Il dilemma tra libertà e sicurezza
Temo che la disputa attorno alle intercettazioni sia molto male impostata. Perché se mi vogliono convincere dell’utilità delle intercettazioni nel combattere la criminalità, è uno sforzo vano: sono già convinto. Se mi vogliono convincere che intercettare sempre di più permetterebbe di combattere sempre meglio la criminalità, né più né meno, non obietto un solo istante.
Se mi vogliono convincere delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia per mettere in scacco i criminali, per esempio il famoso trojan, il malware attraverso il quale si intercetta anche se l’intercettato non parla al telefono e anche se il suo telefono è spento, credetemi: fatica sprecata. Tutto vero, tutto incontrovertibile.
Se, per esempio, si trovasse il modo di intercettare ognuno di noi, fino all’ultimo, per ventiquattro ore su ventiquattro, magari con il supporto dell’intelligenza artificiale, la questione sarebbe chiusa: diventeremmo una società perfettamente onesta, e i pochi imprudenti andrebbero a far compagnia a Messina Denaro in un quarto d’ora.
Avremmo perduto la libertà, ma avremmo guadagnato la sicurezza. Ed è questa la vera grande domanda: abbiamo costruito le società liberali e democratiche per garantire il massimo della libertà a ogni individuo o le abbiamo costruite per garantirgli il massimo della sicurezza?
Le abbiamo costruite per la libertà sapendo che la libertà è un rischio o le abbiamo costruite per non correre rischi? Perché se pensiamo di averle costruite per blindarci dentro un fortino inespugnabile, vuol dire che abbiamo dimenticato le ragioni dei nostri valori fondanti, ma almeno dobbiamo dircelo.
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Il ricatto nucleare di Putin non deve impedire la liberazione della Crimea
I notevoli successi militari dell’Ucraina nella seconda metà del 2022 hanno sollevato la prospettiva che l’invasione russa del Paese possa concludersi con una decisiva vittoria di Kiev. Mentre questo risultato sarebbe ampiamente accolto con favore, ci sono molti che rimangono allarmati per le potenziali conseguenze di una sconfitta così storica da parte della Russia. Queste […]
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USA: la cannabis è seconda causa di incidenti dopo l’alcool
Mentre l’alcol rimane la droga più frequentemente rilevata negli incidenti di guida con alterazione alla guida negli Stati Uniti, la cannabis si colloca al secondo posto ed è la sostanza più spesso rilevata in combinazione con l’alcol o altre droghe. Questa constatazione ha indotto il National Transportation Safety Board a raccomandare che i prodotti a […]
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Movimenti e politica
I Verdi, in Germania, sono al governo. Le elezioni sono andate bene e si trovano in coalizione con i liberali, nel governo guidato dal socialdemocratico Scholz. Nella stessa Germania i movimenti ecologisti protestano vivacemente e per la resistenza passiva, davanti a una miniera di carbone, la polizia ha fermato diversi attivisti, compresa Greta Thunberg, che era arrivata ad aiutarli, forte della visibilità che molti media e molti governanti le hanno tributato. La scena presenta, insomma, una protesta contro le decisioni del governo, che si traduce in: ecologisti contro Verdi. La cosa è meno strana e più interessante di quanto possa apparire.
Un movimento ecologista ha tutto il diritto non solo di manifestare, ma anche di occuparsi di un solo tema. Il che vale per qualsiasi altro movimento o protesta che si concentrino su un solo punto. Chi si batte per l’ambiente non è tenuto ad avere una tesi sull’umanità dei regimi carcerari e viceversa. Danno voce a una sola esigenza e non ha alcun senso chiedere loro coerenti visioni del mondo. Nella dialettica democratica si può ben essere interni al quadro istituzionale e avversi ai governanti, mentre questo esercizio è impossibile senza democrazia e Stato di diritto. Evviva la democrazia.
I Verdi tedeschi, del resto, come l’intero governo e l’intero mondo politico, hanno dato il via libera all’estrazione e uso del carbone non certo perché avessero cambiato idea o per promuovere un revival, ma perché non avevano altra scelta. Difatti è stato detto in maniera esplicita: lo facciamo oggi, ma smetteremo di farlo al più presto, confermando gli impegni per la decarbonizzazione. Impegni presi anche con quei movimenti ecologisti, il che riguarda anche l’Italia e l’intera Unione europea. La decisione di riutilizzare il carbone sarebbe incomprensibile, incoerente e pazzesca se non fosse che a febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina, per cui l’Ue, con le altre democrazie occidentali, ha importo pesanti sanzioni alla Russia.
In Germania il secondo gasdotto è stato abbandonato e ci si appresta a non comprare più il gas russo. Ma la società e la produzione tedesca (come la nostra e tutte) hanno comunque bisogno di energia, sicché si corre verso altre fonti e si tappa un buco temporaneo anche con il carbone. La scelta compiuta è dolorosa, ma saggia. La protesta ecologista è legittima. Il problema sta tutto in un punto dove si trova la responsabilità di garantire la compatibilità. Un movimento può sottrarsi a quel dovere, sebbene correndo il rischio di restare meramente declamatorio, ma la politica non può e non deve.
Il che vale per chi governa, ma dovrebbe valere anche per chi si oppone. Ed è qui che cascano molti asini politici. La politica seria elabora delle idee e cerca di aggregare il consenso su quelle. La politica non seria insegue il consenso adottando le idee che lo favoriscono. A forza di
praticare questo scostumato costume la politica ha preso la forma delle trasmissioni televisive: ora ci si occupa della violenza, sicché si reclamano controlli e repressione; poi c’è la pubblicità; quindi si volta pagina e ci si occupa della legittima difesa, sicché si chiede che chiunque possa avere un’arma e usarla; e se qualcuno obietta che le due cose non stanno assieme il conduttore lo mette a tacere: andiamo avanti, questo era l’argomento di prima.
A tale perversione se ne aggiunge un’altra: chi governa, volente o nolente, deve fare i conti con i fatti, ma chi sta all’opposizione si prende il lusso di ignorarli, sparandole grosse, purché siano “contro”. Risultato: quando vanno al governo gli tocca rimangiarsi tutto, magari negandolo nel mentre deglutiscono. I movimenti possono avere un solo tema e ignorare la compatibilità. La politica mai, altrimenti smette d’essere politica e diventa competizione fra vuoti vanesi sproloquianti. I Verdi tedeschi ci picchiano la testa, ma dovrebbe farlo chiunque abbia un briciolo di senso di responsabilità.
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REPORTAGE-PALESTINA. Nel cuore di Nablus c’è un campo di battaglia
di Michele Giorgio
(le foto sono di Michele Giorgio)
Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Il traffico è quello caotico di tutti i giorni. Fabbriche, laboratori di artigiani e negozi sono aperti. Come fanno ogni mattina gli studenti dell’università al Najah a passo veloce raggiungono il campus e di pomeriggio affollano i caffè intorno all’ateneo riempiendo l’aria di suoni, parole, risate. Nablus sembra vivere una tranquilla quotidianità. È solo apparenza. La seconda città palestinese della Cisgiordania dalla scorsa estate vive in un clima di guerra, una guerra che si combatte soprattutto di notte e che non risparmia nessuno. Il campo di battaglia principale è la casbah, la città vecchia. Gli uomini delle unità speciali dell’esercito israeliano, i mistaravim in abiti civili che si fingono palestinesi, di notte con azioni fulminee aprono la strada ai blitz dei reparti dell’esercito a caccia di militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo che riunisce combattenti di ogni orientamento politico diventato l’icona della lotta armata palestinese. Incursioni che sono accompagnate da intensi scontri a fuoco e che terminano con uccisioni di palestinesi, compiute quasi sempre da cecchini.
«Viviamo come se fossimo in guerra, con gli occupanti (israeliani) che entrano quasi ogni notte nella città per uccidere o catturare qualcuno e spesso a pagarne le conseguenze sono i civili» ci dice Majdi H., un educatore che ha accettato di accompagnarci. «La casbah è l’obiettivo principale di Israele – aggiunge – perché rappresenta il rifugio della resistenza. Però i raid avvengono ovunque e si trasformano in battaglia alla Tomba di Giuseppe». Majdi si riferisce alle «visite» notturne periodiche dei coloni israeliani al sito religioso all’interno dell’area A, sotto il pieno controllo palestinese. Il loro arrivo, con una scorta di dozzine di soldati e automezzi militari, innesca scontri a fuoco violenti con la Fossa dei Leoni. «Vogliano vivere la nostra vita, senza più vedere coloni e soldati ma non ci viene permesso» prosegue Majdi che da alcuni anni svolge, assieme ad altri colleghi, attività di sostegno psicologico ai minori. «Sono i più colpiti da questo clima – ci spiega -, bambini e ragazzi sono i più esposti ai danni che procura questa guerra, a bassa intensità ma pur sempre violenta». La situazione attuale, ricorda a molti l’operazione Muraglia di Difesa lanciata da Israele nel 2002, quando l’esercito, nel pieno della seconda Intifada, rioccupò le città autonome palestinesi. Calcolarono in circa 300 i morti palestinesi a Nablus attraversata e devastata per mesi da carri armati e mezzi blindati. Oggi come allora, i comandi militari e il governo israeliano giustificano il pugno di ferro con la «lotta al terrorismo» e alle organizzazione armate palestinesi responsabili di attacchi che in qualche caso hanno ucciso o ferito soldati e coloni.
La bellezza della casbah di Nablus è paragonabile solo a quella della città vecchia di Gerusalemme. I lavori di recupero avviati negli anni passati dalle autorità locali, grazie anche a progetti internazionali, hanno ridato nuovo splendore a edifici antichi e ad angoli nascosti. Gli hammam (bagni) che contribuiscono a rendere nota la città, sono stati ristrutturati così come le fabbriche di piastrelle e del sapone all’olio d’oliva e i laboratori a conduzione familiare che producono le gelatine ricoperte di zucchero a velo. «Ma la regina dei dolci di Nablus era e resta la kunafa» puntualizza Majdi riferendosi a una delle delizie della cucina palestinese. L’atmosfera è piacevole. Dopo la moschea al Khader si incontrano ristorantini con vasi fioriti e luci colorate che si riflettono sulla pietra bianca delle abitazioni. I commercianti espongono merci di ogni tipo e gli ambulanti a voce alta descrivono la bontà di frutta e verdura che hanno portato in città.
Entrati nel rione Al Yasmin, Majdi si fa più serio e teso. «Siamo nella zona rossa, questa è la roccaforte della Fossa dei Leoni e di altri gruppi armati. Qui ci sono scontri a fuoco quasi ogni notte tra i nostri giovani e i soldati israeliani. Non puoi scattare foto e se incontriamo i combattenti, mi raccomando, non seguirli troppo a lungo con lo sguardo. Il timore di spie e collaborazionisti è forte» ci intima a voce bassa. Sopra le nostre teste, nei vicoli, sono stati stesi lunghi teli neri per nascondere ai droni israeliani i movimenti degli armati. I muri sono tappezzati di poster con i volti di martiri vecchi e nuovi, quelli uccisi durante la prima Intifada trent’anni fa e quelli colpiti a morte nelle ultime settimane. Una sorta di mausoleo ricavato in una piazzetta ne ricorda i più famosi, tra cui Ibrahim Nabulsi, che lo scorso agosto, circondato da truppe israeliane, preferì morire e non arrendersi. Nabulsi prima di essere colpito a morte inviò un audio alla madre virale per mesi. Per i palestinesi è un eroe. Per Israele invece il primo leader della Fossa dei Leoni era un «pericoloso terrorista» e tra i responsabili di gravi attacchi armati a soldati e coloni. I mistaravim israeliani hanno già decapitato un paio di volte i vertici della Fossa dei Leoni ma il gruppo vede crescere i suoi ranghi ogni giorno di più. Ne farebbero parte tra 100 e 150 abitanti di Nablus e dei villaggi vicini. Un paio di loro ci passano accanto, non possiamo fotografarli o fermarli per fare qualche domanda, ci ribadisce secco Majdi al quale nel frattempo si è unito Amer, un suo amico che vive nella casbah per garantirci un ulteriore «lasciapassare». L’uniforme degli armati è nera, il volto è coperto dal passamontagna, una fascia colorata con il logo del gruppo avvolge la parte superiore della testa. L’arma è quasi sempre un mitra M-16.
Una «divisa» simile la indossano i membri del Battaglione Balata nel campo profughi più grande della città, noto anche per essere un bastione della resistenza alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese che tanti a Nablus, anche del partito Fatah del presidente Abu Mazen, ormai considerano «al servizio» di Israele. Le operazioni di sicurezza (repressive) a Nablus delle forze speciali dell’Anp sono la causa di proteste violente e le strade del centro cittadino si trasformano in terreno di scontro tra giovani e poliziotti. «Chiediamo, invano, da decenni la fine dell’occupazione israeliana, il problema principale di Nablus, di ogni città, di ogni palestinese» dice Osama Mustafa, direttore del centro culturale Yafa nel campo di Balata. «Ci abbiamo provato con gli accordi di Oslo, con i negoziati ma non è servito a nulla, restiamo sotto occupazione, le colonie israeliane ci circondano» aggiunge Mustafa. «Israele afferma che la sua pressione su Nablus è dovuta alla presenza in città di uomini armati e attua misure punitive che colpiscono tutta la popolazione». La frustrazione è palpabile, l’esasperazione per il disinteresse dei paesi occidentali deteriora il rapporto con l’Europa. «Al centro Yafa svolgiamo attività culturali e a favore dell’infanzia» spiega Mustafa «sono progetti civili, quasi sempre per i bambini. Eppure, per assegnarci i finanziamenti l’Ue chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo». Pagine Esteri
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Ucraina: 6 domande che i generali occidentali non sembrano mai porsi, ma dovrebbero farlo oggi
Quando i massimi funzionari della difesa statunitensi ed europei si incontreranno oggi alla base aerea di Ramstein in Germania per discutere della guerra in Ucraina, la questione più importante all’ordine del giorno sarà come la coalizione può continuare a fornire all’Ucraina sistemi d’arma più sofisticati. Nello specifico, il gruppo di contatto ucraino, un’assemblea formale di […]
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Il presidente della Fondazione Einaudi ospite di Prato Riparte – notiziediprato.it
L’appuntamento è per lunedì prossimo all’ex chiesino di San Giovanni. L’avvocato Giuseppe Benedetto presenterà il suo libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”
I vertici della Fondazione Luigi Einaudi a Prato, ospiti del laboratorio politico Prato Riparte. Nuovo evento organizzato nell’ex chiesino San Giovanni per lunedì 23 gennaio alle ore 19, ed è un nuovo evento che alza il tiro del laboratorio che porta in città il presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto che presenterà il suo libro “Non diamoci del tu – La separazione delle carriere” con prefazione dell’attuale Ministro della Giustizia Carlo Nordio. E con lui ci saranno Andrea Cangini, Benedetta Frucci e Marco Mariani, rispettivamente Segretario generale, membro del Comitato scientifico e Direttore affari Europei della stessa Fondazione Einaudi. E’ opportuno ricordare che la Fondazione Luigi Einaudi è il centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale. E’ stata costituita nel 1962 da Giovanni Malagodi. Come vision si impegna perché ogni cittadino sia in condizione di vivere, di crescere, di rapportarsi con gli altri e di prosperare in pace, attraverso il riconoscimento delle diversità, la difesa delle libertà individuali e della dignità umana, la promozione del confronto libero e costruttivo sui fatti e le idee. Come mission ha quella di promuove il liberalismo per elaborare risposte originali alla complessità dei problemi contemporanei legati alla globalizzazione e alla rapida evoluzione tecnologica, al fine di favorire le Libertà individuali e la prosperità economica.
Proprio la settimana scorsa l’avvocato Giuseppe Benedetto, insieme ad Alessandro De Nicola, Oscar Giannino e Sandro Gozi, è stato tra gli organizzatori dell’iniziativa Costituente Libdem, tenutasi a Milano nell’auditorium San Fedele, con l’incontro dal titolo “Le sfide della liberaldemocrazia in Europa. Come rafforzare Renew Europe e Partito democratico europeo”. Un evento al quale hanno partecipato i leader dei principali partiti italiani che rientrano nel campo liberale riformista, a cominciare da Carlo Calenda e Matteo Renzi, rispettivamente segretari di Azione e Italia Viva ma che ha visto anche le presenze di Benedetto Della Vedova (Più Europa), Giulia Pastorella, Maria Stella Gelmini, Marco Cappato e molti altri esponenti del mondo della politica, delle istituzioni, dell’università e della cultura. Un evento che, riportato su un piano nazionale, altro non è stato che una riproposizione in grande di quello che Prato Riparte sta portando avanti da quasi due anni in città.
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Separazione delle carriere, ecco il dibattito – lanazione.it
Lunedì i vertici della Fondazione Einaudi all’ex chiesino di San Giovanni. Iniziativa di Prato riparte
Si parlerà della separazione delle carriere nel sistema giudiziario lunedì prossimo, 23 gennaio, all’ex chiesino di San Giovanni.
L’occasione è data dall’iniziativa promossa dal laboratorio politico Prato Riparte, che ha invitato in città i vertici della Fondazione Luigi Einaudi. Stiamo parlando del centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale. L’appuntamento sul
retro del Castello dell’Imperatore è per le 19. Presente il presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto che presenterà il suo libro «Non diamoci del tu – La separazione delle carriere» con prefazione dell’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Ad affiancare Benedetto ci saranno Andrea Cangini, Benedetta Frucci e Marco Mariani, rispettivamente segretario generale, membro del
comitato scientifico e direttore affari europei della stessa Fondazione. A moderare il dibattito saranno i giornalisti Nadia Tarantino
di Notizie di Prato e Pasquale Petrella de Il Tirreno.
La Fondazione Einaudi è stata costituita nel 1962 da Giovanni Malagodi e da decenni si impegna affinché ogni cittadino sia in condizione di vivere, di crescere, di rapportarsi con gli altri e di prosperare in pace, attraverso il riconoscimento delle diversità, la difesa delle libertà individuali e della dignità umana, la promozione del confronto libero e costruttivo sui fatti e le idee. Prato Riparte nell’annunciare la serata sottolinea come il laboratorio politico abbia «alzato il tiro» nel livello delle iniziative organizzate. E ricorda come proprio la settimana scorsa l’avvocato Giuseppe Benedetto sia stato tra gli organizzatori dell’iniziativa «Costituente Libdem». Un incontro al quale hanno partecipato
alcuni leader politici del campo liberale riformista.
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CINA. Il Covid colpisce duro il paese ma l’economia riparte
di Michele Giorgio
(la foto è di Tim Dennell)
Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Sono milioni i contagi in Cina che conta nell’ultimo mese decina di migliaia di morti per il Covid, cifre mai toccate durante la pandemia e risultato oltre che del fallimento della campagna vaccinale cinese anche della fine delle rigide restrizioni ai movimenti e contatti sociali imposte dalle autorità nei passati tre anni. Ma le riaperture allo stesso tempo rilanciando quella che è considerata l’economia motore del mondo. Dopo il netto arretramento registrato nel 2022, quest’anno gli indici economici cinesi segneranno livelli di crescita significativi. Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco*, giornalista a Shanghai e analista del Centri Studi sulla Cina Contemporanea.
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*Giornalista professionista, China analyst, scrivo per il quotidiano Domani. Ho pubblicato “Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci, 2022), e “Una Cina perfetta – La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020). Habitué della Repubblica popolare dal 2007, ho vissuto a Pechino nel 2011-2012, corrispondente per il quotidiano il manifesto nello scoppiettante e nebbioso crepuscolo della tecnocrazia di Hu Jintao & Co. Sono rientrato in Cina nel gennaio 2018, anno I della Nuova era di Xi Jinping, quella in cui il Partito-Stato regalerà a tutti “una vita migliore” e costruirà “un grande paese socialista moderno”. Racconto storie, raccolgo dati e cito fatti evitando di proiettare le mie ansie e le mie (in)certezze su un popolo straordinario che se ne farebbe un baffo.
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Etiopia: dopo 600 mila morti una pace molto fragile
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 19 gennaio 2023 – Probabilmente, un bilancio esatto delle vittime del conflitto che ha insanguinato il nord dell’Etiopia negli ultimi due anni non sarà mai disponibile. Ma quelli forniti finora da diverse fonti parlano tutti di alcune centinaia di migliaia di morti.
In un’intervista al “Financial Times”, ad esempio, il mediatore dell’Unione Africana sul conflitto in Tigray, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, afferma che in due anni di guerra potrebbero essere morte fino a 600 mila persone.
Obasanjo ha ricordato che lo scorso 2 novembre, quando a Pretoria i funzionari etiopi hanno firmato un accordo di pace con i rappresentanti della guerriglia tigrina, i partecipanti alle trattative hanno parlato di una media di mille morti al giorno nei due anni di scontri tra l’esercito federale di Addis Abeba – e le milizie regionali alleate – e le forze del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino (Tplf).
«Sulla base dei rapporti dal campo, il numero di morti potrebbe essere compreso tra 300 mila e 400 mila solo tra le vittime civili causate dalle atrocità, dalla fame e dalla mancanza di assistenza sanitaria» ha detto sempre al “Financial Times” Tim Vanden Bempt, membro del gruppo di ricercatori attivo all’Università belga di Gand che indaga sulle conseguenze del conflitto.
Due anni di guerra e centinaia di migliaia di vittime
I combattimenti hanno avuto inizio il 4 novembre 2020, quando il primo ministro federale Abiy Ahmed ordinò l’intervento delle truppe etiopi contro le milizie del governo regionale del Tigray che poche ore prima avevano assaltato alcune caserme. A fianco di Ahmed – riconfermato nonostante la scadenza del suo mandato dopo la sospensione delle elezioni legislative a causa della pandemia – si schierarono anche le truppe dell’Eritrea e le milizie di alcuni stati regionali etiopi, come l’Amhara. Al fianco del TPLF – che aveva a lungo gestito il potere a livello federale prima di essere estromesso dalla corrente panetiopista capeggiata da Ahmed – si è schierato invece l’Esercito di Liberazione Oromo, che pur rappresentando l’etnia alla quale appartiene il primo ministro si batte per l’autodeterminazione del proprio territorio.
Per alcuni mesi sembrò che le truppe federali e gli eritrei – nemici storici di Addis Abeba prima che nel 2018 Ahmed siglasse la pace con il regime di Asmara aggiudicandosi un Nobel per la Pace – fossero in grado di sbaragliare le forze ribelli. Ma poi un’offensiva congiunta di tigrini e Oromo ha inflitto cocenti sconfitte alle truppe federali tanto che ad un certo punto i ribelli sembravano in grado di conquistare addirittura la capitale federale dopo aver conquistato ampie porzioni dell’Amhara e dell’Afar, nel centro-nord del paese.
L’Etiopia cerca nuovi alleati
Mentre Usa e Ue, ex sostenitori di Addis Abeba, imponevano sanzioni all’Etiopia, in soccorso di Abiy Ahmed si sono schierati Cina, Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, fornendo armi, supporto diplomatico e ingenti prestiti. Nel luglio 2021 l’Etiopia ha firmato con Mosca un accordo che impegna la Russia a fornire addestramento e tecnologie d’avanguardia per riorganizzare l’esercito di Addis Abeba. In cambio Mosca ha ottenuto un trattamento di favore nell’acquisizione di licenze per estrazioni minerarie ed energetiche.
Negli ultimi anni Ahmed ha rafforzato molto il legame con Pechino, che ha nel frattempo finanziato e realizzato decine di opere pubbliche e infrastrutture nel paese, compreso il treno che collega la capitale etiope con Gibuti, preso più volte di mira dal Tplf, e la Grande Diga della Rinascita.
Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, nell’ambito di un lungo tour africano, ha firmato con l’omologo etiope Demeke Mekonnen diversi accordi bilaterali, tra i quali la cancellazione di una porzione consistente del debito etiope con Pechino (negli ultimi 10 anni la Cina ha prestato ad Addis Abeba 14 miliardi). Pechino ha confermato l’impegno per la realizzazione del Centro Africano per il controllo e la prevenzione delle malattie (Africa Cdc, l’agenzia sanitaria dell’Unione Africana), la cui sede – interamente finanziata dalla Cina con 80 milioni – sorgerà ad Addis Abeba.
Sono stati soprattutto i droni da bombardamento ricevuti dagli alleati – i cinesi Wing Loong 2, i turchi Bayraktar Tb2 e gli iraniani Mujaher-6 – a permettere alle truppe federali di infliggere dure sconfitte al Tplf costringendolo ad arroccarsi nel Tigray e a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale. Le forze federali hanno ampiamente fatto ricorso ai bombardamenti indiscriminati sulle città tigrine, colpendo duramente la popolazione già stremata.
Una pace molto fragile
Una lunga e difficile trattativa, mediata dall’Unione Africana, ha finalmente portato alla firma del cessate il fuoco e alla stesura di un’agenda condivisa per un ritorno alla normalità.
Nelle ultime settimane sono stati indubbiamente fatti dei passi avanti. Ieri, ad esempio, le truppe federali sono entrate ad Adigrat, a lungo controllata dal Tplf. Nei giorni scorsi, invece, sono state le milizie amhara a ritirarsi da Scirè, nel Tigray occidentale, ottemperando agli impegni assunti in sede negoziale. Già a fine dicembre la polizia federale etiope era tornata a schierarsi a Mekelle, la capitale del Tigray, dopo due anni di assenza.
Il 10 gennaio, poi, le forze tigrine hanno iniziato a consegnare le armi pesanti sotto il monitoraggio di un apposito team dell’Unione Africana istituito grazie all’accordo raggiunto dalle parti a Nairobi lo scorso 22 dicembre. Il team, in coordinamento con i rappresentanti dei due schieramenti e l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (Igad, che riunisce 8 paesi del Corno d’Africa) è incaricato di monitorare l’applicazione dell’accordo di cessazione delle ostilità e di segnalare ritardi e violazioni.
Nel frattempo, la ministra della Salute Lia Tadesse ha annunciato la riattivazione delle strutture sanitarie distrutte o paralizzate dal conflitto, la distribuzione dei medicinali salvavita e l’avvio delle vaccinazioni contro il morbillo. Anche gli aeroporti di Mekelle e Scirè sono stati riaperti ed alcuni voli hanno riportato nella regione alcuni degli abitanti che erano dovuti fuggire a causa dei combattimenti o delle persecuzioni.
Guerriglieri del Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino
Disastro umanitario
Nella regione stanno arrivando anche, seppure a rilento, gli aiuti internazionali destinati alla popolazione, in precedenza bloccati quasi completamente dal governo federale.
Nel Tigray «si stima che 9 persone su 10 abbiano bisogno di assistenza umanitaria e 400mila circa siano vittime di una pesante carestia aggravata dal fatto che l’arrivo di aiuti umanitari è ancora limitato» scrive in un rapporto il Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani.
La siccità, oltre alla paralisi dell’economia locale, alla distruzione di molte infrastrutture e all’abbandono dei campi da parte degli sfollati, hanno causato in Tigray un vero e proprio disastro umanitario. Anche in altre regioni aride del paese, nel sud, le cose non vanno meglio: secondo Save the Children, attualmente 12 milioni di persone (su 115 milioni di abitanti totali) patirebbe la fame e 4 milioni di bambini sarebbero malnutriti.
L’incognita eritrea
Quella raggiunta il 2 novembre a Pretoria rischia di essere una pace incerta e provvisoria.
L’incognita maggiore è rappresentata dalla presenza in Tigray delle truppe eritree, negata per mesi sia da Abiy Ahmed sia dal dittatore di Asmara Isaias Afewerki, prima che la presenza di almeno metà dell’esercito del piccolo paese – resosi indipendente da Addis Abeba nel 1993 dopo una sanguinosa guerra durata due decadi – diventasse troppo ingombrante per continuare a nasconderla.
L’Eritrea rappresenta il “convitato di pietra” dell’accordo di cessate il fuoco permanente – alla quale non ha preso parte – e l’atteggiamento di Afewerki potrebbe rappresentare un ostacolo non secondario alla normalizzazione della situazione. Finché tutte le truppe eritree non avranno abbandonato il territorio tigrino, infatti, le milizie del Fronte di Liberazione difficilmente potranno disarmare. Al momento, il Tplf manterrebbe 20 mila miliziani armati schierati nelle zone di confine del Sudan.
Secondo Obasanjo e vari testimoni sul campo, gli eritrei avrebbero cominciato a rientrare lentamente in patria abbandonando ad esempio Axum e Scirè.
Ma ancora a gennaio il Centro di Coordinamento regionale per le emergenze – un gruppo di organizzazioni attive nel Tigray – ha denunciato le ennesime atrocità commesse dalle forze di Asmara contro i civili tigrini e contro gli oppositori di Afewerki che si erano rifugiati nella regione al confine con l’Eritrea.
Nei giorni scorsi molti dei 16 mila tigrini ospitati nel campo di Um Rakuba, nel Sudan orientale, hanno denunciato di non poter tornare a casa perché il loro territorio, nel Tigray occidentale, è occupato dalle milizie e da coloni Amhara o da soldati eritrei.
Secondo fonti tigrine citate dall’Avvenire, alla fine di novembre le truppe eritree avrebbero ucciso «3000 persone in una località a pochi km da Adua, 78 ad Adiabo e 85 nella provincia di Irob».
Nella regione, accusano sempre fonti tigrine, circa 120 mila donne sarebbero state violentate dai soldati etiopi ed eritrei e dai miliziani Amhara. Anche i guerriglieri del Tplf, però sono stati spesso accusati di atrocità nei confronti delle popolazioni delle regioni occupate durante l’offensiva contro Addis Abeba.
Difficilmente Afewerki – che arma milizie tigrine opposte al Tplf – rinuncerà a indebolire ulteriormente il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che guidava l’Etiopia durante la guerra per l’indipendenza dell’Eritrea.
Anche se finora ha rappresentato un utile alleato del leader etiope, il regime di Asmara potrebbe tentare di rimanere nel Tigray anche senza il consenso di Abiy Ahmed. Numerosi analisti si interrogano sull’effettiva capacità del governo etiope di costringere i combattenti eritrei ad andarsene. Ne potrebbero nascere nuovi scontri, questa volta tra i due paesi prima rivali e poi alleati.
Oppure, il premier etiope potrebbe tacitamente tollerare o addirittura sollecitare la permanenza delle truppe eritree in Tigray per garantirsi il controllo del territorio e al tempo stesso permettere all’esercito federale di concentrare le proprie forze contro la ribellione Oromo, che nelle ultime settimane sembra incendiarsi.
La ribellione Oromo
Mentre a nord si raffreddava il sanguinoso conflitto con i tigrini, Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva su vasta scala per distruggere le milizie dell’Esercito di Liberazione Oromo, che si batte per l’autodeterminazione della regione più vasta e popolosa dello stato (gli Oromo sono circa il 40% della popolazione totale) e la cui insurrezione si è recentemente estesa grazie all’indebolimento delle forze federali impegnate in Tigray. Anche in questo caso l’esercito federale sta facendo ampio uso dei droni sia contro le milizie dell’OLA che contro la popolazione civile. La stessa “Commissione per i diritti umani” di Addis Abeba ha documentato numerose esecuzioni sommarie compiute dalle truppe governative. D’altra parte l’OLA ha preso di mira gli Amhara che vivono nella regione mentre migliaia di Oromo sono stati cacciati o uccisi nelle regioni circostanti.
La situazione si sta «rapidamente deteriorando», ha avvisato l’agenzia di coordinamento degli aiuti dell’ONU. Centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case e i servizi essenziali sono sospesi.
I rappresentanti Oromo che sostengono il governo federale chiedono ora al governo di implementare un accordo di pace simile a quello adottato per il Tigray, invocando la mediazione dell’Unione Africana, e accusano Abiy Ahmed di aver esacerbato le contraddizioni etniche nel paese. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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L’Italia alla guerra in Ucraina. Crosetto: “Schiereremo scudo missilistico in Slovacchia”
AGGIORNAMENTO DI ANTONIO MAZZEO
Pagine Esteri, 14 gennaio 2023 – L’Esercito italiano schiererà in Slovacchia una batteria del sistema missilistico terra-aria SAMP-T di produzione italo-francese. Lo ha dichiarato in un’intervista all’agenzia ADNKronos il ministro della difesa Guido Crosetto. “Ho letto ricostruzioni giornalistiche, sul tema Samp-t, totalmente inventate; il Governo non ha ricevuto alcuna pressione da nessuno, in relazione agli aiuti all’Ucraina, tantomeno dagli Stati Uniti”, ha esordito Crosetto. “Nella telefonata odierna con il Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin si è parlato del sistema che l’Italia fornirà per sostituire la batteria americana in Slovacchia”.
Nello specifico si tratterà di una batteria antiaerea/antimissile SAMP-T che rimpiazzerà la batteria di missili Patriot di US Army che verrà trasferita in Germania per essere sottoposta a manutenzione.
Il SAMP/T è stato sviluppato a partire dai primi anni 2000 nell’ambito del programma di cooperazione militare-industriale italo-francese FSAF (Famiglia di Sistemi Superficie Aria).
“Il SAMP/T nasce dall’esigenza di disporre di un sistema missilistico a media portata idoneo a operare in nuovi scenari operativi, prioritariamente caratterizzati da ridotti tempi di reazione contro la minaccia aerea ed elevata mobilità”, spiega lo Stato maggiore dell’Esercito. “L’attuale versione del SAMP/T ha capacità di avanguardia nel contrasto delle minacce aeree e dei missili balistici tattici a corto raggio”.
Il sistema missilistico è stato progettato e realizzato dal consorzio europeo Eurosam formato da MBDA Italia, MBDA Francia e Thales. Fa uso del missile Aster 30, dotato di un raggio d’azione di 100 km per l’intercettazione di aerei e 25 km per quella dei missili. Le batterie sono costituite da lanciatori con un numero variabile da 8 a 48 missili.
L’Esercito italiano ha in dotazione 5 batterie SAMP/T, operative dal 2013. Esse sono state impiegate fra il 2015 ed il 2016 a Roma per la sorveglianza dei cieli della Capitale in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia; contemporaneamente una seconda batteria ha operato in Turchia nell’ambito dell’operazione NATO “Active Fence” dal giugno 2016 al dicembre 2019, nei pressi della città di Kahramanmaras, sul confine sud-est dell’Alleanza Atlantica, “contro missili balistici tattici provenienti dal territorio siriano”.
Una batteria di missili terra-aria è attualmente schierata in Kuwait nell’ambito dell’Operazione “Inherent Resolve” a guida statunitense, contro le milizie dell’ISIS in territorio iracheno e siriano.
Con il trasferimento del SAMP/T in Slovacchia, le forze armate italiane portano a cinque le missioni in Europa orientale in ambito NATO dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Oggi i reparti di pronto intervento dell’Esercito sono presenti in Lettonia, Bulgaria e Ungheria, mentre 4 cacciabombardieri dell’Aeronautica Militare operano dalla base di Costanza, Romania. Pagine Esteri
LEGGI GLI APPROFONDIMENTI DI ANTONIO MAZZEO SULL’IMPEGNO ITALIANO NELL’EUROPA DELL’EST
pagineesteri.it/2023/01/10/in-…
pagineesteri.it/2023/01/11/in-…
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In Cina e Asia – Ambasciatore cinese a Bruxelles: le relazioni Cina-UE sono ancora "molto buone”
Ambasciatore cinese a Bruxelles: le relazioni Cina-UE sono ancora “molto buone”
Pechino mira ad attirare talenti e investitori stranieri nel settore dell’innovazione
La Cina crea un’app unificata per i servizi di mobilità e riabilita Didi Global
Tornano i supereroi Marvel e DC in Cina
I censori della rete dichiarano guerra alle "emozioni cupe"
Triplicato l'export cinese verso la Corea del Nord
La strategia “zero Covid” è costata al Guangdong 21,9 miliardi di dollari
Marcos a Davos: "nel Mar cinese meridionale è a rischio il commercio mondiale"
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Taiwan Files – L’anno del coniglio e Lai dal cilindro
William Lai nuovo leader del DPP: qual è la sua visione sui rapporti sullo Stretto e sullo status quo tra Taiwan, Repubblica di Cina e Repubblica Popolare Cinese. Taiwan-USA: negoziati commerciali e training militare. Donne tra i riservisti. Disfida sui noodles e nomine a Pechino. Giù l’economia taiwanese. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei ...
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#uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – II nostro mondo moderno…
II nostro mondo moderno è indissolubilmente legato alla tecnica ed alle sue applicazioni pratiche
Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, «Rivista di storia economica», settembre-dicembre 1942
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Preso Matteo Messina Denaro, la lotta alla mafia continua
Benché il mio articoletto di ieri sia arrivato un po’ in ritardo rispetto ad altri articoli attenti della stampa, penso al bell’articolo asciutto del prof. Pasquino ad esempio, una ulteriore brevissima riflessione sull’intero problema merita di essere fatta. Suggerita anche, devo dire, da un titolo che mi colpisce. Un titolo che come sempre sintetizza molto […]
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A Davos il sostegno militare all’Ucraina, tra Nato e intelligence
Sostenere l’Ucraina “è anche nei nostri interessi”, ha dichiarato Avril Haines, direttrice dell’Intelligence nazionale degli Stati Uniti, intervenendo al World Economic Forum di Davos. “Il conflitto in Ucraina ha un impatto mondiale, un impatto economico e anche delle conseguenze sulla forza delle nostre alleanze e sulla capacità di dare risposte a future possibili crisi”, ha spiegato. Per Kyiv “sarà fondamentale continuare a ricevere armi” e “credo” che il presidente statunitense Joe Biden “continuerà a fornire armi”, ha aggiunto.
Parole pronunciate nel corso del dibattito “Ripristinare la sicurezza e la pace” al World Economic Forum di Davos (tra i partecipanti anche Richard Moore, capo di MI6, il sevizio d’intelligence britannico per l’estero). Sul palco il presidente polacco Andrzej Duda, le vicepremier Chrystia Freeland del Canada e Yuliia Svyrydenko dell’Ucraina e Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato. Quest’ultimo ha chiesto di aumentare l’invio di armi all’Ucraina in questo momento critico. “Le armi sono la via per la pace”, ha detto. “Ciò che accade intorno al tavolo dei negoziati dipende totalmente dalla forza sul campo di battaglia. E se vogliamo che l’Ucraina prevalga, allora ha bisogno della forza militare”, ha aggiunto descrivendo la guerra come “lotta per la democrazia”.
È “estremamente importante” che il presidente russo Vladimir Putin “non vinca questa guerra: sarebbe una tragedia per gli ucraini, ma anche molto pericoloso per tutti noi. Perché allora il messaggio ai leader autoritari, non solo a Putin, ma anche ad altri leader autoritari, è che quando usano la forza brutale, quando violano il diritto internazionale, ottengono ciò che vogliono”, ha dichiarato. “E questa sarebbe una lezione molto negativa e pericolosa. Renderebbe il mondo più pericoloso e noi più vulnerabili”, ha concluso.
Gli alleati ne parleranno domani quando si riunirà nuovamente nella base aerea americana di Ramstein, in Germania, l’Ukraine Defense Contact Group, il Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, promosso dal segretario alla Difesa americano, per favorire un confronto periodico e un raccordo tra i Paesi (oltre 40) che aderiscono alle iniziative di supporto alle Forze armate ucraine. Lì “decideremo insieme agli Alleati l’invio di ulteriori aiuti che, per la parte italiana, confluiranno in un eventuale sesto decreto”, ha dichiarato Guido Crosetto, ministro della Difesa, intervistato da Formiche.net nei giorni scorsi dopo una telefonata con l’omologo statunitense Lloyd Austin.
Restoring Security and Peace with @AndrzejDuda, @cafreeland, Avril Haines (@ODNIgov), @jensstoltenberg (@NATO), Yulia Svyrydenko (@mineconomdev) and @FareedZakaria (@CNN). #wef23 t.co/w7S6HK87Cz— World Economic Forum (@wef) January 18, 2023
Alla politica industriale servono gli Eurobond
Avviare la creazione di un Fondo sovrano europeo può essere, se non la soluzione definitiva, una tappa di avvicinamento verso un’Europa che ha finalmente come obiettivo quello di mettere in campo tutto il suo effettivo potenziale
Nessun Paese, nessuna nazione, riuscirà da sola a gestire le sfide di politica industriale che attendono l’Europa, stretta tra lo sforzo di Joe Biden di trasformare gli Usa in una grande superpotenza della sostenibilità e di Xi Jinping impegnato a non recedere dal piano di egemonia commerciale e di primazia nelle tecnologie. Il contraltare dello sforzo di oltre 400 miliardi di dollari degli Stati Uniti non può essere limitato a una deroga sull’uso degli aiuti di Stato. La capienza fiscale necessaria resterebbe appannaggio dei soliti noti (Germania e Francia) e finirebbe con l’esasperare le diseguaglianze competitive a tutto danno, alla fine, della competitività stessa dell’Europa, le cui catene del valore manifatturiero sono interconnesse più che mai.
Le sfide sono colossali come è quella di creare le gigafactory – in tempi brevi – per garantire la produzione di batterie al litio per le future auto elettriche o quella di realizzare gli insediamenti necessari a superare la dipendenza dalla Cina nella fabbricazione dei microchip. Per l’Europa sarà decisivo anche l’assetto finale delle reti, siano esse gasdotti (ma fino a quando si dovrà far conto sul gas e non sulle rinnovabili?) o infrastrutture per le tlc, a cominciare dal 5G su cui l’Unione Europea si sta disimpegnando rispetto alla Cina senza cadere nella dipendenza con gli Stati Uniti.
Non è dirigismo, ma l’Europa è chiamata ad avere una visione sulle scelte strategiche e sulle concrete implicazioni verso i 27 Partner, su quali debbano essere, ad esempio, gli eventuali hub da cui far partire il nuovo sistema nervoso infrastrutturale del Continente. Affidare queste scommesse al solo uso in deroga degli aiuti di Stato – come sembra aver fatto intendere Ursula von der Leyen – è di per sé miope e comunque insufficiente nelle capienze finanziarie in grado di dispiegare. Solo una forma di finanziamento condiviso, di emissione comune di debito potrà ovviare alle inevitabili angustie finanziarie in cui l’Europa sarebbe costretta a dimenarsi.
La partita del 2023 sulle nuove regole fiscali è intrecciata con gli orizzonti concreti della politica industriale: la riforma del Patto di stabilità e crescita finalizzato a premiare la capacità di investimento dei singoli Paesi, la ratifica finale del Mes riformato che ha ormai preso le sembianze di un fondo salva banche, ma anche la messa a punto di eventuali nuovi strumenti di finanziamento sulla falsariga dell’esperienza del Pnrr, del programma Sure sugli ammortizzatori sociali, del programma di aiuti destinati all’Ucraina.
La parola eurobond è sempre meno tabù in questa Europa che ha compreso il suo potenziale di soggetto unico (ad esempio durante la risposta alla pandemia) ma fatica ad abbandonare le dialettiche tra gli interessi nazionali. Avviare la creazione di un Fondo sovrano europeo – anch’ esso annunciato più volte da Ursula von der Leyen – può essere, se non la soluzione definitiva, una tappa di avvicinamento verso un’Europa che ha finalmente come obiettivo quello di mettere in campo tutto il suo effettivo potenziale.
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Giappone e USA confermano unità
La visita del Primo Pinistro giapponese Kishida negli Stati Uniti – nella giornata meno propizia di venerdì 13 – è stata un trionfo per il Primo Ministro, i cui indici di favore erano crollati a causa dei legami finanziari di molti dei suoi ministri con un gruppo religioso. Anche il centrosinistra Asahi , il secondo […]
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Just € 5,5 Million on WhatsApp. DPC finally gives the finger to EDPB.
Solo 5,5 milioni di euro su WhatsApp. La DPC finalmente dà il benservito all'EDPB. Dopo Facebook e Instagram, è stata emessa una terza decisione su WhatsApp. Il DPC sembra aver limitato il caso al "miglioramento del servizio" e alla "sicurezza", ignorando le questioni fondamentali.
Scuola di Liberalismo 2022 – Messina: lezione di Maurizio Ballistreri sul tema “Il manifesto di Marx”
Ottavo appuntamento della XII edizione della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e con la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, che tratta principalmente delle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale, si articola in 14 lezioni, di cui 3 in presenza e 11 erogate in modalità telematica. La ottava lezione si svolgerà giovedì 19 gennaio, dalle ore 17 alle ore 18.30, sulla piattaforma Zoom, e sarà tenuta dal prof. Maurizio Ballistreri (Ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università di Messina), che relazionerà sull’opera “Il Manifesto” di Karl Marx, considerata il testo-chiave di quella scuola di pensiero sociale, economico e politico nota come “marxismo” e che è una spietata e allo stesso tempo scientifica analisi della società capitalistica nelle sue più profonde contraddizioni. La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di crediti formativi per gli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina, nonché per gli studenti dell’Università di Messina.
Pippo Rao Direttore Generale Scuola di Liberalismo di Messina
Visita la pagina della Scuola di Liberalismo 2022 – Messina
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La nuova Guerra Fredda e la rinascita del Patto di Baghdad
Dando uno sguardo agli sviluppi durante le prime fasi della Guerra Fredda, una delle strutture più efficaci nell’intelligence e nella cooperazione militare era una volta chiamata Patto di Baghdad. Costituita nel 1955, e nota anche come Organizzazione del Trattato del Medio Oriente, si è concretizzata a causa della necessità di contrastare le macchinazioni dell’Unione Sovietica […]
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Dialogo e riforme: giustizia, lo scatto possibile – corriere.it
Auspicabile un sussulto bipartisan delle forze politiche (almeno di buona parte di esse) e di una grandissima fetta di magistratura, la quale non ha alcuna voglia di essere tirata dentro guerricciole di fazione
In un volume pubblicato undici mesi fa, per i trent’anni di Tangentopoli, «Giustizia, ultimo atto», Carlo Nordio, allora semplice magistrato in pensione, anticipava con chiarezza le linee di riforma che ha poi esposto a dicembre alla Camera e al Senato nella sua nuova veste di Guardasigilli. Sicché, di fronte a talune reazioni di dissenso, ha replicato che tutti conoscevano da un pezzo le sue convinzioni di garantista liberale. Aggiungendo che, se era stato posto al vertice del ministero di via Arenula, è perché si voleva che le traducesse in pratica. Su questa seconda proposizione qualche dubbio deve nutrirlo lui stesso, avendo sentito allora il bisogno di sottolineare in sede parlamentare la sua determinazione a dimettersi ove non gli fosse consentito di svolgere il proprio compito fino in fondo: frase abbastanza irrituale per un ministro appena nominato e con una solida maggioranza alle spalle.
La verità, come Nordio sa bene, è che, nell’agenda di grandi riforme immaginata da Giorgia Meloni, quella della giustizia è forse la più divisiva in potenza: persino dentro una coalizione vittoriosa, sì, ma ideologicamente assai eterogenea. Passati il giubilo e i (doverosi) applausi al Ros, l’arresto di Matteo Messina Denaro ha subito surriscaldato il clima. Da un lato prefigurando una nuova stagione di rivelazioni presunte e di veleni sicuri su eventuali «livelli superiori» (dunque politici) di connivenza col boss.
Dall’altro rinfocolando tensioni sottotraccia con un giustizialismo trasversale al Parlamento e al Paese che vede, ad esempio, come fumo negli occhi le critiche di Nordio alle intercettazioni. Sicché, intervenendo ieri in Senato, il ministro è stato costretto a spiegare l’ovvio, sotto la pressione di sortite mediatiche delle Procure: che gli ascolti come strumento di indagine contro mafiosi e terroristi non si discutono; da rivedere è invece l’idea che costituiscano una prova in sé (e non una pista investigativa) e che possano essere abusati a strascico su soggetti non indagati, fino alla loro enfatizzazione mediatica. Già sull’abuso d’ufficio, reato poco tipizzato e troppo ricorrente (venti condanne su cinquemila indagini in dodici mesi) che indurrebbe alla «paura della firma» sindaci e amministratori pubblici, si arriverà a fine mese a un compromesso tra la cancellazione tout court voluta in origine da Nordio e un tagliando pur accurato. Scricchiolii in una materia, la giustizia, che è sempre stata esiziale per la vita dei governi. Ancora nulla a confronto di ciò che potrebbe avvenire quando si mettesse mano al corpo vivo dell’impianto giudiziario.
Se una vera separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale sono obiettivi ambiziosi e legittimi ma da conseguire con i tempi e i modi di un mutamento costituzionale, ci sono materie controverse su cui una maggioranza coesa potrebbe fare da traino con legge ordinaria. Il traffico di influenze e il concorso esterno potrebbero ad esempio, nell’arco della legislatura, essere rivisti senza mettere mano alla Costituzione. Quanto all’uso delle intercettazioni, basterebbe un episodio recente, lo scontro surreale tra Luca Zaia e Andrea Crisanti (nato da una frase del governatore veneto contro il noto microbiologo «rubata» da una microspia e allegata agli atti di un’indagine che non riguarda nessuno dei due) per dimostrare l’invasività politica dello strumento e la debolezza delle riforme fin qui fatte per limitarlo.
Il problema va ben oltre le questioni di tecnica giuridica.
Lo stesso Nordio lo coglie con efficacia nel volume già citato: il ruolo di supplenza esercitato dalle toghe, ricorda da ex toga, è stato consentito dai partiti al tempo di Mani Pulite con «una ritirata precipitosa e un’abdicazione miserevole». Il nodo continua a paralizzare da trent’anni il Paese: per debolezza e scarsa credibilità, la politica tuttora tende, almeno in alcune sue articolazioni, a ripetere la propria legittimazione dalla magistratura. L’attuale maggioranza non dovrebbe avere problemi del genere, forte com’è dell’investitura popolare di Giorgia Meloni. Tuttavia, nel partito della premier non è così piccola la componente giustizialista di antica memoria, accanto alla quale ne va emergendo una, diciamo così, pragmatica: questa parte più accorta alla tattica si domanda se, visto il vantaggio per il governo derivante dalla totale inanità delle opposizioni politiche, divise e litigiose tra loro, sia davvero il caso di andare a stuzzicare l’unica forza del Paese in grado di produrre un’opposizione de facto, la magistratura. Ragionamenti del genere sono di certo arrivati fino all’orecchio della premier, che ha fortemente voluto Nordio al ministero della Giustizia.
La faccenda, come si vede, può diventare un inciampo notevole per la coalizione di centrodestra. Sarebbe superabile solo con un sussulto bipartisan delle forze politiche (almeno di buona parte di esse) e, verrebbe da auspicarsi, di una grandissima fetta di magistratura, la quale non ha alcuna voglia di essere tirata dentro guerricciole di fazione che ne diminuiscono autorità e prestigio agli occhi dei cittadini.
È noto che mai nessuna commissione in Italia ha risolto granché e che, anzi, la sua stessa istituzione porta spesso a rinviare sine die il problema di cui dovrebbe occuparsi. Tuttavia, se la grande questione giudiziaria fosse ricondotta almeno a un dialogo razionale e non di parte, non poche regole della nostra convivenza civile potrebbero essere riconsiderate dopo trent’anni di contrapposizioni. Tra queste, e di portata costituzionale, non si dovrebbe dimenticare l’immunità parlamentare, abolita a «furor di popolo» in conseguenza degli abusi che ne fece la mala politica della Prima Repubblica e, tuttavia, più che mai necessaria all’equilibrio tra i poteri dello Stato.
Nella prima e più bilanciata formulazione della riforma del 1993, ricorda Giuseppe Benedetto nel suo «L’eutanasia della democrazia», s’era deciso non di eliminarla ma di posticiparla alla fine delle indagini preliminari, così che il Parlamento avesse elementi più concreti (e non ideologici o di camarilla) per valutare l’eventuale fumus persecutionis del magistrato contro il politico. Le monetine contro Craxi e il terrore della piazza spazzarono via, col coraggio, anche molto buonsenso.
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Gli Stati Uniti e il Mar Cinese Meridionale: imperativi strategici ed economici
L’anno 2022 ha visto la pubblicazione di tre importanti documenti strategici degli Stati Uniti (USA): la Strategia indo-pacifica (IPS) , la Strategia di sicurezza nazionale (NSS) e la Strategia di difesa nazionale (NDS) . Questi documenti forniscono approfondimenti su come Washington vede il suo ambiente di sicurezza, l’identificazione dei suoi interessi nazionali e le principali […]
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Accasati
Stanno mettendo le mani sulla nostra casa; l’Europa vuole una patrimoniale mascherata; non si è mai visto che si pretenda di stabilire cosa devo fare dentro casa mia; viola il diritto di proprietà impedendo anche di venderla; quel che chiedono è impossibile e sarà una stangata pazzesca, eccetera. Pretendere che la si smetta di usare i nomi dei continenti e si prenda atto che si chiama Unione europea è forse troppo, ma almeno che le sciocchezze non siano dette a due a due finché non fa dispari. Vediamole, nel merito, per poi passare a cosa si può fare per arricchirsi grazie alla direttiva europea che manco ancora esiste.
Non è né potrebbe essere una patrimoniale, in compenso quella mascherata esiste di già e si chiama: Tasi, poi Tari. È calcolata in base alla grandezza di case e uffici, stimando da quella la quantità di spazzatura prodotta. La paghiamo alle municipalizzate, molte delle quali disfunzionali e con uno straordinario paradosso, che raggiunge il suo apice nella capitale: meno funziona il servizio e più sei tenuto a pagare.
I vincoli relativi all’interno delle nostre case e dei nostri uffici ci sono già. L’impianto elettrico deve essere a norma, la caldaia deve essere periodicamente revisionata, l’impianto del gas deve essere regolamentare e via andando.
Nessuna di queste cose ha fatto dubitare dell’esistenza del diritto di proprietà. Pericolo non rintracciabile neanche nel divieto di vendita, che si trova nelle chiacchiere di chi non ha mai letto quello di cui discetta, ma non nel testo base della direttiva in discussione. In compenso esiste già l’obbligo degli impianti a norma nel caso si voglia mettere a reddito l’immobile. Vabbè spararle grosse, ma qui si esagera. Circa l’impossibilità di ottemperare ai futuri ed eventuali obblighi, mi sfugge cosa ci sia di impossibile nel predisporre gli edifici in costruzione (in costruzione), entro il 2030, alle emissioni zero, mentre per gli altri l’orizzonte è quello del 2050.
Più difficoltoso il passaggio almeno alla classe D (meno inquinante) entro il 2033, ma questo è tema subordinato ai piani nazionali e semmai di razionale negoziato, non di schizzato allarme. Tenuto conto, per arrivare alla stangata, che la Francia anticipa anche quella data e con
l’Olanda pone già limiti a vendite ed affitti. Liberi di farlo, perché si tratta di leggi nazionali, ma non lo scelgono per masochismo, bensì per convenienza. Immobili più coibentati ed autosufficienti valgono di più e la loro gestione costa di meno. Sia che io sia il proprietario o l’abitante ne traggo un vantaggio. Se sono il proprietario residente il vantaggio è doppio. Quindi, razionalmente, la faccenda si sposta
sul piano finanziario: chi ci mette i soldi? L’orrido bonus 110% ha avuto effetti inflattivi e distorsivi ed ha generato spesa pubblica e debiti per tutti, mentre benefici per molto pochi. Una porcheria da non replicare.
Qui le cose utili sarebbero tre: a. una volta approvata e recepita la direttiva per le banche si apre un succoso e duraturo mercato, sicché sarebbe utile agevolare le norme a garanzia, in modo che i prestiti incontrino il favore dei clienti; b. il fisco può molto agevolare sgravando dal suo peso, giovandosi di un mercato crescente e tassabile e preparandosi a incassare di più, domani, dalla compravendita di immobili di
maggiore valore; c. prepararsi ed evitare che tutto s’impantani nella mefitica palude dei permessi e della burocrazia. Salto il pistolotto sul mondo pulito e il rispetto dell’ambiente (gli immobili assorbono il 40% del consumo energetico e generano il 36% dei gas inquinanti), perché di sviolinatori senza spartito è piena la piazza, tutti a orecchio e molti stonati. Certo, volere il mondo pulito tenendosi la casa sporca sarebbe un ribaltamento del costume nazionale, dove il tinello lindo affaccia sulla strada lercia. Chiedere come sia pensabile che l’Ue voglia affamare gli europei o come sia pretesa rivolta ai soli italiani, infine, potrebbe mettere in crisi tanti accasati in certezze prive di fondamento.
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La scoperta di terre rare in Svezia apre un capitolo importante per l’industria europea
Se n’è parlato nei giorni scorsi e forse con un po’ di disattenzione, tra la fine di una latitanza durata trent’anni e con altri trent’anni di cronaca davanti. Tra la morte di una diva che ha fatto storia di costume nel nostro Paese e altri riempitivi di poco conto. Ma che siano stati identificati depositi […]
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Intervento del Vice Presidente Davide Giacalone alla Costituente LDE – Milano,14 Gennaio
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In che modo l’Europa può aiutare l’Ucraina a sconfiggere la Russia e ottenere la pace nel 2023
L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte di Mosca ha spinto il Paese in cima all’agenda strategica dell’Europa. Allo stesso tempo, l’adesione dell’Ucraina sia all’Unione Europea che alla NATO rimane un obiettivo lontano. È quindi fondamentale che la comunità europea esplori altre opportunità per rafforzare il sostegno all’Ucraina nel 2023. Questi sforzi dovrebbero comportare una […]
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Non sono d'accordo con quanto scrive Concita De Gregorio su La Stampa...
(testo ed immagine dalla pagina FB de La Stampa)
Non mi preoccuperò, nello scrivere queste righe, delle reazioni che scatenerà sui social domattina. Ce la posso fare, devo solo pensare alla vita di prima. Era sano lavorare senza la preoccupazione preventiva del sabba infernale che comunque, anche se ti sforzi di ignorarlo, non ignora te. […]
Amici: usciamo dai social. Non esistono senza di noi. Si sono impadroniti delle nostre vite per il semplice motivo che gliele abbiamo consegnate. Vivono del nostro sangue che gli forniamo ogni giorno […]. Ma se non gli dessimo materia, ai mangiamorte, ci pensate? Non esisterebbero. […]
Le persone migliori che conosco non sono sui social. Senza offesa per chi ci campa e lo capisco: i mestieri di una volta non ci sono più, questo è il mondo come va, bisogna arrangiarsi e starci. Però ripeto: statisti, inventori, poeti, navigatori, gente che pensa e scrive e lavora a costruire mondi. Gente che accudisce persone. Gente che lavora tutto il giorno e che poi si dedica a chi ha intorno, fisicamente: che parla e guarda in faccia chi c'è. Non sono sui social. Non hanno il tempo per farlo, né l'interesse. Hanno da fare.
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Non mi è mai piaciuto essere iscritta ad un social, ma in questo finalmente si 😄
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MASTICA ‘ZINE “ERO UNA FANZINE” (AGENZIA X)
Ancora una volta Agenzia X si conferma come una delle realtà più intimamente connesse con il tessuto sociale. “Mastica ‘zine, Ero una fanzine” ne è l’ennesima riprova. Il volume, dato alle stampe nell’estate dello scorso anno, ribadisce ulteriormente come la necessità di confrontarsi e analizzare quelle zone “meno nobili” della società italiana, debba essere vista come azione prioritaria. Non fosse altro che per provare a capire il mondo che ci circonda, anziché viverlo passivamente, o ancor peggio giudicarlo da lontano, per sentito dire. Anziché unirsi al coro dei (finti) indignati, le ragazze di Mastica ‘zine scelgono di andare a fondo nell’analisi di un problema più che mai vivo, anche se poco considerato dai media mainstream.
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MASTICA ‘ZINE “ERO UNA FANZINE” (AGENZIA X)
Ancora una volta Agenzia X si conferma come una delle realtà più intimamente connesse con il tessuto sociale. “Mastica ‘zine, Ero una fanzine” ne è l’ennesima riprova. Il volume, dato alle stampe nell’estate dello scorso anno, ribadisce ulteriormente come la necessità di confrontarsi e analizzare quelle zone “meno nobili” della società italiana, debba essere vista come azione prioritaria. Non fosse altro che per provare a capire il mondo che ci circonda, anziché viverlo passivamente, o ancor peggio giudicarlo da lontano, per sentito dire. Anziché unirsi al coro dei (finti) indignati, le ragazze di Mastica ‘zine scelgono di andare a fondo nell’analisi di un problema più che mai vivo, anche se poco considerato dai media mainstream.
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PALESTINA/ISRAELE. Il fallimento dei «due Abbas»
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 19 gennaio 2023 – Nel caffè della Cisgiordania, avvolti dal fumo dei narghilè, i palestinesi discutono della debolezza politica del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Nei caffè della Galilea si parla invece dei rapporti più tesi in Israele tra ebrei e arabi e del «fallimento» del deputato islamista del Mansour Abbas. Con il suo partito, Raam, Mansour Abbas per un anno e mezzo ha fatto parte della coalizione «anti-Netanyahu» guidata prima dal nazionalista religioso Naftali Bennett e poi dal centrista laico Yair Lapid, passando alla storia di Israele come il primo esponente politico arabo membro a pieno titolo di un «governo sionista». Il ritorno al potere di Benyamin Netanyahu, alla testa di un esecutivo di estrema destra apertamente anti-palestinese, è una debacle per i «due Abbas».
Tra il 2020 e il 2021 Abu Mazen, illuso prima dall’ingresso alla Casa Bianca di Joe Biden e poi dalla fine del lungo regno di Netanyahu, si era convinto di poter riportare la questione palestinese sul tavolo delle diplomazie, grazie alla ripresa dei rapporti con la nuova Amministrazione Usa dopo la «rottura» durata quattro anni con Donald Trump. Le cose sono andate diversamente. Biden ha rimosso i palestinesi dalla sua agenda e si è limitato a riaprire il rubinetto, e solo in parte, degli aiuti umanitari all’Anp. Il governo Bennett/Lapid da parte sua ha continuato il blackout delle comunicazioni con i palestinesi e Abu Mazen ha avuto contatti occasionali, spesso carichi di tensione, solo con il ministro della difesa Benny Gantz. Lapid inoltre lo scorso agosto ha ordinato un altro massiccio attacco militare contro Gaza (circa 50 morti) e dopo gli attentati della scorsa primavera a Tel Aviv e altre città israeliane (18 morti) ha dato piena libertà di azione all’esercito che da mesi entra ed esce dai centri abitati palestinesi in Cisgiordania facendo morti e feriti. Incursioni che contribuiscono alla crescita della militanza palestinese armata, soprattutto a Jenin e Nablus, con riflessi diretti sulla credibilità e la stabilità dell’Anp accusata di «collaborazionismo» con Israele, a tutto vantaggio degli islamisti di Hamas.
Con questo governo israeliano le cose non potranno che complicarsi per tutti i palestinesi, dal cittadino comune al leader politico. Il ministro delle finanze israeliano ed esponente di punta dell’estrema destra Bezalel Smotrich ha di fatto il controllo del 60% del budget annuale dell’Anp. A tale percentuale corrispondono i dazi doganali e le imposte – tra 150 e 200 milioni di dollari al mese – che Israele raccoglie per conto dell’Anp. Fondi palestinesi che i passati governi israeliani hanno già congelato in più occasioni, con la motivazione di voler bloccare i sussidi versati dell’Anp alle famiglie dei prigionieri politici in carcere in Israele. Smotrich quindi potrà gestire un potente strumento di pressione sulla leadership palestinese, già fragile e ricattabile. Smotrich e il resto del governo israeliano hanno già messo in atto la minaccia annunciando il taglio dei fondi destinati all’Anp per decine di milioni di dollari. Per l’87enne Abu Mazen, in cattive condizioni di salute, i margini di manovra si fanno sempre più stretti mentre alle sue spalle sgomitano i pretendenti alla carica di presidente.
Mansour Abbas
Non se la passa meglio l’altro Abbas, quello della Galilea. Un anno e mezzo fa ripeteva con orgoglio di aver cambiato per sempre la politica israeliana grazie alla sua «coraggiosa» adesione al governo Bennett/Lapid. Ora viene accusato da più parti di aver inutilmente causato il crollo della Lista araba unita. In un anno e mezzo Mansour Abbas ha ricevuto promesse non mantenute e annunci di fondi pubblici per le aree a maggioranza araba mai stanziati dal passato governo. Con il ritorno al potere di Netanyahu «l’esperimento arabo» nell’esecutivo è morto e sepolto. Mansour Abbas stenta a riconoscerlo e lancia accuse agli altri partiti arabi, responsabili a suo dire di non aver soccorso il passato governo. La Lista araba unita difficilmente risorgerà e i leader dei singoli partiti, in ordine sparso, annunciano che contro Netanyahu e i suoi ministri sarà avviata una mobilitazione popolare. «Saremo un’opposizione combattiva ma non basta, avvieremo anche un campagna congiunta arabo-ebraica», ha annunciato il deputato Ahmed Tibi. Pagine Esteri
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Tutti i dossier sul tavolo della riunione di Ramstein. Scrive Jean
Domani, 20 gennaio, si terrà a Ramstein una riunione dei 40 Stati che forniscono armi all’Ucraina. L’Italia dovrebbe comunicare la composizione della sua sesta tranche di aiuti militari, recentemente autorizzata dal Parlamento. Gli altri principali Stati hanno già fatto. È opportuno che non vi siano ulteriori ritardi. Il “piatto forte” della riunione riguarderà la fornitura di carri armati. Sono necessari agli ucraini per riconquistare i territori perduti. Una decisione positiva significherebbe che il “Gruppo di sostegno all’Ucraina” ha accettato gli obiettivi di Kiev. Finora aveva dominato la cautela, per il timore di provocare un’escalation del conflitto, come nel caso del rifiuto della no fly zone e nella restrizione della gittata dei missili forniti all’Ucraina.
L’invio di nuove armi a Kiev ha sollevato critiche in Italia da una parte dell’opposizione. Gli slogan utilizzati sono stati: “Trattative non armi” e “l’Ucraina ha già armi a sufficienza”. Dato che il nostro Paese ha deciso di sostenere Kiev, sarebbe un tradimento difficilmente giustificabile, anche per ragioni di principio e di prestigio nazionale. Le pretese degli oppositori all’invio di armi – espresse dai due slogan prima ricordati – sono poi del tutto scollate dalla realtà.
Per quanto riguarda l’inizio di trattative e la cessazione anche temporanea dei combattimenti, l’Italia non ha il “peso” politico necessario. La possibilità di usare nei riguardi di Kiev la leva degli aiuti militari è del tutto irrilevante. Fornisce all’Ucraina solo poco più dell’1% del totale delle armi e munizioni che riceve dall’Occidente. Una dissociazione dal “gruppo di sostegno all’Ucraina”, avrebbe un impatto politico. Non tanto sugli esiti del conflitto, quanto uno fortemente negativo sulla posizione e il prestigio internazionale dell’Italia. I vantaggi che un “niet” avrebbe sul consenso dell’opinione pubblica a favore dei partiti che lo sostengono sarebbero marginali, rispetto ai danni che ne deriverebbero. Non otterremmo nulla da Mosca, se non qualche sperticato elogio di essere “costruttori di pace”, beninteso della “pace del Cremlino”.
A parte ogni altra considerazione, i nostri alleati non apprezzerebbero tale “strategia di Caino” e ce la farebbero pagare cara. “Strategia di Caino” perché le critiche all’invio di armi sono spesso ipocritamente accompagnate da dichiarazioni – spesso da urla – di amicizia per gli ucraini aggrediti. Un tempo il diniego di fornire a Kiev i mezzi per difendersi veniva giustificato sostenendo che l’aggressione di Mosca fosse colpa della Nato. Visto che la motivazione ha perso ogni credibilità, oggi vengono giustificate soprattutto in due altri modi.
Primo, con il fatto che gli ucraini avrebbero ricevuto già armi a sufficienza e che un loro ulteriore rafforzamento rischierebbe di provocare un’escalation forse anche nucleare del conflitto. Secondo, che gli ucraini non potranno mai vincere la Russia, con le sue enormi capacità di mobilitazione. Esse verranno attivate malgrado il crescente dissenso dell’opinione pubblica e le palesi divisioni dell’élite del Cremlino fra realisti/moderati e radicali fautori di una guerra ad oltranza, non adeguatamente utilizzate dall’Occidente per cercare un accordo e sostituire i combattimenti con negoziati.
Tali motivazioni mi sembrano inconsistenti. Cercano malamente di mascherare i propri veri obiettivi, che riguardano la ricerca del consenso interno perseguita in modo cinico, senza considerare l’interesse generale.
Il significato dell’affermazione che l’Ucraina abbia già armi a sufficienza andrebbe dimostrato. Sufficienza per fare che cosa? Per rioccupare i territori perduti o per non cederne altri? Sufficienza rispetto alle attuali o alle future forze che saranno schierate dai russi? Come si fa a dire che Kiev abbia già armi a sufficienza quando le sue città continuano a subire rilevanti danni? Bisognerebbe fare almeno un’eccezione per i sistemi contraerei e antimissili. Saranno gli ucraini in condizioni di resistere ad una nuova mobilitazione russa e al potenziamento del Gruppo Wagner con carcerati (secondo il portavoce del Pentagono avrebbe in Ucraina i 50.000 uomini, di cui 10.000 a contratto e 40.000 carcerati)?
Non è vero che non vi siano stati vari tentativi di negoziati di pace. Dall’inizio del conflitto ve ne sono stati molti. Finora i loro risultati sono stati limitati. Hanno riguardato lo scambio di prigionieri e le esportazioni di grano. Certamente hanno anche la limitazione del conflitto, per evitarne in particolare l’escalation nucleare. Una seria trattativa di pace potrebbe iniziare solo quando entrambi i contendenti riterranno di poter ottenere al tavolo negoziale risultati migliori di quelli che sperano di raggiungere sul campo di battaglia. Oggi non è così. Occorrerà attendere i risultati delle offensive che sia russi che ucraini stanno preparando. In caso di successo ucraino e di crisi al Cremlino, sarà possibile una trattativa; qualora il successo fosse dei russi, verosimilmente gli ucraini continueranno la loro resistenza con la strategia della guerriglia, a cui si erano preparati dopo il 2014 quando erano persuasi di non poter resistere a un’aggressione russa; qualora infine entrambe le offensive fallissero e la guerra si trasformasse in una di logoramento, si potrebbero creare le condizioni per il congelamento del conflitto, secondo il modello attuato in Corea.
A parer mio, se si vuole far terminare o congelare il conflitto, il modo più logico di farlo è proprio quello di fornire agli ucraini le armi necessarie per infliggere ai russi perdite inaccettabili. A consolidare l’intransigenza di Kiev nel rifiuto di cedere alla Russia qualsiasi parte del suo territorio nazionale – quindi, in pratica, di rifiutare ogni negoziato – è intervenuto il nuovo terremoto nel comando militare russo, sintomo del contrasto fra una fazione più realistica e moderata e una più radicale, nonché fra i militari e le forze che fanno capo direttamente a Putin, come il Gruppo Wagner e le milizie cecene.
Il Capo di Stato Maggiore Generale, Victory Gerasimov, esponente della prima, ha sostituito all’improvviso il gen. Sergei Surovikin, legatissimo al capo del gruppo Wagner e fautore di una guerra ad oltranza. Certamente Surovikin non aveva ottenuto risultati brillanti. Kherson era stata evacuata; l’offensiva missilistica contro le città e il sistema elettrico ucraino non aveva piegato Kiev; i riservisti mobilitati avevano subito consistenti perdite, a cui non erano corrisposti adeguati successi; il caos dei rifornimenti logistici continuava. Ma la sua improvvisa sostituzione e relativo ridimensionamento non dipendono dai risultati ottenuti in Ucraina. Comunque, un nuovo fallimento potrebbe indurre il Cremlino a trattare.
Eventuali trattative non potranno essere limitate all’Ucraina. Dovranno estendersi all’architettura europea di sicurezza e, forse, anche a quella dell’Asia-Pacifico. Come abbiamo già suggerito, i tavoli negoziali dovranno essere due. Uno fra la Russia e l’Ucraina. Il secondo fra la Nato e la Russia o l’Eurasia. In esso dovranno essere considerate quelle che, alquanto impropriamente, Macron ha definito “garanzie di sicurezza alla Russia”.
Il presidente della Fondazione Einaudi ospite di Prato Riparte – reportpistoia.com
L’appuntamento è per lunedì prossimo all’ex chiesino di San Giovanni. L’avvocato Giuseppe Benedetto presenterà il suo libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”
I vertici della Fondazione Luigi Einaudi a Prato, ospiti del laboratorio politico Prato Riparte. Nuovo evento organizzato nell’ex chiesino San Giovanni per lunedì 23 gennaio alle ore 19, ed è un nuovo evento che alza il tiro del laboratorio che porta in città il presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto che presenterà il suo libro “Non diamoci del tu – La separazione delle carriere” con prefazione dell’attuale Ministro della Giustizia Carlo Nordio. E con lui ci saranno Andrea Cangini, Benedetta Frucci e Marco Mariani, rispettivamente Segretario generale, membro del Comitato scientifico e Direttore affari Europei della stessa Fondazione Einaudi.
E’ opportuno ricordare che la Fondazione Luigi Einaudi è il centro di ricerca che promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale. E’ stata costituita nel 1962 da Giovanni Malagodi. Come vision si impegna perché ogni cittadino sia in condizione di vivere, di crescere, di rapportarsi con gli altri e di prosperare in pace, attraverso il riconoscimento delle diversità, la difesa delle libertà individuali e della dignità umana, la promozione del confronto libero e costruttivo sui fatti e le idee. Come mission ha quella di promuove il liberalismo per elaborare risposte originali alla complessità dei problemi contemporanei legati alla globalizzazione e alla rapida evoluzione tecnologica, al fine di favorire le Libertà individuali e la prosperità economica.
Proprio la settimana scorsa l’avvocato Giuseppe Benedetto, insieme ad Alessandro De Nicola, Oscar Giannino e Sandro Gozi, è stato tra gli organizzatori dell’iniziativa Costituente Libdem, tenutasi a Milano nell’auditorium San Fedele, con l’incontro dal titolo “Le sfide della liberaldemocrazia in Europa. Come rafforzare Renew Europe e Partito democratico europeo”. Un evento al quale hanno partecipato i leader dei principali partiti italiani che rientrano nel campo liberale riformista, a cominciare da Carlo Calenda e Matteo Renzi, rispettivamente segretari di Azione e Italia Viva ma che ha visto anche le presenze di Benedetto Della Vedova (Più Europa), Giulia Pastorella, Maria Stella Gelmini, Marco Cappato e molti altri esponenti del mondo della politica, delle istituzioni, dell’università e della cultura. Un evento che, riportato su un piano nazionale, altro non è stato che una riproposizione in grande di quello che Prato Riparte sta portando avanti da quasi due anni in città.
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CISGIORDANIA. Uccisi altri tre palestinesi. 12 dall’inizio dell’anno
AGGIORNAMENTO 14 GENNAIO
Due combattenti del Jihad sono stati uccisi la scorsa notte a Jabaa (Jenin) da forze israeliane. Un terzo palestinese, ferito il 2 gennaio dal fuoco di soldati è spirato nel corso della notte. Sale a 12 il bilancio di palestinesi uccisi dall’inizio del 2023.
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 13 gennaio 2023 – I soldati sono penetrati ieri prima dell’alba di Qalandiya. A quell’ora il silenzio regnava ancora nel campo profughi tra Gerusalemme e Ramallah proprio accanto al posto di blocco israeliano più grande della Cisgiordania ben noto per il delirio quotidiano di auto in colonna per centinaia di metri, cumuli di rifiuti, macerie, autobus e taxi collettivi con a bordo passeggeri rassegnati a lunghe attese, permessi da esibire prima di poter passare. E per il Muro di separazione costruito da Israele e sul quale domina ancora un grande ritratto di Marwan Barghouti, il più conosciuto dei prigionieri politici palestinesi trasferito a inizio settimana in un carcere del Neghev, Nafha, assieme ad altri 70 detenuti.
Testimoni e famigliari riferiscono che Samir Aslan, 41 anni ha sentito dei forti colpi alla porta di casa. Ha aperto e trovato soldati israeliani intenzionati ad arrestare il figlio Ramzi, nel quadro di un raid che ieri ha visto finire in manette 15 giovani palestinesi. Come siano andate le cose non è chiaro ma Samir Aslan ha cercato di opporsi all’arresto del figlio. Ad un certo punto un militare gli ha sparato colpendolo in pieno petto. Le immagini che circolano in rete lo mostrano a terra, immobile, circondato dai soldati. L’uomo è morto poco dopo. I soccorsi, fatti passare con ritardo dai soldati, non hanno potuto far nulla per salvarlo. Aslan non era armato. L’esercito israeliano ha riferito solo di un fitto lancio di pietre contro i soldati entrati nel campo e del ritrovamento di armi, ma non a casa di Aslan. Qualche ora dopo è stato ucciso un altro palestinese, Habib Kamil, 25 anni, di Qabatiya (Jenin). I soldati l’hanno inseguito e ucciso in un uliveto. Era, secondo alcune fonti, militante in un gruppo armato. Con Aslan e Kamil sale a sette il numero dei palestinesi uccisi in Cisgiordania da forze israeliane, dall’inizio del 2023. Un ottavo palestinese stato ucciso due giorni fa nei pressi di Hebron dopo che aveva ferito con un coltello un israeliano.
Nel nord della Cisgiordania occupata, da mesi terreno di incursioni quasi quotidiane dell’esercito israeliano, spicca nelle ultime ore un blitz nella città vecchia di Nablus, la roccaforte della Fossa dei Leoni. Questo gruppo armato è l’obiettivo prioritario delle forze speciali israeliane. Nonostante l’uccisione dei suoi comandanti e di non pochi dei suoi membri, continua a compiere attacchi mordi e fuggi nell’area di Nablus che rendono sempre più arduo il movimento dell’esercito israeliano in quella zona. Nel frattempo, si infoltiscono i ranghi di altri gruppi armati e ogni giorno si segnalano lanci di pietre e molotov e atti di resistenza popolare contro le forze di occupazione anche a sud della Cisgiordania. Il programma e il pugno di ferro del governo di estrema destra religiosa guidato da Benyamin Netanyahu da un lato isola e sanziona l’Autorità Nazionale di Abu Mazen ma dall’altro finisce per accrescere la militanza armata tra i palestinesi convinti ormai della fine definitiva di qualsiasi possibilità per un accordo politico che metta fine all’occupazione militare israeliana.
Proteste non mancano neanche in Israele contro il nuovo governo, ma non a sostegno dei diritti dei palestinesi. Ieri centinaia di ex giudici e avvocati hanno manifestato contro la riforma del sistema giudiziario che ha in mente il ministro della giustizia Yariv Levin e che mira a restringere i poteri e l’autonomia della magistratura. Si moltiplicano in questi giorni le prese di posizioni contro i propositi di Levin e anche gli Usa si dicono contrari ai passi annunciati dal ministro. Domani sera molte migliaia di israeliani, come è avvenuto sabato scorso, si riuniranno in piazza Habima a Tel Aviv per manifestare contro il governo. Si prevede che le organizzazioni di sinistra radicale sventoleranno le bandiere palestinesi di cui il ministro Ben Gvir ha proclamato l’illegalità. Pagine Esteri
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Palestina Libera
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