Ucraina: è arrivata la bufera
Tra soldati che fuggono, astuti piani di inganno e inattesi colpi di fortuna quale sarà il destino della operazione militare speciale?
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Fr.#09 / b a n k r u n
La corruzione del sistema bancario e le sue vittime
Il sistema bancario, che ormai ha perso ogni utilità reale, se non quella di cane da guardia e arma dello stato, miete sempre più vittime.
Una di queste vittime è una giovane amica di nazionalità russa, che in effetti ama l’Italia più di me. Purtroppo il suo passaporto contiene un dato, la sua nazionalità russa, che viene mal digerito dai sistemi informativi dei sistemi bancari italiani (ma probabilmente vale lo stesso per molti paesi dell’Europa dei diritti). Per questo, diverse banche, in ultimo Unicredit, si rifiutano di aprirle un conto corrente.
Un’altra vittima del sistema bancario, di cui leggo su twitter, scrive ieri:
Oggi in banca mi hanno detto che chiuderanno la cassa a fine settembre.Rimarrà aperta solo in sede centrale a Firenze, se voglio prelevare solo da bancomat con le mie carte. Immagino già quando si spengeranno i bancomat per mancanza di energia. Controlli i miei soldi controlli tutto.
Ebbene sì, amico di twitter, chi controlla i tuoi soldi (che non sono tuoi, e neanche esistono, ma questa è un’altra storia) controlla tutto: la tua vita, le tue relazioni, la tua capacità di pensiero e di azione. Perdere la capacità di usare il contante equivale a perdere quel pizzico di capacità di controllo sulla moneta che ci rimane.
E ancora, sempre ieri apprendo di una donna libanese costretta ad entrare in banca con una pistola, nel disperato tentativo di ricevere i “suoi” soldi in un paese in cui l’inflazione è ormai iper-inflazione e dove la moneta ha perso più del 95% del suo valore dal 2019 a oggi.
Che fare allora, quando dati come la nazionalità o l’etnia vengono usati contro di te dall’intero sistema bancario? Che fare quando il sistema bancario rimuove progressivamente ogni mezzo per detenere un minimo di controllo e possesso fisico sui tuoi soldi? Che fare quando, a causa delle politiche delle banche centrali e dei governi criminali, il potere d’acquisto della tua moneta viene annientato1 nel giro di qualche decade o pochi anni, costringendo la società intera a modificare completamente le sue preferenze temporali e modo di vivere?
Purtroppo non esiste e non potrà mai esistere una soluzione politica. La salvezza non è nella collettività o nello stato, solo la dannazione. È lo stato, di ogni tempo e ogni luogo, che continuamente usa il suo monopolio sulla moneta come arma contro i suoi nemici e cittadini (stessa cosa). È lo stato che svaluta appositamente la moneta, attraverso l’inflazione, per erodere il patrimonio dei cittadini e diminuire il carico del debito sulle sue spalle.
La soluzione non può che essere individuale; non arriverà nessuno a salvarvi. Uscire dal sistema bancario, slegarsi dalle catene monetarie di stato e usare Bitcoin, come moneta libera, privata, incensurabile, trasparente e accessibile a chiunque in ogni momento. Al protocollo Bitcoin non interessa la tua nazionalità. Il protocollo Bitcoin non detiene in ostaggio i tuoi soldi, sei tu la tua banca.
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Lo stato socio occulto dei rapporti umani
In questi giorni è uscito un nuovo libro di Daniele Capezzone, “Bomba a orologeria: L'autunno rovente della politica italiana” in cui cita alcuni estratti di due miei articoli usciti su Atlantico Quotidiano.
Il contesto è quello di cui parla Privacy Chronicles: l’immoralità dell’ideologia collettivista e statalista, che porta allo sviluppo e accettazione di politiche liberticide, contro la privacy, proprietà e contro la libertà di autodeterminazione degli individui.
Qui i due articoli da cui sono stati presi gli estratti:
- In Canada un assaggio di cosa ci aspetta: moneta e identità digitali la più grande minaccia alla libertà
- Sorveglianza di massa e sistema di credito sociale, il modello cinese è già qui
E qui invece un articolo a cui sono particolarmente affezionato, in cui cerco di spiegare l’ideologia collettivista e il ruolo degli intellettuali nel creare masse di zombie disposte ad accettare qualsiasi cosa.
Vieni alla Privacy Week 2022?
Parlando ora di cose belle, fra esattamente 11 giorni inizia la Privacy Week 2022. Un evento organizzato da me e molte altre persone.
Cinque giorni (26-30 settembre) in cui si parlerà di privacy, sicurezza dei dati, Bitcoin, intelligenza artificiale e tanto altro con più di 100 speaker e dozzine di tavole rotonde, interviste, dibattiti e approfondimenti.
L’evento si terrà a Milano in Cariplo Factory presso BASE Via Bergognone, 34.
Il 26 settembre alle 14:30, subito dopo l’apertura, parlerò anch’io. Se sei di Milano, perché non passi a trovarci? Cerca sul sito www.privacyweek.it gli eventi o le giornate che ti piacciono di più e registrati, ti aspettiamo!
Meme del giorno
Attenzione: non è un meme… è stato hackerato il profilo del Ministero e hanno iniziato a spammare news sul merge verso Proof of Shitcoinery di quello scam chiamato Ethereum.
Citazione del giorno
I don't believe we shall ever have a good money again before we take the thing out of the hands of government, that is, we can't take them violently out of the hands of government, all we can do is by some sly roundabout way introduce something that they can't stop.- Friedrich A. Hayek (on Bitcoin)
L’euro ha perso più del 50% del suo valore dal 2001 a oggi. Il dollaro più del 68%. La sterlina inglese ha perso più del 99% del suo valore durante tutto il regno della Regina Elisabetta.
BEN(E)DETTO 15 settembre 2022
Appello: non votiamo tutti i partiti che propongono scostamenti di bilancio. Cioè nuovo debito da pagare con le nostre tasse. Sarebbe un segnale di serietà ai partiti da parte degli elettori.
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Oggi #15settembre è la #GiornataMondialeDellaDemocrazia!
Il #DemocracyDay è stato istituito dalle Nazioni Unite e, quest’anno, all’evento si parlerà di come la libertà dei media sia una componente fondamentale di una sana democrazia.
L’autentico liberale non ha paura della verità
Essere liberali non significa essere popolari, né con la “P” maiuscola, né con la “p” minuscola. Significa essere controcorrente quando serve
Essere liberali non significa essere popolari, né con la «P» maiuscola, né con la «p» minuscola. Significa essere controcorrente quando serve. Sappiamo bene quale è il sentimento popolare sulla questione esplosa in queste ore dei finanziamenti russi a varie forze politiche dei Paesi occidentali. Ma i sentimenti sono questione da social. Ai report delle intelligence straniere, da qualunque Paese provengano, i liberali preferiscono le sentenze dei Tribunali della Repubblica.
Vogliamo l’accertamento dei reati. Non ci piace la sete spasmodica di informazione, che si trasforma in strumento di battaglia elettorale. Non ci piacciono le ipotesi di reato, nemmeno iscritte a registro da un pm, che diventano verdetti di condanna per acclamazione di popolo. Da sempre non ci piacciono gli inquinamenti a pochi giorni dal voto, né quando provengono dai pm militanti, né quando arrivano come soffiate dai servizi segreti.
Vogliamo sapere. Vogliamo sapere se il regime russo ha finanziato dei partiti italiani. Come volevamo sapere se il PCI avesse ricevuto fondi dall’Unione Sovietica (ricordiamo anche che le posizioni della sinistra italiana erano ben diverse). Abbiamo il diritto di conoscere – qui risiede la differenza tra liberali e populisti – secondo le regole della Costituzione e della legge.
Qualora l’intelligence americana avesse delle informazioni rilevanti, pretendiamo che la Procura della Repubblica apra un fascicolo e indaghi rapidamente. Se riterrà sussistente l’illecito chiederà il rinvio a giudizio. In caso contrario, domanderà l’archiviazione. Si chiama Stato di diritto e va osservato sempre, nolente o volente.
Sarebbe gravissimo se delle forze politiche avessero ricevuto finanziamenti dal Cremlino. Ma non è un report dei servizi segreti, magari interpretato da questo o quel giornale house organ di partito, a potercelo dire. La contingenza politica e la raccolta di consensi non prevarichino le regole minime della civiltà occidentale.
Se un’indagine conoscitiva, mai giunta in Procura e a nessuna Istituzione italiana, dovesse influenzare le elezioni, allora sì, saremmo molto simili alla Russia. In conclusione questa vicenda non deve, né può essere affrontata con la curiosità morbosa delle infedeltà coniugali tra un calciatore e una soubrette. Questa è vicenda che va trattata secondo le regole del Diritto.
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Investimenti online: sempre più gettonati i software per il trading automatico
L’accelerazione della trasformazione digitale ha interessato anche il mondo degli investimenti, portando un numero sempre maggiore di risparmiatori ad affacciarsi verso il trading online. Naturalmente, come tutte le altre modalità di investimento, anche in questo caso prima di iniziare a operare sui mercati finanziari è necessario disporre di un adeguato bagaglio di conoscenze, così da […]
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Attestato di prestazione energetica: tutto ciò che c’è da sapere al riguardo
Quando si parla di certificato Ape, ci si riferisce ad un documento molto importante, specie nel settore immobiliare. Anche definito certificazione energetica, esso è un documento obbligatorio ai fini della compravendita e della regolazione in termini burocratici di un immobile. L’attestato di prestazione energetica serve, come dice il nome stesso, a identificare le principali caratteristiche […]
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Hezbollah, il «guardiano» del gas del Libano
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 15 settembre 2022 – Il sogno dei libanesi è sfruttare il giacimento sottomarino di gas di Karish che lascia immaginare entrate per miliardi di dollari. La realtà è Beirut per metà al buio per la scarsa elettricità disponibile, gli aumenti del prezzo del carburante, l’inflazione fuori controllo e il crollo continuo della lira scambiata ieri a 36mila per un dollaro. E chi i dollari non li ha, gira avendo in tasca dozzine di banconote tenute strette da un elastico, necessarie anche solo per comprare qualcosa al minimarket sotto casa. Ammesso che si abbiano lire da spendere. Il 78% dei libanesi vive in condizioni di povertà. Jihad, il taxista che ci porta dal quartiere centrale di Hamra a quello periferico di Haret Hreik sente sulle sue spalle tutto il peso della crisi. «Ormai non si vive più, ogni giorno aumenta il prezzo della benzina e la lira non vale nulla. Se solo potessi partire e andare via da questo paese di politici falliti, tutti senza eccezione», ci dice dando una accelerata alla sua vecchia auto. Due giorni fa è arrivato un altro pugno allo stomaco della maggioranza dei libanesi. La Banca centrale ha revocato i sussidi per le importazioni di carburante facendo schizzare verso l’alto il prezzo di benzina e gasolio.
Tra una maledizione scagliata a questo o quel politico, Jihad ci fa notare che le lunghe code e gli ingorghi nelle strade di Beirut sono meno intensi di qualche tempo fa. «Muoversi in auto costa troppo, fare rifornimento non è più per tutti», ci spiega lasciandoci davanti all’ufficio del religioso Ali Daamoush, vicepresidente dell’esecutivo del movimento sciita Hezbollah. Esponente tra i più noti dell’ala politica del movimento sciita, Daamoush ha accettato di rispondere alle nostre domande sull’andamento della trattativa indiretta che il Libano sta portando avanti, con la mediazione statunitense, per la definizione del confine marittimo con Israele. Tel Aviv è decisa ad avviare nelle acque tra i due paesi lo sfruttamento del giacimento sottomarino di Karish entro settembre. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha reagito a questa intenzione minacciando in una intervista a Mayadeen Tv che «Se l’estrazione di petrolio e gas dal giacimento di Karish inizierà a settembre prima che il Libano ottenga i suoi diritti, allora faremo di tutto per raggiungere i nostri obiettivi…Nessuno desidera la guerra e la decisione è nelle mani di Israele, non nelle nostre». Qualche settimana fa, Hezbollah ha inviato droni – abbattuti quasi subito – verso la nave mandata da Israele per effettuare i primi rilievi a Karish. Un messaggio inequivocabile.
Daamoush smorza l’ottimismo generato dalle ultime dichiarazioni del mediatore Usa, Amos Hochstein sui progressi fatti dalla trattativa. «Si parla di segnali positivi – ci dice – ma dobbiamo vedere come andranno le cose alla fine, ci sono punti molto importanti da discutere. Noi restiamo fermi sulla nostra posizione, a ciò che ha detto il segretario Nasrallah sui diritti irrinunciabili del Libano». Quindi aggiunge di non fidarsi della mediazione statunitense: «Non vediamo negli Stati uniti una parte affidabile e credibile. Stanno sempre dalla parte di Israele. Hochstein ci offre condizioni che sono sempre favorevoli per Israele».
Il movimento sciita Hezbollah – sostenuto dall’Iran e forte di un’ala militare ben addestrata ed armata di decine di migliaia di razzi – malgrado il calo registrato dal suo schieramento politico («8 marzo») alle ultime elezioni, resta la forza più influente nella politica libanese. E non manca di far sentire il suo peso recitando, con l’approvazione di tanti libanesi e la disapprovazione di molti altri, il ruolo di unico difensore degli interessi economici del paese. Dall’esito del negoziato dipenderà la possibilità del Libano di poter sfruttare riserve di gas sottomarino al momento di entità incerta. La differenza se sarà deciso un confine marittimo piuttosto di un altro, è di miliardi di dollari, vitali per un paese che ha disperato bisogno di valuta pregiata per stabilizzare la lira e ridare fiducia ai libanesi che nel 2019 hanno manifestato in massa contro corruzione, malgoverno e l’intera classe politica.
Nell’ultimo periodo si sono intensificati raduni e manifestazioni, anche in mare, di libanesi che chiedono al governo uscente di adottare una posizione più ferma tale da garantire al paese una quota maggiore di riserve di gas. Daamoush rispondendo a una nostra domanda afferma che Hezbollah rispetterà le decisioni del governo. Poi avverte: «Pensiamo che il governo non rinuncerà ai diritti del popolo libanese. Se invece vedremo che non ci saranno benefici per la nostra gente allora faremo sentire forte la nostra voce». E ancora: «Se Israele estrarrà gas dalla zona contesa senza un accordo, allora difenderemo i nostri diritti. In quel caso sarà Israele che avrà scelto la guerra non noi». Ad agosto anche il premier israeliano Yair Lapid ha usato toni bellicosi avvertendo che il suo governo non esiterà a proteggere gli interessi del paese.
Il peggioramento delle condizioni economiche e finanziarie in Libano è parallelo allo stallo politico. Il premier incaricato Najib Mikati non è ancora riuscito a formare una maggioranza. Inoltre, il 31 ottobre scadrà il mandato del presidente Aoun e al momento non c’è ancora accordo sul nome del futuro capo dello Stato. Si pensa che in assenza di un nuovo gabinetto Aoun si rifiuterà di lasciare il palazzo di Baabda. I cittadini libanesi intanto già guardano con preoccupazione all’inverno che si avvicina con il carburante alle stelle e la poca elettricità disponibile. Charbel, nel suo piccolo negozio di souvenir, pensa di procurarsi quanta più legna da ardere possibile per la sua vecchia stufa. «Da anni era solo decorativa lì a casa ma ora dovrà riscaldarci per tutto l’inverno. Trovare la legna però non è facile» dice con un mezzo sospiro. Come lui proveranno a fare decine di migliaia di libanesi. Il paese famoso per i suoi cedri e gli alberi secolari ora rischia anche il disboscamento. «Non ci hanno lasciato altra scelta, comprare il gasolio ti porta via quanto spendi per sfamarti un mese», si giustifica Charbel. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto
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GAZA. Il mare è una ricchezza ma spaventa chi vive sulla costa
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 8 settembre 2022 – Nella Striscia di Gaza nessuno dimentica i lutti sofferti da 49 famiglie durante l’ultima escalation, un mese fa, tra Israele e il Jihad islami e sotto i bombardamenti dell’aviazione israeliana. Ma la vita va avanti e a migliaia vanno in spiaggia e al mare, l’unica vacanza possibile per i 2 milioni e duecentomila palestinesi che vivono come prigionieri. Questo piccolo lembo di terra palestinese, sotto blocco israeliano da 15 anni, offre ai suoi abitanti circa 40 chilometri di costa. «Abbiamo solo il mare» ci dice Bilal, 29 anni, con la famiglia nella spiaggia del capoluogo Gaza city, «facciamo il bagno con le nostre bambine e ci proteggiamo dal gran caldo di questi giorni. Arriviamo al mattino e andiamo via al tramonto, come gran parte delle famiglie che vedi in spiaggia». Mentre Bilal risponde alle nostre domande, sette-otto ragazzi davanti a noi si tuffano in acqua lanciando urla di gioia. Una donna va in riva con la sua bimba che piange impaurita. Alle nostre spalle un nugolo di ragazzini circonda il carretto dei ghiaccioli da pochi centesimi. Scene da mare, come in qualsiasi parte del mondo. E fare il bagno a Gaza quest’anno è ancora più bello. Con il completamento di tre impianti di trattamento delle acque reflue – grazie a donazioni per 250 milioni di dollari – quest’estate i bagnanti possono tuffarsi senza temere malattie.
A qualcuno però il mare di Gaza fa paura. Dozzine di famiglie del campo profughi di Shate, alla periferia nord di Gaza city, lo vedono troppo vicino alle loro povere case fatiscenti. La crisi climatica, l’aumento delle temperature e il conseguente innalzamento dei mari sta avendo un impatto anche su Gaza dove la sostenibilità ambientale è già fragile da lungo tempo. «Il nostro campo è vicino al mare, un tempo avevamo la spiaggia, oggi è quasi sparita», ci racconta Mohammad Abu Hamada, 72 anni, figlio di profughi palestinesi della Nakba. «Fino a una decina di anni fa il mare era nostro amico» prosegue «la sua bellezza ci aiutava a sopportare la povertà. Ora non più, l’acqua è troppo vicina. Quando viene l’inverno e il mare è grosso abbiamo paura che le onde possano inghiottirci, assieme alle nostre case. Nessuno interviene e presto saremo costretti ad andare via, sta diventando pericoloso». Timori ampiamente giustificati.
La gente di Gaza, già costretta a sopportare le conseguenze di guerre e bombardamenti e la carenza di acqua potabile ed elettricità, ora deve lottare per costruire una resilienza climatica. «Non è facile porre rimedio alla devastazione ambientale mentre si è sotto blocco (israeliano) da anni, con una crisi umanitaria da affrontare ogni giorno» ci spiega il professore Ahmed Hilles, direttore del Nied, l’Istituto per l’ambiente e lo sviluppo a Rimal (Gaza city). «Gli interventi da fare sono urgenti» aggiunge «le precipitazioni complessive, già scarse, sono diminuite ulteriormente. E quando arrivano sono molto violente, in poche ore cadono gli stessi millimetri di pioggia che anni fa misuravamo in un arco di tempo molto più ampio e provocano inondazioni in aree urbane popolate. Non solo, queste piogge tanto violente devastano le coltivazioni accrescendo l’insicurezza alimentare e contribuiscono a far infiltrare nel terreno le sostanze tossiche di cui Gaza è impregnata».
In Medio Oriente le temperature sono aumentate di 1,5 gradi, ben al di sopra delle tendenze globali di 1,1 gradi. Le temperature dovrebbero salire di oltre 4 gradi entro la fine del secolo, accompagnate da una diminuzione delle precipitazioni annuali con stime che vanno dal 30 al 60%. Gaza è diventata un hotspot del cambiamento climatico all’interno di un hotspot in cui domina una emergenza umanitaria di base che vede al centro dei problemi la poca acqua potabile. Quella disponibile al 90% non è bevibile secondo gli standard internazionali. Il blocco israeliano è un fattore centrale perché accresce la difficoltà se non l’impossibilità di intervenire con progetti e programmi specifici per affrontate il cambiamento climatico e la poca acqua. Gli impianti di desalinizzazione costruiti a Gaza sono costosi, richiedono una manutenzione continua e non bastano a soddisfare il fabbisogno. «In media – ricorda il professor Hilles – una persona a Gaza riceve circa un quinto della quantità di acqua potabile raccomandata dall’Oms (solo 21 litri al giorno, contro i 100 litri raccomandati, ndr). Questo è meno del 10 percento dei 280 litri medi che i cittadini israeliani ricevono ogni giorno». A Gaza solo la falda acquifera costiera è sicura per bere ed è l’unica fonte d’acqua naturale della Striscia. Tuttavia, avverte Hilles, «questa riserva d’acqua, a causa dell’aumento del livello e della forza del mare, è infiltrata sempre di più dall’acqua salata. Un problema al quale contribuiscono anche l’estrazione eccessiva e le acque reflue non trattate». Intervenire non è facile. «Lo scontro in atto (dal 2007) tra il governo dell’Anp a Ramallah e quello di Hamas a Gaza complica qualsiasi tentativo di mettere in campo interventi seri per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Le due parti invece di farsi la guerra dovrebbero cooperare» ci dice un giornalista di Khan Yunis che vuole restare anonimo.
Ma l’ostacolo principale alla capacità di rispondere alla crisi umanitaria e a mitigare i cambiamenti climatici resta il blocco israeliano. Da anni Israele limita severamente l’ingresso di materiali a Gaza che definisce di «doppio uso», ossia utilizzabili sia per scopi civili che militari da parte di Hamas. L’accesso dei palestinesi ai materiali di base per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture è sotto il controllo dell’esercito israeliano che può decidere in qualsiasi momento di bloccare del tutto l’ingresso di certi materiali. Ciò rallenta i progetti per la riabilitazione delle reti idriche, per l’energia elettrica e la sicurezza alimentare. «Intanto – conclude il professor Hilles – aumentano i bisogni di una popolazione in forte crescita demografica in un territorio minuscolo. Ogni anno il saldo tra morti e nuovi nati fa segnare +70-80mila. Di pari passo aumentano i bisogni primari e si aggrava l’inquinamento». Pagine Esteri
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GRAN BRETAGNA. Ong per i diritti umani a nuova premier Truss: basta attacchi ai migranti
della redazione con testi dell’agenzia DIRE
Pagine Esteri, 7 settembre 2021 – La nuova primo ministro Liz Truss “avrebbe la possibilità di lasciarsi alle spalle le politiche divisive che hanno segnato l’amministrazione del predecessore Boris Johnson”, e invece durante la sua campagna per la leadership conservatrice “ha scommesso ancora di più sulle politiche dell’ex premier crudeli verso i più vulnerabili, tra cui profughi e rifugiati”. Sonya Sceats, direttrice esecutiva dell’organizzazione britannica di difesa dei diritti delle vittime di tortura Freedom from Torture, commenta così all’agenzia Dire l’incarico come primo ministro di Truss, affidatole dal suo partito e sugellato quest’oggi dalla Regina Elisabetta nel Castello scozzese di Balmoral.
Elizabeth Truss
La nuova premier, 46 anni, nativa di Oxford, ministra degli Esteri durante la passata amministrazione, è stata eletta alla guida del Partito conservatore, schieramento che governa il Paese, da circa 172mila elettori iscritti alla formazione dei “tories”. Le consultazioni si sono rese necessarie dopo le dimissioni di Johnson, che ha dovuto lasciare l’incarico dopo essere sopravvissuto a un voto di sfiducia, a fronte anche delle forti critiche ricevute per aver violato le limitazioni imposte dal suo governo durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19 prendendo parte a una festa nella sede del governo nonché sua residenza, al 10 di Downing street.
Due organizzazioni della società civile e un sindacato hanno presentato presso l’alta corte di Londra una denuncia contro una delle politiche più controverse del governo dell’ex premier: un accordo per il trasferimento forzato in Ruanda dei richiedenti asilo che fanno ingresso irregolare in Gran Bretagna. L’intesa, firmata nella capitale Kigali lo scorso aprile dalla ormai ex ministra degli Interni Priti Patel – che si è dimessa ieri dopo la nomina di Truss alla guida dei conservatori – è stata annunciata in contemporanea da Johnson a Londra. Il primo volo verso il Paese africano sarebbe dovuto partire a giugno, ma è stato bloccato già sulla pista di decollo dopo un ricorso alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) presentata da uno dei passeggeri. I giudici europei hanno stabilito che il piano del governo britannico non può essere applicato finché la giustizia britannica non avrà concluso tutti i procedimenti giudiziari che sono stati presentati contro tale misura.
E’ da qui quindi, dal versante dei diritti, soprattutto quelli a rischio, che Sceats guarda al nuovo esecutivo a guida Truss che verrà annunciato nelle prossime ore. “La nuova premier potrebbe abbandonare una serie di politiche di cui il popolo britannico è veramente stufo”, premette l’attivista, che però aggiunge: “Durante la sua campagna per farsi eleggere alla guida dei tories ha scommesso ancora più fortemente su politiche che attaccano i diritti umani come l’intesa con il Ruanda, siglata all’insegna del principio ‘soldi in cambio di persone’, e poi il National security bill e il British Bill of Rights”. Le bozze di questi due ultimi provvedimenti sono al momento entrambe in fase di esame da parte della Camera dei Lord, uno dei primi passaggi dell’iter necessario per diventare leggi, così come prevede l’ordinamento britannico. Le misure sono state duramente criticate da diverse organizzazioni, in quanto accusate, fra le altre cose, di assestare duri colpi alla libertà di espressione e dei diritti umani, oltre a fornire la possibilità a Londra di sottrarsi alle sentenze della Cedu.
Freedom from Torture, che fornisce assitenza psicosociale alle vittime di tortura che ottegono asilo nel Regno Unito, fornirà un documento con diverse testimonianze a sostengo della causa presentata ieri contro il piano di Londra e Kigali. Un rapporto della ong Medical Justice Uk ha individuato almeno 14 vittime di tortura che erano state destinate al trasferimento verso il Ruanda, un Paese che le organizzazioni non considerano sicuro per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e le garanzie contro la tortura.
“Sappiamo che le misure su cui punterà Truss avranno un impatto enorme sulle comunità più vulnerabili della nostra società, logorando così quella rete di sicurezza dei diritti umani che ci rende tutti più sicuri”, constata Sceats.
L’attivista lancia quindi un appello alla politica ma ancora di più ai cittadini britannici: “In tempi di crisi economica senza precedenti, questo Paese ha bisogno di una leader sensibile e compassionevole, non di un’esponente di destra ancora più inutilmente muscolare. Sta al popolo della Gran Bretagna- scandisce ancora Sceats- chiedere al suo governo di rappresentare tutti, a prescindere dalla loro condizione economica o dalla loro provenienza”. Pagine Esteri
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L’Europa attende il gas del Turkmenistan
In risposta alla guerra del Cremlino contro l’Ucraina, l’Unione Europea si sta muovendo per emanciparsi dal gas naturale russo. Sebbene la mossa abbia un buon senso geopolitico, il taglio delle forniture di gas russe ha già causato problemi economici. Prima della guerra, la Russia forniva il 40 per cento del gas europeo. L’Unione Europea ora [...]
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Etiopia: Abiy e la sua paura della pace
Il Tigray ha offerto colloqui per la pace, ma il premier federale Abiy Ahmed non risponde. Il suo problema più grande è l'Eritrea. Si rischia una guerra regionale
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Cavernicoli, curricoli e grotte di Altamira
Nel dipanarsi della catena evoluzionistica dell’uomo, qual è esattamente l’anello cruciale che fa da discrimine fra ominide e umano?
Nel comune immaginario iconografico probabilmente campeggia il diorama dell’australopiteco che scartoccia la sua colonna vertebrale, si solleva dalla quadrupede contemplazione del suolo disegnando una trionfale parabola ascendente.
Homo erectus, homo habilis, homo ergaster… queste sono le etichette tassonomiche riportate da tutti i manuali scolastici per descrivere la gestazione della storia, fino approdare a lui: l’homo sapiens di cui noi illustri eredi porteremmo il pedigree genetico.
Eppure, ci sarà uno spartiacque.
Se dovessi indicare il momento del fatidico “fiat” lo vedrei nelle pitture rupestri di Altamira. Queste grotte della Cantabria recano stilizzate figure di animali, acerbi ghirigori, timbri di mani. Ma nello sbozzato naif dei graffiti c’è il segno di un passaggio. Lo scimmiesco primate, totalmente avviluppato nella sua struggle for existence, fa qualcosa del tutto sottratto alla logica dell’utile. Coprirsi, scaldarsi, nutrirsi, quanti quotidiani assilli nel suo quotidiano ambiente!
Eppure, non gli basta più cacciare il bisonte, lui vuole rappresentarlo.
Proiezione di un desiderio, di una premonizione, di un auspicio… non sapremo mai quali valenze sacrali o rituali affollavano la mente del disegnatore, ma sicuramente la scabra parete rocciosa diventa tela su cui far riverberare un’impellenza espressiva (urgenza inedita nella quotidiana girandola del cacciare-essere cacciato).
Il segno lasciato dal primitivo artista somiglia al gesto infantile di intingere la mano nel colore e tracciare un’impronta; primigenia traccia di esistere e non solo sopravvivere.
Non è dunque l’abilità di fabbricare strumenti, né la sofisticazione cognitiva dei suoi costrutti a identificare il nostro cavernicolo come uomo, ma proprio l’impellenza creativa di un qualcosa avulso alla pragmaticità dell’impiego; non sarebbe nemmeno la capacità del sentimento o l’ingegnosità del problem solving a costituire il tratto identificativo umano.
Esse sono infatti caratteristiche ugualmente presenti in diversa misura anche nell’animale, anzi, gli esperimenti di Köhler mostrano scimmie estremamente intuitive nell’escogitare soluzioni. Ciò che non compare in esse è l’afflato creativo. Tale vocazione si riscontra già nel bambino e nella fisiologica urgenza di estrinsecare fuori le chimere del dentro, non ancora ingabbiate in sovrastrutture sociali.
Nella società contemporanea, troppo spesso vengono bollate come “inutili” tutte le attività del pensiero non direttamente correlate a una concreta applicazione.
“A cosa serve?”
Questa domanda fa cadere la mannaia educativa nell’impostazione didattica di scuole e università, in nome di una strabica e regressiva ‘modernità’ di curricoli.
Le magnifiche sorti e progressive della contemporaneità si conformano ad una visione della cultura intesa come puro processo strumentale a un impiego pratico. Come un manuale dell’Ikea: il libro è funzionale alla realizzazione di qualcosa, non è visto nel suo intrinseco valore plasmante. Gli enti formativi millantano di preparare per il futuro giovani lavatori e non individui pensatori.
Ogni qual volta le discipline legate all’estrinsecazione del pensiero e dell’espressività vengono immolate sull’altare dell’utile, non facciamo altro che deodorare e incravattare l’australopiteco, che continua a dilagare in una società stemma del know how, ma che ormai paradossalmente don’t know why.
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Cile: la sconfitta al referendum rende Boric un’anatra zoppa
Ecco perchè i cileni hanno respinto il progetto di riforma costituzionale. Ora il nuovo Presidente è in seria difficoltà, per uscirne deve risolvere il problema di come consolidare il processo di transizione verso la democrazia
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La vittoria ucraina manda in frantumi la reputazione della Russia come superpotenza militare
Lo straordinario successo della recente controffensiva ucraina ha messo in luce la cattiva realtà dietro la reputazione della Russia come superpotenza militare. A più di sei mesi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina di Vladimir Putin, è ora ovvio che il suo esercito è in realtà un’istituzione profondamente imperfetta che non ha quasi alcuna somiglianza con l’immacolata forza [...]
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Perchè il price cap, come le sanzioni, non funzionerà contro la Russia
Qualsiasi soluzione del genere, si rivela presto inefficace e con grandi effetti collaterali. Serve solo alle élite politiche socio-populiste dell'Occidente a sedare l'elettorato
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Elisabetta II: più che monarca, marchio globale
La monarchia britannica è un eccellente esempio di marchio aziendale heritage. Valore stimato: 67,5 miliardi di sterline
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Gaza, un buon affare per l’Egitto
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 13 settembre 2022 – La ruspa fa avanti e indietro alla periferia meridionale di Gaza city. Il suo braccio afferra le macerie di un edificio colpito dall’aviazione israeliana nel 2021 e demolito solo di recente. E le scarica nel rimorchio di un autocarro alzando una nuvola di polvere. Ripete questi movimenti sotto lo sguardo di un ingegnere. Ci dicono che è un egiziano. «Salve, come va? Lei è del Cairo? Si trova bene a Gaza?». «No, sono del Delta. A Gaza sto bene, qui ci sono fratelli dell’Egitto». La conversazione va poco oltre. L’ingegnere non ha tempo e desiderio di conversare. Quella egiziana nella Striscia di Gaza è una presenza discreta ma significativa, soprattutto dallo scorso anno, quando il regime di Abdel Fattah el Sisi si è proposto di ricostruire quanto i bombardamenti israeliani avevano distrutto con 500 milioni di dollari. Fondi che, stando a quanto dicono da queste parti, passano per una porta girevole: escono (forse) dall’Egitto e rientrano in patria attraverso le imprese che eseguono i lavori.
Non è facile avere notizie certe. «Quello che è sicuro è che per le imprese egiziane lavorare qui è un buon affare. Gaza è povera e con tante necessità ma qui arrivano finanziamenti delle agenzie dell’Onu e di ong importanti», ci chiarisce Hassan, che, come ci hanno chiesto quasi tutte le persone con cui abbiamo parlato, preferisce non sia rivelato il suo cognome. Il tema «egiziano» è delicato. Le autorità di Hamas non vogliono noie di alcun tipo con il regime di El Sisi con il quale hanno instaurato, a partire dal 2018, buone relazioni dopo gli anni difficili seguiti allo scontro duro tra El Sisi e i Fratelli musulmani. «I leader di Hamas – spiega Hasan – hanno bisogno dell’Egitto, è un interlocutore fondamentale, è l’unica porta sul mondo che hanno a disposizione e devono mantenerla aperta. Per questo soddisfatti o scontenti che siano non sollevano obiezioni e si mostrano compiacenti nei confronti del Cairo». E preferiscono non ricordare che l’Egitto resta un partner di Israele nel mantenere il blocco di Gaza e che ha distrutto i tunnel sotterranei di contrabbando sul confine con il Sinai che (oltre alle armi) garantivano rifornimenti vitali. L’Egitto inoltre, da anni, è mediatore tra gli islamisti palestinesi e Israele e il mese scorso è stato decisivo, anche se i leader del movimento islamico non lo ammettono, per tenere Hamas fuori dallo scontro tra Israele e il Jihad islami.
Rispondendo nel suo ufficio a Gaza city alle nostre domande sul mancato intervento militare di Hamas a sostegno del Jihad, Basem Naim, che cura i rapporti del movimento islamico con la stampa estera, ci ha detto «non è vero che non abbiamo partecipato, abbiamo contribuito in altri modi a contrastare gli attacchi israeliani». A Gaza invece sostengono che è prevalsa «l’ala governista» di Hamas, favorevole ad ascoltare i «suggerimenti» dell’Egitto e interessata a consolidare il controllo di Gaza, alla luce anche dei bisogni crescenti di una popolazione in piena emergenza umanitaria a causa del blocco. L’ingresso in campo di Hamas avrebbe significato una nuova guerra totale con Israele e, tra le altre cose, la sospensione dei 20mila permessi di lavoro che Tel Aviv ha dato nei mesi scorsi ad altrettanti manovali di Gaza. Si tratta di una fonte di reddito importante per migliaia di famiglie palestinesi e un flusso di milioni di dollari che entra a Gaza. «Hamas – ci dice Ali, proprietario di un minimarket – sa che Israele e l’Egitto lo tengono in scacco ma non può permettersi di far chiudere il valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto) e di imporre a 20mila manovali di rinunciare al lavoro in Israele. I soldi che portano a casa fanno girare parecchie cose qui a Gaza, aiutano anche me, e (attraverso le tasse) finiscono in parte anche nelle casse del governo non ufficiale di Hamas».
E poi c’è ancora da realizzare la ricostruzione dopo i tanti attacchi militari israeliani dal 2008 a oggi. Se i bombardamenti aerei di inizio agosto hanno provocato ben 49 vittime (inclusi 17 bambini) tra i palestinesi ma relativamente pochi danni materiali, invece l’offensiva israeliana del maggio 2021 è stata distruttiva: 1.500 case ridotte in macerie, più di 1.700 hanno subito danni irreparabili insieme ad altre 17.000 parzialmente danneggiate. Un anno fa, poco dopo l’annuncio del cessate il fuoco, l’Egitto inviò a Gaza cibo, vestiti e medicinali. Poi sono arrivati autocarri, gru, ruspe e squadre di ingegneri. Il capo dell’Unione dei costruttori palestinesi, Osama Kahil, spiegò che l’aiuto egiziano sarebbe servito a realizzare 100.000 case oltre a fabbriche e scuole. L’esecutivo di Hamas ringrazia i fratelli egiziani ma girando per Gaza non si vedono tanti cantieri aperti come vorrebbero questi numeri.
«Il vero affare per gli egiziani è il valico di Rafah e ad averne il vantaggio maggiore è la società Abna Sina (Figli del Sinai)» avverte Abed, un reporter, «tutti i movimenti dei palestinesi di Gaza nel Sinai e attraverso il terminal di Rafah sono gestiti da Abna Sina che è dell’Esercito egiziano e include anche un figlio di El Sisi». Ogni anno molte migliaia di palestinesi di Gaza, pagando ognuno di loro centinaia di dollari, passano per Rafah. Vanno al Cairo per motivi di lavoro, di affari, di studio o per curarsi. «Parliamo decine di milioni di dollari che ogni anno entrano nelle casse di Abna Sina – aggiunge il giornalista – e chi sceglie il passaggio Vip per evitarsi attese di giorni nel Sinai, disagi insopportabili e di essere maltrattato dai soldati egiziani, deve bonificare alla Abna Sina 1.250 dollari». Abed sorride e commenta con amarezza: «Gaza, sotto blocco e con tutti suoi problemi, fa gli interessi economici degli egiziani. Israele ci osserva, fa le sue manovre e quando vuole ci colpisce». Pagine Esteri
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L’Ucraina sta vincendo, ma ha bisogno di armi per fermare la Russia
Lo straordinario successo della controffensiva dell’Ucraina nella regione di Kharkiv ha fornito la prova conclusiva che le forze armate ucraine sono più che capaci di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia. Ora è il momento di porre fine alla guerra fornendo all’Ucraina tutto il necessario per consolidare queste conquiste e assicurarsi una vittoria decisiva. [...]
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Delitto ‘Via Poma’: perché se n’è occupa l’antimafia?
Lo dice la parola stessa: Commissione Parlamentare Antimafia, un organimo bicamerale, composto da 25 senatori e 25 deputati, con analogo potere di quello della magistrature, compreso quello di poter arrestare una persona, se si ravvisa il caso. Indaga, deve cercare di fare luce su quell oche hanno fatto e fanno la Cosa Nostra, la ‘ndrangheta, la [...]
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Elezioni 2022: la propaganda della Russia trova casa nei media italiani
Dall'invasione dell'Ucraina, l'Italia è diventata un rifugio per la disinformazione e la propaganda pro-Cremlino, sostiene 'Foreign Policy'
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Nuova fiammata tra azeri e armeni. Erdogan sfrutta le difficoltà di Putin
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 14 settembre 2022 – Nuova fiammata negli scontri tra azeri e armeni e nuova grana per il presidente russo Vladimir Putin, proprio mentre le sue truppe arretrano sotto i colpi della controffensiva dell’esercito ucraino, ampiamente sostenuto dalle armi e dal supporto della Nato.
La Russia, impegnata sul fronte ucraino non senza incontrare difficoltà, avrebbe tutto l’interesse alla massima stabilità nel quadrante dove da tempo svolge un complicato ruolo di paciere.
Ma l’Azerbaigian e il suo sponsor turco sembrano intenzionati a trarre il maggior vantaggio possibile dal precario equilibrio venutosi a creare dopo la vittoriosa aggressione militare di Baku nei confronti di Erevan dell’autunno del 2020. In pochi giorni, due anni fa, le truppe azere addestrate da consiglieri turchi e armate da Ankara e Israele (oltre che da Mosca, che pure tradizionalmente sostiene Erevan) hanno letteralmente sbaragliato le difese armene, conquistando tutti i territori che gli armeni avevano occupato nel conflitto del 1991/94 e recuperando anche una parte consistente della Repubblica di Artsakh nel Nagorno-Karabakh, territorio a maggioranza armena ormai ridotto all’osso e totalmente accerchiato da Baku.
Senza l’intervento di Mosca l’avanzata azera avrebbe potuto letteralmente cancellare l’Armenia dalla mappa. L’equilibrismo di Putin tra i due paesi e la capacità di dissuasione delle truppe russe, presenti in forze sul territorio armeno, convinsero il presidente azero İlham Aliyev ed Erdogan a fermarsi. Il cessate il fuoco del 10 novembre 2020, imposto da Putin dopo i fallimenti di Washington e Parigi, cristallizzò un equilibrio che sembrava congeniale a Mosca: da una parte un’Armenia mutilata, indebolita e divisa sempre più dipendente dalla Russia per la sua sopravvivenza; dall’altro un Azerbaigian, ormai estensione orientale della Turchia, asceso al ruolo di potenza regionale e interessato alle opportunità che l’aumento dell’influenza russa nella regione concedeva. Mosca, da parte sua, rafforzava la sua egemonia, potenziando la sua presenza militare e politica nel quadrante grazie allo schieramento di 2000 soldati russi incaricati di monitorare il rispetto del cessate il fuoco e un passaggio ordinato e pacifico a Baku dei territori strappati a Erevan dall’Azerbaigian.
Ma l’equilibrio raggiunto nel 2020 si è dimostrato assai più precario del previsto, e nell’ultimo anno e mezzo gli scontri armati e gli sconfinamenti delle truppe armene ed azere si sono moltiplicati e sono diventati più cruenti fino a sfiorare nelle scorse ore un nuovo conflitto su larga scala tra i due contendenti.
Dalla notte tra lunedì e martedì le scaramucce dei giorni precedenti si sono improvvisamente aggravate, e gli scontri al confine tra Armenia e Azerbaigian avrebbero causato un centinaio di morti equamente divisi tra le due parti, almeno stando ai bilanci forniti dai due paesi.
«Le forze azerbaigiane non cessano i loro tentativi di avanzare. Il nemico continua a usare artiglieria, colpi di mortaio, Uav e armi di grosso calibro in direzione di Vardenis, Sotk, Artanish, Ishkhanasar, Goris e Kapan, prendendo di mira infrastrutture sia militari che civili» denunciava ieri mattina il portavoce del ministero della Difesa armeno, Aram Torosyan. Le autorità di Baku respingono le accuse e incolpano dell’escalation gli armeni, accusati di diffondere notizie false: «Le forze armate armene hanno commesso una provocazione su larga scala nelle aree di Dashkasan, Kalbajar e Lachin» recita un comunicato del ministero della Difesa azero.
Ieri intanto il governo armeno ha inviato un appello ufficiale all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), un’alleanza militare creata nel 1992 di cui l’Armenia è parte insieme a Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, oltre che al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per segnalare le nuove violazioni commesse dall’Azerbaigian.
Inoltre il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha informato la stampa di aver avuto dei colloqui telefonici diretti non solo con Vladimir Putin, ma anche col presidente francese Emmanuel Macron e con il segretario di Stato di Washington Antony Blinken, per denunciare «i dettagli delle azioni provocatorie e aggressive delle forze armate azerbaigiane contro il territorio sovrano dell’Armenia» e chiedere «una risposta adeguata da parte della comunità internazionale».
Il Consiglio di Sicurezza di Erevan ha anche chiesto esplicitamente l’aiuto militare di Mosca in virtù del Trattato di Amicizia, cooperazione e mutua assistenza esistente tra Russia e Armenia.
La Russia si è adoperata per imporre l’ennesimo cessate il fuoco tra i due eserciti, entrato in vigore alle 9 del mattino di ieri, che però è stato rispettato solo in parte. I combattimenti infatti sono continuati, anche se con minore intensità. Stamattina il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha accusato gli armeni di bombardare le proprie postazioni in diverse località; le autorità di Erevan hanno rivolto analoghe accuse alla controparte.
Già alla fine di agosto le forze armate di Erevan e Baku si erano scontrate con un’intensità maggiore rispetto alle continue scaramucce dei mesi precedenti. L’esercito azero si è impossessato della città di Lachin e dei vicini villaggi di Zabukh e Sus, di fatto eliminando il sottile corridoio che collegava la repubblica armena con l’Artsakh. Il passaggio di quei territori all’Azerbaigian era previsto dagli accordi mediati da Mosca, ma Baku ha voluto accelerare i tempi suscitando la reazione militare di Erevan. Secondo l’accordo del 2020 garantito dalla Federazione Russa, entro la fine del 2023 le parti avrebbero dovuto realizzare una via di comunicazione terrestre alternativa tra Erevan e Stepanakert, ma l’Azerbaigian ha violato i patti e ha imposto militarmente agli armeni di evacuare Lachin entro la fine di agosto, spostando con la forza il nuovo corridoio – che però non è ancora stato realizzato – a pochi chilometri a sud del precedente. Tutto è accaduto sotto lo sguardo vigile del contingente russo schierato nella regione, senza che però i militari di Mosca intervenissero in alcun modo.
Per ora non si segnala nessun intervento significativo della diplomazia internazionale nell’area. Così come la Russia, neanche USA e Francia vogliono e possono schierarsi troppo nettamente a favore di una delle parti in conflitto.
L’Armenia non può essere completamente abbandonata a se stessa, pena la sua implosione come stato nazionale e un netto rafforzamento dell’egemonia turca nell’area che nessuna delle tre potenze internazionali vede di buon occhio.
Ma d’altra parte nessuna delle tre diplomazie può spingersi troppo oltre nei confronti dell’Azerbaigian – e della Turchia – che dopo l’invasione russa dell’Ucraina svolge un ruolo ancora più centrale nella geopolitica del gas.
Ma è la Russia il paese che in questo momento potrebbe essere maggiormente danneggiata da un nuovo conflitto nell’area, che però non sembra essere in grado di stoppare del tutto. Mosca, che pure possiede due importanti basi militari in Armenia e non può rinunciare al proprio ruolo storico di protettrice del paese, non può però neanche permettersi di schierarsi troppo nettamente dalla parte di Baku, provocando una rottura con la Turchia, unico paese Nato che pur parteggiando apertamente per l’Ucraina ha evitato di schierarsi troppo nettamente dalla parte di Kiev pur essendo un membro dell’Alleanza Atlantica. Putin continua a sperare in uno sganciamento sempre maggiore di Erdogan dalla Nato e con Ankara la Russia intrattiene una complicata relazione di alleanza/competizione.
Un intervento più deciso di Mosca a favore dell’Armenia, inoltre, indispettirebbe alcuni delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale che aderiscono all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva. La Russia non vuole perdere la sua relativa presa su Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, sempre più sensibili all’influenza politica, religiosa ed economica della Turchia e schierate più o meno nettamente a favore dell’Azerbaigian, provocandone l’uscita dal patto militare come è già avvenuto con l’Uzbekistan.
Baku e Ankara stanno quindi sfruttando la debolezza della Federazione Russa nell’area, aggravata dallo scenario ucraino, per ottenere vantaggi nella contesa con l’Armenia.
Domani e venerdì l’inquilino del Cremlino sarà a Samarcanda per partecipare al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, durante il quale incontrerà sia Xi Jinping – che nei giorni scorsi ha teso la mano a Putin con l’obiettivo di fondare un “mondo più giusto” – e Recep Tayyip Erdogan. Dovrà tentare di convincere il “sultano” a non tirare troppo la corda. Che ci riesca è tutto da vedere. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI:
nena-news.it/la-solitudine-del…
aljazeera.com/news/2022/9/13/w…
theguardian.com/world/2022/sep…
reuters.com/world/asia-pacific…
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Come creare una password Wi-Fi difficile davvero
L’Italia è il terzo Paese al mondo più colpito da attacchi informatici. Nei primi mesi del 2022, infatti, sono state registrate 1838 attività di hacking, il 42% in più rispetto al 2021. Come si può, dunque, cercare di arginare questo problema? Sicuramente scegliendo con attenzione la password del Wi-Fi che, se intercettata, potrebbe permettere a [...]
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Difendiamoci
Può capitare che dopo avere detto di volere una cosa si finisca con il costruire l’esatto opposto. Guardate Putin, che boccaloni nostrani descrivevano come un grande stratega a capo di un’armata imbattibile: s’è mosso proclamando che l’Ucraina doveva essere neutrale e disarmata e si ritrova circondato da armate che reagiscono al suo imperialismo mistico, con Finlandia e Svezia che hanno smesso d’essere neutrali. La sola attenuante che i boccaloni possono invocare è un interesse materiale, perché quello intellettuale devono solo sperare sia dimenticato, con disinteresse.
L’unità europea (ed occidentale) è una delle chiavi di quel ribaltamento. Dobbiamo esserne orgogliosi. E il fatto che il principale partito d’opposizione al governo italiano, che quella unità contro l’aggressione putiniana ha voluto e difeso, mostri di condividerla deve renderci ancora più orgogliosi. Sebbene quel partito si trovi coalizzato con chi sostenne l’opposto, salvo votare l’opposto di quel che sosteneva.
Da questa parte del mondo, dove regna il diritto, la civiltà e la pace, dove nessuno si sogna di aggredire il vicino e dove è diffuso il benessere, si vive più sani e più a lungo di quanto mai sia capitato, si giocano partite decisamente meno cruente, eppure di grande significato e con riflessi decisivi sul futuro. Ma anche qui si assiste ad una eterogenesi dei fini, con la destra d’impostazione sovranista che, consapevolmente o meno, non fa altro che reclamare più Unione europea.
Dice Meloni, infatti, che si propone di realizzare un governo che difenda gli interessi italiani. Giusto. E lo dice con riferimento al tema del gas, reclamando il tetto al prezzo. Oramai l’identificazione con il governo Draghi sembra totale. Ma Draghi conosce la storia, che ad altri sembra sfuggire. L’Italia va difesa, in effetti, ma da certi politicanti italiani.
Tanto era chiaro che dalle questioni energetiche e dalle materie prime sarebbero dipese sia la pace che l’indipendenza, che il primo nucleo di Europa unita fu la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Correva l’anno 1951. E tato era chiaro che l’energia del futuro sarebbe stata il futuro dell’Europa che nel 1957, in coincidenza con il Trattato di Roma, nasce Euratom.
L’Italia era molto avanti, nella ricerca per lo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare, ma la convinzione comune era che gli investimenti sarebbero stati così rilevanti da consigliare la collaborazione fra Stati. Domanda: chi ci ha fatto fuori? I francesi, i tedeschi, chi è stato? Ci siamo fatti fuori da soli, perché in nome di un’ecologia retta dal petrolio uscimmo, a furor di popolo, dal settore in cui eravamo in vantaggio. Demagogia verde che ci lasciò al verde energetico, premessa della dipendenza dall’estero, che ora paghiamo. Difendiamo l’Italia, ma da questa roba italiota.
Ora vogliamo il tetto al prezzo del gas. Giusto. Un tetto che serve a fermare la corsa dei prezzi, ma che per funzionare ha bisogno che si abbiano fonti alternative. Meglio ancora se dentro casa. Gas nostro. Correva l’anno 2016, appena ieri mattina, e una manata di regioni di sinistra (8) e di destra (2) chiesero e ottennero un referendum contro le trivelle in Adriatico.
Le motivazioni erano e sono rimaste un classico della mitologia regressista: difendiamo la pesca (che si fa comunque, come si può vedere), difendiamo i nostri mari, difendiamoci dalle multinazionali. A gridarlo anche Fratelli d’Italia e la Lega. Il referendum manco raggiunse il quorum e la sola cosa da cui ci siamo difesi è dal gas italiano. L’Italia va difesa, da questa roba italiota.
Per quel che riguarda i fondi Recovery, siamo quelli che ne ricevono di più. In quanto al debito pubblico, senza l’argine della Banca centrale europea saremmo da tempo sommersi. Difendiamoci, quindi, ma da chi crede di potere fare errori in Italia e protestare perché non si rimedia a Bruxelles. Da chi protesta per la mancanza dell’Ue che ha avversato, sicché dovrebbe protestare allo specchio. Come se il parassita se la prendesse con la mela. La sovranità sia anche credibilità.
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Elezioni 2022: ‘Signora mia…’, una palla ben giocata, ma, appunto, una palla
Al 'Corriere', l’altra sera, c’era l’avatar di Meloni. Letta -che l'ha mandata fuori dai binari pronunciando la parola 'amore'- ha mostrato agli ascoltatori chi fosse e chi resti la vera Meloni
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Le sanzioni contro la Cina potrebbero portare il Regno Unito in acque agitate
In qualità di nuovo Primo Ministro del Regno Unito, Liz Truss intende designare la Cina come una ‘minaccia’ piuttosto che semplicemente come un ‘concorrente sistemico’. La sua designazione è coerente con l’ultima revisione della difesa del Regno Unito, che definisce la Cina ‘la più grande minaccia statale’ alla sicurezza economica del paese. Ci sono state [...]
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Ucraina: il momento di Pirro dell’Epiro di Putin?
Il Presidente russo Vladimir Putin ha fatto la sua carriera politica su rischi e scommesse, che nel loro insieme lo hanno aiutato a consolidare la sua posizione come uno degli uomini forti più temuti nella società internazionale. Attingendo dalla sua esperienza personale nell’apparato di intelligence, ha predetto la risposta globale lenta e minimalista alle brutali [...]
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Guerra energetica in Europa per il gas e il petrolio della Russia
Parallelamente al conflitto militare in Ucraina, è in corso una campagna altrettanto aggressiva per la fornitura di gas e petrolio dalla Russia. Il 5 settembre 2022, la Russia ha rinunciato alla pretesa che solo i problemi tecnici fossero responsabili della chiusura del gasdotto Nord Stream che riforniva di gas l’Europa. Il portavoce presidenziale Dmitri Peskov [...]
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Armenia – Azerbaigian: Nagorno-Karabakh nuovo fronte della ‘guerra mondiale a pezzi’?
La richiesta di aiuto dell'Armenia alla Russia in uno dei momenti più critici e pericolosi della guerra in Ucraina. La 'guerra mondiale a pezzi' sta diventando 'totale'
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Nel nome del figlio: un “tuffo” nei ricordi del passato
“Non è detto che l’autore ne sappia su sé stesso più del lettore” conferma Björn Larsson citando Calvino.
Ci guarda negli occhi, noi che siamo seduti sulle rosse poltroncine del Café Rouge del Teatro Parenti di Milano, aspettando che si sveli attraverso l’intervista. Invece, lo scrittore capovolge la situazione e come nel libro parla, anche se non sintatticamente, in terza persona. Parla “Nel nome del figlio”.
Guidata dalla sua voce e dal suo percorso leggo con lui quest’ultimo suo libro.
Come si racconta una storia senza storia? In che modo si ricorda qualcuno senza averne ricordi? Come si vive senza memoria?
Il “figlio”, di solo 8 anni, è svegliato in un sonno di fanciullo da un grido. “Dice che il padre forse è morto, forse è annegato. Dice anche, se ricorda bene, che possono piangere, che hanno il permesso di
piangere (ma avrà davvero detto così?)”.
Il figlio non piange né quella notte, né mai. Solo più tardi dirà di sentirsi sollevato e cercherà, tra i ricordi, la ragione di quel sollievo. Ma ricordi non ne trova. Sei li conta da adulto; sei i ricordi del padre, più la fotografia di un bel giovane di 29 anni. Per altro, sono ricordi fatti di niente.
Il figlio è uno scrittore. Un riconosciuto importante scrittore. Dal quel primo “Il Cerchio celtico“, al successo della “La vera storia del pirata Long John Silver“, passando attraverso numerosi romanzi e saggi, raccogliendo premi e attestazioni. Il figlio ha, quindi, una sorta di dovere nei confronti della storia del padre. Non è questo il suo mestiere? O forse si riconosce di più in quello di velista e sommozzatore o stimato docente? No. Non c’è scampo, scrivere è un destino. Compito del letterato è di narrare storie. Ma non tutte le vite, a meno che l’autore non voglia inventarle, possono diventare romanzo.
E quella del padre?
“Che impronta può aver lasciato nel mondo un semplice elettricista di Skinnskatteberg? C’è qualcosa che è cambiato per il solo fatto che avesse trascorso un breve istante su questa terra?”
Sei ricordi, probabilmente in parte falsati e ricostruiti come tutti i ricordi, sono pochi per una storia vera. Bisognerebbe fantasticare, immaginare fatti, pensieri, sogni. Rendere il padre protagonista di un romanzo, visto che non ha avuto l’occasione di esserlo di una vita.
Può il figlio in tutta onestà fare questo torto al padre? Forse in alternativa basterebbe parlare di sé stesso, rintracciare attraverso il legame di sangue somiglianze fisiche, di carattere o di pensiero. Tuttavia, Larsson ritiene che la genetica non è altro che una teoria, se si escludono le possibili
malattie, e che lui si riconosce nel padre, da quel che gli ha detto la madre, solo nell’atteggiamento di incurvare le spalle. Eppure sin da quando è adolescente ha creduto di dover scrivere quel poco che sapeva del padre. Dimman si intitolava il primo tentativo, il racconto inserito tra altri e pubblicato nel 1980, l’unico tra tutti in terza persona. L’autore non lo ha mai più riletto, malgrado ci abbia pensato non lo ha inserito in questo suo ultimo libro.
D’allora più o meno coscientemente ha continuato a chiedersi il perché della sua riluttanza a raccontare. Forse perché questo avrebbe fatto crollare le mura che si è costruito per sopravvivere intorno al dolore, la mancanza, l’angoscia? Forse perché avrebbe distrutto la serena visione della sua vita? Sappiamo già che Larsson non è incline a concedere affidabilità alle varie teorie scientifiche o psicologiche.
Meglio interrogare scrittori e pensatori del passato o contemporanei per confrontarsi. Meglio affidarsi alla scrittura che secondo lui non deve essere cronaca, scienza, copia. La storia, generale o personale, non è letteratura. Provare a inventare partendo da eventi realmente accaduti è un tradimento. E in fondo “a che serve?”.
Chi era il padre?
Il ragazzo che non aveva potuto continuare gli studi, ma aveva continuato ad avere un alto concetto di sé? L’elettricista ingegnoso di un brevetto sui cavi elettrici? Il sommozzatore esperto? L’uomo che gli aveva rotto il salvadanaio per pochi spiccioli di acquavite? L’eroe affogato per salvare due bambini o il cinico che aveva pensato solo a salvare la pelle? Il papà che lo invitava a salire in barca con lui il giorno della tragedia? Era un cacciatore di sogni o un calcolatore di realtà? Il figlio non sa e non ricorda.
Quello che sa è che la vita – “quest’unica vita che abbiamo. Non so voi, ma io la penso così” – è sacra e perderla precocemente è “un’ingiustizia totale”. Solo questo è ciò che appartiene realmente al padre, la “tragedia di una vita che si spegne”. Il resto, la memoria, i se fosse andata diversamente, la ricerca da dove o da chi veniamo, il dolore o il sollievo, tutto questo appartiene ai vivi, agli altri, al figlio.
Alla fine (o all’inizio) lo scrittore era consapevole che avrebbe scelto la verità, ossia non sapere, o la libertà, che poi è lo stesso. Lo sapeva che non avrebbe scritto per il padre ma per sé e soprattutto per tutti coloro che vivono senza radici biologiche o culturali, che vivono accettando i vuoti.
Per il lettore che chiudendo il libro annota che figlio e padre sono detti sempre in terza persona e con la lettera minuscola: perché ognuno di noi vi si possa riconoscere. Noi che ci eravamo adagiati all’idea che ogni inizio è nel nome del padre, invece, è nel nome del figlio.
Björn Larsson, Nel nome del figlio, Iperborea, 2021
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Il Regno Unito e l’eredità della Regina Elisabetta II
La Regina Elisabetta II ha segnato una distinzione definita per la sua nazione e il mondo. Simbolo di unità, saggezza, umiltà e grazia, ha tracciato una nuova era di dinamismo con valori e principi radicati come pilastri inflessibili centrali nel suo regno. Rimane come l’ultima manifestazione di una figura unita in Gran Bretagna, superando le [...]
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Putin e la nuova era della razza
Alla scuola di Dugin e Putin, sempre più Paesi che rientrano solo più nominalmente nell'orbita di UE e USA
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Elisabetta II: il monarca e il colonialismo britannico
Il ruolo della regina Elisabetta II nella storia del colonialismo britannico. In diverse ex colonie, diversi modi di considerarla e celebrarla
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