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Il settarismo guida il Libano verso il collasso economico


Il settarismo insito nel Libano, dalla guerra civile in poi. Ora il Paese è alle corde, non può progredire economicamente sotto lo status quo. Un collasso statale produrrebbe conseguenze disastrose in tutta la più ampia geopolitica del Medio Oriente

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Le proteste in Iran rendono il ripristino dell’accordo sul nucleare più urgente che mai


I falchi non considerano che opporsi all'accordo nucleare sta dando agli intransigenti essenzialmente ciò che vogliono. Se l'idea di ritirarsi dal JCPOA è sempre stata negativa, ora lo è ancora di più considerando i cambiamenti politici a Teheran

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Russia: perché e come il regime di Putin si sta trasformando in una dittatura tirannica


L’illustre economista e filosofo premio Nobel Thomas Schelling, autore del concetto di deterrenza nucleare, ha un famoso libro intitolato “Micromotives and Macrobehavior”. Per parafrasare, il testo di oggi potrebbe essere intitolato Macro Motives and Micro Behavior. Questo testo presenta una sintesi della mia modellazione di alcuni dei fondamenti, incentivi e fattori macro-fondamentali, economici e non, […]

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LIBRI. Maher Charif, storia e analisi del pensiero politico palestinese e arabo


Due volumi dello storico marxista che contribuiscono ad approfondire in Italia la conoscenza del pensiero politico palestinese. L'articolo LIBRI. Maher Charif, storia e analisi del pensiero politico palestinese e arabo proviene da Pagine Esteri. https:/

della redazione

(foto di Issam Rimawi \ apaimages)

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Maher Charif

Pagine Esteri, 6 ottobre 2022 – In parte oscurato dalla tragica cronaca quotidiana nei Territori occupati e nei campi profughi palestinesi sparsi per il Medio oriente, il pensiero politico palestinese non ha sempre ricevuto la dovuta attenzione. Eppure, il dibattito interno palestinese è stato sempre fertile e non solo riguardo alle dinamiche del confronto/scontro tra occupati palestinesi e occupanti israeliani e alle possibili quanto lontane soluzioni diplomatiche per il futuro della Palestina. Il pensiero politico palestinese era e resta ben inserito in vari ambiti internazionali, dalla decolonizzazione alle conseguenze della globalizzazione fino, in tempi più vicini, all’ambientalismo e il cambiamento climatico. In questo quadro sono centrali gli studi dello storico marxista Maher Charif, profugo palestinese in Siria, specializzato nella storia araba moderna e dei movimenti politici arabi e frequente commentatore di politica e società nei giornali in lingua araba.

2929773Di recente la casa editrice Zikkaron, creata nel 2016 dalla comunità monastica di Monte Sole – il cui fondatore è stato Giuseppe Dossetti – ha pubblicato due testi di rilievo di Maher Charif, “Storia del pensiero politico palestinese” e “I nodi irrisolti del pensiero arabo”. Il primo è l’edizione riveduta e aggiornata dell’opera di Charif uscita in prima edizione araba nel 1995. A cura di Ignazio De Francesco, è il panorama completo della storia del pensiero politico palestinese dall’inizio del ‘900 sino ad oggi con la traduzione di Paola Pizzi e la prefazione dello storico italiano Massimo Campanini, scomparso di recente. Il volume racconta l’evoluzione del modo in cui i palestinesi hanno pensato sé stessi, gli ebrei e gli altri arabi nel corso di un secolo. Gli eventi, cui il popolo palestinese è andato incontro sono il propellente dello sviluppo del pensiero e ad essi l’autore fa costantemente riferimento. Charif si attiene al più stretto approccio scientifico e documentario: il libro è opera di “documentazione del pensiero”, mira a mostrare come i palestinesi siano giunti dove sono giunti. Puntando a conseguire il più alto livello di oggettività possibile, Charif ha attinto a un deposito documentario vasto, formato da documenti originali e fonti di prima mano, capaci di condurre il lettore all’interno del dibattito politico.

2929775Il secondo testo, appena uscito, oltre ai tre capitoli di Charif che riassumono il suo intero percorso di ricerca, include contributi di approfondimento da parte di Edoardo Baldaro (Univ. Bruxelles) sull’espansione del jihadismo in Africa; di Paolo Branca (Univ. Cattolica) sul riformismo; della giornalista Azzurra Meringolo sulla “Primavera araba” in Egitto; dello storico e arabista Simone Sibilio (Univ. Ca’ Foscari), di Isabella Camera d’Afflitto (docente emerita Orientale Napoli e La Sapienza) sulla vicenda palestinese anche nella sua dimensione culturale e letteraria e di Ignazio De Francesco che dà sguardo sintetico alla storia palestinese attraverso le sue cronologie e a come la storia della Palestina venga tramandata oggi ai palestinesi più giovani.

Due volumi che contribuiscono ad approfondire in Italia la conoscenza della storia e del pensiero palestinese. Pagine Esteri

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LIBANO. Profughi siriani, Beirut accelera per rimandarli subito a casa


Negli ultimi tre anni si è aggravata l'ostilità dei libanesi verso i siriani presenti nel paese. Prevale l’idea che i profughi assorbano risorse destinate alla popolazione libanese impoverita dalla crisi economica e, per questo, si chiede a gran voce il r

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. «Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna», ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. «Non abbiamo bisogno questi stranieri», aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, «vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione». Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano.

A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. «Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri» ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel «tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera». Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. «La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti». Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. «Noi garantiamo l’assistenza primaria – ci spiega – ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose». Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, «le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi».

Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato.

Questo quadro è peggiorato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che «Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese».

I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ​​da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di «piene condizioni di sicurezza» in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari – spesso con l’aiuto di parenti all’estero – da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Pagine Esteri

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Se il giubileo per i 70 anni di regno di Elisabetta, a inizio giugno, era stato l’occasione per celebrare l’Inghilterra moderna, quella del Dopoguerra, con il “soft power” globale di lingua, cultura, musica e teatro, solo tre mesi dopo i funerali del…


Con la campagna #MIStaiACuore il Ministero dell’Istruzione si impegna a sensibilizzare studentesse, studenti, personale scolastico e famiglie sull’uso del defibrillatore semiautomatico esterno (DAE) e sulle misure di primo soccorso.

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YEMEN. Tregua non prolungata, il paese scivola verso la guerra


E' caduto nel vuoto l’appello lanciato il 30 settembre dall'inviato speciale dell'Onu Hans Grundberg per il prolungamento del cessate il fuoco. Ribelli Houthi e Coalizione a guida saudita sul punto di riprendere le ostilità. Sullo sfondo c'è una crisi uma

di Michele Giorgio –

Pagine esteri, 3 ottobre 2022 – Scaduta ieri la tregua e rifiutata la proposta aggiornata dell’Onu presentata alle parti belligeranti per una sua proroga, lo Yemen rischia di precipitare di nuovo in un conflitto aperto tra i ribelli sciiti Houthi (Ansrallah), sostenuti dall’Iran, e le forze governative o meglio la Coalizione a guida saudita intervenuta in Yemen nel 2015 e responsabile di pesanti bombardamenti aerei che hanno causato migliaia di vittime. L’esecutivo dei ribelli che controllano la capitale Sanaa, ha giustificato la mancata estensione del cessate il fuoco con il “vicolo cieco” in cui erano entrate le trattative provocato, afferma, dalla riluttanza di Riyadh e dei suoi alleati a revocare il blocco sul paese e alleviare la grave crisi umanitaria. “Durante i sei mesi della tregua, non abbiamo visto alcuna serietà nell’affrontare il fascicolo umanitario come una priorità urgente” aveva avvertito il 1° ottobre un rappresentante del team negoziale degli Houthi lasciando presagire la fine dell’intesa che nei mesi scorsi aveva permesso, almeno in parte, di affrontare la crisi umanitaria che colpisce milioni di yemeniti. Secondo i ribelli nelle 24 ore precedenti la scadenza della tregua, la Coalizione ha commesso 122 violazioni dell’accordo con attacchi aerei su Marib, Al-Jawf, Hajjah, Saada e altre aree.

A nulla è servito l’appello lanciato il 30 settembre dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen Hans Grundberg per il prolungamento della tregua affinché il paese eviti di “scivolare di nuovo in guerra”. Grundberg si è detto rammaricato per il mancato accordo tra le parti e ha esortato il governo riconosciuto a livello internazionale e le milizie Houthi a “mantenere la calma” e ad astenersi da azioni provocatorie che potrebbero innescare un’escalation. Analoghe preoccupazioni sono state espresse dalle altre agenzie dell’Onu e internazionali che operano nel paese per alleviare una crisi umanitaria di proporzioni eccezionali. Nei mesi scorsi l’Onu aveva chiesto per lo Yemen donazioni internazionali paragonabili per entità solo quelle necessarie per assistere la popolazione afghana.

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Tutto lascia immaginare una ripresa piena del conflitto che ha fatto molte decine di migliaia di morti e gettato nella fame e nelle malattie milioni di yemeniti. I ribelli in questi ultimi mesi hanno più volte denunciato quello che definiscono il “furto” delle risorse petrolifere nazionali da parte dell’Arabia saudita che, aggiungono, ammontano a circa un miliardo di dollari. Riyadh e i suoi alleati invece affermano di aiutare il governo yemenita riconosciuto ad esportare il greggio e ad impedire che a farlo siano i ribelli. Il capo del Consiglio politico supremo Houthi, Mahdi al-Mashat, ha lanciato un monito alle compagnie petrolifere internazionali operanti nel paese, invitandole a “smetterla di saccheggiare la ricchezza sovrana dello Yemen”. O, ha minacciato, “dovranno assumersi la piena responsabilità delle loro decisioni”. Si tratta del secondo avvertimento nel giro di poche ore. Il 1° ottobre il leader Houthi, Abdel Malik al Houthi, aveva sollecitato la revoca immediata del blocco dello Yemen attuato dall’Arabia saudita (e gli Usa). E qualche ora fa il portavoce militare degli Houthi, Yahya Sarea, ha rincarato la dose affermando che “fino a quando i Paesi aggressori, Usa e Arabia saudita, non si impegneranno in una tregua che dia al popolo yemenita il diritto di sfruttare la propria ricchezza petrolifera” le forze di Ansrallah “saranno in grado di privare sauditi ed emiratini delle loro risorse”. Un riferimento palese a prossimi attacchi di droni e al lancio di missili verso il territorio saudita e quello degli Emirati. Pagine Esteri

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USA. Milioni di americani rischiano la fame. I buoni pasto di Biden non bastano


L'aumento dei prezzi dei generi alimentari sta erodendo la portata dei buoni pasto che quest’anno hanno un valore medio di 231 dollari a persona al mese. Più americani sono stati costretti a ricorrere alle dispense alimentari che a loro volta hanno ricevu

della redazione con dati e notizie diffusi in rete dalla Reuters

Pagine Esteri, 6 ottobre 2022Grace Melt ha fatto la sua prima visita alla dispensa alimentare di Nourishing Hope di Chicago ad agosto. Durante la pandemia di COVID-19 aveva utilizzato buoni pasto emessi dal governo federale per acquistare generi alimentari mentre era disoccupata per un infortunio al ginocchio. Ma quest’estate, i buoni pasto non sono riusciti a tenere il passo dell’aumento dei prezzi del negozio di alimentari e per la prima volta è dovuta andare alla ricerca di una fornitura gratuita di cibo. “Non è sicuramente abbastanza. Non bastano mai fino alla fine del mese”, ha detto Melt a proposito dei buoni pasto. “E ora che sono aumentati i prezzi non puoi far altro che venire qui, in un centro dove donano cibo”.

L’aumento della fame (negli Usa) è un problema serio per l’immagine e le ambizioni del presidente degli Stati Uniti Joe Biden che si prepara a ospitare la prima conferenza della Casa Bianca su fame, nutrizione e salute in oltre 50 anni e si dice impegnato a eliminare la fame negli Stati Uniti entro il 2030. A causa dell’inflazione (alta) gli elettori potrebbero punire il Partito Democratico nelle elezioni di medio termine. L’andamento dell’economia infatti è la priorità per gli elettori Usa, secondo un sondaggio Reuters/Ipsos. L’amministrazione Biden ha aumentato i finanziamenti per i buoni pasto quasi un anno fa ma allo stesso tempo ha acquistato la metà del cibo rispetto all’amministrazione Trump nel 2020 per banche alimentari, scuole e riserve indigene, secondo i dati ottenuti dall’agenzia statunitense USDA.

L’aumento dei prezzi dei generi alimentari sta erodendo il valore reale dei buoni pasto su cui sembra puntare l’attuale amministrazione per combattere la fame tra gli statunitensi. Quest’anno i buoni hanno un valore medio di 231 dollari a persona al mese. Troppo poco di fronte all’inflazione galoppante. Ciò ha costretto più americani a rivolgersi alle banche alimentari che a loro volta hanno ricevuto meno cibo dal governo.

L’indice dei prezzi al consumo per il cibo è salito al 13,5% ad agosto, l’aumento più sostenuto in 12 mesi dal 1979, secondo il Bureau of Labor Statistics. I prezzi dei generi alimentari sono cresciuti a livelli record dall’invasione russa del principale produttore di cereali, l’Ucraina. E co0sì anche i livelli di fame quest’estate sono saliti a punti mai raggiunti, neppure durante la pandemia nel 2020 quando i lockdown hanno gettato nel caos le catene di approvvigionamento.

“Questo problema era migliorato nel 2021, poi è nuovamente e rapidamente peggiorato” spiega Vince Hall, Chief Government Relations Officer di Feeding America, la più grande rete di banche alimentari della nazione. “La maggior parte delle nostre banche del cibo vede allungarsi le file di persone ogni settimana che passa”. Per alcuni occorre spendere di più in buoni pasto o distribuire contanti perché offrono alle persone più scelta rispetto alle dispense alimentari e vanno anche a vantaggio delle imprese locali.

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L’insufficienza alimentare per le famiglie con bambini è salita al 16,21% lo scorso luglio quando quasi 1 famiglia su 6 ha dichiarato di non avere, talvolta o molto spesso, da mangiare a sufficienza, secondo i dati della Household Pulse Survey dell’US Census Bureau. Si tratta della percentuale più alta da dicembre 2020. La fame tra i bambini era scesa al 9,49% nell’agosto 2021 in parte a causa dei pagamenti del credito d’imposta per i bambini, secondo l’US Census Bureau.

La fame si era attenuata nel 2021 dopo che le amministrazioni Trump e Biden hanno distribuito sussidi per la pandemia alle famiglie per l’acquisto di generi alimentari, consegnato miliardi di scatole di cibo di emergenza e inviato pagamenti mensili del credito d’imposta per i bambini. Nell’anno 2020, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha speso 8,38 miliardi di dollari per 4,29 miliardi di libbre di cibo destinato a dispense alimentari, scuole e riserve indigene. Ma la spesa alimentare è diminuita costantemente, di quasi il 42% dal 2020 al 2022, fino ai 3,49 miliardi di dollari, il livello più basso dal 2018. L’agenzia ha acquistato solo 2,43 miliardi di libbre di cibo nell’ultimo anno, secondo i dati acquisiti da Reuters.

L’USDA ha cercato di compensare il calo degli acquisti di cibo con ulteriori sussidi per l’assistenza nutrizionale supplementare. Ma l’aiuto aggiuntivo è stato limitato dai costi più elevati…L’USDA ha recentemente annunciato che acquisterà altri 943 milioni di dollari in generi alimentari entro il 2024, utilizzando i fondi della Commodity Credit Corporation, normalmente stanziati per prestiti e pagamenti agli agricoltori statunitensi colpiti da disastri o dai bassi prezzi delle materie prime. Il dipartimento dell’agricoltura da parte sua ha riferito di un taglio drastico ai finanziamenti per la pandemia autorizzato dal Congresso che ha limitato il potere di spesa dell’agenzia per gli alimenti e le scuole.

Feeding America lamenta il taglio di 430 miliardi di dollari per alcune misure aggiuntive di assistenza alimentare dalla legge sulla riduzione dell’inflazione firmata ad agosto, inclusi gli investimenti nell’alimentazione infantile e un programma EBT da impiegare quando i pasti scolastici non sono disponibili. “Nelle versioni precedenti di questo disegno di legge c’erano priorità straordinariamente importanti per combattere la fame, che però non ci sono nell’ultima versione”, ha protestato.

RACCOLTI INSUFFICIENTI

Quest’anno, l’USDA acquisterà poco più della metà del cibo comprato al culmine della pandemia, mentre le donazioni dei negozi di alimentari e dei distributori sono diminuite e le aziende fermano le catene di approvvigionamento e riducono al minimo gli sprechi. Il Greater Chicago Food Depository, uno dei maggiori distributori di cibo alle dispense alimentari locali, prevede di ottenere quest’anno poco più di un terzo del cibo ricevuto dall’USDA durante l’anno fiscale 2021 (da luglio 2020 a giugno 2021).

E mentre le scorte di cibo si riducono, l’inflazione sta spingendo per la prima volta più americani verso le banche alimentari. Nell’area di Chicago hanno visto un aumento del 18% dei visitatori a luglio, rispetto a un anno prima. Eppure i buoni pasto costituivano meno del 2% della spesa del governo degli Stati Uniti nel 2022, secondo i dati del Tesoro. Nell’agosto 2022, l’agenzia ha annunciato un adeguamento del costo della vita a partire dal 1 ottobre, aumentando le assegnazioni mensili massime per una famiglia di quattro persone da 835 a 939 dollari al mese.

Ma molti di coloro che visitano le dispense alimentari lavorano ancora o beneficiano della previdenza sociale, cosa che li squalifica dai buoni pasto, come Michael Sukowski, un impiegato dell’amministrazione universitaria in pensione a cui stati tagliati i sussidi a causa di una pensione mensile che riceve dallo stato. “Con la previdenza sociale e una piccola pensione di 153 dollari al mese non vado lontano”, ha spiegato “la metà va per l’affitto. Poi ci sono le utenze.”

La dispensa alimentare di Nourishing Hope, che quest’anno ha visto un aumento del 40% dei visitatori, e altre banche alimentari ora acquistano più cibo a costi più elevati. Ciò ha portato a forniture modeste di alimenti di base come pane, carne e formaggio. “Il raccolto è stato esiguo, per così dire. Ma sono grata di aver avuto della roba”, ha detto Grace Melt mentre metteva i suoi prodotti alimentari in un carretto, preparandosi per un viaggio in autobus verso casa. “Talvolta devi venire in un posto come questo. A volte non ottieni niente”, ha spiegato. Pagine Esteri

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Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali


La crisi ucraina ha rilanciato in Africa la caccia ai combustibili fossili per sostituire quelli provenienti dalla Russia. Al prossimo vertice mondiale sul clima i paesi africani difenderanno il diritto allo sfruttamento delle proprie risorse contro il do

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.

L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili

In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.

Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.

Gas e petrolio: la sorpresa Africa

Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.

Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.

Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.

La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.

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Addio lotta al cambiamento climatico

È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.

Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.

Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.

Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.

Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse

I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.

Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.

Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue

Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.

Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.

Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.

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Proteste contro la Shell in Sudafrica

Combustibili fossili: opportunità o condanna?

Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.

Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri

2927651* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI:

agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…

theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…

eccoclimate.org/wp-content/upl…

iea.org/news/global-energy-cri…

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Ucraina: rien ne va plus


Ognuno guarda solo sé stesso, i propri piedi, fino al punto di spararcisi ... sui piedi. Ma a furia di rilanciare, si arriva ad un punto in cui non c’è più rilancio possibile. Ora, chiunque bluffi, chiunque, non ha più termini di bluff. E' il momento di trattare

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La grandezza del bastardo


Svante Pääbo Ci sono premi Nobel che lasciano indifferenti, talora dominati da una sorta di accademizzazione del politicamente corretto. Roba che si dimentica in fretta. Ce ne sono anche che portano sfortuna, specie se assegnati in un campo etereo come la

Svante Pääbo


Ci sono premi Nobel che lasciano indifferenti, talora dominati da una sorta di accademizzazione del politicamente corretto. Roba che si dimentica in fretta. Ce ne sono anche che portano sfortuna, specie se assegnati in un campo etereo come la “pace”, magari finendo a chi si rivelerà guerrafondaio o a chi si scoprirà pedofilo. Ce ne sono di importanti e meritati. E ce ne sono di affascianti. Come quello assegnato a Svante Pääbo.

La sua prima qualità non ha limiti anagrafici, ma è preziosa per i più giovani: la curiosità e lo spirito d’avventura negli studi. Si era appassionato all’egittologia, affascinato da un viaggio in Egitto, fatto da tredicenne. L’aveva scelta, all’università, per esplorare lo sconosciuto mondo dei faraoni.

Ma si era presto accorto che gli mancava l’avventura, che molte cose erano sconosciute solo a chi non le conosceva, mentre altre non sarebbe stato possibile conoscerle. Così si iscrisse a medicina. Completati gli studi, tornò dal suo vecchio professore di cose egizie: non è che si può avere un pezzettino di mummia? Ne estrasse il codice genetico e aprì una frontiera all’archeologia. Grazie a lui molte delle cose che non era possibile sapere, ora si sanno.

Ma anche gli egizi divennero un po’ troppo contemporanei. Perché non andare più indietro? Sapevamo d’essere discendenti degli ominidi e di avere convissuto, da Sapiens, per un certo tempo con i Neanderthal. Poi loro si sono estinti. Hanno perso. Noi ci siamo evoluti meglio. Sapevamo.

Ma usando il suo metodo di ricerca, indagando il dna, s’è scoperto che i Neanderthal non sono spariti, ma vivono dentro di noi. Perché c’è qualche fenomenale figlio di puttana che ha approfittato della crapula fra Sapiens e Neanderthal e ha trascinato in noi una parte di loro. Intanto l’uomo di Denisova, ulteriore filone da lui individuato, s’incrociava con altri Sapiens e li usava per sopravvivere alla propria estinzione. E noi siamo i vincenti perché siamo straordinari bastardi.

Altro che minchionerie da “razza superiore perché pura”, giacché, semmai, superiore, in salute e intelligenza, è il figlio di puttana. E la buona notizia è che lo siamo tutti. Anche se qualcuno esagera nell’approfittarne.

Davanti a tanta splendente meraviglia, qualcuno ha voluto farci sapere che Pääbo sarebbe o è “fluido”. Come se la postura e le compagnie nel talamo abbiano una qualche rilevanza sul pensiero e la capacità di pensare. Come se contassero i festini e non la “Teoria generale”, parlando di economia e Keynes.

E vabbè, tanto noi bastardi l’abbiamo capito: l’evoluzione non va per linea retta e sicura, curva e incespica, trascina con sé intelligenza e deficienza. E, nonostante talora si sia presi dallo sconforto, sono sicuro che questa roba del politicamente corretto e sessualmente monomaniacale è da considerarsi superabile. Ragionando e copulando, ciascuno come gli pare.

La Ragione

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La potenza spaziale della Cina spaventa


Secondo il rapporto del CSIS, le strutture spaziali cinesi in America Latina potrebbero essere strutture di spionaggio ai danni degli Stati Uniti

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Cap(itan) AmericaVia libera al price cap sul petrolio russo. Questo è quanto concordato questa mattina dagli ambasciatori dell’Ue nell’accordo raggiunto sull’ottavo pacchetto di sanzioni contro la Russia.


Ucraina: Elon Musk, l’Italia, e la pace impossibile


Fa una certa impressione constatare che l’unico 'piano di pace', oltre a quello un po’ naïf di Musk, sia stato partorito dal nostro Ministero degli Esteri

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ITS e Cyber Security, siglato l’accordo al Ministero dell’Istruzione. Al via la Rete di coordinamento per favorire lo sviluppo di un ecosistema nazionale per la formazione delle nuove competenze digitali, supportare la valorizzazione delle migliori e…


Putin è in un angolo?


Quanto è debole Vladimir Putin, sia in termini di sforzo per sconfiggere l'Ucraina che di capacità di mantenere il potere a Mosca? Proviamo dare una risposta ragionata

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In Iran, le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini dilagano nelle università e nelle scuole, e il velo è solo la punta dell’iceberg.


Kazakistan: il Presidente Tokayev sta continuando il corso strategico di Nursultan Nazarbayev?


Il 20 marzo 2019 il parlamento del Kazakistan ha votato all’unanimità per rinominare la sua capitale, Astana, in Nur-Sultan, in onore del suo ex presidente Nursultan Nazarbayev che si è dimesso il giorno prima. Questa modifica era stata messa ai voti su richiesta dell’allora presidente ad interim del Kazakistan, Kasym-Zhormart Tokayev. “Dobbiamo immortalare il suo […]

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ONU: il sistema di veto è davvero ingiusto?


Vari partiti sono stati frustrati dal potere di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il P5. Hanno sostenuto che questa barriera strutturale ha ostacolato molte proposte e considerazioni cruciali per il bene superiore del mondo. Rimane facile per le altre potenze individuare la causa e la colpa del potere […]

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La Russia si prepara a colpire le esportazioni di energia norvegesi, vitali per l’Europa?


Nonostante tutti i recenti discorsi sul fatto che il presidente russo Vladimir Putin potrebbe usare armi nucleari per mantenere il territorio ucraino, la Russia potrebbe aver già iniziato una guerra ibrida contro la Norvegia e il nord Europa, in particolare la Germania, per sfruttare il fabbisogno energetico dell’Europa nel prossimo inverno. Questa sembra la spiegazione […]

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Business Future under EU Green Taxonomy


Sustainable finance is one of the main pillars of the European Green Deal, since the European Commission recognises the key role of the private sector in financing the transition to Net Zero. To perform the EU’s 2030 climate and energy targets as well as

Sustainable finance is one of the main pillars of the European Green Deal, since the European Commission recognises the key role of the private sector in financing the transition to Net Zero. To perform the EU’s 2030 climate and energy targets as well as the objectives of the Green Deal, the Commission is labelling sustainable activities on an environmental point of view. By shaping a Taxonomy, the Commission provides a green gold standard to shift investments toward a low-carbon and climate-resilient economy, meanwhile contributing to help investors to avoid falling into green cover-up traps.

However, EU Taxonomy faces several challenges:

  • it has proven to be hard to define what is green without ambiguity and trade-off;
  • technologies are evolving rapidly making viable solutions that weren’t so only a couple of years ago;
  • it is complex for a company to collect standardised data and analytics to demonstrate its support to sustainable use and protection of water and marine resources.

In light of this, will the green certification act as a turbo-changer for a just and inclusive transition? Will the top-down taxonomy legislation gain general consensus? How to rebalance sustainable targets and benchmarks for the international businesses trading with European markets?

About the event


The event consists in a conference and presentation of the book “Business Future under EU Green Taxonomy”, published by the European Liberal Forum in cooperation with Fondazione Luigi Einaudi. The authors of the book, in front of an audience of experts and interested people on the topic, as well as media to ensure further coverage of the event and publication, will present their contributions contained in the book, contributing to the debate of a baseline regulation on sustainable finance and low-carbon activities, encouraging a reflection on any unintended consequence, raising a more comprehensive awareness among public and private businesses, and outlining recommendations for the implementation of EU Green Taxonomy. All this, with a focus on:

  • its investments implications especially in high emitters and polluting activities like energy, steel, cement, construction and manufacturing;
  • its capital costs effects;
  • its human and social impacts;
  • how it reflects on incentives policies (e.g., Just Transition Fund, Recovery and Resilience Fund) and possible distortive effects.

Speakers include:

  • Sarka Shoup, Author, Executive Director of the Institute for Politics and Society, and European Liberal Forum Board Member (online)
  • Patrizia Feletig, Journalist
  • Franco Becchis, Scientific Director of Fondazione per l’Ambiente
  • Sofia Santos, Sustainability economist
  • Andrea Sbandati, Environmental economist and consultant
  • Clara Bocchino, Human geographer, Turin School of Regulation
  • Gianni Bessi, Regional Councillor for Emilia-Romagna
  • Conference Moderator: Ricardo Silvestre

An event organised by the European Liberal Forum with the support of Fondazione Luigi Einaudi

An event organised by the European Liberal Forum (ELF). Co-funded by the European Parliament. The views expressed herein are those of the speaker(s) alone. These views do not necessarily reflect those of the European Parliament and/or the European Liberal Forum.

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Putin invierà russi mobilitati in Bielorussia per una nuova offensiva di Kiev?


La decisione di Vladimir Putin di ordinare la prima mobilitazione della Russia dalla seconda guerra mondiale sta alimentando i timori nella vicina Bielorussia che il Paese possa tornare a diventare un punto focale per l’invasione in corso dell’Ucraina. Con centinaia di migliaia di russi ora chiamati al servizio militare, crescono le preoccupazioni che Mosca possa […]

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2022 will be remembered as a watershed year for China. The upcoming 20th Congress of the Chinese Communist Party (CCP), held on the backdrop of the Ukraine war's dramatic global impact, will shape China’s policies for the next decade.


Brexit, il primo innesco dell’agonia economica del Regno Unito


Il governo Truss ha annunciato il ritiro del suo programma di mini-shock fiscale, ma ugualmente, e molto anche grazie a Brexit, stanno aumentando le probabilità di una recessione nei prossimi mesi

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Giustizia: Ercole Incalza, ‘il fatto non sussiste’ per 17 volte


Come canta l’intramontabile Vasco Rossi, “c’è qualcosa che non va / in questo cielo / c’è qualcuno / che non sa /più che ore sono…”. Ercole Incalza e’ un manager di lunga, sperimentata esperienza, tra l’altro alto ex dirigente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; incappato in disavventure giudiziarie, per ben diciassette volte e’ assolto. Ermes Antonucci […]

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"Come la Terra, Urano e Nettuno sono mondi blu. Nettuno, sul cui globo color del mare corrono nubi bianche, a un occhio distratto sembrerebbe perfino uno specchio del nostro pianeta. L’azzurro di questi pianeti però non è quello di un oceano, ma è la tinta delle tracce di metano all’interno di un’atmosfera gelida di idrogeno ed elio. A quasi 3 e 4,5 miliardi di km dal Sole, rispettivamente, le atmosfere di Urano e Nettuno oscillano tra i 220 e 230 gradi sotto zero: i pianeti più freddi del Sistema Solare."

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Concessioni ai casinò: il ruolo di ADM nella regolamentazione del settore


In Italia e in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, il settore del gioco d’azzardo è regolamentato. In Italia, l’organismo più importante nel settore è l’ADM, ovvero l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, che ha inglobato l’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato). L’ADM svolge un ruolo fondamentale nel mondo del gioco d’azzardo, che comprende […]

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Russia – USA: perché Elon Musk ha ragione


Musk ha ragione sul fatto che se le cose in Ucraina continuano lungo il loro corso attuale, gli Stati Uniti e la Russia sono diretti verso una collisione. L'approccio dell'America a questa tragica guerra in Ucraina richiede un adeguamento urgente, se non creativo

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Ten years after the start of the Malian crisis, political and security instability in the Sahel have changed in scale and nature, and spilled over across national frontiers.


AFGHANISTAN. Le donne in strada contro i talebani e per l’Iran


I Talebani hanno dimostrato di odiare in maniera particolare le manifestazioni guidate e composte per la maggior parte da donne. Hanno chiuso le studentesse nelle università e sbarrato le porte dei dormitori, picchiato le dimostranti e distrutto i cellula

di Eliana Riva –

Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 –

Donne, studentesse, giovani, hazare.

Le vittime dell’attentato che il 30 settembre in Afghanistan ha ucciso 53 persone sono quasi tutte ragazze tra i 18 e i 24 anni. Nell’istituto scolastico colpito, a Kabul, studiavano all’incirca 400 tra maschi e femmine, accuratamente separati in sezioni con aule e ingressi divisi. L’attentatore è entrato nella sezione femminile, dove si stava svolgendo una simulazione dell’esame di ammissione all’università e lì ha fatto strage.

Da quando sono ritornati al potere lo scorso anno, i Talebani hanno vietato alle ragazze di frequentare la scuola secondaria dopo il sesto anno, hanno obbligato le donne ad utilizzare il velo, interdetto lo svolgimento da parte loro di molti lavori del settore pubblico e fatto divieto di percorrere più di 70 chilometri senza l’accompagnamento di un parente maschio.

Ma le università, seppur divise per sessi, possono ancora essere frequentate dalle donne. E questo era il sogno e la speranza delle giovani studentesse uccise nell’attentato.

Sono seguite proteste in varie città dell’Afghanistan, di donne soprattutto, con qualche uomo al loro fianco.

More and more brave women coming out in Afghanistan as well as Iran t.co/NSGszs9W7o

— christinalamb (@christinalamb) October 3, 2022

I Talebani hanno dimostrato di odiare in maniera particolare le manifestazioni guidate e composte per la maggior parte da donne: hanno tentato di impedire la partecipazione ai cortei, sbarrando le uscite delle università (come la Balkh University a Mazar-i-Sharif) e chiudendo i giovani nei propri dormitori. Numerosi video pubblicati sui social riprendono ragazze nel tentativo di abbattere porte o di uscire dalle finestre.

Ma non basta questo a spiegare la limitata partecipazione ai cortei, ben lontani da rappresentare quella immensa fiumana necessaria per operare una pressione che sia percettibile al governo talebano. La cui risposta è stata come sempre molto dura: le autorità giustificano gli spari in aria, le violenze e la repressione con ragioni di ordine pubblico e di sicurezza. Le manifestanti sono regolarmente aggredite e sempre più spesso le forze armate distruggono dispositivi elettronici e smarphone, unica camera e unico microfono in grado di documentare. Nulla, però, in confronto alla repressione in Iran, dove le autorità hanno fatto uso di armi da guerra per disperdere le folle, sono state uccise almeno 154 persone e arrestate a centinaia. Tutto questo ha indebolito le proteste ma non è riuscito a spegnerle: stanno nascendo in questi giorni a Teheran ma non solo nuove forme di protesta, cortei improvvisati di automobili, canzoni di rabbia dalle finestre dei quartieri.

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Donne Afghane in protesta il 13 agosto 2022

La posizione ufficiale dei Talebani è che le manifestazioni tenutesi nelle diverse città dell’Afghanistan non sono state correttamente comunicate alle autorità preposte. La realtà è che gli spazi in cui i talebani consentirebbero lo svolgersi di tali manifestazioni sono lontani dai centri delle città, piccoli e isolati. Senza contare che anche le manifestazioni tenutesi con regolare comunicazione sono state attaccate dalle forze di sicurezza governative.

Ciò che sta accadendo in Iran, le proteste successive all’uccisione di Mahsa Amini, ha innescato una importante scintilla, che ha riportato nelle piazze, cosa che era già accaduta nella prima metà di agosto, alcune decine, forse un centinaio di donne, prima ancora dell’attentato terroristico. Lo scorso 29 settembre sono arrivate a manifestare sotto l’ambasciata iraniana a Kabul, in solidarietà con le dimostranti iraniane, prima di essere disperse dai talebani.

Brave women of #Afghanistan continue to protest against the strict Taliban rule on the streets of Kabul pic.twitter.com/D4uzrGqvmH

— Oliver Marsden (@OliverGMarsden) August 13, 2022

Le proteste degli ultimi giorni chiedono sicurezza per la comunità Hazara, sciita, obiettivo di attacchi e attentati ad opera dell’Islamic State Khorasan, conosciuto come gruppo ISIS-K, sunnita. Ma domandano anche la riapertura delle scuole femminili chiuse dai talebani e il ripristino dell’accesso ai settori dell’istruzione e a tutti i campi lavorativi.

Purtroppo, però, l’attentato potrebbe in parte aver raggiunto il suo scopo: molte famiglie decideranno, per paura, di impedire alle proprie figlie a sostenere l’esame di accesso universitario, obbligandole così a terminare di colpo il percorso di studi.

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Oggi è la Giornata Mondiale degli insegnanti.

Questo il messaggio del Ministro Patrizio Bianchi: “Nella Giornata mondiale degli Insegnanti voglio ringraziare tutti i nostri docenti, che, in quest'epoca digitale, sono sempre di più persone di riferim…



Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali


La crisi ucraina ha rilanciato in Africa la caccia ai combustibili fossili per sostituire quelli provenienti dalla Russia. Al prossimo vertice mondiale sul clima i paesi africani difenderanno il diritto allo sfruttamento delle proprie risorse contro il do

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.

L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili

In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.

Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.

Gas e petrolio: la sorpresa Africa

Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.

Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.

Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.

La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.

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Addio lotta al cambiamento climatico

È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.

Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.

Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.

Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.

Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse

I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.

Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.

Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue

Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.

Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.

Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.

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Proteste contro la Shell in Sudafrica

Combustibili fossili: opportunità o condanna?

Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.

Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri

2912008* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI:

agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…

theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…

eccoclimate.org/wp-content/upl…

iea.org/news/global-energy-cri…

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La storia di Rayan. «Ucciso dallo spavento quando i soldati sono entrati in casa»


« Mio nipote ha urlato impaurito quando ha visto i soldati israeliani, poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più» ha raccontato lo zio gli ultimi istanti di vita del bambino palestines

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – «Quando Yasser, il papà di Rayan, ha aperto la porta di casa e i soldati (israeliani) sono entrati, c’è stato un forte trambusto. Il bambino forse temeva di essere arrestato perché i militari cercavano i ragazzi della scuola che avevano lanciato sassi alle auto israeliane. Rayan ha urlato impaurito poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più». Questo è il racconto che Mohammed Suleiman ha fatto della morte di suo nipote Rayan Suleiman, 7 anni, «ucciso dallo spavento» ieri a Taqua, il villaggio a qualche chilometro a Betlemme dove i militari hanno fatto irruzione in diverse case alla ricerca dei ragazzi della scuola elementare «Al-Khansa» che poco prima avevano preso di mira con lanci di pietre i coloni israeliani che transitano in macchina da quelle parti. Una morte per infarto – i medici dell’ospedale di Beit Jala hanno fatto il possibile per salvare la vita di Rayan – che ha generato grossa impressione nella Cisgiordania occupata dove la tensione, la rabbia e la frustrazione hanno toccato a livelli mai raggiunti in questi ultimi anni a causa delle incursioni israeliane, quasi quotidiane, in particolare a Jenin e Nablus.

L’esercito israeliano ha confermato che un ufficiale ha interrogato il padre di Rayan, così come molti altri genitori palestinesi sul presunto coinvolgimento dei loro figli nel lancio di sassi. Ma sostiene che non ci sono stati incidenti durante le indagini e che le truppe non hanno impiegato alcuna misura antisommossa, come i gas lacrimogeni, e che non esisterebbe «alcun collegamento tra la morte del bambino e i controlli nell’area». Testimoni palestinesi però insistono che i soldati si sono lanciati all’inseguimento dei ragazzi della scuola di Taqua tanto che all’inizio si era diffusa la voce che Rayan fosse morto cadendo da alcuni metri di altezza mentre cercava di fuggire.

Per i palestinesi il bambino è il 159esimo «martire» dall’inizio dell’anno in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Morti, molti dei quali combattenti armati, che in gran parte si concentrano negli ultimi sei mesi, da quando Israele ha lanciato in Cisgiordania l’operazione militare «Break the wave» in reazione agli attentati della scorsa primavera compiuti da palestinesi giunti da Jenin che hanno causato 18 morti a Tel Aviv e altre città israeliane. L’operazione si è intensificata negli ultimi mesi e alcuni la vedono in qualche modo collegata alla campagna di immagine del premier Yair Lapid per le elezioni legislative del primo novembre, così come quella di inizio agosto a Gaza contro il Jihad islami (49 morti palestinesi, tra cui 17 bambini).

Ad aggravare il clima generale sono anche le condizioni del prigioniero politico Nasser Abu Hamid, del campo di Al-Amari (Ramallah), ammalato di cancro e al quale i medici danno pochi giorni di vita ma che non è stato ancora scarcerato. In prigione resta anche l’avvocato per i diritti umani Salah Hamouri che ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione senza accusa da parte di Israele. Hamouri fu arrestato il 7 marzo a Kufr Aqab e da allora è rimasto in detenzione amministrativa, ossia senza accuse e un processo, che può essere rinnovata a tempo indeterminato. L’avvocato è tra i 30 prigionieri politici palestinesi in carcere senza processo che domenica hanno iniziato un digiuno in segno di protesta.

Intanto la visione di Israele non come Stato ebraico ma come «Stato di tutti i suoi cittadini» è costata la squalifica al partito arabo Balad/Tajammo, escluso ieri dalle votazioni del primo novembre dalla Commissione elettorale centrale. La squalifica era stata richiesta dal Likud dell’ex premier Netanyahu ma è stata sostenuta anche dal ministro della difesa Benny Gantz. Il leader di Balad/Tajammo, Sami Abu Shahadeh, ha annunciato che presenterà ricorso contro la decisione che potrebbe essere ribaltata dalla Corte suprema nei prossimi giorni. Nessun problema invece per le formazioni di estrema destra Sionismo religioso e Otzma Yehudit che pure non pochi israeliani accusano di razzismo.

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GAZA. Boxe contro l’assedio. Il pugilato come occasione di riscatto ed emancipazione


Un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato sotto la guida tecnica di Osama Ayoub, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello. L

testo e foto di Daniele Napolitano

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – La Striscia di Gaza è lunga 347km quadrati e con i suoi 2 milioni di abitanti, ha la densità abitativa più alta al mondo. Può contare su poche ore di elettricità al giorno, ha enormi problemi ambientali, scarsa acqua potabile. Secondo le Nazioni unite dal 2020 è una “terra invivibile”. Senza dimenticare le conseguenze che hanno causato, oltre a migliaia di morti e feriti, le ampie offensive militari lanciate da Israele dal 2008 allo scorso agosto.

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Ed è in questo contesto che un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato allestita con sacchi e corde di fortuna.

Capitanate da Osama Ayoub, giovane tecnico locale, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello, le ragazze sognano di poter competere con atlete di altri paesi, cosa che non è concessa visto lo stato di occupazione che Gaza subisce.

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Boxe contro L’assedio è un progetto di scambio e condivisione sportiva nato nel 2018, che utilizza lo sport come strumento di miglioramento e riscatto personale e sociale, ma anche come modo per arrivare oltre il muro di Gaza, il carcere a cielo aperto più grande al mondo.

Grazie a questo progetto, in 4 anni, abbiamo costruito diverse occasioni di scambio con gli atleti e le atlete romane e palestinesi, consegnato decine di guanti e attrezzatura, aperto una piccola palestra di pugilato e molto altro ancora.

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Nonostante lo stop dovuto alla pandemia, In questi lunghi mesi siamo rimasti in contatto con la federazione di pugilato palestinese, ma soprattutto con Coach Osama, che ogni giorno allena un gruppo di ragazze giovanissime all’interno della piccola palestra popolare che abbiamo aperto con lui.

Il pugilato come occasione di riscatto, strumento di condivisione ed emancipazione, che è soprattutto un modo per raccontare una Gaza diversa da quella che la vede soccombere sotto le macerie, una Gaza che vuole rimanere viva, che lotta grazie allo sport, linguaggio universale che da sempre unisce e supera barriere.

Le foto sono realizzate nel periodo tra il 9 e il 15 settembre 2022.

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Ponte sullo Stretto: il mostro è riemerso in campagna elettorale (RETTIFICA)


ANTONIO MAZZEO: Mi duole di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore. L'artico

RETTIFICA ALL’ARTICOLO PUBBLICATO IL 19 SETTEMBRE 2022

Nel prendere atto della missiva del legale del dott. Fortunato Vincenzo, da me citato nell’articolo sul Ponte sullo Stretto pubblicato da Pagine Esteri, esprimo il mio sincero rammarico per quanto contestatomi. Tengo a sottolineare che nell’articolo il dottor Fortunato non è oggetto di alcun commento diffamatorio ma gli viene solo erroneamente attribuito l’incarico di “commissario liquidatore” della Società Stretto di Messina, incarico pubblico-governativo. Mi duole tantissimo di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma è del tutto evidente che non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore.

Ho provveduto ad eliminare dall’articolo sopracitato il riferimento agli incarichi del professionista erroneamente citato e ho accolgo richiesta di rettifica.

Ringraziando per l’attenzione

Antonio Mazzeo

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Il tigroso Letta a Congresso


Possibile che a questi geni della sconfitta non sia venuto in mente che l’unico modo per salvare il PD è fare idee, avere idee, discutere di idee, confrontare e confrontarsi sulle idee?!

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Fr.#10 / k e y w o r d s


Nel frammento di oggi: Keywords warrants e geofencing / Partnership tra UN e Google per la censura / Selezione dei migliori interventi della Privacy Week 2022 / Meme e citazione del giorno.

Parole chiave


La scorsa settimana, durante una causa relativa a un’indagine su un caso di violenza sessuale, sono stati diffusi in udienza alcuni documenti che accidentalmente hanno mostrato un nuovo tipo di mandato delle forze dell’ordine: il “keywords warrant”, o “reverse search warrant”.

Il keyword warrant consiste in questo: nell’ambito di un’indagine le forze dell’ordine possono chiedere a Google (o altri motori di ricerca) di fornire dati identificativi di tutti gli utenti che nei giorni precedenti al reato hanno cercato sul motore di ricerca parole chiave come il nome della vittima, il suo indirizzo, il nome dei familiari, e altre parole che possano indicare un qualche tipo di connessione.

Insieme ai dati relativi alle query il motore di ricerca può fornire anche ulteriori informazioni, come gli indirizzi IP delle persone, i loro account Google e perfino i CookieID - quel codice univoco che identifica un utente nel network di advertising di Google.

Ad oggi risultano pubblici solo altri due casi di utilizzo di questo tipo di mandato, uno nel 2020 e un altro nel 2017, rispettivamente per indagini su un incendio doloso e una truffa.

La particolarità del keyword warrant è che ribalta i normali principi di funzionamento della giustizia. Se le forze dell’ordine volessero ottenere dati relativi a una specifica persona sospettata di aver commesso un reato, dovrebbero prima ottenere l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Viceversa, con questo tipo di mandato possono ottenere i dati di chiunque abbia fatto un certo tipo di ricerca in un determinato momento - aggirando così le tutele giuridiche delle persone coinvolte.

Oltretutto, il keyword warrant si presta bene per diventare uno strumento di sorveglianza e censura politica di massa, che sotto il cappello della lotta al terrorismo (ampissimo, specie negli Stati Uniti) e agli “estremismi” può trovare terreno molto fertile in questo periodo.

Ricorda: tutto ciò che scrivi sarà usato contro di te.

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Un’attività simile al keyword warrant è il geofence warrant. Il geofence warrant segue la stessa logica del keywords warrant, ma ha a che fare con i dati di localizzazione invece che con le parole chiave ricercate. Le autorità possono chiedere a Google di consegnare dati identificativi e di localizzazione di chiunque abbia transitato in una specifica zona in un determinato periodo di tempo, attraverso i dati raccolti con Google Maps.

Al contrario del keyword warrant questa è un’attività molto usata dalle autorità statunitensi. Secondo un recente rapporto di Google il geofence warrant rappresenta circa 1/4 di tutte le richieste ricevute ogni anno dal gigante della Big tech.

I risultati in entrambi i casi sono gli stessi: una grande operazione di pesca a strascico che rischia di intrappolare nella rete delle indagini persone innocenti che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato; o che hanno cercato la parola sbagliata la momento sbagliato.

Censura delle ricerche e scienza…


Sempre sulla falsa riga del tema delle ricerche sui motori di ricerca, ieri il noto sito ZeroHedge ha pubblicato una notizia in cui si riportano alcune dichiarazioni di Melissa Fleming, UN’s Under-Secretary-General for Global Communications fatte durante un’intervista, proprio sul tema delle ricerche sui motori come Google.

Trascrivo qui l’intervista:

“We partnered with Google […] for example if you Google “climate change”, at the top fo your search you’ll get all kinds of UN resources. When we started this partnership we were shocked to see that we were getting incredibly distorted information right at the top…so we’re becoming much more proactive…We own the science, and we think that the world should know it, and the platforms themselves also do.”

Le piattaforme sono da tempo chiamate a confermare la narrativa prevalente in materia di tanti temi scientifici (e non), censurando i risultati che in qualche modo deviano dall’opinione prevalente. Il nostro mondo e la nostra percezione non si fonda più su ciò che è oggettivo, ma su ciò che è politicamente conveniente. Abbiamo sostituito la realtà con l’opinione, in balia di un pugno di persone che possono modificare la nostra percezione del mondo in tempo reale.

Un breve recap della Privacy Week 2022


La Privacy Week è giunta alla conclusione, dopo cinque giorni intensi, con centinaia di speaker e dozzine di interventi fantastici e occasioni di networking.

2909250www.privacyweek.it

Molti di voi hanno scoperto la Privacy Week quest’anno, grazie al salto di qualità comunicativa e organizzativa che siamo riusciti a fare dopo il primo esperimento dello scorso anno. Spero che il prossimo anno si riesca a migliorare ancora questo evento che vorrebbe davvero diventare il punto di riferimento per parlare di privacy, cybersecurity e nuove tecnologie.

Chi non ha potuto partecipare a Milano o seguire lo streaming in diretta non deve preoccuparsi! Tutti gli eventi sono disponibili on-demand sul sito.

Visto però che sono così tanti, ho pensato di fare una selezione di quelli che mi sono piaciuti di più (ma sono davvero tutti interessanti, sfogliate il catalogo):

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Meme del giorno


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The right to agree with others is not a problem in any society; it is the right to disagree that is crucial

- Ayn Rand


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Nazionalizzare la produzione dei semiconduttori è un’ambizione scheggiata


Le interruzioni causate dalla pandemia di COVID-19 hanno limitato la fornitura e aumentato il costo dei semiconduttori. Uno degli impatti più evidenti della carenza di chip è stato sul settore automobilistico. Il ripristino di una parvenza di normalità all’interno della catena di approvvigionamento dei semiconduttori, come risultato di questa e di carenze simili, è passato […]

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