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Tutti in gita all’Isola delle stelle
Locandina del CodyTrip alle Canarie. Crediti: codemooc.org
CodyTrip – il format delle gite scolastiche online che ogni anno coinvolge oltre 50mila partecipanti, ideato e condotto da Alessandro Bogliolo dell’Università di Urbino “Carlo Bo” – sta per sbarcare, con la collaborazione dell’Istituto nazionale di astrofisica, alle Canarie. La meta del viaggio che si terrà il 22 e 23 ottobre è San Miguel de La Palma, un’isola vulcanica sulla cui vetta si trova l’Osservatorio del Roque de Los Muchachos, uno dei migliori posti al mondo per l’osservazione astronomica del cielo, disseminato di cupole che ospitano tra i più potenti telescopi del pianeta. Tra questi, il Telescopio nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf, diretto da Adriano Ghedina, il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana.
«Questo è il quarto CodyTrip che vede la partecipazione di Inaf, il primo di questo anno scolastico», commenta Bogliolo a Media Inaf. «In passato abbiamo portato decine di migliaia di persone in gita. Ora stiamo per partire per questa nuova avventura, che ci porterà più lontano, sul tetto dell’Isola delle stelle, dove insieme ai ricercatori e alle ricercatrici di Inaf conosceremo – e faremo conoscere a tante scuole e famiglie italiane – alcuni tra i più importanti telescopi al mondo».
Alessandro Bogliolo e Adriano Ghedina al Tng, durante un sopralluogo in preparazione del CodyTrip. Crediti: Inaf/Tng/A. Bogliolo
«Si partirà la mattina di martedì 22 ottobre direttamente dal Centro visite del Roque de Los Muchachos. Poi, insieme a Gloria Andreuzzi di Inaf, visiteremo il Telescopio nazionale Galileo, il Gran Telescopio Canarias e i due telescopi Cherenkov di Magic», commenta Maura Sandri, principal investigator della proposta che ha ricevuto un grant per contribuire alla realizzazione di questo CodyTrip. «Dopo un pomeriggio trascorso a quota più bassa, con guide naturalistiche ed esperti che ci porteranno a scoprire la storia geologica dell’isola, alla sera torneremo in vetta per osservare – sempre in diretta – il cielo notturno. In questa occasione, in via del tutto eccezionale, i partecipanti potranno decidere dove puntare il Tng, scegliendo tra galassie, nebulose e ammassi stellari».
«L’obiettivo di queste iniziative, rivolte alle scuole di ogni ordine e grado, è quello di contribuire a disseminare la conoscenza e – nel caso dei luoghi dell’astrofisica – la passione per la scienza in generale e l’astronomia in particolare», aggiunge Sandri. «I CodyTrip rappresentano uno strumento molto potente per farlo, perché sono facilmente fruibili da tutti, senza barriere d’accesso di tipo economico o amministrativo, e riescono a raggiungere contemporaneamente migliaia di partecipanti, che possono interagire attivamente con le guide grazie a tecnologie digitali appositamente progettate da Digit».
Ricordiamo infine che questo CodyTrip rientra tra le iniziative della Europe Code Week – un’iniziativa promossa dalla Commissione europea per diffondere, soprattutto fra i più giovani, l’alfabetizzazione digitale – che quest’anno si aprirà il 14 ottobre e terminerà il 27 ottobre.
Il programma completo della gita online è riportato sulla pagina web dedicata, dove sono indicate anche le modalità di partecipazione. Il CodyTrip alle Canarie è organizzato da Digit srl, spinoff dell’Università di Urbino, in collaborazione con l’Università di Urbino, Giunti Scuola e Inaf.
Per saperne di più:
- Visita la pagina del Cody Trip alle Canarie
- Leggi la lettera di invito alle scuole
- Leggi la lettera per le famiglie
Guarda il webinar di presentazione del CodyTrip:
Sotto i cieli lontani
Graziano Chiaro, “Sotto i cieli lontani. Alla ricerca di civiltà extraterrestri”, Mondadori 2024, 116 pagine, 10 euro
Quando ho visto per la prima volta la sua copertina, sono rimasta colpita dal sottile schizzo riportato sotto al titolo: quello che mi è sembrato un albero, realizzato con tratto quasi infantile, su uno sfondo nero come il buio dello spazio profondo. Ho capito dopo che era di Charles Darwin, quello schizzo. Si tratta di un diagramma che rappresenta la varietà e l’evoluzione della vita sulla Terra a partire da un antenato comune. Il celebre naturalista lo tratteggiò nel 1837 su un taccuino, ritrovato un paio d’anni fa. Uno schizzo che aiutò a ispirare la sua teoria dell’evoluzione, che più di 20 anni dopo sarebbe diventata una teoria centrale nel suo lavoro rivoluzionario sull’origine delle specie. Ho quindi scoperto che è anche il simbolo della collana Scienza e Filosofia di Mondadori: simbolo della conoscenza, in un’avventura i cui ingredienti fondamentali sono lo spirito critico, l’apertura mentale e la capacità di indagare il mondo oltre l’apparenza. Di questa collana fa parte Sotto i cieli lontanidi Graziano Chiaro, e quel simbolo, sulla copertina, sta proprio bene, perché parla della ricerca della conoscenza e della vita.
Il saggio è fresco di stampa, uscito nelle librerie a settembre 2024. Sebbene sia un’opera breve (un centinaio di pagine che si leggono tutto d’un fiato, in poche ore), è densa di contenuti e riesce a combinare con efficacia la semplicità di un linguaggio scorrevole con la competenza scientifica di chi fa ricerca sul campo. L’autore è infatti ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica, impegnato da anni nel progetto Seti – Search for Extraterrestrial Intelligence, che ha ripreso vigore recentemente con il Breakthrough Listen– e nel suo libro conduce il lettore attraverso le affascinanti questioni legate alla ricerca di civiltà extraterrestri.
Graziano Chiaro, astrofisico dell’Inaf di Milano e autore del libro “Sotto i cieli lontani”, edito da Mondadori. Crediti: G. Chiaro
Chiaro offre una panoramica completa e attuale delle ricerche nel campo del Seti, esplorando sia gli aspetti teorici che le metodologie utilizzate per cercare segni di vita intelligente oltre il nostro pianeta, compreso il Meti (Messaging to Extra-Terrestrial Intelligence, il Seti attivo). La passione dell’autore per l’argomento emerge chiaramente in ogni pagina e spinge il lettore a riflettere sul nostro posto nell’universo (dopo averlo portato a conoscenza delle migliaia di esopianeti a oggi conosciuti e dei vari tentativi compiuti per cercare i cosiddetti tecnosegnali), sulle difficoltà nel cercare altre forma di vita intelligente e sulle possibilità che si aprono nel trovarla, fino alla creazione del Post Detection Hub. Allo stesso tempo, Chiaro non alimenta facili illusioni: mantiene un approccio realistico e cauto, sottolineando le sfide e le incertezze che accompagnano questa affascinante sfida.
La narrazione è fluida, con un ritmo che cattura l’attenzione anche di chi non ha una formazione scientifica. Ogni capitolo offre spunti interessanti, dagli interrogativi su cosa significhi realmente “vita” o “intelligenza” all’analisi dei segnali radio e degli esopianeti potenzialmente abitabili.
In conclusione, Sotto i cieli lontani è una lettura veloce e stimolante, che apre a tanti possibili approfondimenti. È il libro ideale per chi è curioso di conoscere meglio l’affascinante mondo della ricerca della vita extraterrestre che, come diceva Carl Sagan e ricorda più volte l’autore, richiede necessariamente pazienza. Pazienza che verrà in ogni caso ripagata, perché «ogni cosa che verremo a sapere affinerà sempre di più quel poco che conosciamo, avvicinandoci comunque e in ogni caso alla verità».
Oasi d’ordine nel caos del problema dei tre corpi
Nato a Bergamo nel 1989 da genitori salernitani, Alessandro Trani si è laureato a Milano, alla Bicocca, ha conseguito il dottorato in astrofisica alla Sissa di Trieste, poi è stato in Giappone per cinque anni, lavorando a Tokyo e a Okinawa. Da due anni è al Niels Bohr Institute, in Danimarca, come Marie-Curie fellow. Oltre all’astrofisica, le sue passioni sono la musica (suona la batteria) e la botanica (coltiva piante tropicali). Non ha mai visto la serie “Il problema dei tre corpi”. Crediti: Chris Tiede/Niels Bohr Institute
È uno fra i problemi irrisolvibili più celebri, quello dei tre corpi. Reso nei mesi scorsi ancor più popolare dall’omonima serie andata in onda su Netflix, e prima ancora dalla serie televisiva cinese Sān tǐ, tratta a sua volta dal romanzo fantascientifico del 2006 di Liu Cixin Il problema dei tre corpi. Ora i risultati di uno studio guidato da Alessandro Alberto Trani, astrofisico trentacinquenne nato a Bergamo e attualmente ricercatore in Danimarca al Niels Bohr Institute, consentono di compiere un importante passo avanti nella comprensione di alcuni suoi aspetti, individuando traiettorie regolari nello spazio delle fasi che ne riducono la caoticità – seppure non la complessità.
Lo studio è stato condotto seguendo un approccio numerico, e in particolare simulando con Tsunami – un codice sviluppato dallo stesso Trani mentre si trovava all’Università di Tokyo – milioni di interazioni fra tre corpi aventi masse paragonabili. Va infatti premesso che sistemi come quello in cui ci troviamo noi, il Sistema solare, pur essendo addirittura a n-corpi si comportano, almeno per intervalli di tempo relativamente contenuti, in modo abbastanza prevedibile: avendo due corpi – Giove e soprattutto il Sole – di massa molto superiore agli altri, si può assumere che i restanti abbiano una massa trascurabile, e che seguano dunque un moto ellittico attorno al centro di massa. Un’approssimazione accettabile, nota come problema dei tre corpi ristretto. Quando invece le tre masse sono paragonabili non c’è soluzione. Eppure anche in questa generale assenza di soluzioni – dice lo studio di Trani e colleghi – emergono alcune regolarità.
«La teoria afferma che quando tre oggetti si incontrano, la loro interazione evolve in modo caotico, senza regolarità e in modo completamente avulso dal punto di partenza. Ma milioni di simulazioni», spiega infatti Trani, «dimostrano che in questo caos ci sono intervalli – “isole di regolarità” – che dipendono direttamente dal modo in cui i tre oggetti sono posizionati l’uno rispetto all’altro al momento dell’incontro, nonché dalla loro velocità e dall’angolo di avvicinamento».
Crediti: A. Trani et al., A&A, 2024
Nelle simulazioni eseguite con Tsunami i tre corpi hanno masse pari a 15, 17.5 e 12.5 volte la massa del Sole, con i primi due che formano un sistema binario, in orbita reciproca a 5 unità astronomiche di distanza, e il terzo che fa il suo ingresso nel sistema da una distanza di 100 unità astronomiche. I due parametri iniziali fatti variare nel corso delle simulazioni, come mostra l’immagine qui sopra, sono la fase del sistema binario, da 0 a 360 gradi, e l’angolo di avvicinamento del terzo oggetto, da 0 a 90 gradi.
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Uno dei milioni di esiti lo potete vedere avviando l‘animazione. All’inizio la binaria è formata dalla coppia verde-arancione, poi l’ingresso dell’intruso blu rende il sistema caotico, sancendo l’inizio al problema dei tre corpi, e dopo circa 120 anni di danza caotica il corpo verde viene espulso dal sistema, dove la nuova coppia rimasta è formata, questa volta, dai corpi arancione e blu.
Questo è solo uno degli innumerevoli possibili esiti. Nell’immagine qui sotto sono raccolti tutti gli esiti simulati. In orizzontale la fase iniziale della binaria, in verticale l’angolo di ingresso dell’intruso e nell’area interna, appunto, gli esiti, rappresentati da milioni di punti con il colore della particella espulsa – in rosso se è stata quella da 12.5 masse solari, in blu quella da 15 e in verde quella da 17.5. Ciò che subito salta agli occhi è che i punti colorati non sono distribuiti in modo del tutto caotico: alcune forme emergono in modo molto netto. Sono quelle che Trani chiama “isole di regolarità”.
Crediti: A. Trani et al., A&A, 2024
«Se il problema dei tre corpi fosse puramente caotico», spiega il ricercatore, «vedremmo solo un miscuglio caotico di punti, con tutti e tre i possibili esiti che si mescolano senza alcun ordine distinguibile. Invece, da questo mare caotico emergono “isole” regolari, dove il sistema si comporta in modo prevedibile, portando a risultati uniformi – e dunque a colori uniformi».
È un risultato molto promettente per compiere un passo avanti nella comprensione del problema dei tre corpi, ma che al tempo stesso complica la faccenda: a differenza del caos puro, che perlomeno si può stimare con metodi statistici, questo strano caos intervallato da regolarità finisce per rendere i calcoli ancora più complessi.
«La nostra sfida ora è imparare a fondere i metodi statistici con i calcoli numerici, che offrono un’elevata precisione quando il sistema si comporta in modo regolare», dice Trani. «In questo senso, i miei risultati ci hanno riportato al punto di partenza, ma allo stesso tempo offrono la speranza di un livello di comprensione completamente nuovo nel lungo periodo».
Per comprendere meglio cosa, vi state chiedendo? Per esempio le onde gravitazionali, in particolare quelle prodotte da interazioni fra tre buchi neri che s’incontrano. Quanto al problema del sistema nel quale è ambientata la serie su Netflix, «da quel ho capito», dice Trani, che non l’ha mai vista, «si tratta di un sistema stellare con tre stelle e un pianeta, che viene regolarmente sottoposto a sviluppi caotici. Un sistema del genere è in realtà meglio definito come un problema dei quattro corpi. Ma comunque lo si definisca, secondo le mie simulazioni l’esito più probabile è che il pianeta venga rapidamente distrutto da una delle tre stelle. In breve tempo», sorride il ricercatore, «si ricondurrebbe dunque al problema dei tre corpi».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Isles of regularity in a sea of chaos amid the gravitational three-body problem”, di Alessandro Alberto Trani, Nathan W.C. Leigh, Tjarda C. N. Boekholt e Simon Portegies Zwart
Stanotte si prevede intensa #auroraboreale, ed è già stata avvistata all'altezza di Praga e Francoforte. Si vedrà anche da noi?
Ricordiamo che questa sera dalle 20:30 ci troviamo in sede, in Via Zauli Naldi 2 a Faenza. Se ci sarà qualcosa lo potremo vedere insieme! Male che vada vedremo la Luna, Saturno e altri oggetti celesti con binocoli e telescopi.
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#astronomia #aurora #astrofili #faenza #romagna #astrofili #space #spazio #scienza #divulgazione
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Così Marte diventò invivibile
Marte oggi è un mondo inospitale per la vita come la conosciamo, ma miliardi di anni fa le cose potrebbero essere state molto diverse. Molteplici evidenze scientifiche suggeriscono infatti che in un lontano passato il pianeta potrebbe aver avuto acqua liquida in superficie, un’atmosfera più densa, un clima caldo e umido e un’intensa attività geologica e geotermica: un mix di caratteristiche che ne avrebbero fatto un mondo abitabile.
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Illustrazione artistica che mostra come sarebbe potuto apparire Marte miliardi di anni fa. Crediti: Nasa/The Lunar and Planetary Institute
La domanda che si pongono tutt’ora gli scienziati è: se davvero il pianeta era un tempo un mondo ospitale, come ha fatto a perdere le sue caratteristiche di abitabilità? Una risposta arriva ora grazie alle misurazioni effettuate Curiosity.
Utilizzato gli strumenti a bordo del rover della Nasa, un team di ricercatori del Goddard Space Flight Center ha misurato la composizione isotopica di alcuni minerali ricchi di carbonio e ossigeno trovati nel cratere Gale, ottenendo nuove indicazioni su come sia cambiato l’antico clima del pianeta, e con esso anche l’abitabilità. I risultati dello studio sono pubblicati nei Proceedings of the National Academy of Sciences.
Negli studi di paleoclimatologia, gli scienziati sono interessati alle analisi dei carbonati per la loro comprovata capacità di fungere da registri climatici. Questi minerali, infatti, possono conservare le firme degli ambienti in cui si sono formati, fornendo informazioni sul clima presente. Le firme in questione sono le composizioni isotopiche del carbonio e dell’ossigeno, i principali elementi chimici di cui sono costituiti i carbonati. Misurando le abbondanze di questi isotopi (varianti di uno stesso elemento chimico che differiscono solo per il numero di neutroni nel nucleo), gli scienziati possono ottenere preziose informazioni sulla temperatura, sulla composizione dell’acqua e dell’atmosfera presenti in una specifica epoca.
Su Marte i carbonati sono stati individuati in più punti da Curiosity. Le più alte abbondanze rilevate fino a oggi sono state registrate in quattro siti di perforazione all’interno del cratere Gale: Mary Anning, Bardou, Tapo Caparo (TC) e Ubajara (UB), suggerendo che questi minerali siano una componente significativa della stratigrafia di Marte. Data la loro importanza paleoclimatica, la suite di strumenti che costituiscono il Sample Analysis at Mars (Sam) – il più grande dei dieci strumenti scientifici a bordo di Curiosity – ha analizzato le composizioni isotopiche del carbonio e dell’ossigeno dei carbonati in questi siti, trovando un’insolita abbondanza di isotopi pesanti dei due elementi: il carbonio-13 e l’ossigeno-18.
Nello studio in questione, Davide G. Burtt, ricercatore al Goddard Space Flight Center della Nasa, e il suo team riportano questi dati, suggerendo due probabili processi per spiegare gli arricchimenti degli isotopi. Processi che sono direttamente collegati al cambiamento del clima dell’antico Marte.
I processi proposti dai ricercatori sono ladistillazione di Rayleigh guidata dall’evaporazione e la precipitazione criogenica. Nel primo scenario i carbonati si sarebbero formati per evaporazione in seguito al susseguirsi di cicli umido-secco. Nel secondo, invece, si sarebbero formati per precipitazione e concentrazione degli isotopi in condizioni molto fredde, in grado di formare ghiaccio.
«Questi meccanismi di formazione rappresentano due diversi regimi climatici che possono presentare diversi scenari di abitabilità», sottolinea Jennifer Stern, ricercatrice al Goddard Space Flight Center e co-autrice della pubblicazione. «Il ciclo umido-secco indicherebbe l’alternanza tra ambienti più abitabili e meno abitabili, mentre le temperature criogeniche alle medie latitudini di Marte indicherebbero un ambiente meno abitabile, in cui la maggior parte dell’acqua è bloccata nel ghiaccio e dunque non è disponibile per la chimica o la biologia, e quella disponibile è estremamente salata»
Secondo i ricercatori, tuttavia, nessuno di questi meccanismi spiega da solo le composizioni isotopiche dei carbonati presenti nei quattro siti analizzati da Curiosity. L’ipotesi è dunque che a essere responsabile degli arricchimenti isotopici sia una combinazione dei due processi.
«Il fatto che i valori degli isotopi pesanti del carbonio e dell’ossigeno siano significativamente più alti di quelli misurati sulla Terra, nonché i più alti misurati su Marte, indica che un processo o più processi diversi siano stati portati all’estremo», aggiunge Burtt. «Sebbene l’evaporazione possa causare cambiamenti significativi degli isotopi dell’ossigeno sulla Terra, le variazioni misurate in questo studio sono state da due a tre volte maggiori. Ciò significa due cose: o che c’era un grado estremo di evaporazione che ha prodotto l’arricchimento degli isotopi; o che questi isotopi sono stati preservati. Qualsiasi processo che avrebbe potuto creato isotopi più leggeri deve essere dunque stato di entità significativamente inferiore».
«I valori degli isotopi nei carbonati indicano quantità estreme di evaporazione, suggerendo che si sono probabilmente formati in condizioni climatiche che potevano supportare solo acqua liquida transitoria», conclude Burtt. «I campioni non sono coerenti con un ambiente in cui erano presenti condizioni adatte alla vita (biosfera) sulla superficie dell’antico Marte, sebbene ciò non escluda la possibilità dell’esistenza di una biosfera sotterranea o di una biosfera di superficie che si è formata ed è svanita prima che si formassero questi carbonati».
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Highly enriched carbon and oxygen isotopes in carbonate-derived CO2 at Gale crater, Mars” diDavid G. Burtt, Jennifer C. Stern, Christopher R. Webster, Amy E. Hofmann, Heather B. Franz, Brad Sutter, Michael T. Thorpe, Edwin S. Kite, Jennifer L. Eigenbrode, Alexander A. Pavlov, Christopher H. House, Benjamin M. Tutolo, David J. Des Marais, Elizabeth B. Rampe, Amy C. McAdam e Charles A. Malespin
Olimpiadi di astronomia: un bronzo a Katmandu
La squadra italiana sul palco al momento della premiazione. Da sinistra: Andrea Zihan Wang, Nicola Bortoluzzi, Luca Di Maria, Matteo Dolcin e Giuseppe Cateniello. Crediti: Giulia Iafrate/Inaf
Si sono concluse oggi a Katmandu, in Nepal, le Olimpiadi internazionali di astronomia e astrofisica (Ioaa). Erano presenti 79 partecipanti da 19 nazioni, tra cui l’Italia, alla sua prima partecipazione. Alle Ioaa Junior, in particolare, hanno partecipato 79 studenti di 21 squadre provenienti da 19 paesi: Bangladesh, Bulgaria, Canada, Cina, Colombia, Emirati Arabi Uniti, Estonia, Grecia, India, Italia, Lituania, Malesia, Nepal, Repubblica Ceca, Romania, Sri Lanka, Svezia, Tailandia e Ucraina. La squadra italiana era composta da cinque ragazzi: Nicola Bortoluzzi (liceo “Galilei – Tiziano” di Belluno), Giuseppe Cateniello (Iiss “P. Mazzone” di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria), Luca Di Maria (liceo “E. Fermi” di Arona, in provincia di Novara), Matteo Dolcin (liceo “A. Zanelli” di Reggio Emilia) e Andrea Zihan Wang (liceo “P. Frisi” di Monza), accompagnati da chi vi scrive e da Marco Citossi, entrambi dell’Inaf di Trieste, che in veste di team leader hanno seguito i ragazzi per tutti i nove giorni delle Olimpiadi, e da Andrea Cusimano, del liceo “T. Levi Civita” di Roma, in qualità di osservatore.
Prima di vedere com’è andata, va ricordato che esistono attualmente, nel mondo, due olimpiadi internazionali di astronomia: le International Astronomy Olympiad (Iao) e, appunto, le International Olympiad on Astronomy and Astrophysics (Ioaa). Le Iao nascono nel 1996 su iniziativa della Euro-Asian Astronomical Society e l’organizzazione, con sede in Russia, fa capo a Michael G. Gavrilov. Le Ioaa nascono nel 2007 su iniziativa di Thailandia e Indonesia e l’attuale presidente è un indiano, Aniket Sule. L’Italia ha partecipato alle Iao dal 2004 al 2023. Negli ultimi anni le Iao hanno però visto una drastica riduzione dei paesi partecipanti, a cui ha contribuito la crisi Ucraina: l’edizione 2023, tornata in presenza dopo due edizioni online causa Covid, ha registrato un minimo storico nel numero dei paesi partecipanti. Quest’anno inoltre era prevista un’edizione in Bangladesh, paese attualmente considerato non del tutto sicuro dalla Farnesina. Di fronte a questa situazione, il comitato organizzatore delle Olimpiadi italiane di astronomia, assieme al Ministero dell’istruzione e del merito, ha optato per la partecipazione alle Ioaa.
Le Ioaa organizzano ogni anno due eventi separati, in località e periodi differenti: uno per gli studenti con età tra 16 e 20 anni, purché non ancora iscritti all’università, e l’altro, denominato Ioaa Junior, per studenti di età inferiore a 16 anni. Il Comitato organizzatore ha deciso di iscrivere, come prima esperienza italiana alle Ioaa, una squadra alle Ioaa Junior che si sono svolte nei giorni scorsi a Katmandu. Quest’anno quindi la squadra italiana ha un’età media assai più bassa di ogni altra precedente edizione.
Medagliere dell‘edizione 2024 delle Ioaa
Il medagliere, rispetto agli anni passati, per la squadra azzurra potrebbe sembrare scarso, però sia i ragazzi che i team leader erano consapevoli che il livello richiesto nelle Ioaa è superiore rispetto alle Iao. Dopo questa prima partecipazione esplorativa, il comitato organizzatore opererà in modo da fornire nelle prossime edizioni una preparazione dei ragazzi maggiormente mirata agli argomenti richiesti nella prova teorica e osservativa delle Ioaa. La medaglia di bronzo, assegnata a Luca Di Maria, rende quindi soddisfatti tutti i componenti della squadra.
«L’organizzazione tecnico-scientifica è stata elevatissima», dice Marco Citossi, «soprattutto per quanto riguarda la piattaforma telematica, che ha reso molto più agevole il lavoro di noi team leader che dobbiamo occuparci della traduzione e valutazione degli esercizi. I ragazzi hanno affrontato tutte le sfide con determinazione e successo. Lo spirito di gruppo e la solidarietà che si sono sviluppati non solo all’interno della nostra squadra, ma anche con studenti di altri paesi, sono stati davvero straordinari. Vederli collaborare, condividere idee e passioni, e stringere amicizie che superano ogni confine culturale, ci conferma quanto la scienza e l’astronomia possano unire le persone. Questa esperienza ha arricchito non solo le loro conoscenze, ma anche il loro spirito, creando legami che dureranno nel tempo».
I ragazzi sono rimasti estremamente affascinati dal Nepal, un paese così distante dal loro comune modo di vivere. Questa esperienza unica ha permesso loro di immergersi in una cultura ricca e diversa, scoprendo tradizioni millenarie e paesaggi mozzafiato. Hanno potuto condividere la loro passione per l’astronomia con coetanei provenienti da tutto il mondo, stringendo amicizie che superano ogni confine geografico. Hanno potuto apprezzare, oltre alla cultura, il cibo (soprattutto il momo, piatto di ravioli speziati con pollo o verdure), la spontaneità e la cordialità dei nepalesi e la visita ai numerosi templi della città, alcuni abitati da simpatiche scimmie. Un po’ meno il traffico super caotico, le strade polverose e la tradizione locale di far volare gli aquiloni… che in pochi sono riusciti a far volare.
A breve, con la pubblicazione del bando per il 2025, prenderà il via la 23esima edizione dei Campionati italiani di astronomia, a cui possono partecipare studentesse e studenti delle scuole italiane frequentanti il terzo anno della scuola secondaria di primo grado e i cinque anni della scuola secondaria di secondo grado. Ulteriori informazioni su www.campionatiastronomia.it.
Guarda il trailer delle Ioaa Junior sul canale YouTube della Nepal Astronomical Society:
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Una Rosetta per il compleanno di NoirLab
La Nebulosa Rosetta immortalata dalla Dark Energy Camera (DeCam) installata al telescopio Víctor M. Blanco dell’Osservatorio di Cerro Tololo in Cile. L’immagine da 570 milioni di pixel è stata pubblicata per celebrare il quinto anniversario del NoirLab. Crediti: Ctio/NoirLab/Doe/Nsf/Aura.
Una spettacolare immagine della Nebulosa Rosetta – che a circa cinquemila anni luce di distanza sembra sbocciare direttamente dal mezzo interstellare – è stata scelta per celebrare, lo scorso 1° ottobre, il quinto anniversario del NoirLab (National Optical-Infrared Astronomy Research Laboratory), il programma statunitense della National Science Foundation che gestisce gli osservatori Gemini, Kitt Peak, Cerro Tololo, Vera Rubin e il Community Science and Data Center.
Questa enorme fotografia da 570 megapixel è stata catturata dalla Dark Energy Camera (DeCam) installata al telescopio da 4 metri Víctor M. Blanco nell’Osservatorio di Cerro Tololo in Cile, che fa parte della Dark Energy Survey che studia la dinamica dell’espansione dell’universo nel visibile e nel vicino infrarosso.
Situata nella costellazione dell’Unicorno, la Nebulosa Rosetta occupa circa 1,3 gradi di cielo, più o meno la larghezza di un dito indice tenuto a distanza del braccio teso (per fare un paragone, la ben nota Nebulosa di Orione si estende per un grado di cielo). Sebbene la Nebulosa Rosetta abbia un diametro di centotrenta anni luce, dunque oltre cinque volte più grande della Nebulosa di Orione, le loro dimensioni apparenti sono simili, essendo la prima quattro volte più distante.
L’immagine racchiude moltissimi dettagli. Guardando oltre ai “petali” della nebulosa, spicca una vistosa assenza di gas al suo centro. Le responsabili di questa cavità sono le stelle più massicce di Ngc 2244, l’ammasso stellare aperto alimentato dalla nebulosa. Ngc 2244 è nato circa due milioni di anni fa, dopo che i gas della nebulosa si sono accumulati in zone di maggiore densità a causa della reciproca attrazione gravitazionale. Alla fine di questo processo, si sono generate stelle massicce che producono venti stellari abbastanza potenti da aprire un varco nel cuore della nebulosa.
Gli osservatori presenti e futuri del NoirLab. Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/P. Marenfeld
Le stelle massicce di Ngc 2244 emettono anche radiazioni ultraviolette, che ionizzano l’idrogeno gassoso circostante e illuminano la nebulosa con una serie di colori molto brillanti. Le nubi rosse sono regioni di emissione H-alfa dovute ad atomi di idrogeno eccitati che emettono luce nelle lunghezze d’onda del rosso. Lungo le pareti della cavità, più vicine alle stelle massicce centrali, la radiazione è abbastanza intensa da ionizzare l’ossigeno, generando brillamenti nei toni dell’oro e del giallo. Infine, lungo i bordi dei petali della “rosetta” ci sono vaporosi inviluppi di colore rosa intenso che brillano grazie alla luce emessa dal silicio ionizzato.
Intorno al nucleo cavo della nebulosa c’è poi una serie di nubi scure soprannominate “Tronchi d’elefante” per via della loro forma caratteristica. Queste strutture sono opache a causa della polvere e delimitano il confine tra il guscio caldo di idrogeno ionizzato e l’ambiente circostante di idrogeno più freddo. Una di queste strutture caratteristiche più scure è il “Tronco della chiave”, il cui capo simile a un artiglio è visibile in alto a destra dell’ammasso centrale. A differenza delle strutture tipiche dei Pilastri della Creazione, che si ergono come colonne verticali, il “manico” della chiave inglese ha un’insolita forma a spirale che traccia il campo magnetico della nebulosa.
Nei riquadri, alcune caratteristiche interessanti della Nebulosa Rosetta. Il cerchio tratteggiato evidenzia l’ammasso stellare centrale della nebulosa, Ngc 2244. La macchia vaporosa al centro di Ngc 2244 è il giovane oggetto stellare (Yso) Rosette HH1 (1), composto da stelle nella fase iniziale della loro evoluzione, che spesso presentano caratteristiche come getti, flussi bipolari, dischi protoplanetari e altri indicatori della nascita di una nuova stella. Intorno al nucleo cavo della nebulosa ci sono le nubi scure soprannominate “Tronchi d’elefante” (2, 4). Uno di questi elementi scuri è il Tronco di chiave (3). Crediti: Ctio/NoirLab/Doe/Nsf/Aura.
Meno evidenti ma altrettanto interessanti sono le forme globulari scure, rotonde o a forma di goccia. Questi minuscoli blob di polvere, che punteggiano in centinaia l’intera Nebulosa Rosetta, sono alcune volte più massicci di Giove e potrebbero ospitare nane brune e pianeti al loro interno.
Come tutte le rose, anche la Nebulosa Rosetta è destinata a sfiorire, quando la radiazione delle giovani e calde stelle dell’ammasso Ngc 2244 avrà dissipato i gas della nebulosa. Non a breve però, ma tra circa dieci milioni di anni.
Guarda il video sul sito YouTube di NoirLab:
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Giovedì 10 ottobre dalle 20:30 ci troviamo in Via Zauli Naldi 2 a #Faenza per osservare il cielo ad occhio nudo e con #binocoli e #telescopi
Vedremo la #Luna al primo quarto, #Saturno, la #Galassia di #Andromeda, ammassi stellari e tanto altro
Ingresso libero e #gratis, non mancare!
mobilizon.it/events/4e1c5d8c-a…
#astronomia #spazio #space #astronomy #astrofili #scienza #divulgazionescientifica #telescopio #binocolo #osservatorio #stargazing #starparty #evento #eventi #romagna #italia
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Forme di vita in rocce vecchie due miliardi di anni
Il complesso igneo del Bushveld (Bic), Sudafrica. Questa immagine mostra un affioramento molto studiato in cui si osservano strati bianchi e neri quasi orizzontali costituito da strati di roccia ignea a forma di bacino. Si è formato in un periodo di circa un milione di anni, dopo il quale sembra essere cambiato minimamente. Crediti: Y. Suzuki
Nelle profondità della Terra c’è qualcosa di antico e vivo. Nascosti nella crosta terrestre, all’interno di una frattura sigillata nella roccia, alcuni antichissimi microbi hanno vissuto in isolamento per due miliardi di anni. Sono organismi minuscoli e resistenti che sembrano vivere la vita a un ritmo più lento, evolvendosi a malapena nel corso di ere geologiche, offrendoci così la possibilità di sbirciare indietro nel tempo.
A scovarli è stato un team di ricerca guidato dall’Università di Tokyo che ha analizzato alcuni campioni di roccia, recuperati a circa 15 metri di profondità nel complesso del Bushveld, in Sudafrica, nel cuore di una delle più grandi formazioni ignee stratificate del mondo, conosciuta per i suoi ricchi depositi di minerali preziosi, inclusa la maggior parte del platino estratto globalmente.
Le rocce analizzate nello studio, pubblicato la settimana scorsa su Microbial Ecology, provengono da una vasta formazione geologica che si estende per 66mila chilometri quadrati. Grazie alla stabilità geologica della zona, i microbi al loro interno si sono preservati per due miliardi di anni, protetti e isolati dal resto del mondo in fessure sigillate dall’argilla.
Colonizzazione microbica esistente nelle vene riempite di minerali in rocce ignee di 2 miliardi di anni fa del complesso igneo del Bushveld, Sudafrica. (A) Immagini con ingrandimento di 1000 volte di microsfere fluorescenti e (B) cellule microbiche colorate con Sybr Green. Crediti: Microbial Ecology
A confermare che le cellule microbiche studiate non hanno subito contaminazioni esterne è stata un’innovativa combinazione di rtre tecniche di imaging: spettroscopia a infrarossi, microscopia elettronica e microscopioa a fluorescenza. Colorando il Dna delle cellule microbiche e utilizzando la spettroscopia a infrarossi per analizzare le proteine presenti nei microbi e nell’argilla circostante, i ricercatori hanno potuto confermare che i microrganismi erano vivi e indigeni: nativi, dunque, del campione di roccia, e non il risultato di contaminazioni avvenute durante il processo di perforazione o di analisi.
«Non sapevamo che le rocce di 2 miliardi di anni fa potessero essere abitabili. Finora, il più antico strato geologico in cui erano stati trovati microrganismi viventi era un deposito di 100 milioni di anni fa sotto il fondo dell’oceano. Questa è una scoperta davvero emozionante», dice Yohey Suzuki dell’Università di Tokyo, autore principale dello studio. Il nuovo ritrovamento rappresenta, quindi, un balzo temporale impressionante, un vero e proprio salto indietro nel tempo geologico. I microrganismi appena scoperti vivono al ritmo lentissimo imposto dalle condizioni estreme in cui si trovano, offrendo una rara opportunità di esplorare il passato più lontano della vita sul nostro pianeta. «Studiando il Dna e i genomi di microbi come questi», continua Suzuki, «potremmo essere in grado di comprendere l’evoluzione della vita primordiale sulla Terra».
Campione diroccia con fratture aperte. Questa immagine è stata scattata in loco quando il campione di carota è stato lavato, fiammato e poi fratturato. Il carotaggio, lungo 30 centimetri e con un diametro di 85 millimetri, è stato riportato in Giappone per ulteriori studi. Crediti: Y. Suzuki
Sulla Terra e non solo. Questa scoperta potrebbe anche rivelarsi cruciale per l’astrobiologia, lo studio della vita extraterrestre. Rocce simili a quelle del complesso del Bushveld potrebbero esistere su altri pianeti, e Marte è uno fra i candidati principali: il Pianeta rosso ha un passato geologico che include vulcani e attività magmatica, condizioni che potrebbero aver creato ambienti simili a quelli che hanno ospitato la prima vita microbica sulla Terra.
«Il rover Perseverance della Nasa sta raccogliendo, per poi portarli sulla Terra, campioni di rocce marziane che hanno un’età geologica simile a quelle studiate in Sudafrica», ricorda Suzuki. «Trovare vita microbica in campioni terrestri di due miliardi di anni fa ed essere in grado di confermarne accuratamente l’autenticità mi rende entusiasta riguardo a ciò che potremmo essere in grado di trovare nei campioni provenienti da Marte».
Per saperne di più:
- Leggi su Microbial Ecology l’articolo “Subsurface Microbial Colonization at Mineral-Filled Veins in 2-Billion-Year-Old Mafic Rock from the Bushveld Igneous Complex, South Africa” di Yohey Suzuki, Susan J. Webb, Mariko Kouduka, Hanae Kobayashi, Julio Castillo, Jens Kallmeyer, Kgabo Moganedi, Amy J. Allwright, Reiner Klemd, Frederick Roelofse, Mabatho Mapiloko, Stuart J. Hill, Lewis D. Ashwal e Robert B. Trumbull
Seti e Inaf s’incontrano a Cagliari
Dal momento stesso in cui l’umanità ha cominciato a guardare il cielo, la domanda delle domande è sempre stata se ci fosse “qualcuno là fuori”, ma per migliaia di anni si sono potute fare solo congetture di tipo logico e filosofico. Tuttavia, servono prove. La ricerca di intelligenza extraterrestre (Search for Extra Terrestrial Intelligence, Seti) venne sviluppata in modo strutturato a partire dagli anni ’60 grazie all’intuizione di Frank Drake e Carl Sagan, due visionari astrofisici statunitensi che fondarono, nel 1984, un istituto di ricerca dedicato a questo scopo e chiamato, appunto, Seti Institute, con sede a Mountain View, in California.
Dopo trent’anni di tentativi infruttuosi per la ricerca di vita intelligente al di fuori della Terra, sembrava che queste ricerche fossero in declino. Invece Seti ha saputo rinnovarsi, ricreando interesse in tutta la comunità scientifica proprio grazie ai grandi progressi tecnologici che ha contribuito a sviluppare e ai finanziamenti che è riuscito ad attrarre.
A dimostrazione del rinnovato interesse verso la ricerca di quelle che in gergo vengono chiamate “tecnofirme”, ecco ora arrivare il Seti Inaf-Italy Workshop 2024, il terzo congresso italiano organizzato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) dedicato all’intelligenza extraterrestre, che si svolgerà quest’anno giovedì 10 e venerdì 11 ottobre 2024 al Teatro Doglio di Cagliari. I primi due incontri del “Seti italiano” si erano svolti a Roma nel 2017 e nel 2019 sotto l’egida della presidenza di Nichi D’Amico, cui verrà tributato un affettuoso ricordo. L’edizione 2024 ha un’impronta più marcatamente internazionale ed è stata ancor più fortemente supportata dalla Direzione scientifica dell’Inaf.
Saranno infatti presenti, fra i tanti, Bill Diamond, presidente e amministratore del Seti Institute, Michael Garrett, direttore del Jodrell Bank Centre for Astrophysics di Manchester, e Andrew Siemion, direttore del Berkeley SetiResearch Center, di cui fanno parte anche Steve Croft e Vishal Gajjar. Dal lato Italia interverranno sul tema tanti ricercatori e ricercatrici dell’Inaf, oltre al presidente Roberto Ragazzoni e al direttore scientifico Filippo Zerbi. Citare tutti sarebbe impossibile, meglio consultare il programma sul sito dedicato. L’aspetto umanistico e l’impatto sul nostro immaginario verrà affrontato anche dalla poliedrica artista Daniela De Paulis, autrice di “A sign in space”, un progetto artistico e comunicativo internazionale che a oggi, dopo oltre un anno dal lancio, continua a far discutere.
Nel corso del meeting verranno discusse le condizioni fisiche e chimiche idonee per la nascita e lo sviluppo della vita, in particolare quelle che possono portare a una società intelligente e tecnologica in grado di rilasciare firme elettromagnetiche nello spazio, come fa oggi l’umanità. Le tecniche di osservazione Seti saranno affrontate tenendo in considerazione lo stato dell’arte della tecnologia disponibile. Saranno presenti, per spiegare come vengono prima realizzate e poi analizzate le osservazioni in ambito Seti, molti degli studenti che negli ultimi anni si sono avvicendati nei mesi estivi all’Inaf di Cagliari per mettere a punto algoritmi e tecniche osservative.
Grazie, infatti, allo sviluppo di telescopi all’avanguardia con nuove ottiche e nuovi ricevitori, supercomputer, algoritmi di apprendimento automatico, filtri anti-interferenze e una lunga serie di migliorie tecnologiche, oggi possiamo contare su strumenti davvero raffinati per la ricerca di vita extraterrestre. E siamo in grado di scoprire con sempre maggiore frequenza una quantità considerevole di pianeti extrasolari adatti a ospitare acqua liquida e dunque, potenzialmente, la vita.
Va comunque sottolineato che il programma Seti non è alla ricerca di traccianti, molecole organiche e “mattoni della vita”: quella che interessa finanziatori e studiosi è l’intelligenza evoluta, legata o meno che sia alla volontà di comunicare: se la scoperta di batteri incastonati in qualche roccia marziana o sotto un oceano ghiacciato di Titano sarebbe di per sé una notizia a dir poco storica, trovare prove di civiltà extraterrestri evolute e capaci di utilizzare le onde elettromagnetiche per comunicare rappresenterebbe, come ricordò in più di un’occasione anche Nichi d’Amico, un salto enormemente più profondo per l’umanità. Le implicazioni della scoperta di un’altra intelligenza sono inimmaginabili. Captare un segnale intelligente ci porterebbe molte più domande che certezze, ma la sola prova dell’esistenza di un’altra civiltà cambierebbe per sempre tutte le nostre convinzioni sulla centralità non tanto della Terra quanto, soprattutto, della nostra intelligenza nell’ordine cosmico.
L’evoluzione della ricerca in questo campo è stata notevole: basti pensare che il primo degli oltre settemila esopianeti registrati finora è stato scoperto e confermato solo nel 1995 ed è valso il premio Nobel a Michel Mayor e Didier Queloz. Oggi possiamo quindi puntare i nostri più potenti strumenti verso sorgenti potenzialmente interessanti, come stelle vicine, per cui i tempi, le risorse e – si spera – i risultati nei prossimi anni saranno estremamente ottimizzati. Grazie a questi progressi, il programma Seti è oggi considerato un campo di ricerca in forte crescita in astronomia e, in questo contesto, l’Italia gioca un ruolo da protagonista grazie alla rete di quattro grandi radiotelescopi dell’Inafsparsi tra Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna. Le antenne di Medicina e Croce del Nord (Bologna), il radiotelescopio di Noto (Siracusa) e il Sardinia Radio Telescope di San Basilio (Cagliari) sono infatti in grado di lavorare sia individualmente che in coordinamento alla ricerca di segnali alieni. Pochi paesi al mondo possono vantare un simile potenziale.
Il Sardinia Radio Telescope, in particolare, è entrato da qualche anno a pieno titolo nel progetto Breakthrough Listen, che dal 2015 ha dedicato cento milioni di dollari a osservazioni Seti con i migliori telescopi in circolazione: Green Bank Telescope e Lick Observatory negli Stati Uniti, Parkes in Australia, il nuovissimo MeerKat in Sudafrica e, dal 2021, la parabola sarda. Proprio gli studi effettuati da Srt saranno oggetto di una press release internazionale che verrà distribuita il prossimo 15 ottobre, in concomitanza con l’avvio dei lavori, a Milano, dello Iac 2024 – il Congresso internazionale di astronautica.
Grazie alla collaborazione fra Breakthrough Listen e Inaf, nata dall’ostinazione e dalla visione dell’ingegnere elettronico dell’Inaf di Cagliari Andrea Melis, l’Italia si è ritagliata uno spazio importante in questo settore dell’astrofisica di frontiera, e l’appuntamento di giovedì e venerdì in Sardegna ne è la dimostrazione. D’altra parte, come hanno affermato Cocconi e Morrison nel 1959, “la probabilità di successo è difficile da stimare, ma se non cerchiamo mai la possibilità di successo sarà zero”.
Per saperne di più:
Prima mappa globale della corona solare
I campi magnetici svolgono un ruolo chiave nella struttura, dinamica ed evoluzione di molti corpi celesti. Ad esempio, il campo magnetico della nostra stella – il cui motore è il moto del plasma nei diversi strati che la compongono, la cosiddetta dinamo solare – è fondamentale nel determinare il suo “ritmo circadiano” undecennale di attività, ma anche nel produrre espulsioni coronali di massa e brillamenti solari, eiezioni di plasma in grado di provocare sulla Terra tempeste geomagnetiche. In questi due ultimi casi, in particolare, un ruolo chiave lo gioca il campo magnetico della corona solare, lo strato più esterno dell’atmosfera del Sole. Il campo magnetico coronale è infatti la fonte di energia che riscalda il plasma nella corona ed è alla base delle eruzioni solari.
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Rappresentazione della corona solare osservata alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto estremo (in bianco e nero) e, sovrapposte su di essa, delle mappe del campo magnetico coronale globale misurate in momenti diversi. Crediti: Zihao Yang
Un team di ricercatori guidato dal National Center for Atmospheric Research, negli Usa, è ora riuscito a misurare per la prima volta questo campo magnetico a livello globale, producendo dettagliate mappe 2D. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, apre una nuova era dell’osservazione del Sole.
«La mancanza di una mappatura globale del campo magnetico coronale ha rappresentato una grande lacuna nello studio del Sole», spiega Zihao Yang, ricercatore all’Università di Pechino, in Cina, e primo autore dello studio. «Questa ricerca ci aiuta a colmare la lacuna, migliorando la nostra comprensione dei campi magnetici coronali, che sono una fonte di energia per le tempeste solari, fenomeni che possono avere un impatto sulla Terra».
Per effettuare le misure del campo magnetico coronale, i ricercatori hanno condotto osservazioni della corona solare con l’Upgraded Coronal Multi-channel Polarimeter (Ucomp). Si tratta di un coronografo, uno strumento che utilizza un disco per bloccare la luce solare, rendendo più facile osservare la corona. Lo strumento è in grado di registrare le linee di emissione coronale nel visibile e nel vicino infrarosso, registrando uno spettro per ogni pixel del suo campo di vista e fornendo dati di imaging spettrale a tutte le latitudini. I ricercatori hanno condotto le osservazioni del Sole dal 19 febbraio al 29 ottobre 2022, coprendo un periodo di circa 253 giorni.
I dati ottenuti sono stati sufficienti per ricavare mappe di densità del plasma, di propagazione delle onde magnetoidrodinamiche e di velocità di fase delle onde della corona solare globale. L’uso di questi dati combinati alla sismologia coronale 2D, una tecnica di studio del plasma coronale, ha permesso ai ricercatori di creare 114 magnetogrammi coronali riportanti la forza e la direzione del campo magnetico, la combinazione delle quali ha prodotto la prima mappa bidimensionale globale della corona solare.
È stato così possibile ottenere le misure del campo magnetico coronale su un periodo di 8 mesi, effettuando indagini con una cadenza media di una volta ogni due giorni, sottolineano i ricercatori. Da queste misurazioni sono state poi prodotte mappe del campo magnetico coronale a tutte le latitudini, a diverse altitudini e su più rotazioni solari, scoprendo che le intensità del campo magnetico passavano da valori inferiori a uno fino a circa venti gauss.
Il prossimo obiettivo dei ricercatori è di migliorare i modelli coronali esistenti attraverso la creazione di mappe 3D. La terza dimensione del campo magnetico è infatti di particolare importanza per comprendere come la corona venga energizzata prima di un’eruzione solare. Per farlo, utilizzeranno strumenti e tecniche diverse, in grado di misurare tutte le torsioni e gli intrecci tridimensionali del campo magnetico coronale.
«Dato che il magnetismo coronale è la forza che espelle massa della nostra stella nel Sistema solare, dobbiamo studiarlo in 3D, contemporaneamente in tutta la corona», dice Sarah Gibson, ricercatrice al National Center for Atmospheric Research e co-autrice della pubblicazione. «Il lavoro di Yang rappresenta un enorme passo avanti nella nostra comprensione di come il campo magnetico coronale globale del Sole cambi di giorno in giorno. Ciò è fondamentale per implementare le possibilità di prevedere e prepararci meglio alle tempeste solari, che rappresentano un pericolo sempre maggiore per le nostre vite, sempre più dipendenti dalla tecnologia sulla Terra».
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Observing the evolution of the Sun’s global coronal magnetic field over eight months” di Zihao Yang, Hui Tian, Steven Tomczyk, Xianyu Liu, Sarah Gibson, Richard J. Morton e Cooper Downs
Il campo magnetico di Mercurio in trenta minuti
Come la Terra, anche Mercurio ha un campo magnetico, anche se, a livello del suolo, è cento volte più debole del nostro. Questo campo magnetico crea una bolla nello spazio – la magnetosfera – che funge da cuscinetto al flusso continuo di particelle provenienti dal Sole. Poiché Mercurio orbita molto vicino al Sole, l’interazione del vento solare con la magnetosfera e con la superficie del pianeta è assai più intensa che sulla Terra. Esplorare la dinamica di questa bolla e le proprietà delle particelle contenute al suo interno è uno degli obiettivi principali della missione BepiColombo.
BepiColombo arriverà a Mercurio nel 2026, sfruttando dei sorvoli intorno alla Terra, a Venere e allo stesso Mercurio per regolare la sua velocità e traiettoria, in modo da consentirne l’inserimento in orbita intorno al pianeta, dove la sonda si separerà e schiererà i suoi due moduli orbitanti: il Mercury Planetary Orbiter (Mpo), guidato dall’Esa, e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo), guidato dalla Jaxa. I due moduli viaggeranno lungo orbite complementari per raccogliere le misure necessarie a tracciare un quadro completo dell’ambiente dinamico di Mercurio.
La magnetosfera di Mercurio, con le linee di campo magnetico compresse sul lato verso il Sole e che si estendono in una coda sul lato notturno. Crediti: Esa
I flyby – sei in tutto su Mercurio, quattro dei quali già avvenuti, l’ultimo il mese scorso – consentono inoltre di raccogliere informazioni uniche su regioni del pianeta che non sarebbero direttamente accessibili dall’orbita. Durante il passaggio del 19 giugno 2023, il terzo dei sei flyby, Lina Hadid, ex ricercatrice dell’Esa, ora al Laboratoire de Physique des Plasmas dell’Osservatorio di Parigi, ha utilizzato la serie di strumenti Mercury Plasma Particle Experiment (Mppe), attivi su Mmo, per creare in un brevissimo periodo di tempo un’immagine eccezionale del paesaggio magnetico del pianeta.
«Questi sorvoli sono veloci, abbiamo attraversato la magnetosfera di Mercurio in circa 30 minuti, passando dal tramonto all’alba, con il punto di massimo avvicinamento a soli 235 km sopra la superficie del pianeta», ricorda Hadid. «Abbiamo campionato il tipo di particelle, quanto sono calde e come si muovono».
Combinando le misure di BepiColombo con la modellazione digitale, Hadid e i suoi colleghi hanno potuto tracciare un quadro delle varie caratteristiche che si incontrano nella magnetosfera, determinando l’origine delle particelle rilevate in base al loro moto. «Abbiamo osservato strutture previste, come il bow shock tra il vento solare che scorre liberamente e la magnetosfera, e siamo anche passati attraverso i “corni” che fiancheggiano la distesa di plasma, una regione gassosa più calda, densa e caricata elettricamente che sgorga come una coda in direzione opposta al Sole. Ma abbiamo anche avuto alcune sorprese».
Hadid è co-principal investigator di Mppe e responsabile di uno dei suoi strumenti, l’analizzatore dello spettro di massa. E ha lavorato con il responsabile precedente, Dominique Delcourt, all’articolo che presenta i risultati, pubblicato giovedì scorso su Nature Astronomy.
«Abbiamo rilevato un cosiddetto strato limite a bassa latitudine definito da una regione di plasma turbolento al bordo della magnetosfera, qui abbiamo osservato particelle con una gamma molto più ampia di energie, mai vista prima su Mercurio. Tutto questo grazie alla sensibilità dell’Msa, il Mass Spectrum Analyser progettato appositamente per il complesso ambiente di Mercurio», dice Delcourt. «BepiColombo sarà in grado di determinare la composizione ionica della magnetosfera di Mercurio in modo più dettagliato che mai».
«Abbiamo anche osservato ioni energetici caldi vicino al piano equatoriale e a bassa latitudine, intrappolati nella magnetosfera», aggiunge Hadid,«e pensiamo che l’unico modo per spiegarlo sia l’azione di una corrente ad anello – un anello parziale o completo – ma è un’ipotesi molto dibattuta».
Una corrente ad anello (ring current, in inglese) è una corrente elettrica trasportata da particelle cariche intrappolate nella magnetosfera. La Terra ha una corrente ad anello di cui conosciamo bene le caratteristiche, situata a decine di migliaia di chilometri dalla sua superficie. Su Mercurio è meno chiaro come le particelle possano rimanere intrappolate entro poche centinaia di chilometri dal pianeta, specialmente quando la magnetosfera è schiacciata contro la superficie del pianeta. Questo dubbio sarà probabilmente risolto una volta che Mpo ed Mmo raccoglieranno dati a tempo pieno.
Simulazione dell’ambiente magnetico di Mercurio
Hadid e colleghi hanno anche osservato l’interazione diretta della sonda spaziale con il plasma circostante. Quando la sonda è riscaldata dal Sole, non può rilevare gli ioni pesanti più freddi perché essa stessa si carica elettricamente e li respinge. Ma mentre la sonda si muove attraverso l’ombra notturna del pianeta, la carica è diverso e improvvisamente un mare di ioni di plasma freddi diventa visibile. È stato così possibile rilevare, per esempio, ioni di ossigeno, sodio e potassio, che sono stati probabilmente espulsi dalla superficie del pianeta da impatti di micro-meteoriti o attraverso interazioni con il vento solare.
«È come se improvvisamente stessimo guardando la composizione superficiale “esplosa” in 3D attraverso l’atmosfera molto fine del pianeta, la sua esosfera», spiega Dominique. «È emozionante cominciare a vedere le correlazioni tra la superficie del pianeta e il plasma dell’ambiente circostante».
«Le osservazioni sottolineano quanto sia importante che i due orbiter e i loro strumenti costruiscano un quadro completo di come l’ambiente magnetico e plasmatico cambi nel tempo e nello spazio. Siamo impazienti di vedere come BepiColombo cambierà la nostra comprensione delle magnetosfere planetarie», conclude Geraint Jones, project scientist di BepiColombo all’Esa
Nel frattempo, gli scienziati stanno già analizzando i dati raccolti durante il quarto flyby di Mercurio, mentre ci si prepara agli ultimi due, previsti il primo dicembre 2024 e l’otto gennaio 2025.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Mercury’s plasma environment after BepiColombo’s third flyby”, di Lina Z. Hadid, Dominique Delcourt, Yuki Harada, Mathias Rojo, Sae Aizawa, Yoshifumi Saito, Nicolas André, Austin N. Glass, Jim M. Raines, Shoichiro Yokota, Markus Fränz, Bruno Katra, Christophe Verdeil, Björn Fiethe, Francois Leblanc, Ronan Modolo, Dominique Fontaine, Norbert Krupp, Harald Krüger, Frédéric Leblanc, Henning Fischer, Jean-Jacques Berthelier, Jean-André Sauvaud, Go Murakami e Shoya Matsuda
Starlink, emissioni dalla seconda generazione
Starlink V2 Mini di SpaceX in atresa di essere lanciati. Crediti: SpaceX
Osservazioni effettuate lo scorso anno con il radiotelescopio Lofar (Low Frequency Array) – il più grande radiotelescopio a bassa frequenza sulla Terra, sviluppato da Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy) e operato in collaborazione con altri nove paesi europei – hanno dimostrato che i satelliti Starlink di prima generazione emettono involontariamente onde radio che possono ostacolare le osservazioni astronomiche. Ora nuove osservazioni, sempre con Lofar, hanno dimostrato che anche i satelliti Starlink di seconda generazione “V2-mini” purtroppo non sono da meno.
Negli ultimi anni, il numero di satelliti lanciati in orbita terrestre bassa (Leo) è salito alle stelle, grazie soprattutto alla rapida commercializzazione dello spazio e ai progressi della tecnologia satellitare. Dal 2019, aziende come SpaceX e OneWeb hanno lanciato migliaia di satelliti, soprattutto per le telecomunicazioni. Si prevede che entro la fine del decennio il numero di satelliti in orbita potrebbe superare le 100mila unità. Contestualmente, l’aumento delle emissioni di onde radio dai satelliti in orbita terrestre bassa solleva serie preoccupazioni per il futuro della ricerca astronomica.
Quest’ultimo studio, pubblicato su Astronomy & Astrophysics, è stato condotto utilizzando due lunghe sessioni di osservazione con Lofar, il 19 luglio 2024, coprendo le frequenze radio sopra e sotto la banda di trasmissione FM utilizzata dalle stazioni tipiche delle radio di casa (tra 10 e 88 MHz e tra 110 e 188 MHz). Durante queste osservazioni, il team ha rilevato radiazioni elettromagnetiche indesiderate (Uemr) da quasi tutti i satelliti Starlink osservati, compresi quelli di prima e seconda generazione.
«Con Lofar abbiamo avviato un programma di monitoraggio delle emissioni indesiderate dei satelliti appartenenti a diverse costellazioni e le nostre osservazioni mostrano che i satelliti Starlink di seconda generazione presentano emissioni più forti ed emettono su una gamma più ampia di frequenze radio, rispetto ai satelliti di prima generazione», spiega Cees Bassa dell’Astron, autore principale dello studio.
L’analisi ha infatti rivelato che questi nuovi satelliti emettono onde radio fino a 32 volte più luminose rispetto alla prima generazione, con livelli potenzialmente superiori alle soglie di interferenza stabilite a livello internazionale per le emissioni e agli standard di compatibilità elettromagnetica terrestre ancora più rilassati.
«Rispetto alle più deboli sorgenti astrofisiche che osserviamo con Lofar, le Uemr dei satelliti Starlink sono 10 milioni di volte più luminose. Questa differenza è simile a quella tra le stelle più deboli visibili a occhio nudo rispetto alla luminosità della Luna piena. Poiché SpaceX sta lanciando circa 40 satelliti Starlink di seconda generazione ogni settimana, questo problema sta diventando sempre più grave», aggiunge Bassa.
Il video mostra il cielo radio sopra Lofar, alla lunghezza d’onda di 5 metri. A sinistra sono mostrati i dati reali, con le sorgenti radio più luminose. A destra si vedono i dati con la sottrazione del valore medio dei pixel, che evidenzia le variazioni di luminosità. A questa lunghezza d’onda radio vediamo scintillazione dove le sorgenti variano nel tempo, come stelle che brillano di notte. I satelliti Starlink sono visti come sorgenti che si muovono nel cielo, corrispondenti alle previsioni degli elementi orbitali disponibili al pubblico (segni rossi). Crediti: Astron
La ricerca evidenzia la necessità di norme più severe sulle Uemr satellitari per preservare la qualità delle osservazioni radioastronomiche. «L’umanità si sta chiaramente avvicinando a un punto di inflessione in cui dobbiamo agire per preservare il nostro cielo come finestra per esplorare l’universo dalla Terra. Le compagnie satellitari non sono interessate a produrre queste radiazioni indesiderate, quindi ridurle al minimo dovrebbe essere una priorità delle loro politiche spaziali sostenibili», afferma Federico Di Vruno dell’Osservatorio Ska. «Starlink non è l’unico grande attore in Leo, ma ha la possibilità di stabilire uno standard in questo campo».
I ricercatori sottolineano che se da un lato i satelliti di seconda generazione sono stati progettati per migliorare la connettività e fornire servizi di comunicazione, dall’altro le emissioni radio indesiderate rappresentano una minaccia crescente per l’integrità delle osservazioni astronomiche. Poiché le conseguenze di tali interferenze diventano sempre più evidenti, la collaborazione tra le aziende satellitari, le agenzie di regolamentazione e la comunità astronomica è essenziale per elaborare strategie di mitigazione efficaci.
Nei Paesi Bassi, uno dei Paesi più densamente popolati d’Europa, Astron gestisce Lofar. Questo è possibile solo grazie al supporto normativo delle agenzie locali, provinciali e nazionali. «Da quando Lofar è stato avviato, più di un decennio fa – quando ci fu detto che presto avremmo avuto difficoltà ad osservare a causa delle interferenze radio – con il sostegno normativo e una collaborazione produttiva con l’industria, sono state fatte complessivamente oltre 1000 mitigazioni individuali in collaborazione con decine di gruppi, aziende, infrastrutture, agenzie e individui in tutto il paese», afferma Jessica Dempsey, direttore generale e scientifico di Astron. «E questo rapporto non è unilaterale. Queste tecniche intelligenti per trovare segnali deboli nell’universo hanno restituito progressi tecnologici all’industria e alla società – dal Gps al WiFi. Non solo coesistiamo, ma prosperiamo insieme. Abbiamo le soluzioni per questa simbiosi anche nello spazio: c’è solo bisogno che le autorità di regolamentazione ci sostengano e che l’industria ci venga incontro. Senza mitigazioni, molto presto le uniche costellazioni che vedremo saranno quelle create dall’uomo».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Bright unintended electromagnetic radiation from second generation Starlink satellites” di Bassa, C., F. Di Vruno, B. Winkel, G.I.G. Jósza, M.A. Brentjens e X. Zhang
Iniziato il viaggio di Hera: destinazione asteroide
La missione europea di difesa planetaria è partita oggi, 7 ottobre 2024, alle 16:52 ora italiana, da Cape Canaveral, con un razzo Falcon 9 di SpaceX. Crediti: Esa
È decollata oggi la sonda Hera dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con obiettivo l’asteroide Dimorphos, che raggiungerà nel dicembre 2026. Hera fa seguito alla missione Dart della Nasa, che nel settembre del 2022 aveva impattato, deviandone l’orbita, contro Dimorphos, la piccola luna orbitante di un sistema di asteroidi binari noto come Didymos. Allora a catturare le immagini fu il cubesat LiciaCube dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), realizzato da Argotec, che scattò oltre 600 immagini dell’impatto. Hera cercherà quindi la prova definitiva del sistema di difesa planetario da attuare qualora la Terra dovesse essere in pericolo di collisione con un asteroide. A bordo di Hera molta scienza e tecnologia italiana grazie ai contributi gestiti dall’Asi.
«Sono passati due anni da quando abbiamo ricevuto a Terra le sensazionali immagini del nostro satellite LiciaCube che ha documentato», ricorda Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, «l’impatto della sonda della Nasa Dart su un asteroide. Immagini che ci hanno permesso di studiare e verificare una nuova strategia di protezione planetaria in caso di pericolo derivante da asteroidi e altri oggetti. Oggi il satellite dell’Esa, Hera inizia il suo viaggio sempre verso la stessa destinazione per analizzare ancor più da vicino ciò che è accaduto a Dimorphos, colpito allora e deviato nella sua orbita intorno a Didymos. La strategia della caccia agli asteroidi potenzialmente pericolosi si rafforza con questo importante contributo dell’Europa, con l’Italia e l’Asi in prima linea, verso il consolidamento della tecnica scelta per essere utilizzata nel caso in cui dovesse essere rilevato un corpo minore in rotta di collisione con il nostro pianeta. La partecipazione italiana alla missione è frutto, ancora una volta, di una collaborazione virtuosa tra scienza e tecnologia che fa confermare il nostro paese ai vertici in questo campo e che fornirà all’Europa una capacità elevata che le permetterà di essere al passo in ambito internazionale».
We have a mission!!#HeraMission‘s solar arrays have deployed and its batteries are charging. The satellite is in good health and the first commands have been confirmed on board. pic.twitter.com/ChckwCmNw9— ESA Operations (@esaoperations) October 7, 2024
Hera rilascerà anche due cubesats per eseguire osservazioni ravvicinate di supporto. Uno dei due, chiamato Milani, realizzato in Italia dalla Tayvak, effettuerà osservazioni multispettrali di superficie, mentre l’altro, Juventas, effettuerà per la prima volta rilevamenti radar dell’interno di un asteroide. Sulla sonda l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è inoltre responsabile dello strumento Vista (Volatile In Situ Thermogravimeter Analyser), un sensore per l’analisi dell’ambiente di polveri del sistema Didymos-Dimorphos a bordo di Milani. Lo studio della polvere attorno a Didymos è fondamentale per capire la coesione di questi corpi celesti nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose.
La consegna del cubesat Milani, lo scorso marzo, presso l’azienda Tyvak International Srl a Torino. Da sinistra: Andrea Longobardo (Inaf Iaps, team Vista), Diego Scaccabarozzi (Politecnico di Milano), Emiliano Zampetti (Cnr), Ian Carnelli (project manager della missione Hera), Ernesto Palomba (Inaf Iaps, responsabile scientifico dello strumento Vista), Fabrizio Dirri (Inaf Iaps, team Vista), Chiara Gisellu (Inaf Iaps, team Vista). Crediti: C. Gisellu
«Sono molto emozionato nel vedere coronato un sogno iniziato quasi venti anni fa con innocenti idee discusse durante i caffè e poi proseguite con i successivi studi di strumentazione miniaturizzata per l’Agenzia spaziale europea», dice da Cape Canaveral Ernesto Palomba, ricercatore Inaf e responsabile scientifico dello strumento Vista. «Ora sono qui con il mio team in euforica attesa di vedere arrivare i primi dati da Didymos tra qualche mese, che ci permetteranno di capire in dettaglio la situazione di questo sistema di asteroidi e delle loro polveri sollevate dopo l’impatto della missione Dart. Le informazioni che otterremo saranno fondamentali per capire la coesione di questi corpi celesti, nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose».
Oltre alle attività su Vista, l’Inaf collabora attivamente con altri due strumenti a bordo della missione: lo spettrometro Aspect e la termocamera a infrarossi Tiri. Per la parte industriale, inoltre, la Thales Alenia Space ha realizzato importanti equipaggiamenti, tra cui il transponder nello spazio profondo, costruito in Italia negli stabilimenti di Roma e L’Aquila, che consentirà una solida comunicazione con la stazione di terra. Anche Leonardo ha dato il suo apporto fornendo i pannelli fotovoltaici che alimenteranno la sonda. Realizzati nello stabilimento di Nerviano, in provincia di Milano, sono composti da due ali con tre pannelli ciascuna per un totale di circa 14 metri quadrati e oltre 1600 celle, ognuna grande quasi il doppio di una carta di credito. Inoltre Ohb-Italia è coinvolta nella realizzazione di importanti sistemi di bordo quali il sistema di potenza elettrica, mentre la propulsione è stata assegnata ad Avio. Tsd Space, una Pmi con sede a Napoli, ha infine realizzato la Spacecraft Monitoring Camera (Smc) di Hera.
Il lancio di Hera è avvenuto alle 16:52 ora italiana dalla rampa Slc-40 di Cape Canaveral utilizzando un vettore Falcon 9 della società americana SpaceX.
Fonte: comunicato stampa Asi
Per saperne di più sulla missione Hera, guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
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Rebels-25, la più antica galassia rotante
Immagine Alma del gas freddo in Rebels-25. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland et al.
Scoperta la più distante galassia simile alla Via Lattea mai osservata. Chiamata Rebels-25, questa galassia a disco sembra ordinata come le galassie odierne, ma noi la vediamo com’era quando l’universo aveva solo 700 milioni di anni. Ciò è sorprendente poiché, secondo la nostra attuale comprensione della formazione delle galassie, ci si aspetta che le galassie primordiali appaiano più caotiche. La rotazione e la struttura di Rebels-25 sono state rivelate utilizzando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui l’Eso (European Southern Observatory) è un partner.
Le galassie che vediamo oggi hanno fatto molta strada rispetto alle controparti caotiche e grumose che gli astronomi osservano tipicamente nell’universo primordiale. «Secondo la nostra comprensione della formazione delle galassie, ci aspettiamo che la maggior parte delle galassie primordiali siano piccole e dall’aspetto disordinato», dice Jacqueline Hodge, astronoma all’Università di Leida, nei Paesi Bassi, e coautrice dello studio. Queste disordinate galassie primordiali si fondono tra loro e poi evolvono verso forme più uniformi a un ritmo incredibilmente lento. Le attuali teorie suggeriscono che, affinché una galassia sia ordinata come la Via Lattea, un disco in rotazione con strutture ben identificate come i bracci a spirale, devono essere trascorsi miliardi di anni di evoluzione. L’osservazione di Rebels-25, invece, mette in discussione questa scala temporale.
Nello studio, accettato per la pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, gli astronomi hanno scoperto che Rebels-25 è la più distante galassia con un disco in veloce rotazione mai scoperta. La luce che ci raggiunge da questa galassia è stata emessa quando l’Universo aveva solo 700 milioni di anni, appena il cinque per cento della sua età attuale (13,8 miliardi), rendendo inaspettata la rotazione ordinata di Rebels-25. “Vedere una galassia con tali somiglianze con la Via Lattea, fortemente dominata dalla rotazione, sfida la nostra comprensione di quanto velocemente le galassie nell’Universo primordiale si evolvano nelle galassie ordinate del cosmo odierno“, afferma Lucie Rowland, studentessa di dottorato presso l’Università di Leida e prima autrice dello studio.
Immagine Alma (a sinistra) e movimento del gas freddo in Rebels-25 (a destra). Cediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland et al.
Rebels-25 è stata inizialmente rivelata durante precedenti osservazioni dello stesso gruppo di lavoro, sempre condotte con Alma, che si trova nel deserto di Atacama in Cile. All’epoca, si è rivelata una scoperta entusiasmante, poichè la galassia mostrava accenni di rotazione, ma la risoluzione dei dati non era abbastanza fine per esserne certi. Per discernere correttamente la struttura e il movimento della galassia, il gruppo ha eseguito osservazioni successive con Alma a una risoluzione più elevata, che hanno unque confermato la sua natura eccezionale. “Alma è l’unico telescopio esistente con la sensibilità e la risoluzione per raggiungere questo obiettivo“, afferma Renske Smit, ricercatrice presso la Liverpool John Moores University nel Regno Unito e coautrice dello studio.
La galassia Rebels-25. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/L. Rowland Et Al./Eso/J. Dunlop et al. Ack.: Casu, Calet
Sorprendentemente, i dati hanno anche suggerito caratteristiche più sviluppate simili a quelle della Via Lattea, come una barra centrale allungata e persino bracci a spirale, anche se saranno necessarie altre osservazioni per confermarlo. “Trovare ulteriori prove di strutture più evolute sarebbe una scoperta entusiasmante, poiché sarebbe la più distante galassia fino ad oggi per cui tali strutture sono osservate“, conclude Rowland.
Le future osservazioni di Rebels-25, insieme ad altre scoperte di galassie primitive con rotazione, poitrebbero trasformare la nostra comprensione della formazione delle galassie primitive e dell’evoluzione dell’Universo nel suo complesso.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “REBELS-25: Discovery of a dynamically cold disc galaxy at z = 7.31”, di Lucie E. Rowland, Jacqueline Hodge, Rychard Bouwens, Pavel Mancera Piña, Alexander Hygate, Hiddo Algera, Manuel Aravena, Rebecca Bowler, Elisabete da Cunha, Pratika Dayal, Andrea Ferrara, Thomas Herard-Demanche, Hanae Inami, Ivana van Leeuwen, Ilse de Looze, Pascal Oesch, Andrea Pallottini, Siân Phillips, Matus Rybak, Sander Schouws, Renske Smit, Laura Sommovigo, Mauro Stefanon e Paul van der Werf
Aurora boreale? In questo periodo dell'anno? A quest'ora del giorno? In questa zona del paese? (cit)
La foto è del 10 Maggio 2024 ed stata scattata con un cellulare dal Parco delle Ginestre dal nostro socio @fabiofabbri84, ma questo weekend lo spettacolo potrebbe ripetersi!
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quella del 10 maggio l’ho vista (zona ginevra) ma anche allora era abbondantemente dopo la mezzanotte.
vediamo come si mette stasera…
29P sbuffa sotto gli occhi di James Webb
I centauri sono piccoli corpi celesti che orbitano attorno al Sole in una regione di spazio compresa tra Giove e Nettuno. A causa dell’influenza gravitazionale dei giganti gassosi, hanno generalmente orbite instabili. Inoltre, hanno una caratteristica unica, che non si osserva in nessun’altra popolazione di corpi celesti del Sistema solare: come i centauri della mitologia greca – metà umani e metà animali – da cui prendono il nome, questi oggetti celesti sono per metà asteroidi – con orbite, composizione superficiale e comportamento inerte in alcune fasi della loro vita tipiche di questi oggetti – e per metà comete, in grado di espellere gas e polveri quando la loro orbita li porta vicino al Sole, formando una chioma e una coda.
Illustrazione artistica che mostra l’attività di degassamento del centauro 29P/Schwassmann-Wachmann 1. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (STScI)
Centaur 29P/Schwassmann-Wachmann 1 – il doppio nome si riferisce alla loro doppia natura – è uno dei rappresentanti di questa classe di oggetti. Scoperto il 15 novembre 1927 da Arnold Schwassmann e Arthur Wachmann dall’Osservatorio di Amburgo, in Germania, 29P è noto per le sue eiezioni di gas quasi periodiche. Osservazioni precedenti dell’oggetto celeste alle lunghezze d’onda del radio hanno mostrato l’emissione di un getto composto da anidride carbonica. Grazie alle osservazioni condotte con il James Webb Space Telescope, gli scienziati hanno ora scoperto altre tre emissioni di gas mai osservate prima d’ora, che forniscono nuovi indizi sulla natura del nucleo del centauro: due getti di CO2 emesse dai poli, e un getto di monossido di carbonio che punta verso nord.
«I centauri possono essere considerati resti della formazione del nostro sistema planetario» spiega Sara Faggi, scienziata del Goddard Space Flight Center della Nasa e prima autrice dello studio, pubblicato su Nature Astronomy, che riporta i risultati della ricerca. «Poiché si trovano in regioni in cui le temperature sono molto basse, conservano informazioni sui composti volatili presenti nelle prime fasi di vita del Sistema solare. Il telescopio Spaziale James Webb», aggiunge la ricercatrice, «ci ha permesso di osservare 29P con una risoluzione e una sensibilità che ci hanno impressionato: non avevamo mai visto niente del genere».
Le osservazioni di 29P sono state condotte nell’ambito del programma General Observer N. 2416 del ciclo 1 di James Webb, incentrato sullo studio dei centauri attivi, e sono state effettuate utilizzando lo spettrometro NirSpec in modalità Ifu (Integral Field Unit), una tecnica che consente di ottenere uno spettro per ogni parte del campo di vista dello strumento. Jwst ha puntato l’oggetto il 20 febbraio 2023, quando si trovava a una distanza dal Sole e dal telescopio rispettivamente di 910 e 820 milioni di chilometri.
A sinistra, le mappe della densità di colonna della CO2, in alto, e della CO, in basso. A destra, il modello 3D dei getti osservati da Jwst (cliccare per ingrandire). Crediti: Nasa, Esa, Csa, Leah Hustak (Stsci), Sara Faggi (Nasa-Gsfc, American University)
I dati spettrali e di imaging forniti dal telescopio, oltre a mostrare la presenza di un getto di monossido di carbonio diretto verso l’osservatore, già individuato in studi precedenti, hanno mostrato chiaramente la firma di un nuovo getto di monossido di carbonio emesso in direzione nord rispetto all’osservatore e due getti di CO2 emessi rispettivamente in direzione nord e sud. Nel caso della CO2 si tratta delle la prima rilevazione della sostanza sul centauro.
Per comprendere l’orientamento e l’origine di questi degassamenti, sulla base dei dati raccolti dal telescopio James Webb il team ha sviluppato un modello tridimensionale dei getti. Il modello in questione è stato sviluppato per simulare simultaneamente il degassamento isotropo e anisotropo (cioè in tutte o in specifiche direzioni) per un massimo di due getti, con l’opzione di aggiungerne altri.
Le simulazioni suggeriscono che i getti vengano emessi da regioni diverse del nucleo del centauro. Il modello mostra inoltre una forte dicotomia nei rapporti di abbondanza di CO/CO2, suggerendo la possibilità che il nucleo possa essere un aggregato di oggetti distinti con composizioni diverse, sebbene altri scenari non possano essere esclusi, spiegano gli scienziati. Alla luce di questi risultati, l’ipotesi dei ricercatori è che i getti emessi da 29P siano il risultato di una dicotomia nella sua composizione strutturale. Una possibile interpretazione, aggiungono i ricercatori, è che il corpo celeste abbia un nucleo bilobato, con un lobo formatosi in una regione in cui il monossido di carbonio è stato convertito in modo più efficiente in anidride carbonica rispetto all’altro lobo.
«Il fatto che 29P presenti differenze così drammatiche nell’abbondanza di monossido di carbonio e anidride carbonica sulla sua superficie suggerisce che possa essere costituito da diversi pezzi», dice a questo proposito Geronimo Villanueva, ricercatore al Goddard Space Flight Center della Nasa e co-autore dello studio. «È possibile che due corpi si siano uniti e abbiano creato questo centauro, che è un mix di corpi molto diversi che hanno subito percorsi di formazione separati. Ciò mette in discussione le nostre idee su come i corpi celesti primordiali siano stati creati e immagazzinati nella fascia di Kuiper»
Il prossimo obiettivo dei ricercatori è di studiare con lo stesso approccio altri centauri, migliorando la conoscenza collettiva di questi corpi e contemporaneamente la comprensione dei meccanismi di formazione ed evoluzione del Sistema solare. Poiché non ci sono attualmente missioni che hanno in programma di visitare un centauro, concludono i ricercatori, queste osservazioni dimostrano le capacità uniche di Jwst nel caratterizzare questi oggetti.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomyl’articolo “Heterogeneous outgassing regions identified on active centaur 29P/Schwassmann–Wachmann 1” di Sara Faggi, Geronimo L. Villanueva, Adam McKay, Olga Harrington Pinto, Michael S. P. Kelley, Dominique Bockelée-Morvan, Maria Womack, Charles A. Schambeau, Lori Feaga, Michael A. DiSanti, James M. Bauer, Nicolas Biver, Kacper Wierzchos e Yanga R. Fernandez
Guarda l’animazione dell’attività di degassamento di 29P sul calale YouTube di Jwst:
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Axis e Prima in gara per un miliardo di dollari
Rappresentazioni artistiche di Axis (sx) e Prima (dx)
Annunciati ieri dalla Nasa i nomi dei due telescopi spaziali che si giocheranno la finale del Probe Explorers, un nuovo programma di missioni scientifiche di “stazza media”, a metà strada fra le missioni flagship e quelle small. In palio c’è un miliardo di dollari (vettore e costi di lancio esclusi) per la realizzazione del satellite e la possibilità di andare nello spazio già dal 2032. A contendersi l’ambito premio saranno Axis e Prima. Axis, acronimo di Advanced X-ray Imaging Satellite, è un telescopio per raggi X a grande campo, con principal investigator Christopher Reynolds della University of Maryland. Quanto a Prima, acronimo di Probe far-Infrared Mission for Astrophysics, è invece un telescopio per il lontano infrarosso, e il principal investigator è Jason Glenn del Goddard Space Flight Center della Nasa
Da oggi entrambe le proposte entrano nella cosiddetta “fase A” – la finale, appunto: ciascuno dei due team riceverà 5 milioni di dollari per condurre uno studio lungo 12 mesi sul concetto di missione. Nel 2026, dopo una valutazione dettagliata di questi studi, la Nasa selezionerà il vincitore, dando il via alla costruzione. Lancio, dicevamo, a partire dal 2032.
Nico Cappelluti (University of Miami), membro del team scientifico di Axis
Ma di che telescopi si tratta? Media Inaf lo ha chiesto a due astrofisici italiani che fanno parte delle due squadre di scienziati: Nico Cappelluti, professore all’Università di Miami (Usa) e associato Inaf, membro del team scientifico di Axis, e Carlotta Gruppioni, astrofisica all’Inaf di Bologna, fra i co-investigator di Prima.
«Grazie alla sua capacità innovativa di ottenere immagini a raggi X ad alta risoluzione su un ampio campo visivo e alla sua sensibilità verso oggetti molto deboli», spiega Cappelluti, «Axis studierà i primi buchi neri supermassicci. Capire come si sono formati e come hanno contribuito all’evoluzione delle prime galassie è ancora un mistero. Questo potrà essere risolto solo combinando le indagini nell’infrarosso – come quelle condotte con Jwst, Roman ed Euclid – con le osservazioni nella banda dei raggi X, che riescono a fornire informazioni dove queste bande non riescono. Tuttavia, i telescopi attualmente disponibili non sono abbastanza sensibili per questo tipo di studi. Axis ci aiuterà anche a mantenere una comunità scientifica attiva nello studio dell’astronomia a raggi X, che grazie ai telescopi Chandra e Xmm-Newton ha già prodotto risultati straordinari nel corso degli anni».
Carlotta Gruppioni (Istituto nazionale di astrofisica), co-investigator di Prima
«Siamo entusiasti di vedere Prima andare avanti verso la fase successiva», dice Gruppioni, «è un traguardo molto importante per tutta la comunità astronomica, che da tempo richiede una missione nel medio/lontano infrarosso: l’ultima è stata la missione Herschel dell’Esa, lanciata ormai 15 anni fa. Prima coprirà un ampio intervallo spettrale, da 24 a 261 micron: una regione critica dello spettro tra l’infrarosso vicino, coperto da Jwst, e le onde radio/sub-millimetriche, coperte da Alma. La radiazione infrarossa, non subendo gli effetti di oscuramento da parte della polvere interstellare che invece affliggono quella ottica e ultravioletta, permette di studiare le fasi oscurate della formazione ed evoluzione di galassie e buchi neri supermassicci, dei sistemi planetari e delle loro atmosfere, della stessa polvere e dei metalli (elementi più pesanti dell’idrogeno) attraverso il tempo cosmico».
Quanto al contributo italiano alle due proposte, ricordiamo che nel team scientifico di Axis c’è anche Stefano Marchesi dell’Università di Bologna, mente fra i co-investigator di Prima, oltre a Gruppioni, c’è un’altra ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica: Anna Di Giorgio. E se sarà Prima a essere selezionata, spetterà all’Agenzia spaziale italiana fornire la cosiddetta warm payload command and data handling electronics, che gestisce tutto il payload scientifico interfacciandosi con nove unità di bordo, e un’antenna ad alto guadagno con transponder, per la trasmissione ad alto data rate necessaria per permettere la trasmissione della grande mole dei dati acquisiti a bordo.
Per saperne di più sulle due proposte:
- Vai al sito di Axis – Advanced X-ray Imaging Satellite
- Vai al sito di Prima – Probe far-Infrared Mission for Astrophysics
Sondando il mistero dei raggi gamma nei temporali
Rappresentazione artistica dell’aereo della Nasa che sorvola le nuvole illuminate dai raggi gamma nei Caraibi durante la campagna di volo del luglio 2023. Crediti: UiB/Mount Visual
L’emissione di raggi gamma dalle nubi temporalesche è molto più complessa, varia e dinamica di quanto si pensasse in precedenza. È quanto emerge da due studi pubblicati ieri su Nature guidati entrambi da due fisici dell’Università di Bergen (Norvegia), uno dei quali – l’italiano Martino Marisaldi – è anche associato all’Istituto nazionale di astrofisica. Fenomeni complessi, questi alla base dell’emissione di raggi gamma durante i temporali, e fondamentali per indagare processi in parte ancora non compresi all’origine dei fulmini.
Fino a oggi erano due i fenomeni d’emissione ad altissima energia rilevati durante i temporali: i lampi di raggi gamma terrestri (Tgf, dall’inglese terrestrial gamma-ray flash) e i bagliori di raggi gamma (gamma glows, in inglese). Lo studio guidato da Nikolai Østgaard riporta ora l’osservazione di un terzo tipo di emissione – una sorta di lampi di raggi gamma “tremolanti” (Fgf, dall’inglese flickering gamma-ray flashes), brevi impulsi prodotti in un intervallo dai 20 ai 250 millisecondi – che potrebbe rappresentare, dice Østgaard, «l’anello mancante tra i Tgf e i bagliori gamma, la cui assenza ha lasciato perplessa la comunità dell’elettricità atmosferica per due decenni».
La scoperta è stata resa possibile dai dati raccolti dalla campagna osservativa Aloft (Airborne Lightning Observatory for Fegs and Tgfs): dieci missioni condotte nell’estate del 2023 a bordo di un aereo Er-2 della Nasa, opportunamente equipaggiato con strumentazione scientifica per la rilevazione di raggi gamma e campi elettrici, volando ad alta quota al di sopra di altrettanti temporali tropicali sui Caraibi e in America Centrale. Missioni nel corso delle quali sono stati registrati 96 Tgf, 10 bagliori gamma e 24 di questi inediti lampi tremolanti – gli Fgf, appunto. Oltre alla durata dei singoli impulsi, che li colloca a metà strada fra i brevissimi Tgf e i più lunghi bagliori gamma, gli Fgf si caratterizzano per l’assenza di qualsivoglia associazione con segnali ottici o radio rilevabili.
Nikolai Østgaard (a sx) e Martino Marisaldi (a dx), primi autori dei due studi, entrambi professori all’Università di Bergen. Al centro, uno dei due aerei Airborne Science Er-2 gestiti dalla Nasa a scopo scientifico (crediti: Nasa/Carla Thomas)
Risultati inattesi emergono anche dal secondo studio, quello guidato da Marisaldi. A sorprendere gli scienziati, in questo caso, è stato osservare come, contrariamente a quanto ritenuto finora, le nubi temporalesche tropicali al di sopra dell’oceano e delle regioni costiere emettano comunemente raggi gamma per ore, e su aree che si estendono fino a qualche migliaio di chilometri quadrati.
«In precedenza si riteneva che questi fenomeni di alta energia fossero relativamente rari, quasi solo delle curiosità», ricorda Marisaldi a Media Inaf. «Ora sappiamo che sono molto frequenti, almeno negli intensi sistemi temporaleschi tropicali, e intrinsecamente connessi ai processi di carica e scarica delle nubi. Un’affascinante ipotesi che stiamo considerando è che siano uno degli elementi che facilitano o addirittura causano i fulmini, la cui origine è tuttora un mistero. Questo sarebbe un cambio di paradigma rispetto all’interpretazione corrente che vede i Tgf, almeno quelli più brillanti osservabili dallo spazio, associati a fulmini già sviluppati e in fase di propagazione».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Flickering gamma-ray flashes, the missing link between gamma glows and TGFs”, di N. Østgaard, A. Mezentsev, M. Marisaldi, J. E. Grove, M. Quick, H. Christian, S. Cummer, M. Pazos, Y. Pu, M. Stanley, D. Sarria, T. Lang, C. Schultz, R. Blakeslee, I. Adams, R. Kroodsma, G. Heymsfield, N. Lehtinen, K. Ullaland, S. Yang, B. Hasan Qureshi, J. Søndergaard, B. Husa, D. Walker, D. Shy, M. Bateman, P. Bitzer, M. Fullekrug, M. Cohen, J. Montanya, C. Younes, O. van der Velde, P. Krehbiel, J. A. Roncancio, J. A. Lopez, M. Urbani, A. Santos e D. Mach
- Leggi su Nature l’articolo “Highly dynamic gamma-ray emissions are common in tropical thunderclouds”, di M. Marisaldi, N. Østgaard, A. Mezentsev, T. Lang, J. E. Grove, D. Shy, G. M. Heymsfield, P. Krehbiel, R. J. Thomas, M. Stanley, D. Sarria, C. Schultz, R. Blakeslee, M. G. Quick, H. Christian, I. Adams, R. Kroodsma, N. Lehtinen, K. Ullaland, S. Yang, B. Hasan Qureshi, J. Søndergaard, B. Husa, D. Walker, M. Bateman, D. Mach, S. Cummer, M. Pazos, Y. Pu, P. Bitzer, M. Fullekrug, M. Cohen, J. Montanya, C. Younes, O. van der Velde, J. A. Roncancio, J. A. Lopez, M. Urbani e A. Santos
Più 3D per tutti: iDavie sbarca su GitHub
Fabio Vitello (Inaf Catania) mentre sta usando iDavie, il software di visualizzazione scientifica 3D che ha contribuito a svilupapre. Crediti: Leonardo Pelonero/Inaf Catania
È stato reso pubblico ieri su GitHub il software di visualizzazione 3D per dati scientifici iDavie, acronimo di Immersive Data Visualisation Interactive Explorer. L’annuncio arriva dal laboratorio Vislab del consorzio sudafricano Idia, che definisce questa prima release pubblica “una pietra miliare, un significativo progresso nella visualizzazione e nell’analisi dei dati astronomici”.
Progettato per facilitare la visualizzazione e l’interrogazione di complessi set di dati astronomici e multidisciplinari sfruttando le capacità uniche della realtà virtuale, iDavie è particolarmente orientato alla comunità astronomica, in quanto consente di analizzare con un dettaglio senza precedenti data cubes e cataloghi 3D come quelli prodotti dal radiotelescopio MeerKat e, in futuro, da Ska, lo Square Kilometre Array. Ed è un prodotto per metà made in Italy: non solo c’è una scienziata italiana, Lucia Marchetti, alla guida del Vislab, ma è in parte italiano anche il team che ha sviluppato il software, formato dallo stesso Vislab e da ricercatori e tecnologi dell’Inaf di Catania. Proprio a uno di loro, il catanese Fabio Roberto Vitello, informatico esperto in tecnologie avanzate per l’astrofisica, in sistemi Hpc e in visualizzazione scientifica, abbiamo chiesto quale possa essere l’utilità di iDavie.
Qual è per uno scienziato il principale valore aggiunto di una visualizzazione 3D? Voglio dire, voi astrofisici siete abituati a maneggiare modelli a quattro o più dimensioni, come quelli che descrivono lo spaziotempo o la teoria delle stringhe… ll 3D non è più roba da videogamer o architetti?
«Per uno scienziato, la visualizzazione 3D offre un valore aggiunto cruciale, anche in campi complessi come l’astrofisica, dove siamo abituati a lavorare con modelli multidimensionali. La visualizzazione tridimensionale non è solo un mezzo per rappresentare i dati, ma uno strumento che facilita l’interpretazione e l’intuizione di fenomeni complessi. Quando gestiamo modelli a quattro o più dimensioni, come lo spaziotempo o le stringhe, la capacità di ridurre una dimensione complessa a una visualizzazione 3D ci permette di cogliere pattern, relazioni e anomalie in modo molto più immediato. In pratica, il 3D diventa un’interfaccia interattiva e intuitiva per esplorare e comprendere meglio dati che altrimenti sarebbero astratti e difficili da manipolare. Non si tratta quindi di “roba da videogamer o architetti”, ma di uno strumento scientifico potente, soprattutto per lavorare con data cube tridimensionali (dove, ad esempio, ogni punto nello spazio può avere un’informazione spettrale associata). Per gli astrofisici, questo significa poter esaminare fenomeni come la distribuzione delle galassie o le strutture cosmiche in maniera più naturale, immergendosi nei dati per studiare il loro comportamento da più prospettive, rilevando dettagli che possono sfuggire con una rappresentazione bidimensionale. La visualizzazione 3D, inoltre, permette di rendere i risultati scientifici più accessibili e comunicabili anche a un pubblico non specializzato, trasformando concetti astratti in immagini che tutti possono comprendere. In questo senso, la tecnologia si colloca a metà strada tra analisi scientifica avanzata e comunicazione scientifica efficace».
iDavie è stato progettato per facilitare la visualizzazione e l’interrogazione di complessi set di dati astronomici e multidisciplinari, sfruttando le capacità uniche della realtà virtuale. Crediti: Idia Vislab
iDavie in particolare cos’ha di diverso rispetto ai tanti software immersivi 3D oggi in commercio?
«iDavie si caratterizza per la sua capacità di sfruttare la realtà virtuale per immergere gli scienziati direttamente nei dati, consentendo un’esplorazione interattiva e dettagliata. Questa immersione permette di identificare pattern e strutture complesse che potrebbero non essere visibili tramite le tradizionali visualizzazioni bidimensionali. Inoltre, iDavie è altamente scalabile e adattabile a vari tipi di dataset, non solo astronomici, ma anche provenienti da altre discipline scientifiche come l’ingegneria e la biologia. Un altro aspetto distintivo di iDavie è il suo approccio open source, che lo rende non solo accessibile alla comunità scientifica globale, ma aperto a contributi e sviluppi futuri da parte di ricercatori di tutto il mondo. Questa filosofia di collaborazione lo distingue da molte soluzioni commerciali chiuse e gli permette di evolversi in linea con le esigenze degli scienziati e delle nuove scoperte».
È stato sviluppato da una collaborazione fra ricercatori di tre università sudafricane e dell’Inaf di Catania: com’è nata questa liason fra i due emisferi?
«La collaborazione tra Idia – l’Inter-University Institute for Data Intensive Astronomy, un consorzio di tre università sudafricane – e l’Inaf di Catania nasce da una congiunzione naturale di esigenze scientifiche e competenze tecnologiche complementari facilitata nell’ambito di RadioSky 2020 e RadioMap, progetti di cooperazione bilaterale scientifica e tecnologica tra Italia e Sudafrica finanziato dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dalla National Research Foundation. Questa partnership è un esempio virtuoso di cooperazione scientifica internazionale, dove la condivisione di risorse, idee e competenze ha prodotto un risultato innovativo. Inoltre, l’apertura del codice sorgente del software evidenzia l’impegno di entrambe le istituzioni a favorire un approccio inclusivo e collaborativo, promuovendo lo sviluppo di tecnologie avanzate a livello globale».
Da oggi su GitHub, chiunque lo può scaricare gratuitamente – e anche contribuire al suo sviluppo: a proposito, in che linguaggio è scritto? E, soprattutto, una volta scaricato cosa occorre per usarlo?
«Il software iDavie è sviluppato in C# utilizzando il motore grafico Unity, tecnologie comunemente utilizzate nell’industria dei videogiochi ma che si rivelano particolarmente efficaci nella gestione avanzata della realtà virtuale e della visualizzazione interattiva. Per utilizzare iDavie è necessario disporre di un computer con prestazioni elevate, dotato di una scheda grafica con almeno la potenza di una Nvidia Gtx 1080 o una Amd Rx 5700 Xt, anche se per ottenere le massime prestazioni si consiglia l’uso di una Nvidia Rtx 3080 o una Amd Rx 6800 Xt o modelli più recenti. Il processore dovrebbe essere almeno un quad-core, mentre per la memoria Ram sono richiesti almeno 16 GB. Tuttavia, per lavorare con data cube di grandi dimensioni, è preferibile avere 32 GB o 64 GB di Ram. Per quanto riguarda la realtà virtuale, qualsiasi visore compatibile con SteamVr è supportato da iDavie. In termini di formati di dati, iDavie è in grado di gestire dataset multidimensionali come i data cube 3D e i cataloghi astronomici in formato Fits».
Per saperne di più:
- Vai al sito di iDavie
- Scarica iDavie da GitHub
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista video a Lucia Marchetti:
youtube.com/embed/rgfLHRbp6hw?…
A cavallo di una Cometa, verso M31
Visibilità della cometa C/2023 A3 Tsuchinshan-ATLAS
a partire dall’11 ottobre 2024.
Il cielo di ottobre ci riserva una bellissima sorpresa con la cometa non periodica C/2023 A3 Tsuchinshan-Atlas che, passata vicino il Sole a fine settembre, il giorno 12 ottobre passerà nel punto più vicino alla Terra. Si potrà tentare di osservarla nei primissimi giorni del mese all’alba prima del sorgere del Sole verso est. Sarà bassa sull’orizzonte e in avvicinamento angolare al Sole. In seguito, dal 10 del mese in poi, sarà meglio visibile al tramonto bassa sull’orizzonte ovest. All’inizio con gran difficoltà, poi con il passare dei giorni si allontanerà angolarmente dal Sole rendendo l’osservabilità meno difficile, sperando che la luminosità sia e rimanga alta da poter essere ben visibile a occhio nudo. Interessante il suo passaggio nei pressi dell’ammasso globulare M5 la sera del 15 ottobre.
Illustrazione dell’incontro tra la Via Lattea e la galassia di Andromeda M31. Crediti: Nasa; Esa; A. Feild and R. van der Marel, Stsci
Ma questo mese è anche ottimo per l’osservazione di M31, la grande galassia di Andromeda, e M33, la galassia del Triangolo. Distante 2,5 milioni di anni luce, in cieli bui M31 è facile osservarla, essendo ben visibile a occhio nudo. Nei primi giorni del mese culmina al meridiano all’una di mattina circa. Meglio, perciò, cercare di osservarla in questo periodo. La Luna non disturba le osservazioni e trovarla non è difficile. È la galassia più massiccia del nostro ammasso locale, al quale appartengono anche la nostra, la Via Lattea, e M33. Tra circa quattro miliardi di anni, M31 e la nostra galassia si incontreranno per fondersi insieme sotto l’inesorabile attrazione gravitazionale reciproca. Addirittura, da uno studio recente sembra che le due galassie, la nostra e quella di Andromeda, si stiano già corteggiando.
Per chi ama la notte possiamo veder passare in cielo sia le costellazioni estive, nella prima parte della serata, sia ovviamente quelle autunnali, verso la mezzanotte, e per finire anche le costellazioni invernali nelle prime ore del mattino. È proprio in queste ultime che si trovano i pianeti che ci accompagneranno i prossimi mesi. Marte sorge dopo la mezzanotte nella costellazione dei Gemelli e Giove intorno alle 10 di sera in quella del Toro. Saturno sarà ancora ben visibile per tutto il mese, ma pian piano anticiperà il proprio tramontare e si appresta a diminuire la sua visibilità. Tramonterà a fine mese verso l’una del mattino e perciò resterà comunque ben visibile per tutta la prima parte della notte, anche dopo la metà di ottobre.
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Dov’è nato Ryugu? Più vicino di quel che si pensava
L’asteroide near-Earth Ryugu fotografato da una distanza di 20 km. Crediti: Jaxa, University of Tokyo, Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University, Chiba Institute of Technology, Meiji University, University of Aizu e Aist
Il 6 dicembre del 2020 la sonda spaziale Hayabusa 2 della Jaxa ha riportato sulla Terra circa 5 grammi dell’asteroide Ryugu. Da allora i preziosi frammenti dell’oggetto celeste – considerato dagli addetti ai lavori una capsula del tempo contenente informazioni sui primi istanti di vita del Sistema solare – sono stati sottoposti a numerose indagini. Dopo il recupero del materiale dal sample catcher (compartimento porta campioni) presso l’Extraterrestrial Sample Curation Center della Jaxa, minuscoli granelli neri sono stati consegnati in diversi laboratori di ricerca sparsi in tutto il mondo, compreso un laboratorio Inaf a Roma, dove sono stati analizzati per determinarne la struttura, la composizione chimica, isotopica e mineralogica e rispondere così a una delle domande che da tempo gli scienziati si pongono: dov’è nato Ryugu?
I primi studi condotti sull’asteroide, i cui risultati sono stati pubblicati su prestigiose rivista scientifiche come Nature e Science, hanno svelato molti dettagli. Alcuni studi hanno rilevato al suo interno la presenza di acqua liquida intrappolata in cristalli esagonali di solfuro di ferro. Non acqua “liscia”, però, ma acqua “addizionata” di molecole di anidride carbonica (CO2). Altri studi hanno scoperto la presenza di abbondante materia organica sia sottoforma di grani di dimensioni sub-micrometriche che come materia dispersa nella matrice rocciosa, così come la presenza di gas nobili (presenti in quantità mai osservate in nessun altro asteroide finora studiato), di idrocarburi, di amminoacidi, di uracile e di niacina (un vitamero della vitamina B3), queste ultime molecole fondamentali per la vita come la conosciamo. Altri ancora hanno scoperto che Ryugu è fatto di una pasta simile a quella di cui sono fatte le condriti carbonacee di tipo Ivuna – meteroriti che si ritiene abbiano la composizione chimica più vicina alla nebulosa da cui si è formato il Sistema solare.
Buona parte di questi risultati sembrano suggerire una cosa sola, circa l’origine di Ryugu: che i 450 milioni di tonnellate di roccia di cui è fatto si siano assemblati nel Sistema solare esterno. Il motivo per cui si ritiene ciò e dovuto alla differente composizione isotopica rispetto a un altro gruppo di condriti, le condriti carbonacee (Cc). Poiché queste condriti si ipotizza si siano formate in un serbatoio situato tra le orbite di Marte e Giove, per spiegare le differenti firme isotopiche delle condriti Ryugu e di tipo Ivuna è stata suggerita una loro origine a una distanza dal Sole maggiore rispetto alle prime, molto probabilmente all’interno di una regione compresa tra Urano e Nettuno.
Un nuovo studio condotto da un team di scienziati del Max Planck Institute (Germania) dipinge ora un quadro diverso. I risultati della ricerca, pubblicati la settimana scorsa su Science Advances, suggeriscono infatti che, come le condriti Cc, Ryugu possa essere nato tra le orbite di Marte e Giove.
Una vista al microscopio di alcuni frammenti dell’asteroide Ryugu. I granelli neri sono grandi solo pochi millimetri. Crediti: Mps
Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno prima analizzato la composizione isotopica (un isotopo è una variante dello stesso elemento che differisce solo per il numero di neutroni nel nucleo) del nichel in quattro campioni di Ryugu (A0106 e A0107, provenienti dal primo sito di touchdown, e C0107 e C0108, provenienti dal secondo sito). Successivamente, hanno confrontato i rapporti di abbondanza di questi isotopi con quelli di sei condriti carbonacee note (le condriti di tipo Ivuna Orgueil e Alais, la condrite di di tipo Mighei Murchison , la condrite di tipo Vigarano Allende e le condriti Tarda e Tagish Lake), ottenendo risultati diversi a seconda del gruppo in esame. Più in dettaglio, le due condriti Tagish Lake e Tarda presentavano firme isotopiche del nichel simili a quelle della maggior parte delle altre condriti Cc. Al contrario, tutte le condriti ‘CI’ e tutti e quattro i campioni Ryugu avevano firme isotopiche diverse, mostrando, similmente a quanto precedentemente riportato per le firme isotopiche del ferro, quantità maggiori di varianti di nichel. Ma qual è il significato di questi risultati? Per capirlo dobbiamo aggiungere ancora un tassello.
Secondo gli scienziati le differenze tra le condriti di tipo Ivuna e altri gruppi di condriti carbonacee sono dovute a diversi rapporti di miscelazione di tre strutture rocciose con composizioni isotopiche distinte: le inclusioni refrattarie e gli aggregati di olivina ameboide, i condruli e la matrice.
Per valutare se questo modello può spiegare anche le variazioni osservate per il nichel, i ricercatori hanno calcolato le variazioni isotopiche dell’elemento prodotte dalla miscelazione di inclusioni refrattarie, condruli e matrice. La miscelazione di condruli e matrice ha riprodotto le variazioni isotopiche di cromo e titanio. Tuttavia, nessuna miscela delle tre strutture ha riprodotto le variazioni isotopiche del nichel osservate tra le condriti Cc. Le cose sono cambiate quando i ricercatori hanno incluso nel modello un quarto componente: minuscoli granuli di ferro-nichel. In questo caso, variazioni del 5 per cento in massa di grani di FeNi tra condriti carbonacee sono state sufficienti a produrre le variazioni osservate degli isotopi di nichel.
La domanda a questo punto è: quale processo può aver causato l’arricchimento dei grani di ferro e nichel e le peculiari composizioni isotopiche delle condriti di tipo Ivuna/Ryugu durante la formazione del Sistema solare? Secondo i ricercatori, il processo in questione potrebbe essere la foto-evaporazione del gas nel disco protoplanetario del Sole, uno scenario, e qui arriviamo al dunque, che implica che questi corpi non abbiano avuto origine nel Sistema solare esterno, ma tra le orbite di Marte e Giove.
Il modello proposto dai ricercatori per spiegare l’origine delle condriti carnonacee e delle condriti di tipo Ivuna. Crediti: Fridolin Spitzer, Mps
Alla luce di queste ipotesi, il modello proposto dagli scienziati è il seguente. Le prime condriti carboniose iniziarono a formarsi circa due milioni di anni dopo la formazione del Sistema solare nel disco proto-planetario del Sole, spiegano i ricercatori. Da lì, la polvere e i primi grumi si fecero strada verso il Sistema solare interno. A un certo punto, lungo il loro cammino questi semi hanno incontrato Giove. Lì, fuori dalla sua orbita, i grumi più pesanti e grandi si accumularono, trasformandosi in condriti carbonacee con le loro numerose inclusioni. L’accrescimento continuò per circa due milioni di anni, fino a quando un altro processo prese il sopravvento: sotto l’influenza del Sole, il gas di cui le condriti carbonacee erano costituite evaporò gradualmente fuori dall’orbita di Giove, ciò causò l’accumulo di polveri e granuli di ferro e nichel, portando alla nascita delle condriti di tipo Ivuna e Ryugu.
Se questa ipotesi è corretta, le condriti di tipo Ivuna non appaiono più come parenti lontani e in qualche modo esotici delle altre condriti carbonacee formatesi nel Sistema solare, concludono i ricercatori. Piuttosto appaiono fratelli che potrebbero essersi formati nella stessa regione, ma in fasi successive e attraverso un processo diverso.
«I risultati di questo studio ci hanno sorpreso molto», dice Christoph Burkhard, scienziato del Max Planck Institute e co-autore dello studio. «Abbiamo dovuto ripensare completamente non solo all’origine di Ryugu, ma anche a quella dell’intero gruppo di condriti di tipo Ivuna».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “The Ni isotopic composition of Ryugu reveals a common accretion region for carbonaceous chondrites” di Fridolin Spitzer, Thorsten Kleine, Christoph Burkhardt et al.
A sei anni luce da noi, un piccolo pianeta roccioso
Rappresentazione grafica delle distanze relative tra le stelle più vicine e il Sole. La stella di Barnard è il secondo sistema stellare più vicino al Sole e la stella singola più vicina a noi. Crediti: Ieec/Science-Wave – Guillem Ramisa
Utilizzando il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), un team di astronomi ha scoperto un esopianeta in orbita intorno alla stella di Barnard, la stella singola più vicina al Sole. Su questo esopianeta appena scoperto, che ha una massa pari ad almeno la metà di quella di Venere, un anno dura poco più di tre giorni terrestri. Le osservazioni dell’equipe suggeriscono anche l’esistenza di altri tre candidati esopianeti, in orbite diverse intorno alla stella.
Situata a soli sei anni luce di distanza, la stella di Barnard è il secondo sistema stellare, dopo il gruppo di tre stelle di Alpha Centauri, e la stella singola più vicina a noi. Grazie alla sua vicinanza, è un obiettivo primario nella ricerca di esopianeti simili alla Terra. Nonostante una promettente rivelazione nel 2018, finora nessun pianeta era stato confermato in orbita intorno alla stella di Barnard.
La scoperta di questo nuovo esopianeta, annunciata in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, è il risultato di osservazioni effettuate negli ultimi cinque anni con il Vlt dell’Eso, situato presso l’Osservatorio del Paranal, in Cile. «Anche se ci è voluto molto tempo, siamo sempre stati fiduciosi di poter trovare qualcosa», dice Jonay González Hernández, ricercatore all’Instituto de Astrofísica de Canarias, in Spagna, e autore principale dell’articolo. L’equipe stava cercando segnali da possibili esopianeti all’interno della zona abitabile o temperata della stella di Barnard, l’intervallo in cui l’acqua può essere liquida sulla superficie del pianeta. Le nane rosse come la stella di Barnard sono spesso tenute in considerazione dagli astronomi, poiché lì i pianeti rocciosi di piccola massa sono più facili da rilevare che intorno a stelle più grandi, simili al Sole.
Rappresentazione artistica di un pianeta di massa inferiore alla Terra in orbita attorno alla stella di Barnard. Crediti: Eso/M. Kornmesser
Barnard b, come viene chiamato l’esopianeta appena scoperto, è venti volte più vicino alla stella di Barnard di quanto Mercurio lo sia al Sole. Orbita intorno alla stella in 3,15 giorni terrestri e ha una temperatura superficiale di circa 125 °C. «Barnard b è uno degli esopianeti di massa più piccola trovati finora e uno dei pochi noti con una massa inferiore a quella della Terra. Ma il pianeta è troppo vicino alla stella ospite, più vicino rispetto alla zona abitabile», spiega González Hernández. «Anche se la stella è circa 2500 gradi più fredda del Sole, in quella posizione fa troppo caldo perché si possa mantenere acqua liquida sulla superficie».
Per le osservazioni, il gruppo di lavoro ha utilizzato Espresso, uno strumento molto preciso progettato per misurare l’oscillazione di una stella causata dall’attrazione gravitazionale di uno o più pianeti in orbita intorno a essa. I risultati ottenuti da queste osservazioni sono stati confermati dai dati di altri strumenti specializzati nella caccia agli esopianeti: Harps presso l’Osservatorio di La Silla dell’Eso, Harps-N e Carmenes. I nuovi dati, tuttavia, non supportano l’esistenza dell’esopianeta segnalato nel 2018.
Oltre al pianeta confermato, l’equipe internazionale ha anche trovato indizi di altri tre candidati esopianeti in orbita intorno alla stessa stella. Serviranno ulteriori osservazioni con Espresso per la conferma. «Ora dobbiamo continuare a osservare questa stella per confermare gli altri segnali candidati», dice Alejandro Suárez Mascareño, anch’egli ricercatore all’Instituto de Astrofísica de Canarias e coautore dello studio. «Ma la scoperta di questo pianeta, insieme con altre scoperte precedenti come Proxima b e d, dimostra che il nostro angolino cosmico è pieno di pianeti di piccola massa».
L’Extremely Large Telescope (Elt) dell’Eso, attualmente in costruzione, è destinato a trasformare il campo della ricerca sugli esopianeti. Lo strumento Andes dell’Elt consentirà di rivelare un numero sempre maggiore di questi piccoli pianeti rocciosi nella zona temperata intorno a stelle vicine, oltre la portata degli attuali telescopi, e di studiarne la composizione dell’atmosfera.
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “A sub-Earth-mass planet orbiting Barnard’s star”, di J. I. González Hernández, A. Suárez Mascareño, A. M. Silva, A. K. Stefanov, J. P. Faria, H. M. Tabernero, A. Sozzetti, R. Rebolo, F. Pepe, N. C. Santos, S. Cristiani, C. Lovis, X. Dumusque, P. Figueira, J. Lillo-Box, N. Nari, S. Benatti, M. J. Hobson, A. Castro-González, R. Allart, V. M. Passegger, M.-R. Zapatero Osorio, V. Adibekyan, Y. Alibert, C. Allende Prieto, F. Bouchy, M. Damasso, V. D’Odorico, P. Di Marcantonio, D. Ehrenreich, G. Lo Curto, R. Génova Santos, C. J. A. P. Martins, A. Mehner, G. Micela, P. Molaro, N. Nunes, E. Palle, S. G. Sousa e S. Udry
All’astronomia multimessaggera, 15 milioni di euro
Partecipanti al kick-off meeting del progetto Acme. Crediti: Acme
Messaggeri, li chiamano gli scienziati. Un termine quanto mai appropriato per descrivere entità – onde, particelle, entrambe le cose insieme – che giungono fino a noi da regioni ed epoche remote dello spaziotempo, dopo aver percorso tragitti che si misurano in centinaia di milioni di anni luce, a raccontarci cos’è accaduto là nel loro luogo d’origine. Entità come i fotoni, i neutrini e le onde gravitazionali. Entità che parlano lingue che più diverse non si potrebbe. Dunque per intercettarle e ascoltarle occorrono strumenti molto diversi: antenne e specchi per i fotoni, rivelatori di particelle per i neutrini, interferometri per le onde gravitazionali, per esempio. Diversi sono anche gli interpreti a cui spetta il compito di comprendere ciò che queste entità dicono: servono gli astrofisici e servono i fisici astroparticellari. E se vogliamo che il racconto sia a tutto tondo, è cruciale che questi strumenti e questi interpreti lavorino insieme. È ciò che si propone di fare l’astronomia multimessagera. Ed è ciò che si propone di facilitare e incentivare Acme, un progetto finanziato dall’Unione europea nell’ambito del programma Horizon Europe con 14.5 milioni di euro.
Acronimo di Astrophysics Centre for Multimessenger studies in Europe, Acme ha avuto il suo kick-off meeting – così viene chiamato in gergo il primo incontro ufficiale fra i membri del progetto, nel caso di Acme ricercatori da 40 istituzioni di 15 paesi – il 16 e il 17 settembre scorsi a Parigi. A coordinarlo sarà Antoine Kouchner, del Cnrs francese, affiancato da Paolo D’Avanzo dell’Inaf nel ruolo di co-coordinatore, rappresentanti rispettivamente della comunita dei fisici delle astroparticelle e di quella degli astrofisici.
«Tramite il progetto Acme», spiega D’Avanzo a Media Inaf, «verrà creato un coordinamento europeo che permetterà di fornire alle comunità astronomica e astroparticellare un accesso più ampio, semplificato ed efficiente alle migliori infrastrutture di ricerca del campo. Il tutto principalmente focalizzato sull’astrofisica multi-messenger. Le comunità astronomica e astroparticellare sono entrambe ampiamente coinvolte su questo fronte, però spesso si ritrovano a lavorare e procedere su binari separati, seppur comunicando ed interfacciandosi tra loro. Il progetto Acme nasce proprio dalla necessità, trasversalmente sentita, di creare una maggiore sinergia tra queste due comunità a livello europeo. In quest’ottica, Acme fornirà tutti gli strumenti necessari coinvolgendo le migliori infrastrutture, strumentazioni e competenze del campo a livello europeo, in un sistema dove il totale sarà maggiore della somma delle singole parti».
Dall’alto, le cupole dei due telescopi Inaf di Campo Imperatore, un braccio dell’interferometro Virgo e un rivelatore di neutrini del progetto Km3NeT: tre strumenti per la rilevazione, rispettivamente, di fotoni, onde gravitazionali e neutrini. Crediti: Inaf; Ego/Virgo; Infn
«Quello dell’astronomia multi-messaggera», ricorda un altro fra i ricercatori dell’Inaf coinvolti nel progetto, Andrea Melandri, coordinatore all’interno di Acme del centro di competenza per la banda ottica e infrarossa, «è uno dei fronti più caldi della ricerca astrofisica. Le prospettive presenti e future sono enormi. In questo contesto Acme, attraverso i diversi centri di competenza, migliorerà la collaborazione tra la comunità astrofisica e quella particellare, andando a studiare più in dettaglio diversi fenomeni astrofisici attraverso tre messaggeri: fotoni, onde gravitazionali e neutrini. Il fine ultimo è quello di studiare l’emissione di questi tre messaggeri, ognuno dei quali ci fornirà un’informazione diversa e complementare sullo stesso evento astronomico, permettendoci di costruire un quadro molto più dettagliato del fenomeno che li ha prodotti».
Da sinistra: Paolo D’Avanzo, Silvia Piranomonte e Andrea Melandri, ricercatori Inaf coinvolti nel progetto Acme. Crediti: Carlo Ferrigno (Univ. Ginevra)
«Nel caso di eventi come le supernove, ad esempio, l’osservazione combinata dei neutrini, delle onde gravitazionali e della radiazione elettromagnetica permette non solo di prevedere l’esplosione, ma anche di studiare in profondità le dinamiche interne», spiega Melandri. «I neutrini, che precedono l’emissione visibile, forniscono un preavviso essenziale dell’evento esplosivo, mentre le onde gravitazionali offrono dati sulla struttura del collasso stellare. Successivamente, i fotoni rivelano l’emissione finale, osservabile con i nostri occhi attraverso le immagini di un telescopio, completando il quadro».
Numerose le strutture dell’Inaf coinvolte nel progetto: l’Osservatorio astronomico di Roma (istituto capofila), lo Space Science Data Center, gli osservatori astronomici di Brera, Padova, Bologna, Napoli, Trieste e d’Abruzzo, l’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali di Roma e i telescopi di Asiago e Campo Imperatore.
«Grazie al contributo fondamentale della comunità Inaf nell’astronomia multi-messaggera», dice Silvia Piranomonte, coordinatrice Inaf di Acme, «le nostre ricercatrici e i nostri ricercatori svolgeranno un ruolo di primo piano nel progetto Acme mettendo a disposizione tutte le loro competenze scientifiche, offrendo supporto a chiunque lo richieda all’interno del progetto, per l’analisi, la raccolta e l’interpretazione teorica dei dati osservativi legati agli eventi astrofisici più energetici che conosciamo, come i lampi di raggi gamma che, insieme alle kilonove, sono noti per essere associati alle sorgenti di onde gravitazionali che possono essere rivelati dagli interferometri Ligo-Virgo. Inoltre, Inaf darà l’opportunità alle giovani generazioni di scienziati provenienti da tutta Europa sia di accedere ai telescopi di Asiago e Campo Imperatore per imparare sul campo il loro utilizzo, sia di utilizzare algoritmi innovativi e tecnologie avanzate, come il machine learning, necessari per l’analisi di grandi moli di dati».
Verdure spaziali per coloni interplanetari
Stefania De Pascale,
“Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell’agricoltura”, Aboca 2024, 161 pagine. 19,50 euro
Chissà se quando Elon Musk dice che entro 20 anni ci dovranno essere insediamenti umani su Marte si è posto il problema di cosa mangeranno i coloni spaziali. La questione è complicata e ne abbiamo un quadro molto chiaro nel libro Piantare patate su Marte di Stefania De Pascale. Il titolo evoca il famoso film tratto dal romanzo The Martian dove il protagonista, abbandonato per errore su Marte, decide che la sua unica possibilità di sopravvivere fino a una futura missione di salvataggio consiste nel piantare (e fare crescere) le patate che avrebbero dovuto essere usate per festeggiare il giorno del ringraziamento. Mentre The Martian racconta una storia realistica, ma immaginaria, l’autrice sottolinea che “i futuri coloni di Marte saranno astronauti-agricoltori e, principalmente, vegetariani”.
Tuttavia, prima di porsi il problema di coltivare il cibo su Marte, occorre organizzarsi per sopravvivere al lungo viaggio. Visto che non siamo in grado di trasportare il bagaglio di cibo, acqua e aria per permettere a un equipaggio di arrivare a Marte, bisogna produrre cibo riciclando e rigenerando aria e acqua. Un compito che può essere assolto dalle piante che possono rigenerare l’aria, purificare l’acqua, produrre cibo fresco, aiutare a gestire gli scarti, ma anche alleviare lo stress. Le piante, infatti, sono parte del nostro ambiente naturale e la loro presenza mitiga lo stress psicologico delle lunghe missioni.
In effetti, l’importanza di fare crescere vegetali nello spazio è stata chiara fino dall’inizio del volo umano e i primi a porsi il problema furono i sovietici, che nel 1969 iniziarono a fare esperimenti per capire come potesse avvenire la germinazione in microgravità. Gli esperimenti continuarono negli anni ’70 con la stazione Salyut, ma la svolta avvenne con lo Skylab americano, dove gli astronauti riuscirono a fare crescere lattuga a rapanelli. Negli anni ’90 la stazione sovietica Mir aveva una piccola serra che sulla Iss si è trasformata nella salad machine. A partire dal 2005 il gruppo di ricerca dell’autrice realizza esperimenti in orbita grazie al supporto dell’Agenzia spaziale italiana. Nel 2017, durante la missione Vita di Paolo Nespoli, AstroPaolo ha partecipato all’esperimento Multitrop per capire come diversi agenti fisici o chimici orientino la crescita delle radici. Produrre vegetali in orbita non è un esercizio accademico ma piuttosto una necessità, perché è l’unico modo di avere verdura fresca in un luogo dove non ci sono supermercati e i voli di rifornimento sono in numero limitato. Viste le tempistiche, il cibo deve essere termostabilizzato con una durata di almeno due anni. In media i rifornimenti arrivano ogni tre mesi con un cargo da 2,5 tonnellate che trasporta cibo, acqua e vestiti e pezzi di ricambio. Il costo del trasporto è di decine di migliaia di euro per ogni kg, quindi è evidente la necessità di riciclare quanto più possibile, instaurando un esempio di economia circolare dove i rifiuti diventano una risorsa.
Se la gestione della dispensa appare non facile sulla stazione spaziale in orbita intorno alla Terra, assicurare nutrimento agli astronauti negli insediamenti lunari o marziani diventerà molto più difficile.
Diversamente da quanto succede per la Stazione spaziale internazionale, colonie sulla Luna o su Marte devono essere veramente autonome, capaci di produrre il cibo necessario alla sopravvivenza potendo contare su scorte che non scadano nel corso del lungo viaggio. Per andare più lontano, occorre aumentare la durata del cibo senza compromettere le proprietà nutritive e, quando possibile, mantenere il sapore.
Per produrre cibo fresco occorrerà costruire serre che forniscano alle piante un ambiente illuminato nel quale crescere con una temperatura controllata e acqua, perché certamente si sfrutteranno le tecniche idroponiche. Le serre devono essere protette dalle meteoriti, grandi e piccole, che non bruciano nel vuoto lunare e nemmeno nella tenue atmosfera di Marte, ma anche dalle radiazioni cosmiche, che non vengono deviate dal campo magnetico come succede sulla Terra. I vegetali prodotti saranno fondamentali nella dieta degli esploratori.
Morale: viaggi e colonie interplanetarie non sono adatti a carnivori. Un messaggio che trova applicazione anche sulla Terra, dove le piante avranno un ruolo determinante nella ricerca di possibili soluzioni per una crescita sostenibile. Senza contare che le lezioni di economia circolare che impariamo dallo spazio possono essere di grande utilità anche a casa.
Pic du Midi: un’oasi sospesa tra i Pirenei e il cielo
La cupola Baillaud in costruzione all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto storica (colorizzata) del 1907 (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
Inizi di settembre, centoquindici anni fa. Nella Parigi della Belle Époque, Picasso sta gettando le basi del cubismo, in Italia tuona il futurismo e oltreoceano, dove imperversa il ragtime, due esploratori si contendono il primato per il raggiungimento del polo nord. La temperatura media globale, circa un terzo di grado sotto la media del ventesimo secolo, farà del settembre 1909 uno dei più freddi dall’inizio delle misurazioni (al contrario dello scorso settembre, il più caldo mai registrato). Ma nel sud della Francia, in cima ai Pirenei, non è certo il freddo a bloccare il lavoro degli astronomi.
Benjamin Baillaud, che di lì a dieci anni diventerà il primo presidente dell’Unione astronomica internazionale (Iau), ha da poco lasciato Tolosa per assumere la direzione dell’Osservatorio di Parigi, dove tra le altre cose fonderà il Bureau International de l’Heure, organismo internazionale che si è a lungo occupato di coordinare il tempo misurato in giro per il mondo. Ma è presso la sua sede precedente che ha messo in moto la trasformazione forse più memorabile della sua illustre carriera. Convinto che la succursale dell’Osservatorio di Tolosa, un piccolo avamposto scientifico a 2.877 metri sul livello del mare, sia destinata a scrivere la storia dell’astrofisica, vi ha fatto costruire una cupola dal diametro di otto metri per ospitare un telescopio rifrattore da mezzo metro – una dimensione di tutto rispetto per l’epoca.
Oggi, all’Osservatorio del Pic du Midi si arriva comodamente in teleferica tutti i giorni dell’anno (salvo meteo avverso) dalla stazione sciistica di La Mongie, a 1.785 metri di altitudine. Dopo due segmenti – un solo cavo non bastava a coprire il dislivello di oltre mille metri – e quindici minuti mozzafiato tra nuvole e precipizi, si approda in uno scenario da film di Wes Anderson: un gigantesco edificio arroccato sul massiccio con cui in parte si mimetizza, pullulante di cupole immacolate e sormontato da un’antenna radiotelevisiva alta 102 metri. Con i picchi circostanti che a mala pena sfiorano i 2.500 metri, il panorama è da capogiro.
Panorama all’Osservatorio del Pic du Midi (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
Una cupola visionaria
Oltre al massiccio, quasi nulla di tutto ciò esisteva ai primordi del Novecento, quando la vetta si poteva raggiungere solo a piedi. Il piccolo osservatorio, inaugurato nell’agosto del 1882 e privo di strumentazione permanente, aveva già conosciuto una tragedia – l’unica nella storia astronomica del Pic du Midi – nel novembre dello stesso anno quando, in occasione del transito di Venere davanti al Sole, tre dei facchini incaricati di trasportare telescopi e strumenti persero la vita in una valanga. È anche per questo che Baillaud, conoscendo bene il sito, la trasparenza del cielo brulicante di stelle e il suo potenziale scientifico a causa delle regolari ispezioni che effettuava ogni estate, vi inizia a costruire nel 1904 un osservatorio stabile per ospitare un telescopio all’avanguardia e una residenza per dare alloggio agli astronomi di turno.
Facchini montano i pezzi della cupola Baillaud all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto storica (colorizzata) del 1906 (cliccare per ingrandire). Crediti: C. Mignone
La cupola, che oggi porta il nome del suo ideatore, prende forma a Tolosa, nei giardini dell’Osservatorio di Jolimont, tra il 1904 e il 1905. Smontata e imballata, nel 1906 è pronta per il trasporto in quota, approfittando dell’estate. Si viaggia prima in treno, centocinquanta chilometri fino a Bagnères-de-Bigorre, poi a bordo di vettura fino alla località montana di Gripp, e poi ancora a dorso di mulo. Anche il telescopio, realizzato a Parigi e imballato in ventidue casse da centinaia di chili ciascuna, è arrivato ai piedi della montagna: fino al passo di Tourmalet, 2.115 metri di altitudine, ci pensano i buoi, poi tocca a una dozzina di soldati del reggimento locale. Questi riescono a spingersi fino al passo di Sencours, 2.378 metri sul livello del mare, dove incontrano le prime nevicate. Per l’ultimo tratto, se ne parla l’anno successivo.
L’estate del 1907 è sorprendentemente breve e tardiva: a fine agosto la neve al Pic du Midi è ancora copiosa, e così la costruzione della cupola si protrae fino a settembre. Ci vorrà un’altra estate – la sommità del monte è raggiungibile solo tra luglio e ottobre – per assemblare il telescopio, completare l’osservatorio e dare finalmente inizio alle operazioni, nel 1909.
Là dove “sono morti i marziani”
Il planetario nella storica cupola Baillaud. Crediti: Pic du Midi
Dopo una lunga e gloriosa carriera, che vanta scoperte importanti nello studio del Sole e del Sistema solare, le attività osservative nella cupola Baillaud terminano alla fine degli anni Novanta, lasciando spazio a un nuovo e più potente telescopio costruito al Pic du Midi negli anni Settanta. Oggi, nell’assetto attuale dell’osservatorio, dedicato sia alla ricerca scientifica che all’astroturismo, la storica cupola ospita un planetario, il più alto d’Europa. Ma non è il solo primato. Il planetario del Pic du Midi è l’unico in cui il planetarista può accogliere il pubblico dicendo che «sotto questa cupola, sono morti i marziani». E non sta mentendo.
Se “i marziani sono morti” sotto la cupola Baillaud, il motivo è da ricercarsi in quel freddo settembre del 1909. Dopo le osservazioni iniziali di Jules e René Baillaud, figli di Benjamin e anch’essi astronomi, che avevano completato la costruzione iniziata dal padre, i primi a condurre una vera e propria campagna osservativa nella nuova cupola sono Aymar de la Baume Pluvinel e il suo assistente, Fernand Baldet. Raggiungono la vetta a piedi, aggregandosi alla carovana che trasporta i rifornimenti all’osservatorio. Il loro obiettivo: sfruttare la posizione strategica del Pic du Midi per fotografare Marte.
L’osservatorio deve la sua fortuna alla geologia del monte su cui si erge: il materiale che lo compone, formato da un misto di rocce calcaree, silicati e scisto (una roccia metamorfica che tende a sfaldarsi in lastre sottili), ha attraversato una serie di trasformazioni che ne hanno rafforzato la struttura, rendendolo più resistente all’erosione rispetto a quello delle vette circostanti. Oltre a incorniciare il Pic du Midi in un panorama incantevole, queste caratteristiche geologiche ne fanno un luogo ideale per la ricerca astronomica, grazie alla stabilità e alla qualità eccezionale dell’atmosfera. L’osservatorio sovrasta le nuvole, ed è la prima montagna che il vento incontra quando soffia da nord o nord-est: certo, non manca il maltempo, ma quando il cielo ritorna sereno, resta sereno a lungo.
La cupola Baillaud all’Osservatorio del Pic du Midi, in una foto d’epoca. Crediti: Bibliothèque de l’Observatoire de Paris
In questo confidano de la Baume Pluvinel e Baldet mentre avanzano verso l’osservatorio, e questo il Pic du Midi concederà loro. Nel suo moto di rivoluzione, Marte impiega circa due anni terrestri a completare un giro intorno al Sole. Se impiegasse esattamente due dei nostri anni, il Pianeta rosso e la Terra si troverebbero allineati dallo stesso lato del Sole – una configurazione chiamata “opposizione” – a intervalli regolari. Ma un’orbita di Marte dura 687 giorni terrestri, circa 23 mesi, quindi l’opposizione, che poi è il momento migliore per osservarlo perché siamo massimamente a favore della luce che riflette, ricorre circa ogni due anni. Mese più, mese meno. E, per giunta, quando i due pianeti si trovano in punti diversi delle loro orbite.
Questo sfasamento dà origine a un ciclo di circa quindici anni, dopo il quale l’opposizione di Marte si verifica quando il pianeta è anche alla distanza minima dalla Terra. Si chiama grande opposizione ed è il non plus ultra per ammirare – e studiare – il pianeta. L’ultima grande opposizione di Marte risale al 2018, la prossima sarà nel 2033, e lo era pure quella del settembre 1909. Un’occasione quasi unica per verificare la natura dei famosi canali scoperti nel 1877 dall’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, che li aveva chiamati con nomi di fiumi terrestri, resi celebri dalla sua controparte statunitense, Percival Lowell, in una traduzione fallace – canals, di origine artificiale, anziché channels, naturali – che aveva suscitato, a fine Ottocento, il mito dei marziani.
Durante l’opposizione precedente, nel 1907, Lowell aveva osservato Marte da una stazione astronomica dell’Osservatorio di Harvard in Perù, ottenendo quattordicimila “scatti” del Pianeta rosso, in alcuni dei quali sosteneva di riconoscere strutture lineari simili a canali artificiali. Così convinto doveva essere che questi “canali” li aveva ricalcati sulle fotografie, compromettendo però l’integrità dei dati.
Tre immagini di Marte realizzate dall’Osservatorio del Pic du Midi il 27 settembre 1909. Fonte: A. Dollfus, “The first Pic du Midi photographs of Mars”, Journal of the British Astronomical Association (2010)
Dalla loro postazione in cima ai Pirenei, nella cupola voluta da Baillaud a un passo dal cielo, de la Baume Pluvinel e Baldet osservano il Pianeta rosso per diverse settimane, fino al 20 ottobre 1909, sfruttando al massimo le condizioni eccezionali del Pic du Midi. Il risultato sono 80 lastre fotografiche, per un totale di 1.350 immagini di Marte. Le foto, ottenute esponendo la lastra per un quarto d’ora a intervalli di circa un’ora l’una dall’altra, catturano tutte le fasi della rotazione del pianeta, immortalandone così l’intera superficie.
«I canali principali sono visibili nelle nostre fotografie; citiamo ad esempio l’Indo, il Gange, l’Arax, il Ciclope, l’Eufrate, ecc.» scrivono i due astronomi francesi nei resoconti settimanali dell’Académie des sciences, in un volume pubblicato a novembre dello stesso anno. «Per quanto riguarda la rete di sottili canali, dalle forme geometriche che alcuni osservatori hanno visto nell’emisfero settentrionale e la cui esistenza è ancora dibattuta, non riusciamo a trovarne traccia sulle nostre foto». Una frase laconica, rigorosa, ineccepibile. Una manciata di parole che seppelliscono per sempre l’utopia di un’avveniristica civiltà marziana all’avanguardia dell’ingegneria idraulica interplanetaria.
Eclissi a volontà
Decretata – insieme ad analoghe osservazioni provenienti dai grandi osservatori degli Stati Uniti – la fine dei marziani, il nuovo telescopio rimane praticamente inutilizzato per circa vent’anni. Malgrado la qualità eccellente dei dati, l’isolamento del Pic du Midi e le dure condizioni che il sito impone dissuadono gli astronomi fino agli anni Trenta. Sarà Bernard Lyot, astronomo parigino dall’indole sportiva, alpinista e sciatore provetto, a riportare in auge la ricerca sotto la cupola Baillaud.
Bernard Lyot sotto la cupola Baillaud, in una foto del 1937. Crediti: C. Mignone
Laurea in ingegneria all’École Superieure d’Électricité e dottorato alla Sorbona sulla luce polarizzata dei pianeti, che misura con un polarimetro di sua invenzione per stimarne la composizione chimica, Lyot lavora all’Osservatorio di Meudon, vicino Parigi. Qui, si occupa di un problema che affligge l’astronomia da mezzo secolo: studiare la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera del Sole, osservabile solo durante un’eclissi totale. Dopo una visita al Pic du Midi nell’estate del 1929, su consiglio del collega Baldet, resta sbalordito dal cielo incontaminato che si gode dall’osservatorio e vi fa ritorno, un anno dopo, carico di strumenti.
Tra il 1930 e il 1934, in quell’angolo remoto dei Pirenei, Lyot getta le basi della coronografia. Quello che ha costruito è un telescopio in cui la luce incidente viene parzialmente ostruita da un ostacolo, un piccolo cono: osservando il Sole, il cono blocca la luce proveniente dal disco, generando un’eclissi artificiale. Con il coronografo, Lyot riesce a osservare le protuberanze, la corona e altri fenomeni solari altrimenti invisibili senza dover aspettare che la meccanica celeste regali un’eclissi totale a una piccola striscia di terra, magari pure lontana e difficile da raggiungere.
Anche questa volta, la stabilità atmosferica del Pic du Midi contribuisce al successo dell’esperimento, insieme alla maestria dell’astronomo francese, che minimizza la diffusione dello strumento. Il suo coronografo resterà in funzione presso l’osservatorio per quarant’anni. Con il supporto del cineasta Joseph Leclerc, Lyot realizza un film che riprende per la prima volta la natura dinamica della nostra stella, lasciando a bocca aperta l’assemblea generale della Iau, riunita a Stoccolma nel 1938. E così l’osservatorio, la cui storia era iniziata proprio con un’eclissi di Sole, quella del 18 luglio 1860, catturata dal pioniere della fotografia inglese Farnham Maxwell-Lyte in una serie di istantanee storiche sul passo di Sencours, si lega ancora una volta alle eclissi. Creandone un’infinità.
Il coronografo di Bernard Lyot, esposto oggi nello spazio museale del Pic du Midi. Sullo sfondo, a sinistra, una foto dell’astronomo mentre trasporta lo strumento sulle spalle, sci ai piedi, salendo verso l’osservatorio. Crediti: C. Mignone
Premiato con la medaglia d’oro della Royal Astronomical Society, nel 1939 Lyot diventa il più giovane membro dell’Académie des Sciences, a soli quarantadue anni. Nello stesso anno, l’Europa cade nel baratro della seconda guerra mondiale. Con l’armistizio del 1940, la Francia è divisa in due: Parigi e il nord sotto l’occupazione della Germania nazista, il sud sotto il Governo di Vichy. La meccanica celeste, però, continua imperturbata il suo corso. È l’estate del 1941, a ottobre Marte sarà nuovamente in opposizione, così Lyot si procura un lasciapassare per recarsi al Pic du Midi, nella Zone libre, e osservare insieme a Marcel Gentili, amico di vecchia data, con cui si diletta a osservare il cielo sin dai tempi dell’École Superieure, e Henri Camichel.
Immagine di Marte realizzata dall’Osservatorio del Pic du Midi nel 1941. Crediti: Bibliothèque de l’Observatoire de Paris
In quei mesi, ai margini di un’Europa dilaniata dal conflitto, i tre astronomi danno inizio a quello che diventerà un trentennale programma di osservazione planetaria, superato solo con l’avvento dell’era spaziale. Jules Baillaud, che intanto era diventato direttore dell’osservatorio, sta cercando di potenziare il vecchio telescopio da mezzo metro voluto dal padre a inizio secolo. In mancanza di uno strumento migliore e con l’imminente opposizione di Marte, prende in prestito l’obiettivo da 38 centimetri dell’Osservatorio di Tolosa, con cui Camichel, Gentili e Lyot realizzano immagini del Pianeta rosso tra le migliori prodotte fino ad allora.
Lyot capisce che le condizioni meteorologiche del Pic du Midi permettono di sperimentare con le osservazioni, spingendo al massimo il livello di ingrandimento del telescopio, per fotografare i corpi del Sistema solare ad alta risoluzione, e decide di costruire un nuovo strumento. Per adattare il telescopio rifrattore a un obiettivo da 60 centimetri dell’Osservatorio di Parigi, si trova a dover piegare il fascio di luce con due specchi, utilizzando il sistema del “rifrattore piegato”, o rifratto-riflettore, ideato anni prima dall’astronomo svizzero Emil Schaer ma mai applicato su grande scala. Alcuni pezzi vengono ordinati da Vichy, e la consegna avviene tra enormi difficoltà – è l’autunno del 1942 e anche la zona meridionale della Francia è ormai occupata dai Nazisti. Gentili, che è di origine ebraica, rischia la deportazione e resterà nascosto in osservatorio fino al termine del conflitto.
Inaugurato nel 1943, il nuovo telescopio resta in funzione fino alla fine degli anni Sessanta, sfornando immagini dettagliatissime di Mercurio, Venere e Marte, di Giove e le sue lune, di Saturno e i suoi anelli. Neanche la superficie della Luna gli sfugge, attirando negli anni Sessanta addirittura l’attenzione della neonata Nasa, che qui finanzierà un programma di mappatura del nostro satellite naturale in vista delle missioni Apollo.
Lo storico telescopio da 60 cm, in mostra all’Osservatorio del Pic du Midi. Crediti: C. Mignone
Finita la guerra, il Pic du Midi cresce e si adegua ai tempi. In segno di gratitudine, nel 1946 Gentili dona all’osservatorio una cupola e il suo telescopio personale da 60 centimetri, che continuerà a essere usato professionalmente fino agli anni Ottanta (passato alla gestione dell’Association Télescope T60, che riserva il tempo alle osservazioni degli astrofili, a fine 2021 lo storico telescopio di Gentili è andato in pensione, sostituito da un modello più moderno; oggi fa bella mostra di sé nel percorso museale, sulla terrazza dell’osservatorio). Finalmente nel 1947 arriva in vetta una funivia dedicata esclusivamente al trasporto delle attrezzature e, nel 1952, l’attesissima teleferica, fortemente voluta da Jules Baillaud già prima del secondo conflitto mondiale. L’isolamento è terminato.
Con il telescopio da un metro cofinanziato dalla Nasa nel 1964, ospitato nella cupola Gentili, il Manchester Lunar Programme ottiene oltre sessantamila immagini ad altissima risoluzione. Insieme a quelle raccolte al di là dell’Atlantico dagli osservatori di Mount Wilson, Lick, McDonald e Yerkes, vanno a formare un atlante cartografico lunare a cura dell’astrofisico olandese Gerard Kuiper, propedeutico al primo allunaggio. Pochi mesi dopo lo storico “piccolo grande passo” di Neil Armstrong, dal Pic du Midi, un gruppo di astronomi e astronome francesi ricevono un segnale laser partito dal nostro pianeta e riflesso da uno degli specchi lasciati dagli astronauti sulla superficie lunare, partecipando al primo esperimento di misura della distanza Terra-Luna.
Panorama di questo e di altri mondi
Il Bernard Lyot Telescope. Crediti: C. Mignone
L’ultima aggiunta, inaugurata nel 1980, è un telescopio da due metri, il più grande sul territorio francese. Si erge all’estremità nord-ovest dell’osservatorio, all’interno di una torre alta ventotto metri. Più in alto, c’è solo l’antenna. Con la sua forma a calotta che ricorda vagamente quella di Stuart, il minion da un occhio solo della celebre serie animata, se ne sta lì, altero, a scrutare il cielo. Non me ne voglia il buon Bernard Lyot, a cui il telescopio è dedicato – del resto, si occupa di polarimetria stellare, il nome gli calza a pennello. Però è una forma insolita, questa con l’apertura circolare all’interno della cupola. Ce l’hanno pochi altri telescopi (uno, per esempio, è l’Hobby–Eberly in Texas) ma è stata proposta per il controverso Thirty Meter Telescope sulla cima di Mauna Kea, alle Hawai‘i. Qui, al Pic du Midi, l’hanno scelta per evitare scambi termici tra l’aria esterna e l’aria interna alla cupola.
A partire dagli anni Ottanta, però, l’astronomia francese inizia a rivolgere le sue politiche verso le grandi collaborazioni internazionali. Gestire lo storico osservatorio sulla terrazza dei Pirenei, il primo osservatorio astronomico d’alta quota, è diventato troppo costoso, e a fine millennio incombe lo spettro della chiusura. Così, nel 2000, si cambia strategia, aprendo le porte all’astroturismo e sfruttando la risorsa più grande di questo straordinario sito: il cielo.
Grazie a un massiccio investimento di trentanove milioni di euro, la nuova gestione del sito ha preservato il Pic du Midi, il più antico osservatorio di montagna ancora in funzione, e la sua storia, una storia fatta di scienziati, ingegneri, operai, facchini e visionari. Oggi, il Bernard Lyot Telescope è l’unico telescopio usato da astronomi professionisti: tutti gli altri – compreso il nuovo coronografo del 2009 – sono gestiti da volontari. La residenza è stata adattata per accogliere, oltre ad astronomi e astrofili, anche studenti universitari, scuole e il grande pubblico.
L’autrice, abbagliata da un raggio di sole davanti alla cupola che oggi ospita il coronografo, a una piacevolissima temperatura di 2,6°C a fine giugno. Crediti: C. Mignone
L’impegno a conservare l’altissima qualità del cielo si consolida nel 2013, con il bollino di Dark Sky Reserve rilasciato dalla International Dark Sky Association. È il primo sito in Francia e il secondo più grande al mondo a ottenere l’ambito riconoscimento, che comporta un impegno costante contro l’inquinamento luminoso nella regione. Dicono che la fonte di luce che più disturba sia Barcellona, circa trecento chilometri più giù, sul versante sud-est. Per chi volesse controllare di persona, è possibile prenotare una notte al cospetto del cosmo, sotto il leggendario manto di stelle. A partire dal 2026. Perché fino a fine 2025 è tutto esaurito.
Per saperne di più:
- Visita il sito dell’Observatoire du Pic du Midi (in francese)
- Esplora le attività di astroturismo sul sito del Pic du Midi (in inglese, francese e spagnolo)
- Leggi l’articolo “The first Pic du Midi photographs of Mars, 1909” di A. Dollfus
- Leggi l’articolo “A Hundred Years of Science at the Pic du Midi Observatory” di E. Davoust
- Visita la pagina dedicata al Pic du Midi de Bigorre Observatory sul Portal to the Heritage of Astronomy dell’Unesco (in inglese e francese)
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La Via Lattea è una galassia speciale?
Un mosaico di immagini di 378 satelliti su 101 sistemi simili alla Via Lattea, esaminate dal team Saga. Le immagini sono ordinate in base alla luminosità ,da sinistra a destra. Crediti: Yao-Yuan Mao/Utah), Desi Legacy Surveys Sky Viewer
Dopo aver censito 101 sistemi galattici simili alla Via Lattea, i ricercatori del programma Saga (Satellite Around Galactic Analogs), iniziato nel 2013, hanno analizzato le unicità della nostra galassia per capire quanto sia anomala rispetto alle sue simili.
I sistemi satellitari in questione sono formati da galassie più piccole – sia in massa che in dimensione – che orbitano intorno a una galassia più grande, chiamata galassia ospite. Proprio come i satelliti artificiali che orbitano intorno alla Terra, o le lune attorno a un pianeta, queste galassie satellite sono catturate dalla forza gravitazionale della galassia massiccia ospite e della materia oscura circostante. La Via Lattea è la galassia ospite di diverse galassie satellite: le due più grandi, per esempio, sono la Grande Nube di Magellano (Lmc) e la Piccola Nube di Magellano (Smc), entrambe visibili a occhio nudo dall’emisfero australe, a differenza di molte altre più deboli, che possono essere osservate solo con un grande telescopio.
Lo scopo della survey Saga è caratterizzare i sistemi satellitari intorno ad altre galassie ospiti che hanno masse stellari simili a quelle della Via Lattea. Yao-Yuan Mao, della University of Utah, sta conducendo la survey con Marla Geha della Yale University e Risa Wechsler della Stanford University.
Nel primo di tre studi – tutti accettati per la pubblicazione da The Astrophysical Journal –, condotto da Mao, i ricercatori hanno evidenziato 378 galassie satellite identificate in 101 sistemi di massa simili alla Via Lattea. Il numero di satelliti confermati per sistema varia da zero a 13, rispetto ai quattro satelliti della Via Lattea. Mentre il numero di galassie satellite nel nostro sistema è pari a quello degli altri sistemi di massa simile. «La Via Lattea sembra ospitare meno satelliti, se si considera l’esistenza della Lmc», dice Mao. Saga ha infatti rilevato che i sistemi con una galassia satellite massiccia come la Lmc tendono ad avere un numero totale di satelliti più elevato, e la Via Lattea sembra essere in questo senso un’eccezione.
Immagine di una galassia simile alla Via Lattea (al centro) e del suo sistema di galassie satellite. La survey Saga ha identificato sei piccole galassie satelliti in orbita intorno a questo analogo della Via Lattea. Crediti: Yasmeen Asali (Yale), with images from the Desi Legacy Surveys Sky Viewer
Una spiegazione di questa apparente differenza è il fatto che la Via Lattea ha acquisito solo in tempi relativamente recenti la Lmc e la Smc. Questo risultato dimostra l’importanza di comprendere l’interazione tra la galassia ospite e le galassie satellite, soprattutto quando si interpreta ciò che apprendiamo osservando la Via Lattea.
«Sebbene non possiamo ancora studiare le storie orbitali dei satelliti intorno alle galassie ospite, l’ultima versione dei dati Saga aumenta di un fattore i sistemi simili alla Via Lattea che ospitano un compagno simile a Lmc rispetto a quanto precedentemente noto», dice Ekta Patel della Nasa, che non fa parte del team Saga, dopo aver appreso i risultati dello studio. «Questo enorme progresso fornisce più di 30 ecosistemi galattici da confrontare con i nostri, e sarà particolarmente utile per capire l’impatto di un satellite massiccio analogo al Lmc sui sistemi in cui risiedono».
Il secondo studio della serie è condotto da Geha e si occupa di stabilire se queste galassie satelliti stanno ancora formando stelle. Comprendere i meccanismi che impedirebbero la formazione di stelle in queste piccole galassie è una questione importante nel campo dell’evoluzione galattica. I ricercatori hanno scoperto, per esempio, che le galassie satellite situate più vicino alla loro galassia ospite hanno maggiori probabilità di avere la formazione stellare “estinta” – o soppressa. Ciò suggerisce che i fattori ambientali contribuiscono a plasmare il ciclo di vita delle galassie satelliti.
Il terzo studio è condotto da Yunchong Wang e utilizza i risultati della survey Saga per migliorare i modelli teorici esistenti sulla formazione delle galassie. Sulla base del numero di satelliti estinti, questo modello prevede che le galassie estinte dovrebbero esistere anche in ambienti più isolati, una previsione che sarà possibile testare nei prossimi anni con altre indagini astronomiche, come la Dark Energy Spectroscopic Instrument survey.
Oltre a questi risultati, destinati a migliorare la comprensione dell’evoluzione delle galassie, il team di Saga ha pubblicato anche nuove misurazioni della distanza, o redshift, per circa 46mila galassie. «Trovare queste galassie satellite è come trovare aghi in un pagliaio. Abbiamo dovuto misurare il redshift di centinaia di galassie per identificare una sola galassia satellite», spiega Mao. «Questi nuovi redshift permetteranno alla comunità astronomica di studiare una vasta gamma di argomenti oltre le galassie satellite».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. A Census of 101 Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies” di Yao-Yuan Mao, Marla Geha, Risa H. Wechsler, Yasmeen Asali, Yunchong Wang, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Ethan O. Nadler, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, Mithi A. C. de los Reyes, and John F. Wu
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. The Star Formation Properties of 101 Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies” di Marla Geha, Yao-Yuan Mao, Risa H. Wechsler, Yasmeen Asali, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Ethan O. Nadler, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, Mithi A. C. de los Reyes, Yunchong Wang, and John F. Wu
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The SAGA Survey. V. Modeling Satellite Systems around Milky Way-mass Galaxies with Updated UniverseMachine” di Yunchong Wang, Ethan O. Nadler, Yao-Yuan Mao, Risa H. Wechsler, Tom Abel, Peter Behroozi, Marla Geha, Yasmeen Asali, Mithi A. C. de los Reyes, Erin Kado-Fong, Nitya Kallivayalil, Erik J. Tollerud, Benjamin Weiner, John F. Wu
Ecco come si propaga la turbolenza nel vento solare
Il vento solare è un flusso incessante di particelle cariche provenienti dal Sole, il cui andamento è tutt’altro che costante. Nel loro moto nello spazio, le particelle del vento solare interagiscono con il campo magnetico variabile del Sole, seguendo traiettorie caotiche e fluttuanti, un fenomeno che prende il nome di turbolenza.
Le riprese ottenute dalla missione Solar orbiter dell’Agenzia spaziale europea (Esa) grazie al coronografo Metis progettato da Inaf, Università di Firenze, Università di Padova, Cnr-Ifn, e realizzato dall’Agenzia spaziale italiana (Asi) con la collaborazione dell’industria italiana, confermano qualcosa che si sospettava da tempo: il moto turbolento del vento solare inizia molto vicino al Sole, all’interno della porzione di atmosfera solare nota come corona. Piccoli disturbi che influenzano il vento solare nella corona vengono trasportati verso l’esterno e si espandono, generando un flusso turbolento più lontano nello spazio.
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Il Sole è mostrato al centro, circondato da un anello che visualizza parte della corona solare ripresa dal coronografo Metis di Solar Orbiter. I dati mostrano cambiamenti nella luminosità della corona solare, che è direttamente correlata alla densità delle particelle cariche presenti al suo interno. Questi cambiamenti sono resi visibili sottraendo immagini consecutive di luminosità coronale scattate a due minuti di distanza l’una dall’altra. Le regioni rosse non mostrano alcun cambiamento, mentre le regioni bianche e nere evidenziano cambiamenti positivi e negativi nella luminosità. Questo rivela come le particelle cariche del vento solare all’interno della corona si muovano in modo caotico e turbolento. Crediti: Esa & Nasa/Solar orbiter/Metis & Eui Teams e D. Telloni/Inaf
«Questo risultato ha aperto una nuova finestra sulla fisica del vento solare grazie a Metis, il coronografo di nuova concezione – tutta italiana – a bordo del Solar Orbiter, che ha permesso acquisizioni ad alta cadenza di immagini coronali con un contrasto senza precedenti tra segnale coronale e background», commenta Silvano Fineschi dell’Inaf e Responsabile scientifico del contributo italiano alla missione.
Bloccando la luce diretta proveniente dal Sole, il coronografo Metis è in grado di catturare la luce visibile e ultravioletta più debole proveniente dalla corona solare. Le sue immagini ad alta risoluzione e ad alta cadenza mostrano la struttura dettagliata e il movimento all’interno della corona, rivelando come il movimento del vento solare diventi già turbolento alle sue radici. Le riprese utilizzate dal team di ricerca per osservare in dettaglio la propagazione della turbolenza sono state ottenute il 12 ottobre 2022 e messe in sequenza per realizzare una animazione video. In particolare, l’anello color rosso nel video mostra le osservazioni di Metis. A quella data, la sonda si trovava a soli 43,4 milioni di chilometri dal Sole, meno di un terzo della distanza Sole-Terra. L’immagine del Sole al centro del video è stata scattata dall’Extreme ultraviolet imager (Eui) di Solar orbiter, lo stesso giorno delle osservazioni di Metis.
«L’elevata risoluzione spaziale e temporale di Metis sta gettando nuova luce sui meccanismi fisici che regolano il vento solare e la sua propagazione, consentendo una migliore comprensione dei processi attraverso i quali il Sole determina le condizioni fisiche dello spazio interplanetario con effetti anche a Terra», dice Marco Stangalini, ricercatore e Responsabile di programma Asi della missione Solar orbiter. «Questo significativo risultato è solo l’ultimo di una lunga serie di successi e offre grandi speranze per il futuro. Nei prossimi anni, infatti, Solar Orbiter inclinerà la sua orbita, permettendoci di osservare il Sole da una prospettiva completamente nuova per la prima volta».
La turbolenza influenza il modo in cui il vento solare viene riscaldato, il modo in cui si muove attraverso il Sistema solare e il modo in cui interagisce con i campi magnetici dei pianeti e delle lune che attraversa. Comprendere la turbolenza del vento solare è fondamentale per prevedere la meteorologia spaziale e i suoi effetti sulla Terra.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Metis observation of the onset of fully developed turbulence in the solar corona” di Daniele Telloni, Luca Sorriso-Valvo, Gary P. Zank, Marco Velli , Vincenzo Andretta, Denise Perrone, Raffaele Marino, Francesco Carbone, Antonio Vecchio, Laxman Adhikari, Lingling Zhao, Sabrina Guastavino, Fabiana Camattari, Chen Shi, Nikos Sioulas, Zesen Huang, Marco Romoli, Ester Antonucci, Vania Da Deppo, Silvano Fineschi, Catia Grimani, Petr Heinzel, John D. Moses, Giampiero Naletto, Gianalfredo Nicolini, Daniele Spadaro, Marco Stangalini, Luca Teriaca, Michela Uslenghi, Lucia Abbo, Frederic Auchere, Regina Aznar Cuadrado, Arkadiusz Berlicki, Roberto Bruno, Aleksandr Burtovoi, Gerardo Capobianco, Chiara Casini, Marta Casti, Paolo Chioetto, Alain J. Corso, Raffaella D’Amicis, Yara De Leo, Michele Fabi, Federica Frassati, Fabio Frassetto, Silvio Giordano, Salvo L. Guglielmino, Giovanna Jerse, Federico Landini, Alessandro Liberatore, Enrico Magli, Giuseppe Massone, Giuseppe Nisticò, Maurizio Pancrazzi, Maria G. Pelizzo, Hardi Peter, Christina Plainaki, Luca Poletto, Fabio Reale, Paolo Romano, Giuliana Russano, Clementina Sasso, Udo Schuhle, Sami K. Solanki, Leonard Strachan, Thomas Straus, Roberto Susino, Rita Ventura, Cosimo A. Volpicelli, Joachim Woch, Luca Zangrilli, Gaetano Zimbardo e Paola Zuppella
La più grande mappa infrarossa della Galassia
Questo collage mette in risalto una piccola selezione di regioni della Via Lattea. Da sinistra a destra e dall’alto in basso trovate Ngc 3576, Ngc 6357, Messier 17, Ngc 6188, Messier 22 e Ngc 3603. Sono tutte nubi di gas e polvere in cui si stanno formando stelle, tranne Messier 22, che è un gruppo molto denso di vecchie stelle. Le immagini sono state acquisite con il telescopio Vista dell’Eso e la sua camera a infrarossi Vircam. La mappa a cui appartengono queste immagini contiene 1,5 miliardi di oggetti. I dati sono stati raccolti nel corso di 13 anni nell’ambito della survey Vvv e del suo progetto complementare, la survey Vvvx. Crediti: Eso/Vvvx survey
Era il 1610 quando nel Sidereus Nuncius Galileo Galilei scriveva (non proprio con queste esatte parole) che “La Via Lattea non è altro che una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi; ché, in qualunque regione di essa si diriga il cannocchiale, subito una ingente folla di stelle si presenta alla vista, delle quali parecchie si vedono abbastanza grandi e molto distinte, ma la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile”.
Poco più di quattrocento anni dopo, assistiamo al completamento della più grande mappa a infrarossi della Via Lattea, dopo oltre 13 anni di osservazione delle sue regioni centrali. A compiere questa impresa è il progetto Vista Variables in the Vía Láctea e il suo complementare Vvv eXtended, le cui survey – rispettivamente Vvv e Vvvx – sono state guidate da Dante Minniti, dell’Unab e del Center for Astrophysics and Related Technologies (Cata), e da Philip Lucas dell’Università di Hertfordshire, nel Regno Unito.
I risultati di molti anni di analisi dati sono riportati in uno studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics. L’articolo è stato redatto da 146 coautori provenienti da 15 paesi diversi in quattro continenti. Molti sono gli autori Inaf coinvolti: Alonso Luna e Alessio Caratti o Garatti dell’Inaf di Napoli, Vittorio Francesco Braga e Maria Gabriela Navarro dell’Inaf di Roma, Luigi Bedin, Mattia Libralato e Massimo Griggio dell’Inaf di Padovae Nicola Masetti dell’Inaf di Bologna.
All’inizio è stata un’avventura imbarcarsi in questo grande esperimento che rappresentava un compito gigantesco, essendo allora il più grande progetto osservativo per volume di dati dell’European Southern Observatory (Eso), incaricato di effettuare osservazioni con il telescopio Vista situato presso l’Osservatorio Paranal, nel nord del Cile. Le osservazioni sono iniziate nel 2010 e si sono concluse nella prima metà del 2023, per un totale di 420 notti in cui sono state ottenute circa 200mila immagini, monitorando più di 1,5 miliardi di oggetti e generando circa 500 TB di dati scientifici.
Questa immagine mostra le regioni della Via Lattea mappate dalle survey Vvv e Vvvx. L’area totale coperta è equivalente a 8600 lune piene. I quadrati rossi indicano le aree centrali della nostra galassia originariamente coperte da Vvvv e successivamente riosservate da Vvvx. Gli altri quadrati indicano le regioni osservate solo nell’ambito della survey Vvvx: ancora più regioni del disco su entrambi i lati (giallo e verde), aree del disco sopra e sotto il piano della galassia (blu scuro) e sopra e sotto il bulge (blu chiaro). I numeri indicano la longitudine e la latitudine galattica. Sono indicati anche i nomi di varie costellazioni. Crediti: Eso/Vvvx Survey
Questo enorme set di dati copre un’area del cielo equivalente a 8600 lune piene e contiene un numero di oggetti circa 10 volte superiore a quello della precedente mappa pubblicata dallo stesso team nel 2012. Include stelle neonate, spesso all’interno di bozzoli di polvere, e ammassi globulari, densi gruppi di milioni di stelle più antiche della Via Lattea. Osservando la luce infrarossa, Vista può anche individuare oggetti molto freddi, che brillano a queste lunghezze d’onda, come nane brune o pianeti vagabondi, ossia pianeti che non orbitano attorno a una stella. Osservando più volte ciascuna porzione di cielo, il team è stato in grado non solo di determinare la posizione di questi oggetti, ma anche di seguire come si muovono e se la loro luminosità cambia.
María Gabriela Navarro dell’Inaf di Roma, coautrice dello studio pubblicato su A&A. Crediti: M.G. Navarro
«Il Vvvx ci offre la possibilità di coprire un lungo periodo di tempo (circa 10 anni) di osservazione continua nelle regioni più densamente popolate della nostra galassia grazie alle osservazioni nell’infrarosso, che penetrano il gas e la polvere concentrati in queste zone», commenta Navarro a Media Inaf. «Questa copertura temporale ci permette di misurare come varia la luce degli oggetti e le loro posizioni, ovvero la variabilità e la dinamica, che rappresentano informazioni preziose per comprendere meglio come si è formata la Galassia, come è evoluta e tutti i processi che stanno avvenendo al suo interno».
Le survey hanno prodotto innumerevoli applicazioni per la comunità astronomica interessata allo studio della struttura galattica, delle popolazioni stellari, delle stelle variabili, degli ammassi stellari e di molto altro. Tra le scoperte più importanti vi sono ammassi globulari, stelle iperveloci, stelle variabili RR Lyrae al centro della Galassia (la più antica popolazione conosciuta), stelle nane brune e pianeti binari fluttuanti, oggetti variabili sconosciuti che chiamiamo Wit (acronimo di “What Is This?”), migliaia di galassie lontane osservate attraverso il disco della Via Lattea, oggetti stellari neonati violentemente variabili, eventi di microlensing gravitazionale nel cuore della Galassia e stelle variabili Cefeidi agli antipodi della Galassia.
«Questo studio inoltre permette l’esplorazione e la caratterizzazione di sorgenti, presenti nel Piano Galattico o al di là di esso, che emettono raggi X e gamma e che sono impossibili da osservare in ottico a causa del forte assorbimento dovuto alle polveri interstellari. Con la survey Vvvx è quindi possibile studiare in dettaglio la natura e il comportamento di questi oggetti fortemente compatti, ovvero stelle di neutroni e buchi neri, integrando i dati alle alte energie con quelli nelle bande infrarosse», commenta Masetti a Media Inaf.
Questa immagine mostra una vista dettagliata all’infrarosso di Messier 17, nota anche come Nebulosa Omega o Nebulosa del Cigno, una nursery stellare situata a circa 5500 anni luce di distanza nella costellazione del Sagittario. Crediti: Eso/Vvvx Survey
Queste scoperte hanno già prodotto più di 300 pubblicazioni scientifiche. L’elaborazione delle immagini, l’analisi dei dati e l’esplorazione scientifica continueranno per molti anni a venire, regalandoci sicuramente molte altre scoperte. Questo lavoro lascia una grande eredità alla comunità astronomica, che continuerà a utilizzare i dati in una serie di progetti futuri, molti dei quali saranno integrati con le future osservazioni del telescopio spaziale Nancy Roman della Nasa, che sarà lanciato alla fine del 2026.
Nel frattempo, l’Osservatorio del Paranal dell’Eso si sta preparando per il futuro: Vista sarà aggiornato con il nuovo strumento 4Most e il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso riceverà lo strumento Moons. Insieme, questi strumenti forniranno gli spettri di milioni di oggetti qui analizzati. Attendiamo, curiosi e fiduciosi.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “The VISTA Variables in the Vía Láctea eXtended (VVVX) ESO public survey: Completion of the observations and legacy” di R. K. Saito, M. Hempel, J. Alonso-García, P. W. Lucas, D. Minniti, S. Alonso, L. Baravalle, J. Borissova, C. Caceres, A. N. Chené, N. J. G. Cross, F. Duplancic, E. R. Garro, M. Gómez, V. D. Ivanov, R. Kurtev, A. Luna, D. Majaess, M. G. Navarro, J. B. Pullen, M. Rejkuba, J. L. Sanders, L. C. Smith, P. H. C. Albino, M. V. Alonso, E. B. Amôres, R. Angeloni, J. I. Arias, M. Arnaboldi, B. Barbuy, A. Bayo, J. C. Beamin, L. R. Bedin, A. Bellini, R. A. Benjamin, E. Bica, C. J. Bonatto, E. Botan, V. F. Braga, D. A. Brown, J. B. Cabral 9,33, D. Camargo 34, A. Caratti o Garatti 17 , J. A. Carballo-Bello 35, M. Catelan 36,5,37, C. Chavero, M. A. Chijani, J. J. Clariá, G. V. Coldwell, C. Contreras Peña, R. Contreras Ramos, J. M. Corral-Santana, C. C. Cortés, M. Cortés-Contreras, P. Cruz, I. V. Daza-Perilla, V. P. Debattista, B. Dias, L. Donoso, R. D’Souza, J. P. Emerson, S. Federle, V. Fermiano, J. Fernandez, J. G. Fernández-Trincado, T. Ferreira, C. E. Ferreira Lopes, V. Firpo, C. Flores-Quintana, L. Fraga, D. Froebrich, D. Galdeano, I. Gavignaud, D. Geisler, O. E. Gerhard, W. Gieren, O. A. Gonzalez, L. V. Gramajo, F. Gran, P. M. Granitto, M. Griggio, Z. Guo, S. Gurovich, M. Hilker, H. R. A. Jones, R. Kammers, M. A. Kuhn, M. S .N. Kumar, R. Kundu, M. Lares, M. Libralato, E. Lima, T. J. Maccarone, P. Marchant Cortés, E. L. Martin, N. Masetti, N. Matsunaga, F. Mauro, I. McDonald, A. Mejías, V. Mesa, F. P. Milla-Castro, J. H. Minniti, C. Moni Bidin, K. Montenegro, C. Morris, V. Motta, F. Navarete, C. Navarro Molina, F. Nikzat, J. L. Nilo Castellón, C. Obasi, M. Ortigoza-Urdaneta, T. Palma, C. Parisi, K. Pena Ramírez, L. Pereyra, N. Perez, I. Petralia, A. Pichel, G. Pignata, S. Ramírez Alegría, A. F. Rojas, D. Rojas, A. Roman-Lopes, A. C. Rovero, S. Saroon, E. O. Schmidt, A. C. Schröder, M. Schultheis, M. A. Sgró, E. Solano, M. Soto, B. Stecklum, D. Steeghs, M. Tamura, P. Tissera, A. A. R. Valcarce, C. A. Valotto, S. Vasquez, C. Villalon, S. Villanova, F. Vivanco Cádiz, R. Zelada Bacigalupo, A. Zijlstra e M. Zoccali
Se volete la Luna, andate a Colonia
L’edificio che ospita il simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Inaugurata oggi a Colonia, in Germania, accanto allo European Astronaut Centre dell’Esa, una struttura in grado di simulare l’ambiente lunare: si chiama LUNA – tutta in maiuscolo, por distinguerla dal nostro satellite naturale – ed è gestita congiuntamente dall’Esa e dalla Dlr, l’agenzia aerospaziale tedesca.
Progettata per ricreare la superficie lunare, sarà utilizzata per preparare astronauti, scienziati, ingegneri ed esperti di missioni a vivere e lavorare sulla Luna. Faciliterà la ricerca, lo sviluppo e i test integrati della tecnologia spaziale in condizioni realistiche, fornendo preziose indicazioni per le prossime missioni lunari, come il programma Artemis della Nasa, che invierà astronauti sulla Luna per la prima volta dopo oltre mezzo secolo.
«Non vedo l’ora che LUNA apra i battenti, e di poter tornare allo European Astronaut Centre per ricevere l’addestramento unico che può offrire», dice l’astronauta dell’Esa Luca Parmitano. «Questa struttura è una piattaforma fondamentale per simulare l’ambiente lunare nel suo complesso. Le conoscenze acquisite qui saranno preziose per la collaborazione con le missioni internazionali e per il raggiungimento dei nostri obiettivi con la Nasa e oltre. LUNA non è solo una testimonianza delle nostre ambizioni comuni, ma anche uno strumento fondamentale per far progredire i nostri sforzi collettivi di esplorazione spaziale».
Infografica del simulatore lunare LUNA (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa
LUNA dispone di un’area di 700 metri quadrati che riproduce la superficie lunare grazie a 900 tonnellate di grani e rocce vulcaniche di origine basaltica, lavorate ad hoc per creare un materiale noto come “simulante di regolite”, offrendo così un ambiente di prova unico. Un’area profonda della pavimentazione consentirà la perforazione e il campionamento fino a tre metri sotto la superficie, permettendo ricerche sulla regolite, compreso il suolo lunare congelato.
Interno del simulatore lunare LUNA. Crediti: Esa, Dlr
Nel frattempo, un simulatore del Sole imita i cicli del giorno e della notte sulla Luna, comprese le difficili condizioni di illuminazione che si trovano nelle regioni polari lunari. Presto saranno implementate altre funzioni, come un sistema di scarico della gravità per simulare la gravità della Luna, pari a un sesto di quella terrestre, e una rampa regolabile per testare la mobilità sui pendii lunari.
LUNA è stato progettato come un hub aperto, a disposizione di agenzie spaziali, università, ricercatori, industria spaziale, start-up e piccole e medie imprese di tutto il mondo. «L’apertura di LUNA segna una pietra miliare significativa negli sforzi europei per l’esplorazione spaziale», dice il direttore generale dell’Esa, Josef Aschbacher. «Questa struttura unica, con la sua capacità di riprodurre le condizioni lunari, fa progredire la nostra comprensione della Luna e ci prepara per le missioni future. Siamo orgogliosi di guidare questo progetto, che posiziona l’Europa all’avanguardia nell’esplorazione lunare e oltre, promuovendo al contempo la collaborazione internazionale nella ricerca spaziale».
Non è tutta vita quella che puzza
Una delle sfide più grandi nella ricerca di vita oltre la Terra è l’identificazione di caratteristiche note per essere associate in modo univoco al mondo biologico. Gli addetti ai lavori chiamano queste caratteristiche, biofirme. Siano esse firme chimiche, isotopiche, mineralogiche, strutturali o tecnologiche, sono tutte impronte osservabili che la vita produce.
Poiché la Terra è l’unico pianeta noto per ospitare la vita, la nostra conoscenza delle biofirme rilevabili deriva da questo singolo, limitato esempio. Inoltre, l’onere della prova necessario per verificare che una data caratteristica sia una biofirma è determinato non solo dalla probabilità che sia stata prodotta da un processo biologico, ma anche dall’improbabilità che sia stata prodotta da processi non biologici.
Illustrazione artistica realizzata con Adobe AI che mostra un classico strumento in uso nei laboratori di chimica, in primo piano, e un esopianeta, sullo sfondo. Crediti: Media Inaf
Una delle principali biofirme utilizzate nella ricerca esoplanetaria è rappresentata dai gas atmosferici, specie chimiche volatili prodotte dai sistemi biologici e immesse nell’atmosfera di un pianeta come prodotto di scarto. Tra queste molecole, i gas a base di zolfo sono attualmente considerati tra i più robusti indicatori della presenza di vita su un pianeta. Ne sono alcuni esempi il dimetil solfuro, il solfuro di carbonile e il disolfuro di carbonio, tutte molecole che sulla Terra sono prodotti secondari del metabolismo degli organismi viventi. Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori guidati dalla Boulder Colorado University mette ora in discussione questa idea. Nella ricerca, i cui risultati sono pubblicati su Astrophysical Journal Letters, gli scienziati sono infatti riusciti a produrre in laboratorio, senza il coinvolgimento di alcun sistema biologico, diversi gas organo-solforati, mettendo in dubbio il ruolo di tali sostanze come biomarcatori forti.
Per ottenere le sostanze in fase gassosa, i ricercatori hanno condotto esperimenti di fotochimica. L’obiettivo? Valutare cosa accade su un pianeta quando i gas reagiscono con la luce per formare la cosiddetta “foschia organica e gas associati”, una sorta di caligine composta da particelle di aerosol prodotte dalle reazioni chimiche che si verificano in atmosfera. Il protocollo sperimentale seguito è stato questo. In breve, all’interno di una camera di miscelazione, utilizzando metano, idrogeno solforato e azoto molecolare come precursori, i ricercatori hanno prodotto miscele di gas che simulavano diverse atmosfere planetarie. Successivamente, attraverso un regolatore di flusso, hanno fatto passare queste miscele in una camera di reazione dotata di una lampada al deuterio in grado di emettere luce nel lontano ultravioletto. Il picco di emissione della lampada era compreso tra 115 e 165 nm, una finestra di lunghezze d’onda della radiazione la cui energia imita la fotolisi del metano nelle atmosfere riducenti del nostro Sistema solare. Hanno quindi acceso la lampada, promuovendo l’irradiazione dei gas e l’avvio di reazioni chimiche simili a quelle che nell’atmosfera di un pianeta sono indotte dalla luce. La raccolta e l’analisi tramite gascromatografia con rivelazione di zolfo a chemiluminescenza – una metodica che permette di identificare e quantificare i composti solforati – è stata l’ultima fase dell’esperimento.
Tra i prodotti di reazione individuati dai ricercatori c’erano il metantiolo (CH3SH), l’etantiolo (C2H5SH), il solfuro di carbonio (CS2), il solfuro di carbonile (COS) e l’etil-metilsolfuro (CH3CH2SCH3). Ma soprattutto, c’era il dimetil solfuro (CH3SCH3 ), la più forte tra le più forti biofirme di vita. Prodotto dal metabolismo batterico e di alcune alghe marine, nonché responsabile dell’odore prodotto dalla cottura di alcune verdure, è il composto di origine biologica a base di zolfo più abbondante emesso nell’atmosfera terrestre. Qui su Media Inaf ne abbiamo parlato di recente, perché è anche la molecola che il telescopio spaziale James Webb ha rilevato nell’atmosfera dell’esopianeta K2-18b. Secondo i ricercatori, aver ottenuto queste molecole come prodotti di reazioni non biologiche limita il ruolo di questa molecola e di tutti i gas organosolforati come biofirme
Illustrazione che mostra il procedimento sperimentale seguito nello studio. Crediti: Nathan W. Reed et al., Apj Letters, 2024
«Le molecole solforate sono utilizzate come biofirme perché sono prodotte dalla vita sulla Terra», dice Ellie Browne, scienziata dell’Università del Colorado a Boulder e co-autrice dello studio. «Ma in questo caso le abbiamo ottenute in laboratorio in condizioni abiotiche, quindi potrebbero non essere un segno di vita, ma un segno di qualcosa di ospitale per la vita».
«Uno dei risultati dell’articolo è stato l’aver trovato il dimetil solfuro», aggiunge l’astrobiologo dell’Università del Colorado a Boulder e primo autore della pubblicazione, Nathan Reed. «Si tratta di una molecola che è stata rilevata nelle atmosfere esoplanetarie e che si pensava fosse un segno di vita sui pianeti».
I ricercatori sperano che il loro studio dia il la ad altre ricerche che esaminino le reazioni chimiche che coinvolgono lo zolfo. L’obiettivo è studiare tutte le reazioni in cui sono coinvolte per comprendere meglio il loro ruolo come biofirme.
I risultati ottenuti potrebbero avere implicazioni per la valutazione dei gas organosolforati come potenziali biofirme nelle atmosfere esoplanetarie, sottolineano a questo proposito i ricercatori. Ciò che è stato dimostrato è che diversi composti solforati e semplici tioli, specie precedentemente considerate biofirme robuste nelle atmosfere esoplanetarie, hanno possibili percorsi di produzione non biologica che coinvolgono la fotochimica planetaria. Pertanto, ogni gas organosolforato citato nell’articolo rischia di essere una biofirma falsa positiva se i percorsi abiotici proposti vengono trascurati.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Abiotic Production of Dimethyl Sulfide, Carbonyl Sulfide, and Other Organosulfur Gases via Photochemistry: Implications for Biosignatures and Metabolic Potential”, di Nathan W. Reed, Randall L. Shearer, Shawn Erin McGlynn, Boswell A. Wing, Margaret A. Tolbert ed Eleanor C. Browne
Nell’orbita di Marte, indizi di materia oscura
Secondo i cosmologi la materia “convenzionale”, quella cioè che possiamo vedere e toccare, costituisce solo il 20 per cento della materia totale dell’universo. Il resto è costituito da materia oscura, una forma ipotetica di materia invisibile che si pensa pervada l’universo ed eserciti una forza gravitazionale abbastanza grande da influenzare il moto di stelle e galassie. Sebbene l’esistenza di questa materia sia largamente accettata dalla comunità scientifica, a oggi sulla sua identità non ci sono certezze, ma solo ipotesi.
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Illustrazione artistica che mostra un buco nero primordiale (a sinistra) che passa “vicino” il pianeta Marte (a destra). Secondo il nuovo studio, tale passaggio ravvicinato potrebbe provocare una perturbazione nell’orbita del pianeta, che potrebbe essere rilevata dagli strumenti odierni. Crediti: Benjamin V. Lehmann
La maggior parte di queste ipotesi prevede che la materia oscura sia fatta di particelle elementari sconosciute: alcune sostengono sia composta da particelle massicce debolmente interagenti (Wimp); altre da assioni; altre ancora da particelle che interagiscono sulla scala di Planck (Pidm) o da neutrini sterili.
Un’ipotesi alternativa alle precedenti, formulata per la prima volta negli anni ’70, è quella che prevede che la materia oscura non sia fatta di particelle esotiche, ma abbia le sembianze di buchi neri. Non buchi neri astrofisici, però – quelli che si formano dal collasso di vecchie stelle, per intenderci – ma buchi neri microscopici, piccoli quanto un atomo e pesanti quanto un grande asteroide, formatisi dal collasso di dense sacche di gas nell’universo primordiale. Secondo un nuovo studio pubblicato su Physical Review D, questa ipotesi potrebbe essere “facilmente” verificata monitorando l’orbita di Marte con gli strumenti ad alta precisione di cui già disponiamo.
La ricerca in questione, condotta da un team di scienziati guidati dal Massachusetts Institute of Technology, si basa sull’assunto che se la maggior parte della materia oscura nell’universo è composta davvero da buchi neri primordiali (primordial black holes, Pbh, in inglese), su scale temporali relativamente brevi questi corpi dovrebbero attraversare il nostro Sistema solare e produrre un qualche effetto sui corpi che vi risiedono.
Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno condotto delle simulazioni. Basandosi sulla quantità di materia oscura che si stima sia presente in una data regione dello spazio e ipotizzando una massa del buco nero primordiale pari a quella del più grande degli asteroidi del Sistema solare, inizialmente hanno calcolato con quale probabilità un simile oggetto potrebbe attraversare il nostro vicinato cosmico e con quale velocità.
«I buchi neri primordiali non vivono nel Sistema solare. Piuttosto, scorrazzano nell’universo», sottolinea Sarah Geller, ricercatrice al Massachusetts Institute of Technology e co-autrice dello studio. «La probabilità che attraversino il Sistema solare interno a una certa angolazione è di una volta ogni dieci anni circa».
A questo punto, utilizzando un codice che incorporava dati sulle orbite e le interazioni gravitazionali tra tutti i pianeti e alcune delle più grandi lune del Sistema solare, i ricercatori hanno simulato cosa accadeva al sistema al passaggio di vari buchi neri di massa asteroidale da varie angolazioni, concentrandosi in particolare su quei sorvoli che sembravano essere “incontri ravvicinati”.
«Le simulazioni più avanzate del Sistema solare includono più di un milione di oggetti, ognuno dei quali ha un piccolo effetto residuo», dice a questo proposito un altro dei co-autori dello studio, il fisico, anch’esso del Mit, Benjamin Lehmann. «Ma anche modellando due dozzine di oggetti in una accurata simulazione, abbiamo potuto vedere che c’era un effetto reale che potevamo approfondire».
I risultati delle simulazioni hanno mostrato che nessun effetto sulla Terra e sulla Luna era abbastanza certo da essere attribuito a un particolare buco nero. Le cose cambiavano per Marte, che ha offerto il quadro più chiaro: le simulazioni hanno mostrato un’evidente deviazione nell’orbita del pianeta.
Se un buco nero primordiale dovesse passare a poche centinaia di milioni di chilometri da Marte, la sua orbita dovrebbe spostarsi di circa un metro, spiegano i ricercatori. È una variazione incredibilmente piccola se si considera che il pianeta si trova a circa 228 milioni di chilometri dalla Terra, ma comunque rilevabile dai vari strumenti ad alta precisione che monitorano oggi Marte.
Se un’oscillazione del genere venisse rilevata nei prossimi due decenni, aggiungono gli scienziati, ci sarebbe ancora molto lavoro da fare per confermare che la spinta provenga da un buco nero primordiale di passaggio. Per facilitare questo compito, i ricercatori stanno già valutando la possibilità di una nuova collaborazione con un gruppo di ricerca che vanta una luna lunga esperienza nelle simulazioni del Sistema solare.
«Stiamo lavorando per simulare un numero enorme di oggetti, dai pianeti alle lune fino alle rocce, e come questi si muovono su scale temporali lunghe», dice Geller. «Vogliamo simulare scenari di incontro ravvicinato e osservare i loro effetti con maggiore precisione».
«Grazie a decenni di telemetria di precisione, gli scienziati conoscono la distanza tra la Terra e Marte con una precisione di circa dieci centimetri», ricorda David Kaiser, professore di fisica al Mit, anche lui tra i firmatari dello studio. «Stiamo sfruttando questa regione dello spazio popolata da numerosi strumenti scientifici per cercare di individuare un piccolo effetto. Se lo vedessimo», conclude lo scienziato, «ciò sarebbe una buona ragione per continuare a perseguire quest’idea che tutta la materia oscura sia composta da buchi neri prodotti meno di un secondo dopo il Big Bang, che hanno circolato nell’universo per 14 miliardi di anni».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review D l’articolo “Close encounters of the primordial kind: A new observable for primordial black holes as dark matter” di Tung X. Tran, Sarah R. Geller, Benjamin V. Lehmann e David I. Kaiser
Ordigni nucleari per difenderci dagli asteroidi
Come scriveva l’astronomo statunitense Fred Whipple nel suo libro The mystery of comets (1985), «la protezione della Terra dall’impatto di corpi cosmici non è un progetto fantascientifico di un improbabile futuro. Il costo di una simile impresa sarebbe comparabile, se non più basso, delle spese militari sostenute a livello mondiale. Potremmo scegliere di difenderci da comete e asteroidi piuttosto che difenderci da noi stessi». Sagge parole.
Rappresentazione artistica dell’emissione di materia a seguito dell’impatto della sonda Dart con l’asteroide Dimorphos. Crediti: Esa
Per la mitigazione del rischio di collisione degli asteroidi con la Terra ci sono diverse tecniche che sono state ideate, ma l’unica provata “sul campo” è stata quella dell’impattore cinetico della missione Dart della Nasa. L’impatto con un Nea (near-Earth asteroid) è l’unico evento naturale catastrofico su cui si può intervenire: altrettanto non può essere detto per eruzioni vulcaniche, terremoti o uragani, su cui non possiamo esercitare nessun controllo. Quindi, nel caso venisse scoperto un Nea con un diametro importante in rotta di collisione con il nostro pianeta, per cercare di limitare i danni si dovrà passare dalla teoria alla pratica. La Terra si muove con una velocità orbitale di circa 30 km/s e per percorrere una distanza pari al proprio diametro di 12.756 km impiega circa 12.756/30 ≈ 425 s ≈ 7 minuti: per evitare una collisione dobbiamo almeno modificare il tempo di arrivo dell’asteroide di sette minuti. Se si considera per il Nea un periodo orbitale dell’ordine dell’anno, questo equivale a una variazione dello 0,0013 per cento del suo periodo eliocentrico: un niente su scala planetaria, ma il tutto per continuare l’esistenza come specie.
Non è detto che la mitigazione del rischio comporti sempre una missione spaziale per intervenire direttamente sull’asteroide. Nel caso di un piccolo asteroide di 50-100 metri di diametro, con impatto previsto in una regione desertica o quasi disabitata, la mitigazione può semplicemente comportare l’evacuazione della popolazione residente. Le cose cambiano radicalmente se si considera l’impatto di un piccolo asteroide di 50 m di diametro su una zona densamente popolata o di importanza strategica, l’impatto di un oggetto di circa 140 m su una nazione ad alta densità di popolazione o la collisione di un asteroide di 300 m di diametro ovunque sulla Terra. In questi casi, in termini puramente economici, risulta più conveniente la mitigazione del rischio sia per mezzo della deflessione orbitale, sia – come ultima ratio – distruggendo il Nea (se sufficientemente piccolo).
L’orbita di un Nea può essere cambiata rapidamente applicando una forza in senso ortogonale al vettore velocità dell’asteroide, in moda da dargli una specie di “spallata” che gli faccia cambiare rapidamente direzione evitando di collidere con la Terra. Se il tempo di preavviso non è sufficiente o il Nea è di grosse dimensioni un impattore cinetico può non bastare, dati i limiti sulla massa che può essere inviata nello spazio. Per questo motivo i ricercatori continuano a studiare, come valida alternativa, anche la deflessione orbitale tramite esplosione nucleare, perché è il solo modo per condurre un’interazione ad alta energia, infatti questa tecnica offre la maggiore quantità di energia per unità di massa (circa 4·106 MJ/kg). In questo caso l’impulso che verrebbe trasferito al Nea sarebbe principalmente dovuto all’emissione di neutroni e raggi X, oltre che dai detriti superficiali dell’asteroide vaporizzati ed espulsi nello spazio. Infatti, non dobbiamo immaginare che la distruzione dell’asteroide sia la prima scelta: questa sarebbe solo l’ultimo, estremo e disperato tentativo per scongiurare la collisione. La tecnica da preferire è una deflessione orbitale controllata dell’asteroide, senza nessuna frammentazione.
Rappresentazione artistica dell’esplosione di un ordigno nucleare in prossimità della superficie di un asteroide di grandi dimensioni per attuarne la deflessione orbitale. Crediti: Nasa
I raggi X emessi in un’esplosione nucleare riscalderebbero molto rapidamente la superficie del Nea, vaporizzandola nello spazio e, per “effetto razzo“, questo cambierebbe la direzione di movimento dell’asteroide. Quanto è realistico questo scenario? Si potrebbe davvero deflettere un asteroide dalla sua rotta di collisione con un’esplosione nucleare controllata? Per rispondere a questa domanda, Nathan Moore e colleghi dei Sandia National Laboratories di Albuquerque (Usa), per mezzo di esperimenti di laboratorio, hanno recentemente riprodotto l’effetto di un ordigno nucleare che esploda in prossimità della superficie di un asteroide.
Non è la prima volta che vengono condotti esperimenti di questo tipo, ma è la prima volta che si è misurato l’impulso dovuto anche ai getti di materiale vaporizzato dalla superficie, dopo l’esposizione ai raggi X. Per la generazione del fascio di raggi X è stata usata la Z machine che si trova presso gli stessi Sandia National Laboratories, un’apparecchiatura progettata per testare i materiali in condizioni di temperatura e pressione estreme. Per generare i raggi X usati nell’esperimento è stato portato allo stato di plasma un gas di argon, ottenendo così raggi X da 3-4 keV emessi nella ricombinazione fra ioni ed elettroni. L’impulso di raggi X dopo pochi nanosecondi ha colpito due modelli di asteroidi costituiti da sottili dischi del diametro di 12 mm sospesi nel vuoto tramite un sottilissimo foglio metallico: un campione era costituito da quarzo, mentre l’altro era fatto di silice fusa. All’arrivo dei raggi X il primo a essere vaporizzato è il foglio metallico che sostiene il campione, che si trova improvvisamente sospeso nel vuoto e di cui si può misurare il rinculo per effetto della pressione di radiazione dei raggi X e della vaporizzazione del materiale superficiale. Anche se il target, dopo la rottura del foglio metallico che lo sostiene, inizia a cadere la durata dell’esperimento è di soli 20 μs e in questo brevissimo lasso di tempo si sposta di soli 2 nm, una quantità del tutto trascurabile.
In entrambi gli esperimenti, Moore e colleghi hanno osservato gli impulsi di raggi X riscaldare la superficie dei target, con conseguente emissione di getti di materiale vaporizzato che hanno generato una velocità di rinculo di circa 69,5 m/s e 70,3 m/s, rispettivamente. Questo esperimento rappresenta una versione in scala ridotta di uno scenario di deflessione orbitale di un asteroide utilizzando raggi X generati da un’esplosione nucleare a distanza ravvicinata, ma per vedere se è realmente utile bisogna riscalarlo alle dimensioni di un vero asteroide. Supponendo di voler cambiare la velocità di un asteroide di circa 0,04 km/h (che è il valore tipico richiesto per la difesa planetaria), facendo detonare un ordigno nucleare con un’energia di 1 Mt a una distanza dalla superficie dell’asteroide pari al raggio e applicando i valori della velocità di rinculo misurati in laboratorio, si trova che si riescono a deflettere asteroidi fino a circa 3-4 km di diametro, praticamente tutti quelli pericolosi se si considera che i Nea con più di un km di diametro sono solo mille e il loro numero è completo al 95 per cento. Con futuri esperimenti verranno studiati altri materiali, diverse strutture del bersaglio e impulsi di raggi X, poiché il getto di materiale vaporizzato dipende dalla composizione chimica dell’asteroide, ma il risultato è abbastanza chiaro: con un opportuno preavviso è possibile deflettere anche asteroidi di grandi dimensioni usando ordigni nucleari da far esplodere in prossimità dell’asteroide senza mandarlo in frantumi. Una speranza in più, non per il pianeta Terra, ma per la nostra specie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “Simulation of asteroid deflection with a megajoule-class X-ray pulse”, di Nathan W. Moore, Mikhail Mesh, Jason J. Sanchez, Marc-Andre Schaeuble, Chad A. McCoy, Carlos R. Aragon, Kyle R. Cochrane, Michael J. Powell e Seth Root
Febbre alle stelle: come misurarla con precisione
La temperatura di una stella è tutt’altro che uniforme: varia sia sulla sua superficie che nel tempo. Ora una tecnica innovativa sviluppata da Étienne Artigau dell’UdeM e dal suo team permette di seguire questi cambiamenti con una precisione senza precedenti. Crediti: Benoit Gougeon/UdeM
Gli astronomi studiano le stelle osservando i diversi colori della luce che emettono, colori che catturano e analizzano con la spettroscopia. Ora un team guidato da Étienne Artigau dell’Università di Montréal ha sviluppato una tecnica che utilizza lo spettro di una stella per tracciare le variazioni della sua temperatura al decimo di grado Celsius, su una serie di scale temporali.
«Seguendo la temperatura di una stella, possiamo imparare molto su di essa, come il suo periodo di rotazione, la sua attività stellare, il suo campo magnetico», spiega Artigau. «Una conoscenza così dettagliata è essenziale anche per trovare e studiare i suoi pianeti».
In un articolo che sarà presto pubblicato su The Astronomical Journal, Artigau e il suo team dimostrano l’efficacia e la versatilità della tecnica utilizzando le osservazioni di quattro stelle molto diverse effettuate con il Canada-France-Hawaii Telescope alle Hawaii e con il telescopio da 3,6 metri dell’European Southern Observatory (Eso) a La Silla, in Cile.
Gli scienziati hanno prima rivolto la loro attenzione agli spettri stellari per migliorare l’individuazione degli esopianeti utilizzando la velocità radiale. Questo metodo misura le lievi oscillazioni di una stella generate dall’attrazione gravitazionale di un pianeta in orbita. Più grandi sono le oscillazioni, più grande è il pianeta. Ma è difficile rilevare oscillazioni molto piccole e di conseguenza pianeti di bassa massa. Per superare questo problema, Artigau e il suo team hanno sviluppato una tecnica che sfrutta il metodo della velocità radiale e che analizza l’intero spettro di una stella e non solo alcune porzioni, come fatto in precedenza. In questo modo è possibile individuare pianeti piccoli come la Terra che orbitano attorno a stelle di piccole dimensioni. Artigau ha poi avuto l’idea di utilizzare una strategia simile per rilevare non solo le variazioni delle oscillazioni di una stella, ma anche la sua temperatura.
Le misurazioni della temperatura sono fondamentali nella ricerca di esopianeti, che vengono per lo più osservati indirettamente seguendo da vicino la loro stella. Negli ultimi anni, gli astronomi hanno dovuto affrontare un grosso ostacolo: come distinguere tra gli effetti osservabili di una stella e quelli dei suoi pianeti. Questo è un problema sia nella ricerca di esopianeti utilizzando la velocità radiale sia nello studio delle loro atmosfere utilizzando la spettroscopia di transito. «È molto difficile confermare l’esistenza di un esopianeta o studiarne l’atmosfera senza una conoscenza precisa delle proprietà della stella ospite e di come variano nel tempo», spiega Charles Cadieux, dottorando dell’Irex che ha contribuito allo studio. «Questa nuova tecnica ci fornisce uno strumento prezioso per garantire la solidità delle nostre conoscenze sugli esopianeti e per avanzare nella caratterizzazione delle loro proprietà».
La temperatura superficiale di una stella è una proprietà fondamentale su cui gli astronomi fanno affidamento perché può essere utilizzata per determinare la luminosità e la composizione chimica della stella. Nel migliore dei casi, la temperatura esatta di una stella può essere conosciuta con una precisione di circa 20 gradi Celsius. Tuttavia, la nuova tecnica non misura le temperature esatte, ma le variazioni di temperatura nel tempo, che può determinare con notevole precisione.
«Non possiamo dire se una stella ha 5.000 o 5.020 gradi Celsius, ma possiamo determinare se è aumentata o diminuita di un grado, anche di una frazione di grado: nessuno l’ha mai fatto prima», afferma Artigau. «È una sfida rilevare variazioni di temperatura così minime nel corpo umano, quindi immaginate cosa sia per una sfera gassosa con una temperatura di migliaia di gradi situata a decine di anni luce di distanza».
Per dimostrare che la tecnica funziona, i ricercatori hanno utilizzato le osservazioni effettuate con lo spettrografo SpiRou del Canada-France-Hawaii Telescope e con lo spettrografo Harps del telescopio da 3,6 metri dell’Eso. Nei dati acquisiti da questi due telescopi per quattro piccole stelle nelle vicinanze del Sole, il team ha potuto osservare chiaramente le variazioni di temperatura, attribuite alla rotazione della stella o a eventi sulla sua superficie o nell’ambiente circostante.
Il gruppo di ricercatori ha rilevato variazioni di temperatura molto ampie in Au Microscopii, una stella molto attiva che è circondata da un disco di polvere e ha almeno un pianeta orbitante. Crediti: Nasa, Esa, Joseph Olmsted (StScI)
La nuova tecnica ha permesso di misurare grandi variazioni di temperatura. Per la stella Au Microscopii, nota per la sua elevata attività stellare, il team ha registrato variazioni di quasi 40 gradi Celsius.
Grazie a questa tecnica, è stato possibile misurare non solo i cambiamenti di temperatura molto rapidi associati a brevi periodi di rotazione di pochi giorni, come quelli di Au Microscopii e Epsilon Eridani, ma anche quelli che si verificano in periodi di tempo molto più lunghi, un’impresa difficile per i telescopi a terra.
«Siamo riusciti a misurare cambiamenti di pochi gradi o meno che si verificano su periodi molto lunghi, come quelli associati alla rotazione della stella di Barnard, una stella molto tranquilla che impiega cinque mesi per completare una rotazione completa», spiega Artigau. «Prima avremmo dovuto usare il telescopio spaziale Hubble per misurare una variazione così sottile e lenta».
La nuova tecnica ha anche permesso di rilevare piccole variazioni di temperatura sulla superficie delle stelle. Ad esempio, il team ha rilevato sottili variazioni di temperatura nella stella Hd 189733 in coincidenza con l’orbita del suo esopianeta Hd 189733 b, un gioviano caldo.
I ricercatori dell’UdeM sottolineano che la tecnica funziona non solo con SpiRou e Harps, ma con qualsiasi spettrografo operante nella gamma del visibile o dell’infrarosso. La tecnica innovativa sarà direttamente applicabile alle osservazioni di Nirps, uno spettrografo installato l’anno scorso nel telescopio Eso in Cile. Secondo i ricercatori, sarebbe possibile utilizzare questa tecnica anche con strumenti spaziali, come il James Webb Space Telescope.
«La potenza e la versatilità di questa tecnica ci permette di sfruttare i dati esistenti di numerosi osservatori per rilevare variazioni che in precedenza erano troppo piccole per essere percepite, anche su tempi molto lunghi», conclude Artigau. «Questo apre nuovi orizzonti nello studio delle stelle, della loro attività e dei loro pianeti».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Measuring Sub-Kelvin Variations in Stellar Temperature with High-Resolution Spectroscopy” di Étienne Artigau, Charles Cadieux, Neil J. Cook, René Doyon, Laurie Dauplaise, Luc Arnold, Maya Cadieux, Jean-François Donati, Paul Cristofari, Xavier Delfosse, Pascal Fouqué, Claire Moutou, Pierre Larue, Romain Allart
Campi magnetici nelle bolle di eRosita
Un nuovo studio guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha rivelato importanti novità che potrebbero riscrivere la nostra conoscenza della Via Lattea: un alone galattico magnetizzato. Questa scoperta mette in discussione i modelli precedenti sulla struttura ed evoluzione della nostra galassia. I ricercatori hanno identificato diverse strutture magnetizzate che si estendono ben oltre il piano galattico, raggiungendo altezze superiori a 16mila anni luce. Tali strutture rivelano una delle origini delle cosiddette bolle di eRosita, alimentate su scala galattica da intensi flussi di gas ed energia, generati dalla fine esplosiva delle stelle di grande massa come supernove. Sorprendentemente, queste bolle — osservate dal satellite eRosita (un telescopio a raggi X a bordo della missione spaziale russo-tedesca Spectr-Roentgen-Gamma) — si estendono da un orizzonte all’altro, offrendo le prime misurazioni dettagliate dell’alone magnetico della Via Lattea. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.
Questa immagine confronta le bolle eRosita a raggi X (in verde) e il campo magnetico nell’alone (in bianco). L’intensità polarizzata per la radiazione di sincrotrone è in rosso. I cerchi celesti sono le bolle di Fermi a raggi gamma. Le creste magnetiche associate alle bolle di Fermi sembrano emanare dal centro galattico. Al contrario, le creste nella regione esterna hanno origine nel disco galattico, a più di diecimila anni luce dal centro galattico. Crediti: H.-S. Zhang (Inaf) et al. 2024, Nature Astronomy
Lo studio rivela che i campi magnetici all’interno di queste bolle formano strutture filamentose che si estendono per una distanza pari a circa 150 volte il diametro della Luna piena, dimostrando la loro immensa scala. I filamenti sono correlati a venti caldi, con una temperatura di 3,5 milioni di gradi, espulsi dal disco galattico e alimentati dalle regioni di formazione stellare.
«I nostri risultati indicano che l’intensa formazione stellare alla fine del centro galattico contribuisce in modo significativo a questi ampi deflussi multifase», sottolinea He-Shou Zhang, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf di Milano. »Questo lavoro fornisce le prime misurazioni dettagliate dei campi magnetici nell’alone della Via Lattea, che emette raggi X e svela nuove connessioni tra le attività di formazione stellare e i deflussi galattici. I nostri risultati mostrano che le creste magnetiche osservate non sono semplici strutture casuali, ma sono strettamente legate alle regioni di formazione stellare della nostra galassia».
Il team di ricerca ha sfruttato l’intero spettro elettromagnetico, coprendo frequenze dalle onde radio ai raggi gamma, per analizzare queste strutture usando più di dieci diverse indagini all-sky. Un approccio così dettagliato ha permesso di confermare la natura estesa di queste strutture magnetiche. In particolare, lo studio rappresenta la prima evidenza osservativa che collega l’anello di formazione stellare della Via Lattea, situato alla fine del centro Galattico, alla produzione di deflussi su larga scala.
«Questo studio rappresenta un significativo passo avanti nella nostra comprensione della Via Lattea», dice Gabriele Ponti, ricercatore Inaf a Milano. «È ormai ben noto che una piccola frazione di galassie “attive” può generare deflussi di materia alimentati dall’accrescimento su buchi neri supermassicci o da eventi di formazione stellare intensi, che influenzano profondamente la loro galassia ospite. Si ritiene che tali deflussi siano elementi fondamentali per regolare la crescita delle galassie e dei buchi neri al loro centro. Ciò che trovo affascinante in questo caso è notare che anche la Via Lattea, una galassia quiescente come molte altre, può espellere potenti deflussi, e in particolare che l’anello di formazione stellare alla fine del centro rotazionale contribuisce significativamente al flusso galattico. Forse la Via Lattea ci sta svelando un fenomeno comune nelle galassie simili alla nostra, aiutandoci così a far luce sulla crescita ed evoluzione di questi oggetti».
«I nostri primi tentativi di confrontare le emissioni dell’intera volta celeste non hanno avuto successo», ricorda spiegando il metodo di ricerca Ettore Carretti, ricercatore Inaf a Bologna, «poiché le emissioni provenienti dalle strutture locali spesso si sovrapponevano a queste strutture più grandi. Tuttavia, abbiamo dedicato molto tempo all’uso di osservazioni multi-lunghezza d’onda per misurare le distanze delle creste magnetiche e delle bolle di eRosita che emettono raggi X. L’analisi teorica per comprendere queste strutture, che emettono in modo termico e non-termico nell’alone galattico, è stata anch’essa molto complessa, richiedendo conoscenze sui deflussi galattici, sui campi magnetici e sul trasporto e l’accelerazione dei raggi cosmici. Fortunatamente, la nostra collaborazione include esperti di livello mondiale in tutti questi campi».
«Il nostro lavoro», conclude He-Shou Zhang, «è il primo studio multi-lunghezza d’onda completo sulle bolle di eRosita dalla loro scoperta nel 2020. Lo studio apre nuove frontiere nella nostra comprensione dell’alone galattico e contribuirà ad approfondire la nostra conoscenza del complesso e impetuoso ecosistema di formazione stellare della Via Lattea».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A magnetised Galactic halo from inner Galaxy outflows”, di He-Shou Zhang, Gabriele Ponti, Ettore Carretti, Ruo-Yu Liu, Mark R. Morris, Marijke Haverkorn, Nicola Locatelli, Xueying Zheng, Felix Aharonian, Haiming Zhang, Yi Zhang, Giovanni Stel, Andrew Strong, Micheal Yeung e Andrea Merloni
Gianpietro
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