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🌙 Quando non riesci a dormire 😴, e ti discriminano per questo 🚫.

Sembrava che la vita mi stesse abbandonando. In treno, qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme. Figurati come potevo sentirmi.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 12), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto le luci e le ombre del mio momento di massima evoluzione musicale e anche alcuni miei pensieri sul sonno.

Ti è mai capitato di pensare al sonno? Quella cosa che da giovane dai per scontata, ma andando avanti con gli anni ti ritrovi a desiderarlo e a trovarlo con difficoltà? Secondo me viviamo in una società che ha un rapporto molto conflittuale con il sonno: da un lato tutti abbiamo sempre più problemi di sonno e, dall'altro, chi dorme viene criticato. Se ci pensi, dormire ha un significato metaforico abbastanza brutto nella nostra lingua, nella nostra società.

Quando diciamo che qualcuno dorme, in tanti casi stiamo dicendo che è poco sveglio, che non è una persona intelligente. Quando abbiamo qualcosa di importante da fare, invece, diciamo che non dobbiamo “dormirci sopra”, dando automaticamente un significato negativo al sonno. Quando una persona vive nel mondo dei sogni, significa che non sta coi piedi per terra, non è una persona concreta. Pensaci bene: quanti modi di dire conosci che sono legati al sonno come cosa negativa? Quanti ne ho dimenticati? Se ne conosci altri, fammelo sapere con un commento e lo leggerò davvero con molto piacere.

Quindi, dicevamo, da un lato tutti vorremmo dormire e, dall'altro, chi dorme tanto viene giudicato come poco intelligente o sfaticato. Poi ci siamo noi, malati invisibili che, per non sbagliarci, riusciamo sia a non dormire sia a dormire. Non dormiamo di notte per i motivi più strani e fantasiosi e poi dormiamo di giorno, essendo stravolti dalla notte in cui abbiamo fatto di tutto tranne che riposare. Anzi, usiamo pure il plurale: le notti sono tutte così per noi. Il giudizio della società nei nostri confronti, quindi, è una cosa abbastanza automatica, vista la nostra cultura di partenza. Anche questo è un modo per essere malati invisibili: la carenza di sonno non si vede, provoca effetti che non saltano all'occhio e l'insonnia è una brutta bestia, che sia l'ansia, o la psoriasi, o l'artrite a tenerti sveglio, qualsiasi cosa. Quindi, in sostanza, per noi non solo non c'è mai pace neanche da questo punto di vista, ma non veniamo visti di buon occhio se mostriamo sonnolenza o stanchezza.

Ti raccontavo della mia situazione negli episodi precedenti: praticamente quasi ogni notte è un incubo per me, immagino anche per te se soffri delle mie stesse patologie, perché, nonostante io sia stanchissimo, spesso non riesco a chiudere occhio prima dell'una del mattino. Questa cosa è inspiegabile, ma è così. Dovendo andare al lavoro e con tutta la trafila che devo fare per svegliarmi, che ti raccontavo nell'episodio 2 del podcast, diventa impossibile svegliarsi più tardi delle 6 per essere al lavoro alle 8:00/8:15 e considera che vivo a 20 minuti di bici dall'ufficio. Ormai sono così sregolato che non ci sono bioritmi che tengano: nei fine settimana mi sveglio comunque prestissimo e, anche quando faccio qualcosa di particolarmente stancante, non c'è nulla da fare, fino all'una non se ne parla.

Come ti dicevo, se hai ascoltato il secondo episodio del podcast, ricorderai che il mio problema, come quello degli altri malati invisibili, non è tanto ansiogeno, ma è causato da mille fattori: dolore, prurito, bassissima soglia di tolleranza al rumore e così via. E quindi qui mi rivolgo in particolare agli amici e conoscenti che, in totale buona fede, mi dicono se ho già provato con la melatonina o con qualche ansiolitico. Sì, abbiamo già provato con la melatonina e anche con gli ansiolitici, ma dormire bene resta un sogno per noi, che a volte si avvera, almeno per me, e ti racconterò come, ma non è così frequente. Il fatto è che i nostri non sono problemi di ansia, o almeno non solo quelli, la situazione è molto più complessa di così.

Ricordo, però, momenti della vita in cui non era così, anzi era molto più facile dormire. Ci sono stati momenti in cui per me dormire era ancora una cosa bella, piacevole, naturale. Quando mi avvicinavo ai 30 anni, ad esempio; erano gli anni tra il 2004 e il 2007 più o meno, dopo varie peripezie acrobatiche per distribuire il mio curriculum vitae in tutto l'emisfero nord del pianeta, finalmente avevo trovato un buon impiego, ma c'era un problema: era a Bologna e dalle colline di Parma, dove vivevo in quegli anni, fino al centro del capoluogo emiliano, beh, c'era tanta strada. Mangiare bisogna pur mangiare e, alla fine, senza un diploma [universitario] era difficile pretendere di meglio. Accettai dunque il lavoro e iniziai a fare il pendolare: in un'ora arrivavo alla stazione di Reggio Emilia, dove prendevo il treno e poi un'altra ora fino a Bologna in treno e poi un'altra mezz'ora a piedi fino all'ufficio, vicinissimo alle Due Torri, in centro. Una lunghissima tirata sia all'andata che al ritorno, che mi stancava moltissimo, di notte, però, dormivo beatamente. In quegli anni ne approfittavo, anzi, per dormire anche in treno, sia all'andata che al ritorno, mettendo una sveglia sul mio cellulare nuovo di zecca per evitare di rimanerci sopra.

Quel cellulare mi aiutava tantissimo a passare il tempo: era un modello tutto blu a conchiglia ed era uno dei primi a basso costo in grado di leggere gli MP3 e usarli come suoneria: avanguardia pura per quegli anni. La cosa che preferivo, però, era il mio iPod, uno dei primi, dove iniziai ad innamorarmi dei podcast. Con un piccolo sforzo, potevo ascoltare la musica e cose nuove per ore su questo dispositivo facilmente trasportabile che per me aveva qualcosa di magico. Naturalmente c'erano anche i libri a tenermi compagnia, ma, come dicevo, tanta, tanta musica. In quegli anni uscirono molti album di un paio di chitarristi che in poco tempo erano diventati i miei preferiti. Si trattava di Joe Satriani e Steve Vai, entrambi statunitensi, ma con radici italiane. Negli episodi precedenti del podcast ti ho già fatto i loro nomi. Se sei un chitarrista, senz'altro li conoscerai perché sono due dei pezzi grossi del nostro tempo per quanto riguarda la chitarra elettrica. Quei due signori sono individui molto influenti che, se non ci fossero stati, la chitarra moderna non sarebbe la stessa cosa.

Come dicevo, entrambi hanno lontane origini italiane pur essendo statunitensi. Te ne parlerò brevemente perché è importante per la mia storia farti capire chi siano. Joe Satriani, nel corso degli anni, ha insegnato a molti altri chitarristi di grande successo, come quello dei Metallica, ad esempio, cioè Kirk Hammett, e lo stesso Steve Vai ha portato nel mondo della chitarra moderna uno stile che è semplice soltanto all'apparenza: melodie canticchiabili con la voce, ma suonate divinamente e, a ben guardare, proprio difficili da suonare, quantomeno come le suona lui. Uno dei suoi brani famosi, ad esempio, è un pezzo iconico che tutti ricordiamo: la colonna sonora del film Top Gun.

Avendo ascoltato Satriani, il passo per conoscere Steve Vai è stato brevissimo. Nonostante Satriani sia stato il suo maestro, Steve Vai ha uno stile completamente diverso. Nei suoi dischi trovano posto suoni tremendamente elaborati, ma che sembrano quanto di più naturale esista. La sua chitarra sembra quasi possederlo, piuttosto che il contrario. È capace di velocità supersoniche, ma anche di avere un timbro speciale che lo distingue da chiunque altro e, naturalmente, una grande capacità di comporre brani e melodie. Steve sa leggere e scrivere perfettamente la musica fin dalla tenera età e il suo cervello, come ti raccontavo anche del mio, anche se non vorrei fare paragoni azzardati, ha la capacità di gestire note anche senza suonarle; ha la capacità di gestirle, diciamo, di sentirle nella sua testa. Nella sua carriera ha scritto pezzi per intere orchestre senza toccare neanche uno strumento, ma la sua musica di solito è quanto di più lontano dal genere orchestrale si possa immaginare. Come il sonno, la sua musica può essere delicata e inquietante, a volte nello stesso tempo. Prova a cercare qualche suo pezzo su internet e capirai di cosa parlo. A volte sembra ascoltabile e un disco intero, in effetti, si ascolta a fatica tutto in una volta, ma lentamente, almeno da chitarrista, ti chiedi: “Ma come fa a fare quei suoni? Cioè, com'è possibile che quella sia una chitarra?”. Sentire per credere.

Per me era naturale che, a forza di ascoltare la musica di Steve Vai, mi venisse voglia di suonarla. Con la mia chitarra del '94, che si prestava molto bene a quel tipo di musica, il passo fu ancora più breve. Le cose che ascoltavo sui dischi dello “zio Steve” mi erano sembrate subito inarrivabili e lo erano. Era frustrante, in un certo senso. Mi chiudevo nel garage della mia casa di Reggio Emilia, dove mi ero trasferito...cioè nella casa, non nel garage...e alla fine suonavo, suonavo, suonavo davanti al mio computer, dove la musica veniva artificiosamente rallentata per cercare di renderla più facilmente suonabile per me. Mi ricordo che mi sedevo alla scrivania spesso alle due del pomeriggio, magari in estate, nei giorni liberi, suonavo e, quando guardavo fuori dalla finestra, mi rendevo conto che era arrivato il buio, era buio pesto e stavo suonando lì da solo al buio da ore. Proprio come mi capitava quando vivevo coi miei nelle montagne. Suonare mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ecco quanto era importante per me.

Nonostante questo, nonostante questo impegno, la musica di Steve Vai restava irraggiungibile per le mie dita. Suonavo bene i Led Zeppelin e anche tante cose dei Pink Floyd, ero felicissimo di questo, ero al settimo cielo per le capacità che avevo appreso tutto sommato da solo, ma Steve Vai...niente da fare, era proprio di un altro livello e mi frustrava moltissimo non poterlo suonare.

A furia di viaggi in treno arrivarono persino i 30 anni, tra mille stress sul lavoro. Mi capitava già di non dormire e la causa allora era semplicemente l'ansia. Il pendolarismo era lungo e pesante e, in più, da qualche anno mi ero anche iscritto in palestra. Adoravo come il mio corpo reagisse agli allenamenti. Sul lavoro ero un punto di riferimento per l'assistenza informatica e anche questo mi rendeva tutto tronfio e sicuro di me; diciamolo pure, presuntuoso su alcune cose. Ero persino un po' dittatoriale e sicuramente i colleghi dell'epoca, se sono in ascolto, potranno darmi ragione. Quando ero convinto che una soluzione fosse la migliore, per esempio adottare un nuovo software in particolare ci mettevo tutto me stesso per implementarlo. E fin qui niente di male, ma, se era il caso e potevo farlo, imponevo le mie scelte. In fondo io ero l'esperto lì, i colleghi avrebbero dovuto imparare. Intendiamoci, trovare soluzioni ai problemi e implementarle è uno dei compiti degli informatici e sì, spesso siamo noi quelli che decidono che cosa implementare e come. Comunque, abbiamo una pesante voce in capitolo nel processo, ma io ci mettevo un po' troppo zelo, spesso mi rendevo antipatico e oggi non ho alcun dubbio su questo, ma allora mi veniva spontaneo a credermi un po' migliore degli altri. D'altra parte, non solo sapevo fare un sacco di cose, ma suonavo sempre meglio, sapevo suonare il basso, la batteria, tante cose. Quanti potevano dire di saperlo fare?

Arrivato, ai 30 anni, decisi di iscrivermi all'università, ingegneria informatica, niente meno. Certamente mi sarebbe stata utile, magari anche per trovare un nuovo lavoro più vicino a casa, magari anche più soddisfacente. Non avevo messo in conto, però, che studiare e lavorare a tempo pieno era pesantissimo. Conoscevo così bene la musica di Steve Vai ormai che in treno me la sparavo in cuffia insieme a Satriani, a Guthrie Govan, un altro grande chitarrista contemporaneo, e a tutti gli altri. Mi faceva l'effetto dei Deep Purple quando tornavo a casa dalle scuole superiori. Mi ci ritrovavo così bene che ormai mi rilassava, mi faceva venire voglia di dormire, ma mi imponevo di stare sveglio e, isolandomi dalla confusione del treno, sceglievo io una confusione che conoscevo e che mi consentiva di studiare per l'università. Le serate e i fine settimana liberi erano interamente dedicati allo studio, ma ogni minuto che avevo libero lo passavo sulla chitarra.

All'improvviso, senza che ci fosse nessun segnale ad avvisarmi, accadde qualcosa di veramente terribile per me. Le mie dita iniziarono ad aprirsi, la pelle delle mani perdeva elasticità, i polpastrelli diventavano duri e si spaccavano come se un coltello li avesse tagliati e, per un chitarrista, i polpastrelli sono tutto. Queste lesioni di cui ti sto raccontando sanguinavano, si infettavano e non guarivano più. Suonare stava diventando impossibile. Toccando le corde sottilissime della chitarra elettrica, spesso queste si incastravano nei tagli sui polpastrelli e li aprivano ancora di più. Non sapevo veramente cosa fare. Suonare con i cerotti era impossibile. Un chitarrista è un tutt'uno con le corde, deve poterle sentire, deve tirarle, deve maltrattarle o accarezzarle sapendo dosare bene la forza per tutti i sentimenti diversi che vuole esprimere attraverso lo strumento. Tentai di tutto, dai cerotti spray ai guanti, a creme varie per fare guarire le dita più in fretta, ma niente, nessun risultato apprezzabile.

In quello stesso periodo, una specie di grande macchia violacea che avevo sulla tibia e che mi prudeva già da qualche anno, prese ad allargarsi fino a ricoprire tutta la tibia e una parte del polpaccio, dal ginocchio alla caviglia. Altre due macchie dello stesso colore comparvero al centro dei palmi delle mani. Anche queste, come le dita, come la tibia, si spaccavano e sanguinavano. Immagina la mia gioia nel girare su e giù per i treni con ferite aperte!

Il medico mi mandò da una dermatologa piuttosto in gamba nella nostra regione e lei, dopo avere fatto qualche test e sentita la mia storia, emise un verdetto: allergia al nichel. Le corde della chitarra elettrica, in effetti, sono di nichel. Nella mia testa tutto cominciava ad avere un senso. Toccavo continuamente del nichel nella chitarra, nelle posate e nei computer che configuravo per lavoro, e anche le monete che tenevo in tasca, in fondo, erano anch'esse di nichel. Questo, a detta della dermatologa, poteva benissimo causare una reazione allergica più giù lungo la tibia e sulle mani, e poi quella era una zona colpita dall'ustione dieci anni prima (la tibia, intendo), e quindi tutto poteva succedere a quella povera pelle.

Cominciai quindi a trattare il problema come se fosse un'allergia.

Localmente mettevo del cortisone e, dopo un po', passai alle cose naturali. L'estratto di ribes sembrava farmi ottenere qualche piccolo risultato, ma solo per qualche mese. Funzionò. Si pensò allora che fosse celiachia e, anche in quel caso, migliorai un pochino con la dieta senza glutine, ma non del tutto. Si pensò all'HIV, ma risultai negativo. Si pensò allo stress, ma niente da fare, niente di tutto questo sembrava essere la risposta.

Un po' frustrato, pensai che l'unica soluzione possibile era quella di suonare ancora di più, sacrificando le dita. Vivevo quindi con i cerotti perché le dita sanguinavano sempre. Penso di avere alimentato da solo l'industria dei cerotti fino a pochi anni fa. Me li toglievo soltanto per suonare, i tagli si aprivano, sanguinavano e a quel punto io smettevo di suonare, ma non mi importava, appena potevo ricominciavo. Ogni nota era un bruciore infinito, con le corde che spesso mi penetravano nei polpastrelli. Chi ha visto suonare un chitarrista avrà notato che le corde spesso vanno percorse con il dito lungo tutta la loro lunghezza. Un martirio. Mi ero abituato a suonare in tanti nuovi modi. Se il polpastrello aveva un taglio a destra, mi abituavo a spostare il dito e a usare la parte sinistra del dito e viceversa, se invece era spaccato ai lati, cercavo di usare la punta quando possibile oppure direttamente l'unghia. A un certo punto dovetti rallentare perché capii che avrei perso le dita a furia di infezioni. Ti racconto tutto questo non per disgustarti, ma per farti capire quanto fosse importante per me lo strumento. Non mi fermavo di fronte a niente. Non so se anche tu nella tua vita hai trovato qualcosa che ti piace e che ti completava così tanto da non farti sentire i problemi. Questo per me era la chitarra.

Ma nel 2010 accadde un altro evento terribile, come se non fossero bastati i precedenti.

All'improvviso non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ma intendo letteralmente, non ne avevo la forza né le energie. È difficile spiegarti come mi sentissi, ma tutto partì dalla palestra. Un bilanciere con 80 kg che solitamente alzavo come se fosse uno scherzo mi parve all'improvviso pesante come una montagna, non c'era modo di gestirlo. Peccato che in quel frangente l'avessi già sollevato e fosse direttamente sopra la mia testa e in qualche modo avrei dovuto riportarlo in basso. Ci provai, ma ci rimasi sotto e, per fortuna, senza danni gravi quella volta. Chi era lì mi vide in difficoltà e mi aiutò immediatamente, ma io non riuscivo a spiegarmelo il motivo.

Qualche giorno dopo non riuscivo a risvegliarmi al mattino come se fossi drogato, fare una scala era un'impresa, dovevo fermarmi due volte ogni 10 gradini, mantenere la concentrazione sembrava qualcosa di impossibile, mi addormentavo a volte anche guidando e anche mentre parlavo con i colleghi al lavoro. Immaginati cosa avranno pensato di me. Sembrava che la vita mi stesse abbandonando in treno. Qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme; figurati come potevo sentirmi.

In tutto questo, per i miei familiari più o meno stretti era impossibile che io avessi qualcosa di serio. Più o meno esplicitamente mi stavano comunicando che, secondo loro, mi stavo inventando tutto, stavo fingendo per non mettere a posto la legna nella cantina, era chiaro, per non andarli a trovare, era evidente, per non andare alle tanto pubblicizzate riunioni dei gruppi spirituali che continuavo a frequentare. Mi sentivo tremendamente confuso, non capivo cosa stesse succedendo. Non c'era una risposta e io avevo solo 30 anni. Com'era possibile tutto questo? Era questa la vecchiaia?

I miei amici mi chiedevano di uscire e accettavo sempre, poi all'ultimo non potevo presentarmi alle cene, alle uscite, ero già esausto alle 7:00 di sera. Se tu che mi ascolti sei sano, ti ricordi com'erano i tuoi 30 anni? Ti chiederei la gentilezza di farmelo sapere con un commento perché io non ho conosciuto i 30 anni come tutti gli altri e quindi per me è importante sapere qual è, diciamo, la normalità.

Non ci volle molto prima che mi venisse l'ansia. Come potevo impegnarmi con i miei amici se poi non potevo uscire con loro? Iniziai quindi a non programmare più nulla, evitavo il problema direttamente. Conoscevo solo il lavoro e il sonno, il sonno e il lavoro. Mi ero completamente ritirato dalla mia vita sociale, sabati e domeniche interminabili a letto. Il mio era un sonno malato, innaturale, narcotico. Studiare era diventato impossibile, tentavo di suonare qualcosa, ma riuscivo a malapena a stringere il manico e le dita erano lente, non rispondevano alla velocità che io avevo in testa.

Chiesi consiglio a più di un medico, ma nessuno riusciva a unire i puntini. Alla fine, un otorinolaringoiatra mi disse che la causa di tutto questo poteva essere nei denti del giudizio: erano in brutte condizioni e sarebbero stati da togliere, ma un dentista non ce l'avrebbe fatta.

Strano, perché in generale sono stato così fortunato con la salute!

Più di un dentista mi confermò che non sarebbe stato in grado di toglierli, quella era cosa per un reparto di maxillo-facciale, una vera e propria mini-chirurgia. Mi feci togliere il primo e, dopo tante altre settimane di sonno, di gelato e di dolore, circa tre, finalmente mi sentivo un po' meglio. Stranamente le spaccature sulle dita e la mia chiazza viola sulla gamba e sui palmi si erano molto attenuate. Che fossero state le massicce dosi di antibiotici? Ma allora il mio era un problema battereico? Cosa c'entrava l'allergia al nichel? Non riuscivo più a capirci veramente nulla.

Dopo molte altre settimane tornai in palestra e in un giorno come tanti vidi un annuncio che mi lasciò di stucco: Steve Vai stava per venire a Reggio Emilia. Non potevo aver letto bene. Steve Vai a Reggio Emilia? Il mio idolo, la mia ispirazione, qui vicino a me? No, non era vero.

E invece lo era. Il mio sogno di avvicinarlo stava per avverarsi. Non si trattava di un concerto, ma di una masterclass. In poche parole, un incontro in cui si suppone che il maestro insegni i suoi trucchi e i suoi segreti. Non credo di poterti raccontare cosa provai in quel momento, un misto di gioia e senso di colpa per la spesa che si doveva affrontare, ma dovevo assolutamente andarci, anche se quei soldi me li sarei cavati dalla pelle. L'occasione era davvero allettante. L'incontro non era in una grande città, anzi era un piccolo paese di provincia. Steve non era molto conosciuto come lo è oggi e, in più, non era neanche un concerto. In quanti saremmo mai potuti essere interessati in zona? In quanti avremmo potuto partecipare? Pochi, e l'avrei quindi visto da vicino finalmente.

Nell'episodio precedente ti dicevo che ho perso fiducia nelle entità superiori, l'unica entità superiore che sono certo che esista oggi è l'inquilino del secondo piano, ma nel 2010 ero ancora certo che qualcuno vegliasse su di me e quindi ancora una volta...per me era evidente: cose terribili in quell'anno, cose inspiegabili che non avevano neanche un nome, ma ricompensate da una gioia immensa.

“Grido Muto” nasce per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili in una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è una sfida in termini di tempo, energia e competenza, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi nella descrizione di questa puntata del podcast, quel posto dove nessuno guarda mai. Ti aspetto martedì prossimo con un nuovo episodio in cui ti racconterò il mio incontro con il mio idolo Steve Vai.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥

“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”

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Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 11), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”

Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.

Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.

In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?

Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.

Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.

In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!

Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.

All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.

Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.

In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.

Ma il rientro non fu tanto semplice.

L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.

Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.

Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.

In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.

In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.

Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.

Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.

Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.

Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.

Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.

La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!

Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!

L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.

Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?

E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.

Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.

Attenzione!

Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.

Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?

È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.

Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.

Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.

Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).

Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.

Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.

Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.

Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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