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Un paese che lavora, ma non vive.


(186)

(LP1)

In Italia, il lavoro ha smesso di essere una garanzia contro la povertà. Nel 2025 oltre un lavoratore su dieci è in difficoltà economica pur avendo un impiego, con un tasso di rischio di povertà lavorativa che supera l’11% e colloca il paese stabilmente sopra la media europea.

È il volto dei cosiddetti #workingpoor, persone che timbrano il cartellino, consegnano pacchi, servono ai tavoli, assistono anziani e bambini, ma non riescono a condurre una vita dignitosa.​ Secondo i dati più recenti, oltre un lavoratore su dieci in Italia è a rischio povertà, con una quota di “working poor” che in alcune analisi si avvicina a un quarto della forza lavoro, se si considerano contratti part time involontari, stagionali e parasubordinati.

L’occupazione cresce (almeno nelle tabelle del #GovernoMeloni, quelle che spacciano per tavole della verità), ma cresce anche il numero di chi, pur lavorando, non supera la soglia dei mille euro al mese e non riesce a far fronte al costo della vita. Si parla di milioni di persone che vivono in condizioni di povertà o rischio di povertà nonostante un’occupazione, smentendo l’idea che “basta un lavoro” per stare al sicuro.​La povertà lavorativa non è solo una statistica: si traduce in vite più fragili, reti sociali che si spezzano, salute che si deteriora.

(LP2)

La mancanza di un reddito stabile e sufficiente costringe a rinunciare a uscite, viaggi, corsi per i figli, cure sportive o culturali, alimentando l’isolamento sociale. Per molte coppie, l’incertezza economica significa rinviare indefinitamente progetti di vita, come avere un figlio o andare a vivere da soli, mentre ansia e stress da precarietà diventano condizioni permanenti, con effetti documentati anche sulla salute mentale.​

Il lavoro povero incide anche sull’accesso alla sanità e ai servizi fondamentali. Cresce la quota di chi rinuncia a visite specialistiche, esami o terapie per i costi diretti o per l’impossibilità di assentarsi dal lavoro precario senza perdere giornate pagate a ore. Allo stesso modo, la povertà educativa si radica nelle famiglie dei “working poor”: bambini e ragazzi che non partecipano a attività extrascolastiche, corsi di lingua, musica o sport, e che vivono fin da piccoli il peso delle ristrettezze economiche.

Così la povertà lavorativa di oggi prepara le disuguaglianze di domani.​ La povertà lavorativa non è un incidente di percorso, ma il prodotto di scelte politiche precise. Tra il 2019 e il 2024 i salari reali hanno perso circa il 10,5% del potere d’acquisto, perché i prezzi sono saliti di oltre il 21% a fronte di retribuzioni cresciute di poco più del 10%, con una perdita secca per milioni di lavoratori.

In questo quadro, il rifiuto ostinato di introdurre un salario minimo legale espone chi lavora a un ricatto permanente: accettare qualsiasi paga, qualsiasi orario, qualsiasi condizione, pur di non scivolare nella povertà assoluta. Le promesse di “difendere i salari” e “mettere al centro il lavoro” restano slogan, mentre aumentano le persone costrette a rivolgersi a mense e associazioni pur avendo un contratto in tasca.​

Oggi in Italia la povertà ha cambiato volto: diminuiscono i senza dimora assistiti dalle reti solidali, aumentano invece i lavoratori poveri, i giovani, gli over 60, le famiglie numerose che non riescono più a far quadrare i conti. In un paese dove la spesa complessiva per il Natale 2025 è stimata in quasi 28 miliardi di euro, con oltre mille euro di budget medio a famiglia tra regali, cibo, viaggi e ristoranti, chi vive di salario basso guarda da fuori una festa costruita sul consumo. Per di questi lavoratori, le tredicesime servono solo a coprire affitti, bollette, debiti, ben lontano dai 200 euro a testa che in media si spenderanno per i regali.

Non c’è spazio per l’ipocrisia: uno Stato che accetta tutto questo senza garantire una retribuzione minima dignitosa e senza contrastare davvero la precarietà non è un arbitro distratto, ma un attore consapevole di una società che può permettersi cene, luci e shopping, ma non la dignità di chi quelle luci le accende e quelle cene le serve.

Auguri.

#Blog #Italia #LavoPovero #Diseguaglianze #Povertà #WorkingPoor #StatoSociale #Opinioni


noblogo.org/transit/un-paese-c…


Un paese che lavora, ma non vive.


(186)

(LP1)

In Italia, il lavoro ha smesso di essere una garanzia contro la povertà. Nel 2025 oltre un lavoratore su dieci è in difficoltà economica pur avendo un impiego, con un tasso di rischio di povertà lavorativa che supera l’11% e colloca il paese stabilmente sopra la media europea.

È il volto dei cosiddetti #workingpoor, persone che timbrano il cartellino, consegnano pacchi, servono ai tavoli, assistono anziani e bambini, ma non riescono a condurre una vita dignitosa.​ Secondo i dati più recenti, oltre un lavoratore su dieci in Italia è a rischio povertà, con una quota di “working poor” che in alcune analisi si avvicina a un quarto della forza lavoro, se si considerano contratti part time involontari, stagionali e parasubordinati.

L’occupazione cresce (almeno nelle tabelle del #GovernoMeloni, quelle che spacciano per tavole della verità), ma cresce anche il numero di chi, pur lavorando, non supera la soglia dei mille euro al mese e non riesce a far fronte al costo della vita. Si parla di milioni di persone che vivono in condizioni di povertà o rischio di povertà nonostante un’occupazione, smentendo l’idea che “basta un lavoro” per stare al sicuro.​La povertà lavorativa non è solo una statistica: si traduce in vite più fragili, reti sociali che si spezzano, salute che si deteriora.

(LP2)

La mancanza di un reddito stabile e sufficiente costringe a rinunciare a uscite, viaggi, corsi per i figli, cure sportive o culturali, alimentando l’isolamento sociale. Per molte coppie, l’incertezza economica significa rinviare indefinitamente progetti di vita, come avere un figlio o andare a vivere da soli, mentre ansia e stress da precarietà diventano condizioni permanenti, con effetti documentati anche sulla salute mentale.​

Il lavoro povero incide anche sull’accesso alla sanità e ai servizi fondamentali. Cresce la quota di chi rinuncia a visite specialistiche, esami o terapie per i costi diretti o per l’impossibilità di assentarsi dal lavoro precario senza perdere giornate pagate a ore. Allo stesso modo, la povertà educativa si radica nelle famiglie dei “working poor”: bambini e ragazzi che non partecipano a attività extrascolastiche, corsi di lingua, musica o sport, e che vivono fin da piccoli il peso delle ristrettezze economiche.

Così la povertà lavorativa di oggi prepara le disuguaglianze di domani.​ La povertà lavorativa non è un incidente di percorso, ma il prodotto di scelte politiche precise. Tra il 2019 e il 2024 i salari reali hanno perso circa il 10,5% del potere d’acquisto, perché i prezzi sono saliti di oltre il 21% a fronte di retribuzioni cresciute di poco più del 10%, con una perdita secca per milioni di lavoratori.

In questo quadro, il rifiuto ostinato di introdurre un salario minimo legale espone chi lavora a un ricatto permanente: accettare qualsiasi paga, qualsiasi orario, qualsiasi condizione, pur di non scivolare nella povertà assoluta. Le promesse di “difendere i salari” e “mettere al centro il lavoro” restano slogan, mentre aumentano le persone costrette a rivolgersi a mense e associazioni pur avendo un contratto in tasca.​

Oggi in Italia la povertà ha cambiato volto: diminuiscono i senza dimora assistiti dalle reti solidali, aumentano invece i lavoratori poveri, i giovani, gli over 60, le famiglie numerose che non riescono più a far quadrare i conti. In un paese dove la spesa complessiva per il Natale 2025 è stimata in quasi 28 miliardi di euro, con oltre mille euro di budget medio a famiglia tra regali, cibo, viaggi e ristoranti, chi vive di salario basso guarda da fuori una festa costruita sul consumo. Per di questi lavoratori, le tredicesime servono solo a coprire affitti, bollette, debiti, ben lontano dai 200 euro a testa che in media si spenderanno per i regali.

Non c’è spazio per l’ipocrisia: uno Stato che accetta tutto questo senza garantire una retribuzione minima dignitosa e senza contrastare davvero la precarietà non è un arbitro distratto, ma un attore consapevole di una società che può permettersi cene, luci e shopping, ma non la dignità di chi quelle luci le accende e quelle cene le serve.

Auguri.

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Gli scritti sono tutelati da “Creative Commons” (qui)

Tutte le opinioni qui riportate sono da considerarsi personali. Per eventuali problemi riscontrati con i testi, si prega di scrivere a: corubomatt@gmail.com




Un paese che lavora, ma non vive.


(186)

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In Italia, il lavoro ha smesso di essere una garanzia contro la povertà. Nel 2025 oltre un lavoratore su dieci è in difficoltà economica pur avendo un impiego, con un tasso di rischio di povertà lavorativa che supera l’11% e colloca il paese stabilmente sopra la media europea.

È il volto dei cosiddetti #workingpoor, persone che timbrano il cartellino, consegnano pacchi, servono ai tavoli, assistono anziani e bambini, ma non riescono a condurre una vita dignitosa.​ Secondo i dati più recenti, oltre un lavoratore su dieci in Italia è a rischio povertà, con una quota di “working poor” che in alcune analisi si avvicina a un quarto della forza lavoro, se si considerano contratti part time involontari, stagionali e parasubordinati.

L’occupazione cresce (almeno nelle tabelle del #GovernoMeloni, quelle che spacciano per tavole della verità), ma cresce anche il numero di chi, pur lavorando, non supera la soglia dei mille euro al mese e non riesce a far fronte al costo della vita. Si parla di milioni di persone che vivono in condizioni di povertà o rischio di povertà nonostante un’occupazione, smentendo l’idea che “basta un lavoro” per stare al sicuro.​La povertà lavorativa non è solo una statistica: si traduce in vite più fragili, reti sociali che si spezzano, salute che si deteriora.

(LP2)

La mancanza di un reddito stabile e sufficiente costringe a rinunciare a uscite, viaggi, corsi per i figli, cure sportive o culturali, alimentando l’isolamento sociale. Per molte coppie, l’incertezza economica significa rinviare indefinitamente progetti di vita, come avere un figlio o andare a vivere da soli, mentre ansia e stress da precarietà diventano condizioni permanenti, con effetti documentati anche sulla salute mentale.​

Il lavoro povero incide anche sull’accesso alla sanità e ai servizi fondamentali. Cresce la quota di chi rinuncia a visite specialistiche, esami o terapie per i costi diretti o per l’impossibilità di assentarsi dal lavoro precario senza perdere giornate pagate a ore. Allo stesso modo, la povertà educativa si radica nelle famiglie dei “working poor”: bambini e ragazzi che non partecipano a attività extrascolastiche, corsi di lingua, musica o sport, e che vivono fin da piccoli il peso delle ristrettezze economiche.

Così la povertà lavorativa di oggi prepara le disuguaglianze di domani.​ La povertà lavorativa non è un incidente di percorso, ma il prodotto di scelte politiche precise. Tra il 2019 e il 2024 i salari reali hanno perso circa il 10,5% del potere d’acquisto, perché i prezzi sono saliti di oltre il 21% a fronte di retribuzioni cresciute di poco più del 10%, con una perdita secca per milioni di lavoratori.

In questo quadro, il rifiuto ostinato di introdurre un salario minimo legale espone chi lavora a un ricatto permanente: accettare qualsiasi paga, qualsiasi orario, qualsiasi condizione, pur di non scivolare nella povertà assoluta. Le promesse di “difendere i salari” e “mettere al centro il lavoro” restano slogan, mentre aumentano le persone costrette a rivolgersi a mense e associazioni pur avendo un contratto in tasca.​

Oggi in Italia la povertà ha cambiato volto: diminuiscono i senza dimora assistiti dalle reti solidali, aumentano invece i lavoratori poveri, i giovani, gli over 60, le famiglie numerose che non riescono più a far quadrare i conti. In un paese dove la spesa complessiva per il Natale 2025 è stimata in quasi 28 miliardi di euro, con oltre mille euro di budget medio a famiglia tra regali, cibo, viaggi e ristoranti, chi vive di salario basso guarda da fuori una festa costruita sul consumo. Per di questi lavoratori, le tredicesime servono solo a coprire affitti, bollette, debiti, ben lontano dai 200 euro a testa che in media si spenderanno per i regali.

Non c’è spazio per l’ipocrisia: uno Stato che accetta tutto questo senza garantire una retribuzione minima dignitosa e senza contrastare davvero la precarietà non è un arbitro distratto, ma un attore consapevole di una società che può permettersi cene, luci e shopping, ma non la dignità di chi quelle luci le accende e quelle cene le serve.

Auguri.

#Blog #Italia #LavoPovero #Diseguaglianze #Povertà #WorkingPoor #StatoSociale #Opinioni


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Un paese che lavora, ma non vive.


(186)

(LP1)

In Italia, il lavoro ha smesso di essere una garanzia contro la povertà. Nel 2025 oltre un lavoratore su dieci è in difficoltà economica pur avendo un impiego, con un tasso di rischio di povertà lavorativa che supera l’11% e colloca il paese stabilmente sopra la media europea.

È il volto dei cosiddetti #workingpoor, persone che timbrano il cartellino, consegnano pacchi, servono ai tavoli, assistono anziani e bambini, ma non riescono a condurre una vita dignitosa.​ Secondo i dati più recenti, oltre un lavoratore su dieci in Italia è a rischio povertà, con una quota di “working poor” che in alcune analisi si avvicina a un quarto della forza lavoro, se si considerano contratti part time involontari, stagionali e parasubordinati.

L’occupazione cresce (almeno nelle tabelle del #GovernoMeloni, quelle che spacciano per tavole della verità), ma cresce anche il numero di chi, pur lavorando, non supera la soglia dei mille euro al mese e non riesce a far fronte al costo della vita. Si parla di milioni di persone che vivono in condizioni di povertà o rischio di povertà nonostante un’occupazione, smentendo l’idea che “basta un lavoro” per stare al sicuro.​La povertà lavorativa non è solo una statistica: si traduce in vite più fragili, reti sociali che si spezzano, salute che si deteriora.

(LP2)

La mancanza di un reddito stabile e sufficiente costringe a rinunciare a uscite, viaggi, corsi per i figli, cure sportive o culturali, alimentando l’isolamento sociale. Per molte coppie, l’incertezza economica significa rinviare indefinitamente progetti di vita, come avere un figlio o andare a vivere da soli, mentre ansia e stress da precarietà diventano condizioni permanenti, con effetti documentati anche sulla salute mentale.​

Il lavoro povero incide anche sull’accesso alla sanità e ai servizi fondamentali. Cresce la quota di chi rinuncia a visite specialistiche, esami o terapie per i costi diretti o per l’impossibilità di assentarsi dal lavoro precario senza perdere giornate pagate a ore. Allo stesso modo, la povertà educativa si radica nelle famiglie dei “working poor”: bambini e ragazzi che non partecipano a attività extrascolastiche, corsi di lingua, musica o sport, e che vivono fin da piccoli il peso delle ristrettezze economiche.

Così la povertà lavorativa di oggi prepara le disuguaglianze di domani.​ La povertà lavorativa non è un incidente di percorso, ma il prodotto di scelte politiche precise. Tra il 2019 e il 2024 i salari reali hanno perso circa il 10,5% del potere d’acquisto, perché i prezzi sono saliti di oltre il 21% a fronte di retribuzioni cresciute di poco più del 10%, con una perdita secca per milioni di lavoratori.

In questo quadro, il rifiuto ostinato di introdurre un salario minimo legale espone chi lavora a un ricatto permanente: accettare qualsiasi paga, qualsiasi orario, qualsiasi condizione, pur di non scivolare nella povertà assoluta. Le promesse di “difendere i salari” e “mettere al centro il lavoro” restano slogan, mentre aumentano le persone costrette a rivolgersi a mense e associazioni pur avendo un contratto in tasca.​

Oggi in Italia la povertà ha cambiato volto: diminuiscono i senza dimora assistiti dalle reti solidali, aumentano invece i lavoratori poveri, i giovani, gli over 60, le famiglie numerose che non riescono più a far quadrare i conti. In un paese dove la spesa complessiva per il Natale 2025 è stimata in quasi 28 miliardi di euro, con oltre mille euro di budget medio a famiglia tra regali, cibo, viaggi e ristoranti, chi vive di salario basso guarda da fuori una festa costruita sul consumo. Per di questi lavoratori, le tredicesime servono solo a coprire affitti, bollette, debiti, ben lontano dai 200 euro a testa che in media si spenderanno per i regali.

Non c’è spazio per l’ipocrisia: uno Stato che accetta tutto questo senza garantire una retribuzione minima dignitosa e senza contrastare davvero la precarietà non è un arbitro distratto, ma un attore consapevole di una società che può permettersi cene, luci e shopping, ma non la dignità di chi quelle luci le accende e quelle cene le serve.

Auguri.

#Blog #Italia #LavoPovero #Diseguaglianze #Povertà #WorkingPoor #StatoSociale #Opinioni

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Tutte le opinioni qui riportate sono da considerarsi personali. Per eventuali problemi riscontrati con i testi, si prega di scrivere a: corubomatt@gmail.com




"Colletta alimentare": quando la solidarietà supplisce alle assenze dello Stato.


(179)

(CA)

La “Colletta alimentare” si svolge ogni anno in #Italia perché, nonostante i proclami istituzionali, milioni di persone sono costrette a scegliere se tagliare sulle spese alimentari per sopravvivere, segno di un abbandono da parte dello Stato che dovrebbe garantire i diritti fondamentali. Nel 2024, oltre 5,9 milioni di residenti (quasi il 10% della popolazione) vivono una condizione di #povertà alimentare, mentre più di 4 milioni di famiglie sono a rischio, numeri che aumentano nelle regioni del Sud come Calabria (31,7%) e Sardegna (27,2%).​

L’iniziativa nasce dalla presa d’atto che un aiuto concreto non può più aspettare politiche pubbliche che spesso si rivelano insufficienti. Dal 1997, ogni novembre, decine di migliaia di volontari presidiano oltre 12.000 supermercati, invitando i cittadini a donare alimenti a lunga conservazione da destinare a chi non può permetterseli. Il banco alimentare distribuisce, poi, queste donazioni, integrandole con fondi e surplus europei, raggiungendo più di 1,7 milioni di persone ogni anno.​

Il vero problema è che la “Colletta alimentare” si è resa necessaria perché lo Stato appare incapace di rispondere a un bisogno primario: la sicurezza alimentare. Nel 2024 i prezzi dei beni alimentari sono aumentati dell' 11,8%, ma il welfare pubblico non è stato in grado di tutelare le fasce più vulnerabili. Così, la solidarietà privata si ritrova a coprire un vuoto creato da una politica che preferisce ignorare la realtà dei “nuovi poveri”, spesso invisibili alle statistiche ma quotidianamente in fila per un pacco di pasta o una scatola di legumi.​

Solo l'anno scorso, grazie a più di 155.000 volontari, sono state raccolte oltre 119.000 tonnellate di cibo, aiutate quasi 1,8 milioni di persone e coinvolti più di 5 milioni di donatori in tutta Italia. Questi numeri descrivono una società civile che prova a tappare falle lasciate aperte dal sistema pubblico, facendo del gesto solidale l’ultimo baluardo di dignità per chi è stato dimenticato.​

#CollettaAlimentare #Italia #Blog #Opinioni #Povertà #Diseguaglianze


noblogo.org/transit/colletta-a…


"Colletta alimentare": quando la solidarietà supplisce alle assenze dello Stato.


(179)

(CA)

La “Colletta alimentare” si svolge ogni anno in #Italia perché, nonostante i proclami istituzionali, milioni di persone sono costrette a scegliere se tagliare sulle spese alimentari per sopravvivere, segno di un abbandono da parte dello Stato che dovrebbe garantire i diritti fondamentali. Nel 2024, oltre 5,9 milioni di residenti (quasi il 10% della popolazione) vivono una condizione di #povertà alimentare, mentre più di 4 milioni di famiglie sono a rischio, numeri che aumentano nelle regioni del Sud come Calabria (31,7%) e Sardegna (27,2%).​

L’iniziativa nasce dalla presa d’atto che un aiuto concreto non può più aspettare politiche pubbliche che spesso si rivelano insufficienti. Dal 1997, ogni novembre, decine di migliaia di volontari presidiano oltre 12.000 supermercati, invitando i cittadini a donare alimenti a lunga conservazione da destinare a chi non può permetterseli. Il banco alimentare distribuisce, poi, queste donazioni, integrandole con fondi e surplus europei, raggiungendo più di 1,7 milioni di persone ogni anno.​

Il vero problema è che la “Colletta alimentare” si è resa necessaria perché lo Stato appare incapace di rispondere a un bisogno primario: la sicurezza alimentare. Nel 2024 i prezzi dei beni alimentari sono aumentati dell' 11,8%, ma il welfare pubblico non è stato in grado di tutelare le fasce più vulnerabili. Così, la solidarietà privata si ritrova a coprire un vuoto creato da una politica che preferisce ignorare la realtà dei “nuovi poveri”, spesso invisibili alle statistiche ma quotidianamente in fila per un pacco di pasta o una scatola di legumi.​

Solo l'anno scorso, grazie a più di 155.000 volontari, sono state raccolte oltre 119.000 tonnellate di cibo, aiutate quasi 1,8 milioni di persone e coinvolti più di 5 milioni di donatori in tutta Italia. Questi numeri descrivono una società civile che prova a tappare falle lasciate aperte dal sistema pubblico, facendo del gesto solidale l’ultimo baluardo di dignità per chi è stato dimenticato.​

#CollettaAlimentare #Italia #Blog #Opinioni #Povertà #Diseguaglianze

Mastodon: @alda7069@mastodon.unoTelegram: t.me/transitblogFriendica: @danmatt@poliverso.orgBlue Sky: bsky.app/profile/mattiolidanie…Bio Site (tutto in un posto solo, diamine): bio.site/danielemattioli

Gli scritti sono tutelati da “Creative Commons” (qui)

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