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Ucraina: la guerra di Putin mette a nudo l’identità imperiale della Russia


Vladimir Putin insiste che russi e ucraini sono ‘un solo popolo’, ma la sua brutale invasione dell’Ucraina ha rivelato una notevole mancanza di empatia ‘fraterna’ russa per gli ucraini. Mentre molte persone in altre ex repubbliche sovietiche si sono identificate con le sofferenze dell’Ucraina, relativamente pochi cittadini russi hanno mostrato qualche segno di compassione o […]

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#NotiziePerLaScuola

PNRR, pubblicate le graduatorie definitive relative all’avviso per la realizzazione di mense scolastiche.

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Ucraina – Taiwan: no causa-effetto


“Se gli uomini definiscono reali le situazioni, sono reali nelle loro conseguenze”, ha scritto il sociologo WI Thomas. Il teorema di Thomas giustamente chiamato , formulato all’inizio del XX secolo, riflette uno dei pericoli costanti dell’arte di governo ed è profondamente saliente per i dibattiti in corso sulla strategia di Washington per l’Ucraina mentre la […]

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Addio al Boeing 747, la ‘regina dei cieli’


Boeing ha chiuso definitivamente la linea produttiva degli aeromobili 747 con la versione cargo -8F Queen of the Skies fornita alla Atlas Air, una compagnia specializzata in trasporti merci interamente controllata di Atlas Air Worldwide Holdings. La cerimonia si è svolta nello stabilimento di Everett, città capoluogo della Contea di Snohomish, nello Stato di Washington. La […]

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Addio, Enzo, uomo perbene


È stato un eccellente giornalista e un politico perbene, la cui immagine pubblica risultò indelebilmente macchiata dalla gogna mediatica cui fu sottoposto, in manette, ai tempi della furia giustizialista di Mani Pulite. Non si lasciò abbattere. Mantenne i

È stato un eccellente giornalista e un politico perbene, la cui immagine pubblica risultò indelebilmente macchiata dalla gogna mediatica cui fu sottoposto, in manette, ai tempi della furia giustizialista di Mani Pulite. Non si lasciò abbattere. Mantenne il buon umore e la curiosità allora, così come li mantenne negli ultimi mesi di convivenza con la malattia. Enzo Carra era un amico personale di molti di noi ed era un amico della Fondazione Luigi Einaudi. Ai suoi familiari le nostre più sentite condoglianze.

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REPORTAGE. Tra le macerie di Gerusalemme est, 31 case palestinesi demolite in un mese


Il governo israeliano annuncia una campagna di demolizioni contro «l’abusivismo palestinese». Con permessi edilizi fantasma, si costruisce comunque. Fino ai bulldozer. Viaggio a Jabal al Mukaber L'articolo REPORTAGE. Tra le macerie di Gerusalemme est, 31

di Michele Giorgio*

(le foto sono di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 2 febbraio 2023 – Stretta nella sua tutina bordeaux, con il cappuccio alzato sulla testa per ripararsi dalla pioggia che cade copiosa su Jabal al Mukaber, Malak Matar, 7 anni, ci racconta per filo e per segno cosa è accaduto all’alba del 29 gennaio quando ha sentito un gran frastuono fuori casa. «Mi sono svegliata per il rumore, poi ho sentito dei forti colpi alla porta di casa» dice sotto lo sguardo attento del padre Rateb «all’inizio ho pensato che papà stesse riparando qualcosa. Poi la mamma mi ha chiamato e mi ha detto di scendere giù subito». Al piano di sotto, continua Malak, «ho trovato dei poliziotti e degli uomini che avevano in mano dei fogli. Papà gridava, ripeteva che non potevano distruggere la nostra casa. Poi è arrivato il nonno, anche lui gridava. I poliziotti ci hanno ordinato di uscire al più presto. Mamma piangeva, mi ha detto di raccogliere in fretta un po’ di abiti e di andare a casa dei vicini». Meno di due ore dopo una ruspa ha ridotto in macerie l’abitazione dei Matar «sanando» quello che il municipio israeliano di Gerusalemme ha semplicemente descritto come un «abuso edilizio». Eppure, c’è poco di più politico della demolizione di una casa palestinese a Gerusalemme.

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Rateb Matar e la sua famiglia per un po’ saranno ospitati da parenti. Il cielo grigio che grava su questo sobborgo a sud-est della zona araba occupata di Gerusalemme rende più drammatica la previsione che il palestinese fa della sua vita, di quella di sua moglie e dei suoi figli. «Già sappiamo che saremo costretti a lasciare Jabal al Mukaber – ci dice Matar confortato da un paio di amici – e con gli affitti così alti (a Gerusalemme) dovremo cercare un appartamento fuori dalla città». Non esita quando gli chiediamo il perché di quella costruzione senza licenza. «Non ho avuto scelta – ci dice perentorio – la mia famiglia vive da sempre qui a Jabal al Mukaber e volevo lo stesso per me e i miei figli. I permessi edilizi costano una fortuna e comunque per ottenerne uno potrebbero volerci anche dieci anni. Chi può aspettare tanto per avere un tetto sulla testa? E l’affitto non posso permettermelo». Si avvicina un altro abitante, Firas. «Noi palestinesi non abbiamo le risorse degli israeliani – ci spiega – qui a Jabal al Mukaber a stento riusciamo a sopravvivere. Questo porta a costruzioni massicce senza i permessi». Firas, con un bimbo aggrappato alle gambe, aggiunge che le autorità comunali «qui si vedono solo per riscuotere l’arnona (l’Imu, ndr) e consegnare gli ordini di demolizione alle famiglie, mai per garantirci servizi e infrastrutture». Difficile smentirlo di fronte a strade strette e asfaltate poco e male, ai cumuli di rifiuti e detriti, al degrado generale. Un quadro ben diverso dalle strade ampie, pulite e alberate, con spazi per il gioco dei bambini che, sopra Jabal al Mukaber, circondano i palazzi della israeliana Armon HaNatsiv, formalmente una colonia perché costruita a Gerusalemme Est ma che adesso anche parecchi media italiani definiscono un «rione».

Pare che siano circa 800 le abitazioni senza permesso costruite dai palestinesi a Jabal al Mukaber. A Gerusalemme Est, secondo i dati dell’ong Ir Amim, dall’inizio dell’anno sono stati già stati demoliti 31 edifici. Perciò la nomina a ministro della Sicurezza nazionale di Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell’estrema destra israeliana, ha messo in forte allarme centinaia di famiglie. L’«abusivismo palestinese» infatti è visto dalla destra come una minaccia all’esistenza stessa di Israele e all’inizio della settimana Ben Gvir ha annunciato una «campagna di demolizione di case» in risposta all’attacco armato palestinese a Neve Yaacov in cui sono stati uccisi sette israeliani. «Ci sono dozzine di case che è possibile abbattere. Spero che non incontreremo difficoltà. La demolizione di case illegali a Gerusalemme deve continuare», ha ordinato.

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Parole che hanno suscitato timori e rabbia a Jabal al Mukaber, la zona più a rischio. La demolizione della casa della famiglia Matar e, il giorno successivo, di un edificio commerciale hanno lanciato un segnale inequivocabile. Due giorni fa, dopo la proclamazione di uno sciopero commerciale e la chiusura delle scuole, decine di giovani palestinesi hanno bloccato le strade di accesso al sobborgo, dato fuoco a pneumatici e cassonetti dei rifiuti e hanno minacciato una Intifada se Ben Gvir darà seguito concreto ai suoi propositi. Per ore sono andati avanti gli scontri tra la polizia e i dimostranti che lanciavano sassi. Da due giorni ogni estraneo che entra a Jabal al Mukaber è sospettato di essere un funzionario del Comune o un agente in borghese della polizia. «Siamo pronti a resistere, non riusciranno a cacciarci da Jabal al Mukaber», assicura Tareq, un commerciante. Pagine Esteri

*Questo reportage è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto

ilmanifesto.it/tra-le-macerie-…

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In Cina e Asia – Hong Kong regala 500mila biglietti aerei per rilanciare l’economia


In Cina e Asia – Hong Kong regala 500mila biglietti aerei per rilanciare l’economia hong kong
L'economia di Hong Kong è diminuita del 3,5% nel 2022
Chiuso (per ora) il quartiere di Sanlitun
Usa e India lanciano una iniziativa congiunta su high tech e difesa
La giunta birmana proroga lo stato di emergenza in Myanmar

Filippine: gli Usa ottengo l'accesso ad altre basi militari

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Repubblica Democratica del Congo: oltre 100mila civili in fuga in un solo giorno nel Nord Kivu


Sempre più violenti gli attacchi alla popolazione. 65mila bambini, denuncia Save the children sono stati costretti a fuggire dalle loro case a causa di violenti scontri tra il gruppo armato M23 e le forze governative, mentre Papa Francesco visita il Paese

(foto di Frederic Bonamy EU/ECHO)

Pagine Esteri, 2 febbraio 2023Più di 122 mila persone sarebbero fuggite dalle loro case nell’arco di un giorno dopo l’ennesima escalation del conflitto nella provincia del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), lasciando migliaia di bambine e bambini vulnerabili agli abusi. Questo l’allarme lanciato dall’organizzazione internazionale Save the Children.

Gli scontri armati tra il gruppo armato M23 e le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) nelle aree intorno a Kitshanga, a circa 60 km a ovest di Goma, tra il 24 e il 25 febbraio hanno portato a sfollamenti di massa, il cui numero è destinato ad aumentare con il protrarsi del conflitto. Si stima che oltre la metà degli sfollati in fuga da Kitshanga siano bambini.

L’ultima escalation di violenza si è verificata mentre Papa Francesco è nella Repubblica Democratica del Congo.

Mentre l’intensificarsi del conflitto sta causando sfollamenti di massa, in altre aree della Repubblica Democratica del Congo orientale le persone vengono uccise e sradicate dalle loro case in un’allarmante ondata di attacchi contro i civili. Secondo le Nazioni Unite, più di 200 civili sono stati uccisi dai gruppi armati nell’Ituri nelle ultime 6 settimane, 2 mila case sono state distrutte e 80 scuole sono state chiuse o abbattute. Le strutture sanitarie sono state saccheggiate, rendendo sempre più difficile l’accesso all’assistenza sanitaria.

I violenti attacchi contro i civili spesso coinvolgono anche i bambini. La sera del 18 gennaio e la mattina seguente, gruppi armati hanno attaccato un insediamento di sfollati in un villaggio dell’Ituri, uccidendo 5 bambini e 2 adulti. L’8 gennaio un gruppo armato ha attaccato quattro villaggi dell’Ituri uccidendo 25 persone, tra cui 5 bambini. Il gruppo ha anche saccheggiato un centro sanitario locale. Nella sola provincia di Ituri, questi attacchi hanno costretto circa 52 mila persone a fuggire dalle loro case.

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“I violenti scontri e gli attacchi ai civili, compresi i bambini, devono cessare”, ha dichiarato Amavi Akpamagbo, Direttore nazionale di Save the Children nella Repubblica Democratica del Congo. “Stiamo assistendo a una notevole escalation del conflitto tra il gruppo armato M23 e le FARDC, che continua a causare massicci spostamenti di popolazione. Assistiamo anche ad attacchi feroci da parte di altri gruppi armati, che uccidono e mutilano i civili, compresi i bambini, in modo estremamente violento. Questi attacchi contro i civili devono essere indagati e i responsabili devono essere chiamati a rispondere delle violenze e delle uccisioni di bambini e altri civili”, ha aggiunto Akpamagbo.

Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nella Repubblica Democratica del Congo vivono circa 5,5 milioni di sfollati, in un Paese che conta circa 95 milioni di abitanti. Alcuni dormono all’aperto mentre altri si trovano in campi e insediamenti, spesso in condizioni di sovraffollamento e senza servizi igienici di base, il che porta a epidemie di malattie trasmesse dall’acqua come il colera.

Il mese scorso Save the Children ha riferito che i casi di colera sono in rapido aumento a Nyirangongo, la regione che ospita il maggior numero di sfollati a causa della recente escalation del conflitto, con i bambini che rappresentano quasi quattro casi su cinque.

“La situazione umanitaria nella Repubblica Democratica del Congo è terribile”, ha aggiunto Akpamagbo. “La maggior parte degli sfollati si trova in condizioni precarie. Vivono in scuole e stadi e altri sono ospitati da famiglie dove non hanno né acqua potabile né cibo. I bambini sfollati sono vulnerabili. I minori non accompagnati o abbandonati, senza familiari, corrono un rischio maggiore di abusi”.

Save the Children lavora nella Repubblica Democratica del Congo dal 1994 per rispondere ai bisogni umanitari legati al massiccio sfollamento delle popolazioni a causa del conflitto armato nelle province orientali, in particolare nel Nord Kivu, nel Sud Kivu e nell’Ituri e nel Kasai-Orientale e Lomami nel centro del Paese. Save the Children sta sviluppando attività nei settori della salute e della nutrizione, dell’istruzione e della protezione, in modo da non lasciare indietro nessuna comunità, compresi i bambini più vulnerabili. Pagine Esteri

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pagineesteri.it/2023/02/02/afr…



Contro la Cina ora anche una Commissione speciale della Camera dei Rappresentanti Usa


Composta da 13 deputati è guidata da Mike Gallagher, giovane falco anti-Pechino. Lo scontro tra i due giganti si intensifica e domenica arriverà in Cina il segretario di stato Blinken. L'articolo Contro la Cina ora anche una Commissione speciale della Ca

di Michelangelo Cocco*

(nella foto da wikimedia, il nuovo speaker della Camera dei rappresentanti Usa, Kevin McCarthy)

Pagine Esteri, 1 febbraio 2023 – «Una delle grandi preoccupazioni per il futuro è quella che noi possiamo restare indietro rispetto alla Cina comunista». Ha esordito così il nuovo speaker della Camera dei rappresentanti, Kevin McCarthy, nel discorso con il quale ha inaugurato la Commissione speciale sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese. A favore dell’istituzione della Commissione, il 10 gennaio scorso, hanno votato 219 repubblicani e 146 democratici (65 i “no” democratici, e quattro schede bianche).

L’organismo è composto da 13 deputati repubblicani selezionati dallo stesso portavoce della Camera bassa, ai quali dovrebbero aggiungersene fino a sette del partito democratico. È presieduto dal deputato Mike Gallagher, giovane falco anti-Pechino, formatosi come funzionario militare: due dispiegamenti nell’intelligence dei marine in Iraq, più un’esperienza nella commissione Forze armate e un’altra in quella dell’Intelligence della Camera. Gallagher ritiene – così ha dichiarato a Politico – che gli Stati Uniti debbano «vincere questa nuova Guerra fredda contro la Cina». Dopo aver studiato la lingua araba a Princeton, Gallagher ha prestato servizio nella provincia di Anbar, una delle zone dell’Iraq nelle quali la guerriglia ha inflitto più danni e vittime all’esercito Usa. Gallagher ha un master in relazioni internazionali alla Georgetown University ed è un sostenitore della “pax economica” tra israeliani e palestinesi.

Secondo il trentottenne eletto nel Wisconsin, «Il Partito comunista cinese è il nemico della libertà nel mondo» e «la salute del nostro sistema educativo è legata al nostro successo, così come il numero di missili Harpoon che abbiamo a Taiwan». Gli Harpoon sono razzi anti-nave venduti da McDonnell Douglas (di proprietà di Boeing dal 1997) a circa 1,5 milioni di dollari la batteria. E a Taiwan intende recarsi in primavera McCarthy, replicando il viaggio (la “provocazione”, secondo Pechino) del 2 agosto scorso della sua predecessora, Nancy Pelosi, che indusse l’Esercito popolare di liberazione a inscenare un blocco navale e le più grandi esercitazioni militari mai condotte intorno all’Isola. Secondo i media Usa, il Pentagono si sta già preparando ad affrontare le ripercussioni della gita del nuovo speaker della Camera.

Con diversi componenti legati al settore della difesa (un’altra parte si occuperà invece di difendere le compagnie agricole Usa da acquisizioni cinesi), la Commissione appare come l’ennesima emanazione di quel «complesso militare-industriale e politico», che il presidente Dwight Eisenhower, nel suo discorso di commiato trasmesso in tv il 17 gennaio 1961, descrisse come la «congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti» che, per il 2023, ha varato un budget per la difesa di 816,7 miliardi di dollari.

Presentando la Commissione speciale sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese, McCarthy ha dato fondo alla più vieta retorica anti-comunista, lanciando allarmi per «una minaccia troppo grande per litigare tra noi», un non meglio specificato «genocidio comunista», la «minaccia del partito comunista cinese» e così via. Tanto che i media governativi cinesi hanno accostato Kevin a Joseph McCarthy, il senatore che negli anni Cinquanta fu protagonista della caccia alle streghe anti-comunista negli Stati Uniti (con il quale lo speaker della Camera non è imparentato). Il 25 ottobre 2018 Kevin McCarthy pubblicò un tweet dal tono evidentemente antisemita, con un ritratto di George Soros in bianco e nero e la scritta “Soros” in giallo, che invitava gli elettori a «uscire di casa e votare i repubblicani il 6 novembre», perché «non possiamo permettere a Soros, Steyer e Bloomberg di comprarsi queste elezioni». Ciò non gli ha impedito di atteggiarsi a ultrà filo-israeliano. Ad, esempio, in questi giorni guida la crociata per far espellere dalla commissione affari esteri della camera Ilhan Omar, deputata democratica critica dell’occupazione militare israeliana in Palestina e del sostegno militare statunitense a Tel Aviv. In difesa della libertà di espressione di Omar si sono mobilitate anche otto organizzazioni ebraiche statunitensi, ma McCarthy vuole mandarla via, nonostante la contrarietà dei democratici e dopo aver spaccato sulla questione il suo stesso partito. Per cacciare Omar servirebbe una maggioranza che non c’è e McCarty è destinato a rimediare una figuraccia. Come quella della sua elezione come speaker della Camera alla quindicesima votazione (non accadeva dal 1859).

McCarthy ha sottolineato che negli Stati Uniti «c’è un consenso bipartisan sul fatto che è finita l’era della fiducia nei confronti della Cina comunista». Il racconto ufficiale che parte da Washington e si diffonde nei paesi alleati è semplice come una favola per bambini: gli Stati Uniti e l’Occidente (i buoni) hanno sperato che i cattivi (la Cina comunista) diventassero buoni, ma questi ultimi, con Xi Jinping, sono diventati sempre più cattivi!

Eppure, da quando – all’inizio degli anni Novanta – le corporations a stelle e strisce hanno iniziato a investire più massicciamente in Cina, il suo sistema politico è rimasto incentrato sul Partito comunista cinese e non ha dato segnali di voler intraprendere un percorso di riforme democratiche liberali (separazione dei poteri, libertà d’espressione, suffragio universale, etc). Possiamo forse credere alla storia secondo la quale gli Stati Uniti e l’Occidente si erano illusi che la democrazia sarebbe sbocciata in Cina, col fiorire dell’economia di mercato all’interno del suo sistema misto?

In realtà, nascosta dalla narrazione transcontinentale e bipartisan della lotta tra la democrazia e l’autoritarismo, Washington ha avviato una separazione non consensuale (Pechino avrebbe preferito continuare a guadagnare tempo in vista dello scontro con gli Usa) da quello che per le grandi multinazionali è stato un partner economico fondamentale negli ultimi 30 anni. È infatti l’integrazione della Cina all’interno della globalizzazione neoliberista – ancor più con l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale per il commercio, nel 2001 – che ha permesso ad Apple, Nike &Co. di beneficiare dei vantaggi (bassi salari, incentivi fiscali e libertà d’inquinare) offerti dalla produzione in outsourcing in quella che è diventata la “fabbrica del mondo”.

Ma nella Repubblica popolare cinese i salari sono in costante crescita dall’inizio degli anni Novanta, oggi a essere favorite sono le compagnie locali, la tutela dell’ambiente è diventata una priorità, mentre l’economia e la tecnologia made in China inseguono quelle statunitensi. E non soltanto il Partito comunista non è disposto ad aprire i settori strategici (finanza, telecomunicazioni, energia, tra gli altri) alla concorrenza straniera, ma ha bisogno di sostenere le imprese private cinesi nel mercato interno, mentre su quelli esteri aziende di stato ristrutturate e rese più efficienti sottraggono fette di mercato – ad esempio, in quello delle infrastrutture ad energetico – alle major occidentali, dall’America latina all’Africa, passando per l’Asia e il Medio Oriente.

Ecco spiegata – per quanto schematicamente – la nuova Guerra fredda che Gallagher vuole vincere e la retorica anticomunista del nuovo McCarthy. Pagine Esteri

5162378*Giornalista professionista, China analyst, scrivo per il quotidiano Domani. Ho pubblicato “Xi, Xi, Xi – Il XX Congresso del Partito comunista e la Cina nel mondo post-pandemia (Carocci, 2022), e “Una Cina perfetta – La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020). Habitué della Repubblica popolare dal 2007, ho vissuto a Pechino nel 2011-2012, corrispondente per il quotidiano il manifesto nello scoppiettante e nebbioso crepuscolo della tecnocrazia di Hu Jintao & Co. Sono rientrato in Cina nel gennaio 2018, anno I della Nuova era di Xi Jinping, quella in cui il Partito-Stato regalerà a tutti “una vita migliore” e costruirà “un grande paese socialista moderno”. Racconto storie, raccolgo dati e cito fatti evitando di proiettare le mie ansie e le mie (in)certezze su un popolo straordinario che se ne farebbe un baffo.

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I tank a Kiev non accorceranno la guerra


Washington è riuscita a convincere Berlino a cedere i carri armati Leopard a Kiev, ma difficilmente questi cambieranno il corso del conflitto. Nel frattempo le esportazioni di armi americane vanno a gonfie vele L'articolo I tank a Kiev non accorceranno l

di Marco Santopadre*

Le foto sono tratte dal seguente link

Pagine Esteri, 30 gennaio 2023 – Nelle settimane scorse ha tenuto banco lo scontro interno ai paesi della Nato sulla fornitura all’esercito di Kiev dei carri armati di fabbricazione tedesca Leopard 2. Dopo un lungo braccio di ferro tra Washington e Berlino, alla fine il governo Scholz ha accettato di inviarne alcuni in Ucraina e di permettere agli altri paesi europei che li hanno in dotazione di fare altrettanto. Al tempo stesso anche Washington ha deciso l’invio a Kiev di alcune decine di tank Abrams.
L’Alleanza Atlantica e Volodymyr Zelenskyi si sono detti entusiasti del nuovo passo che coinvolge ulteriormente l’Europa in un’escalation che sembra avvitarsi sempre più su se stessa. Dal punto di vista militare, però, la decisione non dovrebbe avere ripercussioni tali da “accorciare la guerra”, come qualcuno ha sostenuto, o in grado di cambiare le sorti del conflitto in corso. Anche dei lanciarazzi Himars, concessi dalla Casa Bianca a Kiev alcuni mesi fa, si diceva che avrebbero segnato una svolta nella guerra, ma per quanto abbiano dato una mano non indifferente all’esercito ucraino non si sono rivelati certo risolutivi. Lo stesso presidente ucraino, d’altronde, dei carri armati “in arrivo” afferma che soprattutto sosterranno lo spirito del proprio esercito.

I tank a Kiev non cambieranno le sorti della guerraI 31 Abrams M1 statunitensi non giungeranno in Ucraina prima dell’autunno. Washington infatti non invierà parte di quelli già in dotazione alle proprie forze armate, ma dovrà aspettare che gli esemplari da spedire vengano fabbricati.
Anche i Leopard 2 tedeschi, comunque, non potranno essere inviati in Ucraina prima della fine di marzo, non è chiaro se in tempo per contrastare la grande offensiva che il generale russo Gerasimov starebbe preparando in coincidenza con l’anniversario dell’invasione.
Indubbiamente, sia i tank statunitensi sia quelli tedeschi forniranno a Kiev una potenza di fuoco e una precisione di tiro maggiori rispetto a quelle che sono in grado di garantire i carri armati di fabbricazione sovietica utilizzati dalle forze armate ucraine, peraltro decimati nel corso degli ormai 11 mesi di guerra. I carri di ultima generazione ceduti a Kiev sono anche superiori anche ai modernissimi T 90-M russi.

Ma i circa 300 mezzi corazzati che dovrebbero rimpolpare gli arsenali ucraini – di cui però Leopard e Abrams dovrebbero rappresentare appena un terzo del totale – non saranno sufficienti a tenere testa alle migliaia di carri in dotazione alle truppe russe.

Inoltre, per addestrare il personale militare ucraino ad utilizzare i mezzi tedeschi e statunitensi occorreranno diversi mesi. L’esercito di Kiev si troverà ad utilizzare diversi modelli di carro armato, compresi i Challenger promessi da Londra, creando rilevanti difficoltà logistiche alle truppe ucraine: gli uomini addestrati per gestirne un tipo non necessariamente saranno in grado di fare lo stesso con gli altri modelli. I reparti di carristi non saranno intercambiabili.
Ad essere formati dovranno poi essere anche diverse centinaia di tecnici, per non parlare del fatto che per mantenere efficiente la flotta di tank all’avanguardia servirà un’ingente e continua disponibilità di pezzi di ricambio.

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Il problema delle munizioni
Infine, c’è la non secondaria questione delle munizioni. Quelle utilizzate dai mezzi corazzati spediti a Kiev dai paesi della Nato sono di un calibro diverso rispetto a quelle sparate dai tank sovietici in uso finora alle truppe ucraine. E anche quelle, quindi, dovranno arrivare copiosamente da occidente. Ma non è affatto scontato che le forze armate ucraine possano contare sulla necessaria disponibilità di munizioni.

Così come sono restii a cedere a Kiev un numero consistente di carri armati tra i più moderni, gli eserciti della Nato difficilmente trasferiranno in Ucraina i propri stock di munizioni, anche tenendo conto che negli ultimi decenni tanto i paesi europei quanto gli Stati Uniti hanno smantellato buona parte della propria capacità produttiva. Se dopo la Seconda Guerra Mondiale Washington poteva contare su più di 80 fabbriche di munizioni, oggi ne possiede sono sei. Per invertire la tendenza, fa notare Gianandrea Gaiani in un’intervista all’AGI, all’apparato militare-industriale della Nato servirebbero investimenti miliardari e alcuni anni.
Per questo la Nato si sta rivolgendo ad altri paesi che possono contare su un assetto militare-industriale più convenzionale. Ma Washington e i suoi alleati stanno ricevendo anche dei ‘no’.

Il ‘no’ del Brasile
L’ultimo – il più significativo, finora – lo ha pronunciato il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. L’esponente socialdemocratico eletto presidente il 30 ottobre ha posto il veto ad un’ingente fornitura di munizioni per i Leopard destinati a Kiev chiesta dal governo tedesco. Trattandosi di munizioni da 105mm, adatti ai Leopard 1 in dotazione alle forze armate brasiliane (mentre il più moderno Leopard 2 utilizza colpi da 120mm) evidentemente Scholz intendeva trasferire a Kiev alcune decine di esemplari del vecchio modello, ipotesi accantonata nei giorni seguenti.
Secondo il quotidiano “Folha de Sao Paulo”, a proporre la vendita delle munizioni era stato, il 20 gennaio scorso, l’allora comandante dell’Esercito, generale Julio Cesar de Arruda (in seguito rimosso dal suo incarico per altre vicende) dopo aver avuto contatti con Berlino. D’altronde il Brasile, pur avendo condannato all’Onu l’invasione del 24 febbraio, mantiene una posizione neutrale per motivi economici e geopolitici rifiutandosi, ad esempio, di imporre sanzioni alla Russia.

Anche il Portogallo, che su pressioni americane nei giorni scorsi aveva promesso a Kiev alcuni dei suoi 37 Leopard, ha fatto poi sapere che l’invio è messo fortemente in dubbio «dal pessimo stato di conservazione» dei carri da combattimento in dotazione al suo piccolo esercito.

L’industria bellica USA va a gonfie vele
Le pressioni di Washington su Berlino evidenziano in modo chiaro che gli Stati Uniti stanno approfittando della crisi ucraina, oltre che per rinsaldare il proprio primato militare in Europa, anche per sostenere la produzione e l’esportazione delle proprie armi.
La scelta, ad esempio, di inviare a Kiev degli Abrams ancora da fabbricare invece di quelli già a disposizione (causando un ritardo nella consegna di molti mesi), rivela che la mossa mira a sostenere l’industria nazionale degli armamenti. Gli USA potrebbero anche approfittare del fatto che i loro alleati europei dovranno disfarsi di una parte del proprio stock di Leopard per cercare di piazzare gli Abrams, tentando di scalzare il tradizionale monopolio delle forniture tedesche nel continente.

Del resto, la crisi ucraina ha già provocato un’impennata delle vendite di armi statunitensi nel mondo negli ultimi 12 mesi. Nel 2022 le aziende belliche statunitensi ne hanno vendute per 153,7 miliardi di dollari, rispetto ai 103,4 del 2021. Il boom è del 49%.

L’acquirente principale delle armi a stelle e strisce è sempre la Germania (8,4 miliardi), che a luglio ha ordinato 35 caccia F-35. In graduatoria Berlino è seguita dalla Polonia, che ha speso 6 miliardi, il grosso dei quali per l’acquisto di 250 carri Abrams. Dietro Varsavia ci sono il Regno Unito, la Spagna e la Bulgaria; ad aprile Sofia ha ordinato otto caccia F16 per un valore di 1,7 miliardi. Nella zona dell’Indo-Pacifico, poi, spicca l’Indonesia, che ha comprato tredici F15 per un valore di 14 miliardi.

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Mosca non mostra segnali di crisi
Com’era ampiamente prevedibile, la polarizzazione dello scontro internazionale sta favorendo nettamente gli Stati Uniti, almeno nel fronte occidentale e nell’Indo-Pacifico.
Sul campo, nel frattempo, i russi hanno ripreso l’iniziativa militare anche sul terreno dopo la disordinata ritirata da Kharkiv e Kherson. «Stanno avanzando lentamente, ma progressivamente, nel Donbass, stanno scardinando le difese ucraine sull’asse Siversk a Bakhmut e stanno avanzado a Zaporizhzhia. (…) Hanno accorciato il fronte e ridotto il peso della loro inferiorità numerica facendo affluire volontari e riservisti, che stanno addestrando anche per future operazioni» dice Gaiani.

Anche Eugene Rumer, direttore del programma “Russia ed Eurasia” del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace (ex membro del National Intelligence Council durante l’amministrazione Obama), in un’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo elDiario, afferma di non vedere alcun segno di arretramento o di cedimento da parte di Mosca. «La determinazione di Putin a continuare questa guerra non è diminuita. A fine dicembre ha avvisato i russi che devono prepararsi ad una lunga guerra, non solo ad una limitata operazione militare» afferma Rumer, secondo il quale l’invio dei tank a Kiev non causerà alcuna svolta sostanziale nello scontro militare.
Il popolo russo, aggiunge, non mostra particolari segni di sofferenza o di scontento: «L’economia russa è in calo, ma solo del 3%, a differenza di quella ucraina che subisce terribili perdite». Inoltre, spiega Rumer, la guerra in Ucraina sta distraendo gli Stati Uniti dalla regione Asia-Pacifico, consumando ingenti risorse statunitensi, il che non può che far piacere alla Cinache nel frattempo, pur non sostenendo direttamente Mosca nello sforzo bellico, ha comunque guadagnato influenza sulla Russia. Per questo Pechino non avrebbe alcuna seria intenzione di convincere Vladimir Putin a fermare le operazioni militari contro Kiev, anche se effettivamente l’accelerazione militare della competizione globale danneggia la Repubblica Popolare. – Pagine Esteri

5162324* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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GERUSALEMME. Sette israeliani uccisi in attacco armato. Morto ragazzo palestinese ferito dalla polizia


L'attentato, nell'insediamento di Neve Yaacov, è stato compiuto da un giovane di Gerusalemme Est in apparente reazione al raid dell'esercito israeliano di giovedì a Jenin in cui sono stati uccisi 10 palestinesi. L'articolo GERUSALEMME. Sette israeliani u

AGGIORNAMENTO ORE 10
Un palestinese di 13 anni ha ferito a colpi d’arma da fuoco due israeliani nei pressi della cosiddetta Città di Davide a Silwan, ai piedi della città vecchia di Gerusalemme, dove ieri è morto un ragazzo palestinese che giovedì era stato ferito dalla polizia.

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della redazione

Pagine Esteri, 28 gennaio 2023 – Sette israeliani sono stati uccisi e numerosi altri feriti ieri sera da raffiche sparate da un palestinese a Neve Yaakov, un insediamento ebraico alla periferia nord di Gerusalemme Est, la parte della città occupata nel 1967. Tre dei feriti sono in condizioni critiche. L’attentatore, Alkam Khairi di Gerusalemme e, pare, senza alcuna affiliazione politica, è stato ucciso a sua volta, mentre tentava la fuga in direzione del vicino quartiere palestinese di Beit Hanina. Secondo le testimonianze, ha esploso colpi con un’arma automatica per circa venti minuti: prima contro alcuni passanti, poi contro le persone che uscivano da una sinagoga e infine qualche decina di metri più avanti contro altri passanti.

Secondo il tg di Canale 12, Khairi ha prima sparato a una donna anziana, poi ha incontrato un motociclista e gli ha sparato, quindi ha raggiunto la sinagoga. Per la polizia invece, l’attentatore è arrivato in macchina intorno alle 20:15 davanti la sinagoga e ha aperto il fuoco. Poi è fuggito verso Beit Hanina, a diverse centinaia di metri di distanza, dove ha incontrato agenti di polizia. Avrebbe aperto ancora il fuoco ed è stato colpito a morte.

Mentre erano in corso le operazioni di soccorso, gruppi di abitanti di Neve Yaakov hanno urlato slogan contro il governo e la polizia che sarebbe giunta in ritardo sul posto. Lo stesso ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, uno dei leader dell’estrema destra, è stato accolto da espressioni di collera al suo ingresso di Neve Yaakov. «Morte agli arabi» hanno scandito i dimostranti in direzione di Ben Gvir. «Ora la responsabilità ricade su di te» hanno aggiunto.

Gli Usa hanno subito condannato l’«orribile attacco terroristico a Gerusalemme» per bocca del portavoce del Dipartimento di stato americano Vedant Patel, precisando che per il momento non sono previsti cambiamenti nel viaggio del Segretario di stato Antony Blinken atteso la prossima settimana in Israele.

Subito dopo la sparatoria un portavoce del movimento islamico ha descritto le uccisioni dei cinque come una «rappresaglia per il raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin di giovedì» in cui nove palestinesi sono stati uccisi e altri 20 feriti. «È stata una operazione eroica, dimostra che si è saldato un fronte unico che include Gerusalemme, la Cisgiordania e Gaza», ha aggiunto da parte sua il Jihad islami.

La giornata era cominciata con Jenin al secondo giorno di lutto per l’incursione dell’esercito israeliano, la più sanguinosa negli ultimi mesi. In centinaia si sono recati a portare le condoglianze alle famiglie dei morti. Lunga la fila davanti all’abitazione di Magda Obeid, la 61enne colpita e uccisa da un proiettile mentre era in casa. Gran parte dei 30 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno erano di Jenin, in buona parte militanti armati ma anche civili, spesso molto giovani. Tra i palestinesi aumentano coloro che dicono di “non avere più nulla da perdere” di fronte all’occupazione militare israeliana. Ieri sera doveva riunirsi il Consiglio di Sicurezza dell’Onu convocato sul blitz compiuto in Cisgiordania su richiesta degli Emirati, il principale alleato arabo di Israele nel Golfo. Ma a Jenin e nel resto dei Territori occupati nessuno crede più all’intervento della comunità internazionale o alla soluzione a Due Stati. E non genera timori particolari che al potere in Israele ci sia un governo di estrema destra antipalestinese. «Sono tutti uguali quando guardano a noi palestinesi» ripetono un po’ tutti. L’analista Nour Odeh, intervistato da The Media Line, ha spiegato che per i palestinesi «la soluzione a Due Stati (Israele e Palestina, ndr) è una proposta vuota che sta diventando ridicola e farsesca. L’agenda del governo israeliano non solo rifiuta lo Stato palestinese ma nega la stessa esistenza del popolo palestinese».

La tensione sale ovunque in Cisgiordania e non soltanto per la strage di Jenin. Nelle strade di Ram, a nord di Gerusalemme, ieri gruppi di giovani hanno affrontato a più riprese la guardia di frontiera israeliana per protestare contro l’uccisione di un 22enne. Ieri è spirato in ospedale Wadih Abu Ramoz, un adolescente palestinese ferito mercoledì nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est. Ieri al diffondersi della notizia della sua morte gli abitanti di Silwan hanno manifestato contro la polizia. Gli scontri sono andati avanti fino a notte fonda.

Non ha avuto sviluppi l’escalation di giovedì notte lungo le linee tra Gaza e Israele. Sia i razzi lanciati dai palestinesi dopo la strage a Jenin che i bombardamenti dell’aviazione israeliana contro presunti siti di Hamas sono stati intenzionalmente limitati in modo da evitare un conflitto più ampio.

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Il boom di viaggi in Cina e il mercato delle OTA


Il boom di viaggi in Cina e il mercato delle OTA viaggi
In questa puntata parliamo del boom di viaggi sia locali che a lunga distanza e transfrontalieri che si è registrato in Cina durante il Capodanno lunare, come dimostrano i dati messi a disposizione dai portali di viaggi. Ma quali sono le Online Travel Agencies (OTA) più utilizzate dai cittadini della Repubblica popolare?

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Zelensky al Festival di Sanremo: il conformismo di Stato è garantito


Che poi – sì lo so non si comincia così un articolo, anzi non si comincia nulla così, ma, come ricordavo l’altro giorno ‘non mi applico’ -, in margine ad alcune cose di cui ho scritto, ci sarebbero da aggiungere alcune riflessioni, magari un po’ amare, ma destinate a riflettere, su cose di notevole importanza […]

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Test 2 from Friendica to Lemmy (simple message) (let's try to stretch the text further, so that it reaches well beyond the limits foreseen for the Lemmy "title" field. This way we make those ugly symbols disappear)
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Test from Friendica to Lemmy (simple message)
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Performance difference between friendica forums and gup groups


@Friendica Support Good evening everyone. To help the mastodon users of my new instance poliversity.it (a spin off for researchers and journalists, born from my instance friendica poliverso.org) I started promoting the use of the Friendica forums, as a way to make up for the lack of topics all inside of mastodon.

I then discovered that a fediverse project already exists, managed by the "immers-space" cooperative, which aims to create real groups (a.gup.pe/) and the mechanism on which it is based it is the same as the Friendica forums (re-share messages addressed to the group address which will be [groupname] + @ a.gup.pe ) .

I confess that I don't like that immers-space centrally manages a service for the entire fediverse, while the possibility that any friendly user can autonomously manage a group/forum seems to me more adherent to the spirit of the fediverse.

However, I have found that gup groups have extremely good performance compared to Friendica, reposting received messages in real time (and on any instance!), while Friendica groups have a much higher latency.

What can be the reason? This is a question related to the higher performance of gup servers compared to those of poliverso.org, or it depends on the design of friendica compared to that of gup (here the github link github.com/immers-space/guppe )


(sorry for my english)

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in reply to Signor Amministratore ⁂

@Signor Amministratore My experience has been somewhat different. The reliability of #guppe does not seem constant to me. Sometimes it dropped out or a post was only shared hours later.
With a #Friendica #forum, on the other hand, I have observed a relatively constant latency of a few seconds to 1-2 minutes.
Perhaps @Μαθθίας/ξ ✔ can contribute something more competent.

In addition, a forum also offers a relatively well-structured presentation, while guppe is just a pure distribution list.

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in reply to caos

@caos

In addition, a forum also offers a relatively well-structured presentation, while guppe is just a pure distribution list.

Yep. A group is basically just another account, so you can set a different theme, a separate interface (color scheme), a background etc.

@Μαθθίας/ξ ✔ @Signor Amministratore

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Casona in Canada


Ricordate il Ceta, l’imminente rovina per l’Italia, il selvaggio attacco alle nostre eccellenze? Se lo avete dimenticato condividete la colpa di chi non ricorda le cretinate e consente che si continui con le cretinerie. Se lo ricordate, godetevi il risult

Ricordate il Ceta, l’imminente rovina per l’Italia, il selvaggio attacco alle nostre eccellenze? Se lo avete dimenticato condividete la colpa di chi non ricorda le cretinate e consente che si continui con le cretinerie. Se lo ricordate, godetevi il risultato: dal 2017, data della firma dell’accordo fra Canada e Unione europea, le esportazioni italiane verso il Canada sono aumentate complessivamente del 36.3%, quelle dell’ortofrutta trasformata dell’80%, del 35% per il lattiero caseario e del 24% per vino e bevande. Alla grande. Il tutto con quell’accordo solo provvisoriamente (dal 2017) in vigore, visto che non lo abbiamo ancora ratificato, timorosi che qualcuno riscateni la buriana ottusa e dannosa per gli interessi nazionali. Sia detto chiaramente: i favorevoli al Ceta e agli scambi internazionali facilitati difendono gli interessi italiani, i contrari li offendono, considerandoli inferiori e perdenti. I risultati parlano da soli, a dispetto delle propagande distruttive e antieuropee.

La Ragione

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Senza pace


C’è un solo modo per fermare la guerra: chiarire ai russi che non potranno mai vincerla. Anche la comparsata sanremese aiuta, non perché serva a convincere qualche italiano, ma perché dimostrerà ai russi che qui non si molla. Anche per ragioni di convenie

C’è un solo modo per fermare la guerra: chiarire ai russi che non potranno mai vincerla. Anche la comparsata sanremese aiuta, non perché serva a convincere qualche italiano, ma perché dimostrerà ai russi che qui non si molla. Anche per ragioni di convenienza, di cui si deve parlare senza reticenze. Quindi partiamo da noi, dai sondaggi, dagli svarioni con cui raffiguriamo noi stessi. Adesso ci raccontiamo che molti, forse la maggioranza degli italiani sono contrari all’invio di armi all’Ucraina. In Germania poco più della metà favorevoli all’invio dei carri
armati. Ma noi abbiamo votato da poche settimane, a guerra già aperta da mesi, e la grande maggioranza dei voti è stata raccolta da partiti che non solo non nascondevano, ma menavano (giustamente) vanto degli aiuti agli ucraini, anche fornendo armi. Il governo Draghi poté contare sull’aiuto dell’opposizione, come oggi capita al governo Meloni.

Significa che si verifica una preziosa convergenza, in nome degli interessi nazionali. Come è possibile che gli stessi che votarono in questo modo, poi sarebbero orientati in senso opposto? La prima spiegazione è che i sondaggi non sono affatto obiettivi e il modo in cui si seleziona il campione e pongono le domande è decisivo. Se mi chiedono: sei per la pace? Ovvio che rispondo affermativamente. Far tacere le armi? Certamente. Ma non ho detto niente e non mi hai fatto domande sensate. Chiedimi se penso di darla vinta a un invasore come Putin. A parte i sondaggi, che indirizzano più che sondare, c’è la realtà. Si vede a occhio nudo la stanchezza per la guerra. Si colgono subito le controindicazioni della sovraesposizione di Zelensky. E credo che a questa ampia fetta di opinione pubblica vada data un’indicazione chiara: noi vogliamo il negoziato e il cessate il fuoco, vogliamo al più presto tornare alla normalità commerciale ed è proprio per questo, coerentemente con questo che abbiamo inviato, inviamo e invieremo armi agli ucraini.

Le armi sono essenziali per avere la pace, giacché non ci sarà mai pace fin quando Putin non prenderà atto di avere perso. Ma non si può dargli qualche cosa, un pezzo di terra, una provincia, e farla finita? Chiedono i pacifisti non in pace con la storia e la coscienza. No, non si può. Non è che non voglia Zelensky, non lo vogliono gli ucraini e non conviene a noi. Cedere ci farebbe perdere sicurezza, porterebbe la minaccia alle porte di casa e siccome non sarebbe mai accettato da chi è già stato torturato, violentato e massacrato, che lo vivrebbe come un
tradimento, significherebbe pure garantirsi qualche decennio di terrorismo. No, questa è un’alternativa che non ha nulla di pacifico. Putin ha lungamente lavorato aiutando e foraggiando i nazionalisti europei, ribattezzati “sovranisti”. Ora li ha persi, la sua unica sponda in Occidente sono gli antioccidentali travestiti da pacifisti, per questo vanno affrontati a viso aperto, perché fin quando penserà di potere spaccare l’Occidente proverà a resistere sterminando.

La sua sconfitta è già certificata dalla fine del neutralismo, dalla corsa verso la Nato di Paesi prima estranei. Putin ha lui provocato quel che diceva di volere combattere. Ma continuerà fin quando penserà di potere strappare qualche cosa. Chi vuole la pace, quindi, lavori perché gli sia chiaro che non ha alcuna possibilità di vincere il conflitto. Zelensky a Sanremo è una bazzecola di cui fa specie dover parlare, ma indigna
che tanti non si rendano conto della posta: mica deve convincere qualche italiano, fra una canzone e l’altra, anche perché gli italiani hanno votato in massa chi vuole aiutare l’Ucraina, deve far vedere ai russi che non resta loro neutrale manco più il palcoscenico di Sanremo.

Il che porrà a noi il problema, poi, di salvare la Russia dal destino di vassallaggio cinese cui Putin l’ha destinata. Prima si deve conquistare la pace nel solo modo possibile: mostrandogli che ha perso la guerra. I pacifisti del “Zelensky ha stancato” aiutano la guerra a durare più a lungo.

La Ragione

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Il ‘nuovo’ Gruppo Wagner: minacce e risposte


Chi, cosa e dov’è il Gruppo Wagner oggi? Un tempo risorsa del Cremlino utilizzata esclusivamente in Africa e in Siria, il gruppo mercenario ha ridistribuito la maggior parte delle sue forze per l’invasione russa dell’Ucraina. Il Gruppo Wagner è cambiato irrevocabilmente dall’inizio del conflitto, passando da 5.000 veterani esperti a una forza di 50.000 soldati, l’80% […]

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Due anni dopo il colpo di stato la giunta militare reprime ogni dissenso, col sostegno di paesi terzi e all’ombra di interessi economici occulti.


Turchia: sotterfugi in vista delle elezioni


L’apertura delle urne prevista in Turchia per il 18 giugno 2023 combineranno l’elezione di 600 membri della Grande Assemblea Nazionale con l’elezione del Presidente – la sua rielezione, se sarà Recep Tayyip Erdogan, l’attuale presidente della Turchia. Eppure è ben consapevole che la sua posizione all’interno della nazione è tutt’altro che sicura, e lui e […]

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Cina: la debole domanda interna ora minaccia il potenziale di crescita


Le previsioni per la crescita economica della Cina nel 2023 divergono ampiamente. Mentre le organizzazioni internazionali e gli osservatori della Cina all’estero prevedono una crescita del 4% come ragionevole, la maggior parte degli economisti cinesi ritiene che una crescita del 5-6% sia più probabile. Il dibattito ha molto a che fare con le ipotesi sul […]

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Cosa può imparare il Golfo dalla guerra in Ucraina


La guerra in Ucraina ha costretto gli europei a prendere più sul serio la sicurezza e la difesa. Ora sono in atto politiche che sarebbero state impensabili un anno fa. Ad esempio, questa volta l’anno scorso l’acceso dibattito all’interno della NATO era sull’opportunità di inviare all’Ucraina semplici missili anticarro. Ora Germania, Spagna, Polonia, Regno Unito […]

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L’economia italiana cresce più del previsto: una lezione ai catastrofisti


Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana (ma va?) ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato Ha detto ieri il Fondo monetario che la crescita italiana, nel 2023, sarà superiore alle ultime previsioni, passando da

Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana (ma va?) ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato

Ha detto ieri il Fondo monetario che la crescita italiana, nel 2023, sarà superiore alle ultime previsioni, passando da una stima, di ottobre, pari a meno 0,2 per cento a una stima di oggi pari a più di 0,6 per cento. Ha detto quattro giorni fa Bankitalia che negli ultimi due anni l’Italia ha creato qualcosa come un milione di nuovi posti di lavoro. Ha detto pochi giorni fa l’Istat che il tasso di occupazione in Italia, pari al 60,5 per cento, non è mai stato così elevato, che la crescita delle retribuzioni contrattuali nel 2022 è stata pari a un più 1,1 per cento, che l’aumento dell’export dell’Italia verso i paesi extra Ue, nonostante la guerra, ha registrato una crescita del 20,2 per cento, che la diseguaglianza in Italia, misurata attraverso l’indice Gini, è passata dal 30,4 per cento al 29,6 per cento e che il rischio di povertà è passato dal 18,6 per cento al 16,8 per cento.

Le notizie sorprendentemente positive che da qualche tempo arrivano sulla nostra economia dovrebbero spingere i catastrofisti di professione a porsi alcune domande delicate sulla natura del pessimismo italiano. Lo psicologo canadese Laurence Peter, conosciuto per aver formulato il famoso “principio di incompetenza”‘, sosteneva che l’economista moderno è “un esperto che domani sarà in grado di spiegare perché le cose che ha predetto ieri non sono accadute oggi”. E probabilmente Laurence Peter oggi non si troverebbe a disagio nel passare in rassegna i molti profeti di sventura che negli ultimi sette mesi, prevedendo recessioni inevitabili, razionamenti ineluttabili, scontri sociali inesorabili, disoccupazioni fulminanti, hanno sottovalutato la capacità dell’Italia di prendersi cura di se stessa anche nei momenti di difficoltà. Su questo giornale sono mesi che invitiamo i lettori a non lasciarsi coinvolgere dalla narrazione catastrofista e a dedicare all’Italia reale, quella che vive nei numeri e non nelle previsioni, un’attenzione non inferiore a quella che di solito viene dedicata alla decodificazione di un’Italia percepita.

Le buone notizie, lo sappiamo, faticano a trovare spesso spazio sui grandi giornali perché molti quotidiani considerano un fatto “notiziabile” solo quando esso risponde alle cattive aspettative alimentate. E d’altronde non potrebbe che essere così: se si dedica tanta energia a costruire una domanda così forte di notizie drammatiche, offrire notizie che vanno in una direzione diversa rischia di disorientare i lettori e di mettere a rischio un’industria, come quella del catastrofismo, che da anni ormai, tra pubblicazioni, sceneggiati e casi editoriali, produce un fatturato comunque degno di nota. Quello che spesso però non viene compreso è che un giornalista che asseconda, senza farsi domande, un racconto aprioristicamente negativo dell’Italia non è un giornalista che compie in modo impeccabile il suo “scomodo” mestiere di watchdog, ma è viceversa un giornalista che sceglie di alimentare in modo scientifico e acritico una retorica che ha a sua volta delle conseguenze. anche dal punto di vista economico.

A metà gennaio, tanto per dirne una, l’Istat ha registrato un dato significativo e apparentemente contraddittorio. Da un lato, una diminuzione del clima di fiducia dei consumatori (da 102,5 a 100,9). Dall’altro un aumento del clima di fiducia delle imprese (da 107,9 a 109,1). L’Istat ha spiegato che il ripiegamento della fiducia dei consumatori non è dovuto solo al caro prezzi – anch’esso, benzina a parte, in via di miglioramento – ma è dovuto a un’evoluzione negativa delle opinioni relative alla propria situazione e a quella del paese. La valorizzazione dell’Italia percepita su quella reale ha un suo impatto questo sì recessivo e oggi forse persino Oscar Wilde avrebbe buone ragioni per correggere la sua definizione di pessimista. Wilde sosteneva che il pessimista non è nient’altro che un ottimista ben informato. I fatti di questi mesi ci dicono in modo inequivocabile che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato. Viva l’ottimismo.

Il Foglio

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La guerra cyber della Russia contro l’Ucraina offre lezioni preziose per l’Occidente


L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin si sta rapidamente avvicinando al traguardo di un anno, ma in realtà l’attacco iniziò più di un mese prima che colonne di carri armati russi si riversassero attraverso il confine il 24 febbraio 2022. A metà gennaio, la Russia lanciò un massiccio attacco informatico che […]

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La Cina ‘chiama’, gli USA (non) ‘rispondono’?


Gran parte della geopolitica riguarda la segnalazione nell’aspettativa che l’altra parte a cui viene inviato il segnale capisca il messaggio. Questa è una delle principali lezioni dalle voluminose memorie di Henry Kissinger e, in effetti, nella più ampia storia della diplomazia. Ci vogliono due persone per ballare il tango, come dice il proverbio, il che […]

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Italia e Francia insieme per la difesa aerea dell’Ucraina


L’Italia unisce le forze con la Francia per fornire all’Ucraina il sistema di difesa aerea Samp/T e relativi missili Aster-30. La Difesa francese ha confermato la notizia di un ordine congiunto di 700 missili, inizialmente riportata da L’Opinion. Ovviamen

L’Italia unisce le forze con la Francia per fornire all’Ucraina il sistema di difesa aerea Samp/T e relativi missili Aster-30. La Difesa francese ha confermato la notizia di un ordine congiunto di 700 missili, inizialmente riportata da L’Opinion. Ovviamente non si intende che tutti e 700 i missili andranno all’Ucraina (numeri e dettagli restano riservati), ma che le riserve che saranno consegnate per difendere Kiyv saranno ricostituite nel prossimo futuro con questa nuova fornitura. Il ministro Guido Crosetto ha affermato che “i partner e gli Ucraini ne saranno felici”, in un’intervista al Financial Times.

Kiyv aveva chiesto a Italia e Francia di fornire questo sistema, tra i più avanzati al mondo, per proteggere le proprie infrastrutture critiche dai quotidiani bombardamenti missilistici russi. Nel fine settimana era arrivata la notizia della luce verde da parte dei due ministri della Difesa, Crosetto e Lecornu, che si erano incontrati a Roma.

Rimane comunque il riserbo sugli armamenti forniti all’Ucraina. Crosetto ha annunciato che il prossimo pacchetto “probabilmente” conterrà “armi di difesa contro gli attacchi missilistici russi”, ma ha rifiutato di fornire ulteriori dettagli. Martedì l’omologo ucraino Oleksiy Reznikov ha detto di avere accolto con favore “i progressi sul sistema Samp/T” e un funzionario francese ha confermato che “le discussioni tecniche sono progredite notevolmente”.

L’Italia dovrebbe provvedere alla fornitura dei sistemi di lancio, mentre la Francia invierebbe i missili. Già gli Stati Uniti e la Germania hanno garantito l’invio del sistema Patriot, mentre i Paesi Bassi hanno dichiarato che sosterranno lo sforzo ucraino con due lanciatori e alcuni missili.

“L’Italia risponderà alle richieste dell’Ucraina nei limiti delle sue possibilità e dei mezzi di cui dispone”, ha dichiarato Crosetto. “Daremo tutto quello che possiamo dare senza mettere a rischio la difesa italiana”.

Riguardo al prossimo futuro Crosetto esprime dubbi sulla possibilità di colloqui di pace: “Penso che Putin sarebbe disposto a sacrificare tutti i suoi giovani uomini pur di non ritirarsi più di quanto si sia già ritirato finora”. Ma un mancato sostegno occidentale alle forze ucraine sarebbe un pericoloso segnale del fatto che i partner non sono più in grado di “garantire il rispetto delle regole internazionali”.

Che cos’è e come funziona il sistema missilistico Samp/T


formiche.net/2023/01/sistema-m…


formiche.net/2023/02/sampt-dif…



Alfredo Cospito: un ‘martirio’ da evitare


Considerazioni e ‘appunti’ sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da credo ormai oltre cento giorni. Far dipendere la sua sorte dall’atteggiamento dei suoi ‘compagni’ fuori dal carcere è semplicemente una corbelleria: non lega loro le mani; piuttosto infila le istituzioni e lo Stato in un cul de sac. Impedisce di […]

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Concorsi


Per filosofare si deve prima mangiare, ma per mangiare si deve guadagnare, per guadagnare lavorare, per lavorare sapere qualche cosa. Allora l’incapacità di filosofare, intesa come mancanza del sapere, farà scarseggiare il mangiare. A quel punto resta sol

Per filosofare si deve prima mangiare, ma per mangiare si deve guadagnare, per guadagnare lavorare, per lavorare sapere qualche cosa. Allora l’incapacità di filosofare, intesa come mancanza del sapere, farà scarseggiare il mangiare. A quel punto resta solo l’elargire sovvenzioni pubbliche, ma la povertà resterà il marchio della vita di troppi. Se si presta attenzione alle condizioni della scuola si coglie un concretissimo meccanismo di distruzione pubblica. I concorsi stanno diventando un oltraggio al buon senso. Il problema sociale sarebbe quello di diffondere l’istruzione, ma il problema politico e sindacale è quello di sistemare 500mila “precari”. Termine con il quale s’identifica chi sembra stia subendo un sopruso, mentre è l’incarnazione del sopruso di chi già insegna senza mai avere vinto un concorso e che, in virtù di ciò, conta di poterlo fare per il resto della vita. Ci si occupa del posto di lavoro dell’insegnante, mentre il servizio reso agli studenti è dettaglio residuale. I 500mila sono quelli che si trovano in cattedra da tre anni, in questo momento i supplenti sono 217mila, mentre 1 milione 900mila languono nelle varie graduatorie, popolate da persone che il concorso non lo vinsero. Fra questi si conta di “stabilizzarne”, ovvero
metterne definitivamente in cattedra, qualche decina di migliaia, mediante concorsi dedicati e facilitati. Il che è illogico, perché si dovrebbe semmai fare un concorso aperto a tutti, mettendo in cattedra i più bravi, partendo dal presupposto che chi insegna da tre anni è avvantaggiato dall’esperienza. Invece gli si abbassa l’ostacolo, perché quello normale non lo supererebbe.

All’ultimo concorso per insegnanti di matematica ben il 90% dei candidati non ha superato la prova scritta. Il che spiega come mai l’Italia si trova in fondo alle classifiche europee, giocandosela solo con Romania e Bulgaria, circa le capacità matematiche degli studenti. Con la conseguenza che i figli delle famiglie più povere, economicamente e culturalmente, hanno percentuali di analfabetismo matematico quattro volte superiori a quelle di famiglie che possono permettersi aiuti privati. Nel 2017 si tenne un concorso per dirigente scolastico, i presidi di un tempo. Ora in Parlamento si discute la proposta di consentire a chi fu bocciato di seguire un corso di 120 ore per poi superare una prova facilitata e andare a spiegare agli altri come si fa a insegnare. È dovuto intervenire il Consiglio di Stato per depennare dalle graduatorie gli
“asteriscati”, vale a dire i dirigenti bocciati e inseriti cautelativamente (hai visto mai facciano ricorso) in rampa di lancio. Il che spiega perché si prova a ripescarli in Parlamento, con asteriscata solidarietà.

Il governo Draghi mise da parte 300 milioni per premiare il merito, fra gli insegnanti. Ora che il merito si trova nel nome del ministero si prova a usarli per il rinnovo contrattuale, quindi distribuirli con demerito. Il ministro dell’istruzione ha sostenuto che gli stipendi degli insegnanti possono essere differenziati per aree geografiche, ma devono esserlo per merito, specie quelli che vanno dove i risultati sono peggiori e riescono a migliorarli. In quanto alla spesa fuori dal patto di stabilità, sempre sua idea, è l’eterna illusione di chi crede che il problema siano i parametri, mentre servono a difendere dagli effetti devastanti del troppo debito venduto sui mercati. Se spegni l’allarme antincendio ottieni il silenzio, ma incenerisci la casa.

La materia viene trattata in sindacalese e giustificata in politichese, ma si traduce in una fregatura per i poveri e gli svantaggiati, che non solo si vedono sottrarre uno strumento per assicurare ai propri figli che il mangiare non divorzi dal filosofare, ma, concentrandosi nelle aree e nei quartieri meno ricchi, finiscono anche con il frequentare le scuole peggiori. Questa ciclopica ingiustizia non trova rappresentanza politica, ma
neanche culturale. Segno che i prodotti della distruzione pubblica si diffondono.

La Ragione

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Magistratura. In Sala Zonca la presentazione del libro “Non diamoci del Tu” sul Sì alla separazione delle carriere – www.vogheranews.it


Il Circolo culturale “Il Vogherese”, congiuntamente alla Fondazione Luigi Einaudi, organizza nella giornata di sabato 4 Febbraio 2023, alle ore 11 presso la sala Zonca (ingresso via Emilia angolo piazza Meardi) la presentazione del libro di Giuseppe Bened

Il Circolo culturale “Il Vogherese”, congiuntamente alla Fondazione Luigi Einaudi, organizza nella giornata di sabato 4 Febbraio 2023, alle ore 11 presso la sala Zonca (ingresso via Emilia angolo piazza Meardi) la presentazione del libro di Giuseppe Benedetto “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere”.

Alla presentazione interverranno, oltre all’autore, l’avv. Giuseppe Benedetto (Presidente della Fondazione Einaudi): Paolo Affronti, Alida Battistella, Davide Giacalone (scrittore e giornalista di RTL 102.5 e direttore del Quotidiano “La Ragione”); Fabrizio Palenzona (vice Presidente Nazionale Confcommercio e presidente Prelios SpA); e Massimiliano Annetta (avvocato penalista con studi in Firenze, Roma e Milano; docente universitario di diritto penale l’Università IUL di Firenze).

Il moderatore della presentazione sarà Nicola Affronti. L’evento è aperto a chiunque, non è prevista la prenotazione.

Il libro porta la prefazione dell’attuale Ministro della Giustizia: Carlo Nordio, che scrive. ”Che il giudice e l’accusatore siano colleghi è una singolarità tutta italiana. Un’anomalia politica e sociale che si perpetua da decenni. Questo libro evidenzia tale stortura ed auspica un cambiamento radicale del sistema giustizia, illustrando l’urgente necessità della separazione delle carriere affinché si possa raggiungere realmente l’autonomia della giurisdizione. Un rigoroso lavoro di approfondimento scientifico, una minuziosa cura della ricostruzione storica, uno scrigno di passione civile che emerge da ogni pagina, questo e tanto altro è “Non diamoci del tu.”

vogheranews.it

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Qualche ora prima che Antony Blinken atterrasse a Tel Aviv, nei Territori occupati era stato ucciso il 53° palestinese dall'inizio dell'anno: aveva tentato di aggredire dei soldati israeliani a Hebron.


Magistrati indipendenti dal Parlamento? Permettetemi di dubitare – Il Dubbio


Siamo tutti contenti e soddisfatti quando ripetiamo il mantra “la magistratura deve essere indipendente”. Ma poi è forse il caso di chiedersi: indipendente da chi e da cosa? Indipendente dall’esecutivo (cioè da governo)? Benissimo, siamo tutti d’accordo.

Siamo tutti contenti e soddisfatti quando ripetiamo il mantra “la magistratura deve essere indipendente”. Ma poi è forse il caso di chiedersi: indipendente da chi e da cosa? Indipendente dall’esecutivo (cioè da governo)? Benissimo, siamo tutti d’accordo. Per carità. Tuteliamo le vestali del diritto, anche se ci permettiamo sommessamente di osservare che in tanti Stati democratici, vedi la Francia per tutti, la pubblica accusa è alle dirette dipendenze del governo. Ma in Italia questo nessuno lo vuole!

La questione si complica un po’ quando la magistratura militante interpreta l’indipendenza come indipendenza dal Parlamento. E lì non solo chi si richiama alle liberal-democrazie dei Paesi occidentali non può essere d’accordo, ma occorre denunciare la pericolosa deriva eversiva che ne conseguirebbe rispetto ai principi costituzionali.

Il Parlamento è il luogo sacro (direbbe Einaudi) dove in una democrazia si estrinseca il volere del cittadino-elettore. Se vi fosse un corpo dello Stato che potesse agire al di fuori della volontà popolare, quello sarebbe fuorilegge. Volontà popolare che si esprime attraverso gli atti del Parlamento, cioè le leggi. Dunque, ogni corpo dello Stato, compresa la magistratura, deve osservare le leggi del Parlamento. In caso contrario, verrebbe meno lo Stato di diritto.

L’art. 101 della Costituzione dispone che “i giudici sono soggetti soltanto alle legge” e l’art. 112 sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Ne deriva, ovviamente, che il Ministro della Giustizia non possa impartire direttive. Allo stesso tempo, però, ne consegue che il giudice e il pubblico ministero debbano osservare la legge come il prete segue gli insegnamenti del vangelo. Dovrebbero essere ispirati da una fedeltà assoluta verso la legge, sacra verrebbe da dire. Non è altro che un corollario del principio di divisione dei poteri: il legislativo produce le norme e il giudiziario le applica. È agevole dedurre che più il giudice si allontana dalla lettera della legge e maggiori sono i pericoli di sentenze discrezionali, ispirate più dai sentimenti e dalle opinioni personali piuttosto che dai sacri principi del diritto.

Qui giungiamo alle principali contraddizioni dei nostri tempi. La “discrezionalità giudiziaria” regna imperante, come sanno tutti coloro che entrano nelle aule dei tribunali. La Corte di Cassazione riscrive le leggi con poteri creativi e i pubblici ministeri scelgono autonomamente quali reati perseguire in via prioritaria. In tutto ciò, a fronte di una politica corresponsabile, trionfano le norme penali indeterminate, come il traffico illecito di influenze. Un reato talmente generico che ogni procura d’Italia lo riempie del significato che più le aggrada.

Dunque, a differenza di quel che pensavano i nostri Costituenti, taluni magistrati italiani non si sentono affatto soggetti alla legge. Chi parla di “lettera della legge” oggigiorno è qualificato come un temibile nostalgico del passato. Invece, come ricordato da Andrea Davola nella postfazione al mio libro “Non diamoci del tu”, la tradizione italiana del diritto pianta le sue radici nel positivismo giuridico, che trova il suo principio ispiratore proprio nell’interpretazione letterale.

Conosciamo bene il sistema anglosassone fondato sul giusnaturalismo, dove le sentenze non sono una rigida applicazione delle norme, ma sono frutto delle sensibilità politico-culturale del singolo magistrato. Ma i nostri esimi pm fanno finta di ignorare che ivi il rappresentante della pubblica accusa non solo è sotto lo stretto controllo dell’esecutivo, ma addirittura nel caso degli USA spesso viene direttamente eletto dai cittadini. Di fronte ad una prospettiva del genere alcuni pubblici ministeri minaccerebbero di darsi fuoco nella pubblica piazza, accompagnati dal coro delle prefiche del giustizialismo militante.

Ma non è finita qui, purtroppo. Alla luce di una discrezionalità giudiziaria senza alcun indirizzo del Parlamento, la ANM ha pensato bene di poter iniziare a commentare e contestare le leggi sotto il profilo strettamente politico.

Se il Parlamento intende introdurre dei criteri seri di valutazione del magistrato, la ANM pensa bene di scioperare. Se la maggioranza parlamentare ritiene che vi sia un problema di indiscriminata pubblicazione delle intercettazioni, taluni pm non esitano a mostrare la loro contrarietà. Ma a che titolo lo fanno? Sono soggetti alla legge, o adesso vorrebbero anche scriverle? Chissà cosa penserebbe Montesquieu…

Il Dubbio, 1 febbraio 2023 pag. 9

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Europa e Italia, i due pesi del governo sulla concorrenza


« Non disturbare chi vuole fare» è il motto dell’attuale esecutivo. Lo ha spiegato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento il 25 ottobre scorso. Alla luce dell’azione di governo svolta sin qui, però, la logica che sembra prevalere è un’altra, ossi

«Non disturbare chi vuole fare» è il motto dell’attuale esecutivo. Lo ha spiegato Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento il 25 ottobre scorso. Alla luce dell’azione di governo svolta sin qui, però, la logica che sembra prevalere è un’altra, ossia «non disturbare chi vuole fare, ma solo se sta già facendo». Sotto questo aspetto, la questione dei balneari è emblematica. Meloni ha (giustamente)bloccato (per quanto ancora?) il tentativo dei due partiti alleati, Lega e Forza Italia, di estendere oltre il 31 dicembre 2023 la proroga alle concessioni. Lo stop, tuttavia, non rappresenta un cambio diposizione. Semplicemente un modo per prendere tempo (i decreti legislativi sono stati rinviati di qualche mese) e trovare una soluzione duratura. L’obiettivo, ha spiegato la leader di Fratelli d’Italia, «è mettere in sicurezza quegli imprenditori. Vanno difesi da una direttiva che non andava applicata». In buona sostanza, i balneari che vogliono fare non devono essere disturbati.

A questo punto, la domanda sorge spontanea: e gli altri? Chi difende coloro che attualmente non fanno ma che vorrebbero fare? E che sia chiaro: raggruppare questi potenziali imprenditori sotto un’unica categoria, quella delle multinazionali che comprano le nostre spiagge per pochi soldi, è davvero fuorviante. Vi sono tanti giovani capaci che vorrebbero iniziare un’attività. Se non diamo loro la possibilità di entrare nel settore una volta che si sono formati, inutile parlare di merito. Una parola, che val la pena ricordare, Meloni ha voluto aggiungere nella denominazione del ministero dell’Istruzione. Peraltro, garantendo pari opportunità di accesso per tutti, non solo per gli insider, si crea un circolo virtuoso che genera benefici per l’intera collettività, a cominciare dai consumatori in termini di minori prezzi e maggiore efficienza dei servizi offerti. Si chiama concorrenza.

L’alternativa è quella di tutelare e, di conseguenza, avvantaggiare solo pochi privilegiati. Ma così non si cresce. La premier sembra esserne consapevole. Lo dimostra la posizione assunta su un altro versante, quello degli aiuti di Stato. Meloni è contraria a un mero allentamento della normativa europea perché, ha spiegato, «determinerebbe una distorsione del mercato interno». I Paesi con spazio fiscale, quindi con basso debito ed elevata capacità di spesa, possono sostenere dipiù e meglio le proprie imprese. Una dinamica che si è già verificata nel passato biennio in cui le regole comunitarie sono state sospese: basti pensare che le imprese tedesche e francesi hanno ricevuto il settantacinque per cento degli aiuti. Proseguire su questa strada significherebbe far saltare il mercato unico, la libera concorrenza. Non è questo il modo per «risolvere il problema della scarsa competitività delle nostre aziende» ha ammonito Meloni. C’è, allora, da chiedersi perché chi è alla guida del nostro Paese invochi (giustamente) in sede europea uguali opportunità ma, poi, in casa protegga una determinata categoria di imprenditori a danno di altri? Agli occhi dei nostri partner questa “distinzione” è difficile da comprendere. Per questo il negoziato sul pacchetto di aiuti per sostenere l’industria europea rischia di partire in salita.

Un gruppo di Paesi, tra cui l’Italia, vorrebbe istituire un Fondo sovrano europeo alla stregua di quello creato per il Next Generation Eu (Ngeu). L’idea di nuovo debito comune è, invece, invisa a (molti) Paesi del Nord che sono già contributori netti del Ngeu. Prima di erogare nuovi finanziamenti vogliono essere certi che questi strumenti siano in grado di garantire la convergenza delle economie dell’Unione. Che cosa significa? I fondi devono servire a colmare i divari di crescita di chi è rimasto indietro. Solo per fare un esempio, devono essere utilizzati per far crescere le imprese vincenti non per tenere in vita quelle decotte. Ciò rafforza i singoli Stati membri e l’Europa nel suo insieme. Nella pratica, i governi beneficiari netti, come quello italiano, devono proseguire nel percorso di investimenti e riforme. Come è noto, la concorrenza è una delle priorità del nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Le concessioni balneari non ne fanno parte. Ma, certamente, le resistenze dell’attuale governo a metterle a gara non lasciano ben sperare sulla volontà reale di cambiare una volta per tutte l’economia.

La Stampa

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Presentazione del libro “Non diamoci del Tu – La separazione delle carriere” – 11 febbraio 2023, Padova


11 febbraio 2023, ore 11:00 – Sala Paladin Palazzo Moroni Via del Municipio, 1 PADOVA saluti iniziali ELEONORA MOSCO intervengono LEONARDO ARNAU FRANCESCO CAVALLA ANDREA OSTELLARI modera ALDA VANZAN Giornalista de Il Gazzettino L'articolo Presentazione d

11 febbraio 2023, ore 11:00 – Sala Paladin Palazzo Moroni Via del Municipio, 1 PADOVA

saluti iniziali
ELEONORA MOSCO

intervengono
LEONARDO ARNAU
FRANCESCO CAVALLA
ANDREA OSTELLARI

modera
ALDA VANZANGiornalista de Il Gazzettino

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Anton Cechov – Tre anni


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Le molte anime pacifiste con cui la Meloni dovrà fare i conti


È una parte tutt’altro che marginale della società civile e della sua rappresentanza politica e sociale. Dai sondaggi risulta che solo un elettore su tre condivida la scelta del governo di inviare armi all’Ucraina, oltre il 50% dei cittadini italiani non

È una parte tutt’altro che marginale della società civile e della sua rappresentanza politica e sociale. Dai sondaggi risulta che solo un elettore su tre condivida la scelta del governo di inviare armi all’Ucraina, oltre il 50% dei cittadini italiani non la approva. Gli danno voce il Movimento 5stelle, il Vaticano, la Cgil, un pezzo di Pd, diversi giornali, parecchi intellettuali, giornalisti, scrittori, artisti, associazioni di sinistra, circoli di destra…

Se vi fossero una comune matrice culturale e una volontà politica condivisa, sarebbe una grande, grandissima questione democratica. Sappiamo, però, che quell’abbondante metà dell’opinione pubblica italiana e il variegato mondo “pacifista” che gli dà voce appartengono a mondi e sono soggetti a logiche assai diverse. Questo non elimina il problema, ma lo depotenzia almeno un po’.

Moltissimo conta, tra le rappresentanze politiche di destra come tra quelle di sinistra, l’antiamericanismo. Molto conta l’idealismo cattolico, dimentico del fatto che il concetto di “guerra giusta” fu teorizzato sia da sant’Agostino sia da san Tommaso, che nell’Antico Testamento il profeta Isaia dice che “la spada di Dio è coperta di sangue” e che nel Nuovo Testamento si annunci che “chi pone mano alla spada, perirà di spada”. Molto contano l’opportunismo, la demagogia e l’irresponsabilità di diversi leader politici e di non pochi cosiddetti intellettuali. Molto conta, come accadde negli anni Settanta, la capacità di condizionamento economico che l’aggressore (l’Unione Sovietica ieri, la Russia putiniana oggi) riesce ad esercitare sui soggetti politici e sociali italiani. Molto conta che le élite politiche abbiano pensato di poter espungere il concetto di guerra dal dibattito pubblico: le missioni sono sempre “di pace”, quando l’Italia bombardò la Serbia parlammo di “operazioni difesa integrata” e anche oggi qualifichiamo gli armamenti che doverosamente inviamo in Ucraina come “sistemi di difesa”.

Insomma, abbiamo disabituato i cittadini italiani a considerare la guerra come una possibilità, a volte come una necessità. E, tra un messaggio demagogico e l’altro, abbiamo mancato di svolgere quella funzione pedagogica essenziale affinché la difesa dei principi liberali e democratici su cui si fondano la cultura e la prassi occidentali venissero realmente avvertiti e condivisi.

È tardi, certo, ma forse non è troppo tardi. Mario Draghi non lo fece quanto avrebbe dovuto. È nell’interesse politico e nel dovere istituzionale di Giorgia Meloni farsi carico del tentativo di spiegare ad un’opinione pubblica impaurita, preda dall’ansia e comprensibilmente concentrata sulle ricadute economiche negative del conflitto, quale sia davvero la posta in palio.

Perché è vero che quella metà abbondante degli italiani contrari a difendere l’Ucraina è soggetta a spinte diverse, è vero che diversissime sono le spinte ideali e gli interessi materiali che muovono i loro rappresentanti politici e sociali, ma è difficile pensare di poter andare avanti nel doveroso sostegno al popolo ucraino e ai principi liberali e democratici europei ed occidentali cui Vladimir Putin ha dichiarato guerra senza il consenso, almeno, della metà più uno degli elettori e dei corpi sociali che bene o male, e più o meno ipocritamente, li rappresentano.

Huffington Post

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#laFLEalMassimo – Episodio 80 – Shoah: il dovere di scegliere da che parte stare


Nuovo episodio della FLE al Massimo, come di consueto apriamo ricordando il sostegno di questa rubrica alla popolazione Ucraina ingiustamente oppressa dalla follia imperialista di Putin e ricordando anche che il mese prossimo il conflitto che ancora imper

Nuovo episodio della FLE al Massimo, come di consueto apriamo ricordando il sostegno di questa rubrica alla popolazione Ucraina ingiustamente oppressa dalla follia imperialista di Putin e ricordando anche che il mese prossimo il conflitto che ancora imperversa alle porte
dei nostri paesi raggiungerà la durata di un anno.

In questo periodo cade la celebrazione del Giorno della Memoria, per ricordate l’abisso
disumano della Shoah e l’eccidio di milioni di vittime innocenti. In particolare vorrei soffermarmi sul ruolo dei complici e di coloro che invece si sono rifiutati di collaborare con il genocidio tracciando un parallelo col mondo in cui viviamo oggi.

E’ troppo facile e troppo comodo illudersi che la Shoah sia il delitto compiuto da un limitato numero di mostri che fatichiamo a definire umani. Non è così. L’enorme scritta all’ingresso del memoriale della Shoah di Milano ci ricorda che è stata l’INDIFFERENZA e la collaborazione passiva e attiva di chi si è voltato dall’altra parte a rendere possibile lo sterminio sistematico degli Ebrei e di altri oppositori del regime nazista.

Dunque la storia ci insegna che viene il momento in cui siamo obbligati a scegliere, se stare dalla parte di chi teorizza e mette in pratica lo sterminio di altri esseri umani innocenti oppure se stare dalla parte dei giusti, quelli che anche a rischio della propria vita si sono rifiutati di collaborare e salvando anche una vita sola alla volta, hanno salvato il mondo intero.

Per noi che abbiamo la fortuna di non vivere in prima persona la tragedia delle persecuzioni razziali e della guerra il Giorno della Memoria è un momento di riflessione e di comprensione di come sia necessario prevenire il diffondersi delle ideologie che negano il valore della vita umana prima l’orrore diventi realtà. Ricordiamo per imparare a non ripetere gli errori del passato.

Purtroppo ancora oggi i diritti umani di milioni di persone vengono calpestati ogni giorno in molti paesi dalla Russia di Putin all’Iran passando per la Cina e per tutti i luoghi dove la libertà individuale non è ancora un valore consolidato. Abbiamo il dovere morale di non
volarci dall’altra parte per non essere complici di un orrore che, se non viene fermato per tempo, arriverà a bussare alle nostre porte come la vicenda dell’eroico popolo ucraino ci testimonia ogni giorno.

Slava Ukraïni!

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Brutale verità


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