Centro: la situazione è grave, ma non è seria
Centristi, politica, elezioni e voti
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Tik Tok rinvia la pubblicità basata sul legittimo interesse. Per il Garante privacy “una decisione responsabile”
Tik Tok rinvia la pubblicità basata sul legittimo interesse Per il Garante privacy “una decisione responsabile” A seguito dell’avvertimento del Garante Privacy, Tik Tok ha sospeso il passaggio al legittimo interesse come base giuridica per la pubblic...
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Presentazione del Comitato di garanzia dei Liberali Democratici Repubblicani Europei
Il 7 luglio, alle ore 11.00, presso l’Associazione della Stampa Estera, in Via dell’Umiltà 83, a Roma, si è tenuta la Conferenza Stampa di presentazione del Comitato di garanzia dei Liberali Democratici Repubblicani Europei.
Sono intervenuti:
Carlo Calenda, Segretario di Azione
Benedetto della Vedova, Segretario di +Europa
Giuseppe Benedetto, Presidente della Fondazione Luigi Einaudi
Alessandro De Nicola,
L’evento è stato anche trasmesso in diretta streaming su tutti i canali social della Fondazione, di Azione e di +Europa.
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I dati Istat e l’Italia immobile
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Biden in Arabia Saudita: realismo, ma non come Trump
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La guerra per procura condotta dagli Stati Uniti contro la Russia in Ucraina può essere vista come una continuazione della stessa parola chiave usata da Clinton nella guerra del Kosovo: ‘globalizzazione’. Rivolgendosi al popolo americano nel mezzo degli attacchi aerei statunitensi del 1999 in Kosovo, ha affermato che la questione dell’indipendenza del Kosovo riguardava la [...]
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L’Albania si offre alla Nato come avamposto nei Balcani
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 12 luglio 2022 – Nonostante il suo ingresso nella Nato risalga già al 2009, l’Albania è rimasta a lungo in una posizione defilata e periferica rispetto al processo di riorganizzazione dell’alleanza militare capitanata da Washington nel continente europeo. Negli ultimi mesi, però, il governo della piccola repubblica balcanica ha deciso di candidare il paese ad un ruolo assai più attivo e strategico nello schieramento atlantista, approfittando anche delle tensioni causate dalla crisi ucraina e dall’invasione russa. Il vertice della Nato svoltosi alla fine di giugno, in particolare, ha costituito l’occasione per una serie di incontri che hanno ulteriormente accelerato il processo di riconversione di alcune delle installazioni militari già esistenti nell’Adriatico meridionale.
Rama offre la base navale di Porto Romano
In occasione dello storico summit di Madrid dell’Alleanza Atlantica, il primo ministro di Tirana, Edi Rama, ha dichiarato che il suo paese è impegnato in una serie di colloqui con i collaboratori di Jens Stoltenberg allo scopo di realizzare una base navale nei pressi di Durazzo, per destinarla ad offrire supporto logistico e militare alle operazioni della Nato nel Mediterraneo.
L’area prescelta è quella di Porto Romano e la realizzazione dell’installazione dovrebbe essere cofinanziata dall’Albania e dal Patto Atlantico; secondo la proposta del premier socialista, la realizzazione della base militare nel porto marittimo sarebbe a carico della Nato mentre dell’area commerciale si occuperebbe Tirana. Grazie all’ampliamento di quest’ultima, il nuovo porto mercantile di Durazzo diventerebbe il più importante del paese.
«Un incontro speciale tra il team di esperti albanesi e della Nato si terrà presto per svelare il progetto dettagliato e proseguire con ulteriori colloqui e discussioni sul progetto» ha affermato Rama nel corso di una conferenza stampa. Intanto con un comunicato l’Alleanza ha informato che il 13 luglio il segretario generale della Nato riceverà a Bruxelles il premier albanese.
Lavori in corso alla base di Pashaliman
Già a maggio Rama ha offerto all’Alleanza Atlantica l’utilizzo della base navale di Pashaliman, che si trova 180 km a sud della capitale. L’installazione, che Tirana si è impegnata ad ampliare ed ammodernare, è stata costruita negli anni ’50 nel quadro della cooperazione militare con l’Unione Sovietica. Fino alla rottura tra Enver Hoxha e Mosca, nel 1960-61, Pashaliman ospitò 12 sottomarini sovietici, che in seguito si ridussero a quattro. Dopo l’implosione del regime socialista l’area venne in gran parte abbandonata e poi saccheggiata durante gli scontri del 1997, per poi essere ristrutturata dalla Turchia; da allora viene utilizzata come approdo logistico per alcune navi militari dell’Albania e di altri paesi che pattugliano lo Ionio e l’Atlantico. «In questi tempi difficili e pericolosi, credo che la Nato dovrebbe prendere in considerazione l’idea di avere una base navale in Albania» ha spiegato Rama.
La base aerea di Kuçovë
In attesa di capire se Stoltenberg accetterà l’offerta di Tirana, la Nato ha comunque già avviato dall’inizio dell’anno i lavori per potenziare la base aerea di Kuçovë, 85 km a sud di Tirana, in modo che possa essere utilizzata dai caccia dell’Alleanza, che per ora ha deciso di investire nell’operazione circa 50 milioni di euro sulla base di un accordo che risale al 2018.
La base originaria – all’epoca la località era stata ribattezzata Qyteti Stalin (“Città di Stalin”) – venne realizzata tra il 1952 e il 1955, e fu utilizzata dal governo albanese per ospitare decine di caccia prima sovietici (MiG, Yakovlev e Antonov) e poi, dopo la rottura con Mosca, di fabbricazione cinese (Shenyang J-5 e J-6), alcuni dei quali sono stati impiegati fino al 2005. Poi negli anni ’90 l’area venne di fatto abbandonata e saccheggiata, finché tra il 2002 e il 2004 il campo d’aviazione di Kuçovë fu rinnovato e adeguato agli standard minimi della Nato.
Ora la vecchia base aerea nell’Albania centro-meridionale, che verrà estesa oltre i suoi 350 ettari attraverso un certo numero di espropri, diventerà una base operativa tattica della Nato – la prima dell’Alleanza nei Balcani occidentali – in grado di ospitare una squadriglia di caccia F-16. «La posizione del quartier generale avanzato in Albania fornirà una maggiore interoperabilità con i nostri alleati albanesi, un importante accesso agli hub di trasporto nei Balcani e una maggiore flessibilità logistica» recitava a gennaio un comunicato diffuso dal Comando per le operazioni speciali degli Stati Uniti in Europa (Soceur) basato a Stoccarda, in Germania.
Il 20 gennaio scorso a Kuçovë si è svolta la cerimonia di inaugurazione dei nuovi importanti lavori, alla presenza del primo ministro Rama, del Ministro della Difesa Niko Peleshi e dell’ambasciatrice degli Stati Uniti in Albania Yuri Kim. Come ha annunciato nel dicembre del 2021 Peleshi, la struttura è stata anche già scelta come quartier generale dell’Aviazione Militare albanese, al momento ridotta al lumicino e formata di fatto soltanto da alcuni elicotteri Cougar (in attesa di alcuni Blackhawk) ma da nessun caccia.
Il primo ministro socialista considera l’operazione una grande occasione per modernizzare e rafforzare le capacità operative delle forze armate albanesi e per accrescere il ruolo dell’Albania nell’Alleanza Atlantica e supportare la procedura di ingresso di Tirana nell’Unione Europea, approfittando di una fase segnata dall’aumento della conflittualità con Russia e Cina.
Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il premier albanese Edi Rama
Un avamposto Nato contro Russia e CinaDi fatto Tirana si candida a costituire un avamposto della Nato in grado di contenere le influenze di Mosca e Pechino su alcuni paesi dell’area come la Serbia, supportando al tempo stesso il processo di cooptazione nell’Alleanza di nuovi paesi dell’area come la Bosnia-Erzegovina e il Kosovo, dopo l’ingresso della Macedonia del Nord. In alcune sue dichiarazioni il titolare della Difesa Peleshi è stato molto esplicito: «La costruzione di questa base è un chiaro messaggio inviato ad altri attori con cattive intenzioni nella regione dei Balcani occidentali. (…) La crescente presenza occidentale in tutta la nostra regione non consentirà la penetrazione e l’influenza di questi rivali, che hanno programmi e interessi diversi da quelli in cui crediamo e condividiamo».
Stando alle stesse dichiarazioni di alcuni generali della Nato, si evince che l’Albania viene considerata un avamposto strategico per l’addestramento e il dispiegamento rapido delle forze speciali di Washington, da utilizzare nel corso di un’eventuale crisi bellica in tutta l’area balcanica.
«Grazie al supporto che stiamo trovando da parte delle strutture di difesa statunitensi, stiamo prendendo coscienza che se investiamo in modo intelligente e affrontiamo il nostro percorso di rafforzamento e miglioramento della qualità delle nostre forze militari, possiamo essere un valore aggiunto per la NATO, anche per eventuali altri progetti. Del resto, stiamo assistendo alla concretizzazione di qualcosa che, inizialmente, sembrava irrealizzabile» ha spiegato Rama, per il quale i progetti da realizzare in ambito Nato dovrebbero costituire un volano per lo sviluppo di varie opportunità di carattere economico e commerciale.
Proprio nei giorni scorsi, tra l’altro, il premier Rama ha annunciato la scoperta nel paese di importanti riserve di gas e di petrolio – ancora da quantificare – ad opera della compagnia energetica anglo-olandese Shell.
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI
apnews.com/article/nato-edi-ra…
france24.com/en/live-news/2022…
ilpiccolo.gelocal.it/trieste/c…
balkaninsight.com/2022/01/07/u…
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GIAPPONE. Dietro la pistola di Yamagami, un problema sociale
Due colpi per uccidere il più influente leader politico giapponese degli ultimi anni, a cui mancavano solo quattro giorni per diventare il più longevo. A spararli un 41enne, Tetsuya Yamagami, nella cui casa è stato trovato altro esplosivo, e che tempo fa era membro della Japan Self-Defense Forces, il corpo dell’elite militare dell’esercito nipponico. Ma forse non importa più di tanto chi li ha sparati – visto anche che il killer ha specificato che non ha agito per “motivazioni politiche – perché presto o tardi, il Giappone si sarebbe potuto trovare di fronte a una tragedia simile. Forse sarebbero cambiati i protagonisti, l’occasione, ma è noto che l’estremo conservatorismo di parte non indifferente della società giapponese abbia prodotto negli anni parecchi casi di assassini motivati da follia o depressione, che hanno mietuto non poche vittime. Colpa anche dello stigma nei confronti di chi si affida a psicologi e psicoterapisti, etichettato come “debole”. Così il Giappone, dal punto di vista delle armi da fuoco uno dei paesi più sicuri con quasi zero vittime di arma da fuoco , deve comunque fare i conti con eventi di questo tipo perché incapace di gestire una polveriera instabile e pronta a esplodere: quella di chi soffre di disturbi psicologici e psichiatrici.
Certo va dato atto che proprio leggi repressive come quelle giapponesi hanno fatto del Sol Levante un paese sicuro in termini di sparatorie. Sicuramente molto più del loro alleato, gli Stati Uniti, che soltanto il 4 di Luglio, festa nazionale, hanno registrato almeno 220 vittime, tra cui le 7 vittime del killer di Highland Park. Ma negli Stati Uniti, paradossalmente, è più semplice comprare un fucile d’assalto che una bottiglia di liquore. In Giappone il percorso per poter possedere un’arma da fuoco è fatto di 13 step che includono visite medico psicologiche, interrogatori della polizia, iscrizioni a gruppi controllati e qualificati di cacciatori o amatori e corsi obbligatori di gestione e manutenzione delle armi. Inoltre la possibilità di aprire negozi dedicati è estremamente limitata – circa 3 ogni prefettura – e vige l’obbligo di restituire arma e licenza dopo la morte del possessore, vale a dire una pistola non può essere ereditata e trasmessa all’interno di una famiglia. Dei soli 20 arresti in Giappone nel 2020 per possesso illegale di armi, 12 erano legate al fenomeno delle gang.. Grazie alle norme introdotte da questa legge del 1956, per quanto in seguito resa meno stringente, il Giappone mantiene il rischio di sparatorie a punti 0.02, mentre negli Stati Uniti l’indice è decisamente più alto. Gli Usa guidano infatti la classifica dei paesi industrializzati per numero di decessi dovuti ad omicidio, staccando gli altri con 4.12. Per capirsi in l’Italia, che pure si trova al quinto posto, l’indice di rischio è 0.35.
Questo controllo serrato funziona molto bene per gestire il traffico e l’uso di armi, e l’omicidio di Abe è più una conferma che un’eccezione. L’intervento della sicurezza dopo i due colpi ha evitato altre vittime, Yamagami non ha potuto utilizzare un’arma regolare, ma ha invece costruito in casa la pistola con cui ha sparato. Il capo della polizia di prefettura Tomoaki Onizuka ha detto di “sentire un grave responsabilità” per l’accaduto, ammettendo falle nel piano di sicurezza. Ma era lo stesso Abe a preferire misure meno stringenti, per incoraggiare i “bagni di folla” che portano elettori alle urne. Anche oggi, dopo la morte di Abe anzi forse proprio anche grazie ad essa, milioni di giapponesi si sono presentati ai seggi per eleggere i 125 rappresentanti delle Camera bassa del parlamento giapponese. E hanno così regalato a Kishida, delfino di Abe, 75 seggi che gli permettono di blindare la maggioranza che gli serve per governare serenamente. Il partito dell’ex premier assassinato e il Nippon Ishin no Kai (Partito Giapponese per il rinnovamento) sono le due falangi politiche dell’ala destra che grazie alla promessa di emendare la costituzione pacifista – un programma molto sostenuto da Abe – stanno ora guadagnando punti secondi i primi exit poll. Sicuramente, la tragica fine di uno dei simboli del Sol Levante degli ultimi anni ha incentivato questo risultato.
Del vero killer in realtà non si parla molto. E non si intende Yamagami, di cui man mano vengono fuori maggiori dettagli: disoccupato dopo un periodo in azienda a seguito del servizio militare, la madre forse seguace di una setta religiosa (alcune fonti citano la Chiesa del reverendo Moon) a cui avrebbe fatto una troppo generosa donazione, dilapidando i propri risparmi e innescando la molla omicida di Yamagami. Il vero killer è probabilmente una deriva psicologica che accomuna Yamagami ad altri soggetti in Giappone. Le descrizioni dei colleghi di lavoro parlano di un uomo laconico, che non interagiva se non per motivi strettamente legati al lavoro e passava la pausa pranzo mangiando in macchina. Un parente invece parla di come la famiglia di Yamagami si sia sfasciata in seguito alle donazioni della madre. Se l’associazione fosse confermata, il rapporto con Abe nato nell’immaginazione di Yamagami potrebbe essere plausibile. Il reverendo Moon è stato il fondatore, nel 1954, della Chiesa dell’Unificazione, una setta basata su un’interpretazione peculiare della Bibbia e che proprio a Nara, dove si è svolto l’ultimo atto della vita di Abe, ha una propria sede. Il nonno di Abe, criminale di guerra di classe A per crimini perpetrati contro prigionieri di guerra (anche coreani vista l’occupazione del territorio coreano durante la seconda guerra mondiale) ma soprattutto primo ministro dal 1957, aveva preso contatti con la setta per avere un “cuneo” strategico in corea del Sud. Nella mente confusa di Yamagami, la figura del nonno dell’ex primo ministro nipponico e di Abe stesso potrebbero essersi sovrapposte, facendo di Abe il responsabile dello sfascio della famiglia dell’attentatore. Anche la particolare dottrina della setta, secondo la quale le disgrazie dell’individuo sono causate da colpe pregresse degli antenati, potrebbe aver spinto il già non equilibrato Yamagami a cercare vendetta.
Il problema è che di persone come Yamagami, in Giappone, non si sa quale sia l’esatto numero. Dal 2021 la salute mentale e la prevenzione dei suicidi sono diventati un tema di attualità, anche a seguito del propagarsi di disturbi depressivi e dissociativi associabili ai diversi lockdown. Inoltre ha un nome giapponese, hikikomori, la sindrome sempre più diffusa di ritiro sociale e autoisolamento, diffusa propria nel Sol Levante e stimata in mezzo milione circa di pazienti, prevalentemente uomini tra i 15 e i 39 anni. Ma i dati potrebbero essere sottostimati, perché possono passare anni prima della presa di coscienza e della richiesta di aiuto dei soggetti. La morale tradizionale ultraconservatrice, fondata sui cardini di onore e reputazione e addizionata al senso di fallimento che la crisi economica e i conseguenti licenziamenti hanno generato, ha portato a un aumento dei suicidi, con una “discriminazione di genere”: se infatti i suicidi tra gli uomini sono leggermente diminuiti, nel 2021 (ultimo dato pubblicato) quelli delle donne, cioè quelle tra di cittadini più propense ad essere licenziate o a lasciare il lavoro per occuparsi di attività di cura della famiglia, sono aumentati per il secondo anno di seguito. Nel Sol Levante secondo solo agli Stati Uniti tra i paesi del G7 quanto a tasso di suicidi, non è la prima volta che la follia di un singolo porta a tragedie collettive. E il caso di Abe non è nemmeno l’evento più tragico degli ultimi anni, considerando il numero di vittime. Solo nel 2019 un incendio doloso aveva ucciso 36 persone alla Kyoto Animation, innescato da un 41enne già noto per disturbi psichici e per un tentativo di rapina con arma bianca.
Quali che siano i progetti del governo giapponese, la salute mentale e la gestione dei rischi ad essa connessi dovrebbe essere al primo posto nella sua agenda. Soprattutto dopo il tragico epilogo della vita del suo ex premier Shinzo Abe.
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INTERVISTA. Tony Abu Akleh: «Gli Usa hanno tradito Shireen. Vogliamo dirlo a Biden»
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 luglio 2022 – Si chiama Anton ma per tutti è Tony. E da due mesi è il portavoce della sua famiglia, Abu Akleh, che non si rassegna e chiede giustizia per sua sorella Shireen, nota giornalista palestinese, con passaporto statunitense, uccisa sul colpo due mesi fa, l’11 maggio, da un proiettile mentre per la sua emittente, Al Jazeera, seguiva un’incursione di reparti speciali dell’esercito israeliano a Jenin. Tony rispondendo alle nostre domande non nasconde il suo stato d’animo, un misto di frustrazione e delusione. «Le inchieste svolte dalla Cnn e altri giornali americani – ci dice – come dall’Autorità nazionale palestinese e dall’Onu non lasciano dubbi: dicono tutte che Shireen è stata uccisa da spari giunti dagli israeliani. E a nostro avviso sono stati intenzionali. Ci aspettavamo perciò che gli Stati uniti, di cui siamo cittadini, affermassero in maniera netta e chiara che mia sorella, una civile innocente, una giornalista, è stata colpita da spari israeliani mentre svolgeva il suo lavoro di informazione e che la sua morte è un crimine non può restare impunito. E invece…».
Tony non ha peli sulla lingua: «quella che hanno svolto una settimana fa gli esperti americani – spiega – sul proiettile che ha ucciso Shireen non è stata una perizia ma un’operazione politica. Non hanno riferito i risultati di una indagine tecnica, come ci aspettavamo. Piuttosto hanno emesso un comunicato politico per salvaguardare Israele e gli interessi americani. Ma noi non ci rassegneremo». Tony ci ripete che gli Abu Akleh faranno il possibile per ottenere un’indagine internazionale. E che sono intenzionati ad incontrare Joe Biden quando la prossima settimana sarà in Israele e nei Territori palestinesi occupati. «L’ambasciata Usa tace, non abbiamo più avuto contatti dal giorno precedente a quello della cosiddetta perizia» prosegue «per gli Stati uniti la faccenda è chiusa, per noi no! Shireen avrà giustizia».
Gli Abu Akleh hanno indirizzato una lettera all’Amministrazione Biden in cui definiscono l’uccisione di Shireen non un incidente causato da un proiettile vagante, come sostengono Israele e gli Stati uniti, bensì un «omicidio extragiudiziale» eseguito da soldati israeliani. Rivolgendosi al presidente americano, aggiungono che «la sua Amministrazione ha completamente fallito nel soddisfare le aspettative minime di una famiglia in lutto…gli Stati uniti si sono mossi per la cancellazione di qualsiasi illecito da parte delle forze israeliane» e non hanno condotto proprie indagini ma si sono limitati a «riassumere e adottare l’indagine delle autorità israeliane». «La sua Amministrazione – concludono – ha ritenuto necessario perpetuare la conclusione infondata e dannosa che l’omicidio non sia stato intenzionale, scegliendo apparentemente l’opportunità politica rispetto alla responsabilità effettiva per l’uccisione di un cittadino statunitense da parte di un governo straniero». Alla fine della lettera chiedono a Biden di incontrarli.
Non si può escludere del tutto che questo incontro possa avvenire. Forse non sarà più di una stretta di mano e qualche frase di cordoglio da parte del presidente Usa. Ma la possibilità è remota. Biden arriverà mercoledì in Israele non per accusarlo dell’omicidio di una giornalista ma per rassicurarlo della protezione militare americana e dell’alleanza con Washington. Non solo. Potrebbe avere in tasca un’intesa preliminare per la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’Arabia saudita. E dovrebbe dare la sua benedizione al programma di difesa aerea integrata tra Israele e i suoi alleati arabi contro l’Iran. Proprio con Teheran al centro dei suoi pensieri, Biden visiterà alcuni apparati di sicurezza israeliani presso la base aerea di Palmachim, una batteria missilistica Iron Dome, il sistema di difesa laser Iron Beam.
Venerdì incontrerà a Betlemme il presidente dell’Anp Abu Mazen al quale non garantirà alcun appoggio politico ma solo un pacchetto di misure economiche e qualche gesto simbolico. Biden quindi andrà all’aeroporto Ben Gurion da dove partirà per l’Arabia saudita dove parteciperà al vertice del GCC+3 a Gedda con i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo: Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati insieme a Iraq, Egitto e Giordania. Pagine Esteri
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YEMEN. Le mine antiuomo fanno strage di civili e bambini
della redazione con informazioni di Save the Children
Pagine Esteri, 8 luglio 2022 – Le mine antiuomo e gli ordigni inesplosi sono stati i più grandi assassini di bambini nello Yemen da quando è stata annunciata una tregua ad aprile. Lo denuncia Save the Children. L’aumento delle morti a causa di queste armi si considera sia dovuto al trasferimento delle famiglie in aree precedentemente inaccessibili a seguito della diminuzione delle ostilità. Una nuova analisi dell’Organizzazione mostra che le mine antiuomo e le munizioni inesplose sono state responsabili di oltre il 75% di tutte le vittime di guerra tra i bambini, uccidendone e ferendone più di 42 tra aprile e la fine di giugno.
Da quando è iniziata la tregua dopo sette anni di conflitto, il numero di vittime legate al conflitto armato è diminuito in modo significativo, con 103 civili uccisi in conflitto negli ultimi tre mesi, mentre nei tre mesi precedenti la tregua sono stati uccisi 352 civili. Tuttavia, gli incidenti relativi alle mine antiuomo e agli ordigni inesplosi sono continuati a un livello simile, con una media stimata di un incidente al giorno, che ha provocato la morte di 49 civili tra cui almeno otto bambini. Nei tre mesi precedenti la tregua, 56 civili sono stati uccisi da mine e ordigni inesplosi.
I resti esplosivi della guerra rimangono una minaccia ereditata dai combattimenti, rappresentando un pericolo duraturo per i civili in tutto il Paese anche dopo la cessazione delle ostilità. I bambini, in particolare, hanno una maggiore vulnerabilità agli ordigni inesplosi e alle mine antiuomo a causa della percezione del basso rischio e dell’elevata curiosità. Inoltre, il senso di relativa sicurezza ha portato a una maggiore mobilità tra i civili, in particolare tra gli sfollati, che potrebbero sentirsi sicuri di tornare nelle aree in cui le ostilità si sono attenuate.
“Anche se i combattimenti sono stati meno frequenti negli ultimi mesi, i residuati bellici esplosivi continuano a mietere vittime quotidianamente. Le mine antiuomo e le munizioni inesplose rappresentano una grave minaccia per tutti nello Yemen, in particolare per i bambini, che sono curiosi per natura, vogliono esplorare il loro mondo e conoscerlo. E quando vedono qualcosa di brillante o interessante, non possono trattenersi dal toccarlo. Ecco perché così tanti bambini sono stati uccisi o feriti in incidenti di ordigni inesplosi. Raccolgono l’oggetto sconosciuto pensando che sia un giocattolo, solo per scoprire che si tratta di una bomba a grappolo inesplosa. Cresce ancora di più nella stagione delle piogge, quando la terra si bagna e le mine sepolte nelle secche possono andare alla deriva in aree precedentemente ritenute sicure. Nelle ultime due settimane, abbiamo visto molte segnalazioni di adulti e bambini uccisi o mutilati mentre svolgevano le faccende quotidiane, come andare a prendere l’acqua, lavorare nelle loro fattorie o prendersi cura del loro bestiame. Non c’è un posto sicuro per i bambini nello Yemen, nemmeno quando il pericolo dei combattimenti è diminuito. I bambini in Yemen hanno sopportato per troppo tempo violenze sbalorditive e immense sofferenze e, a meno che le parti in guerra e la comunità dei donatori non diano la priorità alla protezione dei bambini, la triste eredità del conflitto li perseguiterà per gli anni a venire”, dichiara Rama Hansraj, direttore di Save the Children in Yemen.
Save the Children chiede alle parti in guerra un impegno urgente e pieno per la bonifica delle mine e degli ordigni inesplosi e invita ad adottare misure pratiche e immediate per ridurre l’impatto crescente di questi esplosivi. L’Organizzazione chiede inoltre alla comunità dei donatori di sostenere l’ampliamento e la fornitura delle attrezzature tecniche necessarie per la marcatura e lo sgombero degli ordigni e delle mine inesplose, in modo che i bambini e le loro comunità siano consapevoli del rischio e siano maggiormente in grado di mitigarlo in sicurezza. Pagine Esteri
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Onu: in sei mesi 60 palestinesi uccisi in Cisgiordania e Gerusalemme Est, +46% rispetto al 2021
della redazione –
Pagine Esteri, 7 luglio 2022 – Erano in centinaia ieri ai funerali di Rafiq Ghannam, il palestinese di 20 anni ucciso durante un blitz dell’esercito israeliano nella cittadina di Jabaa a sud di Jenin, in Cisgiordania. Testimoni hanno raccontato che Ghannam è stato colpito davanti casa mentre erano in corso scontri tra soldati e giovani manifestanti. Per il portavoce militare israeliano, Ghannam era un ricercato e sarebbe stato abbattuto dal fuoco dei soldati perché avrebbe cercato di sottrarsi all’arresto. I media palestinesi ieri riferivano anche di decine di arresti effettuati dalle forze di occupazione nel corso della notte nei villaggi palestinesi nel nord della Cisgiordania e intorno a Ramallah.
Quella di ieri è la seconda uccisione di un abitante di Jabaa in due giorni. Prima di Ghannam era stato colpito a morte Kamel Alawneh. Domenica scorsa l’Onu ha riferito che da gennaio a giugno, 2022 esercito e polizia di Israele hanno ucciso oltre 60 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est, il 46% in più rispetto alla prima metà dello scorso anno. Nel 2021 sono stati uccisi 78 palestinesi e 24 del 2020. Questi numeri includono anche alcuni palestinesi armati rimasti uccisi in scontri con l’esercito o dopo aver compiuto attacchi. Tra questi i responsabili degli attentati compiuti in Israele tra marzo e maggio che hanno causato 18 morti.
Intanto l’agenzia di stampa statunitense Associated Press ha inaugurato la sua nuova sede a Gaza, un anno dopo la distruzione dei suoi uffici in un attacco della aviazione israeliana. Secondo Israele nell’edificio, sede anche di altri mezzi d’informazione come Al Jazeera, operavano uomini del movimento islamico Hamas. Ma non ha mai fornito le prove della sua tesi contestata dai giornalisti della Ap e di altri media.
A Gaza, come nel resto dei Territori palestinesi occupati, hanno destato curiosità e una certa sorpresa le immagini provenienti dall’Algeria – in festa per il 60esimo anniversario della sua storica indipendenza dal colonialismo francese – della stretta di mano tra il presidente dell’Anp Abu Mazen e del leader del movimento islamico Hamas, Ismail Haniyeh. I due non si incontravano da anni. Tuttavia, il gesto distensivo tra i due leader rivali, di fatto nemici, è avvenuto solo per l’insistenza della presidenza algerina e non pare destinato a favorire il riavvicinamento le due parti. Hamas e il partito Fatah, spina dorsale dell’Anp, sono ai ferri corti da anni e nulla lascia immaginare l’avvio di un negoziato per la riconciliazione. Tutti i tentativi in quella direzione fatti negli anni passati sono falliti finendo per allargare la distanza tra le due parti.
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ILARIA ALPI. Assassinato il capro espiatorio Hashi Omar Hassan
di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 7 luglio 2022 – Un’autobomba è esplosa a Modagiscio uccidendo Hashi Omar Hassan, il quarantunenne somalo che nel ‘98 fu incriminato per le morti della giornalista Ilaria Alpi e del suo collega Miran Hrovatin a Bosaso. Il testimone chiave dell’accusa, Ahmed Ali Rage, solo nel 2015 confessò di aver fatto il suo nome in cambio di denaro, quando Hassan aveva già trascorso nel carcere di Padova più di 16 anni. Fu risarcito dallo Stato Italiano per aver scontato una pena ingiusta con 3milioni e 181mila euro. Ma dal primo giorno della sua assoluzione, sapeva che tornare in Somalia gli sarebbe potuto costare la vita.
Da quanto riporta il sito somalo Garowe, nessuna milizia ha rivendicato il gesto, ma non è da escludere che l’attacco sia stato organizzato dal movimento islamico “Al-Shabaab”, storica cellula somala di Al-Qaida. Uno dei due legali di Hashi Omar, Antonio Moriconi, ha dichiarato alla stampa italiana che a parer suo, dietro l’attentato ci sarebbero stati dei tentativi di estorsione da parte di gruppi terroristici, venuti a conoscenza dell’enorme cifra di risarcimento ottenuta da poco, e che Hassan voleva investire nel settore dell’import-export. Lo avrebbe fatto “per migliorare la stabilità politica della Somalia”, all’interno del suo clan, l’abgal, attualmente vicino al governo, e che all’epoca dei viaggi di Ilaria Alpi a Mogadiscio veniva organizzato dall’ex- Presidente del Governo di transizione somala, Ali Mahdi.
Ali Madhi Mohammed e il suo oppositore, Mohammed Farah Aidid, furono entrambi sospettati di aver cospirato per l’uccisione della giornalista e del cineoperatore. Al centro delle ricerche investigative di Ilaria e Miran, quelle a cui si riconducono i motivi delle loro assassinio, c’erano i rapporti tra servizi segreti e istituzioni italiane con l’ex dittatore Mohammed Siad Barre; le successive operazioni di cooperazione dell’ONU allo scoppio della guerra civile; e conseguentemente, il traffico di rifiuti radioattivi che i signori della guerra accettavano di smaltire in cambio di armi clandestine, soprattutto a fronte dell’embargo sulle armi del gennaio ’92. Mentre il governo di transizione poteva rafforzare la propria autorità dal contrabbando di armi, i gruppi islamisti si accaparravano una percentuale del traffico illegale perseguendo una guerra civile che divise in due aree Mogadiscio.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 2003, in un report in merito alle violazioni dell’embargo sulle armi in Somalia, osservava che il traffico di cannoni anticarro, mitragliatrici pesanti, fucili d’assalto, pistole, bombe e munizioni che arrivava al Porto di Bosaso era in crescente aumento già dagli anni settanta. L’ex Unione Sovietica, dal ‘73 al ’77, esportò ben 260milioni di dollari in armi; l’Italia, dal ‘78 al 1982 ne esportò da sola 380milioni. Dagli anni ’80, anche Stati Uniti d’America e China favorivano la dittatura somala con ingenti regali bellici. Dal gennaio 1992, l’embargo è sempre stato raggirato dai somali con la complicità e gli interessi anche di Egitto, Etiopia, Eritrea, Sudan, Djibouti e Yemen.
Pochi giorni prima di morire, Ilaria aveva conosciuto il Sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor. È ancora possibile ritrovare online l’intervista con cui chiedeva, con destrezza, cosa ne era stato della nave cargo della Shifco – l’azienda peschiera italiana, con a bordo soldati italiani e croati, sequestrata al Porto di Bosaso, uno snodo cruciale per i traffici somali. La gran parte delle riprese di Miran di quella intervista sarebbero andate disperse, non senza manovre rocambolesche che sin da subito hanno fatto presagire il depistaggio delle indagini, per culminare in una epopea giudiziaria che ancora non ha un finale.
Ad oggi, anche le violazioni dell’embargo sulle armi non trovano un epilogo. È del 5 luglio la notizia dell’emittente televisivo somalo “Al-Arabya”, dove si denunciava il sequestro di due barche yemenite che trasportavano armi al gruppo terroristico “Al-Shabaab”. Le barche sarebbero risultate di proprietà di un contrabbandiere somalo, Ahmed Matan, che già in passato avrebbe fornito materiale esplosivo allo stesso gruppo terroristico probabilmente direzionandole al Golfo di Aden.
La tragica storia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sembrava non poter più interferire con quella di Hashi Omar Hassan, e invece nella morte raccontano entrambe la stessa disgrazia, quella del traffico di armi a Mogadiscio. Pagine Esteri
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GIAPPONE. Dietro la pistola di Yamagami, un problema sociale
Due colpi per uccidere il più influente leader politico giapponese degli ultimi anni, a cui mancavano solo quattro giorni per diventare il più longevo. A spararli un 41enne, Tetsuya Yamagami, nella cui casa è stato trovato altro esplosivo, e che tempo fa era membro della Japan Self-Defense Forces, il corpo dell’elite militare dell’esercito nipponico. Ma forse non importa più di tanto chi li ha sparati – visto anche che il killer ha specificato che non ha agito per “motivazioni politiche – perché presto o tardi, il Giappone si sarebbe potuto trovare di fronte a una tragedia simile. Forse sarebbero cambiati i protagonisti, l’occasione, ma è noto che l’estremo conservatorismo di parte non indifferente della società giapponese abbia prodotto negli anni parecchi casi di assassini motivati da follia o depressione, che hanno mietuto non poche vittime. Colpa anche dello stigma nei confronti di chi si affida a psicologi e psicoterapisti, etichettato come “debole”. Così il Giappone, dal punto di vista delle armi da fuoco uno dei paesi più sicuri con quasi zero vittime di arma da fuoco , deve comunque fare i conti con eventi di questo tipo perché incapace di gestire una polveriera instabile e pronta a esplodere: quella di chi soffre di disturbi psicologici e psichiatrici.
Certo va dato atto che proprio leggi repressive come quelle giapponesi hanno fatto del Sol Levante un paese sicuro in termini di sparatorie. Sicuramente molto più del loro alleato, gli Stati Uniti, che soltanto il 4 di Luglio, festa nazionale, hanno registrato almeno 220 vittime, tra cui le 7 vittime del killer di Highland Park. Ma negli Stati Uniti, paradossalmente, è più semplice comprare un fucile d’assalto che una bottiglia di liquore. In Giappone il percorso per poter possedere un’arma da fuoco è fatto di 13 step che includono visite medico psicologiche, interrogatori della polizia, iscrizioni a gruppi controllati e qualificati di cacciatori o amatori e corsi obbligatori di gestione e manutenzione delle armi. Inoltre la possibilità di aprire negozi dedicati è estremamente limitata – circa 3 ogni prefettura – e vige l’obbligo di restituire arma e licenza dopo la morte del possessore, vale a dire una pistola non può essere ereditata e trasmessa all’interno di una famiglia. Dei soli 20 arresti in Giappone nel 2020 per possesso illegale di armi, 12 erano legate al fenomeno delle gang.. Grazie alle norme introdotte da questa legge del 1956, per quanto in seguito resa meno stringente, il Giappone mantiene il rischio di sparatorie a punti 0.02, mentre negli Stati Uniti l’indice è decisamente più alto. Gli Usa guidano infatti la classifica dei paesi industrializzati per numero di decessi dovuti ad omicidio, staccando gli altri con 4.12. Per capirsi in l’Italia, che pure si trova al quinto posto, l’indice di rischio è 0.35.
Questo controllo serrato funziona molto bene per gestire il traffico e l’uso di armi, e l’omicidio di Abe è più una conferma che un’eccezione. L’intervento della sicurezza dopo i due colpi ha evitato altre vittime, Yamagami non ha potuto utilizzare un’arma regolare, ma ha invece costruito in casa la pistola con cui ha sparato. Il capo della polizia di prefettura Tomoaki Onizuka ha detto di “sentire un grave responsabilità” per l’accaduto, ammettendo falle nel piano di sicurezza. Ma era lo stesso Abe a preferire misure meno stringenti, per incoraggiare i “bagni di folla” che portano elettori alle urne. Anche oggi, dopo la morte di Abe anzi forse proprio anche grazie ad essa, milioni di giapponesi si sono presentati ai seggi per eleggere i 125 rappresentanti delle Camera bassa del parlamento giapponese. E hanno così regalato a Kishida, delfino di Abe, 75 seggi che gli permettono di blindare la maggioranza che gli serve per governare serenamente. Il partito dell’ex premier assassinato e il Nippon Ishin no Kai (Partito Giapponese per il rinnovamento) sono le due falangi politiche dell’ala destra che grazie alla promessa di emendare la costituzione pacifista – un programma molto sostenuto da Abe – stanno ora guadagnando punti secondi i primi exit poll. Sicuramente, la tragica fine di uno dei simboli del Sol Levante degli ultimi anni ha incentivato questo risultato.
Del vero killer in realtà non si parla molto. E non si intende Yamagami, di cui man mano vengono fuori maggiori dettagli: disoccupato dopo un periodo in azienda a seguito del servizio militare, la madre forse seguace di una setta religiosa (alcune fonti citano la Chiesa del reverendo Moon) a cui avrebbe fatto una troppo generosa donazione, dilapidando i propri risparmi e innescando la molla omicida di Yamagami. Il vero killer è probabilmente una deriva psicologica che accomuna Yamagami ad altri soggetti in Giappone. Le descrizioni dei colleghi di lavoro parlano di un uomo laconico, che non interagiva se non per motivi strettamente legati al lavoro e passava la pausa pranzo mangiando in macchina. Un parente invece parla di come la famiglia di Yamagami si sia sfasciata in seguito alle donazioni della madre. Se l’associazione fosse confermata, il rapporto con Abe nato nell’immaginazione di Yamagami potrebbe essere plausibile. Il reverendo Moon è stato il fondatore, nel 1954, della Chiesa dell’Unificazione, una setta basata su un’interpretazione peculiare della Bibbia e che proprio a Nara, dove si è svolto l’ultimo atto della vita di Abe, ha una propria sede. Il nonno di Abe, criminale di guerra di classe A per crimini perpetrati contro prigionieri di guerra (anche coreani vista l’occupazione del territorio coreano durante la seconda guerra mondiale) ma soprattutto primo ministro dal 1957, aveva preso contatti con la setta per avere un “cuneo” strategico in corea del Sud. Nella mente confusa di Yamagami, la figura del nonno dell’ex primo ministro nipponico e di Abe stesso potrebbero essersi sovrapposte, facendo di Abe il responsabile dello sfascio della famiglia dell’attentatore. Anche la particolare dottrina della setta, secondo la quale le disgrazie dell’individuo sono causate da colpe pregresse degli antenati, potrebbe aver spinto il già non equilibrato Yamagami a cercare vendetta.
Il problema è che di persone come Yamagami, in Giappone, non si sa quale sia l’esatto numero. Dal 2021 la salute mentale e la prevenzione dei suicidi sono diventati un tema di attualità, anche a seguito del propagarsi di disturbi depressivi e dissociativi associabili ai diversi lockdown. Inoltre ha un nome giapponese, hikikomori, la sindrome sempre più diffusa di ritiro sociale e autoisolamento, diffusa propria nel Sol Levante e stimata in mezzo milione circa di pazienti, prevalentemente uomini tra i 15 e i 39 anni. Ma i dati potrebbero essere sottostimati, perché possono passare anni prima della presa di coscienza e della richiesta di aiuto dei soggetti. La morale tradizionale ultraconservatrice, fondata sui cardini di onore e reputazione e addizionata al senso di fallimento che la crisi economica e i conseguenti licenziamenti hanno generato, ha portato a un aumento dei suicidi, con una “discriminazione di genere”: se infatti i suicidi tra gli uomini sono leggermente diminuiti, nel 2021 (ultimo dato pubblicato) quelli delle donne, cioè quelle tra di cittadini più propense ad essere licenziate o a lasciare il lavoro per occuparsi di attività di cura della famiglia, sono aumentati per il secondo anno di seguito. Nel Sol Levante secondo solo agli Stati Uniti tra i paesi del G7 quanto a tasso di suicidi, non è la prima volta che la follia di un singolo porta a tragedie collettive. E il caso di Abe non è nemmeno l’evento più tragico degli ultimi anni, considerando il numero di vittime. Solo nel 2019 un incendio doloso aveva ucciso 36 persone alla Kyoto Animation, innescato da un 41enne già noto per disturbi psichici e per un tentativo di rapina con arma bianca.
Quali che siano i progetti del governo giapponese, la salute mentale e la gestione dei rischi ad essa connessi dovrebbe essere al primo posto nella sua agenda. Soprattutto dopo il tragico epilogo della vita del suo ex premier Shinzo Abe.
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