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La storia di Rayan. «Ucciso dallo spavento quando i soldati sono entrati in casa»


« Mio nipote ha urlato impaurito quando ha visto i soldati israeliani, poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più» ha raccontato lo zio gli ultimi istanti di vita del bambino palestines

di Michele Giorgio –

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – «Quando Yasser, il papà di Rayan, ha aperto la porta di casa e i soldati (israeliani) sono entrati, c’è stato un forte trambusto. Il bambino forse temeva di essere arrestato perché i militari cercavano i ragazzi della scuola che avevano lanciato sassi alle auto israeliane. Rayan ha urlato impaurito poi all’improvviso si è accasciato sul pavimento. L’abbiamo portato all’ospedale ma il suo cuore non batteva più». Questo è il racconto che Mohammed Suleiman ha fatto della morte di suo nipote Rayan Suleiman, 7 anni, «ucciso dallo spavento» ieri a Taqua, il villaggio a qualche chilometro a Betlemme dove i militari hanno fatto irruzione in diverse case alla ricerca dei ragazzi della scuola elementare «Al-Khansa» che poco prima avevano preso di mira con lanci di pietre i coloni israeliani che transitano in macchina da quelle parti. Una morte per infarto – i medici dell’ospedale di Beit Jala hanno fatto il possibile per salvare la vita di Rayan – che ha generato grossa impressione nella Cisgiordania occupata dove la tensione, la rabbia e la frustrazione hanno toccato a livelli mai raggiunti in questi ultimi anni a causa delle incursioni israeliane, quasi quotidiane, in particolare a Jenin e Nablus.

L’esercito israeliano ha confermato che un ufficiale ha interrogato il padre di Rayan, così come molti altri genitori palestinesi sul presunto coinvolgimento dei loro figli nel lancio di sassi. Ma sostiene che non ci sono stati incidenti durante le indagini e che le truppe non hanno impiegato alcuna misura antisommossa, come i gas lacrimogeni, e che non esisterebbe «alcun collegamento tra la morte del bambino e i controlli nell’area». Testimoni palestinesi però insistono che i soldati si sono lanciati all’inseguimento dei ragazzi della scuola di Taqua tanto che all’inizio si era diffusa la voce che Rayan fosse morto cadendo da alcuni metri di altezza mentre cercava di fuggire.

Per i palestinesi il bambino è il 159esimo «martire» dall’inizio dell’anno in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Morti, molti dei quali combattenti armati, che in gran parte si concentrano negli ultimi sei mesi, da quando Israele ha lanciato in Cisgiordania l’operazione militare «Break the wave» in reazione agli attentati della scorsa primavera compiuti da palestinesi giunti da Jenin che hanno causato 18 morti a Tel Aviv e altre città israeliane. L’operazione si è intensificata negli ultimi mesi e alcuni la vedono in qualche modo collegata alla campagna di immagine del premier Yair Lapid per le elezioni legislative del primo novembre, così come quella di inizio agosto a Gaza contro il Jihad islami (49 morti palestinesi, tra cui 17 bambini).

Ad aggravare il clima generale sono anche le condizioni del prigioniero politico Nasser Abu Hamid, del campo di Al-Amari (Ramallah), ammalato di cancro e al quale i medici danno pochi giorni di vita ma che non è stato ancora scarcerato. In prigione resta anche l’avvocato per i diritti umani Salah Hamouri che ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione senza accusa da parte di Israele. Hamouri fu arrestato il 7 marzo a Kufr Aqab e da allora è rimasto in detenzione amministrativa, ossia senza accuse e un processo, che può essere rinnovata a tempo indeterminato. L’avvocato è tra i 30 prigionieri politici palestinesi in carcere senza processo che domenica hanno iniziato un digiuno in segno di protesta.

Intanto la visione di Israele non come Stato ebraico ma come «Stato di tutti i suoi cittadini» è costata la squalifica al partito arabo Balad/Tajammo, escluso ieri dalle votazioni del primo novembre dalla Commissione elettorale centrale. La squalifica era stata richiesta dal Likud dell’ex premier Netanyahu ma è stata sostenuta anche dal ministro della difesa Benny Gantz. Il leader di Balad/Tajammo, Sami Abu Shahadeh, ha annunciato che presenterà ricorso contro la decisione che potrebbe essere ribaltata dalla Corte suprema nei prossimi giorni. Nessun problema invece per le formazioni di estrema destra Sionismo religioso e Otzma Yehudit che pure non pochi israeliani accusano di razzismo.

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TRIPOLI DEL LIBANO. La povertà nella “città dei miliardari” provoca una migrazione letale


Mentre molti dei leader settari libanesi investono nelle loro comunità per guadagnare sostegno politico, Tripoli è stata trascurata nonostante la ricchezza dei suoi personaggi politici tra i quali figura il premier Mikati, il quarto più ricco uomo d'affar

Di Timour Azhari e Laila Bassam – Reuters

Pagine Esteri, 27 settembre 2022 – Nella città da cui provengono i politici più ricchi del Libano, i residenti più poveri piangono ancora una volta i loro morti. Tra loro, Mustafa Misto, un tassista della città di Tripoli, e i suoi tre bambini piccoli, i cui corpi sono stati trovati giovedì al largo delle coste siriane dopo aver lasciato il Libano su una nave di migranti che trasportava più di 100 persone.

Il ministro dei trasporti libanese Ali Hamie ha detto alla Reuters che 95 persone sono morte nell’incidente, inclusi 24 bambini e 31 donne. È il viaggio più letale mai partito dal Libano dove la disperazione costringe sempre più persone a tentare la via del mare su barche sovraffollate per cercare una vita migliore in Europa.

Prima di intraprendere lo sfortunato viaggio, Misto si era indebitato pesantemente, vendendo la sua macchina e l’oro di sua madre per sfamare la sua famiglia. Malgrado ciò non poteva permettersi cose semplici, come il formaggio per i panini dei suoi figli, raccontano parenti e vicini.

“Tutti sanno che potrebbero morire, eppure dicono: Forse riuscirò ad arrivare da qualche parte, c’è una speranza”, dice Rawan El Maneh, 24 anni, un cugino di Misto. “Sono andati… non per morire bensì per trasformare le loro vite. Ora sono in una vita nuova. Spero che sia molto meglio di questa qui”.

La tragedia della migrazione ha messo in evidenza l’aumento della povertà nel nord del Libano, a Tripoli in particolare, che sta spingendo sempre più persone a fare scelte disperate, tre anni dopo il devastante crollo finanziario del Paese. Ha anche messo a fuoco le forti disuguaglianze che sono particolarmente acute nel nord: Tripoli è la patria di numerosi politici ultraricchi ma ha goduto molto poco in termini di sviluppo e investimenti.

Mentre molti dei leader settari libanesi investono nelle loro comunità per guadagnare sostegno politico, gli abitanti di Tripoli affermano che la loro città è stata trascurata nonostante la ricchezza dei suoi personaggi politici. Nei giorni scorsi le persone in lutto, riunite per rendere omaggio alle vittime del naufragio nel quartiere povero di Bab al-Ramel di Tripoli, hanno manifestato con rabbia contro i politici della città, tra cui Najib Mikati, il primo ministro e magnate miliardario del Libano. “Siamo in un paese in cui i politici succhiano soldi, parlano soltanto e non hanno alcun riguardo per ciò di cui le persone hanno bisogno”, protesta El Maneh.

Tripoli, la seconda città del Libano con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti, era già la più povera prima che il paese precipitasse nella crisi finanziaria, risultato di decenni di corruzione e malgoverno. Mohanad Hage Ali del Carnegie Middle East Center spiega che Tripoli non ha visto grandi investimenti nello sviluppo dalla guerra civile del 1975-90 nonostante l’ascesa politica dei ricchi uomini d’affari della città. “Ciò riflette la crescente disuguaglianza e disparità di reddito nel paese”, afferma.

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foto di Dominic Chavez/World Bank

MILIARDARI E POVERTÀ

Mikati ha fatto gran parte della sua fortuna nelle telecomunicazioni ed è stato classificato da Forbes come il quarto uomo più ricco del mondo arabo nel 2022. Attraverso il suo ufficio, ha detto alla Reuters di essere stato il “più grande sostenitore dello sviluppo socio-economico di Tripoli” per più di 40 anni, attraverso le sue fondazioni di beneficenza. Ha anche detto di comprendere “l’agonia che sta attraversando il popolo libanese in generale e Tripoli in particolare”, a causa della crisi. La villa di Mikati sul mare alla periferia della città è stata un punto di raccolta durante le proteste degli ultimi anni contro la corruzione del governo e la disperazione economica. Un pubblico ministero nell’ottobre 2019 ha accusato il premier di arricchimento illecito per essersi appropriato di fondi di un programma di prestiti sovvenzionati per le case destinate alle famiglie povere. Accuse che Mikati ha negato. Secondo il suo ufficio si tratta di accuse “motivate politicamente allo scopo di rovinare la reputazione del premier”. Un altro giudice ha archiviato il caso all’inizio di quest’anno.

PROBLEMI DELLA REGIONE

Riflettendo lo scollamento tra gli abitanti di Tripoli e i politici locali e la convinzione che nulla cambierà, solo tre persone su 10 in città hanno votato alle elezioni parlamentari di maggio. Il nord è stata una delle regioni più travagliate del Libano dalla fine della guerra civile. La città e le aree circostanti sono state terreno fertile di reclutamento per giovani jihadisti sunniti. Più recentemente, Tripoli è stata un punto focale del peggioramento della situazione legato al collasso finanziario libanese, tanto che il ministro dell’interno Bassam Mawlawi ha annunciato un piano di sicurezza dopo una ondata di crimini e violenze in quella zona.

Diverse dozzine di persone che erano sulla nave dei migranti (affondata) provenivano dal vasto campo profughi palestinese di Nahr al-Bared. C’erano anche molti siriani, di cui circa 1 milione vive in Libano. La crisi economica ha portato la povertà alle stelle, con l’80% della popolazione di circa 6,5 ​​milioni ridotta in miseria, secondo le Nazioni unite. Il governo ha fatto poco per affrontare la crisi che la Banca Mondiale ritiene “orchestrata” dall’élite attraverso la sua presa sfruttatrice sulle risorse del paese.

Altri avevano tentato il viaggio in mare la scorsa settimana: Cipro ha salvato 477 persone a bordo di due navi che avevano lasciato il Libano. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati riferisce che 3.460 persone hanno lasciato o tentato di lasciare il Libano via mare quest’anno, più del doppio rispetto all’intero 2021.

Tra coloro che sono morti sulla barca che trasportava Misto c’erano anche una donna e i suoi quattro figli della regione settentrionale di Akkar. Il padre è uno dei pochi sopravvissuti. Per il sindaco Yahya Rifai la crisi in atto è la peggiore della guerra civile. “Non so cosa che non va in questi politici…Dovranno rispondere di tutto questo”, ha avvertito. Pagine Esteri

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Mosca: sconcerto per la liberazione dei capi del Reggimento Azov


A sorpresa il Cremlino ha accettato di liberare 215 prigionieri, tra cui i capi del Reggimento Azov e dieci mercenari stranieri, alcuni dei quali condannati a morte. In cambio, ha ottenuto la liberazione di 55 militari russi e di un oligarca ucraino amico

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 27 settembre 2022 – Proprio mentre Vladimir Putin decretava la mobilitazione generale parziale nel tentativo di rafforzare il dispositivo bellico finora dispiegato in Ucraina, tra Mosca e Kiev andava in scena il più massiccio scambio di prigionieri finora realizzato.
Lo scambio ha colto di sorpresa tutti, a partire dalle opinioni pubbliche russa e ucraina, e ha provocato malumori e polemiche a Mosca e nelle repubbliche del Donbass.

215 contro 56

Il Cremlino è riuscito a irritare sia le correnti antifasciste e di sinistra, che evidentemente avevano creduto che il proposito di “denazificare” il paese invaso giustificasse la cosiddetta “operazione militare speciale”, sia quelle di destra e ultranazionaliste, per non parlare dei settori della società russa che tolleravano la guerra pensando però che sarebbero bastati i militari di professione a combatterla.

A provocare l’ira di molti russi è stata la decisione di liberare una gran quantità di combattenti del famigerato Reggimento Azov, la milizia di estrema destra che dal 2014 massacra la popolazione del Donbass in nome di un’Ucraina derussificata e ideologicamente omogenea.
In cambio della liberazione di 108 tra dirigenti e miliziani del Reggimento Azov, arresisi il 20 maggio al termine di un lunghissimo e sanguinoso assedio all’acciaieria Azovstal di Mariupol all’interno della quale si erano asserragliati, e di altri 107 tra soldati di altri reparti, guardie di frontiera, poliziotti, marinai, doganieri, medici e civili, il Cremlino ha ottenuto la “restituzione” del miliardario Viktor Medvedchuk e di 55 tra soldati e ufficiali.

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Parata del Reggimento Azov

L’oligarca amico di Putin

L’evidente sproporzione nello scambio – 215 contro 56 – dà l’idea del peso che Putin attribuisce al miliardario ed ex leader del partito “Piattaforma di Opposizione – Per la vita”, la principale formazione di minoranza nel parlamento ucraino la cui attività è stata sospesa d’autorità dal governo di Kiev perché considerato la longa manus di Mosca. Messo agli arresti domiciliari nel 2021 per tradimento e poi accusato di aver pianificato un colpo di stato per instaurare un governo filorusso a Kiev, nell’aprile scorso l’oligarca aveva tentato di fuggire in Bulgaria travestito da soldato ma era stato nuovamente arrestato.
Medvedchuk è molto vicino a Vladimir Putin: Daryna, la figlia avuta con Oksana Marchenko – celebre conduttrice della tv ucraina sposata nel 2003 – è stata battezzata a San Pietroburgo potendo contare su due padrini del calibro del presidente russo e di Svetlana Medvedeva, moglie dell’attuale primo ministro russo Dmitrji Medvedev.
Possibile, ci si chiede, che la liberazione di Medvedchuk – che tra l’altro non è neanche cittadino russo – giustifichi un colpo così grave alla retorica della “denazificazione dell’Ucraina”, che almeno nei primi mesi del conflitto ha costituito il principale obiettivo dichiarato del Cremlino, insieme alla messa in sicurezza delle comunità russofone del Donbass martoriate da 8 anni di attacchi e bombardamenti da parte di Kiev e in particolare dei battaglioni punitivi – l’Azov, l’Ajdar, il Donbass – frutto della militarizzazione delle varie organizzazioni dell’estrema destra ucraina?
Durante tutti i conflitti avvengono degli scambi di prigionieri, e quello in corso in Ucraina non fa ovviamente eccezione.
Denis Pushilin, il leader della Repubblica Popolare di Donetsk che presto verrà annessa alla Federazione Russa dopo un referendum quanto meno discutibile (in barba al diritto all’autodeterminazione dei popoli che le varie potenze, al di qua e al di là dell’ex cortina di ferro, continuano a strumentalizzare per sostenere i propri interessi) difende l’operato del Cremlino. «Con i miei occhi ho visto come durante il processo di Minsk più di 1.000 dei nostri ragazzi sono stati liberati con l’aiuto di Viktor Medvedchuk che non sarebbero sopravvissuti altrimenti» ha spiegato Pushilin, sottolineando il fecondo ruolo di negoziatore dell’oligarca, in un video pubblicato dall’agenzia di stampa RIA Novosti.
Ma quelli concessi – e in così gran numero – a Kiev non sono prigionieri qualsiasi, sono gli odiatissimi componenti del Reggimento Azov, per scovare i quali i soldati delle milizie del Donbass e dell’esercito russo facevano spogliare gli uomini in fuga da Mariupol alla ricerca di tatuaggi raffiguranti svastiche, rune e altri simboli neonazisti.
Già a fine giugno i russi avevano, in un precedente scambio di prigionieri, liberato 95 combattenti dell’Azovstal, compresi 43 membri dell’Azov.

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Il magnate Viktor Mevdevchuk

Kiev canta vittoriaMa stavolta, tra quelli che hanno recuperato la libertà ci sono il capo del distaccamento della Azov a Mariupol, Denys Prokopenko, il suo vice Svyatoslav Palamar, il comandante ad interim della 36ima brigata dei Marines Serhiy Vlynskyi, il comandante della 12esima brigata della Guardia nazionale, Denys Shleha e infine il comandante della compagnia che dirigeva la difesa delle acciaierie, Oleh Khomenko.
I cinque dovranno astenersi dal partecipare al conflitto e saranno obbligati a risiedere in Turchia “fino alla fine della guerra”, recita l’accordo mediato da Recep Tayyip Erdogan, ma la vittoria simbolica ottenuta dal presidente ucraino Zelenskyi è consistente e si somma ai risultati della controffensiva di Kiev che ha strappato a Mosca migliaia di chilometri di territori occupati.
L’ex comandante del Reggimento Azov e leader del partito di estrema destra “Corpo Nazionale”, che di fatto è un’emanazione dell’unità militare, Andrey Biletsky, sui social ha rivendicato la vittoria: «Ho appena parlato al telefono con Radish, Kalina, tutti hanno uno spirito combattivo e sono persino desiderosi di combattere. Un’altra conferma che Azov è di acciaio. Adesso i ragazzi sono già liberi, ma in un Paese terzo. Rimarranno lì per un po’, ma la cosa principale è già accaduta: sono liberi e vivi».

In libertà anche dieci mercenari stranieri

Come se non bastasse, lo scambio ha portato anche alla liberazione di dieci combattenti stranieri inquadrati nelle forze ucraine: cinque britannici, due statunitensi, un marocchino, un croato e uno svedese. Grazie alla mediazione del principe saudita Mohammed bin Salman, i mercenari sono stati trasferiti a Riad e da qui rimpatriati nei paesi d’origine.
Fra i cinque britannici rilasciati anche Aiden Aslin, catturato a Mariupol ad aprile, e Shaun Pinner; entrambi, insieme al marocchino Brahim Saadoun, erano stati già condannati a morte a giugno da un tribunale della Repubblica Popolare di Donetsk. Ancora all’inizio della settimana scorsa Denis Pushilin aveva avvisato che la fucilazione dei condannati alla pena capitale, per l’applicazione della quale si era personalmente speso, sarebbe stata imminente ma segreta. Segno che Pushilin era probabilmente all’oscuro della trattativa e dell’imminente liberazione dei mercenari che pure erano sotto la sua custodia; le decisioni importanti, non è un mistero, si prendono a Mosca.

Le critiche al Cremlino

E così, mentre in Ucraina si festeggia, sui canali telegram russi e persino su alcuni media ufficiali le critiche e le accuse nei confronti del Cremlino emergono apertamente da parte di chi ha visto improvvisamente sfumare la Norimberga promessa da Putin a carico dell’estrema destra ucraina, che le autorità di Mosca hanno inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e che accusano di aver organizzato l’attentato costato la vita alla figlia di Alexander Dugin, ideologo dello sciovinismo grande-russo.
Tra i più duri il leader ceceno Ramzan Kadyrov – i suoi miliziani hanno dato un contributo fondamentale alla presa di Mariupol e all’assedio dell’Azovstal – secondo il quale «i criminali terroristi non dovrebbero essere scambiati con i soldati». D’ora in poi, ha avvisato Kadyrov dopo aver espresso il suo malumore per non essere stato consultato sullo scambio, le sue milizie «trarranno le proprio conclusioni e non faranno prigionieri i fascisti».
Igor Girkin “Strelkov”, una delle voci più influenti dell’ultranazionalismo russo e tra i primi leader delle repubbliche autoproclamate del Donbass (prima di essere messo da parte da Mosca) ha parlato di «fallimento totale», di una iniziativa «più grave di un crimine, peggiore di un errore, una grande stupidaggine».
Margarita Simonovna Simonyan, direttrice del canale russo d’informazione RT, si è lamentata della mancanza di cerimonie per il ritorno in patria dei prigionieri russi: «Perché i comandanti dell’Azov sono stati liberati? Spero che ne sia valsa la pena» ha scritto sul suo canale Telegram.
«Peggiore della liberazione di nazisti e mercenari può essere solo la nomina di Medvedchuk a qualche incarico nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk o nei territori liberati» ha invece commentato Alexander Diukov, storico e membro della Commissione Presidenziale russa sulle relazioni interetniche.

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Il leader ceceno Kadyrov

Il ruolo di Abramovich, di Erdogan e di bin Salman

Ha generato inquietudine, in Russia, anche il ruolo di un altro oligarca, questa volta russo, Roman Abramovich, che si è personalmente speso per la liberazione dei dieci foreign fighters, e in particolare di quelli britannici. Secondo alcune indiscrezioni circolate nei giorni successivi allo scambio, Abramovich era addirittura sull’aereo che li ha trasportati in Arabia Saudita.

Sul fronte internazionale, poi, emerge la competizione tra Erdogan e bin Salman nel ruolo di pontieri tra Russia e Ucraina. Il leader turco ha saputo, dopo mesi di stallo nelle trattative tra Kiev e Mosca, ottenere un nuovo successo personale dopo aver negoziato a luglio lo sblocco delle navi cariche di grano ancorate nei porti dell’Ucraina meridionale. La vicenda dello scambio ha però visto anche l’emergere dell’Arabia Saudita come mediatore credibile tra i due contendenti. – Pagine Esteri

2836736* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

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Brasile: al voto il più grande elettorato della sua storia


156.454.011 milioni gli elettori brasiliani voteranno il prossimo 2 ottobre. Si tratta del più grande elettorato registrato nella storia del Brasile. Ecco tutti i numeri e le informazioni più importanti da sapere in vista del voto

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Cannabis: crescono le prospettive di uso in ambito medico e terapeutico


Sempre più grandi novità positive sul fronte della applicazione della cannabis e dei suoi principi attivi in ambito medico e terapeutico. Uno studio su pazienti adulti affetti da autismo registrati nel Registro della Cannabis Medica del Regno Unito ha indicato che i pazienti stanno generalmente sperimentando un miglioramento della qualità di vita. I residenti della […]

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Il Kazakistan diventerà pomo della discordia tra Cina e Russia?


L’Istituto dei paesi della CSI (Istituto per la diaspora e l’integrazione) di Mosca creato e diretto da Konstantin Zatulin, un politico russo, primo vicepresidente del comitato della Duma di Stato per la CSI e le relazioni con i cittadini russi all’estero, ha pubblicato sul suo sito web un colloquio con il suo capo. Il motivo […]

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Perchè il Brasile è da tenere d’occhio


Domenica, il Brasile, il Paese più grande e influente del Sud America, voterà per eleggere il nuovo Presidente: ecco perchè è da tenere d'occhio

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in reply to Informa Pirata

Vabbe questo è deresponsabilizzarsi delle cose.

Qui c'è un fatto chiaro i primi a non dover usare queste piattaforme private di marketing sono gli enti pubblici e chi fa attività pubblica durante un ruolo pubblico.

Già facendo questo si declassano tutti gli inutili servizi di marketing, poi li chiami col nome loro, cioè: servizi privati di marketing e non "social media". Quando li abbiamo livellati andiamo a cercare i danni e le azioni che compiono queste piattaforme e i loro algoritmi.

Ma così è illazionistico... Tra l'altro dovresti avere accesso al codice per valutarlo e non accadrà mai. Se c'è stata una crisi sociale, dare la colpa a facebook significa deresponsabilizzare la politica e l'opinione pubblica.

Io sono contro faccialibro ma ste cacce alle streghe inattualizzabili rendono solo le streghe più forti perché le fanno sembrare vittime di un complotto.



Il nuovo governo italiano, che nascerà dalla maggioranza parlamentare risultata vincitrice alle elezioni Politiche del 25 settembre, dovrà fare i conti con un contesto economico internazionale molto complesso.
Unknown parent

friendica (DFRN) - Collegamento all'originale
Andrea Russo
@senzanome questo è un approccio probabile. Fa concentrare il pubblico sulle cazzate e lascia in secondo piano le cose importanti. Tombola!


Brasile alle elezioni. Violenza politica e democrazia sotto attacco


In attesa delle elezioni di domenica 2 ottobre, la violenza politica cresce in tutto il Brasile, con record di attacchi e minacce contro elettori di Lula, giornalisti, donne, popolazioni indigene, afrodiscendenti, LGBTQI+ e altri candidati della sinistra

di Glória Paiva

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – Manca poco alle elezioni presidenziali brasiliane e l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva (PT) avanza nelle previsioni elettorali, potendo vincere al primo turno questa domenica (02/10). Allo stesso tempo, la violenza politica cresce in tutto il Brasile, con record di attacchi e minacce contro elettori di Lula, giornalisti, donne, popolazioni indigene, afrodiscendenti, LGBTQI+ e altri candidati della sinistra.

Secondo gli analisti, i ripetuti discorsi incendiari del presidente Jair Bolsonaro (PL) contro i suoi oppositori e con la finalità di sollevare sospetti sull’affidabilità del sistema elettorale brasiliano, sono all’origine dell’incitamento all’odio e all’intolleranza politica. Non è infondato, quindi, il timore che una probabile vittoria di Lula possa innescare proteste, atti violenti e tentativi da parte del governo, delle Forze armate o dei sostenitori di Bolsonaro di screditare il risultato elettorale.

L’ultimo sondaggio, realizzato da Quaest/Genial il 28/09, rileva che Lula avrebbe 46% delle intenzioni di voto, con un margine di errore di due punti, mentre il presidente Bolsonaro avrebbe il 33% delle intenzioni, il che porterebbe il PT ad ottenere il 50,5% dei voti validi, scontando voti nulli e in bianco, già al primo turno.

Nel frattempo, nelle strade e sui social media, ogni giorno emergono nuovi casi di violenza politica, come l’omicidio a coltellate di Benedito Cardoso dos Santos, elettore del PT, nel Mato Grosso, e di Antônio Carlos Silva de Lima, accoltellato a morte anche lui da uno sconosciuto dopo aver dichiarato il suo voto a Lula in un bar del Ceará. Entrambi i crimini sono avvenuti lo scorso settembre.

Personaggi politici come il candidato alla presidenza Ciro Gomes (PDT) e il candidato alla carica di governatore dello stato di San Paolo, Fernando Haddad (PT), hanno affermato di aver ricevuto minacce nelle ultime settimane. La consigliera del PT per la città di Salto do Jacuí, nel Rio Grande do Sul, Cleres Revelante, è stata aggredita nella sua auto, che è coperta di adesivi del PT. Un uomo ha colpito di proposito la parte posteriore del veicolo, ed è morto pochi minuti dopo in un incidente, mentre cercava di fuggire da un inseguimento della polizia.

L’opposizione in allerta

Rappresentanti dei partiti di opposizione come PT, PV, PCdoB, PSOL e altri hanno chiesto al Tribunale Supremo Elettorale (TSE) il 26/09 di creare un canale per denunciare la violenza politica, avvertendo che queste elezioni sono atipiche a causa di una forte polarizzazione. A luglio, dopo l’assassinio del tesoriere del PT Marcelo Arruda alla sua festa di compleanno da parte di un bolsonarista, l’opposizione aveva già inviato una richiesta al TSE affinché Bolsonaro venisse vietato di fare “incitamento all’odio e alla violenza” contro i suoi oppositori.

Il documento presentava un ampio elenco di manifestazioni di violenza politica a partire dall’omicidio della consigliera comunale Marielle Franco e del suo autista, Anderson Pedro Gomes, nel 2018, passando per altri omicidi, aggressioni, risse nei bar, minacce ai giornalisti e persino un attacco di drone pilotato da un gruppo di bolsonaristi che hanno avvelenato il pubblico di un comizio di in Uberlândia (Minas Gerais).

“Il presidente ha incoraggiato e consentito l’armamento della popolazione e l’incitamento alla violenza attraverso discorsi irresponsabili contro le minoranze, contro i cittadini contrari alla sua agenda e contro parlamentari e partiti di opposizione”, ha scritto il gruppo al TSE. La petizione, tuttavia, non ha avuto effetto. Nei suoi recenti discorsi, ad esempio, il presidente ha definito il PT una “piaga” e ha promesso di “spazzare via della storia” il partito. In passato, aveva già parlato di “sradicare” i militanti di sinistra.

Otto relatori delle Nazioni Unite hanno redatto una dichiarazione chiedendo alle autorità, ai candidati e ai partiti politici in Brasile di garantire che le prossime elezioni siano pacifiche, come riportato dal giornalista Jamil Chade. Senza precedenti nella storia della democrazia brasiliana, la dichiarazione è una forma di avvertimento che la comunità internazionale non è pronta ad accettare una rottura democratica nel paese.

“Se ci sarà un secondo turno, non ho dubbi che avremo i 30 giorni più difficili degli ultimi anni“, ha affermato Guilherme Boulos (PSOL), candidato a deputato federale ed ex candidato alla presidenza nel 2018, in un’intervista al portale UOL. Boulos stesso è stato minacciato da uno sconosciuto armato durante la sua campagna nello stato di San Paolo. È infatti diffuso il timore che Bolsonaro possa incitare i suoi sostenitori a scendere in piazza e provocare il caos nel caso di un secondo turno.

Democrazia al limite

Secondo uno studio condotto dallo Istituto DataFolha e pubblicato il 16/09, il 67% della popolazione teme la violenza politica. Si tratta di una situazione senza precedenti: il 3,2% degli intervistati, in rappresentanza di 5 milioni di persone, ha dichiarato di essere stato minacciato nel mese precedente al sondaggio a causa della loro posizione politica. “La democrazia prevede la libertà di espressione politica. Se abbiamo una società che ha paura, c’è una minaccia per la democrazia”, ha dichiarato Mônica Sodré, politologa e direttrice esecutiva della Rete di Azione Politica per la Sostenibilità, che ha commissionato lo studio.

Alcuni settori della società e anche della stampa estera indicano addirittura le elezioni del 2 ottobre come una sorta di referendum per la democrazia, come nel reportage del Washington Post pubblicato il 28/09: “Bolsonaro vs. Lula: a referendum on Brazil’s young democracy”. Bolsonaro, invece, continua a dichiararsi lui stesso un difensore della democrazia e delle libertà individuali. Il paradosso, secondo alcuni esperti, sta nell’appropriazione e nella distorsione del concetto di democrazia da parte del discorso bolsonarista.

Nella retorica di Bolsonaro, la sua è una “democrazia maggioritaria”, che rappresenta i valori di una presunta maggioranza cristiana, conservatrice e patriottica. Bolsonaro si rivolge al suo elettorato come il rappresentante di quella maggioranza e ciò lo legittima anche quando perpetra attacchi ai diritti umani e alle istituzioni. Ha già chiarito, in diversi interventi, che “le minoranze devono adattarsi o scomparire” e che tutto ciò che si oppone ai desideri della maggioranza è antidemocratico, come i magistrati, il politically correct, gli intellettuali. Inoltre, se il presidente parla a nome di una presunta maggioranza, non viene riconosciuta alcuna possibilità di sconfitta elettorale: ha affermato più volte che vincerà al primo turno e che gli istituti di sondaggi di opinione non sono affidabili.

Come ha scritto il giornalista Pedro Doria sulla piattaforma Canal Meio, questa retorica segue lo stesso copione degli attacchi di Hugo Chávez alla Costituzione venezuelana nei suoi primi anni alla presidenza. “È attaccare come antidemocratico, contro il popolo, tutto ciò che impone limiti al tipo di potere che cerca. (…) Rimane una base popolare in cui più di un terzo della popolazione sembra convinto che il problema del Brasile risieda nei limiti del potere che la democrazia impone al presidente”, analizza.

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GAZA. Boxe contro l’assedio. Il pugilato come occasione di riscatto ed emancipazione


Un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato sotto la guida tecnica di Osama Ayoub, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello. L

testo e foto di Daniele Napolitano

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – La Striscia di Gaza è lunga 347km quadrati e con i suoi 2 milioni di abitanti, ha la densità abitativa più alta al mondo. Può contare su poche ore di elettricità al giorno, ha enormi problemi ambientali, scarsa acqua potabile. Secondo le Nazioni unite dal 2020 è una “terra invivibile”. Senza dimenticare le conseguenze che hanno causato, oltre a migliaia di morti e feriti, le ampie offensive militari lanciate da Israele dal 2008 allo scorso agosto.

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Ed è in questo contesto che un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato allestita con sacchi e corde di fortuna.

Capitanate da Osama Ayoub, giovane tecnico locale, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello, le ragazze sognano di poter competere con atlete di altri paesi, cosa che non è concessa visto lo stato di occupazione che Gaza subisce.

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Boxe contro L’assedio è un progetto di scambio e condivisione sportiva nato nel 2018, che utilizza lo sport come strumento di miglioramento e riscatto personale e sociale, ma anche come modo per arrivare oltre il muro di Gaza, il carcere a cielo aperto più grande al mondo.

Grazie a questo progetto, in 4 anni, abbiamo costruito diverse occasioni di scambio con gli atleti e le atlete romane e palestinesi, consegnato decine di guanti e attrezzatura, aperto una piccola palestra di pugilato e molto altro ancora.

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Nonostante lo stop dovuto alla pandemia, In questi lunghi mesi siamo rimasti in contatto con la federazione di pugilato palestinese, ma soprattutto con Coach Osama, che ogni giorno allena un gruppo di ragazze giovanissime all’interno della piccola palestra popolare che abbiamo aperto con lui.

Il pugilato come occasione di riscatto, strumento di condivisione ed emancipazione, che è soprattutto un modo per raccontare una Gaza diversa da quella che la vede soccombere sotto le macerie, una Gaza che vuole rimanere viva, che lotta grazie allo sport, linguaggio universale che da sempre unisce e supera barriere.

Le foto sono realizzate nel periodo tra il 9 e il 15 settembre 2022.

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Slot online: cosa le rende migliori di quelle fisiche?


La prima slot machine della storia fece la sua comparsa a San Francisco nel 1895. Sin dal principio si comprese che la Liberty Bell – questo è il nome che il meccanico bavarese Charles Fey diede alla sua creazione – avrebbe rivoluzionato per sempre il destino dei casinò. Nonostante la sua essenza sia rimasta inalterata […]

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Nordio: “Una nuova Costituente per la riforma della Carta”


L’aspirante guardasigilli boccia l’idea di una Bicamerale Sarà che è nato nel 1947, quando l’Assemblea Costituente era in piena attività. E che, non da oggi, sostiene che quella sia la via maestra per mettere mano alla nostra legge fondamentale. Fatto sta

L’aspirante guardasigilli boccia l’idea di una Bicamerale


Sarà che è nato nel 1947, quando l’Assemblea Costituente era in piena attività. E che, non da oggi, sostiene che quella sia la via maestra per mettere mano alla nostra legge fondamentale. Fatto sta che Carlo Nordio, fresco di elezione a senatore nelle file di Fdi e in pole come futuro Guardasigilli, ieri è tornato sull’ipotesi di riformare la Costituzione facendo eleggere dagli italiani una nuova Assemblea costituente.

L’ha fatto in un’intervista al Messaggero, raccogliendo l’assist del capogruppo Fdi alla Camera, Francesco Lollobrigida, che nella prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale ha ricordato come la Costituzione sia «bella», ma «che ha anche 70 anni di età». In realtà ne ha qualcuno di più, proprio come Nordio, che saggiamente chiude la strada all’ipotesi di cambiarla «senza le opposizioni».

La nostra Costituzione, spiega l’ex magistrato, «fu un miracolo di compromessi, scritta da grandi statisti ma oggi è invecchiata, come tutte le cose di questo mondo, e va riadattata alle nuove esigenze». Ma non certo da soli, a prescindere dai numeri del nuovo Parlamento. «Ovviamente si può e si deve farlo solo con il concorso e il contributo della maggior parte delle forze politiche», spiega il neo-senatore, che poi snocciola, appunto, la sua soluzione: «Personalmente preferirei un’Assemblea Costituente, come da tempo suggerisce la Fondazione Einaudi di cui mi onoro di far parte».

Niente riesumazione della Bicamerale, mai più rispolverata dopo il fallimento di quella di D’Alema nel 1997, niente tentativi di riforma come quelli non andati a buon fine di Berlusconi e Renzi. Ma un organo dedicato, eletto dal popolo, insomma. La cosa interessante è che è un’ipotesi che ha già ricevuto adesioni trasversali dal mondo della politica.

Il «suggerimento» a cui accenna Nordio è il progetto della Fondazione Einaudi che era stato presentato ai partiti, come disegno di legge costituzionale, alla fine di luglio 2021. Raccogliendo, appunto, il sì di quasi tutte le parti politiche. Il presidente della Fondazione, Giuseppe Benedetto, aveva raccontato proprio al Giornale a dicembre scorso i punti della proposta, rilanciata ieri da Nordio: «L’elezione dovrebbe avvenire con un sistema proporzionale puro (…) Dovrebbe essere composta da cento componenti e dovrebbe durare un anno. (…) Noi abbiamo disegnato una cornice che non dovrebbe essere riempita dal Parlamento, bensì da cento persone che si dedicherebbero a rivedere la seconda parte della Costituzione, facendo solo quello».

I tempi sono maturi? Considerando la materia, rispondere non è semplice. Ma, come detto, la proposta rilanciata dall’ex magistrato e varata dalla Fondazione Einaudi aveva incontrato il favore di molti, con l’eccezione dei Cinque Stelle. Nella conferenza stampa a Montecitorio, un anno e mezzo fa, c’erano parlamentari di ogni colore: il leghista Dimitri Coin, l’azzurro Roberto Occhiuto, il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, di Fdi, che ha rilanciato la proposta anche mesi dopo, ad Atreju.

Tra i più entusiasti si segnalava l’ex capogruppo Pd in Senato, Andrea Marcucci (non rieletto domenica), che si era definito «recidivo» dopo aver sostenuto la riforma Renzi e caldeggiava un «vero ammodernamento della nostra Carta», come pure il vicepresidente di Iv alla Camera, Marco di Maio.

Massimo Malpica su Il Giornale

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GAZA. Boxe contro l’assedio. Il pugilato come occasione di riscatto ed emancipazione


Un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato sotto la guida tecnica di Osama Ayoub, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello. L

testo e foto di Daniele Napolitano

Pagine Esteri, 30 settembre 2022 – La Striscia di Gaza è lunga 347km quadrati e con i suoi 2 milioni di abitanti, ha la densità abitativa più alta al mondo. Può contare su poche ore di elettricità al giorno, ha enormi problemi ambientali, scarsa acqua potabile. Secondo le Nazioni unite dal 2020 è una “terra invivibile”. Senza dimenticare le conseguenze che hanno causato, oltre a migliaia di morti e feriti, le ampie offensive militari lanciate da Israele dal 2008 allo scorso agosto.

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Ed è in questo contesto che un gruppo di ragazze tra i 10 e 16 anni si allena tutti i giorni in una piccola palestra di pugilato allestita con sacchi e corde di fortuna.

Capitanate da Osama Ayoub, giovane tecnico locale, grazie ad un progetto italiano coordinato dalla Ong CISS e dalle palestre romane del Quarticciolo e del Tufello, le ragazze sognano di poter competere con atlete di altri paesi, cosa che non è concessa visto lo stato di occupazione che Gaza subisce.

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Boxe contro L’assedio è un progetto di scambio e condivisione sportiva nato nel 2018, che utilizza lo sport come strumento di miglioramento e riscatto personale e sociale, ma anche come modo per arrivare oltre il muro di Gaza, il carcere a cielo aperto più grande al mondo.

Grazie a questo progetto, in 4 anni, abbiamo costruito diverse occasioni di scambio con gli atleti e le atlete romane e palestinesi, consegnato decine di guanti e attrezzatura, aperto una piccola palestra di pugilato e molto altro ancora.

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Nonostante lo stop dovuto alla pandemia, In questi lunghi mesi siamo rimasti in contatto con la federazione di pugilato palestinese, ma soprattutto con Coach Osama, che ogni giorno allena un gruppo di ragazze giovanissime all’interno della piccola palestra popolare che abbiamo aperto con lui.

Il pugilato come occasione di riscatto, strumento di condivisione ed emancipazione, che è soprattutto un modo per raccontare una Gaza diversa da quella che la vede soccombere sotto le macerie, una Gaza che vuole rimanere viva, che lotta grazie allo sport, linguaggio universale che da sempre unisce e supera barriere.

Le foto sono realizzate nel periodo tra il 9 e il 15 settembre 2022.

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pagineesteri.it/2022/09/30/med…



Meloni per ora non dovrebbe combinare guai


Dopo elezioni che sono state un errore psicologico prima che politico, dopo una campagna elettorale in cui la destra-centro ha promesso tutto e il contrario di tutto, portando a casa il controllo del 43% del Parlamento in rappresentanza del circa 25% della popolazione, Meloni si consulta con Draghi per non combinare guai, almeno per ora

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The MED This Week newsletter provides expert analysis and informed comments upon the MENA region’s most significant issues and trends.


Convegno Italia – Mediterraneo


Il 6 ottobre, alle ore 18.30, presso l’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, in via della Conciliazione 10, a Roma, si terrà un convegno dal titolo “Italia-Mediterraneo”. L’Italia non sarebbe il Bel Paese se non fosse la penisola al centro del Mar

Il 6 ottobre, alle ore 18.30, presso l’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, in via della Conciliazione 10, a Roma, si terrà un convegno dal titolo “Italia-Mediterraneo”.

L’Italia non sarebbe il Bel Paese se non fosse la penisola al centro del Mar Mediterraneo. Il rapporto che l’Italia ha con il Mediterraneo e tutti i Paesi che s’affacciano su esso è, da tempi antichi, privilegiato. In questo convegno la questione Italia-Mediterraneo verrà affrontata includendo diversi aspetti: storici, religiosi, strategici, energetici ed economici.

Intervengono:


Giordana Terracina, Ph.D. in Storia e Scienze filosofico-sociali

“Contestualizzazione storica del rapporto Italia – Mediterraneo”

David Meghnagi, Docente di Pensiero Ebraico presso l’Università Roma Tre

“Il ruolo del dialogo religioso nel Mediterraneo”

Enrico Molinaro, Presidente e fondatore dell’Associazione Prospettive Mediterranee

“Italia protagonista del dialogo tra identità collettive nel Mediterraneo”

Simona Benedettini, Coordinatrice del Dipartimento Politiche Ambientali, Mercati Energetici e Sviluppo della Fondazione Luigi Einaudi

“Il Mediterraneo e le sue ricchezze energetiche”

Carlo Amenta, Economista e Direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni

“Le ZES e la cooperazione nell’area del Mediterraneo”

Modera:


Ottavia Munari, Ricercatrice della Fondazione Luigi Einaudi

Il convegno sarà comunque fruibile anche in diretta streaming sul canale YouTube e sulla pagina Facebook della Fondazione.

Accredito partecipanti su eventbrite.it


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Diritto, legislazione e libertà di Friedrich A. von Hayek


Diritto, legislazione e libertà è il risultato di una lunga gestazione. In ordine di tempo, è l’ultima delle grandi opere di Friedrich A. von Hayek. Il suo scopo è individuare l’habitat normativo e istituzionale che consente la cooperazione tra soggetti n

Diritto, legislazione e libertà è il risultato di una lunga gestazione. In ordine di tempo, è l’ultima delle grandi opere di Friedrich A. von Hayek. Il suo scopo è individuare l’habitat normativo e istituzionale che consente la cooperazione tra soggetti non sottoposti a una gerarchia obbligatoria di fini e che possono liberamente decidere i contenuti delle proprie azioni. Di qui l’importanza del diritto, ovvero delle norme di «giusta condotta», e la reiterata preoccupazione nei confronti di quella produzione legislativa che, prescrivendo il raggiungimento di specifici obiettivi, restringe o impedisce la scelta individuale. Non diversamente da tutti gli altri lavori hayekiani, l’opera ha come sua premessa gnoseologica la nostra condizione di ignoranza e fallibilità.

Autore: Friedrich A. von Hayek
Curatore: Lorenzo Infantino, Pier Giuseppe Monateri
Editore: Edizioni Società Aperta
Anno edizione: 2022

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Con Lula il Brasile ritornerà sulla scena internazionale?


Dopo gli anni di Bolsonaro, durante i quali la percezione del ruolo del Brasile nel mondo è stato quello di una Nazione periferica, non emergente, e con un Presidente 'tossico', Lula dovrà ricostruire la politica estera brasiliana da capo. Non sarà facile, perchè quello che eredita è un Paese molto diverso da quando, nel 2003, l'ha preso in mano per la prima volta

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La trappola


Avere la maggioranza assoluta degli eletti impone alla destra di formare il governo. Hanno il diritto-dovere di governare. L’interesse nazionale è sempre che il governo funzioni. Quella forza parlamentare, però, comporta anche una trappola. Più se ne ha e

Avere la maggioranza assoluta degli eletti impone alla destra di formare il governo. Hanno il diritto-dovere di governare. L’interesse nazionale è sempre che il governo funzioni. Quella forza parlamentare, però, comporta anche una trappola. Più se ne ha e meno ci si ricorda di quali sono i suoi limiti.

La coalizione vincente ha forti differenze al suo interno. Il governo Meloni prenderà forma nella seconda metà di ottobre, il tempo intermedio sarà quello dello scontro nella coalizione, il tempo successivo sarà quello dei conti con la realtà. E la prima realtà con cui fare i conti è quella del consenso.

In una democrazia non si comanda, ma si governa. E governare significa compiere delle scelte essendo capaci di costruire il consenso attorno a quelle. Sia il non scegliere che il compiere scelte solo per il consenso (vedi bonus e soldi regalati) non è governare, ma sgovernare. Il consenso raccolto con le elezioni è determinante ai fini delle maggioranze parlamentari, ma per governare veramente occorre rigenerarlo di continuo.

Anche perché la destra ha vinto per suicidio della sinistra, il quadruplicarsi dei voti a Fratelli d’Italia non è la crescita dei voti al centro destra, che rimangono stabili, ma una redistribuzione interna. Significa che la maggioranza dei voti espressi non è andata alla destra, il cui consenso, se si mettono nel conto gli astenuti, si riduce a un terzo degli italiani.

Per giunta il voto dei giovani, che si sono astenuti più dell’insieme degli elettori, è andato principalmente ad Azione, il che segnala un distacco generazionale. Dimenticare che il consenso di cui si dispone non è il trionfo ora celebrato e dimenticarsi che va rinnovato è una trappola. Se ci si cade ci si paralizza.

La prima conseguenza di questo è che saggezza suggerisce di avviare subito il confronto parlamentare sul tema delle riforme costituzionali. Non perché la Costituzione sia “vecchia” (che bischerata: è del 1948, quella statunitense del 1788 ed è stata cambiata, con emendamenti, meno della nostra), o perché l’Italia di oggi non sia quella di allora (i principi e i valori non cambiano), ma perché la sinistra l’ha cambiata e scassata nel 2001.

Nel porre rimedio si possono affrontare anche altri aspetti. Ma se si vuole ragionare di una RiCostituente, allora non c’è maggioranza che tenga, si deve dialogare con tutti e scegliere di farlo in una sede apposita. Le forze che saranno all’opposizione e che si rifiutassero al dialogo non sarebbero più oppositrici, ma meno serie e credibili.

L’opposizione sarà irresponsabile se sceglierà di usare gli inevitabili guasti economici del 2023 per reclamare dal governo più soldi da distribuire. Al governo sarebbero degli irresponsabili se usassero quei guasti per guastare gli equilibri di bilancio. Proprio perché il lavoro è stato impostato dal governo Draghi e la sua realizzazione è nell’interesse nazionale al governo spetterà procedere, e all’opposizione non solo criticare. In quello, a parte il vitale fronte ucraino, si misurerà l’affidabilità europea.

Nel nostro interesse. E, ad esempio, pensare di usare i fondi che non siamo stati capaci di spendere per compensare gli aumenti del gas può sembrare una buona idea, ma è anche una figura di palta e un’attitudine mendica. Quei soldi sono garantiti da tuti i contribuenti europei, tutti pagano di più l’energia e non può essere premiato chi è stato meno capace di usarli.

Ripetono tutti che il nuovo governo lavorerà in un momento terribile. Di facile non c’è nulla, ma si troverà due anni di crescita alle spalle. La Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, appena licenziata dal governo, specifica: +6,6% nel 2021 e +3,3% quest’anno, quindi meglio del previsto (3,1%). Deficit e debito in calo e inflazione prevista in decrescita già entro i prossimi mesi. L’anno prossimo si rallenterà, ma pur restando in crescita (+0,6%).

Inoltre il governo avrà a disposizione fondi europei, da investire, quanti non ce ne sono precedentemente stati. Meloni è nella storia per essere la prima donna e la prima di destra, ma la storia potrà farla se saprà usare il consenso raccolto per accrescerlo senza arroganza, al servizio dell’Italia, sulle scelte che si dovranno fare. L’alternativa è la solita storia: cadrà per mano dei suoi alleati, cui ha sottratto i voti.

La Ragione

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Giorgia Meloni e il nuovo volto dell’euroscetticismo


La vittoria di Giorgia Meloni e del partito di destra Fratelli d’Italia alle elezioni politiche italiane segna un punto di svolta nelle relazioni di Roma con Bruxelles e nelle dinamiche in evoluzione dell’euroscetticismo in tutto il continente. Meloni ha fatto di tutto per assicurare a Bruxelles di essere pro-UE e pro-NATO in un momento di […]

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Torna a salire la tensione tra Grecia e Turchia, e la crisi per le isole dell’Egeo riaccende un faro sul Mediterraneo Orientale.


Visita guidata Le Isole del Pacifico alla Casa Bianca. Ieri e oggi, Biden ha ricevuto i rappresentanti di 14 nazioni insulari del Pacifico nel primo summit esclusivamente a loro dedicato. Tante le promesse americane.


Al via da oggi #MIStaiACuore, la nostra campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso del...

Al via da oggi #MIStaiACuore, la nostra campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso del defibrillatore semiautomatico esterno (DAE) e sulle misure di primo soccorso, realizzata con il supporto del Ministero della Salute e Inail.



#NotiziePerLaScuola

Concorso nazionale 10 febbraio: "Amate sponde". La XIII edizione è rivolta alle studentesse e agli studenti delle scuole primarie e secondarie di I e II grado, statali e paritarie e delle scuole italiane all'estero.



Italia-Mediterraneo


Il 6 ottobre, alle ore 18.30, presso l’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, in via della Conciliazione 10, a Roma, si terrà un convegno dal titolo “Italia-Mediterraneo”. L’Italia non sarebbe il Bel Paese se non fosse la penisola al centro del Mar

Il 6 ottobre, alle ore 18.30, presso l’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, in via della Conciliazione 10, a Roma, si terrà un convegno dal titolo “Italia-Mediterraneo”.

L’Italia non sarebbe il Bel Paese se non fosse la penisola al centro del Mar Mediterraneo. Il rapporto che l’Italia ha con il Mediterraneo e tutti i Paesi che s’affacciano su esso è, da tempi antichi, privilegiato. In questo convegno la questione Italia-Mediterraneo verrà affrontata includendo diversi aspetti: storici, religiosi, strategici, energetici ed economici.

Intervengono:


Giordana Terracina, Ph.D. in Storia e Scienze filosofico-sociali

“Contestualizzazione storica del rapporto Italia – Mediterraneo”

David Meghnagi, Docente di Pensiero Ebraico presso l’Università Roma Tre

“Il ruolo del dialogo religioso nel Mediterraneo”

Enrico Molinaro, Presidente e fondatore dell’Associazione Prospettive Mediterranee

“Italia protagonista del dialogo tra identità collettive nel Mediterraneo”

Simona Benedettini, Coordinatrice del Dipartimento Politiche Ambientali, Mercati Energetici e Sviluppo della Fondazione Luigi Einaudi

“Il Mediterraneo e le sue ricchezze energetiche”

Carlo Amenta, Economista e Direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni

“Le ZES e la cooperazione nell’area del Mediterraneo”

Modera:


Ottavia Munari, Ricercatrice della Fondazione Luigi Einaudi

Per partecipare un presenza, è necessario registrarsi su Eventbrite CLICCANDO QUI

Il convegno sarà comunque fruibile anche in diretta streaming sul canale YouTube e sulla pagina Facebook della Fondazione.

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La mobilitazione fallita e la non-opzione nucleare di Putin


Il discorso del Presidente russo Vladimir Putin alla Nazione, il 21 settembre, potrebbe rivelarsi uno dei suoi errori più fatali nella disastrosa guerra in Ucraina. La mobilitazione sta facendo innervosire i russi che non condividono nessuno dei suoi obiettivi, e la minaccia nucleare è arma spuntata

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Il regime di Putin potrebbe cadere, ma cosa accadrà dopo?


Con Putin impantanato nella guerra in Ucraina e alle prese con disordini interni, è tempo che l'Occidente provi a negoziare una via di ritorno dall'orlo del baratro. In caso contrario, il rischio è che la guerra si intensifichi e si estenda oltre i confini dell'Ucraina

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Putin minaccia di aumentare gli attacchi alle infrastrutture civili ucraine


Il 21 settembre il Presidente russo Vladimir Putin ha fatto notizia a livello mondiale minacciando di usare armi nucleari se gli ucraini si rifiutano di porre fine alla loro resistenza alla sua invasione e continuano a liberare le regioni del loro paese occupate dalla Russia. Successivamente si è discusso molto sul fatto che l’ultimatum nucleare […]

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Ucraina: referendum nel Donbass ad uso interno della Russia


Tenere i referendum nei territori attualmente controllati dalla Russia, si inserisce in una strategia volta a puntellare il sostegno interno a una guerra sempre più impopolare. I referendum e l'eventuale tenuta dei territori da parte di Mosca, non cambieranno più le sorti della guerra in modo decisivo a favore di Putin

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Non atterriamo lo spazio!


Nonostante l’Italia stia strappando quote di mercato importanti nella produzione aerospaziale, il governo che sta per togliersi dalla scena della politica nazionale ha mostrato un atteggiamento fortemente trasandato per il settore, con una sovrapposizione di poteri, uno scavallamento delle regole saldate da leggi e buon senso, imponendo all’ultim’ora nuove figure direttive cavate all’esterno della dimensione […]

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4 periodi della vita in cui occorre una nuova auto


Ci sono alcuni periodi della vita in cui ci si trova ad affrontare una serie di cambiamenti importanti e la vecchia auto non si rivela più adatta alle proprie esigenze. È proprio in questi momenti che occorre prendere in mano la situazione e cambiare vettura, in modo da evitare problemi e semplificarsi la vita. Non […]

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Profughi palestinesi in Libano, 74 anni di diritti negati


Nel paese dei cedri ai palestinesi è vietato svolgere qualsiasi attività fuori dai loro 12 campi e non hanno alcun tipo di assistenza oltre a quella dell'Unrwa. Mentre Israele nega loro il diritto al ritorno nella terra d'origine. L'articolo Profughi pal

di Michele Giorgio* –

(le foto scattate nei campi di Sabra, Shatila, Beddawi, Nahr al Bared sono di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 26 settembre 2022 – Ali Hamdan osserva la figlia Nabila che muove veloce il plettro tra le corde dell’oud. Le note sono quelle di un motivo della tradizione palestinese, della zona di Giaffa da dove il suo bisnonno giunse a Beirut da profugo, assieme ad altre migliaia di civili, nel 1948. Nabila studia da poco lo strumento ma già mostra del talento e Ali non nasconde l’orgoglio di padre. E così la madre, Reem, con il viso segnato dalla stanchezza e dalla povertà. Vivere nel campo profughi di Shatila fa invecchiare prima. Ci si sveglia ogni mattina pensando a come procurarsi qualche dollaro per sopravvivere, un’impresa ancora più ardua da qualche anno viste le condizioni economiche disastrose in cui è precipitato il Libano. «Ho imparato queste poche cose, non so suonare altro», ammette Nabila arrossendo. L’applauso dei genitori e degli ospiti stranieri la rincuora. La ragazza dà uno sguardo alla nonna che giace nel letto accanto a lei, silenziosa e con gli occhi chiusi. È malata, non riesce più a camminare.

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«Dovrei farla ricoverare ma l’ospedale costa troppo. Non abbiamo l’assistenza sanitaria in Libano. L’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi, ndr) può coprire solo una piccola parte delle spese e a noi palestinesi non è permesso lavorare fuori dal campo», ci dice Ali. Fino a un paio d’anni fa Ali faceva il pasticciere. «Riuscivamo a tirare avanti senza tanti affanni, poi il proprietario ha dato il negozio a un profugo siriano e ho perduto il lavoro» racconta. «Parecchi dei palestinesi che hanno proprietà a Shatila» aggiunge «hanno scelto di affittare la loro bottega, è una entrata mensile sicura perché i siriani ricevono i sussidi dell’Onu e sono giunti qui con i loro risparmi. Per la stessa ragione, tanti palestinesi hanno affittato le loro case».

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È una contesa tra profughi di guerre del passato e più recenti, da cui quelli palestinesi comunque escono in parte perdenti. Da un lato incassano piccole rendite che permettono di sopravvivere, dall’altro ingoiano amaro perché dopo decenni trascorsi in Libano restano fuori dal mercato ufficiale del lavoro e devono fare i conti con la perenne ostilità di una larga parte della popolazione libanese e delle forze politiche locali. Non che i siriani siano trattati con rispetto ma almeno possono muoversi con maggiore libertà e trovare occupazioni a nero in vari settori. E, comunque, agli occhi dei libanesi un giorno torneranno nel loro paese. I palestinesi invece, con Israele che nega loro il diritto al ritorno, sono guardati con grande diffidenza. Restano ospiti sgraditi da tenere segregati nei loro 12 campi ufficiali che non possono espandersi.

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«Sono ormai quattro le generazioni di palestinesi in questo paese, per loro però non è cambiato nulla in questi decenni» ci conferma Sari Hanafi, docente di sociologia e attivista dei diritti dei palestinesi in Libano, che incontriamo all’Università americana di Beirut. «Le discriminazioni – dice Hanafi – sono evidenti e, purtroppo, ritenute legittime da tanti libanesi. Pesa anche il passato, la sanguinosa guerra civile libanese che ha visto i palestinesi far parte di uno degli schieramenti contrapposti, quello delle forze progressiste musulmane e druse. I libanesi a parole dicono di aver elaborato, digerita e dimenticata per sempre la guerra civile ma la realtà è ben diversa. E i palestinesi pagano ancora il loro conto».

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Durante le campagne elettorali – inclusa quella per le legislative dello scorso marzo – il tema dei profughi, palestinesi e siriani, da rimandare a casa è sempre prioritario. Non pochi candidati agitano lo spettro della «naturalizzazione» dei profughi palestinesi che, se realizzata, porterebbe la comunità musulmana sunnita a crescere di centinaia di migliaia di individui, alterando gli equilibri settari che paralizzano il Libano. Numeri che tuttavia non hanno riscontro nella realtà. Nel 2017, un censimento del governo libanese contava 174.000 palestinesi in Libano, ben sotto gli oltre 400mila profughi registrati dall’Unrwa. Nei 74 anni trascorsi dalla Nakba e dall’espulsione dalla loro terra, tanti palestinesi hanno abbandonato il Libano cercando di rifarsi una vita altrove. In particolare dopo il 1982 quando l’Olp di Yasser Arafat fu costretta ad uscire dal paese invaso dall’esercito israeliano e anche a causa del massacro di migliaia di profughi a Sabra e Shatila compiuto dai Falangisti. «In questi ultimi anni – spiega Sari Hanafi – alcuni ministri libanesi hanno provato ad eliminare le restrizioni che impediscono ai palestinesi di svolgere decine di lavori e varie professioni ma sono tutti naufragati». Nel 2019 il ministro del lavoro Camille Abousleiman ha ribadito che i palestinesi sono stranieri in Libano nonostante la loro presenza di lunga data.

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Un palestinese in Libano non può acquistare proprietà e pur laureandosi in una università libanese può svolgere la sua professione solo all’interno del campo in cui risiede. Ogni anno le autorità di Beirut concedono o rinnovano decine di migliaia di permessi di lavoro a persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e da altri paesi arabi. Solo poche centinaia sono offerte ai palestinesi. Il tasso di disoccupazione ufficiale nei campi è del 18% ma tra i giovani di età compresa tra 20 e 29 anni è del 28,5%. E comunque i lavori sono sempre a basso reddito. I più coraggiosi lavorano a nero fuori dal campo, sfidando i controlli delle autorità, facendo le pulizie nei palazzi dei libanesi ricchi o i muratori nei cantieri.

«I profughi palestinesi» commenta Kassem Aina, direttore dell’associazione Beit Atfal al Sumud «non smetteranno mai di chiedere di tornare nella terra di Palestina, perché solo in un loro Stato indipendente potranno vivere una vita libera e dignitosa». Pagine Esteri

*Questo reportage è stato pubblicato il 25 settembre 2022 dal quotidiano Il Manifesto

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Mosca: sconcerto per la liberazione dei capi del Reggimento Azov


A sorpresa il Cremlino ha accettato di liberare 215 prigionieri, tra cui i capi del Reggimento Azov e dieci mercenari stranieri, alcuni dei quali condannati a morte. In cambio, ha ottenuto la liberazione di 55 militari russi e di un oligarca ucraino amico

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 27 settembre 2022 – Proprio mentre Vladimir Putin decretava la mobilitazione generale parziale nel tentativo di rafforzare il dispositivo bellico finora dispiegato in Ucraina, tra Mosca e Kiev andava in scena il più massiccio scambio di prigionieri finora realizzato.
Lo scambio ha colto di sorpresa tutti, a partire dalle opinioni pubbliche russa e ucraina, e ha provocato malumori e polemiche a Mosca e nelle repubbliche del Donbass.

215 contro 56

Il Cremlino è riuscito a irritare sia le correnti antifasciste e di sinistra, che evidentemente avevano creduto che il proposito di “denazificare” il paese invaso giustificasse la cosiddetta “operazione militare speciale”, sia quelle di destra e ultranazionaliste, per non parlare dei settori della società russa che tolleravano la guerra pensando però che sarebbero bastati i militari di professione a combatterla.

A provocare l’ira di molti russi è stata la decisione di liberare una gran quantità di combattenti del famigerato Reggimento Azov, la milizia di estrema destra che dal 2014 massacra la popolazione del Donbass in nome di un’Ucraina derussificata e ideologicamente omogenea.
In cambio della liberazione di 108 tra dirigenti e miliziani del Reggimento Azov, arresisi il 20 maggio al termine di un lunghissimo e sanguinoso assedio all’acciaieria Azovstal di Mariupol all’interno della quale si erano asserragliati, e di altri 107 tra soldati di altri reparti, guardie di frontiera, poliziotti, marinai, doganieri, medici e civili, il Cremlino ha ottenuto la “restituzione” del miliardario Viktor Medvedchuk e di 55 tra soldati e ufficiali.

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Parata del Reggimento Azov

L’oligarca amico di Putin

L’evidente sproporzione nello scambio – 215 contro 56 – dà l’idea del peso che Putin attribuisce al miliardario ed ex leader del partito “Piattaforma di Opposizione – Per la vita”, la principale formazione di minoranza nel parlamento ucraino la cui attività è stata sospesa d’autorità dal governo di Kiev perché considerato la longa manus di Mosca. Messo agli arresti domiciliari nel 2021 per tradimento e poi accusato di aver pianificato un colpo di stato per instaurare un governo filorusso a Kiev, nell’aprile scorso l’oligarca aveva tentato di fuggire in Bulgaria travestito da soldato ma era stato nuovamente arrestato.
Medvedchuk è molto vicino a Vladimir Putin: Daryna, la figlia avuta con Oksana Marchenko – celebre conduttrice della tv ucraina sposata nel 2003 – è stata battezzata a San Pietroburgo potendo contare su due padrini del calibro del presidente russo e di Svetlana Medvedeva, moglie dell’attuale primo ministro russo Dmitrji Medvedev.
Possibile, ci si chiede, che la liberazione di Medvedchuk – che tra l’altro non è neanche cittadino russo – giustifichi un colpo così grave alla retorica della “denazificazione dell’Ucraina”, che almeno nei primi mesi del conflitto ha costituito il principale obiettivo dichiarato del Cremlino, insieme alla messa in sicurezza delle comunità russofone del Donbass martoriate da 8 anni di attacchi e bombardamenti da parte di Kiev e in particolare dei battaglioni punitivi – l’Azov, l’Ajdar, il Donbass – frutto della militarizzazione delle varie organizzazioni dell’estrema destra ucraina?
Durante tutti i conflitti avvengono degli scambi di prigionieri, e quello in corso in Ucraina non fa ovviamente eccezione.
Denis Pushilin, il leader della Repubblica Popolare di Donetsk che presto verrà annessa alla Federazione Russa dopo un referendum quanto meno discutibile (in barba al diritto all’autodeterminazione dei popoli che le varie potenze, al di qua e al di là dell’ex cortina di ferro, continuano a strumentalizzare per sostenere i propri interessi) difende l’operato del Cremlino. «Con i miei occhi ho visto come durante il processo di Minsk più di 1.000 dei nostri ragazzi sono stati liberati con l’aiuto di Viktor Medvedchuk che non sarebbero sopravvissuti altrimenti» ha spiegato Pushilin, sottolineando il fecondo ruolo di negoziatore dell’oligarca, in un video pubblicato dall’agenzia di stampa RIA Novosti.
Ma quelli concessi – e in così gran numero – a Kiev non sono prigionieri qualsiasi, sono gli odiatissimi componenti del Reggimento Azov, per scovare i quali i soldati delle milizie del Donbass e dell’esercito russo facevano spogliare gli uomini in fuga da Mariupol alla ricerca di tatuaggi raffiguranti svastiche, rune e altri simboli neonazisti.
Già a fine giugno i russi avevano, in un precedente scambio di prigionieri, liberato 95 combattenti dell’Azovstal, compresi 43 membri dell’Azov.

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Il magnate Viktor Mevdevchuk

Kiev canta vittoriaMa stavolta, tra quelli che hanno recuperato la libertà ci sono il capo del distaccamento della Azov a Mariupol, Denys Prokopenko, il suo vice Svyatoslav Palamar, il comandante ad interim della 36ima brigata dei Marines Serhiy Vlynskyi, il comandante della 12esima brigata della Guardia nazionale, Denys Shleha e infine il comandante della compagnia che dirigeva la difesa delle acciaierie, Oleh Khomenko.
I cinque dovranno astenersi dal partecipare al conflitto e saranno obbligati a risiedere in Turchia “fino alla fine della guerra”, recita l’accordo mediato da Recep Tayyip Erdogan, ma la vittoria simbolica ottenuta dal presidente ucraino Zelenskyi è consistente e si somma ai risultati della controffensiva di Kiev che ha strappato a Mosca migliaia di chilometri di territori occupati.
L’ex comandante del Reggimento Azov e leader del partito di estrema destra “Corpo Nazionale”, che di fatto è un’emanazione dell’unità militare, Andrey Biletsky, sui social ha rivendicato la vittoria: «Ho appena parlato al telefono con Radish, Kalina, tutti hanno uno spirito combattivo e sono persino desiderosi di combattere. Un’altra conferma che Azov è di acciaio. Adesso i ragazzi sono già liberi, ma in un Paese terzo. Rimarranno lì per un po’, ma la cosa principale è già accaduta: sono liberi e vivi».

In libertà anche dieci mercenari stranieri

Come se non bastasse, lo scambio ha portato anche alla liberazione di dieci combattenti stranieri inquadrati nelle forze ucraine: cinque britannici, due statunitensi, un marocchino, un croato e uno svedese. Grazie alla mediazione del principe saudita Mohammed bin Salman, i mercenari sono stati trasferiti a Riad e da qui rimpatriati nei paesi d’origine.
Fra i cinque britannici rilasciati anche Aiden Aslin, catturato a Mariupol ad aprile, e Shaun Pinner; entrambi, insieme al marocchino Brahim Saadoun, erano stati già condannati a morte a giugno da un tribunale della Repubblica Popolare di Donetsk. Ancora all’inizio della settimana scorsa Denis Pushilin aveva avvisato che la fucilazione dei condannati alla pena capitale, per l’applicazione della quale si era personalmente speso, sarebbe stata imminente ma segreta. Segno che Pushilin era probabilmente all’oscuro della trattativa e dell’imminente liberazione dei mercenari che pure erano sotto la sua custodia; le decisioni importanti, non è un mistero, si prendono a Mosca.

Le critiche al Cremlino

E così, mentre in Ucraina si festeggia, sui canali telegram russi e persino su alcuni media ufficiali le critiche e le accuse nei confronti del Cremlino emergono apertamente da parte di chi ha visto improvvisamente sfumare la Norimberga promessa da Putin a carico dell’estrema destra ucraina, che le autorità di Mosca hanno inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e che accusano di aver organizzato l’attentato costato la vita alla figlia di Alexander Dugin, ideologo dello sciovinismo grande-russo.
Tra i più duri il leader ceceno Ramzan Kadyrov – i suoi miliziani hanno dato un contributo fondamentale alla presa di Mariupol e all’assedio dell’Azovstal – secondo il quale «i criminali terroristi non dovrebbero essere scambiati con i soldati». D’ora in poi, ha avvisato Kadyrov dopo aver espresso il suo malumore per non essere stato consultato sullo scambio, le sue milizie «trarranno le proprio conclusioni e non faranno prigionieri i fascisti».
Igor Girkin “Strelkov”, una delle voci più influenti dell’ultranazionalismo russo e tra i primi leader delle repubbliche autoproclamate del Donbass (prima di essere messo da parte da Mosca) ha parlato di «fallimento totale», di una iniziativa «più grave di un crimine, peggiore di un errore, una grande stupidaggine».
Margarita Simonovna Simonyan, direttrice del canale russo d’informazione RT, si è lamentata della mancanza di cerimonie per il ritorno in patria dei prigionieri russi: «Perché i comandanti dell’Azov sono stati liberati? Spero che ne sia valsa la pena» ha scritto sul suo canale Telegram.
«Peggiore della liberazione di nazisti e mercenari può essere solo la nomina di Medvedchuk a qualche incarico nelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk o nei territori liberati» ha invece commentato Alexander Diukov, storico e membro della Commissione Presidenziale russa sulle relazioni interetniche.

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Il leader ceceno Kadyrov

Il ruolo di Abramovich, di Erdogan e di bin Salman

Ha generato inquietudine, in Russia, anche il ruolo di un altro oligarca, questa volta russo, Roman Abramovich, che si è personalmente speso per la liberazione dei dieci foreign fighters, e in particolare di quelli britannici. Secondo alcune indiscrezioni circolate nei giorni successivi allo scambio, Abramovich era addirittura sull’aereo che li ha trasportati in Arabia Saudita.

Sul fronte internazionale, poi, emerge la competizione tra Erdogan e bin Salman nel ruolo di pontieri tra Russia e Ucraina. Il leader turco ha saputo, dopo mesi di stallo nelle trattative tra Kiev e Mosca, ottenere un nuovo successo personale dopo aver negoziato a luglio lo sblocco delle navi cariche di grano ancorate nei porti dell’Ucraina meridionale. La vicenda dello scambio ha però visto anche l’emergere dell’Arabia Saudita come mediatore credibile tra i due contendenti. – Pagine Esteri

2812836* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.

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IRAN. Mahsa Amini, 60 dimostranti uccisi dalla polizia ma la protesta non si placa


Repressione violenta delle manifestazioni nel Paese. Tra i dimostranti uccisi anche Hadith Najafi, la ragazza simbolo dei cortei. Centinaia gli arrestati, tra i quali giornalisti e attivisti per i diritti umani. L'articolo IRAN. Mahsa Amini, 60 dimostran

di Valeria Cagnazzo, con aggiornamenti delle agenzie di stampa

Pagine Esteri, 26 settembre 2022 – Non si sono fermate le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in stato di fermo, il 16 settembre scorso. Migliaia di iraniani da giorni scendono per le strade contro colui che definiscono il “dittatore”, ossia la Guida Suprema l’ayatollah Khamenei, e il presidente Ebrahim Raisi, considerati i veri responsabili del decesso della ventiduenne, che era stata arrestata dalla “polizia morale” (la polizia incaricata di far rispettare i doveri della religione) del Paese. Sono state occupate le università di Tehran, Karaj, Yazd e Tabriz e le donne hanno continuato a tagliarsi i capelli e a bruciare i propri veli in pubblico.La repressione del governo iraniano prosegue intanto violenta. Secondo gli attivisti, sarebbero almeno 60 gli uccisi dalla polizia durante le manifestazioni. Uccisa anche Hadith Najafi, la ragazza simbolo dei cortei. Secondo la giornalista Masih Alinejad, la giovane attivgiaa ed è stata uccisa da sei proiettili nella città di Karaj. Tra i morti ci sono anche alcuni agenti di polizia e della milizia pro-governativa Basij.

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Mahsa Amini

Centinaia gli iraniani arrestati durante le proteste. 17 i giornalisti finiti in manette. Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, sarebbe stato prelevato dalla sua casa Majid Tavakoli, attivista per i diritti umani che aveva partecipato alle proteste per la morte di Amini. La stessa sorte sembra essere spettata a un altro attivista, Hossein Ronaghi, freelance per il Washington Post: dopo aver registrato un’intervista sarebbe stato raggiunto da agenti della sicurezza.

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A sostegno del presidente Raisi, che a proposito delle notti di proteste che stanno infiammando l’Iran giovedì scorso aveva dichiarato che nessun “atto di caos” sarebbe stato “tollerato” nel Paese. Venerdì e nei giorni successivi hanno sfilato decine di migliaia di donne e sostenitori del presidente. Nei loro slogan si chiede che i manifestanti scesi in strada per Mahsa Amini siano “giustiziati”: secondo i manifestanti pro-Raisi, nelle folle ci sarebbero agenti segreti americani infiltrati nel Paese con l’obiettivo di destabilizzarlo.

Intanto, nonostante le restrizioni che vengono applicate in queste ore alla navigazione su internet nel Paese, le immagini mostrano un Paese infiammato dalla rabbia delle donne, che malgrado gli arresti urlano da sette giorni “Morte al dittatore” e “Morte alla repubblica iraniana”.

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TIGRAY. Un’epurazione etnica attraverso gli stupri di massa e la fame


All'inizio di settembre, la Rete di associazioni di donne di ogni etnia etiope (Newa) e del Corno d'Africa (Siha) hanno promosso un'iniziativa volta alla pace e alla solidarietà con le donne tigrine, denunciando che ''i corpi femminili non sono un campo d

Di Alessandra Mincone

(la foto è di Tobin Jones/Amison)

Pagine Esteri, 29 settembre 2022 – Esplodono bombe nel cuore dell’Africa, colpiscono i piccoli parchi dove i bambini provano a giocare. Ed è la popolazione del Tigray, nella regione settentrionale dell’Etiopia, che dopo aver riempito le urna alle elezioni politiche del 2020, poi dichiarate illegittime dal governo centrale, paga il prezzo di una guerra tra le Forze di Difesa tigrine del Fronte popolare di liberazione del Tigray, interessate a riconquistare l’indipendenza regionale, e gli eserciti etiopi ed eritrei, che da oltre due anni tentano di sottomettere i residenti dell’area per interessi egemonici e perpetrando una nuova epurazione etnica nel continente nero.

I bombardamenti sulla regione questa volta sono arrivati in contemporanea al capodanno etiope dopo una breve tregua dalle ostilità. La sanguinosa operazione scatenata dal Primo Ministro Abiy Ahmed Ali, insignito del premio nobel per la pace nel 2019 per aver siglato gli accordi di sviluppo e cooperazione dei paesi nel Corno d’Africa, ha portato alla morte, secondo alcune fonti, più di 500.000 tigrini e costretto il 90% della popolazione a dipendere dagli aiuti umanitari. La commissione degli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite, in questi giorni ha reso noto che ci sono le evidenze di crimini di guerra e contro l’umanità commessi sul territorio tigrino, tra cui gli stupri di massa utilizzati come arma di guerra per sterilizzare le donne e limitare la riproduzione dell’etnia; e la riduzione strategica di generi alimentari e risorse, con il blocco e la privazione degli aiuti umanitari necessari al sostentamento e alla sopravvivenza dei civili, inclusi acqua, assistenza sanitaria e carburante.

All’inizio di settembre, la Rete di associazioni di donne di ogni etnia etiope (Newa) e del Corno d’Africa (Siha) avevano promosso un’importante iniziativa volta alla pace e alla solidarietà con le donne tigrine, denunciando che ‘‘i corpi femminili non sono un campo di battaglia.”

E invece è proprio sul corpo delle donne e delle bambine tigrè che i soldati dell’Etiopia si sono inferociti. Uno dei primi report che faceva luce sulle violenze subite dalle donne fu pubblicato nell’agosto del 2021 da Amnesty International, dal titolo evocativo circa il trattamento disumanizzante e retorico, ”Non so se realizzavano che ero una persona”. Furono intervistate 63 vittime di abusi sessuali, ognuna di loro stuprata, picchiata e torturata ripetutamente, per la maggior parte dei casi in presenza dei figli o dei fratelli minori, o addirittura violentata nelle fasi più delicate della gravidanza, fino a partorire bambini morti. E l’esercito etiope non è stato il solo ad approfittarsi di giovani donne da terrorizzare, per insediarsi nelle abitazioni delle famiglie tigrine e colpire i civili del posto. Alcune ragazze, riferivano di aver riconosciuto molti uomini che invadevano le abitazioni con le divise dell’esercito eritreo. In una lettera destinata all’Italia, pubblicata dall’associazione italo-etiope impegnata nella lotta contro i matrimoni precoci, i militari eritrei vengono accusati di ”uccidere tutti gli uomini dai 7 ai 60 anni e di violentare le donne con pezzi di vetro”. Le fonti che potrebbero fornire una indicazione sul numero di vittime di violenze sessuali provengono dalle Nazioni Unite e risalgono al 2021. Sebbene almeno 26.000 donne in età riproduttiva necessitassero di assistenza clinica dopo aver subito stupri, a causa della carenza del personale qualificato e di forniture mediche, solo una quarantina di donne sarebbero state effettivamente assistite nelle 72 ore successive al momento delle violenze, con farmaci contraccettivi e riabilitazioni post traumatiche. Mentre le osservazioni statistiche interne alla regione del Tigray, stimavano che all’inizio dell’anno, almeno centomila donne avevano subito una o più aggressioni o violenze sessuali.

Ad oggi la maggior parte dei presidi ospedalieri nella regione risultano esser stati gravemente colpiti dagli attacchi dei droni forniti da Israele, ostacolando il lavoro degli operatori sanitari e dei medici volontari – come affermato anche da Tedros Adhanom Ghebreyesus, del partito del FPLT e capo generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Un altro aspetto della guerra che ricade sui civili e generalmente sui minori, è l’incapacità della regione di garantirsi un’autosufficienza alimentare dopo i saccheggi di bovini e la distruzione dei campi di grano causata anche dalla siccità.

I bambini deceduti per incertezza alimentare non fanno notizia, ma sono in costane aumento. La World Food Programme denuncia che il Tigray è la regione etiope maggiormente colpita dalla carestia, con almeno 4,8 milioni di persone che vivono nell’incertezza alimentare. E secondo la classificazione delle fasi di sicurezza alimentare di quest’anno, la maggior parte di queste persone risultano essere minori o donne incinte, che rischiano di passare da una situazione alimentare ”grave” a una situazione ”critica”.

Nel frattempo, la criticità piu’ visibile agli occhi dell’Unione Africana sembra essere che il Tigray rappresenta un terreno inverosimilmente piu’ che fertile per la proliferazione di nuove alleanze politiche, ma anche di nuove escalation di guerra dove gli attori in scena hanno dei precisi campi d’interesse. Come quelli del dittatore eritreo, Isaias Afewerki, che punta a ottenere il controllo dei quattro campi profughi in Tigray dove vi sarebbero rifugiati centinaia di migliaia di eritrei scappati dall’obbligo di leva militare. Già sin dall’inizio del conflitto, numerose organizzazioni internazionali avevano confermato la presenza delle forze militari eritree in supporto all’esercito di Addis Abeba, ma la prima operazione dell’eritrea fu quella di dare fuoco ai campi di Hitsats e Shimelba costringendo a un rimpatrio forzato oltre ventimila profughi sfuggiti alla dittatura. Anche negli ultimi mesi non sono mancate le provocazioni eritree ai confini della regione Tigray, e dopo il richiamo alle armi di tutti i riservisti fino ai 55 anni è iniziata una nuova battaglia militare che vede i civili del Tigray attaccati su più fronti, affinchè venga scongiurata una vittoria per l’indipendenza del Fronte popolare di liberazione del Tigray.

Fra i tigrini invece gli sfollati superano i due milioni, e anche lontano dall’Etiopia non sono completamente al sicuro, basti pensare gli oltre trentamila civili arrestati dopo esser stati rimpatriati dall’Arabia Saudita, in una sistemica azione di persecuzione su base etnica; o all’ esodo che ha visto accrescere insediamenti profughi nella vicina Repubblica del Sudan, dove i rifugiati vivono in condizioni igienico-sanitarie precarie. D’altro canto, il capo del Governo sudanese non ha mancato di approfittare del dispiegamento militare dell’Etiopia verso nord per lanciare un’ operazione militare di controllo del territorio di al-Fashqa, ossia un’area fertile storicamente abitata e coltivata da entrambe le popolazioni africane, e dove un domani potrebbero scontrarsi per l’accaparramento delle risorse.

Eppure, la posta in gioco per stabilire la centralizzazione del potere nel Corno d’Africa riguarda soprattutto Abdel Fattah al-Sisi. Accusato dalla controparte di finanziare gli spostamenti delle forniture militari dei tigrini, in realtà sembra che al dittatore egiziano interessi prevalentemente contrastare la leadership del primo ministro etiope, che con l’inaugurazione ad agosto del terzo riempimento della GERD (il progetto per la Diga del Gran Rinascimento Etiope) rischia di destabilizzare le forniture idriche dell’Egitto, uno dei paesi nordafricani ad oggi più in crisi a causa dei costi per l’importazione di grano dall’Ucraina e dalla Russia.

Chissà che nel cuore dell’Africa i bombardamenti a sfondo etnico e razziale non abbiano anch’essi le potenzialità delle invasioni militari in occidente, di estendersi e trasformarsi in scontri tra potenze su larga scala. D’altronde gli stupri e la fame non potrebbero epurare interi popoli proprio come farebbe una bomba nucleare? Pagine Esteri

FONTI E LINKS:

africarivista.it/etiopia-guerr…

rivistanatura.com/torna-la-gue…
https://www.tvsvizzera.it/tvs/etiopia–completato-il-terzo-riempimento-della-grande-diga/47822972

amnesty.org/en/documents/afr25…

hrw.org/sites/default/files/me…

ohchr.org/en/hr-bodies/hrc/ich…

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