senza fretta: non c'è alcuna urgenza. Ma poi, quali risultati si possano raggiungere con il riconoscimento? E' chiarissimo: nessuno. Niente di niente.

Proprio per questo motivo gli squallidi Capi di Stato, Primi Ministri e Capi di Governo lo dichiarano, ostentando un gravità e una determinazione false, ipocrite. La verità è che non vogliono fare nulla e si nascondono dietro a insignificanti parole. Sono succubi della lobby nazi-sionista oggi al potere in Israele. Si guardano bene dall'utilizzare la parola genocidio.

Ma l'opinione pubblica non si beve le loro menzogne. Ne ha le tasche piene di dover assistere impotente ad un sterminio di innocenti. I nostri figli vedono i filmati e le immagini e ci chiedono perché avviene tutto ciò e perché non facciamo niente per fermarlo. Tra rabbia e frustrazione dobbiamo spiegargli ancora una volta che il mondo che abbiamo preso in prestito da loro 30 anni fa lo abbiamo reso una merda, che glielo restituiremo infinitamente peggiore di come lo avevamo preso.

La realtà è che i nostri Paesi, che si autoproclamano democratici e strenui difensori dei diritti umani, sono complici. Nessun politico e governante invoca le sole azioni che servirebbero adesso, subito: sanzioni e embargo. Senza sanzioni economiche e embargo totale siamo colpevoli quanto Israele.

Sono morte oltre 60 mila persone, civili. Ma gli analisti concordano nel considerare questo conteggio molto sottostimato. L'IDF, l'esercito israeliano, dichiara che tra i 14.000 e 17,000 fossero terroristi. Sicuramente c'è da credergli...

Nel frattempo lo sterminio pianificato va avanti. I morti per fame, sete e malattia aumentano vertiginosamente ogni giorno. Le organizzazioni umanitarie denunciano una catastrofe le cui conseguenze andranno avanti per anni. Ma i Governi europei ciarlano del futile e inutile riconoscimento, che non produrrà il benché minimo effetto concreto. Maledetti complici di assassini.

Now playing:“Sober”Undertow – Tool – 1994


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[vortex]ponto il confine metaponto falso è stato omesso tratturi compresi fanno] un versamento Munch nella] neve prende una lastra impressionata la] transizione economica decade la plastica dell'ortofrutta fa volute d'olio che] il Caravaggio nei mappali falso s'industria


noblogo.org/lucazanini/vortex-…



nemmeno io so quanti spazi in rete sto moltiplicando. d'altro canto la disseminazione è una prassi che ho sempre perseguito, e non vedo come e perché interrompermi ora che invecchio


noblogo.org/differx/nemmeno-io…



La monetizzazione dell'anima


Viviamo in una condizione in cui il valore e la rispettabilità di una persona sono valutati quasi esclusivamente in base al suo posto nella società. Lo stesso sistema ci corrompe, trasmettendoci sentimenti negativi come distacco, invidia ed egoismo, e promuovendo valori anti-umani. È difficile rendersi conto di quanto, con le nostre azioni quotidiane, siamo allo stesso tempo complici e vittime di un principio studiato per essere inarrestabile e inattaccabile.Siamo indotti a lavorare precariamente per il sistema, solitamente sfruttati e sottopagati, accontentandoci di quel briciolo di dignità che ci viene concesso, mentre ci neghiamo tempo ed energie preziose. La società può condizionarci fino al punto da spingerci alla disperazione, rendendoci disposti a svolgere qualsiasi mansione, pur di sopravvivere. Così una parte di noi potrà essere ulteriormente sfruttata.

Chi sarà abbastanza fortunato da ottenere una pensione, lo farà al prezzo di 30 o 40 anni della propria vita, passati a faticare quotidianamente in nome di un benessere futuro. Questo implica che la maggior parte di noi avrà agito nell’interesse di qualche oligarca, sempre pronto ad approfittarsi di un possibile sottoposto.

Secondo il sistema, quel sottoposto dovrebbe pure ringraziare per l’opportunità lavorativa, anche se insoddisfacente, alienante e priva di stimoli. L’essere umano vive per natura in equilibrio tra pregi e difetti, e può scegliere se orientarsi verso il bene o verso il male. Queste scelte sono di solito influenzate da un potente elemento esterno: i soldi. Come un catalizzatore, il denaro inquina rapidamente il nostro modo di essere, spingendoci verso il male per trarne profitto, è il principale motore dell’odio e dell’invidia, della competizione e del rancore. Ci si odia tra potenziali amici, tra parenti, tra colleghi.

Per chi ne ha in abbondanza, il denaro diventa un’egocentrica valvola di sfogo, uno strumento per dimostrare agli altri ciò che non possono permettersi. Questi facoltosi signori possono credersi superiori nel più facile dei modi. Gli ultra-ricchi hanno bisogno di sentirsi in un perenne stato di privilegio, elevati sopra il resto del mondo, gioendo del male comune che garantisce la loro posizione di vantaggio.

Se le persone appartenenti alla classe medio-bassa avessero l’occasione, potrebbero diventare i peggiori tra i ricchi, rivendicando con arroganza le fatiche e le sofferenze vissute. È sbagliato, ma umano. Guadagnare diventa una dipendenza psicologica: gratifica, fa sentire bene, e più soldi si hanno, più se ne desiderano. Macchine costose e vestiti di marca diventano maschere che nascondono ciò che realmente siamo: esseri umani con pregi, difetti, debolezze e difficoltà.

Per vivere nel lusso e nella bambagia, non serve un conto da sei o sette zeri: se le ricchezze fossero distribuite equamente, anche gli ultra-ricchi continuerebbero a vivere nel comfort, seppur rinunciando a una parte dei loro crediti. La presunzione di superiorità di un ultra-ricco non si compra: si ottiene solo con il potere.

Il denaro monetizza le nostre ambizioni, i nostri desideri, determina il valore e quanto siano realizzabili le nostre vite. Ogni aspetto della nostra quotidianità, materiale o intellettuale, è ormai legato al denaro. Questo ha un effetto devastante sulla nostra psiche, fragile e facilmente corruttibile. La forza del denaro riesce ad invertire i nostri criteri su ciò che è giusto o sbagliato, sia nel micro che nel macrocosmo. È il pretesto giusto per commettere azioni sbagliate.

Tutto ha un prezzo, anche le persone, e se ritieni di non essere mai stato comprabile, forse è solo perché non sei ancora stato valutato abbastanza. Le azioni più terribili della storia sono state commesse per denaro e potere. I soldi fanno girare il mondo e, di conseguenza, anche il nostro modo di spenderli determina l’andamento delle cose.

Il bisogno eccessivo di acquistare oggetti costosi e attraenti favorisce un mercato in cui solo gli oligarchi traggono un vero beneficio, mentre noi diventiamo sempre più dipendenti da ciò di cui ci circondiamo. L’aumento del potere d’acquisto può trasformare profondamente l’anima, convertendo i nostri valori e la nostra moralità, monetizzandoli. Per dimostrare queste tesi, faccio affidamento a comportamenti comuni, dove risiedono degli evidenti sentimenti di incoerenza, ingiustizia e aggressività. I supermercati sono un travolgente emblema di cattiveria, ignoranza e opportunismo.

Quando si acquista carne, si tende a spendere il meno possibile, anche tra i benestanti, ignorando il terribile processo industriale che comporta la schiavitù e la tortura di animali, pur di mantenere bassi i prezzi. La cattiveria appartiene al sistema orripilante, l‘ignoranza appartiene al consumatore consapevole ma disinteressato. L’opportunismo appartiene a entrambi, avidi e ingordi. Il denaro ci ha anche insegnato che “l’amore non ha età”. Succede spesso che anziani facoltosi, nel tramonto della loro vita, riescano a far “innamorare” ragazze più giovani di 30 o 40 anni, ricambiando il sentimento con una cospicua presenza nel testamento.

La priorità rimane il denaro, anche in un argomento così delicato come l’amore. Ciò che dovrebbe essere illecito diventa all’occasione accettabile, ciò che era sbagliato diventa giusto e giustificato. Le più terribili cose fatte per potere e denaro, traffico di droga, armi o esseri umani, sono gestite da persone nate potenzialmente buone che hanno venduto la propria anima, corrotte da guadagni seducenti e irrinunciabili. Le guerre stesse sono spesso promosse da fornitori d’armi, che per interessi economici nell’industria bellica, causano indirettamente la morte di migliaia di soldati e civili.

Quando si dispone di un grande potere d’acquisto, si innesca un lavaggio del cervello che orienta la propria vita esclusivamente verso l’accumulo di ricchezza. Anche la spiacevole morte di un parente può essere motivo di gioia, se accompagnata da un’importante eredità. Avidità e competizione possono intaccare anche i legami familiari più stretti. I soldi possono vincere anche i più forti sentimenti familiari. I soldi possono essere la priorità anche a discapito dei legami più stretti. Gli anziani, tra le categorie più vulnerabili della società, sono spesso vittime ambite di truffe e furti. Derubare un anziano o un disabile è una delle più gravi conseguenze generate dal baratto della propria anima per il vile denaro. Per questa gente esiste unicamente l‘opportunità per ottenerlo, anche se nelle maniere più subdole. Questa è una realtà piuttosto frequente, eppure nessuno nasce truffatore, ma molti lo diventano col tempo.

Un esempio meno gravoso sull’aspetto umano, ma comunque significativo, riguarda i veterinari. Molti giovani ambiscono a questa professione mossi dal desiderio di fare del bene incondizionatamente. Alcuni di loro studiano e lo diventano. Una volta adulti, scoprono che il mestiere è altamente remunerativo, e che curare un animale domestico è tutt’altro che economico, potremmo dire che può diventare un lusso. Alcuni finiscono per approfittarsi dei sentimenti dei padroni, chiedendo somme elevate, sapendo che l’alternativa è lasciarli morire. Loro stessi da giovani avrebbero agito seguendo un ideale di giustizia; poi, scoprendo il profitto, crescono e diventano parte del sistema.


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