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L’Africa deve fare la sua parte per rompere l’assedio abusivo del Tigray in Etiopia


La stretta del governo etiope sugli aiuti umanitari deve finire. La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in…

La stretta del governo etiope sugli aiuti umanitari deve finire.


La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in silos bloccati a seguito dell’invasione su vasta scala della Russia, ha attraccato a Gibuti il ​​30 agosto. Il passaggio gratuito di questa spedizione, destinata all’Etiopia, è seguito dalla pressione concertata di Governi africani sulla Russia e negoziati guidati dalle Nazioni Unite. Ma sono necessari più muscoli diplomatici, anche da parte dei paesi africani, per porre fine alla stretta soffocata da quasi due anni del governo etiope sull’assistenza umanitaria alla regione assediata del Tigray. Altrimenti, è improbabile che molti degli etiopi più a rischio di fame ne traggano beneficio.

L’Etiopia è uno dei sei paesi che le Nazioni Unite hanno individuato per avere persone a rischio di fame. Milioni di persone nel sud e nell’est del Paese sono alle prese con livelli allarmanti di fame e malnutrizione a causa di una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Le comunità nelle aree colpite dal conflitto nel nord del paese fanno affidamento sull’assistenza umanitaria. Ma è nella regione del Tigray, in particolare, che una grave crisi di fame persiste da oltre un anno e potrebbe essere invertita attraverso azioni del governo.
L'Africa deve fare la sua parte per rompere l'assedio abusivo del Tigray in EtiopiaL’Africa deve fare la sua parte per rompere l’assedio abusivo del Tigray in Etiopia
Dallo scoppio della guerra nel Tigray nel novembre 2020, le forze etiopi ei loro alleati hanno spesso violato le leggi di guerra. Hanno saccheggiato e preso di mira case e infrastrutture civili – crimini che le forze del Tigrino avrebbero poi replicato in altre regioni – interrompendo i servizi di base e ostacolando gravemente gli aiuti ai civili coinvolti nei combattimenti. Quindi le autorità hanno imposto un effettivo assedio all’intera regione, escludendo praticamente tutta l’assistenza umanitaria ai civili in violazione del diritto interno etiope, dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario.

Per i primi otto mesi del conflitto, le forze etiopi ei loro alleati hanno saccheggiato aziende, ospedali, banche, bestiame e raccolti, lasciando la regione dipendente dall’assistenza. L’impatto di questa distruzione è stato devastante. Ha impedito alle persone di ottenere assistenza sanitaria, cibo e altri servizi di base e ostacolato il recupero di un sistema sanitario rotto dal conflitto. Per mesi, le forze federali e regionali hanno bloccato le strade, rendendo quasi impossibile per attori privati ​​o agenzie umanitarie trasportare forniture mediche o cibo. Rifornimenti ridotti a livelli allarmanti.

La mia organizzazione, Human Rights Watch, ha parlato a febbraio con medici che avevano curato dozzine di sopravvissuti a un attacco mortale di droni senza accesso a fluidi per via endovenosa o guanti protettivi. Un giornalista che si è recato in Tigray tra la fine di maggio e l’inizio di giugno ci ha detto di aver visto “fame ovunque”. Ad agosto, le Nazioni Unite hanno avvertito che un bambino tigrino su tre di età inferiore ai 5 anni è gravemente malnutrito.

Da quando il governo etiope ha dichiarato una tregua umanitaria alla fine di marzo, i convogli umanitari precedentemente bloccati dall’ingresso nel Tigray stavano finalmente arrivando nella regione. Ma ciò che stava entrando non si avvicinava a soddisfare le crescenti esigenze di una popolazione vulnerabile. Con le consegne di carburante e i flussi di cassa ostacolati, e il governo che continua a tenere chiuse le banche e le telecomunicazioni, le organizzazioni umanitarie stanno lottando per salvare vite umane.

La ripresa dei combattimenti nel nord dell’Etiopia il 24 agosto mette ulteriormente a rischio gli sforzi delle agenzie umanitarie. Un portavoce delle Nazioni Unite ha osservato che i combattenti del Tigray sono entrati in un magazzino delle Nazioni Unite nella capitale del Tigray, Mekelle, e hanno sequestrato 12 petroliere destinate all’uso umanitario. Secondo quanto riferito, un attacco aereo a Mekelle il 26 agosto, probabilmente da parte del governo etiope, ha colpito un asilo e ucciso almeno sette persone, compresi bambini. Da allora la consegna di forniture umanitarie su strada rimane sospesa , così come i voli umanitari. L’assedio rimane molto attivo.

Gli attacchi aerei e il saccheggio delle limitate scorte di carburante danneggeranno solo i tigrini che stanno già subendo gli effetti del conflitto e dell’assedio. La maggior parte delle persone nel Tigray non può acquistare il cibo disponibile perché il costo dei prodotti di base continua a salire. Un residente della città di Shire ha affermato che il costo del teff, un cereale che è uno dei principali alimenti di base del paese, è triplicato negli ultimi cinque mesi.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato di affrontare le ampie restrizioni sugli aiuti e sui beni essenziali nei conflitti in Yemen e Sud Sudan, approvando una risoluzione nel 2018 che condannava il rifiuto illegale degli aiuti umanitari salvavita e dei servizi essenziali come strategia di guerra. Nella speranza di impedirlo altrove, la risoluzione invita espressamente il segretario generale delle Nazioni Unite a informare rapidamente il Consiglio di sicurezza quando sorge il rischio di carestia indotta dal conflitto.

Eppure, di fronte a flagranti violazioni della sua stessa risoluzione sull’Etiopia, il Consiglio di Sicurezza non ha mai sanzionato i maggiori responsabili di azioni illegali durante il conflitto. Inoltre, il Consiglio di sicurezza non ha nemmeno inserito l’assedio in corso nel Tigray nella sua agenda formale.

La diplomazia africana concertata intorno alla crisi del grano in Ucraina e al blocco russo è in netto contrasto con l’inerzia dell’Africa nei confronti dell’Etiopia nel Consiglio di sicurezza. I tre membri eletti che rappresentano l’Unione africana nel Consiglio di sicurezza – Gabon, Ghana e Kenya, noti collettivamente come A3 – hanno ripetutamente bloccato qualsiasi discussione pubblica sull’Etiopia, consentendo a questo palese disprezzo per le norme internazionali di persistere.

Nel frattempo, l’Etiopia ei suoi partner nella regione e oltre hanno consentito che l’accesso ai beni di prima necessità diventasse una merce di scambio politica. Il ministro degli Esteri dell’Etiopia ha recentemente affermato che i servizi di base non saranno ripristinati fino a quando le due parti non inizieranno i colloqui di pace, mentre le autorità del Tigray vogliono che i servizi vengano ripristinati prima che i colloqui possano iniziare. Con la ripresa dei combattimenti, è ancora più essenziale per il mondo chiarire che i negoziati e l’accesso agli aiuti devono essere disaccoppiati.

Allora, cosa si deve fare?


Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, a cominciare dall’A3, e l’Unione africana devono agire ora. Dovrebbero chiedere pubblicamente all’Etiopia di revocare completamente la sua stretta sugli aiuti umanitari disperatamente necessari e la chiusura dei servizi di base. Dovrebbero insistere affinché le parti in guerra, comprese le forze del Tigray, rispettino il diritto internazionale e facilitino l’assistenza a chi ne ha bisogno senza alcuna precondizione o ritardo. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe tenere un dibattito pubblico per affrontare la fame indotta dai conflitti e inserire l’Etiopia nella sua agenda regolare.

È fondamentale che tali pratiche governative non siano normalizzate. I responsabili del blocco di cibo, carburante e medicinali, nonché dell’utilizzo dei servizi di base come merce di scambio, dovrebbero essere ritenuti responsabili. Coloro che usano la fame di civili come metodo di guerra impedendo i soccorsi o privando i civili di ciò di cui hanno bisogno per la loro sopravvivenza possono essere perseguiti per crimini di guerra. Affinché ciò avvenga, sarà fondamentale anche il proseguimento del lavoro della Commissione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Etiopia, che sarà rinnovata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a settembre.

L’impegno dell’Africa e delle Nazioni Unite sul blocco russo del Mar Nero ha dimostrato quale pressione pubblica, combinata con la diplomazia, può fornire sugli aiuti umanitari. Le navi in ​​partenza dai porti ucraini carichi di grano sono il miglior tipo di dividendo di tale approccio. Ma abbiamo anche visto il contrario: una crisi in gran parte dimenticata in Etiopia, dove la fame armata di un’intera regione non ha generato neanche lontanamente la stessa attenzione. A meno che la comunità internazionale non si raduni per garantire che tutti nel Tigray abbiano pieno accesso all’assistenza umanitaria, le spedizioni di grano che finalmente arrivano in Etiopia potrebbero non arrivare a una delle popolazioni più bisognose. Se questo è il risultato finale, l’accordo sul grano sarà una vittoria vana.


Kenneth Roth è il direttore esecutivo di Human Rights Watch. Twitter: @KenRoth


FONTE: foreignpolicy.com/2022/08/31/e…


tommasin.org/blog/2022-08-31/l…



Guerra in Ucraina: l’attrito incombe sulla battaglia di Kherson


L’oblast di Kherson è stata una delle prime regioni dell’Ucraina a subire l’assalto delle forze russe dopo il lancio dell’invasione a febbraio. Con i difensori in gran parte colti alla sprovvista, le forze russe hanno guadagnato un solido punto d’appoggio nella maggior parte dell’oblast, stabilizzando le sue linee di difesa nonostante l’Ucraina sia riuscita a [...]

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Livello di guardia9,1%. Anche ad agosto, l’inflazione in Eurozona fa segnare l’ennesimo record, toccando il livello più alto da quando esiste la moneta unica.


Putin: cancellare Gorbaciov


Putin ha dedicato tutto il tempo in cui è stato in carica, a creare esattamente l'opposto di ciò che Mikhail Gorbaciov voleva per la Russia

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Morto a 91 anni Mikhail Gorbachev. Un filo rosso collega la storia dell’ultimo leader sovietico alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina. Mikhail Gorbachev è morto a Mosca all'età di 91 anni.


“La storia del mondo non è altro che la biografia di grandi uomini”, disse nel XIX secolo il filosofo Thomas Carlyle, riferendosi alla capacità degli “eroi” di plasmare la storia attraverso doti personali e ispirazione divina.



Decolonizzare la storia della Crimea


La guerra della Russia contro l’Ucraina non è iniziata con l’invasione del 24 febbraio. Invece, il conflitto è iniziato quasi esattamente otto anni prima, nel febbraio 2014, con la presa della penisola di Crimea in Ucraina. L’occupazione russa della Crimea è stata un momento spartiacque nella storia europea moderna. Era la prima volta dalla Seconda [...]

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Ravenna, alla tomba di Dante il gran finale di «Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare» – Setteserequi


Alla tomba di Dante a Ravenna venerdì 2 settembre il gran finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola. L’ini

Alla tomba di Dante a Ravenna venerdì 2 settembre il gran finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola.

L’iniziativa, curata dal Festival Dantesco e patrocinata tra gli altri dalla Società Dante Alighieri e dalla Fondazione Luigi Einaudi, è ora nella fase decisiva che coinvolge artisti ed ensemble teatrali con esibizioni dal vivo.

Il concorso è basato sull’omonimo libro di Monaldi & Sorti (Solferino Editore), ogni esibizione è tratta o ispirata da passi del romanzo teatrale-narrativo, e può vantare due sostenitori d’eccezione: il regista Pupi Avati, che ha lodato lo «sguardo sacrale» di Monaldi & Sorti, e l’attrice Monica Guerritore, che li ha definiti «direttori artistici della pagina scritta» (in fondo i link alla stampa e al materiale fotografico).

Il teatro di strada è uno dei temi caratteristici nel romanzo ispiratore del concorso. In tutte le località coinvolte, gli spettacoli della finale sono subito riconoscibili grazie alle quinte con le figure inconfondibili di Dante e Shakespeare.

Dante e la Divina Commedia diventano protagonisti di un dramma di Shakespeare, rappresentato in brevi spettacoli (tra i 15 minuti e i 30 minuti di durata), replicati nel corso della giornata, secondo la formula del teatro di strada in tutta la sua ricchezza espressiva: attori, musicisti, acrobati e anche figure peculiari dell’arte popolare come cantastorie, con tanto di teloni dipinti, e uomini-orchestra. La tipologia di partecipanti è straordinariamente varia: ci sono anche compagnie teatrali già rodate, o singoli attori di teatro, e perfino ensemble shakespeariani che usciranno in strada per l’occasione.

Tra l’inaugurazione a Firenze l’8 agosto, città natale di Dante, e la chiusura a Ravenna il 2 settembre presso la tomba del Sommo Poeta, questo “giro d’Italia” all’insegna del teatro di strada si è snodato finora da Verona a Vibo Valentia, toccando varie regioni, dalla Liguria alla Campania, tra grandi città come Roma, preziosi borghi storici come Assisi (dove l’esibizione è stata filmata da RAI 1 Weekly) e panorami naturali mozzafiato quali le scogliere di Cagliari. In scena sono andate un po’ tutte le arti performative di strada, dalla recita alla musica e canto, alla danza acrobatica e giocoleria, fino ad arrivare ad artistici giochi di fuoco che in Liguria e Toscana hanno riempito la piazza con diverse centinaia di spettatori, guadagnando applausi a scena aperta e richieste di bis.

Si giunge ora al gran finale nel capoluogo bizantino con lo spettacolo “Dante e Piccarda”, proposto – a pochi metri dalla Tomba di Dante, fra le sculture e le installazioni della mostra Dante Plus 2022 di Marco Miccoli – dagli attori Cristina Ugolini, nei panni della Chiacchiera e di Piccarda, e Riccardo Cecere, nei panni di Dante. Cecere curerà anche le musiche da vivo.Si tratta di un dialogo inatteso fra il Poeta e la religiosa, tratto dal I atto di “Ahi, serva Italia!” di Monaldi & Sorti.

Dante confessa le sue visioni a Piccarda. Occasione per toccare i temi danteschi più diversi, tra cui il famoso Veglio di Creta, che Dante riprende dal sogno di Nabucodonosor di Riccardo di San Vittore, fonte principale di Dante ogni volta che nel Poema parla di visione. Sorte vuole che lo spettacolo si svolga nel giardino della Biblioteca Oriani, intitolato a Rinaldo da Concorezzo, personaggio ampiamente in azione nel romanzo ispiratore del concorso.
Appuntamento dunque a Ravenna venerdì 2 settembre negli spazi della mostra Dante Plus 2022, c/o Biblioteca Alfredo Oriani, Via Corrado Ricci 26. Orario spettacoli: 16.15 / 17.15 / 18.15
Premiazione infine a Roma il 14 settembre, anniversario della morte di Dante, presso il Globe Theatre, luogo shakespeariano per eccellenza della capitale, con un banchetto nello stile del Trecento fiorentino.

Monica Guerritore ha commentato: «L’incontro tra Dante e Shakespeare funziona: Shakespeare ci mostra come le passioni agitino l’uomo sulla terra, e Dante quale direzione invece gli fanno prendere nell’aldilà. Qui in Ahi, serva Italia! si fa questo doppio viaggio, nella lingua di Shakespeare e nella vita e nelle opere di Dante».

«Gli spettacoli di piazza sono nel DNA sia della Commedia che del teatro elisabettiano», spiegano Monaldi & Sorti, tradotti in 26 lingue e definiti in Francia da L’Express «gli eredi di Umberto Eco» e in Germania dalla Frankfurter Allgemeine «la coppia letteraria italiana di livello internazionale».

«Dante vola così in alto – dicono i due autori – che può essere raccontato solo da Shakespeare. La Commedia era ben nota in Inghilterra sin dal Medioevo: i drammi shakespeariani sono pieni di richiami ai suoi personaggi, dal conte Ugolino a Pier delle Vigne, oltre al parallelo tra le coppie Romeo-Giulietta e Paolo-Francesca. Non a caso il primo ritratto a stampa dell’Alighieri è stato pubblicato in Inghilterra da un editore della cerchia di Shakespeare».

Setteserequi

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Il Teatro di Strada, il primo settembre ecco Ahi, serva Italia!, Dante secondo Shakespeare – Cagliari Post


Approda giovedì 1° settembre a Cagliari la fase finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola. L’iniziativa, p

Approda giovedì 1° settembre a Cagliari la fase finale di Ahi, serva Italia! – Dante visto da Shakespeare, prima competizione teatrale interamente basata su un romanzo, da rappresentare in strade e piazze delle città d’arte della penisola.

L’iniziativa, patrocinata tra gli altri dalla Società Dante Alighieri e dalla Fondazione Luigi Einaudi, è ora nella fase decisiva che coinvolge artisti ed ensemble teatrali con esibizioni dal vivo.

Il concorso è basato sull’omonimo libro di Monaldi & Sorti (Solferino Editore), ogni esibizione è tratta o ispirata da passi del romanzo teatrale-narrativo, e può vantare due sostenitori d’eccezione: il regista Pupi Avati, che ha lodato lo «sguardo sacrale» di Monaldi & Sorti, e l’attrice Monica Guerritore, che li ha definiti «direttori artistici della pagina scritta» (in fondo i link alla stampa e al materiale fotografico).

Il teatro di strada è uno dei temi caratteristici nel romanzo ispiratore del concorso. In tutte le località coinvolte, gli spettacoli della finale sono subito riconoscibili grazie alle quinte con le figure inconfondibili di Dante e Shakespeare

Cagliari Post

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Ci sono buone possibilità che la politica ucraina di Liz Truss sia peggiore


Ci si aspetta che Liz Truss diventi Primo Ministro la prossima settimana, ma non importa chi sia nel ruolo, gli inglesi continueranno a seguire Washington ovunque

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A Dante Plus 2022 arriva il premio ’Ahi, serva Italia!’ – Il Resto del Carlino


Venerdì accanto alla Tomba di Dante, performance dedicate al Sommo Poeta e a Shakespeare l Premio “Ahi, serva Italia!”, organizzato da Xenia in collaborazione con il Festival Dantesco e con Solferino Editore, chiude il suo percorso a Ravenna, venerdì 2 se

Venerdì accanto alla Tomba di Dante, performance dedicate al Sommo Poeta e a Shakespeare


l Premio “Ahi, serva Italia!”, organizzato da Xenia in collaborazione con il Festival Dantesco e con Solferino Editore, chiude il suo percorso a Ravenna, venerdì 2 settembre, negli spazi della mostra Dante Plus 2022, curata da Marco Miccoli.

Accanto alla Tomba di Dante, luogo simbolo legato al poeta, alle 16.15, alle 17.15 e alle 18.15, gli appassionati di Dante e di Shakespeare (e del teatro in strada) potranno assistere a una delle esibizioni finaliste del Premio, che in questo mese di agosto ha selezionato le migliori street performance dedicate al libro “Ahi, serva Italia!” della coppa Monaldi & Sorti, secondo volume della trilogia Dante di Shakespeare.

Dopo Firenze (tappa dantesca “obbligata” di apertura), dopo Verona, Salerno, Benevento, Vibo Valentia, Assisi e Roma, è dunque la volta di Ravenna (tappa dantesca altrettanto “obbligata” di chiusura), che proporrà un divertente dialogo fra Dante e Piccarda tratto appunto dall’opera di Monaldi & Sorti e realizzato dal gruppo Futura di Cristina Ugolini e Riccardo Cecere. Si terrà negli spazi suggestivi spazi della mostra Dante Plus 2022, che peraltro patrocina il Premio assieme alla Società Dante Alighieri, alla Fondazione Luigi Einaudi, alla Casa di Shakespeare di Verona, al Centro Studi Storici PP. Barnabiti e a Feditart.

Il Resto del Carlino

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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Giustizia, parola d’ordine dei partiti: indifferenza


Un’aneddotica nota nei palazzi di Giustizia vuole che quando la mafia deve trescare per il posto di capo di una procura ‘delicata’, se a concorrere è un magistrato ammanicato con il potere politico, uno onesto e un cretino, la scelta, invariabilmente cade sul cretino. Non ci si azzarda certo a sostenere (neppure a pensare) [...]

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Nancy Pelosi’s unexpected visit to Taiwan on August 2-3 and the immediate reaction of China’s People’s Liberation Army represents the worst crisis across the Taiwan Strait since 1995.


Serie A, B, Champions, Mondiali: le date della stagione calcistica 2022/2023


La stagione calcistica 2022/2023 sarà particolare per il calcio europeo, e di conseguenza quello italiano, a causa dei Mondiali che si disputeranno in Qatar nei mesi invernali. Per la prima volta nella storia della competizione, infatti, i principali campionati europei subiranno una sosta prolungata per consentire ai calciatori la trasferta in terra qatariota e disputare [...]

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CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Seconda parte)


La seconda parte dell'articolo sulla mostra che racconta la storia, la cultura e la geografia palestinese prima del 1948 L'articolo CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Seconda parte) proviene da Pagine Est

di Patrizia Zanelli*

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 –

Con il declino di Acri, negli anni 1830, i consolati europei si erano trasferiti a Haifa, determinando l’ascesa anche di questa città che diventerà un importante polo industriale nel secolo successivo.

La mostra A People by the Sea al Museo Palestinese di Bir Zeit racconta soprattutto la realtà palestinese della prima metà del Novecento.

Uno dei risultati più importanti delle riforme ottomane è la nascita in Palestina di una stampa moderna locale, che si sviluppa con maggiore rapidità dopo il ripristino della Costituzione ottomana, nel 1908, e il conseguente allentamento della censura. Su un pannello della mostra ci sono due documenti interessanti: uno è la copertina del quarto numero della rivista Bākūrat al-adab (La primizia della letteratura), datato 1905, anno di fondazione a Giaffa della stessa testata il cui nome indica appunto l’esistenza di una nascente letteratura moderna palestinese. L’altro è la prima pagina dell’edizione del 2 settembre 1911 di Annafayr (Annafire), un giornale dedito a questioni politiche, letterarie e socioculturali, fondato a Gerusalemme nel 1906. L’articolo d’apertura è intitolato “La morte della libertà in Egitto” – all’epoca guidato dal khedivè Abbas II e sotto occupazione britannica sin dal 1882 – e denuncia proprio i problemi che sta subendo l’organo ufficiale di un partito nazionalista egiziano a causa della presenza militare inglese nel paese. Ciò indica che il nazionalismo anticolonialista è già emerso anche in Palestina, dove evidentemente c’è una discreta libertà di stampa. In fondo alla stessa pagina compare la pubblicità di una compagnia navale francese che organizza viaggi per l’America e ha appunto un ufficio a Gerusalemme. Entrambi questi documenti sono interessanti anche a livello artistico ossia grafico: l’abbinamento di disegni in stile Liberty alla calligrafia araba è particolarmente affascinante.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

Nella mostra sono esposti altri annunci pubblicitari di crociere su transatlantici di lusso che indicano sia la domanda crescente di questo tipo di viaggi in Palestina, e ovviamente l’agiatezza dell’alta borghesia palestinese sia la dinamicità economica delle città portuali. Con la fioritura di giornali e riviste, inoltre, si rivitalizza la vita culturale a Haifa e Giaffa, dove si organizzano spettacoli teatrali e concerti, spesso in riva al mare, come confermano più fotografie esposte in A People by the Sea.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

L’effettiva presenza, nelle case delle famiglie borghesi e nei caffè, di radioricevitori, grammofoni e dischi in vinile, su cui sono registrate canzoni interpretate dalle voci più celebri dell’Egitto e del Levante, è invece documentata da alcuni annunci pubblicitari presentati nella mostra.

Lungo il percorso di A People by the Sea, a un certo punto, si trova una scheda informativa che indica la prima ondata migratoria colonialista ebraica, legata al sionismo internazionale, iniziata nel 1882, e l’avvio della costruzione dell’insediamento sionista di Tel Aviv, nel 1909, sul confine settentrionale del distretto amministrativo di Giaffa, e la stessa nota segnala la pericolosità della fondazione di questa colonia per le sorti della Palestina e degli abitanti autoctoni del paese, cioè i palestinesi. Poi la narrazione si sofferma sugli eventi cruciali per l’assetto geo-politico regionale, avvenuti nell’ambito della I Guerra Mondiale. Una scheda informativa ricorda l’accordo Sykes-Picot (1915-1916), negoziato e firmato segretamente da Francia e Inghilterra, e interventi militari che dimostrano le intenzioni delle maggiori potenze coloniali europee di alterare per sempre il volto della Palestina, del Levante e dell’intero Medio Oriente. Una teca della mostra contiene, invece, un opuscolo intitolato The Balfour Declaration – an Analysis; si tratta di un inserto speciale pubblicato a Giaffa dal giornale Falasṭīn (Palestina) proprio nel 1917. La ben nota lettera firmata il 2 novembre di quell’anno appunto dal ministro degli Esteri inglese, certifica la volontà dell’Inghilterra di sostenere il sionismo internazionale. Con lo smantellamento dell’Impero Ottomano, a seguito della I Guerra Mondiale, e l’inizio del mandato britannico sulla Palestina nel 1920, emerge concretamente il significato della Dichiarazione Balfour – l’accelerazione della colonizzazione sionista -, la cui prevedibile conseguenza è l’accendersi di un conflitto regionale tuttora in corso e in evoluzione.

D’altra parte, lo scopo principale di A People by the Sea è di raccontare una realtà sociale, la vita della gente di un paese. Durante il periodo mandatario, in risposta alla minaccia sionista, la società palestinese esprime la propria vitalità, proseguendo sulla via verso la modernizzazione. Ormai ci si può spostare da una città all’altra del paese sia in treno sia in pullman, come indicano i biglietti esposti nella mostra. Su un pannello, invece, sono presentate le pagine di più giornali che suggeriscono la possibilità di andare a teatro oppure al cinema a vedere, per esempio, un musical egiziano – all’epoca l’Egitto è la Hollywood sul Nilo a livello panarabo – o un cartone animato della Walt Disney. In questo periodo nasce anche la passione per lo sport. Nel 1931, viene fondata una federazione sportiva nazionale per unire circoli già esistenti in varie città della Palestina, tra cui Gerusalemme, Giaffa e Haifa, e frequentati da giovani che sperano di vincere una coppa come quelle esposte in A People by the Sea.

Un’altra teca della mostra contiene, invece, due scatole di fiammiferi, con il marchio di una piccola impresa di Acri, e un pacchetto di sigarette prodotto a Giaffa, dove ci sono aziende appunto del tabacco, nonché del sapone, del cuoio, del vetro, di carpenteria, tessili e alimentari, oltre a quelle della filiera delle arance. Su un pannello inoltre sono esposti documenti di tipo amministrativo aziendale, tra cui una lettera su carta intestata e quattro buste affrancate e con timbro postale.

Nel 1933, viene inaugurato il porto di Haifa, costruito dall’Inghilterra. Lo scopo di Londra è di avere la possibilità di accogliere grandi navi commerciali e petroliere e di accordare concessioni a società di capitali straniere e a capitalisti sionisti internazionali. Lo scalo nasce e si sviluppa grazie a investimenti esteri legati alle industrie pesanti, petrolifere e del trasporto ferroviario.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

Haifa, inoltre, è sin dagli anni ‘20 la roccaforte del movimento operaio. Certo, ci sono problemi sindacali e sperequazioni socioeconomiche anche in Palestina, dove non mancano neppure casi di corruzione. Ne parlano diversi articoli giornalistici esposti in A People by the Sea, ma, nel paese, prevale la consapevolezza anticolonialista che fa da collante del tessuto sociale. Su un pannello si vede, per esempio, un volantino che rientra in una campagna per la promozione e difesa della produzione locale: gli imprenditori e investitori palestinesi devono affrontare, oltre alla concorrenza straniera privilegiata dall’Inghilterra, gli ostacoli posti dai militari inglesi e/o da gruppi di coloni.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

La minaccia sionista aumenta di giorno in giorno, materializzandosi nella monopolizzazione d’ogni aspetto della vita sociale in Palestina nell’ambito di un progetto colonizzatore esclusivista. Quindi, nascono partiti politici e associazioni palestinesi di autodifesa nazionale.

E, naturalmente, come sempre e ovunque nella storia dell’umanità, dalla tragedia nasce la commedia. Nella Palestina mandataria fiorisce infatti il giornalismo satirico palestinese. In A People by the Sea, si vede una vignetta dedicata proprio alla Dichiarazione Balfour e pubblicata su Falasṭīn il 17 giugno del 1936, mentre gli articoli annessi parlano – con la cauta ironia necessaria per evitare la censura – delle proteste popolari appena esplose nel paese appunto contro il mandato britannico e la colonizzazione sionista.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

Donne e uomini palestinesi d’ogni estrazione religiosa e sociale partecipano alla Grande Rivolta che durerà nelle città e nelle campagne della Palestina per tre anni. Nel 1939, infatti i militari inglesi e miliziani sionisti intensificano la repressione della resistenza palestinese, perché l’Inghilterra vuole impiegare tutti i propri sforzi nella II Guerra Mondiale in cui sta entrando.

In Palestina, la crisi economica provocata dal conflitto internazionale colpisce soprattutto i proprietari degli aranceti e, quindi, i lavoratori della filiera delle arance. A People by the Sea include infatti anche una sezione dedicata proprio al mondo del lavoro. Una teca contiene una tessera sindacale, rilasciata a Haifa il 15 marzo 1947 dal Sindacato Arabo Palestinese dei Lavoratori. È intestata ad Abd al-Salam Abd al-Halim Hanieh che faceva il caposquadra a Giaffa. Una scheda informativa ricorda il duplice ruolo svolto dal Sindacato stesso negli anni ’30: l’organizzazione di scioperi per rivendicare migliori condizioni lavorative per i lavoratori del reparto agrumario e ferroviario; e la mobilitazione del movimento operaio nella lotta contro la colonizzazione sionista, e ciò a cominciare dalla Grande Rivolta nell’ambito delle attività rivoluzionarie coordinate e sostenute dai comitati nazionali.

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La mostra riesce effettivamente a dare la possibilità di percepire la realtà pre-1948 palestinese; e lo fa senza menzionare personalità pubbliche, ma parlando della vita della gente “comune”. Si nota un’attenzione, una cura a ricordare laddove possibile i nomi delle persone per evidenziare l’importanza di ogni individuo. In Palestina, la società palestinese era organizzata a vari livelli, era politicizzata e impegnata a costruirsi un futuro e a difendersi da un pericolo crescente.

L’ultima parte del percorso di A People by the Sea è dedicata alla Nakba. Un pannello informativo ricorda gli atti compiuti da gruppi paramilitari sionisti nel decennio precedente, cioè sin dal 1937: crimini contro la persona, una campagna di attacchi dinamitardi e oltre 7 massacri, il cui bilancio è di 250 palestinesi uccisi e migliaia di altri feriti. Questo è il preludio della Nakba che inizia all’indomani dell’annuncio dell’approvazione della risoluzione 181 dell’Onu sulla Spartizione della Palestina, approvata il 29 novembre 1947 – e mai attuata. Nel marzo 1948, i dirigenti paramilitari sionisti, basati a Tel Aviv, decidono di lanciare la campagna Piano Dalet, volta appunto alla pulizia etnica nei confronti dei palestinesi nella porzione del territorio assegnata al futuro Stato ebraico.

Tra i dodici artisti che partecipano alla mostra c’è anche Abed Abdi (n. 1942) che il 22 aprile 1948 aveva appunto appena sei anni ma, nelle sue memorie, ricorda perfettamente i fatti vissuti quel giorno a Haifa, la fuga verso il porto per salvarsi dagli attacchi lanciati da miliziani sionisti e la posa da “gentleman” dei militari inglesi che invitavano i palestinesi a lasciare la città, perché – all’insaputa dei palestinesi stessi – non ci tornassero mai più. Si tratta della più nota delle tante espulsioni di massa avvenute nell’ambito della Nakba. In A People by the Sea la testimonianza di Abed Abdi è infatti presentata su una scheda accanto alla fotografia (scattata a Haifa dopo il 1948) di un giovane soldato inglese, seduto su un muro a osservare dall’alto un gruppo di palestinesi indotti appunto a salire in barca e a lasciare la città, convinti che ci sarebbero presto tornati, un diritto al ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu, approvata l’11 dicembre 1948 – e mai attuata.

Un pannello informativo della mostra ricorda che l’operazione di pulizia etnica si intensifica a partire dal 16 maggio 1948 – cioè all’indomani della scadenza del mandato britannico sulla Palestina – e continua per quasi due decenni. La fase più intensa della Nakba dura fino al 1950 ed è caratterizzata anche da attacchi in diversi centri urbani; il mercato dei contadini a Haifa e un quartiere residenziale a Giaffa vengono demoliti. In A People by the Sea, la Nakba è raccontata soprattutto tramite una serie di video in cui si vedono o demolizioni di case e interi villaggi (ne furono distrutti 418 di cui 70 lungo la fascia costiera), o le testimonianze dirette di diversi sopravvissuti ai massacri. Su un pannello ci sono anche alcune lettere scritte da pescatori espulsi.

Nella mostra è inoltre esposta l’opera pittorica, The Dove, creata nel 1993 da Nasser Soumi (n. 1948), ispirandosi alla storia di un marinaio di Giaffa, divenuto profugo e morto di crepacuore a Tiro, in Libano, negli anni ’50, dopo che i militari israeliani gli avevano impedito di realizzare il desiderio di rivedere la sua città, chiamata dai marinai “La Colomba”, perché così sembrava da lontano a largo della costa durante il viaggio di ritorno per raggiungerla. Mentre cercava di arrivarci in barca, quei soldati lo avevano arrestato, lui aveva spiegato loro tutto ciò. E loro, per tutta risposta, lo avevano rinchiuso a bordo della sua stessa barca, per non dargli la possibilità di scorgere neppure da lontano la sua città, e tenuto lì senza provviste per un paio di giorni, prima di rispedirlo indietro. Giaffa era famosa per l’estrazione dell’indaco, colore scelto dall’artista per riprodurre sulla tela l’immagine del mare, sfondo su cui ha applicato conchigline gialle e pezzetti di buccia d’arancia essiccata, componendo di fatto un collage con al centro una piccola scultura che simboleggia Baal, dio cananeo della fertilità.

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Foto di Patrizia Zanelli, diritti riservati

A People by the Sea racconta una realtà storicamente documentata e quindi parla da sé. Il problema è che viene continuamente oscurata da un’incessante campagna dilagante di disinformazione, tutta eurocentrica; stesso eurocentrismo che caratterizza le narrazioni più diffuse riguardanti il colonialismo europeo e il conflitto mediorientale in genere. Questa iniziativa del Museo Palestinese infatti chiama direttamente in causa l’Europa e denuncia soprattutto il modus operandi del regime mandatario britannico in Palestina. Il significato vero e completo della Nakba – che continua tuttora – va conosciuto e riconosciuto, perché il non riconoscimento è una licenza a uccidere concessa all’occupazione militare israeliana.

A People by the Sea veicola un messaggio politico molto chiaro. La mostra, accompagnata da seminari, conferenze e altri momenti di incontro, serve a riesaminare la Nakba alla luce della narrazione storica presentata. I due secoli di storia della Palestina, che vengono narrati, corrispondono all’arco temporale 1748-1948: la prima data indica appunto la nascita dell’era di autogoverno di Daher al-Omar, seguita da un continuum di altre esperienze in cui la società palestinese, pur non avendo un proprio Stato indipendente, ha sempre messo in campo la propria vitalità e capacità di gestirsi; quindi, quel passato è la testimonianza di una ferma volontà di autodeterminazione. Questo è il sunto di quanto si legge nella pagina web dedicata alla mostra, un progetto culturale che, però, sembra finalizzato anche ad affrontare un’emergenza parallela, anzi quella più urgente sotto ogni aspetto. La gioventù palestinese ha bisogno di essere sostenuta psicologicamente tramite un messaggio di speranza, proprio perché non cada nella disperazione. In Palestina, i giovani e specialmente i minori sono le vittime principali delle azioni oppressive e omicide commesse dai militari israeliani e da coloni sionisti. Questa violazione quotidiana della Convenzione IV di Ginevra (12/08/1949) è la continuazione della Nakba che va fermata subito. L’Europa dovrebbe finalmente assumersene tutte le responsabilità e agire per mettere fine a un conflitto che ha causato, che poteva e doveva essere evitato.

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*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Oltre a Warda ha tradotto diverse altre opere letterarie, tra cui la raccolta poetica Tūnis al-ān wa hunā – Diario della Rivoluzione (Lushir, 2011) del poeta tunisino Mohammed Sgaier Awlad Ahmad e il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.

L'articolo CULTURA. A People by the Sea: l’autodeterminazione palestinese al Museo di Bir Zeit (Seconda parte) proviene da Pagine Esteri.



Nel caos della disgregazione dell’Urss provocato da lui stesso, Gorbaciov si muoveva come un personaggio di Dostoevskij: prima ispirato dall'idea del bene, poi tradito dalla natura umana, infine rassegnato all'espiazioneIl culto della personalità di …


MESSICO. La strage di studenti di Ayotzinapa fu un “crimine di stato”


Ad otto anni dalla strage di studenti di Ayotzinapa il governo messicano riapre le indagini e accusa un generale. In manette politici, militari, poliziotti, narcos e il responsabile della prima indagine. I familiari dei 43 desaparecidos reclamano verità e

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Che alcuni politici locali, agenti di polizia e militari messicani avessero avuto un qualche ruolo nella strage di Ayotzinapa è sempre stato più che un sospetto. Ma le accuse formulate dalla Commissione d’Inchiesta governativa di Città del Messico contro alcuni comandanti delle Forze Armate rendono assai più nitide le circostanze in cui si produsse il massacro del 26/27 settembre 2014.

Quel giorno, un centinaio di studenti della Escuela Normal Rural “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, in viaggio a bordo di tre autobus che avevano requisito a Iguala (nello stato del Guerrero) per recarsi a una manifestazione nella capitale federale per commemorare il massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968, furono intercettati e attaccati dagli agenti della polizia locale e dai narcos su ordine del sindaco José Luis Abarca (un indipendente del Partito Rivoluzionario Democratico) e di sua moglie. Questi ultimi in seguito furono arrestati perché considerati i mandanti della carneficina insieme ad un boss della criminalità locale.
La polizia sparò per errore contro un autobus che trasportava una squadra di calcio locale, uccidendo il suo autista e uno dei giocatori a bordo. Anche una donna che viaggiava in un taxi è stata raggiunta e uccisa da un proiettile.

Insabbiamenti e depistaggiSecondo le ricostruzioni ufficiali fornite a seguito dell’inchiesta condotta dal Procuratore Generale Jesus Murillo Karam, sei studenti morirono subito, 25 riportarono gravi ferite ma sopravvissero ed altri 43 furono rapiti. Alcuni dei ragazzi furono torturati selvaggiamente. I rapiti, sempre secondo la versione ufficiale, furono poi consegnati dagli agenti ai membri di una banda criminale locale, i Guerreros Unidos, e assassinati. I corpi degli uccisi sarebbero stati bruciati per renderne difficile l’identificazione e i resti sarebbero stati gettati nella discarica di Cocula e nel fiume San Juan. Per questo i “43 di Ayotzinapa” sono rimasti a lungo – e vengono in gran parte tuttora – dei desaparecidos.
Prima per reclamare la liberazione degli studenti “dispersi” e poi per chiedere “verità e giustizia” sul massacro, nel paese si sono susseguite proteste e manifestazioni, mentre decine di agenti di polizia sono stati arrestati.
Ma già dal 2015 le organizzazioni sociali e studentesche del Guerrero, insieme ai familiari delle vittime, hanno puntato il dito contro alcuni distaccamenti dell’Esercito e della Marina, denunciando il loro ruolo nell’eccidio.
Nei giorni scorsi, finalmente, ad avvalorare quelli che fino ad ora erano rimasti solo dei sospetti è stata una speciale commissione istituita dall’attuale governo per far luce su quanto accadde nel 2014.

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Il viceministro Alejandro Encinas

Il ruolo dell’esercitoSecondo la nuova inchiesta realizzata dalla “Commissione per la verità e la giustizia”, creata nel 2018 per volontà del presidente messicano Lopez Obrador, l’eccidio fu un vero e proprio “crimine di Stato”, frutto del coordinamento tra l’amministrazione comunale di Iguala e altre istituzioni locali e federali, la polizia locale, le forze armate e i narcos dei Guerreros Unidos, con l’obiettivo di infliggere una dura ed esemplare punizione agli studenti di una delle realtà politicamente più combattive dello stato. Tra gli studenti le forze armate avrebbero infiltrato alcune spie e comunque le comunicazioni tra i leader della protesta sarebbero state monitorate attraverso degli spyware.

Secondo Alejandro Encinas, viceministro messicano ai Diritti Umani, anche l’allora presidente della Repubblica Enrique Peña Nieto e il suo entourage sarebbero stati informati della reale dinamica dei fatti, impegnandosi a nascondere parte della verità.

Nello specifico, sei dei 43 studenti sequestrati furono separati dai loro compagni e detenuti ad Iguala per quattro giorni, per poi essere consegnati agli uomini del colonnello José Rodríguez Pérez, che allora era comandante del 27imo battaglione di fanteria. Fu il colonnello, che nel frattempo è diventato generale, a ordinarne l’uccisione. Secondo la Commissione, nella strage sarebbero coinvolti anche il generale Alejandro Saavedra Hernández, che all’epoca era a capo della 35ima zona militare con sede nella capitale del Guerrero, Chilpancingo. Nel mirino della nuova inchiesta e prima ancora dei reportage della stampa messicana indipendente sono finiti in particolare i legami tra l’ex sindaco di Iguala Abarca e l’esercito: fu proprio grazie ai favori delle forze armate che l’esponente politico avrebbe potuto iniziare la sua ascesa dopo la realizzazione di un centro commerciale – denominato “Plaza Tamarindos” – su un terreno donato dai militari.

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Il generale José Rodríguez Pérez

In manette l’ex procuratore generaleSulla base di quanto stabilito dalla Commissione, la magistratura ha emesso 64 mandati di arresto a carico dei responsabili dell’esercito implicati e di altri agenti di polizia; in manette, la scorsa settimana, è finito addirittura Murillo Karam, il procuratore generale al quale furono affidate le prime indagini e che si dimise due mesi dopo l’inizio dell’inchiesta, ritenuto complice dei depistaggi orchestrati per garantire l’impunità dei massimi responsabili della strage. Anche Tomás Zerón, un altro degli investigatori, è accusato di collegamenti con vari gruppi criminali e da tempo si è rifugiato in Israele.
L’inchiesta dell’epoca, rivelano le nuove indagini, mirarono a occultare il fatto che dentro i corpi di polizia delle città di Iguala, Huitzuco e Cocula esisteva un gruppo d’élite denominato “Los Bélicos”, di fatto una banda di sicari al servizio dei narcos e delle autorità politiche locali.

Il fatto che il governo di Andrés Manuel López Obrador abbia deciso di accusare esplicitamente i militari deve essere considerato un elemento rilevante, perché il presidente ha scelto le Forze Armate come uno dei pilastri della “Quarta trasformazione”, il suo progetto politico. Solo poche settimane fa Obrador ha assorbito la Guardia Nacional (così si chiama l’ex Polizia Federale dopo la rifondazione) nell’Esercito, istituzione che gestisce settori sempre più consistenti dell’economia e delle infrastrutture del paese. Ora occorrerà capire quanto a fondo vorrà andare il governo nell’accertamento delle responsabilità. Finora, infatti, sono stati rinvenute soltanto le tracce di tre degli studenti desaparecidos e il rapporto non chiarisce dove possano essere nascosti davvero i resti dei ragazzi assassinati.

Un video ritrovato dopo l’apertura degli archivi della Marina per ordine del governo messicano mostra infatti Murillo Karam e Zerón mentre di fatto fabbricano una scena del crimine presso la discarica di Cocula, accendendo un fuoco e spargendo delle buste di plastica (quelli in cui sarebbero stati trasportati i resti degli studenti).

“Verità e giustizia”I familiari delle vittime dell’eccidio, così come Amnesty International ed altre organizzazioni locali per i diritti umani, hanno apprezzato le nuove rivelazioni ma chiedono ora che il governo federale si impegni davvero a cercare e fornire prove certe sul destino degli studenti rapiti e uccisi e a risarcire i parenti e i sopravvissuti. «Continueremo a reclamare la restituzione dei 43. Non possiamo rinunciare alla lotta finchè non avremo una prova certa che riveli cosa è accaduto loro e dove si trovano. Sarebbe doloroso per le nostre famiglie conoscere il loro destino soprattutto se fossero morti, ma se ci forniranno una prova oggettiva, scientifica e certa ce ne andremo a casa a piangere e a vivere il nostro lutto» ha detto un rappresentante dei familiari nel corso dell’ultima manifestazione organizzata il 26 agosto nella capitale messicana dai parenti e dagli scampati dell’eccidio del 2014, alla quale si sono uniti studenti, professori e varie organizzazioni politiche e sociali.
In un intervento realizzato lunedì mattina, il presidente Obrador ha garantito che non ci sarà impunità per i responsabili dei crimini contro gli studenti di Ayotzinapa e per coloro che nascosero la verità. – Pagine Esteri

2380733* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

LINK E APPROFONDIMENTI

comisionayotzinapa.segob.gob.m…

jornada.com.mx/notas/2022/08/2…

jornada.com.mx/2022/08/23/opin…

jornada.com.mx/2022/08/30/poli…

jornada.com.mx/notas/2022/08/2…

france24.com/es/am%C3%A9rica-l…

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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile


I sostenitori del potente leader religioso sciita dopo l'annuncio si sono riversati a migliaia nella Zona Verde di Baghdad in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere. Si teme una risposta dura delle forze sciite rivali di Al S

[color="#ff0000"]LIVE 30 AGOSTO. Al-Sadr chiede ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green Zone di Baghdad[/color]

AGGIORNAMENTO ORE 19.30

E’ di almeno 12 morti e 270 feriti il bilancio parziale degli scontri a Baghdad e nel resto del paese. Intanto le autorità militari hanno annunciato l’estensione del coprifuoco a tutto lraq, dopo averlo proclamato a Baghdada partire dalle 15.30 locali (le 14.30 in Italia).

—–

della redazione

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.

Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

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Muqtada al Sadr

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

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Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri

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Elezioni 2022: Ma la destra no


Il problema non è 'la destra', ma 'questa destra'. Nei confronti di Berlusconi, Salvini, Meloni, sul fronte internazionale è l’affidamento che manca

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Dilemmi da viaggioIntrodurre o meno un travel ban a livello europeo per i cittadini russi. Questo il tema, affrontato tra oggi e domani nel meeting dei ministri degli affari esteri Ue che si riuniscono a Praga, che divide i governi europei.



La sicurezza in Medio Oriente è ancora fragile, con o senza l’accordo sul nucleare iraniano


È probabile che una potenziale ripresa dell’accordo nucleare iraniano metta alla prova la sostenibilità degli sforzi del Medio Oriente per attenuare le tensioni e gestire le differenze migliorando le relazioni diplomatiche e favorendo la cooperazione economica. Nell’ultimo intervento di riparazione della situazione, due Stati del Golfo, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti, hanno annunciato [...]

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Elezioni politiche 2022: destra pericolosa ed ignorante


Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) In un scenetta comica tra due attori napoletani, Giobbe Covatta e Francesco Paolantoni, con un terzo a far da arbitro si mimava anni fa un dibattito tra due politici di destra con sfumature diverse. Nella [...]

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Moqtada al-Sadr annuncia il ritiro dalla vita politica e a Baghdad esplode la rabbia dei suoi sostenitori. Ma il rischio è lo scontro aperto tra sciiti. Sale la tensione in Iraq e a Baghdad, in particolare, teatro ieri di proteste e scontri armati.


Dissennati


Una tregua è necessaria, ma dal raccontare bubbole agli elettori. Simpatica l’idea del “pieno mandato” al governo Draghi, affinché ponga rimedio all’impennata del prezzo del gas. Una specie di collettivo Gastone, con il guanto a penzolone e senza l’orrore

Una tregua è necessaria, ma dal raccontare bubbole agli elettori. Simpatica l’idea del “pieno mandato” al governo Draghi, affinché ponga rimedio all’impennata del prezzo del gas. Una specie di collettivo Gastone, con il guanto a penzolone e senza l’orrore di sé stesso: prima si fa cadere il governo, poi si corre a promettere tutto a tutti, infine gli si chiede di metterci una pezza. Sotto tanta generosa disponibilità, condita con tregua delle fasulle ostilità, c’è un non detto: da una parte un po’ tutti credono che sia necessario uno “scostamento di bilancio”, perché da incapaci si è solo capaci di spendere (soldi altrui), ma siccome quella scelta aprirebbe le porte dell’inferno, con le doppiette della speculazione già puntate sul debito italiano, allora ci si finge addolorati e si chiede al governo di fare qualche cosa. Così, dopo il pieno mandato, se ne potrà contestare la piena responsabilità. Da perfetti irresponsabili.

Si è trasformata la campagna elettorale in una fiera di paese, con tanto di pomate miracolose e lozioni per la ricrescita dei capelli. Omesse le banalità e le cose che manco le infanti letterine di Natale, per tre quarti, nell’insieme, si tratta di roba incompatibile con il bilancio: chi offre pensioni più ricche, chi anticipate, chi stipendi aggiuntivi, chi sgravi fiscali, per non dire della filiera bonus, considerata inesauribile. È un tale coacervo di dissennatezze che la sola cosa incredibile è che qualcuno ci creda. Il tutto senza considerare la necessità di compensare gli aumenti delle bollette energetiche, altrimenti non solo andrebbero cancellate le elargizioni, ma indicate le restrizioni della spesa. Che farebbero bene alla salute collettiva, perché una spesa esagerata alimenta un sistema disfunzionale. Metterlo a dieta è un bene.

E per il gas, che si fa? Escludiamo lo smutandarsi vigliacco innanzi alla Russia, che taluno crede sia una soluzione, benché disonorevole, e invece sarebbe una pietra tombale, perché ci cancellerebbe dai mercati dove esportiamo e si azzererebbe qualsiasi difesa finanziaria. Non è praticabile neanche lo scostamento di bilancio, l’aumento del debito, per le ragioni che qui abbiamo già raccontato e perché non sarebbe affatto un rimedio, ma solo un rinvio (altra tipica attitudine dei dissennati).

Una compensazione generale sarebbe troppo costosa o, una volta suddivisa, troppo limitata. Fra il 2011 e il 2021 il risparmio degli italiani è aumentato del 50%. Segno di paura, ma anche di ricchezza. Fra contanti e depositi avevamo in tasca 1.119 miliardi e ce ne siamo ritrovati 1.629. In azioni erano investiti 690 miliardi e se ne sommano poi 1.251. Nel totale fanno 5.256 miliardi di ricchezza finanziaria. Poi ci sono i patrimoni immobiliari. Non è il quadro di un Paese alla fame e non ha quasi nessuna parentela con la campagna elettorale, ma è la realtà. Anche se metto in conto gli insulti per averla ricordata. Tassiamoli, gli insulti, che si raccolgono palanche. In questa situazione non è saggio aiutare tutti, ma solo le imprese energivore, che rischiano di andare fuori mercato, e le famiglie meno abbienti, sulla base dei consumi storici. Il costo dell’energia morde tutti, ma non tutti allo stesso modo. Qualcuno di noi si terrà il morso.

Intanto sganciamo il prezzo dell’energia elettrica dal costo del gas, così non si produrranno extrabollette ed extraprofitti che sono stati già tassati, ma vanno ancora riscossi. Si corra nella diversificazione, perché da quello dipende l’opportunità di fare dell’Italia un hub mediterraneo del gas. Al 2024 saluteremo definitivamente i russi, già oggi dimezzati, e ci concentreremo sulle tecnologie per i 25 anni successivi, propizianti la decarbonizzazione.

La necessità di raccontare bubbole per raccattare voti riguarda partiti e candidati senza idee ed elettori senza memoria. Ma se pensano di farsi togliere le castagne dal fuoco da Draghi, acciocché si faccia garante dello scostamento di bilancio, difettano anche in senso dell’umorismo.

La Ragione

L'articolo Dissennati proviene da Fondazione Luigi Einaudi.

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@giuglionasi Ma davvero credi che con una politica nella quale la parola liberale è diventata un pretesto per dire tutto e il contrario di tutto, noi della fondazione Einaudi potremmo prendere posizione in favore di qualcuno? C'è stato l'invito a riunirsi e non unica forza liberale, ma ovviamente a nessuno è interessato raccogliere quell'invito. Renzi e Calenda si sono messi insieme solo perché altrimenti non avrebbero mai raggiunto la soglia di sbarramento.
Il contributo più lucido che si può leggere oggi è quello di Davide Giacalone, che condivido totalmente

fondazioneluigieinaudi.it/stat…



Indonesia confusa di fronte alla ‘zona grigia’ della Cina


La Cina sta sottoponendo l’Indonesia a tattiche marittime della ‘zona grigia’ – atti competitivi tra Stati senza una guerra totale – nel Mare di Natuna settentrionale. La Cina persegue questi obiettivi sapendo che l’Indonesia non risponderà adeguatamente. L’ultima crisi del Mare di Natuna settentrionale tra dicembre 2019 e gennaio 2020 ha visto l’incursione di pescherecci [...]

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Twitter introduce le cerchie, per consentire agli utenti di twittare solo a ristrette cerchie di contatti.
Ah, #Friendica già lo fa... 😁

blog.twitter.com/en_us/topics/…

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Perché l’egemonia degli Stati Uniti è incompatibile con un ‘ordine internazionale basato su regole’


Il conflitto tra il dominio dell'America e i suoi presunti valori liberali. La crescita della multipolarità esploderà le contraddizioni inerenti alla versione di Washington dell'ordine liberale

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Rotte commerciali Cina – Europa: la guerra ti cambia


La guerra in Ucraina trasforma la mappa delle rotte commerciali Cina-Europa. La porta del commercio si sposta dal confine polacco-bielorusso alla Turchia

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Crisi alimentare: la risposta è il cibo cioè cultura, identità e sostenibilità


Che il cibo sia cultura e identità quando fa parte delle nostre radici o valore da non sprecare, è cosa che viene sempre più spesso proposta all’attenzione degli amanti della buona tavola. Uno degli ultimi appuntamenti al Caffè della Versiliana è stato dedicato dalla Vetrina Toscana proprio al cibo legato ai beni storici e al [...]

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Il capitale, la politica, la crisi


«Il capitale ha già “scelto” l’unica soluzione possibile per venirne fuori.

La guerra, per accaparrarsi materie prime e mercati senza i quali non ci stanno profitti.

E senza profitti il capitale muore.

La guerra, per liberarsi delle eccedenze di merci invendibili e di merce umana che non riesce più a mantenere.»

contropiano.org/interventi/202…



IRAQ. Al-Sadr chiede ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green Zone di Baghdad


Il leader sciita Muqtada al-Sadr ha dichiarato di disapprovare qualsiasi rivoluzione operata con la violenza e lo spargimento di sangue e ha ribadito il suo addio alla politica L'articolo IRAQ. Al-Sadr chiede ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green

della redazione –

ORE 12.05

Muqtada al-Sadr, durante una conferenza stampa, ha chiesto ai suoi sostenitori di ritirarsi nel giro di un’ora dalla Green Zone e di continuare la protesta in maniera pacifica, condannando le violenze degli ultimi giorni. Ha confermato e ripetuto più volte di aver lasciato completamente la politica irachena e che non ritornerà ad occuparsene. Ha dichiarato, inoltre, di disapprovare qualsiasi rivoluzione operata con la violenza e lo spargimento di sangue.

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Pagine Esteri, 30 agosto 2022 – Dopo una notte di scontri, Baghdad si sveglia al suono degli spari e delle esplosioni. Al momento si contano 30 morti e più di 700 feriti.

Questa mattina nella Green Zone, perimetro protetto all’interno del quale i sostenitori del leader sciita Muqtada al-Sadr si sono riversati nella giornata di ieri, hanno risuonato le sirene del sistema di allarme dell’Ambasciata americana.

La Zona verde ospita il parlamento iracheno e organismi diplomatici internazionali, come le ambasciate appunto.

pagineesteri.it/wp-content/upl…

La tensione rimane molto alta e non sembra intravedersi alcuna via che possa giungere ad una de-escalation. Al-Sadr avrebbe annunciato uno sciopero della fame affinché si metta fine alla “violenza e all’uso delle armi”. Rivolgendosi con ogni probabilità più agli avversari politici e che ai suoi sostenitori.

Il coprifuoco, annunciato nel pomeriggio di ieri dalle autorità per la città di Baghdad, è stato esteso in serata a tutto l’Iraq ma non è servito ad abbassare la tensione.

La situazione è esplosa lunedì 29 agosto dopo che al-Sadr ha annunciato il suo ritiro definitivo dalla politica. Le tensioni andavano avanti ormai da mesi e manifestazioni di protesta all’interno della Green Zone si erano tenute già un mese fa, causando il ferimento di un centinaio di persone.

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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.

Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

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Muqtada al Sadr

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

pagineesteri.it/wp-content/upl…

Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

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Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri

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E’ israeliano l’aeroporto per i palestinesi


Si tratta del piccolo scalo "Ramon", nei pressi di Eilat. A Israele conviene perché continuerebbe a controllare i movimenti dei palestinesi dei Territori occupati e rilancerebbe un aeroporto poco usato. Per i palestinesi sarebbe la rinuncia a un loro aero

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 25 agosto 2022 – Forse resterà solo un esperimento il volo della Arkia Airlines che lunedì è partito dal piccolo aeroporto israeliano «Ramon», 20 chilometri a nord di Eilat, con a bordo 43 palestinesi di Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerico e Nablus, a fianco di passeggeri israeliani, ed è atterrato poco più di un’ora dopo a Cipro. L’iniziativa è stata subito congelata. Prima per le proteste (dietro le quinte) della Giordania, che non vuole perdere milioni di dollari dal mancato arrivo di palestinesi al suo aeroporto di Amman, «Queen Alia». Poi per il fastidio dei viaggiatori israeliani per la presenza dei palestinesi, mascherato dalla presunta paura del «terrorismo». Infine, per la contrarietà politica dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen (Hamas a Gaza non si è ancora espresso) a una soluzione che, palesemente, nega ai palestinesi un loro aeroporto. Per questo e altri motivi i voli per Antalya e Istanbul, sono stati annullati.

Spinti da qualche pressione statunitense – l’entourage di Joe Biden, durante la visita del presidente il mese scorso in Israele, ha chiesto al premier Lapid di favorire i movimenti dei palestinesi – e da un concreto interesse economico e di immagine, i dirigenti israeliani hanno attuato il piano del generale Ghassan Alian (un druso), capo del Cogat, l’ufficio di collegamento per gli affari civili con i palestinesi, che prevede che i palestinesi dei Territori occupati non siano più obbligati – per decisione israeliana – ad andare in Giordania per volare all’estero ma abbiano la possibilità di farlo dall’aeroporto israeliano «Ramon», nel Neghev. I vantaggi per Israele sono notevoli. Da un lato ne guadagna in termini di immagine – i risultati già si vedono, l’agenzia italiana Nova, in un lancio del 22 agosto, scrive citando un giornale israeliano che l’iniziativa «si inserisce nel quadro degli sforzi profusi da Israele per facilitare la vita dei palestinesi», come se le autorità di occupazione fossero la Croce Rossa -, dall’altro rilancia «Ramon» usato ben poco, perciò in perdita, e che grazie al possibile flusso di viaggiatori palestinesi incasserebbe annualmente decine di milioni di dollari. Senza dimenticare che trattandosi di uno scalo israeliano sarebbero i servizi dello Stato ebraico a gestire la sicurezza e a decretare se un palestinese può viaggiare. Nel 2021, riporta Haaretz, circa 10.000 palestinesi sono stati messi da Israele in una lista nera. Molti di loro non lo sanno.

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Vantaggi ci sono anche per i palestinesi sotto occupazione – ai quali Israele non permette di volare da Tel Aviv – che pur dovendo raggiungere la lontana Eilat comunque risparmierebbero del tempo, considerando l’affollamento costante dei valichi per la Giordania. E anche del denaro, tenendo conto di tasse e pedaggi salati che il regno hashemita chiede per il passaggio del confine e all’aeroporto di Amman. Non sorprende che la Giordania sia furiosa per il volo di lunedì. Ogni anno vengono registrati circa tre milioni di ingressi ed uscite per il terminal al ponte di Allenby tra Cisgiordania e Giordania e centinaia di migliaia di palestinesi usano l’aeroporto di Amman per raggiungere le loro destinazioni. Ognuno dei palestinesi decollati l’altro giorno da «Ramon» per Larnaka ha speso in media, tra tasse e biglietto aereo, 350 dollari. Partendo dalla Giordania avrebbero avuto spese ben superiori.

Ma dal punto di vista politico, questa soluzione rappresenta una normalizzazione dell’occupazione israeliana e una rinuncia all’aspirazione ad avere uno scalo palestinese totalmente indipendente da Israele. I palestinesi per decenni hanno chiesto di poter usare il loro aeroporto, a Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah, molto attivo prima dell’occupazione nel 1967, che Israele ha abbandonato dopo l’inizio, nel 2000, della seconda Intifada palestinese e dove ora intende costruire un nuovo insediamento coloniale. Non è un caso che il Cogat israeliano non si sia coordinato in alcun modo con l’Autorità Nazionale sull’iniziativa a «Ramon» e per la gestione dei flussi di passeggeri dalla Cisgiordania. Tanto che il ministro dei trasporti palestinese, Asem Salem, ha minacciato di sanzionare i palestinesi che utilizzeranno lo scalo nel sud di Israele. L’Anp condanna i «tentativi di Israele di mostrare al mondo che sta aiutando i palestinesi», mentre, aggiunge, vuole solo salvare l’aeroporto «Ramon», utilizzato pochissimo da quando è stato inaugurato nel gennaio 2019. Pesano sull’Anp anche le pressioni della Giordania che non manca di ricordare l’«ospitalità» data da decenni a milioni di profughi palestinesi che non vivono solo dell’assistenza fornita dall’Onu ma anche degli aiuti dello Stato.

Sullo sfondo, non per importanza, ci sono i malumori e i «disagi» degli israeliani poco interessati alle strategie governative diplomatiche, economiche e di immagine. Il sindaco di Eilat, Eli Lankri, contesta il piano per rilanciare «Ramon» facendo partire da lì i palestinesi dei Territori diretti all’estero senza aver pensato a una soluzione diversa. Intervistati dai giornali locali, diversi viaggiatori israeliani a «Ramon» hanno detto di «temere per la sicurezza dei passeggeri ebrei». Haaretz ha scritto che lunedì, oltre al generale Ghassan Alian, all’aeroporto c’erano anche agenti della polizia di Eilat per paura di raduni di protesta da parte di chi i palestinesi lì non li vuole vedere. Pagine Esteri

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La piazza virtuale - Come costruire in rete spazi di incontro e discussione realmente pubblici? L'articolo di @violastefanello su @iltascabile


LA PIAZZA VIRTUALE - COME COSTRUIRE IN RETE SPAZI DI INCONTRO E DISCUSSIONE REALMENTE PUBBLICI?

!Etica Digitale

A fine aprile, parlando dei motivi che lo stavano spingendo a comprare Twitter, Elon Musk in un TED Talk diceva che la piattaforma “è diventata di fatto la piazza cittadina”. Nel marzo del 2019, Mark Zuckerberg aveva usato la stessa immagine quando affermava che “negli ultimi 15 anni, Facebook e Instagram hanno aiutato le persone a connettersi con amici, comunità e interessi nell’equivalente digitale di una piazza cittadina”.

Continua: iltascabile.com/societa/piazza…



IRAQ. Baghdad nel caos, spari ed esplosioni, decine di morti e centinaia di feriti


La capitale irachena si risveglia sotto il suono degli spari e delle esplosioni. Risuonano le sirene di allarme dell'Ambasciata statunitense nella Green Zone. La tensione è altissima. L'articolo IRAQ. Baghdad nel caos, spari ed esplosioni, decine di mort

della redazione –

ORE 12.05

Muqtada al-Sadr, durante una conferenza stampa, ha chiesto ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green Zone e di continuare la protesta in maniera pacifica, condannando le violenze degli ultimi giorni.

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Pagine Esteri, 30 agosto 2022 – Dopo una notte di scontri, Baghdad si sveglia al suono degli spari e delle esplosioni. Al momento si contano 30 morti e più di 700 feriti.

Questa mattina nella Green Zone, perimetro protetto all’interno del quale i sostenitori del leader sciita Muqtada al-Sadr si sono riversati nella giornata di ieri, hanno risuonato le sirene del sistema di allarme dell’Ambasciata americana.

La Zona verde ospita il parlamento iracheno e organismi diplomatici internazionali, come le ambasciate appunto.

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La tensione rimane molto alta e non sembra intravedersi alcuna via che possa giungere ad una de-escalation. Al-Sadr avrebbe annunciato uno sciopero della fame affinché si metta fine alla “violenza e all’uso delle armi”. Rivolgendosi con ogni probabilità più agli avversari politici e che ai suoi sostenitori.

Il coprifuoco, annunciato nel pomeriggio di ieri dalle autorità per la città di Baghdad, è stato esteso in serata a tutto l’Iraq ma non è servito ad abbassare la tensione.

La situazione è esplosa lunedì 29 agosto dopo che al-Sadr ha annunciato il suo ritiro definitivo dalla politica. Le tensioni andavano avanti ormai da mesi e manifestazioni di protesta all’interno della Green Zone si erano tenute già un mese fa, causando il ferimento di un centinaio di persone.

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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.

Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

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Muqtada al Sadr

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

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Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

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Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri

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