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Oggi il Cile al voto per una delle costituzioni più avanzate del mondo


Il Plebiscito potrebbe portare in costituzione il diritto all’eguaglianza di genere, all’aborto, alla giustizia ambientale, ai beni comuni naturali per un Cile plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico. Abbiamo intervistato l'Ex Presidente de

di Emanuele Profumi* –

Pagine Esteri, 4 settembre 2022 – Da Santiago del Cile. Oggi ci sarà uno dei Plebisciti più importanti della storia del Cile. Come quando nell’Ottobre del 1988 il 56% dei cileni decise di impedire a Pinochet di restare al potere sino al 1997, o quando, solo due anni fa, l’80% decideva di archiviare la Costituzione forgiata in dittatura e applicata paradossalmente con il ritorno alla democrazia negli anni ‘90. Questa volta si tratta di approvare o rifiutare il lavoro che per un anno hanno svolto i 155 padri e madri costituenti eletti nella “Convencion Constitucional” sulla base di liste civiche, in maggioranza indipendenti rispetto ai partiti politici ed espressione di un largo consenso territoriale.

Il nuovo progetto di costituzione ha tutte le carte in regola per essere una delle Carte Magne più avanzate del mondo in materia di diritti umani, parità di genere, diritti della natura, ordinamento plurinazionale, come si può leggere sin dal primo articolo: “Il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”. L’impianto complessivo è volto alla creazione di una nuova forma di Welfare State, dove l’educazione, la sanità e il sistema pensionistico diventino pubblici e di qualità, arricchito da nuovi diritti, nati dalle ultime grandi questioni epocali sostenute da profondi e ampli movimenti della società. Sopratutto la crisi ecologica e la richiesta di una reale parità di genere. Si introducono, infatti, per esempio, il diritto all’eguaglianza di genere (art.25) e il diritto all’aborto (art. 61), oppure il diritto alla giustizia ambientale (art. 108) e quello ai beni comuni naturali (art. 134-39).

Tuttavia, ormai da mesi, tutti i sondaggi di opinione indicano che la maggioranza della popolazione non accetta la nuova proposta. Forse per paura, forse per incomprensione, forse per manipolazione mediatica o perché semplicemente si sta proponendo un nuovo patto sociale e politico troppo innovativo (il famoso passo più lungo della gamba). Fatto sta che, ad oggi, la vittoria del “Rechazo” è un reale problema per chi vuole fortemente abbandonare l’eredità velenosa di Pinochet, ossia la sua costituzione, croce senza delizia degli ultimi trent’anni.

Nonostante tutto, Maria Elisa Quinteros Cáceres, medico e ricercatrice universitaria eletta come indipendente nel distretto 17 (Maule Nord), e diventata la seconda “Presidenta” della Convencion Constitucional dopo la mapuche Elisa Loncon, quando la incontriamo è pacata e tranquilla. Sicura della bontà del lavoro svolto e convinta che la popolazione cilena sarà in grado di comprendere anche quello che, sino ad oggi, sembra generare maggiore avversione.

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Maria Elisa Quinteros Cáceres

Michelle Bachelet (Presidente dal 2014 al 2018, ndr), ha messo in piedi una “Riforma costituzionale partecipata” a cui hanno aderito attivamente 220 mila persone in tutto il Paese. Niente di paragonabile ai quasi due milioni che complessivamente hanno partecipato alla scrittura della nuova Carta Magna. Non le sembra, in ogni caso, che quella riforma abbia aiutato l’attuale processo costituente?

Credo di sì, sebbene quel processo sia stato guidato principalmente da alcuni gruppi sociali. Non c’è stata una vera e propria partecipazione di massa. È stato espressione di una specie di élite politica, che aveva accesso ad internet. Gli accademici, come me, hanno partecipato molto, così come molti dirigenti delle organizzazioni sociali e sindacali. La Presidenta non ha avuto neanche la possibilità di inviare in tempo i risultati di quella riforma, e non c’è stata una vera e propria rappresentanza di tutti i settori della società. Tra l’altro, per lei era molto complicato poterla implementare per via della composizione delle forze parlamentari: nonostante avesse appoggio popolare, non aveva la forza politica per poterla sostenere. Detto questo, credo che è stata molto importante, e va considerata il preambolo di quello che alla fine è successo, e in cui ancora ci troviamo.

Sembra che, dopo l’inizio delle grandi manifestazioni dell’Estallido Social del 2019, fonte principale di tutto il nuovo processo costituente, sono stati creati dei “Cabildos” (Consigli territoriali, ndr), dove, principalmente, sorge con forza la richiesta di una nuova costituzione. Non è così?

Dopo i primi momenti, in cui abbiamo vissuto una specie di shock, in cui non si sapeva bene perché stavamo manifestando e perché lo facevamo tutti giorni, e non c’era nessun tipo di leader, maschile o femminile, perché era un movimento acefalo, con il passare dei giorni, in ogni città del Paese si cominciano a creare dei dibattiti pubblici nei Cabildos. Vivo a tre ore da Santiago, e nella mia città è stata la federazione degli studenti a organizzarli. Molte persone vi parteciparono, e proprio loro hanno riassunto le conclusioni del dibattito pubblico. Tuttavia, è a partire dalle marce che si è cominciato a parlare della necessità di una nuova costituzione. Progressivamente è risultato chiaro che quella era la richiesta più forte che si stava generando nelle manifestazioni di protesta.

Lei è stata una delle principali rappresentanti della Convencion Constitucional, ci potrebbe spiegare in poche parole perché è così importante approvare il nuovo testo costituzionale?

Storicamente è molto importante, perché in Cile esiste ancora una costituzione che ha un’origine illegittima, dato che è stata scritta quando ancora c’era la dittatura. Ed è stata imposta con la forza al popolo, scritta da soli uomini, scelti personalmente da Pinochet, senza alcuna forma di rappresentanza e priva di qualsiasi prospettiva democratica. Una costituzione che si concentra principalmente sull’acquisizione di un modello economico che perde di vista qualsiasi forma di umanità, e i diritti fondamentali che invece avevano altre costituzioni precedenti. La nuova costituzione, al contrario, è la prima ad essere stata scritta grazie ad un processo democratico, scelto dalla cittadinanza, con una rappresentanza paritaria di donne, scranni riservati, e con la presenza di cittadini indipendenti dai partiti. Inoltre, è molto importante anche dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità di base della popolazione. Nel 2019 abbiamo manifestato pacificamente per chiedere dei miglioramenti fondamentali della nostra condizione di vita, ossia per il rispetto dei diritti sociali, assenti nell’impianto giuridico della vecchia costituzione, tutta concentrata sulle libertà e che, alla fine, ha portato allo sviluppo di una società segnata da una terribile diseguaglianza sociale. Nonostante il Cile sia un Paese in cui ci sono dei redditi molto elevanti, la diseguaglianza è abissale. Tutto ciò impone necessariamente un cambio.

Nella vostra proposta costituzionale emergono alcune importanti novità storiche. Secondo lei quali sono le più rilevanti?

Indipendentemente dal risultato del 4 di Settembre, che ovviamente spero sia positivo, se lo vediamo come un processo storico, il fatto che la popolazione si è riunita a parlare di politica, è qualcosa che non ha precedenti nella storia della Post-Dittatura. Penso che questo ci cambierà enormemente come società. La società si sta rendendo conto che, quando ci riuniamo, uomini e donne, il potere è nostro, ce lo abbiamo noi. Anche se, va sempre ricordato che il costo di tutto questo è stato molto alto, vista la tremenda violazione dei diritti umani che abbiamo subito durante tutto questo percorso. Ciò che è maggiormente rilevante, quindi, è questa partecipazione popolare insieme alla consacrazione dell’articolo 1. Il cuore della proposta è quello di trasformare uno Stato assente in uno “Stato sociale e democratico di diritto”. Sappiamo bene che è un cammino lungo, che vi si dovrà arrivare, e che non è il risultato di una magia. Ma abbiamo altrettanto chiaramente la speranza che l’unione popolare che si è creata, ed è presente, la possiamo mantenere nel tempo e usarla per incidere a diversi livelli. Per esempio, nel mio caso, come indipendente, lo potrò fare sia a livello dell’organizzazione sociale sia a livello dell’Università, anche se non a livello della politica dei partiti. La novità di questa nuova costituzione, non a caso, è che non teme il popolo che l’ha proposta. A differenza della costituzione del 1980, ancora vigente, che non vuole che il popolo si impegni e si interessi degli affari pubblici, per garantire una “democrazia sorvegliata”. La nostra costituzione, invece, sostiene lo spazio della partecipazione. Non solo nella forma del controllo politico, ma dal punto di vista della buona fede delle proposte che arrivano dalla cittadinanza. Perché anche ai cittadini e alle cittadine comuni possono sorgere delle buone idee politiche, quando ci riuniamo. Inoltre, anche il tema della parità di genere è nuovo nel mondo. Sicuramente frutto della sensibilizzazione femminista, e del lavoro de “Lastesis” (gruppo cileno femminista che fondò la canzone “Un violador en tu camino”, diventata virale nel mondo, ndr). Oltre a questo sicuramente è rilevante la decentralizzazione regionale e la preoccupazione per l’ambiente, perché nel nuovo testo, finalmente, si riconosce che dipendiamo dalla natura. Questi sono i principali aspetti della nuova Carta, come viene ben sintetizzato dall’articolo 1.

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Mi sembra che lo stesso si possa dire della centralità che rivestono i diritti umani, non è così?

Sì. Perché è parte della nostra storia. Prima di tutto dato quanto successo con i popoli originari, poi con la dittatura, e, in ultimo, con la repressione dei giovani manifestanti del 2019. I diritti umani saranno al centro dello Stato e del suo “che fare”. Come si vede chiaramente per quanto riguarda la formazione delle forze di sicurezza, interne ed esterne: i diritti umani sono al centro della formazione delle forze di polizia e delle forze armate. Tutto questo è il frutto di ciò che abbiamo vissuto. Credo che le costituzioni siano il riflesso di quello che una società è, e per questo per la società cilena è stato importante poter implementare questo tema.

La “defensoria del pueblo” (istituzione autonoma dallo Stato che servirà a sanzionare lo Stato e i privati che si macchieranno di crimini contro i diritti umani, ndr) e la “defensoria de la naturaleza” (istituzione autonoma che farà lo stesso in relazione ai diritti della natura e ai diritti ambientali), mi sembra siano altre due novità degne di nota, non trova?

Certo. Per fare in modo che quei diritti non restino solo sulla carta, abbiamo dovuto pensare a istituzioni in grado di garantirli. Oltre alle modifiche che abbiamo apportato al sistema giudiziario, con queste due istituzioni sappiamo ora a chi ci possiamo rivolgere in caso di problemi. Perché attualmente, come cittadini, “facciamo rimbalzare la palla”, come diciamo qui (giriamo come trottole, ndr), ossia chiediamo alle istituzioni di intervenire, e queste ci rimandano sempre a qualche altra istituzione, senza poter concludere nulla. Nessuna ci sostiene veramente. Tra l’altro, siccome è un processo economicamente dispendioso, alla fine molti si arrendono. Non hanno la capacità economica per riuscire a fare giustizia. Queste innovazioni garantiranno quei diritti fondamentali.

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Lei pensa che grazie al nuovo testo si potranno finalmente abbandonare i frutti velenosi del patto Post-dittatoriale? Mi riferisco in particolare all’economia neoliberista e allo Stato repressivo, che sono stati al centro delle proteste dell’Estallido Social.

La costituzione è solo un inizio. Per rendere reale quanto c’è scritto dipende moltissimo da cosa farà la classe politica e da cosa faremo noi cittadini. Innanzitutto ciò dipenderà se riusciremo a lasciarci alle spalle l’idea che la politica è negativa, perché, secondo la mia percezione, la maggioranza del popolo cileno si definisce come a-politico. Si dice spesso: “Non voglio entrare in questioni politiche”, “non mi interessa”. Ma tutto ciò sta cambiando, anche se è un cambiamento lento. Per poter arrivare a fare quello che lei mi sta domandando, dovranno succedere un paio di cose: prima di tutto che esista una connessione tra la nostra classe politica e la gente, la base. Basti ricordare che pochissime persone militano nei partiti e che esiste una grande scollamento tra la base e il vertice, e che questo è parte della profonda crisi politica e sociale che viviamo. In secondo luogo, c’è bisogno di rafforzare la partecipazione. Che la gente possa partecipare. E non mi riferisco al fatto che tutti diventino militanti di qualche partito, ma che lo facciano attraverso i meccanismi di partecipazione che abbiamo creato a tutti i livelli dello Stato (comunale, regionale, etc), o attraverso le istanze della democrazia diretta, per superare la visione negativa della politica che è anche il frutto di quello che voleva la dittatura nei confronti della popolazione. Le persone che partecipavano “troppo” alla politica dovevano essere de-politicizzati. Siamo diventati il riflesso di tutte le politiche neoliberiste che implementate durante quel periodo, ma anche di quelle implementate durante il ritorno alla democrazia, perché, alla fine, la costituzione del 1980 è diventata effettiva in democrazia. Insomma, penso che ci sia ancora moltissimo da fare e che non si risolve tutto il 4 di Settembre. Tuttavia, se vinceremo, sarà possibile continuare a lavorare per fare in modo che questi cambiamenti siano effettivi nei prossimi dieci anni. O forse qualcosa di più.

Quindi ciò che unisce i due problemi è che hanno portato alla de-politicizzazione della cittadinanza.

Esatto. È quello che ho vissuto come studente: c’era davvero poca partecipazione alle federazioni degli studenti. Non c’erano manifestazioni, come se non esistesse nessun problema. Questo continua ad accadere. Qualche anno fa le federazioni erano ancora molto politicizzate, anche se in termini di partito. Oggi sono presenti molti più studenti indipendenti in queste federazioni. Si vede che esiste una trasformazione. Penso che tale situazione potrebbe ancora cambiare in positivo, ma, per il momento, l’interesse della cittadinanza è ancora molto basso quando si tratta di affari pubblici, nella ricerca del bene comune o nella comprensione che quando si partecipa si possono ottenere dei miglioramenti sociali. Temo che su questo non abbiamo ancora fatto progressi, e che sia il frutto della visione neoliberista della società, dato che il neoliberismo, e il suo individualismo, ha lasciato un’impronta profonda.

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Il fatto di aver avuto un’assemblea costituente senza che venissero meno gli altri poteri istituiti, come il parlamento e il governo, non è qualcosa di strano per un processo costituente?

No… è che è la unica che abbiamo avuto sino ad ora… quindi non possiamo compararla con nient’altro. Le altre costituzioni sono state generate in contesti molto distinti (in dittatura, dopo una guerra civile, etc). Almeno, per quanto riguarda il processo cileno, mi sembra che sia stato naturale che essa si sia affiancata ad altri poteri. È come quando uno nasce: il contesto è quello che è, non lo puoi decidere. Sicuramente è stato complesso. Soprattutto per la presenza del settore più conservatore, che ha in mano il monopolio dei mezzi di comunicazione, che sono super concentrati. Abbiamo avuto tutto contro, a dir la verità. Ma questo, mi sembra, è ciò che il popolo cileno ha sempre vissuto: affrontare le cose difficili. Non ci è mai successo di ottenere quello di cui avevamo bisogno in maniera semplice. Lo abbiamo visto con la dittatura, ed è chiaro se guardiamo a tutta la nostra storia. Insomma, è stato complicato perché il governo di Piňera ci ha reso la vita molto difficile. Mentre con il secondo governo la relazione è diventata semplicemente più cordiale. Tuttavia penso di poter dire che l’autonomia del nostro potere, quello della Convenzione, è stata difesa durante tutto il processo.

In molti articoli della vostra proposta esiste un comma finale che rimanda il grosso dell’organizzazione giuridica al lavoro del potere legislativo. Questa costituzione permette una larga e importante interpretazione della sua lettera da parte del potere politico. Ciò potrebbe generare dei problemi?

A me non sembra. Questa è una “costituzione civica”. Quando si dovranno generare le leggi ordinarie, dovranno rispettare lo spirito che la informa. Sebbene non mi occupi di diritto, mi sembra che si possa dire che le leggi dovranno essere armonizzate a questo. La classe politica dovrà essere sufficientemente preparata per comprendere lo spirito con cui abbiamo redatto l’impianto delle norme. Tra l’altro, tutto è ormai registrato. Le discussioni, gli atti. Nessuno potrà dire: “Non ho ben capito in che termini interpretare questa o quella norma”. Dato che vengo dall’Università, posso dire senza problemi che per poter fare bene il proprio lavoro, uno si deve informare, studiare e poi, soltanto alla fine, realizzare il lavoro. In effetti, quello che lei sottolinea è stato oggetto di una lunga discussione. Alla fine abbiamo pensato che la cosa necessaria è che si riesca a superare la “democrazia della sfiducia”, che vige oggi, per arrivare ad una “democrazia della fiducia”. Ciò può succedere, però, solo se la classe politica sarà all’altezza: facendola finita con la corruzione, dando risposte alle necessità delle persone. Avevamo tutti lo sguardo incatenato, e pensavamo che nulla si potesse modificare, all’inizio. Poi, il senso comune e il dialogo tra di noi ci ha portato alla convinzione che la democrazia debba continuare il suo cammino, e che le generazioni del futuro potranno fare in modo che le proprie necessità vengano accolte, perché la società sarà distinta da qui ai prossimi dieci o quindici anni. Quindi, personalmente, vedo questo aspetto del testo costituzionale come un vantaggio, e non come un problema. Sempre che i cittadini e le cittadine siano all’altezza della sfida.

Perché è così importante la plurinazionalità dello Stato che voi proponete?

In Cile siamo tutti meticci, proprio come nell’attuale Latinoamerica, e abbiamo un debito nei confronti dei popoli originari, eliminati dallo Stato cileno per varie generazioni. A volte sono state annichiliti interi popoli originari, che il resto della popolazione sente vicini: durante l’Estallido, non a caso, tutte le marce avevano le bandiere mapuches. Basta rivedersi le foto. Esiste una vicinanza con queste popolazioni. I gruppi più conservatori non hanno questa prospettiva. Non hanno vicini mapuches, perché vivono in certe comunità isolate rispetto a queste realtà, dove si concentrano lo stesso tipo di persone. Che vanno alla stessa scuola sin da piccoli. Esiste, insomma, un’interessante endogamia in questa parte della popolazione, che non accetta la plurinazionalità. Quello che stiamo proponendo è necessario per migliorare in termini di pace sociale. Per farlo dobbiamo accettare la nostra diversità, e migliorare nel riconoscimento dei diritti dei popoli originari. Nonostante il Cile abbia sottoscritto il “Convenio del 2008” (Convenio 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro, che riconosce l’esistenza e i diritti dei popoli originali e tribali, ndr), lo ha fatto alla maniera cilena: solo un po’, quello che è possibile. Per noi, invece, maggiore è il riconoscimento e la partecipazione, maggiore saranno i miglioramenti in termini di pace sociale.

Ci sono diversi modi per affrontare il conflitto e la marginalizzazione nei confronti dei popoli originari. Perché avete assunto la plurinazionalità e non un’altra maniera di affrontare il problema?

Penso che, in questo senso, sarebbe interessante analizzare i programmi che hanno portato avanti i candidati poi eletti come rappresentanti costituenti. La maggior parte di loro includevano il riconoscimento della plurinazionalità nel programma. In molti casi, come nel mio, questa proposta è il frutto di un lavoro di base. Abbiamo partecipato a cabildos, riunioni, momenti di riflessione sul metodo, prima di poter definire il programma elettorale. Se uno osserva i cabildos del 2019, e poi quelli alla base dell’elezione dei rappresentanti convenzionali, si rende conto che è stata una proposta popolare, espressa chiaramente. Quindi non è solo una nostra idea, come convenzionali, ma espressione di una volontà popolare.

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Nonostante questo, sembra che il dibattito mediatico sull’elezione del 4 di Settembre sia principalmente incentrato sulla proposta della Plurinazionalità, che è quella che maggiormente viene rifiutata. Come mai?

Penso che l’agenda pubblica sia portata avanti dai mezzi di comunicazione di massa. Dato che in Cile esiste un’importante concentrazione del potere mediatico, non esiste pluralismo dei mezzi di comunicazione, perché 4 o 5 famiglie tra le più ricche del Paese hanno in mano l’80% del sistema mediatico, si genera una vicinanza tra potere politico, economico e mediatico. Ma non c’è niente di nuovo sotto il sole. Lo sappiamo da tempo. Da prima dell’Estallido. Questa sensazione di rifiuto e di razzismo che oggi è ben presente, non è casuale. Non è un’opinione del popolo, in generale. Penso che sia voluta. Per esempio, ero nella Pintana (comuna di Santiago del Cile, ndr), e nessuno esprimeva questa opinione. Al contrario, in questa comuna si fanno pubblicamente delle attività mapuches. Penso che esista uno scollamento con la realtà, e che si diffonda la paura e, a livello politico, la dottrina dello shock (teorizzata da Naomi Klein, ndr). Insomma, penso che esistano molte variabili che possano spiegare tutto questo, ma non è quello che si vede nelle strade, o nel dialogo popolare. Sino ad oggi ho fatto oltre settanta dibattiti pubblici territoriali, e non ho mai visto ciò che viene rappresentato a livello mediatico. Bisognerebbe vedere, tra l’altro, come sono stati costruiti i sondaggi. Mi sembra che stia succedendo quello che è successo nell’Estallido e nel Plebiscito d’ingresso (quello che ha deciso di mettere in piedi la Convencion Costitucional e archiviare la costituzione di Pinochet, ndr), ossia che i mezzi d’informazione siano ben scollegati dalla realtà sociale e dalla gente comune.

Sebbene non sono affatto contrario alla plurinazionalità, mi sembra che l’attuale testo potrà incorrere in un problema importante. Da un lato la costituzione definisce e garantisce l’autonomia territoriale, culturale, sociale, e politica delle comunità, mentre, dall’altro, le sottomette ad alcuni principi generali, come i diritti umani, gli strumenti democratici e il principio di partecipazione egualitaria. Potrebbe accadere in futuro, per questo, che l’autonomia politica di alcune comunità non sia esattamente conforme a quei diritti, al processo e ai principi democratici. Se dovesse passare questo nuovo testo costituzionale, pensa che tutto ciò potrà comportare un problema e generare alcuni conflitti?

Non credo sarà così problematico. I popoli originali hanno delle loro specifiche e molto interessanti forme di autonomia politica. E stiamo parlando di un 12% della popolazione, quindi di un gruppo che non è maggioritario. Ciò di cui abbiamo bisogno è che possano vedere riconosciuti i loro diritti e ottenere una parità di condizioni rispetto al resto della popolazione. Non lo vedo problematico anche perché l’autonomia sarà in qualche misura limitata. In generale, tra l’altro, bisogna ricordare che i popoli originari hanno collaborato con lo Stato, meno una parte del popolo mapuche, che è da sempre il più agguerrito. Sono cileni, come noi. Amano questo Paese e ne rispettano le tradizioni. Ballano la cueca (ballo tradizionale cileno, ndr) e rispettano la bandiera nazionale. Solo per quella parte dei mapuches che portano avanti un conflitto per via di molteplici fattori, e che sono concentrati in una parte determinata del Paese, potrebbe valere il discorso. Con loro è difficile che ci sia un dialogo, e anche questo governo ha avuto difficoltà a averlo. Il resto dei popoli vivono in pace, in povertà, marginalizzati. Sono vittime del razzismo. Hanno bisogno di uscire da questa condizione, e la proposto avanza positivamente su questo terreno. Per abbandonare la povertà e l’alcolismo, prodotti della mancanza di rispetto nei confronti delle loro cosmovisioni da parte dello Stato e del resto del popolo cileno, c’è bisogno di questa proposta. Sono popoli molto rispettosi con il fatto di condividere la parola. Lo posso dire direttamente, visto che ne ho avuto esperienza diretta al momento della “consultazione indigena” (momento di consultazione dei popoli originari rispetto alla nuova costituzione, ndr). Loro si sono fidati della nostra gestione per portare a termine la consultazione, nonostante la paura ancestrale di essere usati dagli altri. Collaborarono. E l’esercizio della parola, il parlare, è super importante per loro.

Da molti mesi, tutte le inchieste mostrano che vincerà il “rechazo” il 4 di Settembre. Si può spiegare come l’effetto della manipolazione e della distorsione del sistema mediatico, come nel caso della Plurinazionalità, oppure qualcosa di reale ed aderente alla popolazione cilena viene effettivamente mostrato?

Sicuramente ci sono molte persone che vivono bene sotto la vecchia costituzione e non vogliono cambiare. La vecchia è stata sancita con un Plebiscito fraudolento. Adesso è venuto il tempo di poter raggiungere un’altra forma di accordo sociale. Sicuramente questo gruppo che vuole conservare la vecchia ha usato la paura e la menzogna per convincere il resto della popolazione, e influire nella loro scelta. È un settore importante, che confonde altri gruppi sociali, che non hanno potuto realmente leggere la nuova proposta, anche perché esiste un problema importante di analfabetismo nel Paese. Ciò fa sì che non si acceda alla proposta in modo egualitario. Inoltre, come ricordavo, esiste un gruppo apolitico della popolazione, che non si interessa, né cerca di informarsi, a cui si può arrivare solo con il porta a porta. Però, oltre a questo, è un fatto che gli incontri pubblici a favore della nuova costituzione non trovino spazio nel sistema mediatico. Se durante la dittatura si usava il boicotoggio ufficiale delle iniziative democratiche, oggi si usa l’omissione. Basti pensare anche ai programmi tv dove si ripete sempre lo stesso ritornello e non c’è vera discussione, o peggio, si costruisce un conflitto fittizio attorno alle proposte. Se noi che siamo a favore siamo stanchi di tutto questo, immaginiamoci l’intera popolazione come può reagire. Qui diciamo: “Il popolo lo aiuta il popolo”. Penso che succederà la stessa cosa che è accaduta nel Plebiscito che ha dato vita al processo costituente: vedo ovunque cittadini e cittadine impegnati che cercano di informare, che donano il loro tempo a disposizione alla campagna per l’Apruebo. Per parlare con gli altri, per fare il porta a porta, o organizzare le piazze. Ciò succede alla base della società. Sono in molti ad andare alle attività che si stanno organizzando. Molti ripetono ciò che dice la televisione, all’inizio di questi incontri, è vero. Ma va anche detto che alcuni giornalisti main stream cominciano ad avere un altro atteggiamento, e smentiscono le menzogne che sono circolate sulla nuova costituzione. Da parte nostra facciamo campagna spiegando gli articoli con il testo alla mano. Non ci inventiamo nulla. Quello che ho visto è che le persone se ne vanno più tranquille da questi incontri, con la voglia di informarsi di più e di mettersi a leggere. Perciò ho fiducia nel lavoro di base, e continuo a nutrire speranza. La stessa di sempre.

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*Emanuele Profumi è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista freelance. Insegna Scienze della Politica all’Università di Viterbo. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le “Inchieste politiche”) sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012).

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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Il tentativo di omicidio contro la donna più potente d’Argentina infiamma ancora di più gli animi in un Paese violentemente polarizzato e immerso nella peggiore crisi economica degli ultimi venti anni.


La visita di Pelosi e la nuova normalità a Taiwan


Le aziende ora sono giustamente più preoccupate per lo scoppio delle ostilità nello Stretto di Taiwan e il suo impatto sulla sicurezza fisica, sui beni/investimenti e sulla continuità aziendale. Data la risposta cinese alla visita del presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan il 2-3 agosto 2022, si ritiene che il rischio [...]

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Carlo Alberto dalla Chiesa: quarant’anni da via Carini


La sfida epocale che ci lancia il quarantennale della strage di Via Carini, in cui persero la vita anche Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale, e l’agente di scorta Domenico Russo, è allora quella di ragionare sullo stato di salute del rapporto che

Nell’intervista che ci ha rilasciato in occasione del centenario della nascita del Generale (ilcaffeonline.it/2020/09/27/fe…), il professor Nando dalla Chiesa ha fornito ai lettori de «ilcaffeonline» due spunti particolarmente importanti.

In primo luogo ci ha tolto ogni illusione: gli italiani la corruzione ce l’hanno nella testa e non basteranno dieci anni per estirpargliela, ma ci vorranno secoli.

In secondo luogo, alla domanda su quali “frutti” abbia dato, contro l’intenzione dei suoi carnefici, l’assassinio di Carlo Alberto dalla Chiesa, ha risposto senza indugio che la scuola di suo padre è stata quella del “primato delle istituzioni”. Non in contrapposizione con la famiglia e il suo valore, bensì in armonia con essi, poiché tra le funzioni della prima e fondamentale delle istituzioni vi è proprio la trasmissione del senso dello Stato.

La sfida epocale che ci lancia il quarantennale della strage di Via Carini, in cui persero la vita anche Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale, e l’agente di scorta Domenico Russo, è allora quella di ragionare sullo stato di salute del rapporto che noi italiani intratteniamo con le istituzioni, cioè con la Costituzione e con la nostra storia.

Per ragioni logiche non si può che partire dalla scuola, alla quale compete la trasmissione del contenuto e dell’ethos della Carta. La domanda, formulata qualche anno fa dall’ANCI, di introdurre o, meglio, reintrodurre l’insegnamento dell’educazione civica, in quanto vera e propria disciplina dotata di un monte ore e di un voto, ha ottenuto una risposta politica con la legge 92/2019. Si tratta di una norma che presenta diverse criticità, ma che certamente ha il merito di costringere ogni collegio docenti ad affrontare sistematicamente, a livello didattico, la formazione civile delle ragazze e dei ragazzi, attraverso la produzione di curricoli efficaci e valutabili.

Ciò sta avendo una ricaduta positiva, anzitutto, su noi insegnanti, costringendoci a prendere conscienza del nostro rapporto con la Costituzione e con la politica – che è come dire con la virtù della speranza (vera e propria competenza professionale per un insegnante) – sia attraverso inevitabili discussioni sia grazie a corsi di aggiornamento (non tutto oro, ovviamente) dedicati ai molti importanti temi inerenti l’insegnamento dell’educazione civica. Come andrà con i ragazzi lo vedremo tra qualche anno (intanto loro ci danno diverse lunghezze sui temi dell’ambiente e dei diritti).

Che dire della politica o, meglio, di chi fa politica? Una tessera di partito continua a contare più delle istituzioni? Discorsi universali non se ne possono fare. Se faccio riferimento alla mia esperienza riesco a sentire una silenziosa foresta che cresce. Certo, parlare di contrasto al riciclaggio (e in generale delle mafie) continua a non portare voti e ancora troppo spesso le logiche che governano la costruzione delle liste e la suddivisione degli incarichi di governo e sottogoverno sono di tipo spartitorio, tra correnti e filiere (per non dire clientele).

Ma ho conosciuto anche tanti militanti, amministratori, deputati e senatori che davvero hanno a cuore le istituzioni. E sono disposti a difenderle con coraggio e a renderle efficaci e prossime sudando su documenti complessi o a corsi di formazione. E ovviamente consumando suole in giro per i territori che amministrano o rappresentano.

Sono processi lunghi, è ovvio. Non toccherà a noi vedere la terra promessa, ma certo abbiamo il dovere di perseverare nel cammino e nella rotta indicata da Carlo Alberto dalla Chiesa. Quel che soprattutto dobbiamo fare, però, è connettere l’impegno che viene dalla società con quello della parte migliore della classe dirigente, come minimo attraverso un’attenta selezione della medesima (il 25 settembre ne avremo l’occasione, non perdiamola!), ma anche senza temere di impegnarci direttamente. Magari prendendo una tessera di partito e facendola contare meno delle istituzioni.

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Tigray, Affrontare l’Assedio Abusivo dell’ Etiopia


La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in silos bloccati a seguito dell’invasione su vasta scala della Russia,…

La prima nave noleggiata dalle Nazioni Unite che trasportava grano ucraino, che era rimasta in silos bloccati a seguito dell’invasione su vasta scala della Russia, ha attraccato a Gibuti il ​​30 agosto. Il passaggio gratuito di questa spedizione, destinata all’Etiopia, ha seguito la pressione concertata dell’Africa governi sulla Russia e negoziati guidati dalle Nazioni Unite. Ma sono necessari più forza diplomatica, anche da parte dei paesi africani, per porre fine alla stretta soffocata da quasi due anni del governo etiope sull’assistenza umanitaria alla regione assediata del Tigray. Altrimenti, è improbabile che molti degli etiopi più a rischio di fame ne traggano beneficio.

L’Etiopia è uno dei sei paesi che le Nazioni Unite hanno individuato per avere persone a rischio di fame. Milioni di persone nel sud e nell’est del Paese sono alle prese con livelli allarmanti di fame e malnutrizione a causa di una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Le comunità nelle aree colpite dal conflitto nel nord del paese fanno affidamento sull’assistenza umanitaria. Ma è nella regione del Tigray, in particolare, che una grave crisi di fame persiste da oltre un anno e potrebbe essere invertita attraverso azioni del governo.

Dallo scoppio della guerra nel Tigray nel novembre 2020, le forze etiopi e i loro alleati hanno frequentemente violato illeggi di guerra. Hanno saccheggiato e preso di mira case e infrastrutture civili – crimini che le forze del Tigray avrebbero poi replicato in altre regioni – interrompendo i servizi di base e ostacolando gravemente gli aiuti ai civili coinvolti nei combattimenti. Quindi le autorità hanno imposto un effettivo assedio all’intera regione, escludendo praticamente tutta l’assistenza umanitaria ai civili in violazione del diritto interno etiope, dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario.

Per i primi otto mesi del conflitto, le forze etiopi e i loro alleati hanno saccheggiato aziende, ospedali, banche, bestiame e raccolti, lasciando la regione dipendente dall’assistenza. L’impatto di questa distruzione è stato devastante. Ha impedito alle persone di ottenere assistenza sanitaria , cibo e altri servizi di base e ostacolato il recupero di un sistema sanitario rotto dal conflitto. Per mesi, le forze federali e regionali hanno bloccato le strade, rendendo quasi impossibile per attori privati ​​o agenzie umanitarie trasportare forniture mediche o cibo. Rifornimenti ridotti a livelli allarmanti.

I ricercatori di Human Rights Watch hanno parlato a febbraio con medici che avevano curato dozzine di sopravvissuti a un attacco mortale di droni senza accesso a fluidi per via endovenosa o guanti protettivi. Un giornalista che si è recato in Tigray tra la fine di maggio e l’inizio di giugno ci ha detto di aver visto “fame ovunque”. Ad agosto, le Nazioni Unite hanno avvertito che un bambino tigrino su tre di età inferiore ai 5 anni è gravemente malnutrito.

Da quando il governo etiope ha dichiarato una tregua umanitaria alla fine di marzo, i convogli umanitari precedentemente bloccati dall’ingresso nel Tigray stavano finalmente arrivando nella regione. Ma ciò che stava ottenendo non si avvicinava a soddisfare le crescenti esigenze di una popolazione vulnerabile. Con le consegne di carburante e i flussi di cassa ostacolati, e il governo che continua a tenere chiuse le banche e le telecomunicazioni, le organizzazioni umanitarie stanno lottando per salvare vite umane.

La ripresa dei combattimenti nel nord dell’Etiopia il 24 agosto mette ulteriormente a rischio gli sforzi delle agenzie umanitarie. Un portavoce delle Nazioni Unite ha osservato che i combattenti del Tigray sono entrati in un magazzino delle Nazioni Unite nella capitale del Tigray, Mekelle, e hanno sequestrato 12 autocisterne destinate all’uso umanitario. Le forze del Tigray si sono anche spinte nella vicina regione di Amhara. Secondo quanto riferito, un attacco aereo del governo etiope a Mekelle il 26 agosto ha colpito un asilo e ucciso almeno sette persone, compresi i bambini. Da allora la consegna di forniture umanitarie su strada rimane sospesa , così come i voli umanitari. L’assedio nel Tigray rimane molto attivo.

Gli attacchi aerei e il saccheggio delle limitate scorte di carburante danneggeranno solo i Tigrini che stanno già subendo gli effetti del conflitto e dell’assedio. La maggior parte delle persone nel Tigray non può acquistare il cibo disponibile perché il costo dei prodotti di base continua a salire. Un residente della città di Shire ha affermato che il costo del teff, un cereale che è uno dei principali alimenti di base del paese, è triplicato negli ultimi cinque mesi.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha cercato di affrontare le ampie restrizioni sugli aiuti e sui beni essenziali nei conflitti in Yemen e Sud Sudan, approvando una risoluzione nel 2018 che condannava il rifiuto illegale degli aiuti umanitari salvavita e dei servizi essenziali come strategia di guerra. Nella speranza di impedirlo altrove, la risoluzione del Consiglio di sicurezza invita espressamente il segretario generale delle Nazioni Unite a informare rapidamente il consiglio quando sorge il rischio di carestia indotta dal conflitto.

Eppure, di fronte a flagranti violazioni della sua stessa risoluzione in Etiopia, il Consiglio di Sicurezza non ha mai sanzionato i maggiori responsabili di azioni illegali durante il conflitto. Inoltre, il consiglio non ha nemmeno inserito l’assedio in corso nel Tigray nella sua agenda formale.

La diplomazia africana concertata intorno alla crisi del grano in Ucraina e al blocco russo è in netto contrasto con l’inerzia dell’Africa nei confronti dell’Etiopia nel Consiglio di sicurezza. I tre membri eletti che rappresentano l’Unione africana nel Consiglio di sicurezza – Gabon, Ghana e Kenya, noto come A3 – hanno ripetutamente bloccato qualsiasi discussione pubblica sull’Etiopia, consentendo a questo palese disprezzo per le norme internazionali di persistere.

Nel frattempo, l’Etiopia ei suoi partner nella regione e oltre hanno consentito che l’accesso ai beni di prima necessità diventasse una merce di scambio politica. Il ministro degli Esteri dell’Etiopia ha recentemente affermato che i servizi di base non saranno ripristinati fino a quando le due parti non inizieranno i colloqui di pace, mentre le autorità del Tigray vogliono che i servizi vengano ripristinati prima che i colloqui possano iniziare. Con la ripresa dei combattimenti, è ancora più essenziale per il mondo chiarire che i negoziati e l’accesso agli aiuti devono essere disaccoppiati.

Allora, cosa si deve fare?


Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, a cominciare dall’A3, e l’Unione africana devono agire ora. Dovrebbero chiedere pubblicamente all’Etiopia di revocare completamente la sua stretta sugli aiuti umanitari disperatamente necessari e la chiusura dei servizi di base. Dovrebbero insistere affinché le parti in guerra, comprese le forze del Tigray, rispettino il diritto internazionale e facilitino l’assistenza a chi ne ha bisogno senza alcuna precondizione o ritardo. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe tenere un dibattito pubblico per affrontare la fame indotta dal conflitto e inserire l’Etiopia nell’agenda regolare del consiglio.

È fondamentale che tali pratiche governative non siano normalizzate. I responsabili del blocco di cibo, carburante e medicinali, nonché dell’utilizzo dei servizi di base come merce di scambio, dovrebbero essere ritenuti responsabili. Coloro che usano la fame di civili come metodo di guerra ostacolando i rifornimenti di soccorso o privando i civili di ciò di cui hanno bisogno per la loro sopravvivenza possono essere perseguiti percrimini di guerra. Affinché ciò avvenga, sarà fondamentale anche il proseguimento del lavoro della Commissione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Etiopia, che sarà rinnovato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra a settembre.

L’impegno dell’Africa e delle Nazioni Unite sul blocco della Russia nel Mar Nero ha dimostrato quale pressione pubblica combinata con la diplomazia può fornire sugli aiuti umanitari. Le navi in ​​partenza dai porti ucraini carichi di grano sono il miglior tipo di dividendo di tale approccio. Ma abbiamo anche visto il contrario: una crisi in gran parte dimenticata in Etiopia, dove la fame armata di un’intera regione non ha generato neanche lontanamente la stessa attenzione. A meno che la comunità internazionale non si raduni per garantire che tutti nel Tigray abbiano pieno accesso all’assistenza umanitaria, le spedizioni di grano che finalmente arrivano in Etiopia potrebbero non arrivare a una delle popolazioni più bisognose. Se questo è il risultato finale, l’accordo sul grano sarà una vittoria vana.


Kenneth Roth – Ex Direttore Esecutivo del HRW – Human Rights Watch

FONTE: hrw.org/news/2022/08/31/confro…


tommasin.org/blog/2022-09-03/t…



ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Oggi tifiamo Cile


Se per uno scherzo del destino i sondaggi dovessero essere smentiti, potrebbe essere un piccolo grande tsunami

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Khalil Awawdeh sospende lo sciopero della fame. Sarà liberato il 2 ottobre


Due giorni fa la Corte Suprema di Giustizia israeliana aveva rigettato la petizione che chiedeva il suo rilascio. Il detenuto, senza processo, era in “imminente pericolo di morte” dopo oltre 170 giorni di digiuno L'articolo Khalil Awawdeh sospende lo sci

AGGIORNAMENTO ORE 22

Il prigioniero politico palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 172 giorni contro la sua detenzione “amministrativa” (senza processo), ha annunciato di aver sospeso il suo sciopero della fame dopo che le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 2 ottobre. La liberazione di Awawdeh rientrava in un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e il Jihad islami che ha posto fine a tre giorni di attacchi aerei israeliani alla Striscia di Gaza il 7 agosto e lanci di razzi verso Israele che hanno ucciso circa 50 palestinesi tra cui 17 bambini e quattro donne.

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di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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GAZA. Farouq, 6 anni, morto in attesa di un permesso che non è mai arrivato


Provoca sdegno la morte il 25 agosto del bambino palestinese, gravemente ammalato, rimasto in attesa per mesi del via libera delle autorità militari israeliane per curarsi a Gerusalemme. Un caso non isolato. Sono centinaia che ogni anno chiedono di uscire

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – Il caso Farouq Abu Naja, il bimbo di 6 anni gravemente ammalato al quale, denuncia il centro per i diritti umani Al Mezan, le autorità militari israeliane non ha consentito di uscire dalla Striscia di Gaza e di raggiungere l’ospedale Hadassah di Gerusalemme (dove era atteso), ha riportato sotto i riflettori le restrizioni discriminatorie ai movimenti e il sistema di permessi imposti ai pazienti palestinesi che ostacolano il loro accesso agli ospedali al di fuori di Gaza. Secondo Al Mezan le richieste di permesso di uscita dei pazienti presentate alle autorità israeliane tra il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di salute di Farouq e alla sua morte giovedì 25 agosto.

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Farouq Abu Naja

Pagine Esteri vi invita a leggere l’approfondimento sull’impatto delle limitazioni al trasferimento di malati dalla Striscia di Gaza, scritto dal dottor Angelo Stefanini, medico, già responsabile dell’ufficio dell’OMS per i Territori palestinesi occupati, e da anni medico volontario per conto della ong PCRF-Italia.

di Angelo Stefanini

La sofferenza collettiva che subisce la popolazione della Striscia di Gaza non è causata soltanto dalle bombe, ma dalla “violenza burocratica”, ordinaria e oscena, esercitata da un meccanismo perverso di “autorizzazione alla sopravvivenza” a cui migliaia di malati gravi devono sottostare per potere accedere a cure non disponibili all’interno della Striscia.

La prolungata crisi umanitaria di Gaza è principalmente il risultato combinato dell’assedio illegale imposto da Israele e della sistematica distruzione delle infrastrutture pubbliche e private. Molte delle attuali restrizioni, originariamente volute dalle autorità israeliane all’inizio degli anni ’90, sono state intensificate dopo il giugno 2007, in seguito alla presa di controllo su Gaza da parte di Hamas, quando le autorità israeliane hanno imposto un blocco al passaggio, da e verso la Striscia, di persone, mezzi di sussistenza e servizi essenziali. Come conseguenza, il sistema sanitario soffre di una crescente carenza in attrezzature, personale e forniture di elettricità e acqua.

Nel caso in cui a Gaza non siano disponibili cure mediche specialistiche o salvavita, i medici devono indirizzare i malati verso ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele, o altrove all’estero, a spese dell’Autorità Palestinese. Al momento dell’invio, il paziente entra in un lungo, oneroso e opaco percorso di autorizzazioni che inizia con una domanda alle autorità sanitarie palestinesi e si conclude con la risposta delle autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez sul confine con Israele.

I malati sono l’unico gruppo vulnerabile che gode di una certa clemenza riguardo al divieto generale di movimento che Israele impone agli abitanti di Gaza; tuttavia, mentre tale “esenzione umanitaria” consente alla maggior parte dei pazienti (muniti di permesso di invio, copertura finanziaria dall’Autorità Palestinese e appuntamento fissato) di accedere agli ospedali fuori dalla Striscia, a centinaia di loro viene impedito ogni mese di uscire. Nonostante seguano le procedure stabilite dalle autorità israeliane e dimostrino, attraverso referti medici, l’assoluta necessità del trasferimento, sempre più spesso, infatti, le richieste sono ritardate o respinte dalle autorità israeliane, con i malati lasciati in preda alle loro precarie condizioni di salute o alla morte. Uno studio dell’OMS sulla sopravvivenza comparativa dei malati di cancro nella Striscia di Gaza ha dimostrato una mortalità significativamente maggiore nei pazienti che non hanno ottenuto da Israele il permesso di uscire dalla Striscia per accedere a cure mediche adeguate, rispetto a quelli che l’hanno ottenuto.

Inoltre, il processo di richiesta del permesso comporta inevitabilmente stress, ansia e talvolta traumi nei pazienti e nelle loro famiglie che hanno sopportato per anni ritardi e cure mediche negate e a cui negli ultimi mesi Israele ha inasprito le restrizioni già rigorose senza chiari motivi. Inoltre, a causa della situazione economica di Gaza, il Ministero della salute palestinese deve sostenere un numero crescente di malati che necessitano di assistenza pubblica gratuita e di conseguenza i tempi di attesa possono allungarsi per anni.

Le decisioni israeliane di rifiuto all’autorizzazione vengono a volte ribaltate grazie al coinvolgimento di rappresentanti legali. Il lavoro del Gaza Community Mental Health Programme ha dimostrato che, nonostante le difficoltà crescenti e il lungo percorso da compiere, in mancanza di altre opzioni i pazienti mantengono la speranza nella concessione del permesso. L’attesa e la relativa impotenza a cambiare la situazione hanno gravi ripercussioni sulla salute mentale dei malati, che spesso necessitano di farmaci per gestire la costrizione psicologica che accompagna il processo.

Tipi di malati gravi che necessitano di cure al di fuori di Gaza:

  • Pazienti oncologici che necessitano di chirurgia, chemioterapia o radioterapia. Gli ospedali di Gaza non dispongono delle attrezzature per l’assistenza olistica come PET e scanner a radioisotopi.
  • Pazienti cardiopatici: di fronte ai circa 500 pazienti adulti che necessitano di un intervento chirurgico a cuore aperto ogni anno, Gaza ha un solo centro di cardiochirurgia che può eseguire 196 interventi chirurgici di quel tipo all’anno.
  • Pazienti pediatrici: il Ministero della Salute segnala annualmente oltre 300 bambini che soffrono di disordini metabolici, difetti congeniti e malati di cancro che richiedono cure al di fuori di Gaza.
  • Pazienti oculistici: gli ospedali di Gaza non hanno attrezzature né competenze adeguate a trattare problemi della camera posteriore del bulbo oculare, o i trapianti di cornea.
  • Pazienti con malattie ossee: la carenza di protesi articolari, acutizzata dal blocco e dalle ferite prodotte dagli assalti armati israeliani, è il principale fattore determinante il bisogno di trasferimento in ospedali al di fuori di Gaza.
  • Pazienti neurochirurgici: a Gaza mancano attrezzature e competenze in questo tipo di microchirurgia.

Criteri e fasi del trasferimento

Quando a Gaza un malato grave viene informato che la procedura diagnostica o il trattamento di cui ha bisogno non è disponibile localmente, riceve un dettagliato rapporto ufficiale sul suo caso e su quanto necessario per poter essere inviato ad altro ospedale fuori dalla Striscia. Il rapporto è approvato dai direttori ospedalieri e trasmesso al Ministero della Salute (MdS) palestinese che, in collegamento con gli ospedali in Cisgiordania, Gerusalemme est, Israele o altrove, prenota un appuntamento. Successivamente, il MdS invia i rapporti e la data dell’appuntamento al ministero incaricato di mantenere i contatti con l’occupazione israeliana, il Ministero degli Affari Civili (MoCA). Il MoCA a sua volta presenta la richiesta di autorizzazione di invio del paziente, con il giorno dell’appuntamento fissato, al Coordinatore delle attività di governo nei territori (COGAT), l’unità del Ministero della Difesa israeliano che si occupa delle questioni civili nei territori palestinesi occupati.

Il monitoraggio di Al Mezan Centre for Human Rights indica che, anche nel caso in cui i pazienti seguano tutte le procedure previste fino all’ultimo passo dell’appuntamento fissato, non è comunque garantita la concessione di un permesso. Le politica israeliana di severe restrizioni al movimento rimane una barriera insormontabile per molti pazienti, anche se l’ospedale è a solo una o due ore di automobile.

Il processo di richiesta di autorizzazione può seguire tre percorsi: il primo riguarda le domande prioritarie per accedere a un intervento medico immediato aggirando le citate commissioni deliberanti e formulando la richiesta di trasferimento dal MdS entro 24 ore. Se tale richiesta è respinta dalle autorità israeliane, viene rapidamente intrapreso un altro processo accelerato (inadeguato per i pazienti che non possono permettersi un’attesa di uno o due giorni). Il secondo percorso riguarda le domande urgenti di pazienti in condizione critica, ad es. i pazienti oncologici, ma senza bisogno di un intervento immediato, che vengono esaminate da un comitato decisionale del MdS con l’appuntamento nell’ospedale di riferimento in genere fissato a due settimane dalla richiesta. Ogni ritardo da parte delle autorità israeliane oltre questo periodo richiede che il paziente ottenga un nuovo appuntamento nell’ospedale e ricominci da capo il processo di richiesta. Infine, le domande normali per pazienti meno urgenti seguono un terzo percorso che può durare da oltre due settimane a diversi mesi. Anche in questo caso, ogni ritardo oltre l’appuntamento ospedaliero o il rifiuto del permesso da parte delle autorità israeliane significa che il paziente deve fissare un nuovo appuntamento in ospedale ricominciando dall’inizio.

È importante notare che una domanda approvata non si traduce necessariamente in un esito finale positivo, a causa degli interrogatori, ritardi, molestie, ostacoli e arresti di pazienti o accompagnatori al valico di Erez che si possono frapporre sulla strada per l’ospedale. La pratica dell’arresto degli accompagnatori o la mancata concessione del loro permesso ha gravi ripercussioni anche sui pazienti, poiché quest’ultimi non sono in genere autosufficienti durante il viaggio da e per l’ospedale, e durante la degenza. In alcuni casi, bambini palestinesi sono stati costretti a recarsi in ospedali fuori dalla Striscia di Gaza senza i loro genitori.

A volte le autorità israeliane rispondono con un esplicito rifiuto alla richiesta di permesso accampando ragioni “di sicurezza”, poiché qualcuno potrebbe approfittarne per compiere attacchi contro Israele. Tuttavia, i motivi addotti da Israele nei confronti dei pazienti sono smentiti dalla comune pratica di concedere nulla osta a malati consentendo loro di viaggiare per poi bloccare o rifiutare i permessi per gli stessi pazienti con il pretesto dei requisiti di sicurezza.

Succede anche che le autorità israeliane respingano il permesso a un malato di cancro che ha già subito un ciclo di cure al di fuori di Gaza, durante il percorso terapeutico, interrompendo così il trattamento prescritto. Un ulteriore processo di richiesta deve allora essere di nuovo avviato dall’inizio. Tali pratiche confutano chiaramente le asserzioni di Israele sui problemi di sicurezza, dal momento che al paziente era già stato consentito il passaggio attraverso Erez almeno una volta prima del rifiuto.

I dati forniti dalla Direzione Coordinamento e Collegamento del MdS mostrano negli ultimi anni un costante aumento del tasso di risposte che giungono in ritardo: dal 14% del 2014 a una media del 44% nel 2017. Nel 2021 il 36% delle 15.301 richieste presentate è stato respinto, non ha ricevuto risposta o è stato ritardato con vari pretesti.

Nonostante l’esame approfondito delle cartelle cliniche compiuto dalle commissioni mediche palestinesi specializzati, le autorità israeliane bloccano sempre più i pazienti ritardando le risposte. Quando il malato non riceve risposta dalle autorità, è a quel punto costretto a cercare un altro appuntamento che, se confermato, esige una nuova domanda di permesso di uscita. Questa sequenza può essere ripetuta più volte, con appuntamenti in scadenza, nuovi appuntamenti fissati e domande di autorizzazione ripresentate, senza che venga concesso un permesso di uscita.

Il ritardo è la modalità più penosa per i pazienti per lo stress aggiuntivo dovuto al timore che l’autorizzazione non arrivi in tempo per il giorno dell’appuntamento. Rappresenta anche un modo, decisamente perverso, facendo perdere un appuntamento dietro l’altro, di vanificare le attese di un ricovero ospedaliero in cui il malato vede l’ultima speranza di sopravvivenza.

Durante l’attesa, ai pazienti può essere richiesto di presentarsi per un colloquio con le autorità di sicurezza israeliane al valico di Erez, come prerequisito per la concessione del permesso. Questo momento, considerato da Israele come parte dello screening di sicurezza, mette il paziente e/o il suo accompagnatore in una posizione molto vulnerabile e la mancata presenza significa che la richiesta di permesso viene automaticamente respinta.

Tra il 2014 e il 2017 sono stati convocati a colloquio oltre 1.660 pazienti e accompagnatori. Molti di loro hanno riferito di essere stati sottoposti a veri e propri interrogatori con richieste di informazioni sulla situazione della sicurezza a Gaza e su parenti, vicini e amici. Ad alcuni pazienti è stato chiesto di collaborare con i servizi di sicurezza israeliani in cambio dell’accesso alle cure mediche. Alcuni che si sono rifiutati hanno visto respinta la richiesta di permesso dalle autorità israeliane. E ‘ noto il caso di almeno un paziente percosso durante il colloquio dagli agenti di sicurezza israeliani, in particolare nelle parti del corpo per le quali erano richieste cure mediche.

Il diritto internazionale vieta l’uso della coercizione fisica e morale contro le persone protette per ottenere informazioni sensibili. Tale pratica rientra nei criteri di definizione di tortura dell’UNCAT. Sono documentati casi in cui i servizi di intelligence israeliani hanno chiamato i pazienti per un colloquio, solo per poi rimandarli a Gaza dopo avere ispezionato i loro telefoni cellulari per raccogliere dati e ottenere informazioni private.

In una lettera al Ministro della difesa israeliano, procuratore generale e capo del COGAT, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno chiesto la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono ai pazienti di Gaza di accedere alle cure di cui hanno bisogno. Il blocco della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, che costringe i malati bisognosi di cure non disponibili a Gaza ad affrontare interminabili processi burocratici, procedure di sicurezza arbitrarie e l’incertezza dell’esito finale.

Nel 2002, durante la seconda Intifada, allora responsabile dell’ufficio dell’OMS per i territori palestinesi occupati, scrivevo ad amici: “Quotidianamente vedo, sento e tocco con mano quello che a volte mi appare come ‘il male’ nella sua forma più ‘sofisticata’. La brutalità che vedo sempre più chiara non è tanto nelle azioni violente come i bombardamenti, ma in azioni molto meno visibili e per questo quasi mai riportate dai grandi media…[..] Quello che più mi spaventa è che in questo modo è proprio Israele a fissare gli standard morali a cui gli altri devono adeguarsi.”

La situazione non è migliorata e tutti noi continuiamo ad esserne responsabili. Pagine Esteri

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Gorbaciov e quella voglia di cambiare in testa


Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile (Philip Roth) La morte di Mikhail Sergeevic Gorbačëv, uomo, politico e personalità dallo spessore fondamentale nella storia recente della Russia e del mondo chiude definitivamente con il XX secolo, secolo breve o lungo che sia secondo opposte interpretazioni [...]

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Il Cardinale Carlo Maria Martini come imprenditore sociale


In questi giorni, nel decennale della morte del cardinale Carlo Maria Martini (Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002), questa figura ieratica di grande gentilezza è stata vista sotto varie e molteplici angolature: uomo di fede, gesuita, teologo e biblista, grande mediatore, altamente diplomatico, professore e rettore. Figura ed opere di uno dei vescovi che [...]

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Bambino in una scatola


Un bambino appena nato abbandonato è sempre una notizia triste, che ci lascia amareggiati e sconvolti. L’ultimo di questi casi riguarda un bambino lasciato appena nato, con il cordone ombelicale appena chiuso, in una scatola di scarpe nel parcheggio di un

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Un bambino appena nato abbandonato è sempre una notizia triste, che ci lascia amareggiati e sconvolti. L’ultimo di questi casi riguarda un bambino lasciato appena nato, con il cordone ombelicale appena chiuso, in una scatola di scarpe nel parcheggio di un ospedale. Un’infermiera, andando al lavoro la mattina presto, l’ha sentito piangere e, fortunatamente, l’ha messo in sicurezza.

Riguardo a questa vicenda ho letto alcuni commenti di questo tipo: “chissà la disperazione della madre” e, ancora, “l’abbiamo lasciata sola, non siamo stati capaci di essere vicini a quella donna”.

Ecco, sono commenti che non mi convincono affatto, perché sono rivelatori della concezione di libertà e, di conseguenza, di responsabilità di ciascuno di noi. Questa storia della colpa che è sempre della società è una cretinata: presuppone che siamo collettivi, che siamo sbagliati alla nascita e, quindi, abbiamo tutte le colpe. È un modo di pensare che deresponsabilizza.

In Italia vige una legge assolutamente civile che consente ad una donna in stato interessante di andare in ospedale, partorire e, se non intende tenere il bambino, può lasciarlo in ospedale nel totale anonimato. Questa legge è importante, perché mette in sicurezza un bambino appena nato.

Se la donna partorisce per i fatti suoi e lascia il bambino in una scatola di scarpe non è una poverella. È una criminale da acchiappare. Tanto è vero – ed è giusto così – che c’è un’indagine aperta, perché questa donna ha commesso un reato. Innanzitutto, c’è l’abbandono di minore, ma potrebbe starci anche il tentato omicidio. Infatti, per quel bambino poteva andare in modo diverso: poteva essere messo sotto da una macchina, visto che era notte e buio. Poteva non avere la forza di piangere e, quindi, morire.

Perché bisogna essere comprensivi? Perché nella mentalità dei cosiddetti “comprensivi” c’è il fatto che ciascuno di noi non è responsabile delle proprie azioni. La responsabilità è sempre della società, della collettività, della legge o dello Stato.

Invece no, perché ciascuno è artefice della propria vita. Ciascuno di noi fa le proprie scelte e ne paga le conseguenze o ne incassa i benefici, perché il merito è personale e, quindi, anche la responsabilità è personale e non della collettività.

Se uno studente studia e va avanti prendendo buoni voti, il merito è suo. Se, invece, non vuole studiare e non apprende niente la responsabilità è sua e, finché minorenne, anche dei genitori che non lo prendono a scapaccioni.

Quello che vuole lavorare, cerca il lavoro, lo trova e ha un reddito e questo è un beneficio per lui, è un suo merito e, quindi, giustamente, ne incassa i risultati.

Non c’è la società che ci corrompe. Sì, è vero che siamo praticamente delle pecore, perché chi non ha la responsabilità di quello che fa è un gregge che viene portato al pascolo da una presunta responsabilità collettiva.

Quindi, fortunatamente, questo bambino è stato preso e messo in assoluta sicurezza. La sua partenza non è stata delle migliori, ma avrà sicuramente una vita migliore di quella disgraziata che l’ha lasciato in quelle condizioni e che è bene che paghi e che si assuma le proprie responsabilità.

Bisogna capire che si è responsabili delle scelte​ che si fanno.

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Cile: la Costituzione è la più progressista, e i cileni?


La Costituzione più progressista alla prova della lungimiranza dei cileni. Persone fisiche, popoli, Nazioni indigene e natura saranno soggetti di diritti

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Nella corsa a due tra Liz Truss e Rishi Sunak, l’ex ministra degli esteri è in pole per diventare nuovo premier, ma gli elettori già rimpiangono Boris Johnson. L’attesa è finita.


Contro-lavori in corsoUno sfondamento oltre le prime linee russe, e notizie di azioni decise e forti combattimenti nel sud del paese.


Regno Unito: le grane di Liz


Liz Truss il 6 settembre sarà probabilmente il nuovo Primo Ministro del Regno Unito. Ecco le sfide principali in patria e all'estero della signora di Downing Street

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Consumati


Siamo elettori, ma anche consumatori. Siamo le stesse persone, ma che si tratti di votare o consumare sia il comportamento che la comunicazione sono assai differenti. Non relativamente alla tecnica, dato che la politica ha imparato da tempo ad usare il ma

Siamo elettori, ma anche consumatori. Siamo le stesse persone, ma che si tratti di votare o consumare sia il comportamento che la comunicazione sono assai differenti. Non relativamente alla tecnica, dato che la politica ha imparato da tempo ad usare il marketing e la pubblicità, è diversa proprio la sostanza.

Quando si tratta di consumare usiamo un metro e un approccio positivo. Scelgo di mangiare quel che mi piace, di vestire quel che considero adeguato, di viaggiare dove m’interessa o mi diverto. Nello scegliere tengo conto dei limiti e delle possibilità, mi regolo a seconda dei soldi che credo di potere spendere e se anche non compro la cosa che considero migliore, scelgo quella che ha il migliore rapporto fra qualità è prezzo.

Non compro quel che so essere una schifezza. Da compratore, insomma, ho un atteggiamento positivo e razionale. Non mi capiterà si volere mangiare spinacino solo perché uno che mi sta sul gozzo mangia bistecche, non indosserò un pinocchietto con fantasmino debordante la scarpa solo perché il mio peggior nemico circola in doppiopetto, non andrò a prendere una camera d’albergo in un sobborgo inquinato sol perché la detestata cognata se ne è andata a Parigi. Mi sentirei stupido, pagando per soffrire.

Da elettore mi comporto diversamente: scelgo quello che serve a fregare gli altri. Le rispettive propagande elettorali lo sanno, sicché s’industriano a suggerirmi: vota per noi, altrimenti vincono loro. Il che, per funzionare, comporta una descrizione demoniaca degli “altri”. Ricambiata.

Sono disposto a pagare il prezzo di eletti incapaci, pur di non subire i trionfi altrui. Perché succede questo? Il sistema elettorale c’entra, ma marginalmente: il clima che si respira negli Usa è simile, eppure sono un sistema presidenziale; in Francia il doppio turno limita i danni se si elegge uno, ma se si elegge l’Assemblea legislativa vincono opposti estremismi. Perché?

Il consumatore conosce il proprio bene, sa cosa gli serve e lo soddisfa. Il cittadino elettore delle democrazie occidentali non lo sa più. Il che discende da una condizione molto positiva: abbiamo cancellato le guerre dalle nostre biografie; chiamiamo “povertà” il non accesso al lusso; viviamo nel posto più sicuro, sano e ricco, ma non abbiamo più memoria di come ci siamo arrivati né ci arrovelliamo a rendere migliore il mondo.

L’enorme differenza, rispetto al passato, è che si considerava migliore il tempo a venire (per forza, con due guerre!), mentre ora lo si considera quello andato. Barando sulla memoria. E non a caso questo è il difetto dei vecchi, perché invecchiamo.

Ad avere diritto a votare, il prossimo 25 settembre, sono 4milioni 714mila giovani fra i 18 e i 26 anni. Proteggiamoli come i Panda, perché si è più numerosi nelle classi d’età più anziane: 20milioni e 900mila fra i 36 e i 62 anni; ma anche 5milioni 83mila fra i 72 e gli 80 anni; pochi meno dei giovani i 4 milioni dagli 81 in su.

Anche se si rendessero conto che continuare a facilitare e anticipare le pensioni o sfondare i bilanci contraendo ulteriori debiti è contro i loro interessi, quei giovani sarebbero in minoranza. Non a caso ci fu il tempo della retorica giovanilistica e viviamo quello della retorica dedicata a una senilità che si pretende giovane nel vivere e nel sesso, ma reclama rendite come fosse incerta sulle gambe.

E se i più giovani, a quel che emerge dai sondaggi e, del resto, è coerente con l’età, hanno pensieri positivi, i più anziani votano “contro” alla memoria, dissociando la loro condotta di elettori da quella di consumatori.

Vero che l’offerta sugli scaffali è più allettante di quella sulle schede, ma vero anche che questo dipende sì dalla povertà d’idee della politica, ma anche dalla povertà di aspettative che sulla politica si ripongono. Ma non è una gran vanto astenersi e digiunare, meglio impegnarsi e reclamare. Se non si sa essere consumatori di vita è facile che se ne sia consumati.

La Ragione

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Pannelli solari portatili: cosa sono e perché utilizzarli


Per tutti gli amanti del campeggio, dei viaggi con il proprio camper o per alimentare la propria casa o il proprio giardino, è impossibile non possedere tra i propri strumenti i pannelli solari portatili. Sono dei dispositivi che, quindi, si possono utilizzare sia outdoor sia indoor e possono soddisfare ogni tipo di esigenza. Andiamoli a [...]

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Presupposti errati ostacolano la risposta occidentale alla guerra della Russia in Ucraina


Gli Stati Uniti e altri governi occidentali stanno armando l’Ucraina per difendersi dall’aggressione russa, ma finora sono solo a metà strada. Questo approccio deludente potrebbe finire in un disastro. Le armi e l’assistenza attualmente fornite dall’Occidente non consentiranno all’Ucraina di recuperare il territorio perduto e sconfiggere in modo decisivo la Russia. Per raggiungere tale obiettivo, [...]

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Allende e la nuova Costituzione del Cile


Ci sono date che hanno una risonanza speciale per i Paesi. È quello che succede al popolo cileno con il 4 settembre, questa domenica in cui deve decidere se approvare o meno una nuova Costituzione, e che è anche il giorno, 52 anni fa, in cui gli elettori del Cile, in un altro cruciale giorno, [...]

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The MED This Week newsletter provides expert analysis and informed commentary upon the most significant issues and trends in the MENA region.


Borsa: canapa, USA ancora in discesa, Canada risicato positivo


Le due principali piazze borsistiche mondiali nel settore della produzione, trattamento e commercializzazione della canapa, ovvero Canada e USA, questa settimana chiudono con andamento alternato, in linea con la settimana precedente: Borsa USA ancora in rosso, Borsa Canada in lieve e risicato positivo. Pesa sempre una forte volatilità nel contesto borsistico internazionale, peraltro in forte [...]

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La Russia deve essere ritenuta responsabile per aver commesso un genocidio in Ucraina


Molti osservatori ritengono che l’attuale guerra in Ucraina avrebbe potuto essere evitata se la Russia avesse affrontato in precedenza il suo preoccupante passato. Non c’è modo di sapere con certezza se questo sia vero, ma resta un dato di fatto che nessuno è mai stato ritenuto responsabile delle innumerevoli atrocità del regime sovietico. È altrettanto [...]

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L’unione tra tecnologia e canapa per combattere insieme il cambiamento climatico


La Hemp Blockchain ha sede nello Utah e mira a mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Dall’inizio del 2020, l’azienda sta sviluppando «una soluzione di gestione della catena di approvvigionamento blockchain-nativa per l’industria della canapa». Questa tecnologia blockchain permetterebbe alle aziende di superare i tradizionali approcci alla catena di approvvigionamento nel settore agricolo, sfruttando una [...]

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Il turismo internazionale vittima della guerra in Ucraina


I viaggiatori russi scompaiono, le strutture turistiche di tutto il mondo entrano in crisi e devono correre alla ricerca di nuovi mercati

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A Baghdad sono in corso violenti scontri tra le forze dell'ordine e i seguaci del leader sciita Muqtada al-Sadr, che a luglio hanno assaltato il parlamento e pochi giorni fa il palazzo presidenziale.


In vista dell'autunno, la situazione dell'economia globale appare sempre più preoccupante: l’inflazione è ai massimi sia negli USA che nell'Eurozona (9,1% i dati relativi al mese di agosto) mentre l’energia ha raggiunto prezzi insostenibili per azien…


Clear lines against chat control: Liberals’ paper puts German Interior Minister Faeser on the spot


Original article here. This article was translated by Patrick Breyer’s team with the consent of the original authors. Screening chat messages, scanning private photos: For the German ministries led … https://netzpolitik.org/2022/klare-kante-gegen-chatko

Original article here. This article was translated by Patrick Breyer’s team with the consent of the original authors.

Screening chat messages, scanning private photos: For the German ministries led by the liberal FDP, the plans for chat control by the EU Commission crosses “red lines” in many places. An internal document shows that the federal government is not united on the issue.

The FDP-led federal ministries are apparently putting internal pressure on the federal government, because the EU Commission’s plans for chat control go too far for them. This becomes clear from a list of “red lines” that the Ministry of Justice and the Ministry of Digital Affairs have sent to the SPD-led Ministry of the Interior, according to Tagesspiegel Background. (We publish the list in full text.)

Chat control refers to plans by the EU Commission to combat the spread of recordings of sexualised violence against children. The Commission presented a draft in May which demands far-reaching obligations for tech companies. Among other things, they are to automatically recognise known and previously unknown depictions of sexualised violence against children, even in private chats. The plans have been met with scathing criticism, including warnings from the EU data protection authorities of unnecessary mass surveillance.

The German government also criticised the planned measures. In a letter, it badgered the EU Commission with more than 60 questions, some of them very pointed, including the importance of encrypted communication or the error rates to be expected when recognising such images. Now a letter shows that the critical attitude within the German government is apparently not consistent. As Tagesspiegel Background reports, in the letter the ministries of justice and digital affairs address the ministry of the interior (BMI) led by SPD minister Nancy Faeser, the ministry in charge of the matter.

“Red lines”: No scanning for unknown recordings

The “red lines” drawn in the letter concern the core of the planned EU legislation. Among other things, the ministries demand: “No regulations that lead to chat control”. Messages sent via messenger or email must be explicitly excluded from automated searches. This would remove the central and name-given measure from the planned regulation.

Material that users upload to personal cloud storage and do not share with anyone, such as a backup of their own photos on their mobile phone, should also not be subject to the search orders.

Another point revolves around a particularly controversial part of the planned EU regulation. Tech companies should not only be forced to search for already known material in their users’ data. This is possible with less invasive procedures. The companies are also supposed to track down new, previously unknown material. In addition, they should automatically detect the initiation of sexual contact with minors, so-called grooming. This means far-reaching invasions of the privacy of millions of innocent users. According to the paper, both measures should be discarded.

End-to-end encryption is to remain

In the paper, the ministries also discuss the confidentiality of private communications. According to the paper, the EU regulation should explicitly rule out the possibility of companies undermining end-to-end encryption in order to automatically screen content. End-to-end encryption ensures that only recipient and sender can read a sent message. Removing encryption from messages would overall weaken the ability to communicate securely.

The paper also explicitly rejects so-called client-side scanning. In this process, providers scan the messages of their users directly on the device, even before they are sent end-to-end encrypted. This method is considered one of the few ways to check content despite end-to-end encryption. But scanning before sending also weakens anonymous communication. The EU data protection authorities had previously warned against this.

Non-negotiable “red lines” for the FDP ministries are apparently also crossed by the Commission’s plans on age verification. The EU Commission wants providers to check the age of their users. The ministries demand that the text of the regulation exclude the requirement to present an identity card or other means of identification. In Germany, the age of majority can be confirmed with the online ID function without revealing further data. However, such technologies are not available for all EU citizens. They could then be forced to disclose not needed further data.

The ministries also demand that content and behaviour that is not punishable under national law be excluded from the regulation. This is a central problem which complicates international action against depictions of sexualised violence. Depending on national law, certain recordings are not punishable – for example, because the age of sexual consent differs. This applies, for example, to nude images sent during consensual sexting between young people. Even today, more than half of the suspects in so-called child pornography are minors themselves.

No screening of audio messages

The FDP ministries attack another point that has hardly been taken into account so far. Most recently, the EU data protection authorities had stated in their assessment: voice messages and audio communication in real time, i.e. telephone calls, are to be explicitly excluded from the regulation. So far, the EU Commission’s draft does not explicitly exclude that providers also have to screen audio files such as voice messages and telephone calls.

The demands in the list are mostly kept very concise and mainly formulated in a negative way: It is about what must not happen in the regulation. We asked the Ministry of Justice whether the ministries will also propose their own alternatives and when exactly the paper was sent out. The answer was that they do not comment on details of ongoing internal government consultations. Instead, the ministry referred to a general statement by Justice Minister Marco Buschmann on chat control. He was “very sceptical about this new draft” and rejected a “general blanket surveillance of private correspondence”.

The Federal Ministry of the Interior, too, wrote on request only that in the context of the current negotiations “according to common practice” all ministries involved were asked to submit their position for further discussion.

The demands from the FDP ministries are clearly set out in the paper. The question is what the Federal Ministry of the Interior will do with them now. At least some of the demands can be derived directly from the coalition agreement of the federal government, which states: “We reject measures to scan private communications and an identification obligation.” In a next step, the ministry is to present a report on the commission’s plans to the digital committee of the Bundestag, as Tagesspiegel Background reports.

Red lines for Ministry of Justice (BMJ) and the Ministry of Digital Affairs (BMDV)

In order for the FDP- led ministries to be able to agree to the draft regulation of the COM the following requirements must at least be met (“red lines”):

  • Clear requirements for the issuance of disclosure orders (sufficient limitation of the “significant risk” in the Regulation, more detailed requirements for the balancing decision according to Art. 7 (4) b) of the Draft Regulation).
  • No provisions leading to chat control (to be excluded by deleting the applicability of Art. 7 of the Draft Regulation to interpersonal communication services (esp. email services, messenger) according to Art. 2 b) of the Draft Regulation).
  • Exclusion of personal memories that are not shared. Cloud memories, which serve as a backup of one’s own photos on the mobile phone, for example, must explicitly not be covered by the regulations on the discovery order (to be excluded by excluding the applicability of Art. 7 Draft Regulation to personal memories).
  • Deletion of the applicability of Art. 7 Draft Regulation to so-called unknown material and grooming.
  • Explicitly exclude the use of client-side scanning and the removal of end-to-end encryption to fulfil obligations under the Draft Regulation (to be excluded in a separate article of the Draft Regulation).
  • Audio communications (voice recordings and real-time audio communications) are to be explicitly excluded from the scope of the Draft Regulation, as in the Interim Regulation.
  • Providers must be able to fulfil the obligations under the Draft Regulation (risk assessment, risk mitigation, deletion/blocking) without using the detection technologies described in Article 10(1) Draft Regulation. This is to be specified in the text of the Draft Regulation.
  • Age verification for the implementation of the obligations from the Draft Regulation (such as risk reduction, Article 4 Draft Regulation, obligation for app stores in Article 6 (1)(c) Draft Regulation) only if the possibility of anonymous or pseudonymous use of the services concerned is preserved. To this end, the text of the Draft Regulation must exclude the presentation of an identity card or other means of identification for the purpose of age verification.
  • No inclusion of content or conduct that is not punishable under national law (definitions in Article 2 of the Draft Regulation must take into account the scope for decision-making granted to member states in Directive 2011/93/EU on combating the sexual abuse and sexual exploitation of children and child pornography and replacing Council Framework Decision 2004/68/JHA (FD), in particular with regard to determining the age of sexual consent (Article 6 of the FD) and the impunity of certain acts (Article 5(8) of the FD)).

patrick-breyer.de/en/clear-lin…



Confessioni di una maschera “Il crepuscolo degli Dei”


Pensare che qualcuno ancora non è riuscito a capire la differenza che c’è tra i social network e la realtà, è un qualcosa che mi annichilisce, sotto tutti i punti di vista. Non è ancora stato creato un antidepressivo in grado di aiutarmi a rialzarmi dalla catatonia che mi assale ogni volta che realizzo quanto sia radicata l’idea che i due contesti siano sullo stesso piano.

In queste giornate estive l’idea che si possa anche solo pensare di fare politica attraverso la rete, e in particolare, anzi, in maniera quasi esclusiva, grazie ai social network, mi fa capire una volta di più come mai la situazione sociale italiana sia inevitabilmente indirizzata verso un tracollo che, per certi versi, mi spingo a considerare, pur se a malincuore, meritato. Toccando il fondo, come forse mai in passato, riusciremo finalmente a capire che c’è un mondo oltre lo schermo dei nostri cellulari, e che questo mondo è infinitesimamente distante da quello dorato dei social network? Ho ancora forti dubbi in merito, ma una piccola speranza la conservo.

iyezine.com/confessioni-di-una…


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IRAQ. Ascesa e caduta di Muqtada al-Sadr… di nuovo


Il leader sciita, messo nell’angolo dopo aver provocato una pericolosa escalation di violenze, ha subito un grave battuta d’arresto alle sue ambizioni. Ma ritenerlo fuori gioco per sempre sarebbe un grave errore. L'articolo IRAQ. Ascesa e caduta di Muqta

della redazione –

Pagine Esteri, 2 settembre 2022 – Per capire la genesi dell’ultima escalation di violenze a Baghdad, Bassora e altre città irachene occorre tornare a lunedì scorso. Alle 12 in punto, Kazem al-Haeri, un’importante autorità sciita (marjaa) in Iraq – in particolare tra i sostenitori del leader politico e religioso Muqtada al-Sadr – ha annunciato il suo ritiro dalla vita pubblica e ha esortato tutti i credenti a seguire solo il leader della rivoluzione islamica iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei. All’interno di questa dichiarazione di due pagine, Haeri ha affrontato la posizione di Muqtada al Sadr – il cui blocco sadrista ha ottenuto il maggior numero di voti nelle elezioni dell’ottobre 2021 – e lo ha accusato apertamente di non possedere né le conoscenze religiose né la capacità di guidare gli sciiti o il popolo iracheno.

Per Al Sadr in un colpo solo sono crollate ambizione e forza. Quindi ha preso una decisione: ha annunciato il suo ritiro dalla politica irachena. Un passo che aveva già mosso altre nove volte dal 2013 per poi fare retromarcia, ma che questa volta è avvenuto sotto la pressione di un esponente religioso che non poteva assolutamente ignorare. Al Haeri è l’erede del padre di Muqtada, Mohammad Sadeq al-Sadr, una delle autorità più influenti nella storia recente dell’Iraq e dello sciismo. Prima del suo assassinio nel 1999, l’anziano Sadr aveva esortato i suoi seguaci a obbedire a Kazem Al Haeri al suo posto. Nei 23 anni successivi, Muqtada ha raccolto un sostegno molto ampio tra i seguaci di suo padre ma non è l’erede religioso designato di Mohammad Sadeq. Perciò la dichiarazione pubblica di Al Haeri è stata particolarmente significativa.

L’annuncio di abbandono della vita politica è stata una mossa astuta per evitare che il movimento sadrista si dividesse in due: Al Sadr temeva che un gruppo gli sarebbe rimasto fedele, mentre il secondo avrebbe obbedito al successore di suo padre. Ma la dichiarazione di Al Haeri ha colpito ugualmente colpito in profondità le ambizioni di Muqtada Al Sadr che tra fine luglio e inizio agosto ha per due volte lanciato i suoi sostenitori all’assalto del Parlamento e di altre istituzioni per non aver ottenuto la guida del governo in oltre dieci mesi di stallo politico.

A giugno, dopo mesi di lotte senza successo per formare una maggioranza con il suo blocco parlamentare vincente, Al Sadr ha tentato di scuotere la scena politica irachena ordinando al suo blocco politico di dimettersi. Tuttavia, le dimissioni dei suoi deputati non hanno raccolto i frutti sperati e i suoi avversari nella comunità sciita – il Quadro di coordinamento che racchiude le formazioni filo-Iran e Stato di Diritto – hanno subito occupato lo spazio politico lasciato vuoto proponendosi per la formazione del nuovo esecutivo. Al Sadr inoltre non è riuscito a far sciogliere il parlamento e a portare il paese a nuove elezioni perché la magistratura si è rifiutata di fornire supporto legale a questa mossa.

La seconda importante decisione di Sadr lunedì è stata eseguita attraverso il braccio armato del suo partito, Saraya al-Salam (Brigate della Pace). È inconcepibile che la folla di sadristi armati che quella sera ha preso d’assalto la Green Zone di Baghdad, sia stata protagonista di un’azione spontanea. Al Sadr piuttosto ha voluto inviare un messaggio agli iracheni: lascio la guida del mio blocco nelle mani dei comandanti di Saraya al-Salam, saranno loro a portare avanti i miei disegni, con la forza delle armi. E in effetti i sadristi si sono rapidamente mossi per dimostrare di avere il controllo della capitale con una dimostrazione di forza senza precedenti. In strada c’era il supervisore generale di Saraya al Salam, Tahseen al Hamidawi, uno stretto collaboratore di Al Sadr che ha partecipato per anni alle battaglie contro le forze di occupazione statunitensi in Iraq nei ranghi del disciolto Esercito del Mahdi. Sotto la sua direzione, i miliziani di Saraya al Salam sono confluiti a Sadr City, al Shaab e Ur, a est di Baghdad, nella Green Zone. Non solo si sono impegnati in uno scontro armato nel cuore di Baghdad ma hanno anche raggiunto la periferia della città per dare alle fiamme le sedi di alcune Unità di Mobilitazione Popolare (Hashd al Shaabi), tra le quali l’Organizzazione Badr, Asaib Ahl al-Haq e la coalizione Stato di Diritto dell’ex primo ministro Nouri al-Maliki, il più accanito degli avversari di Muqtada Al Sadr. Durante gli scontri hanno lanciato razzi contro l’ambasciata statunitense e hanno dato fuoco a poster con le immagini dei leader iraniani. Hanno cercato lo scontro con le Unità di Mobilitazione Popolare che invece sono rimaste da parte e hanno lasciato alle forze di sicurezza governative irachene il compito di fermare i sadristi. Gli scontri sono proseguiti martedì mattina, coinvolgendo anche clan familiari come spesso accade in Iraq durante le crisi più gravi.

Per Al Sadr il danno d’immagine è stato enorme. I suoi sostenitori stavano combattendo, uccidendo e ferendo uomini delle forze di sicurezza ma non erano riusciti a trascinare gli avversari delle Unità di Mobilitazione Popolare in strada. In quelle stesse ore Mohammed Ridha, figlio dell’Ayatollah Ali Sistani, la principale autorità sciita dell’Iraq, ha chiamato Al Sadr per organizzare un incontro con suo padre. Durante il faccia a faccia, Sistani ha intimato al leader sadrista a fermare subito lo spargimento di sangue. Al termine della conversazione Al Sadr ha mandato in onda una dichiarazione televisiva chiedendo ai suoi sostenitori di porre fine all’assedio della Green Zone di Baghdad. Non solo, ha anche ringraziato le Unità di Mobilitazione Popolare per la moderazione mostrata e per non aver partecipato agli scontri. Umiliato dai suoi errori di calcolo, Al Sadr si è definito un “cittadino normale” e ha sconfessato la propria milizia, Saraya al-Salam, definendo le sue azioni “vergognose”. Il quadro generale però non si è affatto stabilizzato. Gli avversari di Muqtada Al Sadr restano in allerta, pronti allo scontro e puntano il dito anche contro il primo ministro uscente, Mustafa Al Kadhimi, responsabile a loro dire di aver consentito l’escalation per rafforzare la sua posizione – attraverso l’impiego delle forze di sicurezza nazionali – e provare ad avere un secondo mandato.

Di sicuro da questa settimana Muqtada Al Sadr esce perdente. Gli ultimi giorni hanno confermato la sua imprevedibilità cominciata venti anni fa combattendo gli americani con le armi e proseguita oggi lottando con la politica contro l’influenza iraniana in Iraq. Tutti sanno che le sue dichiarazioni contro Washington e Teheran possono cambiare da un giorno all’altro. Se davvero manterrà le distanze dalla politica, questo creerà un vuoto che sia gli Stati Uniti che l’Iran vorranno colmare. L’appello agli sciiti dell’Ayatollah Al Haeri di obbedire al leader supremo dell’Iran Ali Khamenei potrebbe dare a Teheran l’occasione per recuperare posizioni in Iraq. Gli Stati uniti e i loro alleati del Golfo non resteranno a guardare e proveranno a convogliare su altre personalità politiche il nazionalismo anti-iraniano che al Sadr ha rappresentato in questi ultimi anni.

Tuttavia, sarebbe un errore grave dare per sconfitto definitivamente e fuori dai giochi Muqtada al Sadr che continua ad avere in Iraq una solida base di appoggio e che con ogni probabilità tornerà in campo, alla prima occasione. Pagine Esteri

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ISRAELE: Il prigioniero Awawdeh, in fin di vita, rimarrà in carcere


La Corte Suprema di Giustizia israeliana ha rigettato la petizione che chiedeva il rilascio del detenuto, in sciopero della fame da quasi sei mesi e in “imminente pericolo di morte” secondo una commissione dell’Unione Europea e diverse ONG internazionali

di Valeria Cagnazzo –

Pagine Esteri, 31 agosto 2022 – Resterà in carcere il prigioniero palestinese Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da oltre 160 giorni e in fin di vita a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. A stabilirlo è la Corte Suprema di Giustizia israeliana che ha rigettato ieri la seconda petizione mossa da diverse ONG internazionali e sostenuta anche dall’Unione Europea per il rilascio del prigioniero. Con un comunicato emesso ieri, martedì 30 agosto, il tribunale ha apparentemente chiuso la porta a qualsiasi richiesta di dialogo sulla scarcerazione di Awdawdeh, che rischia di morire in un carcere israeliano: “Possiamo solo sperare ancora”, ha dichiarato la corte di giustizia, “che il prigioniero rinsavisca e interrompa lo sciopero della fame”.

Le immagini dello scheletro di Awawdeh, costretto su un letto in stato soporoso, avevano scatenato l’indignazione di diverse organizzazioni internazionali. Lo sciopero della fame, iniziato il 3 marzo scorso ha, infatti, prostrato lo stato di salute del detenuto fino a portarlo in una condizione di imminente pericolo per la vita. La neurologa Bettina Birmans che l’ha visitato venerdì scorso ha parlato di “rischio di danno neurologico irreversibile e di morte”. Anche una delegazione israeliana dell’ONG Medici per i diritti umani ha dichiarato che Awdawdeh, a causa del “severo deterioramento della sua condizione”, sarebbe “a rischio di morte e danni irreversibili”.

L’Unione Europea, dopo le immagini diffuse dalla moglie di Awawdeh, ha rilasciato un tweet di sconcerto tramite uno dei suoi account ufficiali: “Sconvolti dalle orribili immagini di Awdawdeh che è in sciopero della fame da 169 giorni in protesta contro la sua detenzione senza accuse e nel pericolo imminente di morire. A meno che non sia emessa una sentenza immediatamente, dev’essere rilasciato!”.

Khalil Awawdeh, quarant’anni e padre di quattro figlie, è stato prelevato nel dicembre 2021 dalla sua abitazione a Ithna, nel sud della Cisgiordania, e si trova da allora in detenzione amministrativa, una pratica che permette a Israele di detenere prigionieri senza processo e senza chiari capi di accusa, per motivi di “sicurezza”. Proprio contro la detenzione amministrativa, Awawdeh quasi sei mesi fa ha smesso di alimentarsi, dichiarando di essere “un prigioniero senza alcuna accusa che si è opposto alla detenzione dell’amministrazione con la sua carne e il suo sangue”.

Awawdeh è solo uno degli almeno 670 Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa, senza conoscere i capi d’accusa per i quali sono stati arrestati né la durata prevista della loro permanenza in prigione. Molti di loro scelgono lo sciopero della fame come forma di protesta non-violenta contro questa pratica di arresto.

Il movimento della Jihad Islamica aveva chiesto la liberazione di Awawdeh a inizio agosto, nelle trattative con Israele successive all’operazione israeliana sulla Striscia di Gaza che aveva provocato 49 morti. Le autorità israeliane avevano, tuttavia, negato il rilascio del detenuto, che dall’inizio di agosto è in ospedale a causa del suo peggioramento clinico. Da allora, ufficialmente, la detenzione del prigioniero è “sospesa”: per questo motivo, già la scorsa settimana la Corte Suprema aveva respinto le richieste di scarcerazione, che secondo i giudici “non sussistevano” alla luce della momentanea sospensione della pena.

Per la seconda volta in una settimana, la Corte Suprema respinge gli appelli umanitari per salvare la vita del prigioniero. Sotto gli occhi di tutti – le sue foto stanno, infatti, facendo il giro del mondo – Khalil Awawdeh, che adesso pesa 38 chili, sta morendo in carcere. In un video-messaggio registrato in carcere e trasmesso ai media dalla famiglia ha dichiarato: “Il mio corpo, sul quale rimangono solo ossa e pelle, non riflette la debolezza e la nudità del popolo palestinese, ma rispecchia piuttosto il volto reale dell’occupazione (israeliana, ndr)”.

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Perché è scoppiato l’incendio del gas


L’economista della Fondazione Einaudi spiega cosa c’è dietro l’impennata del metano. La fine della pandemia ha innescato una domanda che l’offerta ha soddisfatto solo a metà, poi è arrivata la guerra. La speculazione? C’entra, ma fino a un certo punto​ Il

L’economista della Fondazione Einaudi spiega cosa c’è dietro l’impennata del metano. La fine della pandemia ha innescato una domanda che l’offerta ha soddisfatto solo a metà, poi è arrivata la guerra. La speculazione? C’entra, ma fino a un certo punto​


Il prezzo, alla Borsa di Amsterdam, sarà anche sceso sotto i 240 euro al megawattora. Ma dopo settimane di crescita costante, scandita solo da qualche tonfo e in una Europa ancora sprovvista di price cap, con il quale tenere a freno il costo del metano. Ce ne è abbastanza per interrogarsi sul come e il perché il gas, ancora la principale fonte energetica del Vecchio Continente, sia improvvisamente diventato un bene di lusso. Certo, la guerra in Ucraina e lo scontro dell’Occidente con la Russia rimangono il combustibile. Ma è davvero tutto?

Formiche.net lo ha chiesto a Simona Benedettini, economista esperta di energia in forza alla Fondazione Einaudi. “Bisogna sempre ricordare che l’indice del gas naturale alla Borsa di Amsterdam (Ttf, ndr) nei fatti esprime oggi il prezzo che secondo il mercato il gas avrà tra una settimana, un mese e così via. Il prezzo dunque che vediamo oggi è il costo che ci si aspetta in futuro”, chiarisce l’economista. “Perché il gas è aumentato? La risposta è che è salito per diversi motivi. Tanto per cominciare ci sono diversi titoli legati al Ttf che sono in crescita da prima della guerra, sulla scia dell’alleggerimento della pandemia. L’offerta non è stata in grado di soddisfare la domanda che si è risvegliata con la fine dei lockdown e allora il prezzo è salito”.

Il fattore Ucraina


Poi però, è arrivata la guerra. “Il conflitto si è inserito in un contesto di crescita dei prezzi, per i motivi appena spiegati, fungendo da booster. Dunque, ulteriore riduzione dell’offerta da parte della Russia e conseguente impennata dei costi. Vorrei chiarire che la speculazione nella crescita dei prezzi c’entra fino a un certo punto. Il mercato scommette sul prezzo futuro, questo è abbastanza normale, il peso vero nella fiammata del gas è dato da elementi geopolitici e anche sociali, come la guerra e la fine della pandemia. Poi, certamente, c’è un elemento speculativo ma non è tutto”, spiega Benedettini.

Tetto sì, ma…


Chiarito il punto, resta una questione, quel price cap su cui l’Europa sembra un poco alla volta convergere. “Il tetto al prezzo del gas deve essere una misura temporanea e non strutturale, perché gli aumenti ai quali stiamo assistendo sono un fenomeno temporaneo e non dureranno per sempre, è un qualcosa di anomalo. Se si rende il tetto permanente, ci potrebbero essere in futuro problemi di approvvigionamento. E poi va strutturato, pensato, per esempio si mette solo sul gas che viaggia nel tubo o si mette anche sul Gnl? Sono domande da porsi, perché se tetto deve essere, deve esserlo pro-tempore e ben calibrato”.

L’intervista a Simona Benedettini di Gianluca Zapponini su Formiche

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Moqtada al Sadr annuncia l’addio alla politica. L’Iraq è sull’orlo della guerra civile


I sostenitori del potente leader religioso sciita dopo l'annuncio si sono riversati a migliaia nella Zona Verde di Baghdad in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere. Si teme una risposta dura delle forze sciite rivali di Al S

[color="#ff0000"]LIVE 30 AGOSTO. Al-Sadr chiede ai suoi sostenitori di ritirarsi dalla Green Zone di Baghdad[/color]

AGGIORNAMENTO ORE 19.30

E’ di almeno 12 morti e 270 feriti il bilancio parziale degli scontri a Baghdad e nel resto del paese. Intanto le autorità militari hanno annunciato l’estensione del coprifuoco a tutto lraq, dopo averlo proclamato a Baghdada partire dalle 15.30 locali (le 14.30 in Italia).

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della redazione

Pagine Esteri, 29 agosto 2022 – In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.

Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

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Muqtada al Sadr

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

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Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad. Pagine Esteri

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Fr.#07 / c o m p l y


Nel frammento di oggi: noi siamo la Cina, ma non lo sappiamo ancora. La Casa Bianca ci informa che ogni pensiero divergente è un pensiero estremista. Meme e citazione del giorno.

Noi tutti siamo la Cina


Chi sono i cinesi? Sono alieni? Zombie lobotomizzati? Servi a cui è stato fatto il lavaggio del cervello?

No amici miei, i cinesi sono persone normali, che lavorano, hanno una famiglia, nel tempo libero passeggiano, siedono al bar, parlano con gli amici, fanno shopping. Persone normali, con vite normali. Come noi.

Loro sono come noi. E noi, beh, siamo loro - ma nel passato. Mi spiego meglio. La Cina oggi è un incubo socialista tecnocratico; non perché i cinesi siano dei rammolliti senza capacità di pensiero o perché abbiano un modo di pensare diverso dal nostro. No, semplicemente il loro governo ha iniziato molto prima un processo che da noi ha invece avuto inizio solo negli ultimi anni.

2411229Fonte: twitter.com/songpinganq

E allora, non stupiamoci davanti alle immagini di droni che pattugliano città, strade e case dall’alto. Non stupiamoci se le persone ritratte nei video e nelle immagini, che guardiamo come se fossero un film, obbediscono pazientemente agli ordini impartiti dall’autorità che li intima di rimanere chiusi in casa, nonostante il rischio concreto di morire di fame e sete.

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238345Fonte: twitter.com/songpinganq

Non stupiamoci se i bambini sono trattati come animali con QR code al collo, obbidientemente in fila per un tampone che ancora oggi deve essere fatto da tutta la popolazione ogni due giorni per mantenere il privilegio di vivere in società.

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Non stupiamoci di sapere che in Cina il contante è quasi sparito del tutto, che ogni cittadino è dotato di un’identità digitale collegata al covid pass e al conto corrente, che con un click possono essere bloccati dal governo a chi la pensa diversamente.


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Divergente


Non temete, stiamo iniziando a recuperare il distacco con la Cina!

La Casa Bianca ci ricorda infatti che chiunque la pensi diversamente dalla maggioranza sarà considerato un estremista. Sappiamo tutti come alla Casa Bianca piaccia gestire gli “estremisti” dal 2001 a oggi.

238346Fonte: Disclose.tv

Non ci sarà più alcuna differenza tra noi e i cinesi quando gli stati occidentali avranno finalmente a disposizione tutte le leggi per il controllo e sorveglianza delle comunicazioni e di Internet, che sono in discussione in questo momento.

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Non ci sarà più alcuna differenza quando ognuno di noi sarà dotato di identità digitale connessa a ogni servizio pubblico e finanziario; quando avranno il potere di accendere e spegnere i conti corrente a chiunque con un click; quando l’energia sarà razionata, la disoccupazione sarà alle stelle e bisognerà bloccare le proteste sul nascere.

E infine non ci sarà alcuna differenza quando inizieranno a perseguire chiunque cercherà di proteggere la propria privacy e vita privata, nonostante tutto. D’altronde, la maggior parte della gente crede fermamente di non avere nulla da nascondere, tu invece, che la pensi diversamente… cosa stai nascondendo?

238347Immagine del discorso di ieri di Biden a Philadephia, in cui ha esortato gli americani a combattere gli estremismi per difendere la democrazia. Come dici? Ricorda il cancelliere supremo di V per Vendetta? Nahhh

Una breve intervista


In questi giorni sono stato intervistato da Matrice Digitale, con alcune domande molto interessanti. Abbiamo parlato di Cypherpunk, anarco-capitalismo, pistole, sorveglianza di massa e social scoring. Insomma difficile fare meglio di così.

Qui il link, per chi volesse leggerla.

Meme del giorno


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Citazione del giorno


“My philosophy, in essence, is the concept of man as a heroic being, with his own happiness as the moral purpose of his life, with productive achievement as his noblest activity, and reason as his only absolute.”
― Ayn Rand


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Nancy Pelosi's controversial visit to Taiwan on August 2-3 is only the last major episode in the context of growing tensions between China and the US.


Day 2Secondo giorno di manutenzione straordinaria per il gasdotto Nord Stream, che dovrebbe tornare in funzione sabato.


Russia: reclutamento aggressivo sì, coscrizione su larga scala no


La necessità di preservare la stabilità interna riflette i limiti del potere di Putin e la natura superficiale del sostegno alla guerra in Russia

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