Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.
L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili
In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.
Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.
Gas e petrolio: la sorpresa Africa
Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.
Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.
Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.
La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.
Addio lotta al cambiamento climatico
È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.
Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.
Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.
Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.
Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse
I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.
Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.
Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue
Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.
Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.
Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.
Proteste contro la Shell in Sudafrica
Combustibili fossili: opportunità o condanna?
Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.
Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI:
agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…
theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…
eccoclimate.org/wp-content/upl…
iea.org/news/global-energy-cri…
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ITS Academy, registrato alla Corte dei Conti il riparto dei fondi stanziati agli Istituti Tecnologici Superiori per l’anno scolastico 2022/2023.
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Undicesimo comandamento: tu non violerai i confini altrui
Articolo ad uso di chi ama comprendere i problemi della pace e della guerra, senza i quali invocare la pace è come chiedere ad Alex DeLarge di rispettare gli scrittori e le loro mogli.
Per capire esattamente quale sia uno dei tanti problemi della guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina, oltre ai devastanti costi umani per ucraini, russi e cittadini di paesi terzi, dobbiamo tornare ai fondamentali del diritto internazionale costituito dopo il 1945.
Con l’istituzione delle Nazioni Unite le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, compresa l’Unione Sovietica, predecessore della Russia, stabilirono due suoi principi fondamentali: il rifiuto della guerra di aggressione, neanche nella forma dell’attacco preventivo difensivo, e l’illegalità dell’uso della forza per modificare i confini internazionali.
L’articolo 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite dice: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”
Il divieto si estende anche alla minaccia della violenza per conseguire scopi incompatibili con le Nazioni Unite che, ricordiamo, sono la pace, la sicurezza di ogni membro e un sistema internazionale fondato sul diritto e la giustizia.
Unica deroga a questo divieto assoluto è il diritto di autotutela, individuale o collettivo, riconosciuto ad ogni membro dell’ONU dall’articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.”
Questi principi sono stati assorbiti anche dalla nostra Carta Costituzionale che all’articolo 11 afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Si trattava di una prospettiva rivoluzionaria, impensabile fino a quel momento, che andava contro millenni di violenza legittima da parte di uno Stato contro un altro. Dal 1945 si cambia: annettere uno Stato, mutilarlo, spartirlo, non è più legalmente consentito.
E il bello è che il sistema ha funzionato.
Sento già proteste di incredulità. E le guerre che hanno devastato il mondo? Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, le minacce della Cina a Taiwan, gli scontri tra India e Pakistan? È innegabile che la violenza abbia continuato a infestare il mondo, eppure, il numero delle guerre, la loro intensità e il numero delle vittime sono costantemente diminuiti. L’ultima guerra tra grandi potenze è stata quella di Corea, in cui si fronteggiarono direttamente soldati degli Stati Uniti e della Cina Popolare.
Gran parte dei conflitti armati dal 1945 ad oggi sono state guerre civili, mentre quelle fra stati hanno avuto scopi limitati, senza pretesa di distruggere l’avversario o di modificarne i confini internazionalmente riconosciuti. I confini dell’America Latina sono immutati da un secolo. Quelli dell’Africa non sono stati modificati se non per la secessione di Sud Sudan ed Eritrea. Anche in Asia i confini sono quasi immutati, con la drammatica eccezione dell’ancora fluida situazione tra l’India e i paesi limitrofi, Cina e Pakistan. L’unica drammatica eccezione sono le guerre arabo-israeliane che si ponevano l’obiettivo di cancellare lo Stato israeliano. È vero inoltre che molti dei conflitti sono scaturiti dalla pretesa di alcuni Stati di imporre un regime politico ad un altro, come frequentemente accaduto in America Latina da parte degli Stati Uniti, in contravvenzione con i principi dello Statuto dell’ONU.
Tuttavia, nel 2008 qualcosa è cambiato.
La guerra lampo del gigante russo contro la Georgia si è conclusa con la mutilazione del territorio dell’Abkhazia, a cui è seguita nel 2014 l’occupazione illegale della Crimea, con referendum privi di ogni minima legittimità e trasparenza. Per la prima volta dal 1945 uno Stato si arrogava il diritto di impossessarsi con la forza di un territorio altrui, senza neppure tentare la strada dell’accordo, qualcosa che neppure l’URSS aveva osato fare, pur non avendo mai esitato ad usare le maniere forti con vicini e vassalli.
L’attacco del 24 febbraio della Russia contro l’Ucraina e l’annessione illegale alla Russia di quattro province ucraine, avvenuta il 30 settembre. rappresentano gravissime violazioni del diritto internazionale sotto tre punti: uso della forza per risolvere una controversia internazionale; tentativo di eliminare l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano; modifica unilaterale dei confini internazionalmente riconosciuti.
Ciò che è cambiato è il fatto che la Russia tenti nuovamente di legittimare l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Di nuovo, nessuno nega gli arbitrii e le violenze commesse da tutte le grandi potenze, dietro pretesti spesso risibili e comunque illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Ma nessuno prima di Putin si era spinto finora a cancellare con un tratto di cingolati i principii cardini della sicurezza collettiva.
La paura è la prima fonte di instabilità. Paura delle piccole potenze verso le grandi. Paura che genera la ricerca di protettori e scatena il riarmo. Non abbiamo bisogno di tutto questo. Ove i principi di rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni venissero cancellati, si aprirebbe un periodo di forte instabilità, in cui anche l’Europa finirebbe per essere investita. Non dimentichiamo, infatti, che alcuni confini internazionali, pensiamo al Kosovo, non sono ancora pienamente riconosciuti.
Quindi, di nuovo, fermare la Russia non è solo nell’interesse delle democrazie occidentali, ma di tutto il mondo, per evitare di ritornare all’infinita serie di lutti da cui nessuno esce mai vincitore.
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Undicesimo comandamento: tu non violerai i confini altrui
Articolo ad uso di chi ama comprendere i problemi della pace e della guerra, senza i quali invocare la pace è come chiedere ad Alex DeLarge di rispettare gli scrittori e le loro mogli.
Per capire esattamente quale sia uno dei tanti problemi della guerra scatenata dalla Russia all’Ucraina, oltre ai devastanti costi umani per ucraini, russi e cittadini di paesi terzi, dobbiamo tornare ai fondamentali del diritto internazionale costituito dopo il 1945.
Con l’istituzione delle Nazioni Unite le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, compresa l’Unione Sovietica, predecessore della Russia, stabilirono due suoi principi fondamentali: il rifiuto della guerra di aggressione, neanche nella forma dell’attacco preventivo difensivo, e l’illegalità dell’uso della forza per modificare i confini internazionali.
L’articolo 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite dice: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”
Il divieto si estende anche alla minaccia della violenza per conseguire scopi incompatibili con le Nazioni Unite che, ricordiamo, sono la pace, la sicurezza di ogni membro e un sistema internazionale fondato sul diritto e la giustizia.
Unica deroga a questo divieto assoluto è il diritto di autotutela, individuale o collettivo, riconosciuto ad ogni membro dell’ONU dall’articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.”
Questi principi sono stati assorbiti anche dalla nostra Carta Costituzionale che all’articolo 11 afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Si trattava di una prospettiva rivoluzionaria, impensabile fino a quel momento, che andava contro millenni di violenza legittima da parte di uno Stato contro un altro. Dal 1945 si cambia: annettere uno Stato, mutilarlo, spartirlo, non è più legalmente consentito.
E il bello è che il sistema ha funzionato.
Sento già proteste di incredulità. E le guerre che hanno devastato il mondo? Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, le minacce della Cina a Taiwan, gli scontri tra India e Pakistan? È innegabile che la violenza abbia continuato a infestare il mondo, eppure, il numero delle guerre, la loro intensità e il numero delle vittime sono costantemente diminuiti. L’ultima guerra tra grandi potenze è stata quella di Corea, in cui si fronteggiarono direttamente soldati degli Stati Uniti e della Cina Popolare.
Gran parte dei conflitti armati dal 1945 ad oggi sono state guerre civili, mentre quelle fra stati hanno avuto scopi limitati, senza pretesa di distruggere l’avversario o di modificarne i confini internazionalmente riconosciuti. I confini dell’America Latina sono immutati da un secolo. Quelli dell’Africa non sono stati modificati se non per la secessione di Sud Sudan ed Eritrea. Anche in Asia i confini sono quasi immutati, con la drammatica eccezione dell’ancora fluida situazione tra l’India e i paesi limitrofi, Cina e Pakistan. L’unica drammatica eccezione sono le guerre arabo-israeliane che si ponevano l’obiettivo di cancellare lo Stato israeliano. È vero inoltre che molti dei conflitti sono scaturiti dalla pretesa di alcuni Stati di imporre un regime politico ad un altro, come frequentemente accaduto in America Latina da parte degli Stati Uniti, in contravvenzione con i principi dello Statuto dell’ONU.
Tuttavia, nel 2008 qualcosa è cambiato.
La guerra lampo del gigante russo contro la Georgia si è conclusa con la mutilazione del territorio dell’Abkhazia, a cui è seguita nel 2014 l’occupazione illegale della Crimea, con referendum privi di ogni minima legittimità e trasparenza. Per la prima volta dal 1945 uno Stato si arrogava il diritto di impossessarsi con la forza di un territorio altrui, senza neppure tentare la strada dell’accordo, qualcosa che neppure l’URSS aveva osato fare, pur non avendo mai esitato ad usare le maniere forti con vicini e vassalli.
L’attacco del 24 febbraio della Russia contro l’Ucraina e l’annessione illegale alla Russia di quattro province ucraine, avvenuta il 30 settembre. rappresentano gravissime violazioni del diritto internazionale sotto tre punti: uso della forza per risolvere una controversia internazionale; tentativo di eliminare l’indipendenza politica di un altro Stato sovrano; modifica unilaterale dei confini internazionalmente riconosciuti.
Ciò che è cambiato è il fatto che la Russia tenti nuovamente di legittimare l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Di nuovo, nessuno nega gli arbitrii e le violenze commesse da tutte le grandi potenze, dietro pretesti spesso risibili e comunque illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Ma nessuno prima di Putin si era spinto finora a cancellare con un tratto di cingolati i principii cardini della sicurezza collettiva.
La paura è la prima fonte di instabilità. Paura delle piccole potenze verso le grandi. Paura che genera la ricerca di protettori e scatena il riarmo. Non abbiamo bisogno di tutto questo. Ove i principi di rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni venissero cancellati, si aprirebbe un periodo di forte instabilità, in cui anche l’Europa finirebbe per essere investita. Non dimentichiamo, infatti, che alcuni confini internazionali, pensiamo al Kosovo, non sono ancora pienamente riconosciuti.
Quindi, di nuovo, fermare la Russia non è solo nell’interesse delle democrazie occidentali, ma di tutto il mondo, per evitare di ritornare all’infinita serie di lutti da cui nessuno esce mai vincitore.
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Interventi e finanziamenti nel campo delle minoranze linguistiche: le Istituzioni scolastiche situate in ambiti territoriali in cui si applicano le disposizioni di tutela potranno candidarsi entro il 31 ottobre 2022.
twitter.com/fpietrosanti/statu…
https://twitter.com/fpietrosanti/status/1578418016014192640
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#EFF ha saputo che un broker di dati ha venduto dati grezzi sulla posizione di singole persone alle forze dell'ordine federali, statali e locali.
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Inside Fog Data Science, the Secretive Company Selling Mass Surveillance to Local Police
A data broker has been selling raw location data about individual people to federal, state, and local law enforcement agencies, EFF has learned.Electronic Frontier Foundation
Dove va la geopolitica italiana sotto Giorgia Meloni?
Il 26 settembre è stato un grande giorno per l’Italia, in quanto ha segnato la prima vera elezione politica dalla “commissariazzazione” del 2011 della politica italiana. E per la prima volta da anni, il governo neoeletto ha una maggioranza chiara e coerente, il che suggerisce che sarà più stabile dei suoi predecessori. L’onorevole Giorgia Meloni […]
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Gas e vincoli
Perché essere realisti e riconoscere l’inviolabile vincolo dell’Unione Europea è il modo migliore di difendere i giusti interessi nazionali
A Praga, si sono incontrati i Capi di Stato e di Governo dei paesi dell’Unione Europea. Prima che si inizi a parlare di fallimento ed Europa spaccata – argomenti quasi totalmente privi di senso della realtà – è bene ricordare che quello di oggi è un incontro informale.
L’appuntamento formale del Consiglio Europeo è il 20 e il 21 ottobre prossimi. Lì si conta e si spera di portare a casa delle decisioni. Per capire quali decisioni saranno, quali possono essere utili e quali scenari si aprono bisogna tenere presenti due cose.
La prima: tutto ciò deriva dalla straordinaria unità e determinazione dimostrata dall’Unione Europea dinnanzi alla criminale aggressione russa all’Ucraina, non dalle spaccature. È bene ricordare che, assieme al primo pacchetto di sanzioni varato dall’Unione Europea, si decise anche – per voce e mano tedesca – di chiudere per sempre il capitolo di Nord Stream 2.
Questo è costato alla Germania sia in termini economici, sia in termini di forza strategica, perché i Paesi più colpiti non possono che essere i Paesi più industrializzati. La Germania è la prima potenza industriale d’Europa e l’Italia la seconda. La nostra energia dipende più di quella della Germania dal gas, ma la parte del gas che prendono i tedeschi è prevalentemente russa.
I tedeschi sono stati fino ad ora un hub continentale del gas, proprio perché erano lì le terminazioni dei gasdotti russi. Noi potremmo esserlo nel Mediterraneo, perché abbiamo già gasdotti che arrivano via mare e ne avremo di più un domani.
È questo il contesto dell’unità, in cui, inevitabilmente e giustamente, ci sono anche interessi da contemperare. Tuttavia, sostenere che nessuno ha voluto l’unità oppure che non si è mediato fra gli interessi è una corbelleria.
La seconda cosa è che un po’ con l’atteggiamento piagnucoloso dalle nostre parti si sostiene che l’Europa non stia facendo granché e si chiede di mettere il tetto al gas. A parte che c’è già, perché, forse è sfuggito, ma sopra una determinata cifra di prezzo le compagnie che vendono devono essere tassate. Quindi c’è già un vincolo interno.
Si va verso l’acquirente unico, che è più rilevante e più importante del tetto del gas. Il tetto del gas sarà comunque transitorio. Secondo me, ci arriveremo, ma sarà comunque transitorio. Invece, l’acquirente unico può diventare permanente e questo influirà molto di più sul prezzo del gas in condizioni normali, perché noi torneremo alle condizioni normali. Entro il 24, saremo totalmente affrancati dal gas che proviene dalla Russia.
Ad ogni modo, ci si ricordi anche che l’Unione Europea esiste e ogni volta che si prendono e si chiedono delle integrazioni e degli aiuti si contraggono dei vincoli e dei legami. Non si può pensare di essere dentro un alveo nel quale arrivano i soldi, ci sono le difese monetarie, c’è un mercato unico che è per noi il 60% delle nostre esportazioni, ma non ci sono doveri. Più chiedo che l’Unione provveda più sto trasferendo sovranità. Questo deve essere chiaro subito, perché, altrimenti, questo è un Paese che continua ad essere schizofrenico: ossia a chiedere la soluzione all’Europa, per poi dire che si è concesso troppo.
Questo è un atteggiamento molto sciocco: essere realisti, stare con i piedi per terra e riconoscere l’inviolabile vincolo dell’Unione Europea è il modo migliore, più saggio e più razionale di difendere i giusti interessi nazionali.
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NOPEC: come mettere sotto accusa Arabia Saudita e compagni
Cos'è, come funziona, quali i pro e i contro della legislazione che potrebbe citare in giudizio i produttori petroliferi dell'OPEC. Di mezzo le relazioni Stati Uniti - Arabia Saudita che potrebbero essere totalmente sconvolte
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Russia: tra mobilitazione parziale e rischio atomico
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) La guerra d’invasione del 24 febbraio del 2022 da parte della Russia in Ucraina doveva essere una guerra […]
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Se tutto è sociale, niente è sociale: falso, se valutiamo l’impatto!
Ci sono delle parole che si ripetono come se fossero un mantra: una di queste è ‘sociale’. Infatti, l’aggettivo o il concetto di ‘sociale’ non si nega a nessuno. Però per non banalizzare bisogna valutare e misurare, altrimenti si rischia il ‘bla, bla’ narrativo e non si verifica la ricaduta reale. I tecnici potrebbero dire: […]
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Masochismo
Si stia attenti a non danneggiarci da soli. Il masochismo può essere affascinante se un soggetto singolo gode con il dolore e la sottomissione. È escluso che sia una vocazione collettiva. I fatti prevalgano sulle chiacchiere, che cercando scuse sembrano scontare fallimenti: non ci sono ritardi italiani negli adempimenti previsti dal Pnrr. Non è un’opinione, ma un fatto, visto che già due controlli sono stati superati e i relativi soldi incassati.
Il governo in carica sostiene che non ci siano ritardi neanche per il prossimo controllo, che è stato fatto quanto dovuto e quel che resta da fare è programmato per le prossime settimane. Su questo si possono avere opinioni diverse, ma i denunciatori di inadempimenti sarebbero fessi più che masochisti.
Primo, perché la gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento sono non solo parte della vecchia maggioranza, ma hanno ministri all’interno del governo, sicché sostenerne l’incapacità e la scorrettezza è come denunciarsi corresponsabili. Secondo, perché il partito che guiderà il prossimo governo è stato all’opposizione e non può essere chiamato alla corresponsabilità, ma ove sostenesse che l’Italia sta mancando ai propri doveri non farebbe che affondare sé stesso e il governo che deve ancora nascere. Più che masochismo sarebbe autodistruzione.
Non prendiamoci in giro e veniamo al dunque: i vincitori delle elezioni hanno sostenuto che il Pnrr dovesse essere rivisto e si sono opposti ad alcune delle riforme in quello previste; nel corso della campagna elettorale e nei giorni successivi al voto gli oppositori di ieri hanno adottato un encomiabile approccio in continuità; la sfida, per loro, consiste nel tradurre in realismo di governo quel che dissero per raccogliere consensi. Partire affermando che la colpa è degli altri è come ammettere di avere raccontato balle.
L’agenzia Fitch ha corretto e peggiorato il suo giudizio sul debito del Regno Unito, portando a negativa la previsione. Sono bastati gli svarioni governativi, ideologizzati e privi di senso della realtà, per metterli nei guai. Il giudizio di Moody’s, altra agenzia, sul debito italiano era già negativo, perché ci troviamo a un gradino dalla spazzatura.
Lo è rimasto anche durante il governo Draghi (perché riguarda il debito, non la simpatia). Ora fa sapere che l’eventuale abbandono delle riforme (le riforme, mica solo le spese, come qui avvertimmo) previste dal Pnrr porterebbe a un declassamento. Vale a dire nel bidone della spazzatura. Questa è la posta in gioco. Per noi altissima.
I governi si giudicano dai fatti e quello Meloni non è ancora nato, sicché bocciarlo o promuoverlo oggi sarebbe non un giudizio, ma un pregiudizio. Ma tocca a chi governerà spiegare se intenderà, sul terreno delle riforme come ha già positivamente fatto su quello della politica estera e dello scostamento di bilancio, agire in continuità con il governo esistente o con i propri slogan d’opposizione. In ogni caso avrà agito legittimamente, ma altrettanto legittimamente gli operatori di mercato trarranno le loro conclusioni.
Per l’Italia sono preziosi non solo i soldi, ma anche i cambiamenti che il Pnrr prevede. Perderne anche una sola parte significa affossare un’occasione storica. Continuare quel lavoro significa rendere un servizio al Paese, ma anche allontanarsi da diverse delle cose che si dissero, compresa la necessaria ratifica del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Tanto più quando si lambisce la spazzatura.
Il pericolo non è che si torni a distribuire olio di ricino, ma che se ne ottengano gli effetti senza sorbirlo. L’interesse dell’Italia è che il governo Meloni riesca ad essere governo e non riscatto identitario di una fu minoranza. Taluni camerati di ieri grideranno al tradimento, noi considereremmo appropriato il richiamato patriottismo. Il masochismo no, può piacere a uno, auguri, ma non all’Italia intera.
L'articolo Masochismo proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Si fa presto a dire OPEC. Una storia da conoscere
I «collegamenti inestricabili tra l'OPEC e gli Stati Uniti», e per estensione l'Occidente, come «i solidi legami economici e geopolitici tra i due confermino che le due parti sono sposate in un matrimonio indissolubile a lungo termine». Il perchè dei prezzi, i meccanismi che regolano il funzionamento e il rapporto con l'Occidente
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NATO: la priorità dell’Ucraina dovrebbe essere quella delle armi, non dell’adesione accelerata
A seguito della falsa annessione del 30 settembre da parte del Presidente russo Vladimir Putin di quattro regioni ucraine parzialmente occupate, il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha ufficialmente chiesto l’adesione accelerata alla NATO. Il desiderio del leader ucraino è comprensibile, ma il suo tempismo è discutibile. Zelenskyy dovrebbe invece continuare a fare pressioni sui membri […]
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Ucraina: la Slovacchia vuole che la Russia vinca
Nonostante l'acceso dibattito sulla metodologia utilizzata nell'indagine, gli esperti non sono scioccati dal sondaggio secondo il quale molti slovacchi desiderano la vittoria russa in Ucraina
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Fallimento M5s, il Reddito di cittadinanza ha distrutto il valore del lavoro
Il fallimento dell’impostazione del Reddito di Cittadinanza è nei numeri
Meno del 2% dei beneficiari, infatti, ha avuto un primo contratto di lavoro. Un’inezia se paragonata agli alti costi sostenuti ogni anno per finanziare la misura, 6 miliardi di euro, la cui ideazione è stata concepita intorno a due capisaldi del pensiero politico del Movimento Cinque Stelle: le politiche distributive a sostegno dei bonus (tema sul quale hanno trovato anche la convergenza del Pd durante la fase di governo giallo-rossa) e la demonizzazione del privato, incarnata in questo caso dalla scelta sbagliata di escludere dall’intermediazione le Agenzie per il Lavoro.
Che questa impostazione del Reddito avrebbe ottenuto risultati fallimentari, per usare un eufemismo, era fin troppo chiaro dalla sua impostazione generale, che affidava un ruolo significativo a strutture burocratiche come i Centri per l’Impiego, il cui contributo per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro in Italia raggiunge un modesto 4%.
Anche i navigator, il cui compito era quello di aiutare i beneficiari del Reddito a trovare un’occupazione, hanno fallito nel loro obiettivo perché spesso si è trattato di figure professionali orientate alla conoscenza della psicologia del lavoro, ma con scarsa attitudine e frequentazione del mercato, delle imprese e del sistema industriale. Il fallimento della misura, inoltre, è nell’evidente cambiamento di prospettiva e di percezione che lo stesso Conte ha provato a dare del Reddito durante la campagna elettorale. Il Reddito è servito per sostenere gli indigenti, si è detto, ed ha svolto un ruolo significativo come strumento di calmieratore sociale.
Il Reddito, insomma, per stessa ammissione di chi l’ha immaginato, non ha creato occupazione, ma ha svolto un diverso ruolo sociale, che oggi però il Paese non può più sostenere. Almeno con queste dimensioni perché, se da una parte il sostegno agli indigenti deve continuare a essere una priorità sociale del nuovo Governo, non si possono però più depauperare risorse dello Stato che non qualificano il capitale umano.
Non solo sotto il profilo delle competenze, ma anche da un punto di vista culturale, perché il danno maggiore, più profondo e subdolo che ha prodotto l’impostazione del Reddito di Cittadinanza voluta dal Movimento Cinque Stelle, è la distruzione del valore del lavoro come strumento e mezzo di riscatto e di emancipazione sociale, regalando ai nostri figli l’ennesimo alibi del lavoro che non si trova.
In Italia 2 milioni di ragazzi dai 15 ai 24 anni hanno scelto di non studiare e neppure provano a cercare un lavoro. L’emigrazione dei cervelli, la crisi economica e oggi il Reddito di Cittadinanza, sono diventati un ulteriore alibi per continuare a proteggere i nostri figli, destinandoli così alla paralisi e all’emarginazione.
Stefano Cianciotta su Il Tempo
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Ponte sullo Stretto: il mostro è riemerso in campagna elettorale (RETTIFICA)
RETTIFICA ALL’ARTICOLO PUBBLICATO IL 19 SETTEMBRE 2022
Nel prendere atto della missiva del legale del dott. Fortunato Vincenzo, da me citato nell’articolo sul Ponte sullo Stretto pubblicato da Pagine Ester il 19 settembre 2022, esprimo il mio sincero rammarico per quanto contestatomi. Tengo a sottolineare che nell’articolo il dottor Fortunato non è oggetto di alcun commento diffamatorio ma gli viene solo erroneamente attribuito l’incarico di “commissario liquidatore” della Società Stretto di Messina, incarico pubblico-governativo. Mi duole tantissimo di essere incorso in uno spiacevole caso di omonimia ma è del tutto evidente che non esisteva né esiste da parte mia alcun intento di denigrare né la figura del dottor Fortunato, né tanto meno quella del dottor Fortunato commissario liquidatore.
Ho provveduto ad eliminare dall’articolo sopracitato il riferimento agli incarichi del professionista erroneamente citato e ho accolto la richiesta di rettifica.
Ringraziando per l’attenzione
Antonio Mazzeo
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Borsa: canapa, chiusura negativa per Canada e USA
Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono entrambe al ribasso. Una vera e propria altalena nelle ultime settimane di settembre ed in questa di apertura di ottobre 2022. I motivi permangono e sono grandemente correlati con l’andamento prolungato della guerra […]
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USA: fondi governativi in prodotti di canapa per combattere il cambiamento climatico
Il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha reso noto l’elenco dei 3,5 miliardi di dollari di sovvenzioni per i prodotti di base “Climate Smart Commodities“, tra i quali figurano due importanti progetti sulla canapa, uno dei quali è incentrato sulla canapa “intelligente” ovvero la cattura selezionata del carbonio, secondo quanto riportato da Lancaster Farming. Il […]
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LIBRI. “Rifqa” ci accompagna nella realtà palestinese
di Rania Hammad –
Pagine Esteri, 7 ottobre 2022 – Il noto attivista, giornalista e poeta Mohammed El-Kurd, ospite in Italia al Festival di Internazionale a Ferrara e in tour in Italia, ha presentato il suo libro esordiente “Rifqa” alla “Libreria Giufa’ Caffè” nel quartiere romano di San Lorenzo dove è stato accolto con grande entusiasmo da un vasto pubblico insieme alla giornalista italiana Paola Caridi.
Il suo libro, in vetta alle classifiche Amazon in Medioriente, è stato appena pubblicato dalla Fandango in italiano con la traduzione di Emanuele Bero.
Mohammed El-Kurd è corrispondente dalla Palestina occupata per The Nation ed è stato inserito dal Time, insieme a sua sorella Muna El-Kurd, nella lista delle 100 persone più influenti del 2021, perché ha fornito uno sguardo autentico e incisivo sulla vita sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e sul suo quartiere Sheikh Jarrah, al centro di una campagna di pulizia etnica, espansione illegale di insediamenti e demolizione di case di palestinesi.
Mohammed El-Kurd ha contribuito attraverso il suo attivismo sulle piattaforme dei social media al cambiamento della retorica riguardo al conflitto israelo-palestinese, esponendo in maniera nuova ed efficace, attenta e scrupolosa, la quotidianità della vita sotto occupazione militare israeliana in Palestina.
Perché il titolo Rifqa?
Rifqa è una parola che vuol dire accompagnare qualcuno, accompagnarlo nel suo viaggio, è il nome di mia nonna, morta a 103 anni e che ha subito e visto una Nakba dietro l’altra. Se fosse stata viva ora, ne avrebbe vista un’altra ancora. La Nakba è l’espulsione dei palestinesi, è una tragedia in corso, ed è una tragedia ad opera d’uomo. Questo libro è un tributo a mia mamma, mia nonna, le mie zie, alle donne e alle persone che mi hanno insegnato cosa vuol dire la resistenza. C’è una frase che viene usata spesso, anche da me purtroppo, perché sono un giornalista, ed è, “donne e bambini”, donne e bambini uccisi e donne e bambini feriti, non è una bella frase questa e per due motivi. Non è bella perché fa pensare che gli uomini palestinesi non abbiano importanza, che siano combattenti o passanti non sono importanti, mentre invece sono importanti, importa, perché nessuno dovrebbe morire. Il secondo motivo è che toglie alle donne la loro agenzia, le infantilizza, toglie alle donne la possibilità di essere resistenti e combattenti per la libertà. Storicamente le donne palestinesi sono sempre state in prima linea, come quando è stato assassinato Nizar Banat, le donne erano alle manifestazioni e venivano aggredite dalla polizia dell’Autorità palestinese. Le donne c’erano. La realtà è che ci sono tutti questi segmenti, e che tutti i segmenti della società palestinese subiscono gli effetti della misogina, il sessismo, la povertà, e il capitalismo. Quindi volevo scrivere un libro che dimostrasse che tutti i segmenti della società palestinese sono importanti.
Sheikh Jarrah è solo uno dei quartieri e luoghi in cui il diritto alla città viene negato per i palestinesi, ma cosa rende Sheihk Jarrah speciale?
Ciò che rende Sheihk Jarrah speciale non è solo che è centrale alla città di Gerusalemme, ma che per gli ultimi 49 anni è stato il microcosmo del colonialismo di insediamento in Palestina. La Nakba, l’espulsione forzata dei palestinesi non è solo una storia che mia nonna mi ha raccontato di un qualcosa che è avvenuto molto molto tempo fa, ma una realtà che io, mio padre, i miei fratelli e i nostri vicini, i nostri cari e compagni di classe, viviamo nei nostri cortili, nelle nostre strade, nei nostri quartieri. Vediamo gruppi e gruppi di coloni israeliani, molti dei quali vengono da Brooklyn, New York che arrivano e rivendicano la nostra terra dicendo che gli appartiene per decreto divino e dicendoci che solo perché appartengono a una certa religione, e per i loro credi di migliaia di anni fa, la città dove io, mio padre, mia nonna e la nonna di mia nonna sono nati, non è più la nostra.
Sheikh Jarrah è speciale anche se non è un caso speciale, è uno dei tanti quartieri sotto minaccia dalle espulsioni forzate e pulizia etnica, penso a Silwan e Masafer Yatta, a tante altre comunità che stanno subendo le stesse cose, ma Sheikh Jarrah è una delle comunità che ha rifiutato la pulizia etnica, lo ha fatto usando i termini giusti, chiamando queste azioni con i loro nomi, perché c’è una specie di sanificazione del linguaggio, chiamiamo questi atti, sfratti, come se non avessimo pagato l’affitto, come se ci fosse qualche altro proprietario, mentre in realtà sono solo espulsioni.
È incredibile, come un solo quartiere, con il sostegno di centinaia di migliaia nelle strade, è capace di reclamare il suo diritto alla cittadinanza per dire che nonostante le leggi, le corti, i giudici, l’esercito, i coloni stessi, e le pistole, noi non ci muoviamo da qui. E questo è qualcosa che non ha bisogno di poesia per essere catturato e raccontato, è già poetico in sé.
Sei riconosciuto e stimato a livello internazionale e sei ormai un giornalista apprezzato, hai incontrato per caso delle sfide o delle difficoltà?
Molti a livello di censura, e poi spesso mi sento tirare in direzioni opposte dagli altri, e poi c’è la sfida della responsabilità di parlare per tutta una nazione. Questo mi crea qualche problema, perché da una parte siamo poco rappresentati e quindi chiunque abbia un minimo di visibilità deve per forza delle cose acquisire una educazione politica e deve parlare, e deve poter parlare per la nazione. Ma allo stesso tempo, credo che gli artisti e gli scrittori, debbano avere libertà di espressione, dovrebbero avere la possibilità di esprimere differenze di opinione, e che non rispecchiano necessariamente le espressioni del pubblico. Queste sono alcune delle sfide a cui penso costantemente. Detto ciò, penso che qualunque sfida o difficoltà io riscontri negli Stati Uniti o in Europa non sono nulla di fronte a ciò che i palestinesi subiscono sul terreno, e non lo dico cosi per essere umile, ma perché mi aiuta a ricordarmi che nonostante le difficolta che incontro, è sempre una fortuna per me avere accesso e privilegio e poter parlare in questi forum.
Che differenze ci sono tra il tuo attivismo in Palestina e quello che porti avanti in Nord America o in Europa?
In Palestina non ci serve parlare di ciò che tutti viviamo e sappiamo, chi vive vicino al checkpoint di Qalandiya ad esempio pratica un attivismo che collega le lotte sociali a quelle politiche, si lotta per stabilire il sentimento culturale che tutti dobbiamo essere liberati, liberi dalla occupazione.
In nord America, si tratta di affrontare l’A B C del conflitto, cercare di spiegare e informare un pubblico che è stato disinformato per decenni, spiegare lo squilibrio di potere, chi è il villano nella storia, chi sono le persone che stanno lottando e per cosa stanno lottando, e perché è importante. Parlo di questo molto, ma ciò che è simile in queste due lotte è che lo facciamo mettendo al centro di tutto, la nostra dignità. In Palestina diciamo a tutti che meritiamo di vivere liberi e con dignità, e anche in Usa e in Europa diciamo che i palestinesi meritano di vivere con dignità.
Il Nord America è un grande continente e dunque se vado a parlare in Arizona o in Atlanta, ad esempio, parlo della collaborazione tra la polizia americana e la polizia israeliana, mentre se sono a New York parlo della ADL (Lega Antidiffamazione) e quanto sia potente. Quindi è molto importante comunicare il giusto messaggio a ogni pubblico, perché vogliamo che la gente si organizzi a livello locale.
Quanto è importante l’estetica nella cultura palestinese? L’estetica è cambiata tra la vecchia generazione e quella nuova? C’è un nuovo registro?
Per me personalmente la prerogativa era avere un buon messaggio politico, una didattica solida, informare chi non sa, ma era soprattutto importante scrivere un bel libro, una bella poesia. Quindi non solo l’idea di condividere la storia palestinese, ma scrivere un buon libro, che sia di valore nel suo genere, e non che si focalizzi e affidi al fatto che si parli di una storia straziante, ma che usi il linguaggio veramente bene. Che possa toccare il lettore in molti modi, che abbia umorismo e ironia, che abbia molti dettagli specifici e che umanizzi i soggetti. Spesso non si umanizzano nella poesia, diciamo che uno ha perso un braccio, oppure che uno è in prigione, ma non è in questo modo che si umanizzano. Si umanizzano dando loro caratteri complessi. Se provano rabbia, bisogna mostrare e raccontare la rabbia, se sono dispettosi, si mostrano e descrivono dispettosi. Li umanizziamo descrivendo le loro emozioni. Se un soggetto sputa ad un soldato ad esempio, lo metti, perché quello definisce il personaggio. Se uno odia la guerra, ma vuole resistere, ma non sa come, allora si include, è in questa maniera che si umanizza il personaggio. La qualità è importante, non è importante solo raccontare la tua storia.
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Nell’appuntamento di oggi conosceremo insieme un’altra linea di investimento del #PNRR.
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Ucraina: l’offerta di Zelensky alla NATO cade piatta
La reazione alla sua richiesta di adesione accelerata è stata attenuata, esponendo i limiti del coinvolgimento militare dell'Occidente in questa guerra. L'unica via d'uscita è la diplomazia e un accordo negoziato. Una via d'uscita che è stata complicata da un'altra dichiarazione di Zelensky, con la quale ha invocato un decreto che vieta i negoziati con Putin
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New US Executive Order unlikely to satisfy EU law
È improbabile che il nuovo ordine esecutivo degli Stati Uniti soddisfi il diritto dell'UE Oggi il governo degli Stati Uniti ha pubblicato un ordine esecutivo che limiterebbe la sorveglianza degli Stati Uniti. Questa è una prima dichiarazione di noyb.
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Letta che insegue Veltroni: la funzione turistica del PD.
"Il PD si interessa alle classi popolari e alle realtà impoverite con lo stesso atteggiamento sussiegoso dei turisti agiati, provenienti da qualche ricca città europea o americana, che si recano in un paese del terzo mondo e guardano con compassione la condizione dei suoi abitanti che, poveri loro!, non godono delle libertà e del benessere occidentale.
Veltroni e Letta esprimono del resto la visione del mondo di gente che vive nei centri storici e che finge di non sapere che spesso la povertà, l’ingiustizia e il degrado sono presenti nelle periferie delle loro stesse città. In qualità di dirigenti politici non possono guardare a queste condizioni di disagio perché la loro fortuna si fonda esattamente su questa ipocrisia.
Letta, Veltroni, Renzi e tanti altri che hanno fatto la storia del PD non avrebbero avuto alcun successo politico se non avessero promosso quelle politiche che hanno generato la questione sociale oggi presente in Italia.
La loro salita al potere è dipesa dal sostegno di forze economiche e finanziarie che hanno chiesto in cambio leggi in favore della precarietà nel lavoro, privatizzazione dei servizi, disfacimento della scuola pubblica, sostegno all’impresa e tanti altri provvedimenti che hanno prodotto le attuali ingiustizie."
kulturjam.it/politica-e-attual…
Letta che insegue Veltroni: la funzione turistica del PD - Kulturjam
Con le ultime parole di Letta e di Veltroni si scorge come il PD si interessi alle classi popolari e alle realtà impoverite con lo stesso atteggiamento sussiegoso dei turisti agiati in vacanza in qualche località del terzo mondo.Paolo Desogus (Kulturjam)
Russia: chi è e cosa pensa l’estrema destra
All'estrema destra di Putin, chiedono sempre più una mobilitazione totale, bombardamenti a tappeto delle città ucraine e persino l'uso di armi nucleari. Capire chi sono questi ultranazionalisti e cosa rappresentano è essenziale se vogliamo decifrare la strategia di guerra del Cremlino
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Lo spazio che bagna Napoli
«Grazie alla spinta proattiva di questi giovani talenti di Euravia, possiamo ridurre il talent gap nel settore AS&D con la strategia che sia in grado di integrare la conoscenza universitaria, le tendenze evolutive della ricerca globale e i fabbisogni dinamici delle imprese». Con queste parole Valeria Fascione, assessore a Ricerca, Innovazione e Start-up della Regione […]
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Verso carestia energetica e fame ma la chiameremo "Frugalità responsabile".
Verso carestia energetica e fame ma la chiameranno "Frugalità responsabile" - Kulturjam
Con la logica della guerra e delle sanzioni la strada tracciata porterà inevitabilmente alla carestia energetica e alla fame, che non verrà chiamata cosi ma "frugalità responsabile", per un mondo green e sostenibile.Redazione (Kulturjam)
HAITI. Fame, violenza e colera. L’Onu: subito un corridoio umanitario
di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 7 ottobre 2022 – Nel 2010 l’ultima epidemia di colera causò ad Haiti 10.000 morti, con oltre 800.000 contagi. Ma questa volta la situazione potrebbe essere addirittura peggiore: bande armate, in preda alla rabbia e alla disperazione hanno bloccato il principale punto di arrivo e passaggio del carburante, come forma di protesta contro i tagli dei sussidi governativi e l’aumento generalizzato dei prezzi.
La mancanza di greggio ha causato una serie di effetti a catena, arrivando a colpire in maniera dura e improvvisa i servi pubblici, specialmente gli ospedali che sono sull’orlo del collasso. Proprio quando arriva la conferma governativa di numerosi casi di colera registrati a Port-au-Prince e in un’altra città decine di chilometri lontana dalla capitale. Confermati almeno sette decessi. I casi definiti ancora “sospetti” sono più di un centinaio, tra cui decine di bambini sotto i 5 anni. 1,2 milioni di bambini, secondo l’UNICEF, sono a rischio nella sola capitale. L’intera popolazione haitiana è formata da 11 milioni di abitanti.
Il Terminal di Varreux a Port-au-Prince
Fondamentale per prevenire e arrestare l’epidemia, l’accesso ai servizi igienici privati e all’acqua potabile e sicura. Ma con l’aumento dei prezzi e l’insicurezza e la violenza diffuse, molte famiglie haitiane, specialmente le più povere, sono costrette ad accontentarsi dell’acqua insalubre, la spazzatura riempie le strade e la situazione igienica è sempre più preoccupante. Il colera è una malattia che causa diarrea grave, vomito e altri disturbi intestinali. Idratarsi è fondamentale, così come accedere alle cure nelle prime ore dopo la comparsa dei sintomi. Ma gli ospedali sono chiusi oppure, quelli aperti, non riescono a trattare tutti i casi. Non solo quelli di colera: c’è il rischio serio che l’assistenza sanitaria possa presto venire a mancare persino per le donne in travaglio o per i neonati.
Foto UNICEF
Senza contare che il blocco del carburante finirà per aggravare una crisi alimentare già a livelli molto preoccupanti, che secondo le Nazioni Unite riguarda quasi la metà della popolazione. Già peggiorate all’inizio dell’anno, le condizioni di vita potrebbero diventare disperate, soprattutto se la crisi di colera dovesse aggravarsi.
Le forniture umanitarie che già giungevano nel Paese attraverso il porto di Port-au-Prince non sono più distribuite all’intera popolazione: sono le bande armate che hanno preso il controllo dello scalo a trattenere parte dei beni e a decidere a chi dare il resto. Persino raggiungere a casa le persone colpite da colera, casi sospetti o confermati, è diventato difficile e pericoloso per la presenza di persone armate e l’aumento generale della violenza.
Le Nazioni Unite hanno chiesto ieri la creazione immediata di un corridoio umanitario per bypassare il blocco del Terminal di Varreux e far arrivare il carburante necessario a rispondere ai bisogni urgenti della popolazione. La chiusura violenta del punto di accesso ha anche interrotto i servizi di trattamento e bonifica delle acque della Direzione nazionale dell’acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari di Haiti, così come la distribuzione delle acque bonificate da parte delle società private.
Nei prossimi 3 mesi, secondo le Nazioni Unite, circa 28.900 donne incinte e più di 28.000 nascituri rischiano di non ricevere cure.
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USA. Milioni di americani rischiano la fame. I buoni pasto di Biden non bastano
della redazione con dati e notizie diffusi in rete dalla Reuters
Pagine Esteri, 6 ottobre 2022 – Grace Melt ha fatto la sua prima visita alla dispensa alimentare di Nourishing Hope di Chicago ad agosto. Durante la pandemia di COVID-19 aveva utilizzato buoni pasto emessi dal governo federale per acquistare generi alimentari mentre era disoccupata per un infortunio al ginocchio. Ma quest’estate, i buoni pasto non sono riusciti a tenere il passo dell’aumento dei prezzi del negozio di alimentari e per la prima volta è dovuta andare alla ricerca di una fornitura gratuita di cibo. “Non è sicuramente abbastanza. Non bastano mai fino alla fine del mese”, ha detto Melt a proposito dei buoni pasto. “E ora che sono aumentati i prezzi non puoi far altro che venire qui, in un centro dove donano cibo”.
L’aumento della fame (negli Usa) è un problema serio per l’immagine e le ambizioni del presidente degli Stati Uniti Joe Biden che si prepara a ospitare la prima conferenza della Casa Bianca su fame, nutrizione e salute in oltre 50 anni e si dice impegnato a eliminare la fame negli Stati Uniti entro il 2030. A causa dell’inflazione (alta) gli elettori potrebbero punire il Partito Democratico nelle elezioni di medio termine. L’andamento dell’economia infatti è la priorità per gli elettori Usa, secondo un sondaggio Reuters/Ipsos. L’amministrazione Biden ha aumentato i finanziamenti per i buoni pasto quasi un anno fa ma allo stesso tempo ha acquistato la metà del cibo rispetto all’amministrazione Trump nel 2020 per banche alimentari, scuole e riserve indigene, secondo i dati ottenuti dall’agenzia statunitense USDA.
L’aumento dei prezzi dei generi alimentari sta erodendo il valore reale dei buoni pasto su cui sembra puntare l’attuale amministrazione per combattere la fame tra gli statunitensi. Quest’anno i buoni hanno un valore medio di 231 dollari a persona al mese. Troppo poco di fronte all’inflazione galoppante. Ciò ha costretto più americani a rivolgersi alle banche alimentari che a loro volta hanno ricevuto meno cibo dal governo.
L’indice dei prezzi al consumo per il cibo è salito al 13,5% ad agosto, l’aumento più sostenuto in 12 mesi dal 1979, secondo il Bureau of Labor Statistics. I prezzi dei generi alimentari sono cresciuti a livelli record dall’invasione russa del principale produttore di cereali, l’Ucraina. E co0sì anche i livelli di fame quest’estate sono saliti a punti mai raggiunti, neppure durante la pandemia nel 2020 quando i lockdown hanno gettato nel caos le catene di approvvigionamento.
“Questo problema era migliorato nel 2021, poi è nuovamente e rapidamente peggiorato” spiega Vince Hall, Chief Government Relations Officer di Feeding America, la più grande rete di banche alimentari della nazione. “La maggior parte delle nostre banche del cibo vede allungarsi le file di persone ogni settimana che passa”. Per alcuni occorre spendere di più in buoni pasto o distribuire contanti perché offrono alle persone più scelta rispetto alle dispense alimentari e vanno anche a vantaggio delle imprese locali.
L’insufficienza alimentare per le famiglie con bambini è salita al 16,21% lo scorso luglio quando quasi 1 famiglia su 6 ha dichiarato di non avere, talvolta o molto spesso, da mangiare a sufficienza, secondo i dati della Household Pulse Survey dell’US Census Bureau. Si tratta della percentuale più alta da dicembre 2020. La fame tra i bambini era scesa al 9,49% nell’agosto 2021 in parte a causa dei pagamenti del credito d’imposta per i bambini, secondo l’US Census Bureau.
La fame si era attenuata nel 2021 dopo che le amministrazioni Trump e Biden hanno distribuito sussidi per la pandemia alle famiglie per l’acquisto di generi alimentari, consegnato miliardi di scatole di cibo di emergenza e inviato pagamenti mensili del credito d’imposta per i bambini. Nell’anno 2020, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha speso 8,38 miliardi di dollari per 4,29 miliardi di libbre di cibo destinato a dispense alimentari, scuole e riserve indigene. Ma la spesa alimentare è diminuita costantemente, di quasi il 42% dal 2020 al 2022, fino ai 3,49 miliardi di dollari, il livello più basso dal 2018. L’agenzia ha acquistato solo 2,43 miliardi di libbre di cibo nell’ultimo anno, secondo i dati acquisiti da Reuters.
L’USDA ha cercato di compensare il calo degli acquisti di cibo con ulteriori sussidi per l’assistenza nutrizionale supplementare. Ma l’aiuto aggiuntivo è stato limitato dai costi più elevati…L’USDA ha recentemente annunciato che acquisterà altri 943 milioni di dollari in generi alimentari entro il 2024, utilizzando i fondi della Commodity Credit Corporation, normalmente stanziati per prestiti e pagamenti agli agricoltori statunitensi colpiti da disastri o dai bassi prezzi delle materie prime. Il dipartimento dell’agricoltura da parte sua ha riferito di un taglio drastico ai finanziamenti per la pandemia autorizzato dal Congresso che ha limitato il potere di spesa dell’agenzia per gli alimenti e le scuole.
Feeding America lamenta il taglio di 430 miliardi di dollari per alcune misure aggiuntive di assistenza alimentare dalla legge sulla riduzione dell’inflazione firmata ad agosto, inclusi gli investimenti nell’alimentazione infantile e un programma EBT da impiegare quando i pasti scolastici non sono disponibili. “Nelle versioni precedenti di questo disegno di legge c’erano priorità straordinariamente importanti per combattere la fame, che però non ci sono nell’ultima versione”, ha protestato.
RACCOLTI INSUFFICIENTI
Quest’anno, l’USDA acquisterà poco più della metà del cibo comprato al culmine della pandemia, mentre le donazioni dei negozi di alimentari e dei distributori sono diminuite e le aziende fermano le catene di approvvigionamento e riducono al minimo gli sprechi. Il Greater Chicago Food Depository, uno dei maggiori distributori di cibo alle dispense alimentari locali, prevede di ottenere quest’anno poco più di un terzo del cibo ricevuto dall’USDA durante l’anno fiscale 2021 (da luglio 2020 a giugno 2021).
E mentre le scorte di cibo si riducono, l’inflazione sta spingendo per la prima volta più americani verso le banche alimentari. Nell’area di Chicago hanno visto un aumento del 18% dei visitatori a luglio, rispetto a un anno prima. Eppure i buoni pasto costituivano meno del 2% della spesa del governo degli Stati Uniti nel 2022, secondo i dati del Tesoro. Nell’agosto 2022, l’agenzia ha annunciato un adeguamento del costo della vita a partire dal 1 ottobre, aumentando le assegnazioni mensili massime per una famiglia di quattro persone da 835 a 939 dollari al mese.
Ma molti di coloro che visitano le dispense alimentari lavorano ancora o beneficiano della previdenza sociale, cosa che li squalifica dai buoni pasto, come Michael Sukowski, un impiegato dell’amministrazione universitaria in pensione a cui stati tagliati i sussidi a causa di una pensione mensile che riceve dallo stato. “Con la previdenza sociale e una piccola pensione di 153 dollari al mese non vado lontano”, ha spiegato “la metà va per l’affitto. Poi ci sono le utenze.”
La dispensa alimentare di Nourishing Hope, che quest’anno ha visto un aumento del 40% dei visitatori, e altre banche alimentari ora acquistano più cibo a costi più elevati. Ciò ha portato a forniture modeste di alimenti di base come pane, carne e formaggio. “Il raccolto è stato esiguo, per così dire. Ma sono grata di aver avuto della roba”, ha detto Grace Melt mentre metteva i suoi prodotti alimentari in un carretto, preparandosi per un viaggio in autobus verso casa. “Talvolta devi venire in un posto come questo. A volte non ottieni niente”, ha spiegato. Pagine Esteri
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Il 'momento' rivoluzionario senza rivoluzionari. Sì, è un momento rivoluzionario questo in questo nostro Paese. Ma non potrà mai essere gestito né da Meloni, né da Letta e i loro parassiti. Entrambi spolperanno in fretta i loro sostegni e come tutti i parassiti moriranno come dei fessi sulla pianta che hanno mangiato
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