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Elezioni 2022: appunti (per ‘giovani’ PD e direttore Feltri) su Israele


Giovani o vecchi, è bene avere idee precise e studiate, ma è pessimo cambiarle repentinamente solo perché un segretario di partito imbelle o qualche giornalista male informato criticano quelle idee

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Un razzo russo su una stazione dei treni nell'est del paese ha ucciso 25 persone. Si chiude così la giornata dedicata all’indipendenze dell’Ucraina. Il bilancio di metà anno in guerra è durissimo: oltre 13.


Nuovi scontri in Etiopia fra l’esercito e le milizie del Tigray hanno rotto una fragile tregua durata solo 5 mesi.


La battaglia (diplomatica) per AlgeriInizia oggi la tre giorni di Macron in Algeria. Non è un caso avvenga proprio ora, a cinque anni dall’ultima visita del presidente nell’ex colonia. Algeri si sta muovendo sempre più lontano da Parigi.


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Nucleare iraniano all’ultimo miglio, forse


Le due parti hanno eguale forte interesse a concludere positivamente e il prima possibile le trattative e firmare la riattivazione dell'accordo

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La battaglia per la realtà: la disinformazione cinese a Taiwan


Il Partito Comunista Cinese (PCC) vede il dominio informatico come una piattaforma emergente e ideale per condurre operazioni di influenza digitale e le sue attività informatiche sono diventate un punto ricorrente di costernazione per molti attori internazionali. Pechino ha compreso da tempo l’importanza dell’utilizzo delle informazioni per manipolare il pubblico sia nazionale che straniero e [...]

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L’Italia dopo Draghi: a settembre un calendario politico da ricordare


Con le dimissioni del Premier Draghi si chiude un capitolo della storia italiana fatto di riforme, aiuti ai cittadini e programmi concreti per lo sviluppo economico. I prossimi mesi saranno cruciali per il futuro del Paese, con diversi ‘appuntamenti’ con la politica nazionale ed estera. A settembre le decisioni della FED sui tassi d’interesse I [...]

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Elezioni politiche 2022: social ed ombre di pensiero


Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) Non è facile provare a sintonizzarsi nei giorni ferragostani tra mare sole scritture e letture varie nelle comiche tragiche demenziali faccende politiche di questa spaesante improvvisata campagnetta elettoralistica che sfugge sinuosa. Mentre siamo ipnotizzati dai [...]

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Cina, il Laos non deve fallire


Il Laos deve affrontare difficoltà finanziarie senza precedenti, inclusi debiti pubblici e garantiti pubblicamente per un valore di 14,5 miliardi di dollari, circa la metà dei quali è dovuto alla Cina. Ma a differenza dello Sri Lanka, non c’è alcuna possibilità che il Laos non adempia ai suoi obblighi di debito estero. La Cina, il [...]

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Frammenti #05 - 25 agosto 2022


Nel frammento di oggi: Colao ancora su identità digitale. Cryptoanarchia e comunità virtuali, come superare lo stato-nazione. Meme e citazione del giorno.

Colao io non compro niente, lasciami in pace


Due giorni fa ho letto un tweet che riportava un’affermazione di Vittorio Colao: "La digitalizzazione in maniera trasparente ti dice so chi sei, so a cosa hai diritto e anticipo il tuo bisogno."

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Nello specifico, si riferisce al suo progetto di identità digitale. Vorrebbe creare una sorta di “Schengen del digitale”; un sistema nazionale digitale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni acquisiscono in modo automatizzato e pervasivo i dati di cui hanno bisogno per conoscere i “bisogni” dei cittadini (welfare) e anticiparli. In pratica, secondo lui sarebbe un mezzo per rendere più efficiente il welfare di stato, automatizzando l’erogazione di bonus, incentivi, detrazioni, assegni e quant’altro senza che il cittadino debba richiederli.

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E se il mio bisogno fosse invece quello di essere lasciato in pace?

Personalmente non sento il bisogno di essere oggetto di analisi da parte di uno Stato onnipotente e onnisciente, che sa chi sono, cosa faccio, quanto guadagno, quali sono le mie relazioni private e familiari, dove tengo i miei soldi e cosa ci faccio, quali sono le mie idee politiche e così via.

Non sento neanche il bisogno di uno stato che si arroga il diritto di decidere unilaterlamente di cosa “ho diritto” e quali siano i miei “bisogni”. Trovo molto pericoloso pensare che lo Stato sia titolare di un potere del genere, quello di anticipare i bisogni delle persone.

Cosa ne è della libertà di autodeterminazione e della libertà di pensiero, che si concretizzano anche nella capacità di dissenso riguardo determinate scelte politiche? Se io sono contrario al welfare di stato non voglio essere inerme nei confronti di un sistema che invece mi eroga bonus, incentivi e quant’altro contro la mia stessa volontà. Attenzione a fare “il bene” degli altri con la forza…


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Cryptoanarchia e comunità virtuali


Ogni tanto qualcuno mi chiede: Matte ma secondo te come si può uscire da questo sistema di stati-nazione sempre più estesi e onnipotenti?

Ebbene io credo che il sistema sia già stato superato, ma che serviranno ancora diversi anni per rendersene conto davvero.

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I più lungimiranti ne parlavano già quasi 30 anni fa. Ad esempio, il libro “The Sovereign Individual” parla espressamente del superamento del concetto di stato nazione, verso un mondo di individui sovrani collegati tra loro. Ne ha parlato recentemente Federico Rivi nella sua newsletter, che consiglio di seguire.

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Un altro contributo sul tema fu quello di Timothy May, Cypherpunk e autore del Crypto Anarchist Manifesto, che nel 1994 scriveva un breve saggio chiamato “Criptoanarchia e comunità virtuali”, in cui parlava di Internet come di un luogo dove regnava l’anarchia; non intesa come assenza di regole, ma nel senso di assenza di governo, che poi è il vero significato politico di anarchia.

Secondo lui la crittografia sarebbe diventato lo strumento con cui sostenere i “muri” delle comunità virtuali fondate su sistemi anonimi o pseudoanonimi.

Il futuro che immaginava May nel 1994 era un mondo di individui divisi in due categorie: coloro che avrebbero saputo cogliere le opportunità delle nuove tecnologie, e coloro che invece sarebbero rimasti schiavi del sistema1. Gli strumenti di crittografia, Internet, e oggi anche Bitcoin danno alle persone il potere di separarsi dallo Stato e di decidere autonomamente cosa fare della propria vita. I tempi oggi sono maturi, ma quanti sapranno cogliere l’occasione?

Consiglio la lettura del saggio, che trovate qui (in inglese).

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Meme del giorno


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Citazione del giorno


“Libertarianism holds that the only proper role of violence is to defend person and property against violence, that any use of violence that goes beyond such just defense is itself aggressive, unjust, and criminal”
― Murray N. Rothbard


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Leggi gli altri Frammenti

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“Something that is inevitable is the increased role of individuals, leading to a new kind of elitism. Those who are comfortable with the tools described here can avoid the restrictions and taxes that others cannot. If local laws can be bypassed technologically, the implications are pretty clear.

The implications for personal liberty are of course profound. No longer can nation-states tell their citizen-units what they can have access to, not if these citizens can access the cyberspace world through anonymous systems.”

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Le sei condizioni chiave dell’Ucraina per i colloqui di pace con la Russia di Putin


Una serie di audaci recenti attacchi ucraini nella Crimea occupata e oltre il confine russo a Belgorod hanno segnato una nuova fase della guerra, con l’Ucraina che prende sempre più l’iniziativa e stabilisce l’agenda militare. Il panico si sta lentamente diffondendo tra i russi comuni, con un numero significativo di persone in fuga dalla Crimea [...]

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USA – Russia: l’omicidio di Daria Dugina è un jolly in un conflitto a somma non zero


Nelle discussioni diplomatiche tra Mosca e Washington che hanno avuto luogo prima dell'invasione, gli USA si sono rifiutati di negoziare con la Russia per tenere l'Ucraina fuori dalla NATO

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Il futuro del conflitto Israele – Palestina


In termini geopolitici e di relazioni internazionali, ci si può aspettare solo una riconfigurazione dei rapporti di potere e delle influenze

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"Le politiche ultraliberiste degli ultimi anni e a vantaggio di pochi, hanno gettato le basi per il presente di oggi. 30 anni passati a smontare tutte le solide basi strutturali dello Stato sociale che, pur con decine di contraddizioni, poneva l’interesse nazionale e la tutela dei cittadini al primo posto, facendo sue le istanze strategiche a tutela della popolazione. La sanità, così come l’apparato energetico e non solo, sono servizi di prima tutela, devono essere pubblici."

lariscossa.info/non-emergenza-…



E’ israeliano l’aeroporto per i palestinesi


Si tratta del piccolo scalo "Ramon", nei pressi di Eilat. A Israele conviene perché continuerebbe a controllare i movimenti dei palestinesi dei Territori occupati e rilancerebbe un aeroporto poco usato. Per i palestinesi sarebbe la rinuncia a un loro aero

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 25 agosto 2022 – Forse resterà solo un esperimento il volo della Arkia Airlines che lunedì è partito dal piccolo aeroporto israeliano «Ramon», 20 chilometri a nord di Eilat, con a bordo 43 palestinesi di Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerico e Nablus, a fianco di passeggeri israeliani, ed è atterrato poco più di un’ora dopo a Cipro. L’iniziativa è stata subito congelata. Prima per le proteste (dietro le quinte) della Giordania, che non vuole perdere milioni di dollari dal mancato arrivo di palestinesi al suo aeroporto di Amman, «Queen Alia». Poi per il fastidio dei viaggiatori israeliani per la presenza dei palestinesi, mascherato dalla presunta paura del «terrorismo». Infine, per la contrarietà politica dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen (Hamas a Gaza non si è ancora espresso) a una soluzione che, palesemente, nega ai palestinesi un loro aeroporto. Per questo e altri motivi i voli per Antalya e Istanbul, sono stati annullati.

Spinti da qualche pressione statunitense – l’entourage di Joe Biden, durante la visita del presidente il mese scorso in Israele, ha chiesto al premier Lapid di favorire i movimenti dei palestinesi – e da un concreto interesse economico e di immagine, i dirigenti israeliani hanno attuato il piano del generale Ghassan Alian (un druso), capo del Cogat, l’ufficio di collegamento per gli affari civili con i palestinesi, che prevede che i palestinesi dei Territori occupati non siano più obbligati – per decisione israeliana – ad andare in Giordania per volare all’estero ma abbiano la possibilità di farlo dall’aeroporto israeliano «Ramon», nel Neghev. I vantaggi per Israele sono notevoli. Da un lato ne guadagna in termini di immagine – i risultati già si vedono, l’agenzia italiana Nova, in un lancio del 22 agosto, scrive citando un giornale israeliano che l’iniziativa «si inserisce nel quadro degli sforzi profusi da Israele per facilitare la vita dei palestinesi», come se le autorità di occupazione fossero la Croce Rossa -, dall’altro rilancia «Ramon» usato ben poco, perciò in perdita, e che grazie al possibile flusso di viaggiatori palestinesi incasserebbe annualmente decine di milioni di dollari. Senza dimenticare che trattandosi di uno scalo israeliano sarebbero i servizi dello Stato ebraico a gestire la sicurezza e a decretare se un palestinese può viaggiare. Nel 2021, riporta Haaretz, circa 10.000 palestinesi sono stati messi da Israele in una lista nera. Molti di loro non lo sanno.

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Vantaggi ci sono anche per i palestinesi sotto occupazione – ai quali Israele non permette di volare da Tel Aviv – che pur dovendo raggiungere la lontana Eilat comunque risparmierebbero del tempo, considerando l’affollamento costante dei valichi per la Giordania. E anche del denaro, tenendo conto di tasse e pedaggi salati che il regno hashemita chiede per il passaggio del confine e all’aeroporto di Amman. Non sorprende che la Giordania sia furiosa per il volo di lunedì. Ogni anno vengono registrati circa tre milioni di ingressi ed uscite per il terminal al ponte di Allenby tra Cisgiordania e Giordania e centinaia di migliaia di palestinesi usano l’aeroporto di Amman per raggiungere le loro destinazioni. Ognuno dei palestinesi decollati l’altro giorno da «Ramon» per Larnaka ha speso in media, tra tasse e biglietto aereo, 350 dollari. Partendo dalla Giordania avrebbero avuto spese ben superiori.

Ma dal punto di vista politico, questa soluzione rappresenta una normalizzazione dell’occupazione israeliana e una rinuncia all’aspirazione ad avere uno scalo palestinese totalmente indipendente da Israele. I palestinesi per decenni hanno chiesto di poter usare il loro aeroporto, a Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah, molto attivo prima dell’occupazione nel 1967, che Israele ha abbandonato dopo l’inizio, nel 2000, della seconda Intifada palestinese e dove ora intende costruire un nuovo insediamento coloniale. Non è un caso che il Cogat israeliano non si sia coordinato in alcun modo con l’Autorità Nazionale sull’iniziativa a «Ramon» e per la gestione dei flussi di passeggeri dalla Cisgiordania. Tanto che il ministro dei trasporti palestinese, Asem Salem, ha minacciato di sanzionare i palestinesi che utilizzeranno lo scalo nel sud di Israele. L’Anp condanna i «tentativi di Israele di mostrare al mondo che sta aiutando i palestinesi», mentre, aggiunge, vuole solo salvare l’aeroporto «Ramon», utilizzato pochissimo da quando è stato inaugurato nel gennaio 2019. Pesano sull’Anp anche le pressioni della Giordania che non manca di ricordare l’«ospitalità» data da decenni a milioni di profughi palestinesi che non vivono solo dell’assistenza fornita dall’Onu ma anche degli aiuti dello Stato.

Sullo sfondo, non per importanza, ci sono i malumori e i «disagi» degli israeliani poco interessati alle strategie governative diplomatiche, economiche e di immagine. Il sindaco di Eilat, Eli Lankri, contesta il piano per rilanciare «Ramon» facendo partire da lì i palestinesi dei Territori diretti all’estero senza aver pensato a una soluzione diversa. Intervistati dai giornali locali, diversi viaggiatori israeliani a «Ramon» hanno detto di «temere per la sicurezza dei passeggeri ebrei». Haaretz ha scritto che lunedì, oltre al generale Ghassan Alian, all’aeroporto c’erano anche agenti della polizia di Eilat per paura di raduni di protesta da parte di chi i palestinesi lì non li vuole vedere.

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TURCHIA-SIRIA. Erdogan pronto a riconciliarsi con Assad. Damasco alza l’asticella


Spinto dall'intenzione di rimandare a casa i profughi siriani che pesano sull'economia turca in profonda crisi, dall'avvicinarsi delle elezioni e dalla perenne volontà di colpire le aspirazioni curde, Erdogan vuole stringere la mano del "nemico" Assad e a

di Michele Giorgio

Pagine Esteri, 22 agosto 2022 – La protesta ad Al Bab e nel resto dei territori siriani occupati dalla Turchia va avanti già da un po’. Da quando il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha parlato della necessità che Damasco e l’opposizione raggiungano una soluzione politica e scrivano una nuova costituzione. Parole nuove per Ankara che, dopo il 2011, ha fatto di tutto abbattere il presidente Bashar Assad. Ha accolto tre milioni di profughi della guerra in Siria, ha finanziato e addestrato una milizia mercenaria siriana impiegandola anche in Libia e contro le popolazioni curde. Ha fatto della provincia siriana di Idlib una sorta di protettorato a disposizione di milizie anti-Assad di ogni tipo, anche jihadiste e qaediste. Ora, per la prima volta, teorizza una soluzione che lasci al potere il presidente siriano.

Erdogan sta mollando i «ribelli» siriani che per dieci anni lo hanno servito puntualmente ricevendo in cambio promesse di ogni tipo, a cominciare dall’abbattimento del «regime». Bashar Assad però ha resistito, grazie all’appoggio militare e politico di Vladimir Putin, alleato/avversario di Erdogan. È rimasto al potere e ha ripreso gran parte del territorio siriano. Ankara ha capito di aver perduto la battaglia. Così, imitando la politica estera di Putin prima della guerra contro l’Ucraina – amici di tutti, nemici di nessuno (ad eccezione di Kiev) –, Erdogan ora stringe la mano a tutti: agli ex rivali sauditi, agli influenti emiratini, ai monarchi del Golfo. E ha riallacciato pieni rapporti con Israele, per anni bersaglio dei suoi attacchi. Non è un mistero che il presidente turco, alle prese con una pesante crisi economica e il declino del suo partito Akp, spera di recuperare consensi grazie ai ricavi derivanti da possibili intese con Israele per portare gas all’Europa.

Che Ankara abbia passato il Rubicone è stato chiaro quando Bulent Orakoglu, editorialista del giornale Yeni Safak, molto vicino a Erdogan, ha descritto i siriani che protestano ad Azaz, Jarablus e Tal Abyad, non più come degli alleati, bensì come degli «individui con le mani sporche…provocatori espulsi a causa dei crimini che avevano commesso in Turchia e infiltrati del regime e del Pkk». La scorsa settimana lo stesso Erdogan rispondendo a una domanda sul dialogo con la Siria al ritorno dal vertice a Leopoli, ha affermato che «il dialogo politico e la diplomazia tra Stati non possono mai essere interrotti …Dobbiamo fare ulteriori passi con la Siria. Facendoli romperemo molti giochi nell’intera regione».

Si è riferito non solo all’aiuto Usa ai curdi siriani ma anche al coordinamento tra Damasco e i vertici delle Sdf curde avviato dopo la minaccia di un’altra offensiva turca nel Rojava. Da parte sua Bashar Assad alza l’asticella, vuole il ritiro totale delle forze turche di occupazione in Siria e non si sente obbligato a riconciliarsi con l’opposizione che per dieci hanno ha trovato ospitalità in Turchia e con le milizie armate e finanziate da Ankara. Putin, dopo il summit di Sochi del 5 agosto con Erdogan, gli ha chiesto di non opporsi a un possibile vertice con il leader turco. In una intervista, il presidente siriano ha replicato «Dico che non sarei onorato di farlo…Tuttavia se incontrarlo porterebbe risultati favorevoli alla Siria, allora va fatto». Assad in realtà il summit con Erdogan lo vuole, sa bene che la riconciliazione con la Turchia significherebbe per lui la vittoria definitiva.

Erdogan punta a demolire l’autogoverno curdo nel nord-est della Siria e ad avviare il rimpatrio dei rifugiati siriani che sono considerati un peso da molti turchi e che potrebbero pesare sul risultato del partito Akp alle elezioni del 18 giugno 2023. Vuole inoltre lungo il confine con la Siria un’ampia “zona di sicurezza” – così la chiamano in Turchia – sgomberata dalle Sdf. In gioco c’è la sopravvivenza politica di Erdogan. L’economia turca, il cui successo per lunghi anni ha favorito quello personale del presidente, è in caduta libera. Il risentimento contro i profughi è alle stelle e le aggressioni ai siriani sono sempre più frequenti. L’opposizione da tempo sostiene che non appena salirà al potere, “manderà a casa i siriani”, quindi, la normalizzazione con Assad è diventata quasi obbligata per Erdogan, se vuole alimentare di sue speranze di riconferma al potere. Pagine Esteri

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Analisi del Max Planck Institute sui suoi elettori: il PD è il partito della destra neo-liberale

«Il Fatto quotidiano di ieri pubblica un'analisi del Max Planck Institute sul voto Dem che conferma cose che sappiamo già da un pezzo: gli elettori di questo partito sono in larga maggioranza benestanti, abitano nelle grandi città e nutrono opinioni "di centro" (leggi neoliberal-liberiste) in economia e "di sinistra" (leggi politically correct) in tema di diritti individuali e civili ( di quelli sociali non gliene importa un baffo).»

lantidiplomatico.it/dettnews-a…



Draghi: metodo, credibilità e autorevolezza … Beh, provateci voi ora!


Non 'agenda' ma metodo, che ha prodotto autorevolezza. Chi possa raccogliere la sua eredità, cioè applicare il suo metodo, è veramente difficile immaginarlo

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West side storyEconomia europea sull’orlo di una possibile recessione. Questa è una delle prime somme che si possono tirare dopo sei mesi di conflitto in Ucraina.


Nonostante gli allarmi della vigilia, il giorno dell’indipendenza ucraino è trascorso senza grandi incidenti. Ma il bilancio di metà anno in guerra è durissimo: oltre 13.000 vittime civili, 6,7 milioni di rifugiati e un’economia in crisi.


Lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale nella Repubblica Popolare Cinese BY GIANCARLO ELIA VALORI
fortuneita.com/2022/08/24/lo-s…



Lavoro e Salute, il ruolo dello psicologo in azienda: verso un nuovo welfare


Nell’era moderna, le aziende devono affrontare molte sfide. Il numero crescente di ore di lavoro e il costante stress a cui i dipendenti sono sottoposti, possono causare uno stato di ansia e depressione, che necessita la giusta attenzione. Si fa riferimento al supporto psicologico nel contesto lavorativo, che risulta essere una vera e propria necessità [...]

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La realtà della guerra in Ucraina sta cominciando a farsi sentire sui russi


Dopo le prime settimane di errore, disorganizzazione e battute d’arresto militari nel nord dell’Ucraina, la Russia ha consolidato con successo le sue forze per offensive su larga scala nell’est, aprendo la strada alla conquista di Luhansk e della città strategicamente importante di Izium, sebbene entrambe le vittorie siano arrivate a un costo tale da renderle [...]

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L’Ucraina ha bisogno di più sostegno degli Stati Uniti per vincere la sua lotta per la libertà


A sei mesi dall’inizio della brutale invasione della Russia, l’Ucraina è ancora in piedi e rimane un’ispirazione per il mondo. Come proclamano le parole del suo inno nazionale: “L’Ucraina non è ancora morta, né la sua gloria, né la sua libertà”. Crediamo fermamente che l’Ucraina vincerà, ma il Paese ora ha bisogno di più sostegno [...]

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Iraq: perchè gli USA non hanno più influenza


Come e perchè l'uccisione del più alto generale iraniano ha sperperato l'influenza americana nell'Iraq di oggi

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L’Ucraina sta resistendo alla forza secolare dell’imperialismo russo


Le intenzioni della Russia di Putin relativamente a questa guerra sono diventate sempre più palesemente imperiali e coloniali

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Carceri: lo scandalo dei bambini prigionieri da ‘innocenti assoluti’


Si legge nella Bibbia (‘Esodo’, ‘Leviatano’, profeta Isaia): ’Le colpe dei padri non ricadano sui figli’. Evidentemente ci si è dimenticati delle madri; accade, infatti, che anche i figli sia pure incolpevoli, siano chiamati a pagare le colpe delle madri. I dati sono ufficiali, forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno: nelle [...]

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Digital Service Package: come regolare le piattaforme digitali?


L'UE approva il Digital Service Package, cosa significa che ciò che è illegale offline deve essere illegale anche online? Una breve analisi di Privacy Network.

Luna Bianchi, Leila B. Mohamed, Luca Nannini, Eleonora Bonel) Il 5 luglio 2022, al termine della sessione plenaria del Parlamento Europeo, è stato approvato il Digital Services Package, il primo set normativo composto dal Digital Service Act (DSA) e dal Digital Markets Act (DMA), volto a regolare rispettivamente i servizi e il mercato digitali al fine di creare uno spazio online più sicuro e...

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Un’Ucraina forte è la migliore soluzione al problema europeo della Russia


Il 24 agosto è il giorno dell’indipendenza ucraina. Per la prima volta in tre decenni da quando l’Ucraina ha riconquistato la sua indipendenza, quest’anno c’era il pericolo reale che le vacanze non si svolgessero affatto. Esattamente sei mesi prima, il 24 febbraio, la Russia ha lanciato un’invasione su vasta scala del paese con l’obiettivo di [...]

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Il Cile al voto per una delle costituzioni più avanzate del mondo


Il Plebiscito del 4 settembre potrebbe portare in costituzione il diritto all’eguaglianza di genere, all’aborto, alla giustizia ambientale, ai beni comuni naturali per un Cile plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico. Abbiamo intervistato l'

di Emanuele Profumi* –

Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – Da Santiago del Cile. Il 4 di Settembre ci sarà uno dei Plebisciti più importanti della storia del Cile. Come quando nell’Ottobre del 1988 il 56% dei cileni decise di impedire a Pinochet di restare al potere sino al 1997, o quando, solo due anni fa, l’80% decideva di archiviare la Costituzione forgiata in dittatura e applicata paradossalmente con il ritorno alla democrazia negli anni ‘90. Questa volta si tratta di approvare o rifiutare il lavoro che per un anno hanno svolto i 155 padri e madri costituenti eletti nella “Convencion Constitucional” sulla base di liste civiche, in maggioranza indipendenti rispetto ai partiti politici ed espressione di un largo consenso territoriale.

Il nuovo progetto di costituzione ha tutte le carte in regola per essere una delle Carte Magne più avanzate del mondo in materia di diritti umani, parità di genere, diritti della natura, ordinamento plurinazionale, come si può leggere sin dal primo articolo: “Il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”. L’impianto complessivo è volto alla creazione di una nuova forma di Welfare State, dove l’educazione, la sanità e il sistema pensionistico diventino pubblici e di qualità, arricchito da nuovi diritti, nati dalle ultime grandi questioni epocali sostenute da profondi e ampli movimenti della società. Sopratutto la crisi ecologica e la richiesta di una reale parità di genere. Si introducono, infatti, per esempio, il diritto all’eguaglianza di genere (art.25) e il diritto all’aborto (art. 61), oppure il diritto alla giustizia ambientale (art. 108) e quello ai beni comuni naturali (art. 134-39).

Tuttavia, ormai da mesi, tutti i sondaggi di opinione indicano che la maggioranza della popolazione non accetta la nuova proposta. Forse per paura, forse per incomprensione, forse per manipolazione mediatica o perché semplicemente si sta proponendo un nuovo patto sociale e politico troppo innovativo (il famoso passo più lungo della gamba). Fatto sta che, ad oggi, la vittoria del “Rechazo” è un reale problema per chi vuole fortemente abbandonare l’eredità velenosa di Pinochet, ossia la sua costituzione, croce senza delizia degli ultimi trent’anni.

Nonostante tutto, Maria Elisa Quinteros Cáceres, medico e ricercatrice universitaria eletta come indipendente nel distretto 17 (Maule Nord), e diventata la seconda “Presidenta” della Convencion Constitucional dopo la mapuche Elisa Loncon, quando la incontriamo è pacata e tranquilla. Sicura della bontà del lavoro svolto e convinta che la popolazione cilena sarà in grado di comprendere anche quello che, sino ad oggi, sembra generare maggiore avversione.

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Maria Elisa Quinteros Cáceres

Michelle Bachelet (Presidente dal 2014 al 2018, ndr), ha messo in piedi una “Riforma costituzionale partecipata” a cui hanno aderito attivamente 220 mila persone in tutto il Paese. Niente di paragonabile ai quasi due milioni che complessivamente hanno partecipato alla scrittura della nuova Carta Magna. Non le sembra, in ogni caso, che quella riforma abbia aiutato l’attuale processo costituente?

Credo di sì, sebbene quel processo sia stato guidato principalmente da alcuni gruppi sociali. Non c’è stata una vera e propria partecipazione di massa. È stato espressione di una specie di élite politica, che aveva accesso ad internet. Gli accademici, come me, hanno partecipato molto, così come molti dirigenti delle organizzazioni sociali e sindacali. La Presidenta non ha avuto neanche la possibilità di inviare in tempo i risultati di quella riforma, e non c’è stata una vera e propria rappresentanza di tutti i settori della società. Tra l’altro, per lei era molto complicato poterla implementare per via della composizione delle forze parlamentari: nonostante avesse appoggio popolare, non aveva la forza politica per poterla sostenere. Detto questo, credo che è stata molto importante, e va considerata il preambolo di quello che alla fine è successo, e in cui ancora ci troviamo.

Sembra che, dopo l’inizio delle grandi manifestazioni dell’Estallido Social del 2019, fonte principale di tutto il nuovo processo costituente, sono stati creati dei “Cabildos” (Consigli territoriali, ndr), dove, principalmente, sorge con forza la richiesta di una nuova costituzione. Non è così?

Dopo i primi momenti, in cui abbiamo vissuto una specie di shock, in cui non si sapeva bene perché stavamo manifestando e perché lo facevamo tutti giorni, e non c’era nessun tipo di leader, maschile o femminile, perché era un movimento acefalo, con il passare dei giorni, in ogni città del Paese si cominciano a creare dei dibattiti pubblici nei Cabildos. Vivo a tre ore da Santiago, e nella mia città è stata la federazione degli studenti a organizzarli. Molte persone vi parteciparono, e proprio loro hanno riassunto le conclusioni del dibattito pubblico. Tuttavia, è a partire dalle marce che si è cominciato a parlare della necessità di una nuova costituzione. Progressivamente è risultato chiaro che quella era la richiesta più forte che si stava generando nelle manifestazioni di protesta.

Lei è stata una delle principali rappresentanti della Convencion Constitucional, ci potrebbe spiegare in poche parole perché è così importante approvare il nuovo testo costituzionale?

Storicamente è molto importante, perché in Cile esiste ancora una costituzione che ha un’origine illegittima, dato che è stata scritta quando ancora c’era la dittatura. Ed è stata imposta con la forza al popolo, scritta da soli uomini, scelti personalmente da Pinochet, senza alcuna forma di rappresentanza e priva di qualsiasi prospettiva democratica. Una costituzione che si concentra principalmente sull’acquisizione di un modello economico che perde di vista qualsiasi forma di umanità, e i diritti fondamentali che invece avevano altre costituzioni precedenti. La nuova costituzione, al contrario, è la prima ad essere stata scritta grazie ad un processo democratico, scelto dalla cittadinanza, con una rappresentanza paritaria di donne, scranni riservati, e con la presenza di cittadini indipendenti dai partiti. Inoltre, è molto importante anche dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità di base della popolazione. Nel 2019 abbiamo manifestato pacificamente per chiedere dei miglioramenti fondamentali della nostra condizione di vita, ossia per il rispetto dei diritti sociali, assenti nell’impianto giuridico della vecchia costituzione, tutta concentrata sulle libertà e che, alla fine, ha portato allo sviluppo di una società segnata da una terribile diseguaglianza sociale. Nonostante il Cile sia un Paese in cui ci sono dei redditi molto elevanti, la diseguaglianza è abissale. Tutto ciò impone necessariamente un cambio.

Nella vostra proposta costituzionale emergono alcune importanti novità storiche. Secondo lei quali sono le più rilevanti?

Indipendentemente dal risultato del 4 di Settembre, che ovviamente spero sia positivo, se lo vediamo come un processo storico, il fatto che la popolazione si è riunita a parlare di politica, è qualcosa che non ha precedenti nella storia della Post-Dittatura. Penso che questo ci cambierà enormemente come società. La società si sta rendendo conto che, quando ci riuniamo, uomini e donne, il potere è nostro, ce lo abbiamo noi. Anche se, va sempre ricordato che il costo di tutto questo è stato molto alto, vista la tremenda violazione dei diritti umani che abbiamo subito durante tutto questo percorso. Ciò che è maggiormente rilevante, quindi, è questa partecipazione popolare insieme alla consacrazione dell’articolo 1. Il cuore della proposta è quello di trasformare uno Stato assente in uno “Stato sociale e democratico di diritto”. Sappiamo bene che è un cammino lungo, che vi si dovrà arrivare, e che non è il risultato di una magia. Ma abbiamo altrettanto chiaramente la speranza che l’unione popolare che si è creata, ed è presente, la possiamo mantenere nel tempo e usarla per incidere a diversi livelli. Per esempio, nel mio caso, come indipendente, lo potrò fare sia a livello dell’organizzazione sociale sia a livello dell’Università, anche se non a livello della politica dei partiti. La novità di questa nuova costituzione, non a caso, è che non teme il popolo che l’ha proposta. A differenza della costituzione del 1980, ancora vigente, che non vuole che il popolo si impegni e si interessi degli affari pubblici, per garantire una “democrazia sorvegliata”. La nostra costituzione, invece, sostiene lo spazio della partecipazione. Non solo nella forma del controllo politico, ma dal punto di vista della buona fede delle proposte che arrivano dalla cittadinanza. Perché anche ai cittadini e alle cittadine comuni possono sorgere delle buone idee politiche, quando ci riuniamo. Inoltre, anche il tema della parità di genere è nuovo nel mondo. Sicuramente frutto della sensibilizzazione femminista, e del lavoro de “Lastesis” (gruppo cileno femminista che fondò la canzone “Un violador en tu camino”, diventata virale nel mondo, ndr). Oltre a questo sicuramente è rilevante la decentralizzazione regionale e la preoccupazione per l’ambiente, perché nel nuovo testo, finalmente, si riconosce che dipendiamo dalla natura. Questi sono i principali aspetti della nuova Carta, come viene ben sintetizzato dall’articolo 1.

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Mi sembra che lo stesso si possa dire della centralità che rivestono i diritti umani, non è così?

Sì. Perché è parte della nostra storia. Prima di tutto dato quanto successo con i popoli originari, poi con la dittatura, e, in ultimo, con la repressione dei giovani manifestanti del 2019. I diritti umani saranno al centro dello Stato e del suo “che fare”. Come si vede chiaramente per quanto riguarda la formazione delle forze di sicurezza, interne ed esterne: i diritti umani sono al centro della formazione delle forze di polizia e delle forze armate. Tutto questo è il frutto di ciò che abbiamo vissuto. Credo che le costituzioni siano il riflesso di quello che una società è, e per questo per la società cilena è stato importante poter implementare questo tema.

La “defensoria del pueblo” (istituzione autonoma dallo Stato che servirà a sanzionare lo Stato e i privati che si macchieranno di crimini contro i diritti umani, ndr) e la “defensoria de la naturaleza” (istituzione autonoma che farà lo stesso in relazione ai diritti della natura e ai diritti ambientali), mi sembra siano altre due novità degne di nota, non trova?

Certo. Per fare in modo che quei diritti non restino solo sulla carta, abbiamo dovuto pensare a istituzioni in grado di garantirli. Oltre alle modifiche che abbiamo apportato al sistema giudiziario, con queste due istituzioni sappiamo ora a chi ci possiamo rivolgere in caso di problemi. Perché attualmente, come cittadini, “facciamo rimbalzare la palla”, come diciamo qui (giriamo come trottole, ndr), ossia chiediamo alle istituzioni di intervenire, e queste ci rimandano sempre a qualche altra istituzione, senza poter concludere nulla. Nessuna ci sostiene veramente. Tra l’altro, siccome è un processo economicamente dispendioso, alla fine molti si arrendono. Non hanno la capacità economica per riuscire a fare giustizia. Queste innovazioni garantiranno quei diritti fondamentali.

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Lei pensa che grazie al nuovo testo si potranno finalmente abbandonare i frutti velenosi del patto Post-dittatoriale? Mi riferisco in particolare all’economia neoliberista e allo Stato repressivo, che sono stati al centro delle proteste dell’Estallido Social.

La costituzione è solo un inizio. Per rendere reale quanto c’è scritto dipende moltissimo da cosa farà la classe politica e da cosa faremo noi cittadini. Innanzitutto ciò dipenderà se riusciremo a lasciarci alle spalle l’idea che la politica è negativa, perché, secondo la mia percezione, la maggioranza del popolo cileno si definisce come a-politico. Si dice spesso: “Non voglio entrare in questioni politiche”, “non mi interessa”. Ma tutto ciò sta cambiando, anche se è un cambiamento lento. Per poter arrivare a fare quello che lei mi sta domandando, dovranno succedere un paio di cose: prima di tutto che esista una connessione tra la nostra classe politica e la gente, la base. Basti ricordare che pochissime persone militano nei partiti e che esiste una grande scollamento tra la base e il vertice, e che questo è parte della profonda crisi politica e sociale che viviamo. In secondo luogo, c’è bisogno di rafforzare la partecipazione. Che la gente possa partecipare. E non mi riferisco al fatto che tutti diventino militanti di qualche partito, ma che lo facciano attraverso i meccanismi di partecipazione che abbiamo creato a tutti i livelli dello Stato (comunale, regionale, etc), o attraverso le istanze della democrazia diretta, per superare la visione negativa della politica che è anche il frutto di quello che voleva la dittatura nei confronti della popolazione. Le persone che partecipavano “troppo” alla politica dovevano essere de-politicizzati. Siamo diventati il riflesso di tutte le politiche neoliberiste che implementate durante quel periodo, ma anche di quelle implementate durante il ritorno alla democrazia, perché, alla fine, la costituzione del 1980 è diventata effettiva in democrazia. Insomma, penso che ci sia ancora moltissimo da fare e che non si risolve tutto il 4 di Settembre. Tuttavia, se vinceremo, sarà possibile continuare a lavorare per fare in modo che questi cambiamenti siano effettivi nei prossimi dieci anni. O forse qualcosa di più.

Quindi ciò che unisce i due problemi è che hanno portato alla de-politicizzazione della cittadinanza.

Esatto. È quello che ho vissuto come studente: c’era davvero poca partecipazione alle federazioni degli studenti. Non c’erano manifestazioni, come se non esistesse nessun problema. Questo continua ad accadere. Qualche anno fa le federazioni erano ancora molto politicizzate, anche se in termini di partito. Oggi sono presenti molti più studenti indipendenti in queste federazioni. Si vede che esiste una trasformazione. Penso che tale situazione potrebbe ancora cambiare in positivo, ma, per il momento, l’interesse della cittadinanza è ancora molto basso quando si tratta di affari pubblici, nella ricerca del bene comune o nella comprensione che quando si partecipa si possono ottenere dei miglioramenti sociali. Temo che su questo non abbiamo ancora fatto progressi, e che sia il frutto della visione neoliberista della società, dato che il neoliberismo, e il suo individualismo, ha lasciato un’impronta profonda.

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Il fatto di aver avuto un’assemblea costituente senza che venissero meno gli altri poteri istituiti, come il parlamento e il governo, non è qualcosa di strano per un processo costituente?

No… è che è la unica che abbiamo avuto sino ad ora… quindi non possiamo compararla con nient’altro. Le altre costituzioni sono state generate in contesti molto distinti (in dittatura, dopo una guerra civile, etc). Almeno, per quanto riguarda il processo cileno, mi sembra che sia stato naturale che essa si sia affiancata ad altri poteri. È come quando uno nasce: il contesto è quello che è, non lo puoi decidere. Sicuramente è stato complesso. Soprattutto per la presenza del settore più conservatore, che ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione, che sono super concentrati. Abbiamo avuto tutto contro, a dir la verità. Ma questo, mi sembra, è ciò che il popolo cileno ha sempre vissuto: affrontare le cose difficili. Non ci è mai successo di ottenere quello di cui avevamo bisogno in maniera semplice. Lo abbiamo visto con la dittatura, ed è chiaro se guardiamo a tutta la nostra storia. Insomma, è stato complicato perché il governo di Piňera ci ha reso la vita molto difficile. Mentre con il secondo governo la relazione è diventata semplicemente più cordiale. Tuttavia penso di poter dire che l’autonomia del nostro potere, quello della Convenzione, è stata difesa durante tutto il processo.

In molti articoli della vostra proposta esiste un comma finale che rimanda il grosso dell’organizzazione giuridica al lavoro del potere legislativo. Questa costituzione permette una larga e importante interpretazione della sua lettera da parte del potere politico. Ciò potrebbe generare dei problemi?

A me non sembra. Questa è una “costituzione civica”. Quando si dovranno generare le leggi ordinarie, dovranno rispettare lo spirito che la informa. Sebbene non mi occupi di diritto, mi sembra che si possa dire che le leggi dovranno essere armonizzate a questo. La classe politica dovrà essere sufficientemente preparata per comprendere lo spirito con cui abbiamo redatto l’impianto delle norme. Tra l’altro, tutto è ormai registrato. Le discussioni, gli atti. Nessuno potrà dire: “Non ho ben capito in che termini interpretare questa o quella norma”. Dato che vengo dall’Università, posso dire senza problemi che per poter fare bene il proprio lavoro, uno si deve informare, studiare e poi, soltanto alla fine, realizzare il lavoro. In effetti, quello che lei sottolinea è stato oggetto di una lunga discussione. Alla fine abbiamo pensato che la cosa necessaria è che si riesca a superare la “democrazia della sfiducia”, che vige oggi, per arrivare ad una “democrazia della fiducia”. Ciò può succedere, però, solo se la classe politica sarà all’altezza: facendola finita con la corruzione, dando risposte alle necessità delle persone. Avevamo tutti lo sguardo incatenato, e pensavamo che nulla si potesse modificare, all’inizio. Poi, il senso comune e il dialogo tra di noi ci ha portato alla convinzione che la democrazia debba continuare il suo cammino, e che le generazioni del futuro potranno fare in modo che le proprie necessità vengano accolte, perché la società sarà distinta da qui ai prossimi dieci o quindici anni. Quindi, personalmente, vedo questo aspetto del testo costituzionale come un vantaggio, e non come un problema. Sempre che i cittadini e le cittadine siano all’altezza della sfida.

Perché è così importante la plurinazionalità dello Stato che voi proponete?

In Cile siamo tutti meticci, proprio come nell’attuale Latinoamerica, e abbiamo un debito nei confronti dei popoli originari, eliminati dallo Stato cileno per varie generazioni. A volte sono state annichiliti interi popoli originari, che il resto della popolazione sente vicini: durante l’Estallido, non a caso, tutte le marce avevano le bandiere mapuches. Basta rivedersi le foto. Esiste una vicinanza con queste popolazioni. I gruppi più conservatori non hanno questa prospettiva. Non hanno vicini mapuches, perché vivono in certe comunità isolate rispetto a queste realtà, dove si concentrano lo stesso tipo di persone. Che vanno alla stessa scuola sin da piccoli. Esiste, insomma, un’interessante endogamia in questa parte della popolazione, che non accetta la plurinazionalità. Quello che stiamo proponendo è necessario per migliorare in termini di pace sociale. Per farlo dobbiamo accettare la nostra diversità, e migliorare nel riconoscimento dei diritti dei popoli originari. Nonostante il Cile abbia sottoscritto il “Convenio del 2008” (Convenio 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro, che riconosce l’esistenza e i diritti dei popoli originali e tribali, ndr), lo ha fatto alla maniera cilena: solo un po’, quello che è possibile. Per noi, invece, maggiore è il riconoscimento e la partecipazione, maggiore saranno i miglioramenti in termini di pace sociale.

Ci sono diversi modi per affrontare il conflitto e la marginalizzazione nei confronti dei popoli originari. Perché avete assunto la plurinazionalità e non un’altra maniera di affrontare il problema?

Penso che, in questo senso, sarebbe interessante analizzare i programmi che hanno portato avanti i candidati poi eletti come rappresentanti costituenti. La maggior parte di loro includevano il riconoscimento della plurinazionalità nel programma. In molti casi, come nel mio, questa proposta è il frutto di un lavoro di base. Abbiamo partecipato a cabildos, riunioni, momenti di riflessione sul metodo, prima di poter definire il programma elettorale. Se uno osserva i cabildos del 2019, e poi quelli alla base dell’elezione dei rappresentanti convenzionali, si rende conto che è stata una proposta popolare, espressa chiaramente. Quindi non è solo una nostra idea, come convenzionali, ma espressione di una volontà popolare.

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Nonostante questo, sembra che il dibattito mediatico sull’elezione del 4 di Settembre sia principalmente incentrato sulla proposta della Plurinazionalità, che è quella che maggiormente viene rifiutata. Come mai?

Penso che l’agenda pubblica sia portata avanti dai mezzi di comunicazione di massa. Dato che in Cile esiste un’importante concentrazione del potere mediatico, non esiste pluralismo dei mezzi di comunicazione, perché 4 o 5 famiglie tra le più ricche del Paese hanno in mano l’80% del sistema mediatico, si genera una vicinanza tra potere politico, economico e mediatico. Ma non c’è niente di nuovo sotto il sole. Lo sappiamo da tempo. Da prima dell’Estallido. Questa sensazione di rifiuto e di razzismo che oggi è ben presente, non è casuale. Non è un’opinione del popolo, in generale. Penso che sia voluta. Per esempio, ero nella Pintana (comuna di Santiago del Cile, ndr), e nessuno esprimeva questa opinione. Al contrario, in questa comuna si fanno pubblicamente delle attività mapuches. Penso che esista uno scollamento con la realtà, e che si diffonda la paura e, a livello politico, la dottrina dello shock (teorizzata da Naomi Klein, ndr). Insomma, penso che esistano molte variabili che possano spiegare tutto questo, ma non è quello che si vede nelle strade, o nel dialogo popolare. Sino ad oggi ho fatto oltre settanta dibattiti pubblici territoriali, e non ho mai visto ciò che viene rappresentato a livello mediatico. Bisognerebbe vedere, tra l’altro, come sono stati costruiti i sondaggi. Mi sembra che stia succedendo quello che è successo nell’Estallido e nel Plebiscito d’ingresso (quello che ha deciso di mettere in piedi la Convencion Costitucional e archiviare la costituzione di Pinochet, ndr), ossia che i mezzi d’informazione siano ben scollegati dalla realtà sociale e dalla gente comune.

Sebbene non sono affatto contrario alla plurinazionalità, mi sembra che l’attuale testo potrà incorrere in un problema importante. Da un lato la costituzione definisce e garantisce l’autonomia territoriale, culturale, sociale, e politica delle comunità, mentre, dall’altro, le sottomette ad alcuni principi generali, come i diritti umani, gli strumenti democratici e il principio di partecipazione egualitaria. Potrebbe accadere in futuro, per questo, che l’autonomia politica di alcune comunità non sia esattamente conforme a quei diritti, al processo e ai principi democratici. Se dovesse passare questo nuovo testo costituzionale, pensa che tutto ciò potrà comportare un problema e generare alcuni conflitti?

Non credo sarà così problematico. I popoli originali hanno delle loro specifiche e molto interessanti forme di autonomia politica. E stiamo parlando di un 12% della popolazione, quindi di un gruppo che non è maggioritario. Ciò di cui abbiamo bisogno è che possano vedere riconosciuti i loro diritti e ottenere una parità di condizioni rispetto al resto della popolazione. Non lo vedo problematico anche perché l’autonomia sarà in qualche misura limitata. In generale, tra l’altro, bisogna ricordare che i popoli originari hanno collaborato con lo Stato, meno una parte del popolo mapuche, che è da sempre il più agguerrito. Sono cileni, come noi. Amano questo Paese e ne rispettano le tradizioni. Ballano la cueca (ballo tradizionale cileno, ndr) e rispettano la bandiera nazionale. Solo per quella parte dei mapuches che portano avanti un conflitto per via di molteplici fattori, e che sono concentrati in una parte determinata del Paese, potrebbe valere il discorso. Con loro è difficile che ci sia un dialogo, e anche questo governo ha avuto difficoltà a averlo. Il resto dei popoli vivono in pace, in povertà, marginalizzati. Sono vittime del razzismo. Hanno bisogno di uscire da questa condizione, e la proposto avanza positivamente su questo terreno. Per abbandonare la povertà e l’alcolismo, prodotti della mancanza di rispetto nei confronti delle loro cosmovisioni da parte dello Stato e del resto del popolo cileno, c’è bisogno di questa proposta. Sono popoli molto rispettosi con il fatto di condividere la parola. Lo posso dire direttamente, visto che ne ho avuto esperienza diretta al momento della “consultazione indigena” (momento di consultazione dei popoli originari rispetto alla nuova costituzione, ndr). Loro si sono fidati della nostra gestione per portare a termine la consultazione, nonostante la paura ancestrale di essere usati dagli altri. Collaborarono. E l’esercizio della parola, il parlare, è super importante per loro.

Da molti mesi, tutte le inchieste mostrano che vincerà il “rechazo” il 4 di Settembre. Si può spiegare come l’effetto della manipolazione e della distorsione del sistema mediatico, come nel caso della Plurinazionalità, oppure qualcosa di reale ed aderente alla popolazione cilena viene effettivamente mostrato?

Sicuramente ci sono molte persone che vivono bene sotto la vecchia costituzione e non vogliono cambiare. La vecchia è stata sancita con un Plebiscito fraudolento. Adesso è venuto il tempo di poter raggiungere un’altra forma di accordo sociale. Sicuramente questo gruppo che vuole conservare la vecchia ha usato la paura e la menzogna per convincere il resto della popolazione, e influire nella loro scelta. È un settore importante, che confonde altri gruppi sociali, che non hanno potuto realmente leggere la nuova proposta, anche perché esiste un problema importante di analfabetismo nel Paese. Ciò fa sì che non si acceda alla proposta in modo egualitario. Inoltre, come ricordavo, esiste un gruppo apolitico della popolazione, che non si interessa, né cerca di informarsi, a cui si può arrivare solo con il porta a porta. Però, oltre a questo, è un fatto che gli incontri pubblici a favore della nuova costituzione non trovino spazio nel sistema mediatico. Se durante la dittatura si usava il boicotoggio ufficiale delle iniziative democratiche, oggi si usa l’omissione. Basti pensare anche ai programmi tv dove si ripete sempre lo stesso ritornello e non c’è vera discussione, o peggio, si costruisce un conflitto fittizio attorno alle proposte. Se noi che siamo a favore siamo stanchi di tutto questo, immaginiamoci l’intera popolazione come può reagire. Qui diciamo: “Il popolo lo aiuta il popolo”. Penso che succederà la stessa cosa che è accaduta nel Plebiscito che ha dato vita al processo costituente: vedo ovunque cittadini e cittadine impegnati che cercano di informare, che donano il loro tempo a disposizione alla campagna per l’Apruebo. Per parlare con gli altri, per fare il porta a porta, o organizzare le piazze. Ciò succede alla base della società. Sono in molti ad andare alle attività che si stanno organizzando. Molti ripetono ciò che dice la televisione, all’inizio di questi incontri, è vero. Ma va anche detto che alcuni giornalisti main stream cominciano ad avere un altro atteggiamento, e smentiscono le menzogne che sono circolate sulla nuova costituzione. Da parte nostra facciamo campagna spiegando gli articoli con il testo alla mano. Non ci inventiamo nulla. Quello che ho visto è che le persone se ne vanno più tranquille da questi incontri, con la voglia di informarsi di più e di mettersi a leggere. Perciò ho fiducia nel lavoro di base, e continuo a nutrire speranza. La stessa di sempre.

__________________

*Emanuele Profumi è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista freelance. Insegna Scienze della Politica all’Università di Viterbo. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le “Inchieste politiche”) sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012).

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Ucraina 6 mesi dopo: a che punto è la notte?


Sul terreno due eserciti che sempre più assomigliano a due pugili sfiniti che non aspettano altro che la campana. La Russia guarda al cessate-il-fuoco sulle posizioni raggiunte. Kiev sa che solo la guerra può ancora mantenere l’Ucraina libera

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Torno con le mie mirabolanti domande di #mastoaiuto sul tema #informatica e #WebDesign. L'argomento di oggi è il tema scuro nei siti e nell'interfaccia del computer/cellulare. O come lo chiamano in modo tutto figo #DarkMode.

Io mi sento più rilassato quando lavoro con il tema scuro su progetti grafici o scrittura. Mi aiuta a concentrarmi meglio su quello che sto facendo. Ma quando si tratta di #accessibilità mi viene un dubbio enorme: se faccio un sito con tema scuro, accontento tutti i lettori?
Io ho sempre fatto attenzione a non usare mai lo sfondo totalmente nero #000 con testi totalmente bianchi #fff perché anche solo pensarlo mi si bruciano le retine. Ho sempre fatto una mediazione di grigi o comunque colori complementari che abbiano lo stesso un elevato contrasto, ma più morbido. Ho già chiesto ad alcune persone con difficoltà di lettura come si trovassero con i miei siti e hanno risposto che riescono a leggere senza affaticarsi. Ma l'esperienza di persone che si conta sulle dita di una mano non fa statistica.

Ora, questo approccio che a me piace è sempre stato venduto anche come ecologico perché inciderebbe meno sull'energia impiegata dal monitor, con gran gioia della bolletta, della batteria e dell'ambiente stesso. Ma è davvero così?

Leggo articoli online che si contraddicono, perciò mi piacerebbe sentire il parere da gente vera come voi. In realtà un tema chiaro incide poco o nulla sulle performance e quindi è meglio stare più leggeri per non mettere in difficolta i lettori online, oppure c'è un vero e tangibile risparmio energetico e quindi è buono l'impegno nel fare temi scuri ma il più possibile accessibili?

Andrea reshared this.

in reply to Maurizio Carnago

@bluoltremauri

Partiamo dalla cosa più semplice:
A quanto so, non ci sono problemi di accessibilità riguardo i temi scuri.
Le persone che proprio non li sopportano possono usare le opzioni del browser per forzare il tema chiaro (almeno, quelli che lo hanno ossia i desktop - assicurati che sul tuo sito funzioni la modalità lettura di quelli mobile).

Io so che bisogna assicurarsi che il contrasto sia chiaro e accessibile: in questo senso: bianco su nero o nero su bianco sono uguali.
Qui trovi linee guida di accessibilità web in generale: developer.mozilla.org/en-US/do…

Quanto a risparmio energetico, gli sfondi scuri possono essere peggio:
Testo chiaro su sfondo scuro è più difficile da leggere, perché, nonostante il contrasto (quello effettivo) sia uguale, c'è meno luce che finisce nei tuoi occhi (indipendentemente dal tipo di superficie contenente il testo, che sia un display o un pezzo di carta), e si fa più fatica a distinguere le lettere. Chiamiamo la quantità di luce che finisce negli occhi "contrasto percepito".

Non solo questo:
Considerando che maggiore è il contrasto sia effettivo che percepito e meglio si legge, e il contrasto è maggiore quando la differenza tra zone chiare e scure è più accentuata...

A parità di illuminazione ambientale, e parlando di schermi che producono la propria luce che finisce negli occhi di chi legge, in ogni caso per leggere meglio (fino a un certo punto, ad esempio sei in una stanza buia, luminosità al massimo è insopportabile) si dovrebbe sempre alzare l'illuminazione dello schermo per avere buon contrasto percepito, ma:

- Su schermi OLED, dove i pixel neri sono spenti, il contrasto effettivo tra zone nere e bianche è sempre più alto di un LCD; alzare la luminosità aumenta tanto il consumo energetico su sfondo chiaro, ma su sfondo scuro il consumo è trascurabile

- Su schermi LCD, dove i pixel neri in realtà sono semplicemente "chiusi", e fanno passare meno della retroilluminazione (meno, ma non niente, e puoi vedere chiaramente che una schermata 100% nera su un LCD in realtà si vede grigina luminescente!); alzare la luminosità comporta sempre lo stesso consumo energetico, MA, il contrasto effettivo su un LCD è sempre più basso di un OLED perché i pixel neri fanno trapelare luce, e considerando che in ogni caso per vedere meglio bisogna avere sia buon contrasto percepito che effettivo... su un LCD finirai con l'alzare la luminosità su sfondo scuro per migliorare entrambi i contrasti, quindi addirittura a consumare più energia di quanta ne consumeresti per leggere un testo nero su bianco con lo stesso livello di comfort!

Spero di averti fatto capire - sto qua degli sfondi chiari o scuri su schermi diversi meriterebbe un articolo di blog...

E ora che ti ho detto tutto questo, però:
A meno che il sito non debba avere i colori che ha per una scelta artistica (ma in quel caso, di nuovo, assicurati almeno che l'HTML del tuo sito sia buono e quindi analizzabile dalle modalità di lettura dei browser, chi non sopporta il tuo tema potrà leggere con quella), se la tua scelta è puramente pratica.. allora non decidere tu, usa CSS per far decidere al browser (e al sistema operativo) di chi visita la tua pagina: usa le media query per dichiarare un tema chiaro, e un tema scuro. Fine.
Vedi developer.mozilla.org/en-US/do…
Un esempio:

/* Tema chiaro, predefinito */
body {
background-color: #FFFFFF;
color: #000000;
}

/* Tema scuro, secondario - Usato solo dai browser supportati (tutti quelli aggiornati, da anni) e che hanno preferenza di tema scuro */
@media (prefers-color-scheme: dark) {
body {
background-color: #000000;
color: #FFFFFF;
}
}

Si può volendo anche invertire il tutto, mettendo come predefiniti (specificati senza media query) i colori scuri, e specificando con @media (prefers-color-scheme: light) i colori chiari per chi preferisce quelli.

in reply to Andrea

@Andrea Mi hai fornito esattamente tutto quello di cui avevo bisogno. Grazie infinite! Io ho sempre visto i bottoncini per far scegliere all'utente se applicare il tema chiaro o scuro, ma siccome dobbiamo preparare alcuni template per siti semplicissimi e leggeri e a prova di idioti non volevo affollare il menù. Questa cosa che il tema cambia da css in base alle preferenze stesse dell'utente senza chiedergli di agire direttamente mi piace un sacco, perché non la conoscevo!


A Taranto dal 26 AL 29 agosto, la “CONVOCATORIA ecologista”: ambiente e giustizia sociale


Taranto è uno dei contesti simbolo della violenza sociale ed ecologica che domina il Sud Italia. La CONVOCATORIA pone l’identità tarantina come anello di congiunzione tra territori in cui dominano colonizzazione interna, ecocidio e disgregazione sociale.

della redazione

Pagine Esteri, 25 luglio 2022 – Si terrà dal 26 al 29 agosto a Taranto la CONVOCATORIA ECOLOGISTA, campeggio organizzato da una rete di realtà del Sud Italia (Raggia Tarantina, Cooperativa Sociale Robert Owen, Movimento No Muos, Laboratorio Politico Iskra, con la partecipazione di Ecologia Politica Network). Quest’anno alla sua prima edizione, l’iniziativa prende le mosse da una visione dell’ecologia improntata alle lotte per la giustizia sociale. A partire da una riflessione sulle cause storico-politiche della marginalizzazione del Sud come imprescindibili per guardare alla crisi ecologica, la CONVOCATORIA estenderà il dibattito al tema della solidarietà internazionale e della costruzione di strategie comuni, accogliendo attiviste e attivisti dal Mediterraneo.

Parteciperanno gruppi dalla Palestina, dal Kurdistan, dall’Egitto, al fine di aprire un fronte di progettualità condivisa. Questo percorso intende affrontare molti degli aspetti socio-politici che si interconnettono nella questione ecologica: la condizione del margine come territorio di resistenza, l’Occupazione [materiale e ontologica], l’appropriazione coloniale di pratiche e saperi, le lotte transfemministe, le autonomie. Uno dei punti di riferimento nella costruzione del campeggio è stata l’esperienza della COP26 di Glasgow, dove una mobilitazione dalla portata impressionante ha reso manifesta l’esistenza di un movimento ecologista mondiale guidato dal Sud Globale.

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La CONVOCATORIA intende guardare a questo movimento promuovendone le premesse e le pratiche, condividendo tutte quelle forme di collettività basate sulla resistenza anti-coloniale e anti-capitalista. Le realtà coinvolte sono attive nelle lotte per la sovranità, come il Mesopotamian Ecology Movement, nella solidarietà internazionale, come la Boycott, Divestment and Sanctions, nella decolonizzazione dei sistemi architettonici, come DAAR – Decolonizing Architecture Art Research.

Taranto è uno dei contesti simbolo della violenza sociale ed ecologica che ha dominato il Sud Italia attraverso i processi di industrializzazione, militarizzazione, espropriazione delle comunità. In questo senso la CONVOCATORIA pone l’identità tarantina come anello di congiunzione tra territori in cui colonizzazione interna, ecocidio, disgregazione sociale appartengono a uno stesso spettro di oppressione in cui rivendicare forme di emancipazione attraverso un percorso collettivo.ù

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Diversi eventi preparatori stanno accompagnando l’organizzazione del campeggio. Il 9 luglio scorso il Movimento No Muos ha presentato il dossier ‘”Università e Guerra”, esito di un’inchiesta sulle affiliazioni delle università italiane con l’industria bellica internazionale e con centri di ricerca a loro volta implicati – con un focus su Israele, Turchia e Stati Uniti. Il 30 luglio prossimo Federica De Rosa presenterà il volume “Laboratorio Favela” – testi e discorsi di Marielle Franco – che ripercorre il pensiero dell’attivista e politica brasiliana assassinata nel 2018 (presso il collettivo transfemminista Le Mele di Artemisia). Il 6 agosto si terrà un’assemblea pubblica di lancio che aprirà un dialogo tra le realtà promotrici e il territorio.

Le tre giornate dell’incontro alterneranno presentazioni, laboratori e momenti plenari presso la Cooperativa Sociale Robert Owen, sede della CONVOCATORIA, concludendosi con una marcia popolare il 28 agosto. Questo ritiro di dibattito e progettualità tra movimenti e soggetti territoriali avrà quindi come linea direttrice l’idea che il superamento del modello estrattivista non può essere immaginato se non a partire da un processo che unisca le diverse lotte sociali, e metta al centro l’interdipendenza di località e globalità. Un processo che si faccia portavoce dell’urgenza di “inventare, ri-articolare e contaminarci attraverso le plurime pratiche ed azioni dirette che ci permettono di resistere alla fine del mese e alla fine del mondo.”

convocatoria-ecologista-tarant…

facebook.com/events/s/convocat…

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La guerra russo – ucraina oggi varca i sei mesi


La contabilità imprevedibile del tempo di una guerra che ha mutato i fini del conflitto, ha travolto la relazione storica di due popoli, messo a grave rischio l’ordine internazionale

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LIBRI. I racconti da non perdere di “Io, lui e Muhammad Ali”


Le donne di Randa Jarrar danzano strette con discriminazioni e tabù, sferrano pugni e vogliono prendersi la luna L'articolo LIBRI. I racconti da non perdere di “Io, lui e Muhammad Ali” proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2022/08/24/cultur

di Valeria Cagnazzo

Pagine Esteri, 20 agosto 2022 – In un’estate oramai quasi agli sgoccioli, il libro di Randa Jarrar, “Io, lui e Muhammad”, è una scoperta imperdibile, uno scrigno prezioso di storie da portarsi dietro su spiagge afose, scogliere impervie o città plumbee svuotate dalle ferie d’agosto, per leggere, ad esempio, di qualcuno che ci rassomiglia:

“Vengono in Egitto d’estate; vengono con le loro macchine in affitto e portano le loro famiglie e comprano ombrelloni e sdraio da spiaggia; portano costumi e teli da mare e creme per la pelle per non bruciarsi. Mi fanno ridere”.

Fa ridere, Randa Jarrar, in ciascuno dei suoi tredici racconti, fortunatamente pubblicati in Italia da Racconti Edizioni nel febbraio 2022 nell’efficace traduzione di Giorgia Sallusti. La sua è quella che si può definire una “penna felice”, arguta e raffinata, comica e delicata al tempo stesso quando c’è da dipingere la tragedia. Il ritmo è incalzante, le storie si succedono velocemente, i personaggi si rincorrono in una giostra dalla quale il lettore non vorrebbe più scendere. Non solo perché si diverte, non solo perché la narrazione scorre con uno stile brillante e lineare, ma anche perché in ogni pagina le contraddizioni della storia contemporanea, i conflitti generazionali e di genere, il macigno delle discriminazioni e delle ipocrisie sociali emergono sotto il respiro di una rarissima intelligenza.

Randa Jarrar intinge la penna nell’autobiografia: un padre palestinese e una madre egiziana, che l’hanno fatta nascere a Chicago. Vissuta tra il Kuwait, l’Egitto e l’arido Texas, adesso la sua casa è Los Angeles, dove partecipa spesso a show televisivi come stand up comedian – oltre a scrivere sul New York Times Magazine, Guernica e altre riviste. I suoi racconti si dipanano intorno alla sua geografia: i personaggi vivono negli Stati Uniti, in Egitto, in Palestina, volano dal Kuwait per inseguire il sogno americano, rimpiangono Gaza, prendono aerei per riconsegnare le ceneri dei loro genitori all’ombra delle piramidi. Ciascuno di loro si sente in qualche modo straniero, o estraneo a qualcosa, sempre incompleto, talvolta letteralmente spezzato a metà.

I protagonisti sono quasi tutte donne, ma non solo. Se è vero che Jarrar indaga prevalentemente il femminile, quando sceglie dei protagonisti maschili si tratta di uomini che non hanno paura di mostrare la loro sensibilità, di piangere davanti ai propri figli e alle proprie mogli, di svelarsi fragili in società fallocentriche. E’ in questo il fulcro della questione di genere, anche in questa raccolta, e non nello sbilanciare la narrazione solo a favore di uno dei due poli (un bipolarismo, tra l’altro, che per l’autrice non esiste).

I protagonisti, ad ogni modo, sono tutti sconfitti dalla grande e dalla piccola storia che ancora, però, resistono, vacillando sul ring prima che si concluda l’ultimo round. Ogni personaggio sta combattendo una battaglia, in un mondo tanto ingiusto da sconfinare a volte nel disgustoso, nel quale è stato suo malgrado gettato come oppresso, come eterno emigrato, come donna e dunque essere umano di serie B, come diverso. Nessuno si lamenta, però, nei racconti di Jarrar: tutti continuano a correre, che sia su una bicicletta in un mercato di Alessandria in cui gli uomini allungano sguardi famelici o nel traffico arabo, in cui si può solo urlare al volante, incastrarsi in ingorghi senza soluzione e rischiare di inchiodare una bambina sotto alle ruote della propria auto.

Le donne del libro sono una costellazione di personaggi indimenticabili che raccontano frammenti di vita con voce ironica, tagliente, sincera. Sfidano le ipocrisie delle società in cui sono calate, quella orientale quanto quella occidentale, e ne svelano le oscenità. Qualcuna di loro accetta di tenere un bambino con un bianco ubriacone che la definisce “arabica”, a costo di rinunciare per sempre alla sua famiglia di origine. Scopre di essere stata ripudiata per essere rimasta incinta fuori dal matrimonio tramite una lettera in cui il padre cita alcuni versi del poeta palestinese Mahmud Darwish. Questa la reazione:

Io sono incinta e tu mi citi Darwish?”. Stavo tremando.

“Sei tu quella incinta (…). Chi ha il diritto di essere furioso? Non tu, mia cara”.

Era definitivo. Bambino = niente famiglia = niente soldi per il college = sono morta. Niente bambino = di nuovo famiglia. Non mi è mai piaciuta questa famiglia, comunque, perciò scelgo il bambino”.

Nella società patriarcale del Medio Oriente come degli Stati Uniti, le donne di Jarrar sono inevitabilmente spesso sconfitte, sempre oppresse, ma mai vittime. Sono loro a calzare i guantoni da boxe e ad affrontare i loro mariti, senza mai emularne la vacua virilità. Chi fa da portaborse all’anziana scrittrice femminista ne resta, infatti, delusa come da un uomo. Nessuna nei racconti ambisce a diventare uomo, a godere di privilegi conquistati con l’inganno. La femminilità è esplorata con sensualità, e a qualsiasi latitudine le protagoniste non celano un sano e disinvolto interesse per il sesso, indagato più spesso mediante l’autoerotismo o tramite rapporti omoerotici, consumati tra le mura domestiche con la connivenza di qualche imam, piuttosto che insieme a uomini completamente ignari dei desideri sessuali delle donne.

Non sono blasfeme le protagoniste dei racconti, è il mondo che è “senza dio” a causa della sua ipocrisia. La religione delle donne di Jarrar è la sincerità. Le “fa ridere” che ciò che le circonda non ne sia all’altezza. Dicono, ad esempio:

Ho bisogno di essere in grado dire all’unico Dio nel giorno del giudizio (il tono è estremamente sarcastico, ndr), quando striscerò fuori dalla tomba e sarò tutta sola e frammenti di cielo si abbatteranno su di me, che- insomma, bello – io ci ho provato”.

Oppure:

«Gesù ama i Palestinesi» ha detto Dorothy. La tavolata è ammutolita. Noi siamo il tipo di musulmani che prega per le agevolazioni fiscali (Baba), i giochi del Nintendo DS (Jaseem), i libri anatomici da colorare (Waseem), la fica (Abe), e per una coscienza libera da ogni senso di colpa che mi permetta di andare via da questa cazzo di casa (Vostra Devota)”.

L’invasione del Kuwait, la guerra in Iraq, il crollo delle Torri Gemelle (due dita tese al cielo in segno di vittoria abbattute in un giorno), l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza: i toni vivaci e l’ironia sorprendente con cui Jarrar mette insieme i tasselli del suo mosaico non tralasciano mai che le piccole battaglie dei protagonisti si consumano in un mondo violento e inospitale. Anche quando affronta esplicitamente la politica, lo fa con originalità. La scrittura di Jarrar riesce a essere credibile anche quando per raccontare l’esodo palestinese fa parlare un falco tenuto prigioniero in un carcere in Turchia perché accusato di spionaggio per conto degli Israeliani. Non un cedimento nella tensione narrativa che faccia dubitare della veridicità del racconto dell’uccello.

Anche il dramma di sentirsi stranieri, diseredati dalla propria terra, privati di una definita identità nazionale, filo conduttore di tutto il libro, trova l’apice nell’ultimo racconto: una donna per metà umana e per metà stambecco. Una creatura mitologica che si sente sempre spezzata, proprio come una donna figlia di due arabi ma cresciuta in America, finché non avviene una presa di consapevolezza:

“Non c’è unità nella dualità. Niente è uno e niente è doppio. Tu sei entrambi”.

Le donne di Jarrar si sussurrano queste verità mentre raccolgono il bucato in una lavanderia a gettoni, mentre restano intrappolate nel traffico, mentre il mondo che hanno intorno continua a sgretolarsi. La loro forza vacilla sul ring ma non crolla. Hanno il coraggio di sferrare ganci da fare invidia a Muhammad Ali, ma non dimenticano la delicatezza, non si scordano la luna. Nel primo racconto la piccola Qamar (luna), nome maschile in arabo ma scelto qui per una bambina, una notte è stata quasi sul punto di afferrarla, sul tetto di casa sua, ma poi si è addormentata proprio sul più bello. Nessuna protagonista, però, si è lasciata alle spalle quell’antico sogno: anche se stritolate da tabù e pregiudizi, anche se sole e deluse, le donne di Randa Jarrar possono ancora prendersi la luna.

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GAS. Macron manda la Legione Straniera a presidiare gli impianti nello Yemen


I soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei int

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 23 agosto 2022 – La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.

Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.

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Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).

Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.

Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili. Pagine Esteri

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Esercito israeliano fa irruzione e chiude le 6 ong palestinesi che accusa di “terrorismo”


Qualche giorno fa il ministro della difesa israeliano Gantz aveva ratificato in via definitiva il suo provvedimento sulle ong, che accusa di "legami con il terrorismo " nonostante le critiche registrate a livello internazionale. L'articolo Esercito israe

AGGIORNAMENTO ORE 20

IL COMUNICATO DI AOI – CINI – Link2007 – Piattaforma delle ONG Italiane in Mediterraneo e Medio Oriente
Amnesty International Italia – Assopace Palestina – Rete italiana Pace e Disarmo

Attacco israeliano contro organizzazioni della società civile palestinese: il governo intervenga tempestivamente

Le Organizzazioni, Reti e Piattaforma firmatarie di questo appello, sollecitate dalle organizzazioni italiane operanti in Palestina, esprimono condanna e grande preoccupazione per il gravissimo atto di violenza avvenuto questa mattina, 18 agosto, che ha visto l’esercito israeliano fare irruzione negli uffici delle sei ONG palestinesi (Al-Haq, Bisan Center for Research and Development, Defence for Children International-Palestine, the Union of Agricultural Work Committees e la Union of Palestinian Women’s Committees) designate dal Ministero della Difesa israeliano quali organizzazioni terroristiche il 19 ottobre 2021 e, successivamente, dal Comandante Militare il 3 novembre 2021.

I militari hanno sequestrato computer e materiale e sigillato le porte dei sei uffici, tutti situati a Ramallah, affiggendovi un ordine di chiusura permanente, firmato dal Comandante dell’Esercito Israeliano in Cisgiordania. Il provvedimento afferma che negli uffici di queste organizzazioni vengono svolte attività illegali.

In questi mesi, nessuna prova è stata fornita dal Governo israeliano a sostegno della designazione delle sei ONG quali organizzazioni terroristiche, nonostante le ripetute richieste espresse sia dalle ONG stesse che da numerosi Governi e istituzioni internazionali.

Anche il Governo italiano, insieme ad altri otto governi di Paesi membri della Unione Europea, ha pubblicamente dichiarato che, in assenza di prove concrete, la solida collaborazione con sei organizzazioni che da decenni sono impegnate ad altissimo livello per la difesa e la promozione dei diritti umani nel Territorio Palestinese Occupato sarebbe continuata.

Riteniamo che gli avvenimenti di questa mattina siano un affronto da parte del Governo di Israele e una reazione inaccettabile alle legittime prese di posizione dei nove governi europei, che peraltro sono del tutto simili a quelle adottate dagli stessi Stati e dall’Unione Europea in passato in situazioni analoghe di mancato rispetto degli standard internazionali di protezione dei diritti umani.

L’attacco a chi difende e promuove il rispetto dei diritti umani delegittima l’utilizzo dei mezzi pacifici e legali per la risoluzione del conflitto, di fatto rafforzando le posizioni più estremiste in un momento di preoccupante escalation di violenza, che lascia la popolazione civile su entrambi i fronti ulteriormente vulnerabile.

Nel riaffermare con forza il sostegno a fianco delle sei ONG palestinesi e la estrema preoccupazione per l’incolumità di colleghi e colleghe che vi lavorano, le organizzazioni firmatarie di questo comunicato chiedono un intervento immediato del Governo italiano, che preveda:

  • La Convocazione immediata dei rappresentanti delle Autorità Diplomatiche israeliane perché riferiscano sul caso
  • La reiterazione dell’impegno pubblicamente espresso lo scorso 12 luglio a continuare a sostenere le sei ONG palestinesi, e le ONG italiane che vi collaborano, anche attraverso finanziamenti della Cooperazione Italiana
  • La denuncia di questi fatti come parte della politica di Israele volta ad imbavagliare la società civile palestinese, ad utilizzare le misure antiterrorismo in modo arbitrario e strumentale, al solo scopo di silenziare il dissenso e ostacolare l’azione dei difensori dei diritti umani e ad intimidire la popolazione, con il risultato di negare l’esercizio del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Tale denuncia, e la richiesta ufficiale di recedere da questi abusi, rientra negli obblighi che il diritto internazionale pone in capo agli Stati terzi a fronte della violazione di norme imperative, come nel caso di specie
  • Una presa di posizione chiara e misure concrete da parte del Governo italiano e della Unione Europea mirate a indurre Israele a porre fine alle pratiche discriminatorie e di oppressione che, come denunciato anche da Amnesty International e dalla ONG israeliana B’Tselem costituiscono un sistema di apartheid contro la popolazione palestinese tutta nel Territorio Occupato e in Israele.

AGGIORNAMENTO ORE 17.30

I rappresentanti di una ventina di paesi europei, tra i quali l’Italia, hanno fatto visita oggi ad al Haq in una dimostrazione di solidarietà all’ong e alle altre cinque organizzazioni per i diritti umani palestinesi chiuse la scorsa notte dall’esercito israeliano

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AGGIORNAMENTO ORE 14

IL COMMENTO DELLA DEPUTATA LAURA BODRINI, Presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo.

“Solidarieta’ alle 6 ong palestinesi vittime di una violenta irruzione nelle loro sedi da parte dell’esercito israeliano allo scopo di interrompere ogni loro attivita’. Queste organizzazioni, impegnate nella difesa dei diritti umani, sono state accusate dal governo israeliano di sostegno al terrorismo, senza che sia mai stata fornita alcuna prova. L’Unione Europea, gli Stati Uniti e molti altri Paesi con cui le ong tutt’ora collaborano, hanno sollecitato a piu’ riprese il governo israeliano a dimostrare con prove concrete l’ipotesi di reato mossa nei loro confronti, senza tuttavia avere alcuna risposta. Il mese scorso, una nota congiunta dei ministeri degli Esteri di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia ha annunciato che questi Stati non ritengono “terroristiche” le 6 ong palestinesi. Questa operazione militare assume dunque le sembianze di un vero e proprio attacco, ingiustificabile nella scelta e brutale nelle modalita’. La comunita’ internazionale si attivi per interrompere da subito questo accanimento che ormai perdura da mesi. La lotta al terrorismo e’ cosa ben diversa dalla persecuzione di organizzazioni non governative che si impegnano per difendere la vita e i diritti delle persone”.

AGGIORNAMENTO 18 AGOSTO 2022 ORE 8

L’esercito israeliano ha fatto irruzione negli uffici delle 6 ong palestinesi per i diritti umani – tra cui Al Haq, Addameer e Bisan – che aveva dichiarato illegali ad ottobre per presunti “legami con il terrorismo”. I soldati hanno lasciato un ordine militare che dichiara le ong illegali e chiuse, sigillando le porte dei loro uffici in Cisgiordania. Qualche giorno fa il ministro della difesa israeliano Gantz aveva ratificato in via definitiva il suo provvedimento sulle ong nonostante le critiche registrate a livello internazionale.

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PER APPROFONDIRE IL TEMA VI INVITIAMO A LEGGERE L’ARTICOLO CHE PAGINE ESTERI PUBBLICO’ LO SCORSO OTTOBRE DOPO LA DECISIONE PRESA DAL MINISTRO DELLA DIFESA ISRAELIANO.

della redazione

Pagine Esteri, 23 ottobre 2021Attacco frontale alle ong palestinesi per la tutela dei diritti umani, alcune delle quali operano da decenni e godono di ampio riconoscimento internazionale. Ieri il ministro della difesa israeliano, Benny Gantz, ha proclamato ufficialmente sei di queste ong “organizzazioni terroristiche” poiché, a suo dire, sono espressione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina – un partito di sinistra, di orientamento marxista, presente con tre deputati nel Consiglio legislativo palestinese – che Israele considera un gruppo terroristico.

Spiccano i nomi di Addameer, che assiste i prigionieri politici palestinesi, e di Al-Haq, un’organizzazione che lavora da decenni con le Nazioni Unite. Nell’elenco sono incluse anche Defense for Children International-Palestine, Union of Agricultural Workers, Bisan Center for Research and Development, Union of Palestinian Women Committees. Nei mesi scorsi con la stessa motivazione era stata ugualmente descritta come una “organizzazione terroristica” anche l’associazione Samidoun che diffonde informazioni sui detenuti politici.

La dichiarazione di Gantz è volta a mettere al bando queste ong palestinesi e autorizza l’esercito a chiudere i loro uffici, a sequestrare i loro beni e ad arrestare e incarcerare il loro personale. Infine, vieta il finanziamento alle loro attività. Quest’ultimo aspetto ha una particolare importanza per i rapporti internazionali di queste ong palestinesi. Con ogni probabilità il passo del ministro israeliano spingerà varie istituzioni e ong internazionali, in particolare quelle occidentali, a cessare qualsiasi sostegno ad Addameer, al Haq e alle altre ong colpite dal provvedimento. “È un attacco sfacciato, una pericolosa escalation che minaccia di paralizzare completamente il lavoro della società civile palestinese nell’opporsi all’abuso dei diritti umani”, ha commentato Omar Shakir, responsabile di Israele e Palestina per Human Rights Watch. Anche Amnesty International ha protestato con forza e condannato la decisione di Gantz.

Addameer fornisce assistenza gratuita e consulenza legale ai prigionieri palestinesi, centinaia dei quali sono detenuti nelle carceri israeliane senza processo e senza accuse formali. Documenta anche altre violazioni e mette in evidenza i maltrattamenti dei minori palestinesi. Al-Haq, ong storica della società civile palestinese, ricerca e documenta violazioni del diritto internazionale umanitario nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Il gruppo afferma di documentare le violazioni “indipendentemente dall’identità dell’autore”.

La dichiarazione di Gantz è stata denunciata anche dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem. “E’ una mossa che caratterizza i regimi totalitari” – ha scritto B’Tselem in un comunicato – “Ma la guerra non è pace, l’ignoranza non è potere e l’attuale governo (israeliano) non è un governo di cambiamento bensì un governo di continuazione del violento regime di apartheid che è in vigore da molti anni tra il mare e il fiume Giordano. B’Tselem è solidale con i nostri colleghi palestinesi, orgoglioso del nostro lavoro congiunto con loro nel corso degli anni e continuerà a farlo”.

Una reazione è giunta anche Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che, ha dichiarato, richiederà maggiori informazioni sulla designazione di “organizzazione terroristica” per le ong palestinesi decise dal ministro Gantz. “Il governo israeliano non ci ha avvertito in anticipo”, ha precisato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. “Crediamo che il rispetto dei diritti umani, le libertà fondamentali e una società civile forte siano di fondamentale importanza per una governance responsabile e reattiva”, ha aggiunto. Parole che possono essere interpretate come un raro rimprovero statunitense al governo israeliano. Pagine Esteri

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Gmail creates “Spam Emails”, despite CJEU judgment


Gmail crea "email di spam", nonostante la sentenza della CGUE Oggi noyb.eu ha presentato una denuncia contro Google all'Autorità francese per la protezione dei dati (CNIL). Il gigante tecnologico ha ripetutamente ignorato la sentenza della Corte di giustizia europea (CJEU) sul marketing diretto phone with two email notifications and two spam messages


noyb.eu/en/gmail-creates-spam-…