Ucraina: il ruggito dei giovani dello Shakhtar
Il gigante del calcio ucraino Shakhtar Donetsk ha sorpreso molti esperti in questa stagione registrando la migliore prestazione del club in UEFA Champions League negli ultimi anni, nonostante l’esilio in tempo di guerra e un esodo di massa di fuoriclasse. Il segreto del successo dello Shakhtar è stato affidarsi ai giovani talenti ucraini e a […]
L'articolo Ucraina: il ruggito dei giovani dello Shakhtar proviene da L'Indro.
Quando il denaro non è più un peccato
Qualche giorno fa ho ricevuto l’invito da parte della Caritas ambrosiana di ‘dare una mano’ per prendersi cura delle fasce fragili (individui e famiglie) tramite il finanziamento del ‘Progetto bolletta sospesa’. Donare un supporto economico, evitando ‘la logica del paternalismo generoso o della filantropia ostentata che non permette”, essendo un insieme di iniziative spot, di dare […]
L'articolo Quando il denaro non è più un peccato proviene da L'Indro.
LibSpace con Alessandro De Nicola
Prodotti a base di cannabis: la rilevanza del re-branding
Un marchio forte può dare alle aziende riconoscimento del nome e longevità – una considerazione chiave per le aziende di marijuana che si espandono in Stati con mercati recentemente regolamentati. Le aziende si sottopongono a rebranding per una miriade di motivi, ma farlo nel modo giusto è una sfida. La Conferenza delle Nazioni Unite sul […]
L'articolo Prodotti a base di cannabis: la rilevanza del re-branding proviene da L'Indro.
Ucraina: pace o business ?
L’attuale e drammatica guerra in Ucraina sembra sempre di più un nodo gordiano che i contendenti – Russia da una parte ed Ucraina ed USA dall’altra uniti con i cobelligeranti dell’Unione Europea, sotto la bandiera NATO- non sembrano volere sciogliere anche se compaiono ogni tanto limitate voci di pace. Il dramma della guerra colpisce, oltre alla […]
L'articolo Ucraina: pace o business ? proviene da L'Indro.
56º rapporto CENSIS: italiani insicuri e divisi
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Come ho detto nei giorni scorsi, il Rapporto Censis 2022 rinsalda, conferma ed accentua tendenze in atto nel paese […]
L'articolo 56º rapporto CENSIS: italiani insicuri e divisi proviene da L'Indro.
Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti.
Info ▶️ https://www.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Rendicontazione nella piattaforma PimerMonitor. Prorogata al 31 agosto 2023 la rendicontazione del potenziamento dei Centri Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Sviluppo per l’istruzione degli adulti. Info ▶️ https://www.Telegram
La Libertà
“Non c’è sentenza senza giustizia e non c’è giustizia in Iran.”
L'articolo La Libertà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il peccato neoliberista
In qualsiasi partito, un nuovo gruppo dirigente deve cercare di affermare, assieme con se stesso, un’identità, un catalogo di proposte, alcuni simboli politici. La sinistra del Partito democratico però non è un gruppo dirigente particolarmente nuovo, si tratta solo della generazione attuale della “ditta” che a malincuore ha accettato le capriole consonantiche che l’hanno portata da Pds a Ds a Pd. Le sue proposte si riducono, in buona sostanza, a una: superare il “neoliberismo” di cui sarebbe intriso lo stesso manifesto dei valori del Pd, scritto nel 2007.
La sinistra è, non solo in Italia, sempre più “sinistra”. Essendo l’unica parte politica che viva in un rapporto osmotico coi propri intellettuali, è destinata a somigliare al racconto che essi ne fanno. Avviene anche al Pd, che pure là dove governa in modo più saldo (in Emilia-Romagna, in Toscana) è occupato a venire alle prese coi problemi del mondo anziché stupire con effetti speciali. La sua narrazione “nazionale” è tutta diversa. Perché non corrisponde al partito degli amministratori, bensì a quello dei chierici.
La sinistra è da sempre la parte politica che offre al ceto intellettuale la più straordinaria opportunità di mutazione. “I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. Generazioni d’intellettuali hanno guardato al “moro” di Treviri come in defettibile modello. Che avessero letto il primo libro del “Capitale”, o più probabilmente “Il socialismo dall’utopia alla scienza” di Engels, si inebriavano della conquista inattesa di una grande verità: aver scoperto in che direzione si muove la storia, mica poco. Ma hanno cercato di anticiparla, la storia, di forzarla sui suoi pretesi binari, sicuri che solo un’avanguardia intellettuale potesse fare avvertire al proletario il peso delle sue catene.
Da alcuni anni in qua, i chierici hanno formulato una diagnosi chiara sui guasti della sinistra: la sinistra perde perché ha smarrito il legame con la classe operaia. Sul declino del voto “di classe”, ovvero sull’attenuazione del nesso fra condizione sociale di appartenenza e preferenza politica, c’è un intenso dibattito internazionale. Rimanendo all’interno dei nostri confini, possiamo ricordare come già negli anni Novanta si osservasse un travaso verso la Lega del voto operaio al nord e come, negli anni Duemila, il voto operaio fosse già diviso grosso modo equamente fra destra e sinistra, mentre le regioni a più elevata “intensità” industriale votavano per la destra. Alle ultime elezioni è stato FdIa
primeggiare fra gli operai, seguito da Cinque stelle e Lega.
Il fenomeno dello scollamento fra classe sociale e preferenze politiche andrebbe indagato nelle sue diverse dimensioni. Qualcuno potrebbe dire che è una buona notizia: a suo modo segnala il maggior benessere raggiunto nella società tutta, grazie al quale cambiano le priorità degli elettori. Altri potrebbero biasimare la prevalenza della politica dell’identità, del dato culturale, che è poi la ragione per cui posizioni conservatrici vengono sposate da persone più umili e affezionate ai punti cardinali del passato, mentre fra gli individui a più alto reddito prevalgono orientamenti più cosmopoliti e mentalità più aperte.
L’impressione è che per i chierici la perdita del voto operaio sia un’utile scusa per aprire i rubinetti della nostalgia. Per rappresentare gli operai, che c’è di meglio che dire le cose che dicevamo, quando effettivamente votavano per noi? Per gli intellettuali, era un’epoca d’oro: quella in cui le loro parole cambiavano davvero, se non il mondo, almeno le mozioni congressuali. Per questo a quelle parole, rivedute e corrette, sono tornati, seguendo le star della sinistra internazionale (da Piketty in giù). L’enfasi sul tema delle diseguaglianze, i propositi di sabotaggio di ogni residuo di libertà contrattuale nelle relazioni industriali, l’ambientalismo, il disegno di una bellicosa politica industriale, eccetera, non sono una delle due strade che il gruppo dirigente del Pd può cogliere, in una sorta di congresso redde rationem sull’identità del partito.
Sono un sentiero che quel medesimo partito calca da anni e con piena convinzione. Anziché mettere in discussione l’effettivo gradimento dell’elettorato per queste proposte, anziché chiedersi se davvero intercettino i problemi del paese, anziché domandarsi se forse il Pd non abbia perso la sua “vocazione maggioritaria” perché è diventato assieme il partito “del governo” e del pubblico impiego, i chierici e i loro discepoli sostengono che ogni problema del partito venga da un peccato originale. L’iniziale “neoliberismo”. Ma qual è il fantasma del
neoliberismo, di cui si vorrebbe sbarazzare?
E’ vero che in Italia, per alcuni anni, è stata la sinistra a promuovere politiche di “modernizzazione”, tese ad avvicinare il paese alle altre liberaldemocrazie a economia di mercato. Ciò è avvenuto soprattutto nella legislatura del centrosinistra, 1996-2001. Le circostanze erano eccezionali. In primo luogo, il vecchio partito della sinistra italiana, il Pci, era riuscito ad abbandonare nome e simbolo senza alcuna “revisione” ideologica: ma attraverso una “svolta”, per cui si immaginava che non ci fossero nodi da sciogliere né questioni da chiarire. A ciò corrispose una accresciuta disponibilità a seguire le tendenze prevalenti altrove.
Negli Stati Uniti Clinton, in Inghilterra Blair, avevano dovuto reinventare i rispettivi partiti alla luce del successo di Reagan e Thatcher. E siccome quel successo non si poteva negare, cercarono di venirci a patti, provando per esempio a usare incentivi economici e riforme “di mercato” per far funzionare lo stato sociale, rilanciandone legittimità e immagine (pensiamo al cosiddetto welfare to work ). In Italia,
un economista cattolico di formazione keynesiana, Beniamino Andreatta, meglio di altri aveva colto il nesso perverso fra partitocrazia, corruzione e aumento incontrollato della spesa pubblica. Dal cosiddetto “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro al referendum elettorale del 1992 all’accordo Andreatta-Van Miert, gli atti politici più rilevanti e lungimiranti dell’epoca si devono ad Andreatta.
La meta era chiara: una democrazia meno esposta alla corruzione, che consentisse l’alternanza fra partiti di governo. Quando ci arriva la sinistra, presidente del consiglio è un allievo di Andreatta, Romano Prodi, e ministro del Tesoro è Carlo Azeglio Ciampi. Le privatizzazioni di Telecom, Eni ed Enel, Autostrade, il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, risalgono a quegli anni. Era “neoliberismo”? E’ un po’ difficile sostenerlo, visto che al governo con Prodi c’era Bertinotti e con D’Alema e Amato ci rimase Cossutta. Ciampi si impegnò per un rassetto della spesa pubblica ma gli interventi rimasero marginali, nel segno della lotta agli sprechi e di una migliore organizzazione. C’era, senz’ altro, una componente numericamente esigua, ma pugnace, dell’allora maggioranza che avrebbe volentieri spinto sull’acceleratore “riformista”. Parola che, fateci caso, è scomparsa dal vocabolario della sinistra contemporanea, in una sorta di damnatio memoriae.
La sinistra che non si vergogna che nella sua storia politica ci sia l’aver fiancheggiato l’Unione Sovietica anche dopo i “fatti d’Ungheria”,
si vergogna di avere privatizzato Telecom. In che cosa credevano, i riformisti? La convinzione comune di quel gruppo era, grosso modo, che in un paese come l’Italia, dove non mancano le incrostazioni corporative, “liberalizzare” fosse la condizione magari non sufficiente ma necessaria per ampliare il ventaglio delle opportunità per tutti. Per avere un’idea della consistenza dei riformisti, basti ricordare che al congresso Ds del 2001 Enrico Morando, candidatosi segretario, prese poco più del 4 per cento dei voti. Piccole forze politiche e singole personalità eminenti esercitavano però maggiore condizionamento sugli ex comunisti allora, di quanto sarebbe avvenuto dalla nascita del Pd in poi.
E’ difficile sostenere che i riformisti fossero “neoliberisti”. Diciamo che erano socialisti “colpiti dalla realtà”. Qualcuno di loro civettava di aver accettato l’economia di mercato per disperazione: la disperazione di vivere nel paese col più formidabile repertorio di fallimenti dello stato di tutto l’occidente. Altri inquadravano la loro adesione all’economia di mercato nell’ambito di una battaglia di modernizzazione e legalità: separare politica ed economia, facendo in modo che lo stato smettesse di gestire la gran parte della vita economica del paese, era necessario per diluire la corruzione degli apparati pubblici.
E’ la tesi che, senza trovare interlocutori, ha riproposto Giuliano Amato nel suo “Bentornato stato, ma” (il Mulino). Altri ancora semplicemente dovevano ammettere che a quel tanto o a quel poco di “liberismo” rimasto in occidente si doveva una produzione di ricchezza talmente straordinaria, da consentire la sopravvivenza di elefantiaci apparati statali. Teniamo da conto la pecora, proprio perché vogliamo tosarla.
Il manifesto dei valori del Pd, dovuto a una commissione presieduta da Alfredo Reichlin (non certo un neoliberista), di queste cose indubbiamente teneva conto. Ed è vero che letto oggi, e paragonato alla retorica prevalente nell’odierno Pd, sembra una traduzione da qualche think tank americano. Mirava a realizzare un “partito aperto nel mondo globalizzato”. L’idea di fondo era che “negli scenari complessi del mondo globalizzato non esistono solamente nuovi problemi, ma anche nuove opportunità”. Opportunità era una parola cruciale, da declinarsi nella cornice dello stato sociale ma in un’ottica di empowerment , di “attrezzamento” dei singoli individui. La vocazione maggioritaria si vedeva nel fare a meno di certe parole amate dai chierici, per provare un lessico che ammiccasse agli elettori degli altri.
Oggi si dice: neoliberismo, ieri si sarebbe detto: pensiero borghese. Il punto è tutto qui. Enrico Letta, che pure al canovaccio oggi dominante a sinistra ha tentato di adattarsi per come poteva un moderato per tradizione e carattere, in un dibattito se l’era fatto scappare: parlare di liberismo in Italia è un po’ difficile. E’ vero che nella legislatura del centrosinistra si privatizzò, e non poco. E’ altrettanto vero che oggi, per fare un solo esempio, il paese ha di nuovo un grande player assicurativo pubblico, com’ era l’Ina privatizzata da Amato. Che la Cassa depositi e prestiti è il burattinaio anche di aziende che erano state cedute totalmente, come Tim. Che lo stato dai servizi pubblici locali non se n’è mai andato, come non ha mai ceduto il passo alla concorrenza nella sanità, nell’educazione, nella previdenza. Che la Borsa italiana è sostanzialmente un gioco di imprese controllate dal pubblico.
Che la spesa pubblica supera, anche al netto degli interessi, il 50 per cento del pil. Che la tentazione comune, sinistra e destra, è pensare che a ogni problema debba corrispondere una legge, e di legge in legge siamo arrivati ad avere un quadro normativo talmente complicato che neppure i tecnici del diritto sanno più destreggiarsi nel groviglio. Il grande economista austriaco Ludwig von Mises identificava nel “polilogismo” una delle più durature eredità del marxismo. Marx postula che “la struttura logica della mente è diversa da classe a classe. Non esiste una logica universalmente valida.
Ciò che la mente produce non è che ideologia, cioè, nella terminologia di Marx, un insieme di idee che mascherano gli interessi egoistici della classe sociale a cui il pensatore appartiene”. Per questo la mente “borghese” degli economisti non poteva fare altro che offrire una “apologia” del sistema capitalistico. I chierici di oggi sostengono qualcosa di non troppo diverso. Con convinzione, si ritraggono da qualsiasi discussione
nel merito delle singole questioni. Ogni opinione diversa dalla loro (che si discuta di questioni di genere o della privatizzazione di Ita) è semplicemente riconducibile a un interesse: se i loro avversari non sono servi del capitalismo, sono servi del patriarcato.
Nel dibattito italiano, questo diventa la “diversità” di tempra morale che dividerebbe la sinistra dagli altri. Convinti di fare politica in nome di alcune idee, i chierici non riconoscono nell’altro una propensione simile. E non solo, ormai, non lo riconoscono alla destra: non lo riconoscono neanche a chi, a sinistra, abbia posizioni non esattamente sovrapponibili alle loro. Non lo riconoscono ai loro predecessori degli ultimi trent’ anni: i quali, faticosamente e in modo imperfetto, cercavano di fare i conti con una realtà che avevano scoperto, chi con il crollo del Muro, chi poco prima.
L’ebbrezza del maggioritario consigliava loro di fare politica con l’ambizione di sottrarre voti all’avversario. Il che costringeva a cercare di comprendere le sue ragioni. Oggi il partito dei chierici coltiva la vocazione minoritaria. Quelle degli altri non sono idee, ma interessi messi in bella copia. La politica è solo la ricerca di minoranze da liberare dal condizionamento di questo o quel padrone. Il neoliberismo come ipnosi da cui ridestare un mondo di oppressi. Vedremo quanto dura questo trip.
L'articolo Il peccato neoliberista proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Giustizia: l’’agenda Nordio‘
Basterebbe che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio mantenesse metà delle cose annunciate e promesse nel corso della sua audizione in Senato: avviare «una riforma del Codice penale», una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche, nel caso, con una «revisione della Costituzione». Basterebbe anche quella che definisce «una profonda revisione delle intercettazioni. Vigileremo in modo […]
L'articolo Giustizia: l’’agenda Nordio‘ proviene da L'Indro.
Il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte – Tg3
Il Presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte, Tg3, il giorno lunedì 12 dicembre dalle ore 24:00.
L'articolo Il Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite a Linea Notte – Tg3 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il Professor Lorenzo Infantino ha ricevuto il Premio Colletti 2022
Mercoledì 7 dicembre, all’interno del Palazzo Senatorio del Campidoglio, si è tenuta la XIII edizione del Premio Lucio Colletti, in memoria del filosofo, uomo di straordinario impegno culturale, politico e civile.
Quest’anno, tra le personalità di spicco a cui è stato consegnato l’ambito premio, c’è il Professor Lorenzo Infantino, filosofo, economista e Presidente Onorario della Fondazione Luigi Einaudi, a cui facciamo le nostre più vive congratulazioni!
L'articolo Il Professor Lorenzo Infantino ha ricevuto il Premio Colletti 2022 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’occasione
Se le parole di Carlo Nordio fossero state pronunciate da lui stesso, ma nella eventuale veste di ministro della giustizia di un governo di sinistra, la destra sarebbe insorta. Se la cancellazione dell’ergastolo ostativo avesse trovato posto fra i provvedimenti di un governo diverso dall’attuale, la destra avrebbe gridato allo scandalo. Lasciando da parte il tema della coerenza, quella che abbiamo di fronte è una occasione. Per la giustizia.
Quelle parole sono una novità solo per chi non abbia mai letto o ascoltato Nordio. Le ripete da anni. Afflitto da una malattia minoritaria: la coerenza aggravata da memoria. Di sicuro l’ex procuratore non è un uomo di sinistra, ma non lo è neanche di destra. È un liberale conservatore che non ha mai fatto mistero delle proprie opinioni da quando, lasciata la toga, si è sentito libero di esporle. Chi lo ha scelto come ministro le conosceva. Lo stesso Nordio, del resto, con amara ironia, ha più volte osservato che nell’Italia di oggi ancora vige il codice penale firmato da Mussolini, mentre il codice di procedura penale che porta la firma di una medaglia d’oro della resistenza, Giuliano Vassalli, è stato continuamente modificato e scassato. Lo osservava sottolineando gli aspetti illiberali del codice penale.
La separazione delle carriere o la non obbligatorietà dell’azione penale, per non dire del profluvio dissennato e improprio delle intercettazioni, sono considerati concetti scontati, ovvi in qualsiasi sistema penale accusatorio. Non esiste che l’accusatore e il giudice siano colleghi. È pura ipocrisia pensare che obbligando a perseguire tutto si eviti la scelta in capo alla procura, semmai la si priva di criteri e controlli. Le intercettazioni possono essere utili a indagare, ma depositarle e diffonderle è non solo barbarie, ma suicidio processuale, perché da sole non provano il reato. Cose ovvie. Da noi considerate bestemmie perché si è confuso il giustizialismo con la giustizia. Salvo annegare tutto nell’ipocrisia, quando non nel falso conclamato.
Anche la destra giustizialista, anche chi oggi è al governo, ragionò diversamente quando gli “inquisiti” erano amici. Mentre la sinistra, oggi, non insorge più per difetto di forze che per digerita ammissione dei tanti anni sbagliati. Il colpevolismo giustizialista non è la giustizia, ma una macchina infernale che genera professionisti dell’accusare senza l’onere di dovere dimostrare e senza la pena di dovere pagare per gli errori commessi. La sinistra c’è cascata perché si è trovata comunista, dalla parte sbagliata della storia, al partire di inchieste giudiziarie con le quali si sterminava anche la sinistra che si trovava dalla parte giusta della storia. E se la destra aveva il giustizialismo nel corredo genetico, la sinistra ha abdicato al diritto per divenire la copertura politica del corporativismo togato, ricevendone in cambio la copertura per sgomberare la strada verso il potere.
La scelta di Meloni mette la destra nelle condizioni di dovere cambiare. Non esiste, lo sappia la presidente del Consiglio, il “garantismo” in giudizio e il “giustizialismo” della pena, come ha erroneamente affermato. Posizione impossibile, perché il “garantismo” non è l’innocentismo che loro stessi praticarono con i loro amici, ma il rispetto del diritto, ergo anche la certezza della pena. La sinistra può scegliere: mugugnare malmostosa, incapace di autocritica, sperando ancora di potere ritravestirsi senza il coraggio di svestirsi, oppure riconoscere diritto e diritti e costringere la destra alla coerenza. Questa sembra la scelta di Azione, che somiglia al fare opposizione seria assai più del porsi in una sterile posizione pregiudiziale.
L’occasione è lì. A portata di mano. L’opposizione può aiutare il giustizialismo del campo largo e pentastellato o lavorare al diritto. Magari ricordando che il pessimo decreto “rave” sta all’opposto delle parole di Nordio. Questa è la scelta politica, non il sesso della segreteria.
L'articolo L’occasione proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il prof. Giovanni Moschella alla Scuola di Liberalismo 2022 di Messina – Gazzetta del Sud
CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 9 dicembre 2022 – Pare che i soldati israeliani, durante i raid nelle città cisgiordane, si orientino con mappe sulle quali i vari quartieri sono indicati con simboli che corrispondono ai nomi delle nazionali di calcio ai Mondiali in Qatar. In questo modo, nel caso le loro comunicazioni radio venissero ascoltate dalle formazioni combattenti palestinesi, eviterebbero di rivelare i movimenti sotto copertura delle unità speciali e, più di tutto, la posizione sugli edifici dei cecchini, lasciando così agli uomini sul terreno di avvicinarsi più agevolmente alle case dei «ricercati».
A rivelarlo, scrive un giornale online palestinese, sono state alcune di queste mappe ritrovate ieri da ragazzi a Jenin, in apparenza perse dai militari mentre si ritiravano dal campo profughi della città, al termine di una nuova sanguinosa incursione in cui sono stati uccisi due combattenti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa – Atta Shalabi e Sidqi Zakarneh di Jenin – e, pare, un civile, Tariq Al Damej. Gli scontri sono andati avanti per quasi tre ore. I reparti israeliani hanno incontrato un forte fuoco di sbarramento, a conferma delle accresciute capacità di combattimento delle formazioni armate palestinesi. Il Battaglione Jenin, ad esempio, ha comunicato che i suoi membri hanno circondato e aperto un inteso fuoco contro un veicolo blindato israeliano costringendolo a fare retromarcia. La battaglia è proseguita, per molti minuti, nel rione di Al Hadaf a Jenin dove si trovavano i tre «ricercati».
Un testimone, Ghassan Al Saadi, ha descritto l’accaduto come un «inferno», con spari continui anche di mitragliatrici pesanti da parte israeliana e raffiche esplose dai palestinesi. Ha detto che i due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati colpiti con ogni probabilità da tiri di cecchini. Altri testimoni hanno raccontato di «spari israeliani contro un’ambulanza» diretta sul luogo dei combattimenti e dell’autista scampato alla morte per un soffio. Almeno dieci i feriti, secondo alcune fonti. Poi le forze israeliane, trasportate da una dozzina di automezzi blindati, sono uscite dal campo profughi con i tre arrestati e hanno abbandonato la città. Le autorità locali hanno proclamato tre giorni di lutto. In tarda mattinata migliaia di persone hanno partecipato ai funerali delle tre vittime. È di 216 il totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane dall’inizio del 2022 (i morti israeliani in attacchi armati sono una trentina).
Nel pomeriggio quel numero è salito a 217. Nei pressi di Aboud (Ramallah) gli spari di soldati israeliani hanno ucciso Diyaa al Rimawi e ferito gravemente suo cugino Hashem al Rimawi che stavano lanciando sassi e bottiglie piene di pittura contro le automobili di coloni israeliani. Altri tre palestinesi sono stati feriti. Negli ultimi giorni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro postazioni e colonie israeliane. Gruppi armati, come la Fossa dei Leoni e il Battaglione Ramallah, hanno rivendicato spari e lanci di granate verso gli insediamenti israeliani di Bet El, Halamish, Atarah, Ofra e Dolev. L’esercito israeliano ha arrestato diversi palestinesi in Cisgiordania mercoledì notte. Da segnalare l’arresto a Nablus di Ruhi Marmash, un tenente dei servizi di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) considerato un fedelissimo del presidente Abu Mazen. Tra i morti e gli arrestati di questi ultimi mesi figurano non pochi membri delle forze militari dell’Anp. A conferma delle tensioni che lacerano le strutture di sicurezza governative palestinesi causate dalla cooperazione con Israele riconfermata anche di recente dai vertici politici. I servizi segreti israeliani dicono di aver arrestato un palestinese di Gaza con un permesso di lavoro che spiava in Israele per conto del movimento islamico Hamas. Pagine Esteri
L'articolo CISGIORDANIA. Altri quattro palestinesi uccisi dell’esercito israeliano proviene da Pagine Esteri.
Marocco: proteste contro gli aumenti e la repressione
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 8 dicembre 2022 – Alcune migliaia di persone sono scese in piazza domenica a Rabat per protestare contro «l’alto costo della vita e la repressione» politica, partecipando ad una manifestazione promossa dal Fronte Sociale Marocchino (Fsm). La sigla riunisce diversi partiti politici di sinistra, organizzazioni per i diritti umani e sindacati come la Confederazione Democratica del Lavoro.
Alla marcia, la più partecipata degli ultimi mesi, hanno partecipato alcune migliaia di persone – un risultato notevole in un paese che reprime sistematicamente le libertà politiche – anche se la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale (DGSN) ha parlato di soli 1500 manifestanti. La manifestazione ha sfilato per quasi due ore nel centro della capitale marocchina, dalla porta della Medina fino a Piazza degli Alawiti, passando accanto alla sede del parlamento.
L’inflazione erode i salari, la povertà aumenta
«Il popolo vuole prezzi più bassi (…). Il popolo vuole abbattere il dispotismo e la corruzione» hanno gridato i partecipanti arrivati anche dal resto del Marocco. «Siamo venuti per protestare contro un governo che incarna il matrimonio tra denaro e potere e che sostiene il capitalismo monopolistico» ha spiegato il coordinatore nazionale dell’Fsm, Younès Ferachine.
Secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato per la pianificazione (Hcp), il Marocco è tornato «al livello di povertà e di vulnerabilità del 2014» in seguito alla pandemia di Covid-19 e all’inflazione. L’impennata dei prezzi (ad ottobre è stato rilevato un +7,1% su base annua) e in particolare l’aumento del costo dei carburanti, dei generi alimentari e dei servizi, uniti a un’eccezionale siccità, hanno inoltre frenato la crescita economia, che alla fine dell’anno dovrebbe essere pari soltanto ad un +0,8%.
Le forze sociali e politiche che hanno partecipato alla marcia hanno chiesto le dimissioni del governo denunciando che a risentire della situazione non è più solo il potere d’acquisto dei settori più poveri della popolazione, ma ormai anche quello della classe media. Il Paese soffre di disparità sociali e territoriali crescenti che costringono sempre più cittadini, soprattutto giovani, all’emigrazione.
La disparità di reddito, stimata secondo il coefficiente di Gini, è del 46,4%, ovvero al di sopra della soglia socialmente tollerabile (42%). Secondo gli stessi dati forniti dal governo di Rabat, il 20% della popolazione è in stato di povertà assoluta (con un reddito inferiore a 1,8 euro al giorno), il 40% in povertà relativa (con un reddito inferiore a 3 euro al giorno) e il 60% in condizioni di precarietà (meno di 4,5 euro al giorno).
youtube.com/embed/Mx91f7UcQK0?…
Il governo rivendica le sue politiche sociali
Di fronte alle proteste e all’aumento del malcontento sociale, il governo guidato dall’imprenditore Aziz Akhannouch ha più volte rivendicato quella che definisce la sua “politica sociale”, in particolare l’estensione della copertura sanitaria a oltre 10 milioni di marocchini a basso reddito. Lo scorso ottobre, il governo ha inoltre annunciato un nuovo maxi-fondo sovrano da 4 miliardi di euro creato per sostenere gli investimenti pubblici e tentare così di rilanciare l’economia del paese e contrastare la crisi.
Si tratta però di misure ritenute parziali e insufficienti da parte delle opposizioni di sinistra. In particolare i sindacati denunciano la rinuncia, da parte del governo marocchino, al varo di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche. Proposta dalle opposizioni parlamentari anche sulla base dell’appello del segretario generale dell’ONU a tassare gli “scandalosi” profitti realizzati dalle aziende del settore energetico in maniera da recuperare risorse da destinare al contrasto dell’inflazione e della povertà, alla fine il premier Akhannouch non ha inserito la misura all’interno della legge finanziaria adottata lo scorso 19 ottobre dal Consiglio dei Ministri. La rinuncia a questa e ad altre misure redistributive ha rilanciato le accuse, nei confronti dell’esecutivo, di favorire l’élite economica e di incarnare la collusione tra potere politico e mondo degli affari.
“No agli arresti dei dissidenti”
I manifestanti hanno anche lanciato slogan contro gli arresti di dissidenti, denunciando «ogni forma di repressione politica, antisindacale e contro la libertà d’espressione, mentre vengono incarcerati diversi blogger e giornalisti critici nei confronti del governo. «È una regressione inaccettabile», ha denunciato Ferachine.
Uno degli ultimi arresti ha preso di mira, a novembre, è stato l’ex ministro dei Diritti Umani Mohamed Ziane. A ottobre l’avvocato e fondatore del Partito Liberale, che attualmente ha 80 anni, aveva chiesto l’abdicazione del sovrano Mohamed VI – che risiede a Parigi e rientra in Marocco solo per alcune cerimonie – e la fine della sistematica violazione dei diritti politici e democratici. Per tutta risposta Ziane è stato prima oggetto di una feroce campagna denigratoria da parte dei media governativi e delle autorità, ed in seguito è stato condannato dalla Corte d’Appello di Rabat a tre anni di detenzione per un totale di 11 capi di accusa formulati in una denuncia del Ministero degli Interni di Rabat.
“No agli accordi con Israele”Nel corteo sono state sventolate numerose bandiere palestinesi. La marcia ha rappresentato infatti anche l’occasione per condannare la normalizzazione dei rapporti tra Rabat e lo stato di Israele, decisa nel 2020 nell’ambito degli “accordi di Abramo”. Secondo i sondaggi una gran parte della popolazione si dice contraria alla crescente collaborazione economica e militare tra il regno marocchino e Tel Aviv.L’ultimo importante passo in questo senso risale al 23 marzo scorso, quando il Ministro dell’Industria e del Commercio marocchino Ryad Mezzour e il presidente del board dei direttori dell’Israel Aerospace Industries, Amir Peretz, hanno siglato uno storico accordo di cooperazione.
Nel giugno scorso, poi, il governo di Rabat ha firmato un contratto con l’israeliana Elbit Systems per la fornitura del sistema “Alinet”, allo scopo di sviluppare le capacità del paese nel campo della guerra elettronica.
A luglio il capo di Stato maggiore dell’esercito di Israele, Aviv Kohavi, ha incontrato a Rabat l’omologo marocchino El Farouk; i due avrebbero discusso i dettagli del rafforzamento della cooperazione militare e discusso la possibilità di lanciare un’alleanza regionale volta «a frenare l’influenza iraniana in Medio Oriente e in Nord Africa».
Israele ha anche fornito a Rabat la tecnologia necessaria a produrre in proprio dei droni da bombardamento, che il paese utilizza per colpire la guerriglia del Fronte Polisario, l’organizzazione che si batte per la liberazione dei territori saharawi occupati illegalmente dal Marocco.
Lo scorso 3 dicembre uno di questi droni ha colpito in pieno un fuoristrada nella zona del confine con la Mauritania, uccidendo il conducente e scatenando la reazione di Mohamed el Mokhtar Ould Abdi, governatore della provincia di Tiris-Zemmour, che si trova sulle linee di contatto con l’ex colonia spagnola occupata da Rabat. L’uccisione dei cittadini mauritani fuori dai confini nella zona cuscinetto del Sahara occidentale «non è più accettabile» ha detto il capo del governo locale. Già a settembre due cercatori d’oro mauritani erano stati uccisi nel corso di un bombardamento compiuto da un drone marocchino contro presunte postazioni del Fronte Polisario. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
L'articolo Marocco: proteste contro gli aumenti e la repressione proviene da Pagine Esteri.
Salvatore detto Rino reshared this.
Giovane ucciso dall’esercito israeliano a Dheisha, 212 i palestinesi morti nel 2022
di Elisa Brunelli
Pagine Esteri, 5 dicembre 2022 – Un nastro rosso con il simbolo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina avvolge la fronte di Omar Mannaa, mentre la bandiera palestinese ne copre il corpo esanime. Solo qualche giorno prima compariva in un video mentre preparava il pane nel piccolo forno in cui lavorava, nel cuore del campo profughi di Dheisha di Betlemme. All’alba di questa mattina, 5 dicembre, è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano, operazione che si è conclusa con altri 6 feriti gravi e quattro arresti, tra cui il fratello di Omar. In tutto il territorio di Betlemme è in corso uno sciopero generale che accompagna il funerale del 22enne.
GUARDA IL VIDEO
youtube.com/embed/CaHX4uEuhjs?…
Si allunga così la lista dei palestinesi uccisi quest’anno dall’esercito israeliano. Secondo le statistiche del Ministero della Salute palestinese, da inizio del 2022 si contano 212 vittime, 160 nei territori della Cisgiordania e 52 nella striscia di Gaza, in seguito alla guerra dei 3 giorni dello scorso agosto. Una trentina sono invece gli israeliani uccisi nello stesso periodo, in prevalenza in attacchi armati avvenuti la scorsa primavera a Tel Aviv e in altre città.
Frequenti, raccontano dal campo di Dheisha, sono le irruzioni dell’esercito in mezzo alle case che hanno sostituito confusionariamente le prime tende del ‘48. Le testimonianze di quattro generazioni di profughi cominciano dal dramma della Nakba per ricordare i carri armati dell’Intifada fino a raccontare le esistenze e le resistenze di oggi. La strada principale che arriva al campo è disseminata dai resti dell’ultima barricata data alle fiamme. La firma di alcuni giovani residenti per provare ad impedire i raid dentro il campo profughi da parte dei mezzi dell’esercito.
“Non trovo differenza tra la mia generazione e la loro. Non possiamo fare altro che continuare a resistere. Non abbiamo più nulla da perdere”, spiega Mahmoud Ramadan, oggi portavoce del campo. A 15 anni, durante la seconda Intifada, era stato ferito gravemente dai proiettili dell’Occupazione. I blindati israeliani stavano avanzando e, allora come oggi, anche i più giovani tentavano di impedire l’ennesimo attacco al campo. Ai lanci di pietre, i militari avevano risposto con il fuoco dei proiettili. Ramadan si era salvato miracolosamente, a differenza dei suoi compagni, dopo che uno di questi ha raggiunto, recidendola, la vena safena.
L’uccisione di Omar Mannaa si colloca all’interno di una più ampia operazione che ha coinvolto diverse zone dei Territori Occupati. Sono 17 i palestinesi detenuti nelle ultime ore dall’esercito dalle aree sotto controllo dell’Autorità Palestinese, riporta l’agenzia stampa palestinese WAFA.
Nel campo profughi di Jenin è stato arrestato Yhaya Al-Saadi, figlio di Bassaam Al-Saadi, il leader militare in Cisgiordania del gruppo armato del Jihad palestinese. Nella città di Ni’lin, a ovest di Ramallah tre persone sono state arrestate dopo il saccheggio delle loro case. Perquisizioni anche nelle abitazioni di al-Bireh, che si sono concluse con l’arresto di un adolescente. Altre otto persone sono state arrestate nel distretto di Hebron.
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Addameer, l’associazione per il sostegno ai prigionieri palestinesi all’interno delle carceri e nei centri di detenzione israeliani, si contano 4.760 prigionieri politici palestinesi, tra cui 160 minori, 33 donne. 820 quelli sottoposti a “detenzione amministrativa”, senza alcuna accusa né processi a carico. Pagine Esteri
L'articolo Giovane ucciso dall’esercito israeliano a Dheisha, 212 i palestinesi morti nel 2022 proviene da Pagine Esteri.
Ben(e)detto – 9 dicembre 2022
WordPress & GDPR - Guida alla risoluzione dei problemi relativi alla privacy
reshared this
#uncaffèconluigieinaudi ☕ – Tanto imperiose sono le passioni umane…
Tanto imperiose sono le passioni umane ed inestinguibili l’ambizione, la sete di dominio e di ricchezza, che sempre si rinnovano gli errori trascorsi (ed ognora si seguono vie che l’esperienza ha dimostrato fallaci
da Corriere della Sera, 26 luglio 1913
L'articolo #uncaffèconluigieinaudi ☕ – Tanto imperiose sono le passioni umane… proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
PERÙ. Castillo arrestato dopo aver sciolto il Parlamento
di Davide Matrone –
Pagine Esteri, 7 dicembre 2022 – Ore concitate in Perù quest’oggi 7 dicembre. Alle ore 12 locali, le 17 in Italia, il Presidente della Repubblica del Perù, Pedro Castillo mediante un discorso alla nazione ha annunciato, a sorpresa, una serie di misure eccezionali: scioglimento del Parlamento e convocazione di nuove elezioni per la composizione di una Nuova Carta Costituzionale entro 9 mesi. Uso dei decreti legge straordinari per governare il Paese sotto il coprifuoco che sarebbe entrato in vigore dalle 23 di questa notte. Arresto immediato per chi fosse stato trovato in possesso di armi illegali e stato d’emergenza in tutto il territorio nazionale.
Nemmeno il tempo di annunciare tali misure e il Congresso, in maggioranza in mano all’opposizione, ha denunciato un tentativo colpo di stato e ha votato con 101 voti (sui 130) a favore la sua destituzione eleggendo Dina Boluarte Presidente del Perù fino a prossime elezioni. Dina Boluarte da vicepresidente passa ad essere Presidente del Perù fino alle elezioni del prossimo 2026. Appartiene allo stesso partito dell’ex Presidente Castillo ed ha assunto vari incarichi importanti in quest’ultimo anno: già Vicepresidente del Perù, già Ministro dello Sviluppo e dell’Inclusione Sociale. Da oggi, inoltre, assumerà la Presidenza protempore della Comunità Andina.
Ho contattato il politologo Andy Phillips Zeballos per avere le prime impressioni a caldo su quello che sta succedendo a Lima in questo momento.
“Lo scioglimento delle Camere è anticostituzionale. Non c’è nessun appiglio legale che possa consentirlo in base alla congiuntura politica. Pertanto si respira incredulità e un rifiuto generalizzato, in base alle notizie che circolano in queste ore, da parte della popolazione. Nei minuti successivi all’annuncio il Parlamento ha votato una mozione di sfiducia contro il Presidente Castillo, con 101 voti. Con quest’atto è stato sfiduciato Castillo e abbiamo la prima donna Presidente della Repubblica del Perù, Dina Boluarte. Il potere giudiziaro, le Forze Armate e i mezzi di comunicazione hanno sempre appoggiato il Parlamento insieme alla coalizione di destra che dal principio ha voluto eliminare politicamente Castillo per prenderne il posto. La destra sembra riuscirci anche grazie ai pessimi consigli che riceve il già Presidente Castillo. È una sorpresa per noi che abbiamo difeso la Democrazia in questo paese. Non pensavo che facesse questo. Ci ha colto tutti di sorpresa. Ora ci tocca difendere il poco che ci resta da difendere e pensare al progetto di una nuova Costituzione”
È di pochi minuti fa la notizia della detenzione di Pedro Castillo da parte delle Forze Armate del Paese. Si trova in questo momento in una caserma di polizia di Lima con l’ex Presidente del Consiglio dei Minsitri Aníbal Torres. Il Procuratore dello Stato ha già presentato una denuncia penale contro di lui dopo le misure anticostituzionali emesse questa mattina. “La detenzione avviene in base alla facoltà e attribuzioni descritti nell’art. 5 del D.L n°1267 della Legge di Polizia Nazionale del Perù”, hanno dichiarato le autorità locali.
Dal 2016 ad oggi in Perù si sono susseguiti ben 5 presidenti della Repubblica. Sinonimo di incertezza e instabilità in uno dei paesi con i più alti indici di disuguaglianza economica e sociale.
Nel frattempo, alcune sedi diplomatiche come quella del Messico nella zona di San Isidro, sono state bloccate da centinaia di manifestanti che impediscono la possibile richiesta e l’eventuale tentativo di accesso di Pedro Castillo e famiglia come richiedenti di asilo politico. Nel vicino Ecuador, son state già potenziate misure di sicurezza alla frontiera sud del paese.
L'articolo PERÙ. Castillo arrestato dopo aver sciolto il Parlamento proviene da Pagine Esteri.
Al Jazeera denuncia Israele alla Cpi dell’Aja: «Shireen Abu Akleh fu colpita intenzionalmente»
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 7 dicembre 2022 – Non si arrende Al Jazeera. Il network qatariota afferma di essere in possesso di nuovi elementi a sostegno della sua tesi di spari intenzionali da parte di uno o più soldati israeliani contro la sua corrispondente in Cisgiordania, la palestinese con cittadinanza statunitense Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso 11 maggio. E ieri ha denunciato lo Stato di Israele alla Corte penale internazionale dell’Aja. «L’affermazione secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa per errore in uno scontro a fuoco è completamente infondata», afferma la tv. Quest’ultimo sviluppo giunge dopo un’indagine del team legale di Al Jazeera che avrebbe fatto emergere «nuove prove basate su resoconti di testimoni oculari, l’esame di riprese video e risultati forensi». La risposta del premier israeliano uscente Yair Lapid è stata secca: «Nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell’esercito israeliano. Nessuno ci può fare la morale sul comportamento in guerra, tanto meno la rete tv Al Jazeera». Il futuro ministro della Pubblica sicurezza e leader dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir ha descritto Al Jazeera come «antisemita» e chiesto la sua espulsione.
Israele respinge l’idea che magistrati e commissioni d’inchiesta internazionali possano svolgere indagini sulle azioni del suo esercito e delle sue forze di sicurezza nei Territori palestinesi che occupa da 55 anni. Sostiene che il suo sistema giudiziario militare è in grado di giudicare in modo indipendente. Tuttavia, dati e statistiche esaminate dai centri per la difesa dei diritti umani, a cominciare dall’israeliano B’Tselem, evidenziano che solo in casi rari la magistratura militare israeliana, dopo le denunce presentate da civili palestinesi o in seguito ad offensive ed operazioni dell’esercito a Gaza e in Cisgiordania, ha chiesto l’incriminazione di soldati o agenti della guardia di frontiera (polizia). L’inchiesta, dice B’Tselem, di solito viene chiusa senza conseguenze per i militari. Si attende, ad esempio, l’esito di quella relativa a un caso della scorsa settimana. Ammar Mufleh, un palestinese di 23 anni, è stato fermato ad Huwara (Nablus) da un soldato israeliano. Un filmato mostra Mufleh tenuto per la testa dal militare. Il giovane, disarmato, sferra pugni sul braccio e sul torace del militare che a un certo estrae una pistola e gli spara contro più colpi, anche quando è a terra, uccidendolo all’istante. I palestinesi denunciano una «esecuzione a sangue freddo» simile, affermano, ad altre avvenute in questi ultimi anni in occasione di attacchi, spesso solo tentati o minacciati, all’arma bianca a soldati israeliani. Questi ultimi, aggiungono, sparerebbero intenzionalmente «per uccidere sul posto» l’aggressore. Il soldato di Huwara (un druso), intervistato da un tv israeliana, ha detto di aver aperto il fuoco perché si è sentito in pericolo di vita e perché il palestinese voleva prendergli il mitra. L’inchiesta, sostengono i palestinesi, non metterà in dubbio la sua versione.
Al Jazeera in ogni caso non intende accettare la spiegazione data da Israele dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, ossia che la giornalista sia stata colpita «accidentalmente» da tiri dei soldati. Tesi accolta nei mesi scorsi da un team di investigatori statunitensi. «Le prove presentate alla Corte dell’Aja – ha spiegato l’emittente che ha anche mandato in onda un nuovo servizio d’inchiesta sull’accaduto – ribaltano le tesi delle autorità israeliane e confermano, al di là di ogni dubbio, che non c’erano scambi di colpi d’arma da fuoco nella zona dove si trovava la giornalista se non quelli indirizzati direttamente a lei dalle Forze di occupazione israeliane». «Le evidenze mostrano – ha proseguito la tv qatariota – che questa uccisione deliberata faceva parte di una campagna più vasta per colpire e silenziarci».
L’avvocato della tv, Rodney Dixon, ha spiegato che sta lavorando per identificare chi è direttamente coinvolto nell’uccisione di Abu Akleh. Al Jazeera vuole anche una indagine della Cpi sulla distruzione, durante la guerra del maggio 2021, da parte dell’aviazione israeliana, dell’edificio con la sua sede a Gaza city. Israele la giustificò con la presunta presenza nel palazzo di combattenti di Hamas. Pagine Esteri
L'articolo Al Jazeera denuncia Israele alla Cpi dell’Aja: «Shireen Abu Akleh fu colpita intenzionalmente» proviene da Pagine Esteri.
Il Qatar buca la fantasia politica della FIFA
Se la Coppa del Mondo in Qatar ha dimostrato qualcosa, è che lo sport e la politica sono inseparabili gemelli siamesi uniti dall’anca. La politica è spuntata ad ogni svolta della strada della Coppa del Mondo, sia che riguardasse il diritto alla libertà di espressione di giocatori, commentatori sportivi e tifosi; proteste antigovernative in Iran; […]
L'articolo Il Qatar buca la fantasia politica della FIFA proviene da L'Indro.
USA: il blocco dei chip contro la Cina sta creando conseguenze impreviste
Le guerre commerciali e tecnologiche degli Stati Uniti contro la Cina sono continuate sotto il presidente Joe Biden, che ha intensificato i controlli sulle esportazioni relative alla tecnologia . Gli Stati Uniti vogliono tagliare l’accesso della Cina ai semiconduttori avanzati e alle attrezzature utilizzate per fabbricarli al fine di impedirne l’ uso per scopi militari . Le […]
L'articolo USA: il blocco dei chip contro la Cina sta creando conseguenze impreviste proviene da L'Indro.
La sfida USA: gestire il declino della Russia e l’ascesa della Cina
La Russia è in difficoltà strategica. La guerra scelta da Vladimir Putin in Ucraina ha indebolito la posizione globale della Russia ed eroso l’immagine attentamente affinata dell’abilità di grande potenza che Putin ha coltivato per due decenni. Ma la perdita di potere relativo della Russia non è necessariamente una conquista dell’America . La geopolitica moderna […]
L'articolo La sfida USA: gestire il declino della Russia e l’ascesa della Cina proviene da L'Indro.
La storia insegna, mai sfidare Bankitalia
Giorgia Meloni e molti dei suoi “uomini forti” amano la storia. Un po’ di memoria storica a inizio legislatura può evitargli errori fatali
Dal leader socialista Pietro Nenni, che nei primi anni Sessanta scoprì che “la stanza dei bottoni” a palazzo Chigi non esiste, a Silvio Berlusconi, che si illudeva di poter amministrare l’Italia con i poteri di un amministratore delegato come fosse “una grande Mediaset”, a Metteo Renzi, che sin dal discorso per la fiducia in Parlamento sfidò “le alte burocrazie pubbliche”, che ne fu sconfitto e che per ripicca nel 2017 presentò alla Camera una mozione parlamentare che avrebbe dovuto decapitate l’allora e l’attuale governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, la storia repubblicana insegna che nel Belpaese il potere non è mai stato né mai poterebbe essere assoluto. Non è concentrato, è “concertato”.
E, per chi non ha il carisma e/o la forza di un de Gaulle, una quota significativa tanto vale riconoscerla subito a coloro che in effetti la detengono: le alte burocrazie pubbliche e la filiera Bankitalia.
A Pietro Nenni, Lelio Basso la spiegò così: “Non esiste nessuna stanza dei bottoni perché il potere nasce da un sistema estremamente complesso di forze di cui le più importanti sono certamente al di fuori delle stanze dei ministri e, più ancora, del Parlamento”.
Era vero allora, è ancor più vero oggi. La logica, com’è ovvio, è quella dei vasi comunicanti: più la politica esprime parlamentari e uomini di governo “deboli”, più naturalmente si rafforza questo antico potere che dello Stato italiano ambisce a rappresentare l’ossatura di fondo. E in vacanza d’altro la guida.
Giorgia Meloni e molti dei suoi “uomini forti” amano la storia. Un po’ di memoria storica, dunque, a inizio legislatura può evitargli errori fatali. Tipo pensare di cacciare direttori generali arroganti ma ipercompetenti senza averne di migliori, e men che meno di più accreditati, per poterli rimpiazzare. Tipo prendere per lesa maestà la, in effetti rigorosa e dunque rigorosamente critica, analisi che la Banca d’Italia ha fatto della legge di bilancio. Un monito del potere tecnico al potere politico. Un’utile messa in guardia per evitare passi falsi con la Commissione europea.
L'articolo La storia insegna, mai sfidare Bankitalia proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Relazioni Cina – Africa in revisione
“La Cina ha fatto questo”, “i cinesi hanno fatto quello”. C’è un’essenzializzazione della Cina e degli attori cinesi che ostacola la nostra comprensione delle relazioni Cina-Africa – sia per lodarle che per demonizzarle – poiché raggruppa una molteplicità di approcci, oltre che di attori, in una strategia fantastica. Da qui la necessità di usare il […]
L'articolo Relazioni Cina – Africa in revisione proviene da L'Indro.
RiSentiti
Il risentimento è improduttivo. In politica una pessima bussola (chiedere ad Enrico Letta). Quando si governa non solo è irragionevole, ma può creare danni notevoli. Se, poi, è il frutto della difficoltà che si incontra a conciliare le cose che si dissero per prendere voti con quelle che è opportuno fare, una volta che si è vinto, allora è un segno brutto assai. Il governo ha preso ad usare un tono risentito, come se le critiche alle cose che fa fossero dei fastidi evitabili, come se non siano stati loro per primi a rimaneggiare e cambiare od annunciare di modificare quel che aveva ancora l’inchiostro governativo fresco. Quell’atteggiamento è sbagliato. Non va taciuto, perché non stiamo parlando di questa o quella forza o personalità politica, ma del governo italiano. Del nostro governo.
Le cose dette dal sottosegretario Fazzolari, sulla Banca d’Italia e il suo essere influenzata dalle banche private che ne detengono il capitale, sono uno strafalcione che poteva andare bene in un comizietto presso la sezione rossa del partito comunista marxista leninista o presso quella nera del fascio combattente, ma non può stare in bocca ad un governante. Ovvio che le cose dette dalla Banca d’Italia possono essere discusse, ci mancherebbe, ma non in quel modo sguaiato e insensato.
Ma non è solo quello. È una buona cosa che la presidente del Consiglio, capo di un partito certo non noto per la passione europeista, reclami che ci sia più Unione europea nell’affrontare diversi problemi, ma prima di dire che quel che sta facendo non basta varrà la pena di ricordare d’essere alla guida del governo più finanziato da NGEU. Varrà la pena valorizzare l’intenzione della Commissione europea di cofinanziare l’avvio dei lavori per il ponte sullo stretto di Messina. Che avrebbe detto Meloni, capo dell’opposizione, se quell’intenzione fosse stata manifestata per un ponte francese, di cui i francesi andavano parlando da un cinquantennio? Bhe: il ponte sarà nostro. Se sarà. Non ha molto senso dire all’interno che non si riuscirà a spendere i fondi europei e all’esterno che ce ne vogliono di più. Ed è ben vero che lo schizzare in alto dei prezzi energetici potrebbe essere l’occasione di un fondo comune perequativo, quasi assicurativo, nel medio periodo, per i prezzi delle materie prime strategiche, ma quel genere di fondi esistono nelle Unioni, non mai nelle Confederazioni. E Meloni sostiene la seconda formula.
Ci vuole del tempo, per adattarsi. Va bene. Ma usare quei toni e quei temi risentiti declassa l’Italia da Paese che partecipa alla definizione delle politiche europee a entità dedita al reclamo, per ciò stesso in una posizione e in un ruolo marginalizzati. Reclamare e risentirsi significa essere privi di visione, assumere una postura sindacale, che non promuove, ma sminuisce l’Italia. I pugni li batte chi non ha abbastanza testa.
La campagna elettorale (di quasi tutti) è stata impostata all’insegna di un Paese in recessione, da portare finalmente alla crescita. Ma era falso. Spudoratamente falso. Complice un mondo dell’informazione che prima sceglie lo schieramento e poi come dare la notizia. Crescevamo e cresciamo. Più di quanto immaginassimo. È falso che la destra sia arrivata al governo nel momento peggiore della storia d’Italia (che fa ridere, anche solo a dirsi), mentre c’è arrivata in piena crescita. Il che comporta la difficoltà del paragone, andando incontro a un forte rallentamento. Comprensibile, ma chi governa non ne caverà le gambe cercando scuse e colpevoli esterni.
Subito dopo le elezioni ricordammo che la destra vincente era larga e legittima maggioranza in Parlamento, ma minoranza nel Paese. Questo dato politico suggerisce la necessità di cucire, non di strappare. Il governo durerà quanto la legislatura, ma che la legislatura duri cinque anni dipende da come governerà. Le opposizioni sono groggy, ma i vincitori devono trovare il passo e le parole di chi costruisce qualche cosa, non dello sterile risentimento.
L'articolo RiSentiti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
All’Italia resta un decennio per tornare a 500mila nascite. Poi sarà troppo tardi
La trappola demografica. Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti.
Se le nascite in Italia proseguissero il percorso di diminuzione con il ritmo osservato nel decennio scorso (a cui si è poi aggiunta l’incertezza della pandemia) ci troveremmo ad entrare nella seconda metà di questo secolo con reparti di maternità del tutto vuoti. Lo scenario di zero nati nel 2050 difficilmente verrà effettivamente osservato – le dinamiche reali sono più complesse di una semplice estrapolazione – i dati però ci dicono che alto (oltre il livello di guardia) è diventato il rischio di un processo di declino continuo della natalità.
E’ bene essere consapevoli che le nascite in Italia non sono solo a livello basso, ma anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù. Questa scala mobile è rappresentata dalla struttura per età della nostra popolazione, la quale, per conseguenza della denatalità passata, è in progressivo sbilanciamento a sfavore delle generazioni giovani-adulte (la fonte di vitalità di un paese). Più il tempo passa, più diventa difficile (e se continua così tra pochi anni anche impossibile) invertire la curva negativa delle nascite.
La questione non è più se riusciremo ad evitare il declino della popolazione, oramai gli squilibri strutturali interni (nel rapporto tra generazioni più anziane e quelle più giovani, a sfavore di queste ultime) sono tali che anche nel caso di portare il numero medio di figli per donna ai livelli degli altri paesi europei, a parità di flussi migratori, avremmo comunque un numero di abitanti in maggior riduzione. Si tratta quindi di capire, nei margini di manovra che ci sono rimasti, se riusciremo ad evitare che le nascite entrino negli ingranaggi di una trappola demografica che le condanna ad una irreversibile diminuzione.
Questo scenario è quello più disastroso, perché oltre a diminuire la popolazione (con corrispondenti crescenti difficoltà a garantire servizi e condizioni di benessere minimo nelle aree interne e montane, già oggi in fase di spopolamento), ci troveremmo in tutto il paese non solo con sempre più anziani ma anche sempre meno persone che entrano nella fase della vita in cui si contribuisce alla crescita economica e a rendere sostenibile la spesa pubblica. Un circuito vizioso di questo tipo verrebbe ulteriormente accentuato dal fatto che i pochi giovani decideranno sempre più di prendere in considerazione la scelta di sottrarsi alla stringente tenaglia di indebitamento pubblico e invecchiamento
demografico spostandosi in altri paesi. Allo stesso tempo diventerà sempre più difficile attrarre immigrazione di qualità dall’estero.
Che sia diventato elevato il rischio di uno scenario di questo tipo lo si desume in modo evidente dai dati delle ultime previsioni Istat. Nello scenario mediano, quello considerato più verosimile, le nascite non arrivano a riportarsi al livello da cui sono scese nel decennio precedente (erano oltre 550 mila nel 2010), ma si limitano a tornare lentamente ai livelli precedenti l’impatto della pandemia (attorno a 420 mila), per poi però iniziare un percorso di riduzione che le vincola sotto le 400 mila. Nello scenario peggiore nemmeno tale temporanea e debole ripresa ci sarebbe. Nel percorso, invece, più ottimistico tra quelli delineati dall’Istat, le nascite arriverebbero a posizionarsi sopra le 500 mila. Un obiettivo ancora possibile, quindi, ma solo se l’inversione inizia subito e viene sostenuta in modo solido.
Il declino irreversibile delle nascite è quindi lo scenario da mettere al centro di ogni strategia di sviluppo del paese nei prossimi decenni, per anticipare e prepararsi a gestirne le conseguenze e per valutare l’impegno che siamo disposti oggi a mettere per evitarlo. In questo secondo caso l’azione non può che essere urgente e posta come obiettivo prioritario. Fare qualcosa con manovre che provano a mettere qualche euro qua e là, per poi vedere l’effetto che fa, è inadeguato e inefficace per la situazione in cui ci siamo posti.
Serve un obiettivo chiaro da raggiungere, mettendo in campo tutte le risorse e la capacità di implementazione necessarie, ma anche favorendo un consenso condiviso su risultati attesi e desiderati.
Nel mondo contemporaneo avere figli non è sentito come un obbligo e non è dato per scontato averli anche quando li si desidera. E’ una scelta libera che ha bisogno di condizioni adatte per poter essere realizzata positivamente.
Non è una scelta solitaria: serve attorno una comunità che ne riconosca il valore mettendo in campo politiche solide ed efficaci, all’interno di un clima sociale positivo. Non è una scelta indipendente dalle altre: ha bisogno di inserirsi in un processo di realizzazione personale e di benessere molto più articolato che in passato. Questo comporta prima di tutto la necessità di poter essere integrata positivamente con altre scelte. Autonomia dalla famiglia di origine e realizzazione di una propria sono strettamente dipendenti dalle politiche abitative e dalle politiche attive del lavoro per i giovani. La scelta di avere figli e quella di lavorare, non rinunciando alla propria realizzazione professionale, devono non solo essere compatibili ma diventare leva positiva reciproca una dell’altra. Indispensabili sono, su questo versante, misure sia di conciliazione che di condivisione tra madri e padri.
Questo significa, più in concreto, che la natalità non potrà aumentare se continueremo ad avere il record di NEET (i giovani che non studiano e non lavorano), pari circa al 30% nella fascia 25-34 anni. Conseguenza delle fragilità di tutto il percorso di transizione scuola-lavoro che porta a posticipare in età sempre più tardiva l’arrivo del primo figlio (l’età media in cui si diventa genitori è la più alta in Europa).
La natalità, inoltre, non può che aumentare assieme all’occupazione femminile, entrambe tenute basse dalla carenza di strumenti e servizi che armonizzano impegno di lavoro e responsabilità familiari. Inoltre un secondo reddito, in presenza di conciliazione e condivisione, riduce il rischio di povertà e favorisce le condizioni economiche per avere un figlio in più.
Infine, la natalità aumenta se si rafforza anche la consistenza della popolazione in età riproduttiva, contributo che può arrivare dall’immigrazione. Ma solo una immigrazione che trova condizioni per essere inclusa e bene integrata nel sistema sociale e nei processi di sviluppo del paese contribuisce alla vitalità demografica, in caso contrario si adatta presto al ribasso ai comportamenti riproduttivi autoctoni.
Questo significa che per rispondere alle trasformazioni demografiche e alle esigenze di sviluppo del paese la quota che davvero conta è quella di arrivare a 500 mila nascite entro i prossimi dieci anni. Perché non solo ci aiuta a non condannarci ad una trappola demografica che genera squilibri irreversibili, ma anche perché può essere ottenuta solo combinando politiche familiari con condizioni che portano al rialzo anche occupazione giovanile, partecipazione femminile al mercato del lavoro, immigrazione di qualità (in grado di rinsaldare la forza lavoro nel breve periodo). Per arrivare a tale obiettivo serve tutto un paese che si muove nella stessa direzione.
Il Sole 24 Ore
L'articolo All’Italia resta un decennio per tornare a 500mila nascite. Poi sarà troppo tardi proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Team 4 Peace - Lo sport come strumento per allenare alla pace. Concorso per le scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, per contrastare i fenomeni di odio e discriminazione razziale nell’ambito dello sport non agon…
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Team 4 Peace - Lo sport come strumento per allenare alla pace. Concorso per le scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, per contrastare i fenomeni di odio e discriminazione razziale nell’ambito dello sport non agon…Telegram
La Russia deve smettere di pensarsi un impero se vuole prosperare come nazione
Quando l’URSS crollò nel 1991, la Federazione Russa abbracciò più o meno esattamente la stessa identità imperiale che i bolscevichi avevano ereditato dai loro predecessori zaristi generazioni prima. Fino a quando questo non cambierà, la Russia rimarrà una fonte di instabilità globale e una minaccia per la sicurezza europea, pur non riuscendo a raggiungere il […]
L'articolo La Russia deve smettere di pensarsi un impero se vuole prosperare come nazione proviene da L'Indro.
Maria Laura Mantovani: "No a Microsoft e Google nelle scuole, seguiamo l'esempio della Francia"
Segnalo l'articolo di Maria Laura Mantovani, (ex senatrice e portavoce m5s):
agendadigitale.eu/sicurezza/pr…
Cito il passo secondo me più saliente:
> Possiamo da genitori pretendere per i nostri figli che vengano messi nelle condizioni di comprendere il mondo digitale contemporaneo e possano acquisire gli strumenti di libertà per condurre la vita o dobbiamo accontentarci del lavoretto socialmente utile deciso per loro da entità lontane che li sfrutterà come schiavi? Educhiamo i bambini all’umile lavoretto socialmente utile, affinché possano accettarlo anche da grandi? Oppure al contrario possiamo pretendere che si fornisca la comprensione della differenza tra essere dipendenti da una piattaforma informatica che ti guida ovvero stabilire come essa funziona e saperla programmare?
Maria Laura Mantovani è prima firmataria del disegno di legge UNIRE[1] di cui potete leggere anche su Friendica[2].
[1] parlamento18.openpolis.it/sing…
[2] poliverso.org/display/0477a01e…
Il GARR, la Scuola e la rete UNIRE
LA RETE GARR E LA RETE UNIRE di Maria Laura Mantovani In questo video Enzo Valente ci racconta perché è stata fatta la Rete GARR, una storia che parte dal...poliverso.org