La Cina ‘chiama’, gli USA (non) ‘rispondono’?
Gran parte della geopolitica riguarda la segnalazione nell’aspettativa che l’altra parte a cui viene inviato il segnale capisca il messaggio. Questa è una delle principali lezioni dalle voluminose memorie di Henry Kissinger e, in effetti, nella più ampia storia della diplomazia. Ci vogliono due persone per ballare il tango, come dice il proverbio, il che […]
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Italia e Francia insieme per la difesa aerea dell’Ucraina
L’Italia unisce le forze con la Francia per fornire all’Ucraina il sistema di difesa aerea Samp/T e relativi missili Aster-30. La Difesa francese ha confermato la notizia di un ordine congiunto di 700 missili, inizialmente riportata da L’Opinion. Ovviamente non si intende che tutti e 700 i missili andranno all’Ucraina (numeri e dettagli restano riservati), ma che le riserve che saranno consegnate per difendere Kiyv saranno ricostituite nel prossimo futuro con questa nuova fornitura. Il ministro Guido Crosetto ha affermato che “i partner e gli Ucraini ne saranno felici”, in un’intervista al Financial Times.
Kiyv aveva chiesto a Italia e Francia di fornire questo sistema, tra i più avanzati al mondo, per proteggere le proprie infrastrutture critiche dai quotidiani bombardamenti missilistici russi. Nel fine settimana era arrivata la notizia della luce verde da parte dei due ministri della Difesa, Crosetto e Lecornu, che si erano incontrati a Roma.
Rimane comunque il riserbo sugli armamenti forniti all’Ucraina. Crosetto ha annunciato che il prossimo pacchetto “probabilmente” conterrà “armi di difesa contro gli attacchi missilistici russi”, ma ha rifiutato di fornire ulteriori dettagli. Martedì l’omologo ucraino Oleksiy Reznikov ha detto di avere accolto con favore “i progressi sul sistema Samp/T” e un funzionario francese ha confermato che “le discussioni tecniche sono progredite notevolmente”.
L’Italia dovrebbe provvedere alla fornitura dei sistemi di lancio, mentre la Francia invierebbe i missili. Già gli Stati Uniti e la Germania hanno garantito l’invio del sistema Patriot, mentre i Paesi Bassi hanno dichiarato che sosterranno lo sforzo ucraino con due lanciatori e alcuni missili.
“L’Italia risponderà alle richieste dell’Ucraina nei limiti delle sue possibilità e dei mezzi di cui dispone”, ha dichiarato Crosetto. “Daremo tutto quello che possiamo dare senza mettere a rischio la difesa italiana”.
Riguardo al prossimo futuro Crosetto esprime dubbi sulla possibilità di colloqui di pace: “Penso che Putin sarebbe disposto a sacrificare tutti i suoi giovani uomini pur di non ritirarsi più di quanto si sia già ritirato finora”. Ma un mancato sostegno occidentale alle forze ucraine sarebbe un pericoloso segnale del fatto che i partner non sono più in grado di “garantire il rispetto delle regole internazionali”.
Che cos’è e come funziona il sistema missilistico Samp/T
formiche.net/2023/01/sistema-m…
Alfredo Cospito: un ‘martirio’ da evitare
Considerazioni e ‘appunti’ sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da credo ormai oltre cento giorni. Far dipendere la sua sorte dall’atteggiamento dei suoi ‘compagni’ fuori dal carcere è semplicemente una corbelleria: non lega loro le mani; piuttosto infila le istituzioni e lo Stato in un cul de sac. Impedisce di […]
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Concorsi
Per filosofare si deve prima mangiare, ma per mangiare si deve guadagnare, per guadagnare lavorare, per lavorare sapere qualche cosa. Allora l’incapacità di filosofare, intesa come mancanza del sapere, farà scarseggiare il mangiare. A quel punto resta solo l’elargire sovvenzioni pubbliche, ma la povertà resterà il marchio della vita di troppi. Se si presta attenzione alle condizioni della scuola si coglie un concretissimo meccanismo di distruzione pubblica. I concorsi stanno diventando un oltraggio al buon senso. Il problema sociale sarebbe quello di diffondere l’istruzione, ma il problema politico e sindacale è quello di sistemare 500mila “precari”. Termine con il quale s’identifica chi sembra stia subendo un sopruso, mentre è l’incarnazione del sopruso di chi già insegna senza mai avere vinto un concorso e che, in virtù di ciò, conta di poterlo fare per il resto della vita. Ci si occupa del posto di lavoro dell’insegnante, mentre il servizio reso agli studenti è dettaglio residuale. I 500mila sono quelli che si trovano in cattedra da tre anni, in questo momento i supplenti sono 217mila, mentre 1 milione 900mila languono nelle varie graduatorie, popolate da persone che il concorso non lo vinsero. Fra questi si conta di “stabilizzarne”, ovvero
metterne definitivamente in cattedra, qualche decina di migliaia, mediante concorsi dedicati e facilitati. Il che è illogico, perché si dovrebbe semmai fare un concorso aperto a tutti, mettendo in cattedra i più bravi, partendo dal presupposto che chi insegna da tre anni è avvantaggiato dall’esperienza. Invece gli si abbassa l’ostacolo, perché quello normale non lo supererebbe.
All’ultimo concorso per insegnanti di matematica ben il 90% dei candidati non ha superato la prova scritta. Il che spiega come mai l’Italia si trova in fondo alle classifiche europee, giocandosela solo con Romania e Bulgaria, circa le capacità matematiche degli studenti. Con la conseguenza che i figli delle famiglie più povere, economicamente e culturalmente, hanno percentuali di analfabetismo matematico quattro volte superiori a quelle di famiglie che possono permettersi aiuti privati. Nel 2017 si tenne un concorso per dirigente scolastico, i presidi di un tempo. Ora in Parlamento si discute la proposta di consentire a chi fu bocciato di seguire un corso di 120 ore per poi superare una prova facilitata e andare a spiegare agli altri come si fa a insegnare. È dovuto intervenire il Consiglio di Stato per depennare dalle graduatorie gli
“asteriscati”, vale a dire i dirigenti bocciati e inseriti cautelativamente (hai visto mai facciano ricorso) in rampa di lancio. Il che spiega perché si prova a ripescarli in Parlamento, con asteriscata solidarietà.
Il governo Draghi mise da parte 300 milioni per premiare il merito, fra gli insegnanti. Ora che il merito si trova nel nome del ministero si prova a usarli per il rinnovo contrattuale, quindi distribuirli con demerito. Il ministro dell’istruzione ha sostenuto che gli stipendi degli insegnanti possono essere differenziati per aree geografiche, ma devono esserlo per merito, specie quelli che vanno dove i risultati sono peggiori e riescono a migliorarli. In quanto alla spesa fuori dal patto di stabilità, sempre sua idea, è l’eterna illusione di chi crede che il problema siano i parametri, mentre servono a difendere dagli effetti devastanti del troppo debito venduto sui mercati. Se spegni l’allarme antincendio ottieni il silenzio, ma incenerisci la casa.
La materia viene trattata in sindacalese e giustificata in politichese, ma si traduce in una fregatura per i poveri e gli svantaggiati, che non solo si vedono sottrarre uno strumento per assicurare ai propri figli che il mangiare non divorzi dal filosofare, ma, concentrandosi nelle aree e nei quartieri meno ricchi, finiscono anche con il frequentare le scuole peggiori. Questa ciclopica ingiustizia non trova rappresentanza politica, ma
neanche culturale. Segno che i prodotti della distruzione pubblica si diffondono.
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Magistratura. In Sala Zonca la presentazione del libro “Non diamoci del Tu” sul Sì alla separazione delle carriere – www.vogheranews.it
Il Circolo culturale “Il Vogherese”, congiuntamente alla Fondazione Luigi Einaudi, organizza nella giornata di sabato 4 Febbraio 2023, alle ore 11 presso la sala Zonca (ingresso via Emilia angolo piazza Meardi) la presentazione del libro di Giuseppe Benedetto “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere”.
Alla presentazione interverranno, oltre all’autore, l’avv. Giuseppe Benedetto (Presidente della Fondazione Einaudi): Paolo Affronti, Alida Battistella, Davide Giacalone (scrittore e giornalista di RTL 102.5 e direttore del Quotidiano “La Ragione”); Fabrizio Palenzona (vice Presidente Nazionale Confcommercio e presidente Prelios SpA); e Massimiliano Annetta (avvocato penalista con studi in Firenze, Roma e Milano; docente universitario di diritto penale l’Università IUL di Firenze).
Il moderatore della presentazione sarà Nicola Affronti. L’evento è aperto a chiunque, non è prevista la prenotazione.
Il libro porta la prefazione dell’attuale Ministro della Giustizia: Carlo Nordio, che scrive. ”Che il giudice e l’accusatore siano colleghi è una singolarità tutta italiana. Un’anomalia politica e sociale che si perpetua da decenni. Questo libro evidenzia tale stortura ed auspica un cambiamento radicale del sistema giustizia, illustrando l’urgente necessità della separazione delle carriere affinché si possa raggiungere realmente l’autonomia della giurisdizione. Un rigoroso lavoro di approfondimento scientifico, una minuziosa cura della ricostruzione storica, uno scrigno di passione civile che emerge da ogni pagina, questo e tanto altro è “Non diamoci del tu.”
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Magistrati indipendenti dal Parlamento? Permettetemi di dubitare – Il Dubbio
Siamo tutti contenti e soddisfatti quando ripetiamo il mantra “la magistratura deve essere indipendente”. Ma poi è forse il caso di chiedersi: indipendente da chi e da cosa? Indipendente dall’esecutivo (cioè da governo)? Benissimo, siamo tutti d’accordo. Per carità. Tuteliamo le vestali del diritto, anche se ci permettiamo sommessamente di osservare che in tanti Stati democratici, vedi la Francia per tutti, la pubblica accusa è alle dirette dipendenze del governo. Ma in Italia questo nessuno lo vuole!
La questione si complica un po’ quando la magistratura militante interpreta l’indipendenza come indipendenza dal Parlamento. E lì non solo chi si richiama alle liberal-democrazie dei Paesi occidentali non può essere d’accordo, ma occorre denunciare la pericolosa deriva eversiva che ne conseguirebbe rispetto ai principi costituzionali.
Il Parlamento è il luogo sacro (direbbe Einaudi) dove in una democrazia si estrinseca il volere del cittadino-elettore. Se vi fosse un corpo dello Stato che potesse agire al di fuori della volontà popolare, quello sarebbe fuorilegge. Volontà popolare che si esprime attraverso gli atti del Parlamento, cioè le leggi. Dunque, ogni corpo dello Stato, compresa la magistratura, deve osservare le leggi del Parlamento. In caso contrario, verrebbe meno lo Stato di diritto.
L’art. 101 della Costituzione dispone che “i giudici sono soggetti soltanto alle legge” e l’art. 112 sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Ne deriva, ovviamente, che il Ministro della Giustizia non possa impartire direttive. Allo stesso tempo, però, ne consegue che il giudice e il pubblico ministero debbano osservare la legge come il prete segue gli insegnamenti del vangelo. Dovrebbero essere ispirati da una fedeltà assoluta verso la legge, sacra verrebbe da dire. Non è altro che un corollario del principio di divisione dei poteri: il legislativo produce le norme e il giudiziario le applica. È agevole dedurre che più il giudice si allontana dalla lettera della legge e maggiori sono i pericoli di sentenze discrezionali, ispirate più dai sentimenti e dalle opinioni personali piuttosto che dai sacri principi del diritto.
Qui giungiamo alle principali contraddizioni dei nostri tempi. La “discrezionalità giudiziaria” regna imperante, come sanno tutti coloro che entrano nelle aule dei tribunali. La Corte di Cassazione riscrive le leggi con poteri creativi e i pubblici ministeri scelgono autonomamente quali reati perseguire in via prioritaria. In tutto ciò, a fronte di una politica corresponsabile, trionfano le norme penali indeterminate, come il traffico illecito di influenze. Un reato talmente generico che ogni procura d’Italia lo riempie del significato che più le aggrada.
Dunque, a differenza di quel che pensavano i nostri Costituenti, taluni magistrati italiani non si sentono affatto soggetti alla legge. Chi parla di “lettera della legge” oggigiorno è qualificato come un temibile nostalgico del passato. Invece, come ricordato da Andrea Davola nella postfazione al mio libro “Non diamoci del tu”, la tradizione italiana del diritto pianta le sue radici nel positivismo giuridico, che trova il suo principio ispiratore proprio nell’interpretazione letterale.
Conosciamo bene il sistema anglosassone fondato sul giusnaturalismo, dove le sentenze non sono una rigida applicazione delle norme, ma sono frutto delle sensibilità politico-culturale del singolo magistrato. Ma i nostri esimi pm fanno finta di ignorare che ivi il rappresentante della pubblica accusa non solo è sotto lo stretto controllo dell’esecutivo, ma addirittura nel caso degli USA spesso viene direttamente eletto dai cittadini. Di fronte ad una prospettiva del genere alcuni pubblici ministeri minaccerebbero di darsi fuoco nella pubblica piazza, accompagnati dal coro delle prefiche del giustizialismo militante.
Ma non è finita qui, purtroppo. Alla luce di una discrezionalità giudiziaria senza alcun indirizzo del Parlamento, la ANM ha pensato bene di poter iniziare a commentare e contestare le leggi sotto il profilo strettamente politico.
Se il Parlamento intende introdurre dei criteri seri di valutazione del magistrato, la ANM pensa bene di scioperare. Se la maggioranza parlamentare ritiene che vi sia un problema di indiscriminata pubblicazione delle intercettazioni, taluni pm non esitano a mostrare la loro contrarietà. Ma a che titolo lo fanno? Sono soggetti alla legge, o adesso vorrebbero anche scriverle? Chissà cosa penserebbe Montesquieu…
Il Dubbio, 1 febbraio 2023 pag. 9
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Ben(e)detto – 1 febbraio 2023
Europa e Italia, i due pesi del governo sulla concorrenza
«Non disturbare chi vuole fare» è il motto dell’attuale esecutivo. Lo ha spiegato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento il 25 ottobre scorso. Alla luce dell’azione di governo svolta sin qui, però, la logica che sembra prevalere è un’altra, ossia «non disturbare chi vuole fare, ma solo se sta già facendo». Sotto questo aspetto, la questione dei balneari è emblematica. Meloni ha (giustamente)bloccato (per quanto ancora?) il tentativo dei due partiti alleati, Lega e Forza Italia, di estendere oltre il 31 dicembre 2023 la proroga alle concessioni. Lo stop, tuttavia, non rappresenta un cambio diposizione. Semplicemente un modo per prendere tempo (i decreti legislativi sono stati rinviati di qualche mese) e trovare una soluzione duratura. L’obiettivo, ha spiegato la leader di Fratelli d’Italia, «è mettere in sicurezza quegli imprenditori. Vanno difesi da una direttiva che non andava applicata». In buona sostanza, i balneari che vogliono fare non devono essere disturbati.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: e gli altri? Chi difende coloro che attualmente non fanno ma che vorrebbero fare? E che sia chiaro: raggruppare questi potenziali imprenditori sotto un’unica categoria, quella delle multinazionali che comprano le nostre spiagge per pochi soldi, è davvero fuorviante. Vi sono tanti giovani capaci che vorrebbero iniziare un’attività. Se non diamo loro la possibilità di entrare nel settore una volta che si sono formati, inutile parlare di merito. Una parola, che val la pena ricordare, Meloni ha voluto aggiungere nella denominazione del ministero dell’Istruzione. Peraltro, garantendo pari opportunità di accesso per tutti, non solo per gli insider, si crea un circolo virtuoso che genera benefici per l’intera collettività, a cominciare dai consumatori in termini di minori prezzi e maggiore efficienza dei servizi offerti. Si chiama concorrenza.
L’alternativa è quella di tutelare e, di conseguenza, avvantaggiare solo pochi privilegiati. Ma così non si cresce. La premier sembra esserne consapevole. Lo dimostra la posizione assunta su un altro versante, quello degli aiuti di Stato. Meloni è contraria a un mero allentamento della normativa europea perché, ha spiegato, «determinerebbe una distorsione del mercato interno». I Paesi con spazio fiscale, quindi con basso debito ed elevata capacità di spesa, possono sostenere dipiù e meglio le proprie imprese. Una dinamica che si è già verificata nel passato biennio in cui le regole comunitarie sono state sospese: basti pensare che le imprese tedesche e francesi hanno ricevuto il settantacinque per cento degli aiuti. Proseguire su questa strada significherebbe far saltare il mercato unico, la libera concorrenza. Non è questo il modo per «risolvere il problema della scarsa competitività delle nostre aziende» ha ammonito Meloni. C’è, allora, da chiedersi perché chi è alla guida del nostro Paese invochi (giustamente) in sede europea uguali opportunità ma, poi, in casa protegga una determinata categoria di imprenditori a danno di altri? Agli occhi dei nostri partner questa “distinzione” è difficile da comprendere. Per questo il negoziato sul pacchetto di aiuti per sostenere l’industria europea rischia di partire in salita.
Un gruppo di Paesi, tra cui l’Italia, vorrebbe istituire un Fondo sovrano europeo alla stregua di quello creato per il Next Generation Eu (Ngeu). L’idea di nuovo debito comune è, invece, invisa a (molti) Paesi del Nord che sono già contributori netti del Ngeu. Prima di erogare nuovi finanziamenti vogliono essere certi che questi strumenti siano in grado di garantire la convergenza delle economie dell’Unione. Che cosa significa? I fondi devono servire a colmare i divari di crescita di chi è rimasto indietro. Solo per fare un esempio, devono essere utilizzati per far crescere le imprese vincenti non per tenere in vita quelle decotte. Ciò rafforza i singoli Stati membri e l’Europa nel suo insieme. Nella pratica, i governi beneficiari netti, come quello italiano, devono proseguire nel percorso di investimenti e riforme. Come è noto, la concorrenza è una delle priorità del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Le concessioni balneari non ne fanno parte. Ma, certamente, le resistenze dell’attuale governo a metterle a gara non lasciano ben sperare sulla volontà reale di cambiare una volta per tutte l’economia.
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Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 11 febbraio 2023, Padova
11 febbraio 2023, ore 11:00 – Sala Paladin Palazzo Moroni Via del Municipio, 1 PADOVA
saluti iniziali
ELEONORA MOSCO
intervengono
LEONARDO ARNAU
FRANCESCO CAVALLA
ANDREA OSTELLARI
modera
ALDA VANZANGiornalista de Il Gazzettino
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Anton Cechov – Tre anni
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Le molte anime pacifiste con cui la Meloni dovrà fare i conti
È una parte tutt’altro che marginale della società civile e della sua rappresentanza politica e sociale. Dai sondaggi risulta che solo un elettore su tre condivida la scelta del governo di inviare armi all’Ucraina, oltre il 50% dei cittadini italiani non la approva. Gli danno voce il Movimento 5stelle, il Vaticano, la Cgil, un pezzo di Pd, diversi giornali, parecchi intellettuali, giornalisti, scrittori, artisti, associazioni di sinistra, circoli di destra…
Se vi fossero una comune matrice culturale e una volontà politica condivisa, sarebbe una grande, grandissima questione democratica. Sappiamo, però, che quell’abbondante metà dell’opinione pubblica italiana e il variegato mondo “pacifista” che gli dà voce appartengono a mondi e sono soggetti a logiche assai diverse. Questo non elimina il problema, ma lo depotenzia almeno un po’.
Moltissimo conta, tra le rappresentanze politiche di destra come tra quelle di sinistra, l’antiamericanismo. Molto conta l’idealismo cattolico, dimentico del fatto che il concetto di “guerra giusta” fu teorizzato sia da sant’Agostino sia da san Tommaso, che nell’Antico Testamento il profeta Isaia dice che “la spada di Dio è coperta di sangue” e che nel Nuovo Testamento si annunci che “chi pone mano alla spada, perirà di spada”. Molto contano l’opportunismo, la demagogia e l’irresponsabilità di diversi leader politici e di non pochi cosiddetti intellettuali. Molto conta, come accadde negli anni Settanta, la capacità di condizionamento economico che l’aggressore (l’Unione Sovietica ieri, la Russia putiniana oggi) riesce ad esercitare sui soggetti politici e sociali italiani. Molto conta che le élite politiche abbiano pensato di poter espungere il concetto di guerra dal dibattito pubblico: le missioni sono sempre “di pace”, quando l’Italia bombardò la Serbia parlammo di “operazioni difesa integrata” e anche oggi qualifichiamo gli armamenti che doverosamente inviamo in Ucraina come “sistemi di difesa”.
Insomma, abbiamo disabituato i cittadini italiani a considerare la guerra come una possibilità, a volte come una necessità. E, tra un messaggio demagogico e l’altro, abbiamo mancato di svolgere quella funzione pedagogica essenziale affinché la difesa dei principi liberali e democratici su cui si fondano la cultura e la prassi occidentali venissero realmente avvertiti e condivisi.
È tardi, certo, ma forse non è troppo tardi. Mario Draghi non lo fece quanto avrebbe dovuto. È nell’interesse politico e nel dovere istituzionale di Giorgia Meloni farsi carico del tentativo di spiegare ad un’opinione pubblica impaurita, preda dall’ansia e comprensibilmente concentrata sulle ricadute economiche negative del conflitto, quale sia davvero la posta in palio.
Perché è vero che quella metà abbondante degli italiani contrari a difendere l’Ucraina è soggetta a spinte diverse, è vero che diversissime sono le spinte ideali e gli interessi materiali che muovono i loro rappresentanti politici e sociali, ma è difficile pensare di poter andare avanti nel doveroso sostegno al popolo ucraino e ai principi liberali e democratici europei ed occidentali cui Vladimir Putin ha dichiarato guerra senza il consenso, almeno, della metà più uno degli elettori e dei corpi sociali che bene o male, e più o meno ipocritamente, li rappresentano.
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#laFLEalMassimo – Episodio 80 – Shoah: il dovere di scegliere da che parte stare
Nuovo episodio della FLE al Massimo, come di consueto apriamo ricordando il sostegno di questa rubrica alla popolazione Ucraina ingiustamente oppressa dalla follia imperialista di Putin e ricordando anche che il mese prossimo il conflitto che ancora imperversa alle porte
dei nostri paesi raggiungerà la durata di un anno.
In questo periodo cade la celebrazione del Giorno della Memoria, per ricordate l’abisso
disumano della Shoah e l’eccidio di milioni di vittime innocenti. In particolare vorrei soffermarmi sul ruolo dei complici e di coloro che invece si sono rifiutati di collaborare con il genocidio tracciando un parallelo col mondo in cui viviamo oggi.
E’ troppo facile e troppo comodo illudersi che la Shoah sia il delitto compiuto da un limitato numero di mostri che fatichiamo a definire umani. Non è così. L’enorme scritta all’ingresso del memoriale della Shoah di Milano ci ricorda che è stata l’INDIFFERENZA e la collaborazione passiva e attiva di chi si è voltato dall’altra parte a rendere possibile lo sterminio sistematico degli Ebrei e di altri oppositori del regime nazista.
Dunque la storia ci insegna che viene il momento in cui siamo obbligati a scegliere, se stare dalla parte di chi teorizza e mette in pratica lo sterminio di altri esseri umani innocenti oppure se stare dalla parte dei giusti, quelli che anche a rischio della propria vita si sono rifiutati di collaborare e salvando anche una vita sola alla volta, hanno salvato il mondo intero.
Per noi che abbiamo la fortuna di non vivere in prima persona la tragedia delle persecuzioni razziali e della guerra il Giorno della Memoria è un momento di riflessione e di comprensione di come sia necessario prevenire il diffondersi delle ideologie che negano il valore della vita umana prima l’orrore diventi realtà. Ricordiamo per imparare a non ripetere gli errori del passato.
Purtroppo ancora oggi i diritti umani di milioni di persone vengono calpestati ogni giorno in molti paesi dalla Russia di Putin all’Iran passando per la Cina e per tutti i luoghi dove la libertà individuale non è ancora un valore consolidato. Abbiamo il dovere morale di non
volarci dall’altra parte per non essere complici di un orrore che, se non viene fermato per tempo, arriverà a bussare alle nostre porte come la vicenda dell’eroico popolo ucraino ci testimonia ogni giorno.
Slava Ukraïni!
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Brutale verità
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Blinken presenta il conto ad Abu Mazen: Ramallah cooperi con Israele
di Michele Giorgio*
Pagine Esteri, 1 febbraio 2023 – Avranno fatto storcere il naso al premier israeliano Netanyahu e ai suoi ministri di estrema destra le condoglianze che Antony Blinken, dopo quelle fatte alle famiglie delle sette vittime israeliane dell’attentato di venerdì a Gerusalemme, ha rivolto ieri a Ramallah al presidente dell’Anp Abu Mazen per i civili palestinesi «innocenti» uccisi nei raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania. «In questi tempi di violenza c’è stata una perdita di molte vite innocenti da entrambe le parti», ha aggiunto il segretario di Stato una volta rientrato a Gerusalemme. Per i comandi militari e l’establishment politico israeliano i palestinesi uccisi, tranne rare eccezioni, erano tutti «terroristi».
E’ minimo il peso della breve apparizione di Blinken in Cisgiordania di fronte alla secca riaffermazione fatta lunedì dal segretario di stato della partnership strategica tra Usa e Israele contro l’Iran e in tutte le vicende mediorientali. Ieri Abbas ha ripetuto che Israele è responsabile dell’aumento della violenza con le sue politiche «che minano una soluzione a due Stati» e le sue incursioni militari. Ha sottolineato che nel silenzio della comunità internazionale Israele espande i suoi insediamenti e continua l’espropriazione di terre, la demolizione di case e gli sgomberi, mentre aumenta l’aggressività dei coloni israeliani in Cisgiordania. Blinken ha risposto che gli Stati uniti restano contrari a mosse unilaterali e all’espansione delle colonie.
Ma è stato evidente che il segretario di stato a Ramallah è andato più di tutto per convincere Abu Mazen a riprendere la collaborazione di sicurezza con Israele interrotta dopo il raid a Jenin di una settimana fa (10 palestinesi uccisi), ossia ad arrestare o contenere in Cisgiordania la lotta armata contro l’esercito israeliano. D’altronde con quell’obiettivo gli Stati uniti finanziano 2/3 del budget degli apparati di sicurezza dell’Anp. E forse Blinken ha detto ad Abu Mazen di tenere conto delle parole di Meir Ben-Shabbat, ex consigliere per la sicurezza di Netanyahu, che in un’intervista al Times of Israel ha chiarito senza peli sulla lingua la visione israeliana della funzione dell’Anp. «Se l’Autorità palestinese non combatte il terrorismo, perché dovrebbe esistere?» ha detto Ben-Shabbat. Quindi ha avvertito che se non lo farà, «le Forze armate israeliane potrebbero essere costrette a intraprendere un’importante operazione militare in Cisgiordania (Muraglia di Difesa, ndr), come ha fatto nel 2002 al culmine della Seconda Intifada». L’Anp era e resta nella visione di Israele un’agenzia di sicurezza in aggiunta a quelle dello Stato ebraico. E comunque, stando ai media israeliani, Abu Mazen incontrando nei giorni scorsi a Ramallah il capo della Cia, William Burns, avrebbe spiegato che la cooperazione di sicurezza con Israele è stata interrotta parzialmente e sarà ripristinata quando le tensioni si calmeranno.
Non è esagerato calcolare vicino allo zero l’interesse del comune cittadino palestinese per l’incontro tra Blinken e Abu Mazen. La popolazione palestinese, trent’anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, non crede più che la fine dell’occupazione possa arrivare con un negoziato mediato dagli Stati uniti che non sono mai stati neutrali. La situazione si aggrava giorno dopo giorno. Le ultime notti in Cisgiordania sono state difficili per non pochi villaggi palestinesi soggetti alle ritorsioni dei coloni decisi a vendicare l’attentato di venerdì a Gerusalemme: un edificio e una dozzina di autoveicoli dati alle fiamme, campi coltivati devastati, alberi tagliati, scritte razziste e altro ancora. Lunedì attivisti palestinesi hanno chiamato alla formazione di comitati di protezione popolare per contrastare gli attacchi notturni tra Nablus e Ramallah, le aree a più alta tensione. In alcuni villaggi gli uomini stanno organizzando turni di guardia. L’escalation è dietro l’angolo se si tiene conto anche che, secondo i dati raccolti dalla ong israeliana GFKT per il controllo delle armi, il numero di coloni israeliani in possesso di pistole e mitra in Cisgiordania è di circa 100.000. Circa 148.000 israeliani sono in possesso del porto d’armi, oltre al personale di sicurezza, i militari, la polizia e le guardie private. Pagine Esteri
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In Cina e Asia – Xi atteso a Mosca in primavera
Xi atteso a Mosca in primavera
Biden prepara nuove msiure contro Huawei
Cina terzo paese a produrre computer quantistico
La misteriosa morte di uno studente sconvolge la Cina
Gli Usa rafforzano la cooperazione militare con Seul e Manila
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Sustainalytics – L’eterno ritorno del carbone in Asia
Quella tra carbone ed economie asiatiche è una relazione difficile, ma percepita come necessaria. Come sta cambiando e cosa raccontano le ultime previsioni su una delle fonti fossili più inquinanti al mondo, e altre notizie. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia
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Contro la Cina ora anche una Commissione speciale della Camera dei Rappresentanti Usa
di Michelangelo Cocco*
(nella foto da wikimedia, il nuovo speaker della Camera dei rappresentanti Usa, Kevin McCarthy)
Pagine Esteri, 1 febbraio 2023 – «Una delle grandi preoccupazioni per il futuro è quella che noi possiamo restare indietro rispetto alla Cina comunista». Ha esordito così il nuovo speaker della Camera dei rappresentanti, Kevin McCarthy, nel discorso con il quale ha inaugurato la Commissione speciale sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese. A favore dell’istituzione della Commissione, il 10 gennaio scorso, hanno votato 219 repubblicani e 146 democratici (65 i “no” democratici, e quattro schede bianche).
L’organismo è composto da 13 deputati repubblicani selezionati dallo stesso portavoce della Camera bassa, ai quali dovrebbero aggiungersene fino a sette del partito democratico. È presieduto dal deputato Mike Gallagher, giovane falco anti-Pechino, formatosi come funzionario militare: due dispiegamenti nell’intelligence dei marine in Iraq, più un’esperienza nella commissione Forze armate e un’altra in quella dell’Intelligence della Camera. Gallagher ritiene – così ha dichiarato a Politico – che gli Stati Uniti debbano «vincere questa nuova Guerra fredda contro la Cina». Dopo aver studiato la lingua araba a Princeton, Gallagher ha prestato servizio nella provincia di Anbar, una delle zone dell’Iraq nelle quali la guerriglia ha inflitto più danni e vittime all’esercito Usa. Gallagher ha un master in relazioni internazionali alla Georgetown University ed è un sostenitore della “pax economica” tra israeliani e palestinesi.
Secondo il trentottenne eletto nel Wisconsin, «Il Partito comunista cinese è il nemico della libertà nel mondo» e «la salute del nostro sistema educativo è legata al nostro successo, così come il numero di missili Harpoon che abbiamo a Taiwan». Gli Harpoon sono razzi anti-nave venduti da McDonnell Douglas (di proprietà di Boeing dal 1997) a circa 1,5 milioni di dollari la batteria. E a Taiwan intende recarsi in primavera McCarthy, replicando il viaggio (la “provocazione”, secondo Pechino) del 2 agosto scorso della sua predecessora, Nancy Pelosi, che indusse l’Esercito popolare di liberazione a inscenare un blocco navale e le più grandi esercitazioni militari mai condotte intorno all’Isola. Secondo i media Usa, il Pentagono si sta già preparando ad affrontare le ripercussioni della gita del nuovo speaker della Camera.
Con diversi componenti legati al settore della difesa (un’altra parte si occuperà invece di difendere le compagnie agricole Usa da acquisizioni cinesi), la Commissione appare come l’ennesima emanazione di quel «complesso militare-industriale e politico», che il presidente Dwight Eisenhower, nel suo discorso di commiato trasmesso in tv il 17 gennaio 1961, descrisse come la «congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti» che, per il 2023, ha varato un budget per la difesa di 816,7 miliardi di dollari.
Presentando la Commissione speciale sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese, McCarthy ha dato fondo alla più vieta retorica anti-comunista, lanciando allarmi per «una minaccia troppo grande per litigare tra noi», un non meglio specificato «genocidio comunista», la «minaccia del partito comunista cinese» e così via. Tanto che i media governativi cinesi hanno accostato Kevin a Joseph McCarthy, il senatore che negli anni Cinquanta fu protagonista della caccia alle streghe anti-comunista negli Stati Uniti (con il quale lo speaker della Camera non è imparentato). Il 25 ottobre 2018 Kevin McCarthy pubblicò un tweet dal tono evidentemente antisemita, con un ritratto di George Soros in bianco e nero e la scritta “Soros” in giallo, che invitava gli elettori a «uscire di casa e votare i repubblicani il 6 novembre», perché «non possiamo permettere a Soros, Steyer e Bloomberg di comprarsi queste elezioni». Ciò non gli ha impedito di atteggiarsi a ultrà filo-israeliano. Ad, esempio, in questi giorni guida la crociata per far espellere dalla commissione affari esteri della camera Ilhan Omar, deputata democratica critica dell’occupazione militare israeliana in Palestina e del sostegno militare statunitense a Tel Aviv. In difesa della libertà di espressione di Omar si sono mobilitate anche otto organizzazioni ebraiche statunitensi, ma McCarthy vuole mandarla via, nonostante la contrarietà dei democratici e dopo aver spaccato sulla questione il suo stesso partito. Per cacciare Omar servirebbe una maggioranza che non c’è e McCarty è destinato a rimediare una figuraccia. Come quella della sua elezione come speaker della Camera alla quindicesima votazione (non accadeva dal 1859).
McCarthy ha sottolineato che negli Stati Uniti «c’è un consenso bipartisan sul fatto che è finita l’era della fiducia nei confronti della Cina comunista». Il racconto ufficiale che parte da Washington e si diffonde nei paesi alleati è semplice come una favola per bambini: gli Stati Uniti e l’Occidente (i buoni) hanno sperato che i cattivi (la Cina comunista) diventassero buoni, ma questi ultimi, con Xi Jinping, sono diventati sempre più cattivi!
Eppure, da quando – all’inizio degli anni Novanta – le corporations a stelle e strisce hanno iniziato a investire più massicciamente in Cina, il suo sistema politico è rimasto incentrato sul Partito comunista cinese e non ha dato segnali di voler intraprendere un percorso di riforme democratiche liberali (separazione dei poteri, libertà d’espressione, suffragio universale, etc). Possiamo forse credere alla storia secondo la quale gli Stati Uniti e l’Occidente si erano illusi che la democrazia sarebbe sbocciata in Cina, col fiorire dell’economia di mercato all’interno del suo sistema misto?
In realtà, nascosta dalla narrazione transcontinentale e bipartisan della lotta tra la democrazia e l’autoritarismo, Washington ha avviato una separazione non consensuale (Pechino avrebbe preferito continuare a guadagnare tempo in vista dello scontro con gli Usa) da quello che per le grandi multinazionali è stato un partner economico fondamentale negli ultimi 30 anni. È infatti l’integrazione della Cina all’interno della globalizzazione neoliberista – ancor più con l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale per il commercio, nel 2001 – che ha permesso ad Apple, Nike &Co. di beneficiare dei vantaggi (bassi salari, incentivi fiscali e libertà d’inquinare) offerti dalla produzione in outsourcing in quella che è diventata la “fabbrica del mondo”.
Ma nella Repubblica popolare cinese i salari sono in costante crescita dall’inizio degli anni Novanta, oggi a essere favorite sono le compagnie locali, la tutela dell’ambiente è diventata una priorità, mentre l’economia e la tecnologia made in China inseguono quelle statunitensi. E non soltanto il Partito comunista non è disposto ad aprire i settori strategici (finanza, telecomunicazioni, energia, tra gli altri) alla concorrenza straniera, ma ha bisogno di sostenere le imprese private cinesi nel mercato interno, mentre su quelli esteri aziende di stato ristrutturate e rese più efficienti sottraggono fette di mercato – ad esempio, in quello delle infrastrutture ad energetico – alle major occidentali, dall’America latina all’Africa, passando per l’Asia e il Medio Oriente.
Ecco spiegata – per quanto schematicamente – la nuova Guerra fredda che Gallagher vuole vincere e la retorica anticomunista del nuovo McCarthy. Pagine Esteri
*Giornalista professionista, China analyst, scrivo per il quotidiano Domani. Ho pubblicato “Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci, 2022), e “Una Cina perfetta – La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020). Habitué della Repubblica popolare dal 2007, ho vissuto a Pechino nel 2011-2012, corrispondente per il quotidiano il manifesto nello scoppiettante e nebbioso crepuscolo della tecnocrazia di Hu Jintao & Co. Sono rientrato in Cina nel gennaio 2018, anno I della Nuova era di Xi Jinping, quella in cui il Partito-Stato regalerà a tutti “una vita migliore” e costruirà “un grande paese socialista moderno”. Racconto storie, raccolgo dati e cito fatti evitando di proiettare le mie ansie e le mie (in)certezze su un popolo straordinario che se ne farebbe un baffo.
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ANALISI. Egitto: il Golfo si è comprato El Sisi ma ora è stanco di pagare
di Michele Giorgio
(Abdel Fattah el Sisi e gli altri leader arabi al vertice di Abu Dhabi – foto Presidenza Emirati arabi uniti) –
Pagine Esteri, 27 gennaio 2023 – Accompagnato da cinque ministri e da alti funzionari governativi, Abdel Fattah el Sisi martedì è arrivato a New Delhi per una visita di stato di tre giorni e ha avuto colloqui con il primo ministro Narendra Modi con il quale condivide una visione a dir poco autoritaria del potere. Le due parti firmeranno accordi importanti ma l’India non potrà fare molto per aiutare l’Egitto alle prese con una crisi finanziaria ed economica devastante che rischia di farlo precipitare nel baratro in cui è già caduto il Libano. I punti in comune tra i due paesi arabi sono parecchi, a cominciare dal crollo della sterlina egiziana nel cambio con il dollaro simile a quello della lira libanese, passando per l’inflazione galoppante fino al rapido impoverimento della classe media in un paese dove già il 30% dei 104 milioni di abitanti vive in miseria. Un quadro che inquieta gli Stati arabi. Anche Israeleosserva con attenzione gli sviluppi alla luce dei rapporti stretti con il Cairo nelle questioni di sicurezza.
Come dare una mano a El Sisi è stato uno dei temi del vertice «Prosperità e stabilità nella regione» tenuto ad Abu Dhabi il 18 gennaio dove ufficialmente si sarebbe discusso solo di cooperazione, di Yemen e delle provocazioni sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme da parte del nuovo governo israeliano. Le ricche monarchie del Golfo, che già hanno aiutato con non pochi miliardi di dollari El Sisi dopo il suo colpo di stato nel 2013 contro il nemico comune, i Fratelli Musulmani, sono pronte a fare la loro parte ma solo entro una certa misura. Il sostegno richiesto invece è ingente. L’Egitto ha urgente bisogno di valuta estera. Le sue riserve ammontano a soli 24 miliardi di dollari e una parte di esse sono dell’Arabia saudita e degli Emirati che hanno depositato diversi miliardi di dollari nelle banche egiziane per garantire gli aiuti finanziari internazionali richiesti dal Cairo. Di recente l’Egitto ha ottenuto un prestito dal Fondo monetario internazionale di tre miliardi di dollari. Ma è una goccia di fronte al mare del debito complessivo egiziano di oltre 220 miliardi di dollari di cui quello estero sfiora i 160 miliardi.
Così non mancano gli interrogativi anche tra gli alleati arabi sulle politiche economiche del presidente egiziano e le sue manie di grandezza che si sono materializzate in questi anni in faraonici progetti infrastrutturali che hanno svuotato le casse pubbliche, come l’espansione del Canale di Suez, la costruzione di una nuova capitale nel deserto e varie superstrade. Progetti che El Sisi difende con forza. Il commentatore arabo Mashari a Dhayidi qualche giorno fa sulle pagine del quotidiano saudita Asharq al Aswat, megafono della famiglia reale, è andato in soccorso del presidente egiziano descrivendolo come un alleato «prezioso» per Riyadh e il leader di un paese «fondamentale per la difesa della sicurezza regionale». Dhayidi ha ricordato che il coordinamento tra Egitto, Arabia saudita ed Emirati è essenziale per sconfiggere le «minacce esistenziali» (l’Iran) e per «eliminare il caos nella regione» (gli Houthi yemeniti). Malgrado ciò l’Arabia saudita non ha partecipato al vertice di Abu Dhabi alimentando voci secondo le quali la famiglia Saud non sarebbe più disposta ad immettere altri miliardi di dollari nell’economia egiziana fuori controllo.
Riyadh non ha più bisogno di comprare la politica estera di El Sisi, quindi non regalerà al Cairo altre decine di miliardi di dollari. Anche perché il principe ereditario Mohammed bin Salman ha bisogno di quei miliardi per completare il suo piano nazionale Vision 30 persino più faraonico dei progetti di El Sisi. Al World Economic Forum di Davos, il ministro delle finanze saudita Mohammed al Jadaan ha chiarito che il regno cambierà la sua politica di aiuti esteri. «Eravamo soliti concedere sovvenzioni dirette e depositi senza alcun vincolo. Ora lavoriamo con le istituzioni internazionali per vedere che siano prima attuate riforme (nei paesi da sovvenzionare, ndr)» ha affermato. Personalità dei media vicine ai leader arabi del Golfo, come il giornalista Amr Adib, hanno apertamente criticato le politiche economiche del Cairo. Così lo scorso autunno El Sisi aveva mestamente riconosciuto che «Amici e alleati credono che lo Stato egiziano non sia in grado di rialzarsi dopo avergli fornito per anni l’assistenza per risolvere crisi e problemi». Il presidente egiziano comunque non sarà abbandonato al suo destino. Un El Sisi debole è ancora più manipolabile a favore degli interessi dei paesi del Golfo. Pagine Esteri
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VIDEO. Bombe su Gaza, lanci di razzi, scontri tra coloni israeliani e palestinesi a Gerusalemme
della redazione
Pagine Esteri, 27 gennaio 2023 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunirà oggi per una sessione di emergenza sul raid sanguinoso compiuto ieri dall’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, in cui sono stati uccisi nove palestinesi, tra cui una donna anziana. La riunione è stata richiesta da Cina, Francia e anche dagli Emirati, il principale alleato arabo di Israele nel Golfo. Un dato che testimonia la grande risonanza che hanno avuto nella regione le uccisioni a Jenin. La tensione dopo il raid è molto alta ed è stato ucciso un altro palestinese a Ram, a nord di Gerusalemme. Da Gaza sono stati lanciati razzi verso il sud di Israele. Alcuni sono stati intercettati, altri sono caduti senza fare danni. L’aviazione israeliana ha poi colpito presunti siti del movimento islamico Hamas. Le prossime ore si annunciano cariche di tensione in Cisgiordania e anche Gerusalemme dove migliaia di palestinesi affluiranno sulla Spianata delle moschee per le preghiere del venerdì. Ieri in tarda serata gruppi di coloni e di estremisti di destra israeliani sono scontrati con i residenti palestinesi nella zona di Porta Nuova nella città vecchia di Gerusalemme. Intanto si cerca di interpretare la decisione dell’Autorità nazionale palestinese di interrompere, in risposta al raid a Jenin, il coordinamento di sicurezza con Israele. Un passo invocato da anni dalla popolazione palestinese che, se confermato, potrebbe avere importanti riflessi. In passato però è già stato annunciato in diverse occasioni dall’Anp senza che la decisione avesse poi riscontri concreti sul terreno. Pagine Esteri
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Migranti: Governo Meloni incapace e subdolo
Tra le cose per le quali si segnala pervicacemente questo Governo che ci troviamo a ‘comandare’ (perché tale è il suo comportamento effettivo) c’è la volontà subdola e decisa di colpire l’immigrazione, di ridurla, di fermarla, non con i mezzi della politica, ma con quelli della volenza e della sopraffazione. Al di là dei numeri, […]
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Dal Tempest alla sfida cinese. Tokyo avvicina Atlantico e Pacifico (anche via Roma)
Nessun partner Nato è altrettanto vicino o capace del Giappone. A dirlo è stato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, in visita a Tokyo per un incontro con il primo ministro nipponico, Fumio Kishida. Un incontro per parlare delle sfide alla sicurezza globale che legano il Paese del Sol levante all’Alleanza e, soprattutto, la prova della rinnovata centralità del Giappone negli affari internazionali. In particolare, la visita rappresenta la dimostrazione di quanto Atlantico e Pacifico siano ormai vicini, e di come la tendenza Nato sia di osservare sempre più da vicino il quadrante orientale, come fonte della principale minaccia strategica globale del prossimo futuro. I due leader, infatti, hanno concordato una dichiarazione congiunta che definisce l’ambizione condivisa di rafforzare ulteriormente la cooperazione Nato-Giappone.
Le minacce per Atlantico e Pacifico
Al centro del colloquio Stoltenberg e Kishida hanno discusso delle sfide crescenti che arrivano dalla regione, a partire dall’assertività globale della Cina, fino alle provocazioni militari della Corea del Nord. Anche il Giappone ha riconosciuto come la crisi aperta dall’invasione russa dell’Ucraina sta avendo delle ripercussioni che non si limitano all’Europa, definita da parte nipponica una sfida all’ordine internazionale. A preoccupare, in particolare, sono i legami tra Mosca e Pechino, con Stoltenberg che avverte come la Cina “sta osservando da vicino e sta imparando lezioni che potrebbero influenzare le sue decisioni future”. Di fronte a questo scenario è necessario che la Nato e il Giappone rimangano uniti e fermi per proteggere la libertà e la democrazia dalle spinte dei regimi autoritari contro l’ordine internazionale basato sulle regole.
Il rinnovato protagonismo di Tokyo
Il segretario generale ha inoltre elogiato il Giappone per la sua nuova Strategia di sicurezza nazionale e la Strategia di difesa nazionale, che definiscono un livello di ambizione più elevato, tra cui nuove capacità e un aumento della spesa per la difesa. I documenti erano già stati apprezzati anche da parte americana, nel corso della visita del primo ministro Kishida alla Casa bianca a metà gennaio. Nei tre testi, infatti, Tokyo ha concretizzato la volontà del Giappone di acquisire nuove capacità e di aumentare i fondi per la Difesa, raggiungendo quota 2% del Pil entro il 2027. Un ulteriore dimostrazione della volontà del Giappone di abbandonare il suo tradizionale pacifismo dopo l’invasione russa dell’Ucraina e il livello sempre più elevato di assertività cinese.
Il programma Gcap
La visita di Stoltenberg è iniziata alla base aerea di Iruma, dove ha incontrato il ministro della Difesa, Toshiro Ino, e il capo di Stato maggiore della Forza di auto-difesa aerea giapponese (Jasdf) generale Shunji Izutsu. Tra gli assetti mostrati al segretario generale, anche gli aerei cargo schierati proprio nella base che Tokyo ha impiegato per rifornire sostegno all’Ucraina. Proprio nel settore aereo, tra l’altro, Tokyo è impegnata con Londra e Roma sul progetto del caccia di sesta generazione Global combat air programme (Gcap), comunemente noto come Tempest. Per Kishida, il programma Gcap in particolare potrà gettare “le fondamenta di una cooperazione bilaterale di medio e lungo periodo nell’ambito della sicurezza”.
Un avvicinamento che passa per Roma
Legami che vedono Tokyo sempre più vicina anche al nostro Paese, con il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che dovrebbe recarsi nell’arcipelago a breve. Durante il tour europeo di Kishida di inizio anno, il premier giapponese ha del resto incontrato a Roma il presidente Giorgia Meloni. Un vertice che era servito a elevare le relazioni italo-nipponiche a “partenariato strategico”, prevedendo anche un meccanismo di consultazioni bilaterali Esteri-Difesa simile a quello attivo tra Tokyo e Washington nel contesto dei colloqui “2+2”, la riunione periodica e sistemica tra i ministri relativi dei due Paesi.
Giorgia Meloni in Libia: sviluppi in vista nell’ex ‘Quarta Sponda’?
Il 6 aprile 2021 Mario Draghi si recò in Libia per la sua prima visita all’estero da Presidente del Consiglio, primo fra i leader europei dopo la formazione del nuovo Governo libico di unità nazionale guidato da Abdul Hamid Dbeibah. L’Italia, dopo un lungo periodo di eclissi iniziato con la riluttante partecipazione alla ‘guerra umanitaria’ contro […]
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La Russia di nuovo contro Crosetto. L’affondo dell’amb. Razov
Nuovo attacco della diplomazia russa al governo italiano. Da giorni nel mirino c’è – non a caso, vista l’urgenza dell’invio di nuove armi all’Ucraina – Guido Crosetto, ministro della Difesa, già criticato da Dimitri Medvedev, vicepresidente del consiglio di sicurezza russo. Il ministro aveva detto, durante la conferenza organizzata da Formiche e Airpress, che la terza guerra mondiale inizierebbe nel momento in cui i carri armati russi arrivassero a Kiev, rilanciando l’aiuto italiano all’Ucraina.
Oggi ad attaccarlo ci pensa Sergey Razov, ambasciatore russo a Roma. “Dall’anno scorso”, cioè in risposta all’invasione russa dell’Ucraina e sotto il governo Draghi prima e Meloni poi, l’Italia ha compiuto passi “per impedire unilateralmente i contatti, distruggere i canali di dialogo bilaterale attivi in precedenza”, scrive la feluce. “Sono sicuro”, aggiunge rivolgendosi a Crosetto, “che troverebbe molto difficile citare una qualsiasi iniziativa adottata nella stessa direzione da parte russa”.
Non fosse, ci permettiamo di evidenziare noi, per l’invasione dell’Ucraina, un Paese sovrano.
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PAKISTAN. Talebani scissionisti dietro l’attentato alla moschea. Oltre 100 i morti
di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 31 marzo 2023 – Continua a salire il bilancio delle vittime dell’attentato terroristico alla moschea di Peshawar, in Pakistan. Sono almeno 100 le persone uccise dall’esplosione che ha completamente distrutto una parte dell’edificio, collassato su se stesso e sui circa 300 fedeli che si erano riuniti per la preghiera. 225, al momento, i feriti, tra cui alcuni in condizioni molto gravi.
Le vittime sono quasi tutte poliziotti. La moschea si trova in una zona che ospita uffici delle forze dell’ordine e delle forze speciali: il quartier generale della polizia, l’antiterrorismo, i servizi segreti. E proprio per questo motivo, pare, sarebbe stato preso di mira dai Talebani del Pakistan (TTP, Tehrik-e-Taliban Pakistan), che hanno rivendicato l’azione rilasciando particolari specifici sull’attentatore e sulle modalità. Un kamikaze di 25 anni sarebbe riuscito ad entrare nell’edificio con almeno 7 chilogrammi di esplosivo. In realtà, a rivendicare l’attentato è stato Omar Mukaram Khorasani, capo della fazione scissionista del TTP, il Jamaat-ul-Ahrar, come risposta all’uccisione, nell’agosto del 2022 del leader Ahrar Omar Khalid Khorasani, la cui automobile è stata distrutta in Afghanistan da una mina. I talebani hanno accusato i servizi segreti pakistani di essere i responsabili dell’omicidio.
La detonazione è stata devastante, le fiamme sono state visibili da chilometri di distanza e hanno sbriciolato il tetto e le pareti della struttura. Le forze di sicurezza sono finite sotto accusa. Ci si chiede come sia stato possibile compiere un attentato del genere nel cuore del centro di controllo interforze, una delle zone più controllate della città, in un momento in cui i Talebani pachistani stavano intensificando i propri attacchi, prendendo di mira soprattutto i membri delle forze di sicurezza. Una nota dell’intelligence, già 10 giorni fa avvertiva di una possibile ondata di attacchi da parte del TTP.
Il portavoce ufficiale del TTP, Mohammad Khorasani, ha smentito il coinvolgimento dell’organizzazione, prendendo le distanze da Omar Mukaram Khorasani, dichiarando che i Talebani del Pakistan non prendono di mira moschee o siti religiosi e che anzi potrebbero arrivare a punire chi si macchia di tali crimini.
IL TTP è il principale gruppo anti governativo nel paese e ha intensificato i propri attacchi a partire dal mese di novembre, quando è terminato il cessate il fuoco.
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Nato e jet di sesta generazione. Incontro Italia-Svezia a SegreDifesa
Si è svolto oggi presso Palazzo Guidoni, sede di SegreDifesa, il comitato bilaterale tra Italia e Svezia. Il generale di corpo d’armata Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti, ha guidato la delegazione italiana. Carl Göran Mårtensson, direttore nazionale degli armamenti, quella svedese.
I RAPPORTI BILATERALI
Il segretario generale, dopo aver esteso alla controparte scandinava il saluto del ministro della Difesa Guido Crosetto, ha tenuto a evidenziare come gli ottimi rapporti tra i due Paesi, le cui relazioni sono da sempre improntate alla collaborazione e alla stabilità, agevolino un proficuo scambio di informazioni. In tale contesto, le delegazioni hanno illustrato le reciproche posizioni in tema di politica di difesa e sulle prospettive nazionali circa la situazione della sicurezza in Europa, con particolare riferimento alle rispettive iniziative in supporto all’Ucraina all’interno dello Ukrainian Defence Contact Group. Mårtensson, nell’esprimere la propria soddisfazione per gli argomenti oggetto di trattazione in sede di bilaterale, ha portato i saluti dal ministro della Difesa Pål Jonson, con l’auspicio che i rapporti tra i due Paesi possano essere ulteriormente rafforzati.
I TEMI DELL’INCONTRO
Il Comitato bilaterale ha consentito di affrontare diversi argomenti in tema di procurement della difesa. In particolare, nel domino terrestre, sono state discusse alcune iniziative di cooperazione europea, quali il Multinational Cooperation on All-Terrain Vehicles (MATV) e il Main Ground Combat System (MGCS). Nel dominio navale, si è puntato a favorire lo scambio di informazioni nel settore dei siluri pesanti, con l’auspicio di una futura cooperazione tra le rispettive forze navali e, in merito al dominio aereo, si è rilevato il forte interesse svedese per il Global Combat Air Programme (GCAP), progetto lanciato quasi due mesi fa da Italia, Regno Unito e Giappone per il caccia di sesta generazione, già da tempo considerato un’iniziativa di estremo valore che determinerà le future capacità operative e industriali di settore, definendo anche i livelli di sovranità operativa e tecnologica che i Paesi partecipanti saranno in grado di esprimere. Nelle scorse settimane, Giappone e Svezia hanno firmato un accordo sul trasferimento di tecnologia e difesa che potrebbe spianare la strada per l’ingresso della seconda nel GCAP, il cui obiettivo è la fusione tra il giapponese F-X e l’anglo-italiano (e un po’ svedese) Tempest.
LO SPAZIO
Nel dominio spaziale, e più specificamente nell’ambito della cooperazione militare sulle capacità di osservazione della Terra, sarà sviluppata con la Svezia una collaborazione per valutare la possibilità di utilizzo del sito Esrange Space Center di Kyrun – all’interno del circolo polare artico – con lo scopo di incrementare le capacità operative dei satelliti della difesa italiana.
IL CONTESTO UE E NATO
In chiusura, si è discusso dell’opportunità di procurement congiunto per la proposta di progetti da finanziare in ambito europeo all’interno dello “European Defence Industry Reinforcement trough common Procurement Act” (EDIRPA), che consentirà di far fronte anche alle crescenti difficoltà di approvvigionamento di equipaggiamenti e risorse, soprattutto in questo momento storico che ha portato la Svezia a chiedere ufficialmente di poter aderire alla Nato, a seguito dell’accresciuta percezione di una minaccia russa nell’area scandinava.
I tank a Kiev non accorceranno la guerra
di Marco Santopadre*
Le foto sono tratte dal seguente link
Pagine Esteri, 30 gennaio 2023 – Nelle settimane scorse ha tenuto banco lo scontro interno ai paesi della Nato sulla fornitura all’esercito di Kiev dei carri armati di fabbricazione tedesca Leopard 2. Dopo un lungo braccio di ferro tra Washington e Berlino, alla fine il governo Scholz ha accettato di inviarne alcuni in Ucraina e di permettere agli altri paesi europei che li hanno in dotazione di fare altrettanto. Al tempo stesso anche Washington ha deciso l’invio a Kiev di alcune decine di tank Abrams.
L’Alleanza Atlantica e Volodymyr Zelenskyi si sono detti entusiasti del nuovo passo che coinvolge ulteriormente l’Europa in un’escalation che sembra avvitarsi sempre più su se stessa. Dal punto di vista militare, però, la decisione non dovrebbe avere ripercussioni tali da “accorciare la guerra”, come qualcuno ha sostenuto, o in grado di cambiare le sorti del conflitto in corso. Anche dei lanciarazzi Himars, concessi dalla Casa Bianca a Kiev alcuni mesi fa, si diceva che avrebbero segnato una svolta nella guerra, ma per quanto abbiano dato una mano non indifferente all’esercito ucraino non si sono rivelati certo risolutivi. Lo stesso presidente ucraino, d’altronde, dei carri armati “in arrivo” afferma che soprattutto sosterranno lo spirito del proprio esercito.
I tank a Kiev non cambieranno le sorti della guerraI 31 Abrams M1 statunitensi non giungeranno in Ucraina prima dell’autunno. Washington infatti non invierà parte di quelli già in dotazione alle proprie forze armate, ma dovrà aspettare che gli esemplari da spedire vengano fabbricati.
Anche i Leopard 2 tedeschi, comunque, non potranno essere inviati in Ucraina prima della fine di marzo, non è chiaro se in tempo per contrastare la grande offensiva che il generale russo Gerasimov starebbe preparando in coincidenza con l’anniversario dell’invasione.
Indubbiamente, sia i tank statunitensi sia quelli tedeschi forniranno a Kiev una potenza di fuoco e una precisione di tiro maggiori rispetto a quelle che sono in grado di garantire i carri armati di fabbricazione sovietica utilizzati dalle forze armate ucraine, peraltro decimati nel corso degli ormai 11 mesi di guerra. I carri di ultima generazione ceduti a Kiev sono anche superiori anche ai modernissimi T 90-M russi.
Ma i circa 300 mezzi corazzati che dovrebbero rimpolpare gli arsenali ucraini – di cui però Leopard e Abrams dovrebbero rappresentare appena un terzo del totale – non saranno sufficienti a tenere testa alle migliaia di carri in dotazione alle truppe russe.
Inoltre, per addestrare il personale militare ucraino ad utilizzare i mezzi tedeschi e statunitensi occorreranno diversi mesi. L’esercito di Kiev si troverà ad utilizzare diversi modelli di carro armato, compresi i Challenger promessi da Londra, creando rilevanti difficoltà logistiche alle truppe ucraine: gli uomini addestrati per gestirne un tipo non necessariamente saranno in grado di fare lo stesso con gli altri modelli. I reparti di carristi non saranno intercambiabili.
Ad essere formati dovranno poi essere anche diverse centinaia di tecnici, per non parlare del fatto che per mantenere efficiente la flotta di tank all’avanguardia servirà un’ingente e continua disponibilità di pezzi di ricambio.
Il problema delle munizioni
Infine, c’è la non secondaria questione delle munizioni. Quelle utilizzate dai mezzi corazzati spediti a Kiev dai paesi della Nato sono di un calibro diverso rispetto a quelle sparate dai tank sovietici in uso finora alle truppe ucraine. E anche quelle, quindi, dovranno arrivare copiosamente da occidente. Ma non è affatto scontato che le forze armate ucraine possano contare sulla necessaria disponibilità di munizioni.
Così come sono restii a cedere a Kiev un numero consistente di carri armati tra i più moderni, gli eserciti della Nato difficilmente trasferiranno in Ucraina i propri stock di munizioni, anche tenendo conto che negli ultimi decenni tanto i paesi europei quanto gli Stati Uniti hanno smantellato buona parte della propria capacità produttiva. Se dopo la Seconda Guerra Mondiale Washington poteva contare su più di 80 fabbriche di munizioni, oggi ne possiede sono sei. Per invertire la tendenza, fa notare Gianandrea Gaiani in un’intervista all’AGI, all’apparato militare-industriale della Nato servirebbero investimenti miliardari e alcuni anni.
Per questo la Nato si sta rivolgendo ad altri paesi che possono contare su un assetto militare-industriale più convenzionale. Ma Washington e i suoi alleati stanno ricevendo anche dei ‘no’.
Il ‘no’ del Brasile
L’ultimo – il più significativo, finora – lo ha pronunciato il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. L’esponente socialdemocratico eletto presidente il 30 ottobre ha posto il veto ad un’ingente fornitura di munizioni per i Leopard destinati a Kiev chiesta dal governo tedesco. Trattandosi di munizioni da 105mm, adatti ai Leopard 1 in dotazione alle forze armate brasiliane (mentre il più moderno Leopard 2 utilizza colpi da 120mm) evidentemente Scholz intendeva trasferire a Kiev alcune decine di esemplari del vecchio modello, ipotesi accantonata nei giorni seguenti.
Secondo il quotidiano “Folha de Sao Paulo”, a proporre la vendita delle munizioni era stato, il 20 gennaio scorso, l’allora comandante dell’Esercito, generale Julio Cesar de Arruda (in seguito rimosso dal suo incarico per altre vicende) dopo aver avuto contatti con Berlino. D’altronde il Brasile, pur avendo condannato all’Onu l’invasione del 24 febbraio, mantiene una posizione neutrale per motivi economici e geopolitici rifiutandosi, ad esempio, di imporre sanzioni alla Russia.
Anche il Portogallo, che su pressioni americane nei giorni scorsi aveva promesso a Kiev alcuni dei suoi 37 Leopard, ha fatto poi sapere che l’invio è messo fortemente in dubbio «dal pessimo stato di conservazione» dei carri da combattimento in dotazione al suo piccolo esercito.
L’industria bellica USA va a gonfie vele
Le pressioni di Washington su Berlino evidenziano in modo chiaro che gli Stati Uniti stanno approfittando della crisi ucraina, oltre che per rinsaldare il proprio primato militare in Europa, anche per sostenere la produzione e l’esportazione delle proprie armi.
La scelta, ad esempio, di inviare a Kiev degli Abrams ancora da fabbricare invece di quelli già a disposizione (causando un ritardo nella consegna di molti mesi), rivela che la mossa mira a sostenere l’industria nazionale degli armamenti. Gli USA potrebbero anche approfittare del fatto che i loro alleati europei dovranno disfarsi di una parte del proprio stock di Leopard per cercare di piazzare gli Abrams, tentando di scalzare il tradizionale monopolio delle forniture tedesche nel continente.
Del resto, la crisi ucraina ha già provocato un’impennata delle vendite di armi statunitensi nel mondo negli ultimi 12 mesi. Nel 2022 le aziende belliche statunitensi ne hanno vendute per 153,7 miliardi di dollari, rispetto ai 103,4 del 2021. Il boom è del 49%.
L’acquirente principale delle armi a stelle e strisce è sempre la Germania (8,4 miliardi), che a luglio ha ordinato 35 caccia F-35. In graduatoria Berlino è seguita dalla Polonia, che ha speso 6 miliardi, il grosso dei quali per l’acquisto di 250 carri Abrams. Dietro Varsavia ci sono il Regno Unito, la Spagna e la Bulgaria; ad aprile Sofia ha ordinato otto caccia F16 per un valore di 1,7 miliardi. Nella zona dell’Indo-Pacifico, poi, spicca l’Indonesia, che ha comprato tredici F15 per un valore di 14 miliardi.
Mosca non mostra segnali di crisi
Com’era ampiamente prevedibile, la polarizzazione dello scontro internazionale sta favorendo nettamente gli Stati Uniti, almeno nel fronte occidentale e nell’Indo-Pacifico.
Sul campo, nel frattempo, i russi hanno ripreso l’iniziativa militare anche sul terreno dopo la disordinata ritirata da Kharkiv e Kherson. «Stanno avanzando lentamente, ma progressivamente, nel Donbass, stanno scardinando le difese ucraine sull’asse Siversk a Bakhmut e stanno avanzado a Zaporizhzhia. (…) Hanno accorciato il fronte e ridotto il peso della loro inferiorità numerica facendo affluire volontari e riservisti, che stanno addestrando anche per future operazioni» dice Gaiani.
Anche Eugene Rumer, direttore del programma “Russia ed Eurasia” del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace (ex membro del National Intelligence Council durante l’amministrazione Obama), in un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo elDiario, afferma di non vedere alcun segno di arretramento o di cedimento da parte di Mosca. «La determinazione di Putin a continuare questa guerra non è diminuita. A fine dicembre ha avvisato i russi che devono prepararsi ad una lunga guerra, non solo ad una limitata operazione militare» afferma Rumer, secondo il quale l’invio dei tank a Kiev non causerà alcuna svolta sostanziale nello scontro militare.
Il popolo russo, aggiunge, non mostra particolari segni di sofferenza o di scontento: «L’economia russa è in calo, ma solo del 3%, a differenza di quella ucraina che subisce terribili perdite». Inoltre, spiega Rumer, la guerra in Ucraina sta distraendo gli Stati Uniti dalla regione Asia-Pacifico, consumando ingenti risorse statunitensi, il che non può che far piacere alla Cinache nel frattempo, pur non sostenendo direttamente Mosca nello sforzo bellico, ha comunque guadagnato influenza sulla Russia. Per questo Pechino non avrebbe alcuna seria intenzione di convincere Vladimir Putin a fermare le operazioni militari contro Kiev, anche se effettivamente l’accelerazione militare della competizione globale danneggia la Repubblica Popolare. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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Cina, tra calo demografico e confronto tra superpotenze
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La strana ambivalenza di Israele sull’Ucraina
Attualmente ci sono solo due capi di stato ebrei nel mondo. Il primo, non a caso, guida Israele. Il secondo è Volodymyr Zelensky, il Presidente dell’Ucraina. Non vanno d’accordo. L’affiliazione religiosa di per sé non determina alleanze politiche o militari. Molte guerre hanno contrapposto cristiani contro cristiani e musulmani contro musulmani. Ma ci sono solo […]
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Palestina: aumenta la violenza mentre la visita di Blinken non fornisce risposte
Un uomo è stato ucciso lunedì in Cisgiordania dalle forze israeliane. Secondo il ministero della Sanità palestinese, è stato colpito alla testa. Ciò è accaduto poco prima dell’arrivo in Israele del Segretario di Stato americano Antony Blinken. Blinken ha incontrato lunedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e oggi il Presidente palestinese Mahmoud Abbas. Sabato, […]
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#IscrizioniOnline, cosa hanno scelto studentesse, studenti e famiglie per l’anno scolastico 2023/2024? Nelle card un approfondimento dei dati relativi agli Istituti Tecnici e agli Istituti Professionali.
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Svezia e Finlandia nella NATO: pace più lontana in Ucraina
Lunedì il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che non sosterrà l’offerta della Svezia alla NATO dopo le proteste del fine settimana a Stoccolma da parte di un gruppo filo-curdo e di un attivista anti-islamico. Lo scorso maggio, Svezia e Finlandia avevano presentato domanda formale per aderire all’alleanza, ma Ankara ha minacciato di porre […]
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Ucraina: Polonia, guida della risposta europea all’invasione russa
La Germania e gli Stati Uniti hanno recentemente fatto notizia decidendo di inviare carri armati in Ucraina. Tuttavia, l’eroe sconosciuto dietro questa decisione storica era in realtà la Polonia. I leader polacchi sono stati determinanti negli sforzi per persuadere Berlino in particolare della necessità di fornire all’Ucraina carri armati moderni. Questo è stato l’ultimo esempio […]
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La guerra in Ucraina sta andando verso una ‘soluzione coreana’?
Il salasso in Ucraina continua senza fine. I rischi di continue vittime, che ora superano probabilmente il mezzo milione, insieme alla conseguente spirale di escalation, devono essere fermamente respinti dai leader responsabili. Abbracciare uno ‘scenario coreano’ può fornire la migliore prospettiva sia per il popolo ucraino sia per un ritorno alla stabilità globale. Consentirebbe a […]
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Monica Guerritore racconta ‘Anna’, il film dedicato alla Magnani
Matinée al Teatro della Pergola di Firenze. Buio in sala, silenzio del pubblico ansioso e curioso di assistere ad un evento raro, forse unico nel suo genere, siamo nel Saloncino Paolo Poli, piccole luci si accendono e rischiarano la scena, un tavolinetto rotondo, una sedia e un leggio, è tutto qui, un paio di minuti […]
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La possibile soluzione per l’Ucraina. L’ipotesi del gen. Tricarico
Assumere l’impegno formale che la Nato si fermerà ai suoi confini attuali in cambio del ritiro totale delle truppe russe dall’Ucraina e tutelare i russi di Ucraina con uno status speciale che veda riconosciuti tutti i loro diritti. Questa una ipotesi di soluzione al conflitto russo ucraino, semplice, razionale, del tutto accettabile per le parti in causa. Vediamo perché, cercando al contempo di immaginare i verosimili impedimenti da parte di una comunità internazionale che sembra aver smarrito il buon senso e la volontà di porre fine a una guerra all’ultimo sangue.
Intanto, congelare la geografia della Nato significa probabilmente mantenere una “promessa” a suo tempo fatta a Gorbachev, in virtù della quale l’Alleanza non si sarebbe allargata di un pollice a est. Promessa da qualcuno oggi disconosciuta e comunque mai formalizzata.
Abbiamo visto poi come è andata a finire, una vera e propria migrazione di ormai tredici nuovi membri, dalla Polonia all’ultimo arrivato, il Montenegro, tutti con l’incoraggiamento e il plauso dell’Alleanza e la fissazione, tuttora condivisa e indiscussa, della politica della open door policy.
Lo stop formale all’espansione della Nato non incontrerebbe però l’entusiasmo – per usare un eufemismo – di un immaginabile gruppo di Paesi membri e, soprattutto, dell’azionista di maggioranza. Ma è altrettanto vero che quegli stessi Paesi dovrebbero spiegare con argomentazioni convincenti quale vantaggio ha l’Alleanza, tra l’altro alla ricerca di una identità in parte smarrita, a incorporare la Macedonia del Nord, la Bosnia, il Kossovo o perfino la Georgia, Paesi costituenti nel loro insieme a un vero e proprio campo minato sul cammino della distensione e della stabilità dell’area.
Per contro la Russia, che a più riprese e in tempi diversi aveva percepito, a torto o a ragione, l’allargamento della Nato come una minaccia, denunciandone l’immanenza, e rubricandolo come fattore dirimente per la propria sicurezza, dovrebbe ritenersi pienamente appagata con la chiusura delle porte ad altre candidature ai propri confini. E potrebbe, con buona ragione, portare a casa un risultato più che dignitoso agli occhi dei propri cittadini e della comunità internazionale.
Il vero problema rimarrebbe la condizione dei russi del Donbass e di Crimea, un problema che comunque vada a finire, rimarrà centrale. Prima o poi quindi, a prescindere dall’assetto finale in cui sfocerà il conflitto, le minoranze di etnia russa andranno messe al riparo dalle vecchie e dalle nuove contrapposizioni, dalle vendette per antichi e recenti rancori. Va in altre parole elaborato per loro uno status peculiare che recepisca ogni aspettativa e la tramuti in tutela, proteggendo così da discriminazioni, rivalse, persecuzioni o rappresaglie.
Non sarà agevole ma neppure difficile redigere un protocollo condiviso, garantito dalle Nazioni Unite e applicato sotto la sorveglianza di una forza multinazionale da dispiegare nell’area a cura dei Paesi meno implicati nella diatriba russo ucraina, sotto ogni profilo.
L’alternativa non è al momento in vista, tanto più che nessuno è stato in grado finora di immaginare o proporre uno end state per Russia e Ucraina. O meglio, se si vuole continuare compatti sulla linea indicata dal segretario alla Difesa statunitense, Loyd Austin il 26 aprile a Ramstein e mai smentita o modificata, secondo la quale l’obiettivo è quello di ridurre Putin all’impotenza militare, allora bisognerà che fin d’ora noi europei avviamo una accurata riflessione sulle possibili conseguenze di avere alle porte di casa una Russia in balìa di sviluppi imprevedibili e certamente difficilmente controllabili.
La massiccia perdita di codice Yandex rivela i fattori di ranking del motore di ricerca russo
I dettagli mostrano come il quarto motore di ricerca più grande del mondo classifica le pagine web.
Puoi cercare e fare clic su tutti i fattori sullo strumento di ricerca compilato di Rob Ousbey . Potresti notare che quasi 1.000 dei fattori di ranking hanno il tag "TG_DEPRECATED" e più di 200 sono elencati come "TG_UNUSED". Poiché il codice è del febbraio 2022 ed è stato acquisito nel luglio 2022, la ricerca di Yandex è sicuramente cambiata da allora. Ma la fuga di notizie fornisce uno sguardo raro su come vengono messe insieme le classifiche di ricerca in un sito che serve uno dei paesi più grandi del mondo.
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StatusSquatter 🍫
in reply to Andrea Russo • • •Ucraina: "c'è un popolo aggredito e un esercito aggressore"
Israele: 👀👀👀👀👀👀
Andrea Russo
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