Ucraina e Moldova si mobilitano per disarmare l’arma energetica di Vladimir Putin
La Russia potrebbe aver sperato che la stagione di riscaldamento iniziata il 1 ottobre sarebbe iniziata con il botto per infliggere più dolore ai mercati energetici nervosi d’Europa. Tuttavia, finora il Cremlino ha avuto poco da esultare. La notizia degli ultimi giorni di settembre che i gasdotti russi del Nord Stream erano stati sabotati ha […]
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Dal Pianeta Terra allarme per l’Amazzonia futura savana
“Ambiente e sviluppo sostenibile sono due parole che col tempo stanno perdendo di significato, se ne fa uso in maniera vaga: la questione fondamentale è l’alfabetizzazione, cioè rendere evidente a tutti il problema che stiamo vivendo, fornendo le chiavi e gli strumenti per comprendere beneche si tratta del più grave problema che l’umanità abbia avuto […]
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Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a “Start” su Sky TG 24 l’11 ottobre 2022
L’11 ottobre 2022, a partire dalle ore 10.30, il nostro Presidente Giuseppe Benedetto è stato ospite di Roberto Inciocchi a “Start” su Sky TG 24.
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REPORTAGE. Tra uliveti e “terra di nessuno”: i lavoratori migranti nella Sicilia occidentale
di Emma Wallis, articolo pubblicato il 7 ottobre 2022 da Infomigrants* (infomigrants.net/en/)
(foto screenshot da TG RAI regionale)
(traduzione dall’inglese a cura di Pagine Esteri)
Pagine Esteri, 11 ottobre 2022 – Negli ultimi dieci anni il campo migranti di Campobello di Mazara, nella Sicilia occidentale, è diventato una “terra di nessuno insalubre”. Le autorità regionali dicono che è così pericoloso che anche la polizia non va lì. InfoMigrants ha dato un’occhiata all’interno.
Per arrivarci è necessario guidare ad ovest dal capoluogo Palermo, verso le città di Trapani e Mazara del Vallo. Fuori dalle strade principali, lungo viuzze ventose e piene di buche, attraverso città povere, dall’aspetto quasi abbandonato, costituite da tetti piatti, abitazioni a un piano, tende sbrindellate che soffiano nella brezza serale, ci sono i resti di un cementificio abbandonato.
Da un lato della strada ci sono uliveti e dall’altro cumuli di rifiuti, accatastati più in alto di un’auto. Bottiglie di plastica per lo più, pacchetti vuoti, barattoli di latta arrugginiti e mosche. Mentre ci avviciniamo all’ingresso di questo insediamento, alcuni giovani dell’Africa subsahariana osservano la strada. La loro pelle sembra gessosa e callosa, le spalle accasciate, i vestiti impolverati ea volte strappati.
È qui nella Sicilia occidentale che un campo informale si riempie ogni anno di centinaia, a volte più di 1.000 lavoratori migranti, per lo più dall’Africa subsahariana, che vengono a raccogliere. Per molti in Sicilia, questo luogo è diventato una “terra di nessuno”.
“Anche la polizia non ci va”
Il capo dell’Ufficio regionale siciliano per l’immigrazione, Michela Bongiorno e la sua squadra, affermano che può essere pericoloso entrarvi. “Non si entra da soli”, avvertono, “anche la polizia non entra”. Fanno in modo da farci incontrare i mediatori culturali e traduttori locali Jonny Affun, Albert Kalenda Kabongo e Simona Scovazzo vicino al campo per aiutarci ad accedere. Bongiorno descrive le condizioni lì come “disumane” e riferisce che all’interno si svolgono spaccio di droga e attività mafiose.
“Non c’è luce né acqua. Immagina le grandi difficoltà che stanno affrontando [i migranti]. È molto difficile, è un’area abbandonata dove nessuno ha il controllo”, spiega Jonny, un traduttore nigeriano, arrivato lui stesso come migrante dal Mediterraneo circa 16 anni fa.
E’ fine settembre, la raccolta delle olive si avvia ai primi di ottobre. I residenti del campo hanno iniziato ad arrivare. In fondo a un vicolo, dietro i mucchi di spazzatura sul davanti, si apre una specie di viottolo, fiancheggiato da poltrone abbandonate e vecchi sedili per auto. Alcuni uomini siedono tra loro mentre i cani randagi vagano intorno. Un uomo sta cucinando su un fuoco aperto, una grande pentola di metallo in equilibrio sopra le fiamme. La cenere vola nella brezza e il fumo oscura le dimore sbrindellate fatte di pezzi di legno abbandonati, lamiera ondulata e vecchi muri fatiscenti.
Leader autoproclamati
Al comando sembrano essere due senegalesi in piedi vicino al fuoco. Non vogliono essere registrati o filmati e non ci lasciano parlare con nessun altro prima che abbiano deciso se possiamo restare. L’ostilità è palpabile. L’anno scorso, alla fine di settembre, un incendio ha squarciato una parte del campo, provocando la morte di un giovane lavoratore migrante di nome Omar Baldeh. Il suo corpo è stato trovato bruciato dove aveva dormito.
L’emittente statale italiana Rai è entrata nel campo quasi un anno dopo e ha chiesto a uno dei due sedicenti leader del campo cosa fosse cambiato da allora. “Niente. Semmai è peggiorato”, fu la sua risposta. “Siamo ancora noi qui, gente del Gambia, del Mali, del Senegal e dei tunisini. Vedi degli italiani che raccolgono le olive da queste parti?”
Olive raccolte a mano
Ogni anno circa 1.000-1.300 persone vengono nella regione per lavorare tra settembre e dicembre, raccogliendo le olive a mano per la raccolta. La maggior parte di loro proviene dal Mali, dal Senegal, dal Gambia, dal Burkina Faso, dalla Tunisia, dal Marocco, dal Pakistan e alcuni ora dal Bangladesh, spiega Simona Scovazzo, mediatrice culturale che sembra conoscere molti nel campo.
“Questa è una zona compresa tra due comuni, Castelveltrano e Campobello di Mazara, dove c’è una concentrazione di olivicoltura. Qui produciamo un’oliva speciale che può essere usata per l’olio extravergine di oliva e anche da mangiare come spuntino”. Ma Scovazzo, che da una decina di anni opera sul territorio, ammette dopo la giornata di lavoro gli uomini sono costretti a vivere in condizioni che sono un mondo a parte da questa industria gastronomica.
“All’interno del campo non ci sono servizi. Non c’è acqua corrente, elettricità, servizi igienici, quindi i ragazzi qui fanno del loro meglio”, dice. “Ad esempio, faranno bollire l’acqua e poi la distribuiranno attraverso il campo. Hanno costruito piccoli spazi doccia per questo e ci sono aree “toilette”. Di notte, accendono fuochi in modo che si possa vedere, poiché non ci sono luci all’interno il campo.”
Funzionano anche i generatori a benzina, che forniscono l’elettricità a un televisore per l’intrattenimento, dice uno dei capi del campo a InfoMigrants. Ma è stato un generatore a causare l’incendio anche nel 2021, spiega Jonny.
Nessun posto dove andare
Non tutti coloro che vivono nelle cementerie abbandonate hanno contratti di lavoro. Simona Scovazzo spiega che le persone finiscono qui per motivi diversi. “Alcuni di loro semplicemente non riescono a trovare un posto in affitto, quindi vengono qui. E non vengono forniti abbastanza posti ufficiali. Altri forse hanno avuto un permesso di soggiorno ma potrebbe essere scaduto e ora, senza un indirizzo, non sono in grado di rinnovarlo”.
Altri, aggiunge, si accampano per tutta la durata del raccolto in piccole tende vicino ai campi, ricoperte di plastica per proteggersi dalle frequenti piogge durante questa stagione. Anche se alcuni affermano di essere in possesso di documenti, dice Jonny Affun, la maggior parte degli uomini del campo sono costretti a rimanere lì perché non hanno uno status legale. “Cercano di sopravvivere lì (dentro la fabbrica di cemento abbandonata) perché la maggior parte di loro sopravvive senza documenti”, aggiunge. “Alcuni anni fa lì vivevano meno migranti, ma dopo le leggi Salvini (leggi sulla migrazione e sulla sicurezza approvate nel 2018 che hanno revocato alcune protezioni e reso più difficile in alcuni casi l’ottenimento dei permessi di soggiorno e di lavoro) molti di loro hanno perso i documenti e quindi non hanno altro posto dove andare”.
Nel frattempo, la situazione all’interno del campo peggiora di giorno in giorno, spiega Affun. “Si vede la quantità di rifiuti all’ingresso. Questo perché negli ultimi due anni non è passato nessuno a sgomberare. Quei ragazzi sono sempre arrabbiati, non vogliono parlare, sono stanchi, non hanno documenti, nessun posto dove andare, nessun posto dove lavorare. Anche alcuni di loro con i documenti lì dentro, non riescono a trovare un posto da affittare. Quando chiamano e chiedono se possono affittare una casa, i cittadini chiedono: “di dove sei?”. Quando rispondono “dall’Africa”, gli viene detto “non c’è una casa da affittare”. Quindi sono costretti a vivere in quello spazio”.
Affun pensa che le autorità debbano parlare di più con i lavoratori migranti per vedere cosa vogliono. “Molte di quelle persone che lavorano, non conoscono i loro diritti e un contratto di lavoro. È davvero importante dare informazioni e insegnare a queste persone i loro diritti fondamentali”.
Nuovi progetti
La regione siciliana sta cercando di fare qualcosa. La responsabile dell’ufficio per la migrazione, Michela Bongiorno, è stata impegnata con i comuni della Sicilia occidentale per prendere possesso dei terreni confiscati alla mafia e rilanciare i borghi marinari abbandonati dai residenti andati in città in cerca di lavoro.
Alcuni lavoratori migranti sono già ospitati in un centro di accoglienza SPRAR pulito a cinque minuti di auto da Campobello, e accanto ad esso sono state costruite anche 300 nuove cabine in collaborazione con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati UNHCR per ospitarne altri.
«Il problema dell’alloggio è davvero serio», dice Bongiorno. “I lavoratori stagionali che vengono per alcuni mesi dovrebbero poter vivere in condizioni igieniche, ma io sono contraria all’idea che questi campi esistano tutto l’anno. Se le persone vivono nella nostra regione per tutto l’anno, dovrebbero essere adeguatamente integrate. Ecco perché stiamo avviando nuovi progetti per farlo”.
Diritti per i lavoratori
Una nuova campagna, “Diritti negli Occhi”, mira a fornire un sistema di alloggi, trasporti e infrastrutture sponsorizzato dallo Stato affinché i lavoratori stagionali possano arrivare nei campi, vivere in luoghi igienici ed evitare lo sfruttamento. In precedenza, questi progetti erano offerti solo a chi aveva un permesso di soggiorno, ma si spera di offrire alloggi sanitari sicuri a tutti coloro che lavorano nella zona, al fine di spezzare la morsa dei contratti di lavoro abusivi e dello sfruttamento che alcuni agricoltori richiedono ai loro lavoratori e che alimenta questo ciclo di povertà e abusi.
Secondo TP24, un giornale online per la provincia di Trapani e la Sicilia occidentale, due progetti finiranno per migliorare la situazione, con un costo stimato di quasi 2,6 milioni di euro. Mirerebbero a costruire ostelli per i lavoratori stagionali e ad assicurare che tutti abbiano contratti di lavoro adeguati, anche se il tempo necessario per installarli “potrebbe essere lungo”.
Nel frattempo, dice Jonny Affun, la situazione per i lavoratori è desolante. “Alcune di queste persone lavorano dieci ore al giorno e percepiscono a malapena 30 euro di compenso. Quando finiscono la giornata sono davvero stanche, è quello che è successo al fratello guineano morto nell’incendio l’anno scorso. Era così stanco, si è addormentato e nel frattempo l’intero campo è andato a fuoco. Un altro incendio è accaduto anche quest’anno. Il governo è arrivato, parlano, parlano, ma non è stato fatto nulla. Finora non c’è una soluzione. È molto deprimente. Gli stessi incidenti accaduti allora potrebbero ripetersi di nuovo”. Pagine Esteri
Link dell’articolo in lingua inglese
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PETROLIO. Biden “deluso” dagli alleati sauditi, Riyadh resta amica di Putin
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 ottobre 2022 – «Il petrolio non è un’arma e l’Arabia saudita non intende politicizzare questa risorsa». Prova ad allentare la tensione con Washington il ministro di Stato saudita per gli affari esteri, Adel al Jubeir, dopo il taglio annunciato dall’Opec+ della produzione globale di petrolio di due milioni di barili al giorno. Intervistato dalla Fox news, Al Jubeir ha fatto il possibile per smentire che il taglio sia avvenuto di concerto con la Russia, uno dei paesi associati all’Opec+. «Il petrolio, ai nostri occhi, è un bene importante per l’economia globale, in cui abbiamo un grande interesse», ha affermato il ministro saudita prima di ricordare i legami storici tra Washington e Riyadh. Ma le sue parole non bastano a stemperare la «delusione» profonda espressa qualche ora prima da Joe Biden che si sente tradito dal principale partner arabo. Il presidente americano ha reagito ordinando al Dipartimento dell’Energia di mettere sul mercato a novembre 10 milioni di barili dalla Strategic Petroleum Reserve (SPR), la più grande riserva mondiale di greggio, istituita nel 1975. Un passo che preoccupa alcuni esperti. La riserva di emergenza è già ai livelli più bassi dal 1984. Politico la scorsa settimana scriveva che Repubblicani e Democratici valutano diverse azioni, anche punitive, contro l’Opec+ ma appaiono tutte poco credibili.
Dopo il viaggio a Gedda di tre mesi fa che, tra le altre cose, aveva sancito la riconciliazione con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – accusato di aver ordinato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi-, Biden si attendeva da Riyadh una collaborazione più stretta, a cominciare dall’isolamento della Russia. E subito dopo il mantenimento di livelli elevati di produzione del greggio per contenere il costo del barile e dare una mano alle economie occidentali minacciate da un quadro energetico sempre più preoccupante per le conseguenze delle sanzioni contro il Cremlino. E invece i sauditi, di concerto proprio con la «nemica» Mosca, mentre gli Usa fanno di tutto per colpire Vladimir Putin, sono stati decisivi per il taglio della produzione. «Stiamo valutando una serie di alternative, ma non è ancora stata presa una decisione finale», ha affermato Biden, aggiungendo di non rimpiangere il suo viaggio in Arabia Saudita. «La mia visita non ha riguardato solo il petrolio, anzi era incentrata sulla stabilizzazione del Medio Oriente e di Israele», ha precisato per sottrarsi alle critiche che lo sommergono in queste ore.
Funzionari dell’Amministrazione Usa confermano che la Casa Bianca aveva fatto il possibile per impedire il taglio della produzione dell’Opec ed evitare che il prezzo della benzina negli Usa aumenti mentre si avvicinano le elezioni di medio termine e il Partito Democratico lotta per mantenere il controllo del Congresso. Biden il mese scorso aveva spedito in Arabia saudita Amos Hochstein, l’inviato speciale per l’energia, e il funzionario della sicurezza nazionale Brett McGurk per discutere di questioni energetiche e della decisione dell’Opec+. Non è servito ad impedire il taglio alla produzione del greggio. Stando alle indiscrezioni gli inviati statunitensi avrebbero cercato di mettere i sauditi di fronte a un aut aut: «noi o la Russia». La risposta del ministro dell’energia di Riyadh, il principe Abdulaziz bin Salman, è stata eloquente. «Ci preoccupiamo prima di tutto degli interessi del regno dell’Arabia saudita, quindi degli interessi dei paesi membri dell’Opec e dell’alleanza OPEC +». In poche parole: noi con Putin non rompiamo, continuiamo a collaborare e pensiamo solo a come evitare che l’economia saudita vada in recessione.
Intervistato dalla Reuters Ben Cahill, ricercatore presso il Center for Strategic and International Studies, ha affermato che i sauditi sperano che i tagli alla produzione garantiscano entrate sufficienti. «Il rischio macroeconomico sta peggiorando. I sauditi sapevano che il taglio avrebbe irritato Washington ma stanno gestendo il mercato», ha spiegato. A Riyadh puntano l’indice contro l’insufficiente capacità di raffinazione negli Usa e non condividono l’iniziativa americana per un tetto massimo del prezzo del petrolio russo che ritengono un meccanismo di controllo non di mercato che potrebbe essere utilizzato da un cartello di consumatori contro i produttori.
Negli Usa si sono convinti che l’Opec+ si stia progressivamente allineando con la Russia e al Congresso i Democratici hanno chiesto il ritiro delle truppe statunitensi dall’Arabia saudita. «Pensavo che lo scopo principale della vendita di armi agli Stati del Golfo, nonostante le loro violazioni dei diritti umani, l’assurda guerra nello Yemen, il lavoro contro gli interessi degli Stati uniti in Libia, Sudan, fosse che il Golfo avrebbe scelto l’America e non la Russia/Cina durante una crisi internazionale» ha scritto su Twitter il senatore Chris Murphy, un Democratico. Parole che rappresentano un attacco frontale alla decisione presa da Biden nei mesi scorsi di rilanciare le relazioni con Riyadh. Pagine Esteri
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BEN(E)DETTO 11 ottobre 2022
Coloro che, legittimamente, in Italia vogliono chiamarsi conservatori, ci spieghino se intendono ispirarsi alla Le Pen o alla Thatcher. Cambia tutto. Ma proprio tutto.
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Il Presidente Giuseppe Benedetto ospite a “Start” su Sky TG 24 l’11 ottobre 2022
L’11 ottobre 2022, a partire dalle ore 10.30, il nostro Presidente Giuseppe Benedetto sarà ospite di Roberto Inciocchi a “Start” su Sky TG 24.
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PETROLIO. Biden “deluso” dagli alleati sauditi, Riyadh resta amica di Putin
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 11 ottobre 2022 – «Il petrolio non è un’arma e l’Arabia saudita non intende politicizzare questa risorsa». Prova ad allentare la tensione con Washington il ministro di Stato saudita per gli affari esteri, Adel al Jubeir, dopo il taglio annunciato dall’Opec+ della produzione globale di petrolio di due milioni di barili al giorno. Intervistato dalla Fox news, Al Jubeir ha fatto il possibile per smentire che il taglio sia avvenuto di concerto con la Russia, uno dei paesi associati all’Opec+. «Il petrolio, ai nostri occhi, è un bene importante per l’economia globale, in cui abbiamo un grande interesse», ha affermato il ministro saudita prima di ricordare i legami storici tra Washington e Riyadh. Ma le sue parole non bastano a stemperare la «delusione» profonda espressa qualche ora prima da Joe Biden che si sente tradito dal principale partner arabo. Il presidente americano ha reagito ordinando al Dipartimento dell’Energia di mettere sul mercato a novembre 10 milioni di barili dalla Strategic Petroleum Reserve (SPR), la più grande riserva mondiale di greggio, istituita nel 1975. Un passo che preoccupa alcuni esperti. La riserva di emergenza è già ai livelli più bassi dal 1984. Politico la scorsa settimana scriveva che Repubblicani e Democratici valutano diverse azioni, anche punitive, contro l’Opec+ ma appaiono tutte poco credibili.
Dopo il viaggio a Gedda di tre mesi fa che, tra le altre cose, aveva sancito la riconciliazione con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – accusato di aver ordinato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi-, Biden si attendeva da Riyadh una collaborazione più stretta, a cominciare dall’isolamento della Russia. E subito dopo il mantenimento di livelli elevati di produzione del greggio per contenere il costo del barile e dare una mano alle economie occidentali minacciate da un quadro energetico sempre più preoccupante per le conseguenze delle sanzioni contro il Cremlino. E invece i sauditi, di concerto proprio con la «nemica» Mosca, mentre gli Usa fanno di tutto per colpire Vladimir Putin, sono stati decisivi per il taglio della produzione. «Stiamo valutando una serie di alternative, ma non è ancora stata presa una decisione finale», ha affermato Biden, aggiungendo di non rimpiangere il suo viaggio in Arabia Saudita. «La mia visita non ha riguardato solo il petrolio, anzi era incentrata sulla stabilizzazione del Medio Oriente e di Israele», ha precisato per sottrarsi alle critiche che lo sommergono in queste ore.
Funzionari dell’Amministrazione Usa confermano che la Casa Bianca aveva fatto il possibile per impedire il taglio della produzione dell’Opec ed evitare che il prezzo della benzina negli Usa aumenti mentre si avvicinano le elezioni di medio termine e il Partito Democratico lotta per mantenere il controllo del Congresso. Biden il mese scorso aveva spedito in Arabia saudita Amos Hochstein, l’inviato speciale per l’energia, e il funzionario della sicurezza nazionale Brett McGurk per discutere di questioni energetiche e della decisione dell’Opec+. Non è servito ad impedire il taglio alla produzione del greggio. Stando alle indiscrezioni gli inviati statunitensi avrebbero cercato di mettere i sauditi di fronte a un aut aut: «noi o la Russia». La risposta del ministro dell’energia di Riyadh, il principe Abdulaziz bin Salman, è stata eloquente. «Ci preoccupiamo prima di tutto degli interessi del regno dell’Arabia saudita, quindi degli interessi dei paesi membri dell’Opec e dell’alleanza OPEC +». In poche parole: noi con Putin non rompiamo, continuiamo a collaborare e pensiamo solo a come evitare che l’economia saudita vada in recessione.
Intervistato dalla Reuters Ben Cahill, ricercatore presso il Center for Strategic and International Studies, ha affermato che i sauditi sperano che i tagli alla produzione garantiscano entrate sufficienti. «Il rischio macroeconomico sta peggiorando. I sauditi sapevano che il taglio avrebbe irritato Washington ma stanno gestendo il mercato», ha spiegato. A Riyadh puntano l’indice contro l’insufficiente capacità di raffinazione negli Usa e non condividono l’iniziativa americana per un tetto massimo del prezzo del petrolio russo che ritengono un meccanismo di controllo non di mercato che potrebbe essere utilizzato da un cartello di consumatori contro i produttori.
Negli Usa si sono convinti che l’Opec+ si stia progressivamente allineando con la Russia e al Congresso i Democratici hanno chiesto il ritiro delle truppe statunitensi dall’Arabia saudita. «Pensavo che lo scopo principale della vendita di armi agli Stati del Golfo, nonostante le loro violazioni dei diritti umani, l’assurda guerra nello Yemen, il lavoro contro gli interessi degli Stati uniti in Libia, Sudan, fosse che il Golfo avrebbe scelto l’America e non la Russia/Cina durante una crisi internazionale» ha scritto su Twitter il senatore Chris Murphy, un Democratico. Parole che rappresentano un attacco frontale alla decisione presa da Biden nei mesi scorsi di rilanciare le relazioni con Riyadh. Pagine Esteri
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USA. Milioni di americani rischiano la fame. I buoni pasto di Biden non bastano
della redazione con dati e notizie diffusi in rete dalla Reuters
Pagine Esteri, 6 ottobre 2022 – Grace Melt ha fatto la sua prima visita alla dispensa alimentare di Nourishing Hope di Chicago ad agosto. Durante la pandemia di COVID-19 aveva utilizzato buoni pasto emessi dal governo federale per acquistare generi alimentari mentre era disoccupata per un infortunio al ginocchio. Ma quest’estate, i buoni pasto non sono riusciti a tenere il passo dell’aumento dei prezzi del negozio di alimentari e per la prima volta è dovuta andare alla ricerca di una fornitura gratuita di cibo. “Non è sicuramente abbastanza. Non bastano mai fino alla fine del mese”, ha detto Melt a proposito dei buoni pasto. “E ora che sono aumentati i prezzi non puoi far altro che venire qui, in un centro dove donano cibo”.
L’aumento della fame (negli Usa) è un problema serio per l’immagine e le ambizioni del presidente degli Stati Uniti Joe Biden che si prepara a ospitare la prima conferenza della Casa Bianca su fame, nutrizione e salute in oltre 50 anni e si dice impegnato a eliminare la fame negli Stati Uniti entro il 2030. A causa dell’inflazione (alta) gli elettori potrebbero punire il Partito Democratico nelle elezioni di medio termine. L’andamento dell’economia infatti è la priorità per gli elettori Usa, secondo un sondaggio Reuters/Ipsos. L’amministrazione Biden ha aumentato i finanziamenti per i buoni pasto quasi un anno fa ma allo stesso tempo ha acquistato la metà del cibo rispetto all’amministrazione Trump nel 2020 per banche alimentari, scuole e riserve indigene, secondo i dati ottenuti dall’agenzia statunitense USDA.
L’aumento dei prezzi dei generi alimentari sta erodendo il valore reale dei buoni pasto su cui sembra puntare l’attuale amministrazione per combattere la fame tra gli statunitensi. Quest’anno i buoni hanno un valore medio di 231 dollari a persona al mese. Troppo poco di fronte all’inflazione galoppante. Ciò ha costretto più americani a rivolgersi alle banche alimentari che a loro volta hanno ricevuto meno cibo dal governo.
L’indice dei prezzi al consumo per il cibo è salito al 13,5% ad agosto, l’aumento più sostenuto in 12 mesi dal 1979, secondo il Bureau of Labor Statistics. I prezzi dei generi alimentari sono cresciuti a livelli record dall’invasione russa del principale produttore di cereali, l’Ucraina. E co0sì anche i livelli di fame quest’estate sono saliti a punti mai raggiunti, neppure durante la pandemia nel 2020 quando i lockdown hanno gettato nel caos le catene di approvvigionamento.
“Questo problema era migliorato nel 2021, poi è nuovamente e rapidamente peggiorato” spiega Vince Hall, Chief Government Relations Officer di Feeding America, la più grande rete di banche alimentari della nazione. “La maggior parte delle nostre banche del cibo vede allungarsi le file di persone ogni settimana che passa”. Per alcuni occorre spendere di più in buoni pasto o distribuire contanti perché offrono alle persone più scelta rispetto alle dispense alimentari e vanno anche a vantaggio delle imprese locali.
L’insufficienza alimentare per le famiglie con bambini è salita al 16,21% lo scorso luglio quando quasi 1 famiglia su 6 ha dichiarato di non avere, talvolta o molto spesso, da mangiare a sufficienza, secondo i dati della Household Pulse Survey dell’US Census Bureau. Si tratta della percentuale più alta da dicembre 2020. La fame tra i bambini era scesa al 9,49% nell’agosto 2021 in parte a causa dei pagamenti del credito d’imposta per i bambini, secondo l’US Census Bureau.
La fame si era attenuata nel 2021 dopo che le amministrazioni Trump e Biden hanno distribuito sussidi per la pandemia alle famiglie per l’acquisto di generi alimentari, consegnato miliardi di scatole di cibo di emergenza e inviato pagamenti mensili del credito d’imposta per i bambini. Nell’anno 2020, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha speso 8,38 miliardi di dollari per 4,29 miliardi di libbre di cibo destinato a dispense alimentari, scuole e riserve indigene. Ma la spesa alimentare è diminuita costantemente, di quasi il 42% dal 2020 al 2022, fino ai 3,49 miliardi di dollari, il livello più basso dal 2018. L’agenzia ha acquistato solo 2,43 miliardi di libbre di cibo nell’ultimo anno, secondo i dati acquisiti da Reuters.
L’USDA ha cercato di compensare il calo degli acquisti di cibo con ulteriori sussidi per l’assistenza nutrizionale supplementare. Ma l’aiuto aggiuntivo è stato limitato dai costi più elevati…L’USDA ha recentemente annunciato che acquisterà altri 943 milioni di dollari in generi alimentari entro il 2024, utilizzando i fondi della Commodity Credit Corporation, normalmente stanziati per prestiti e pagamenti agli agricoltori statunitensi colpiti da disastri o dai bassi prezzi delle materie prime. Il dipartimento dell’agricoltura da parte sua ha riferito di un taglio drastico ai finanziamenti per la pandemia autorizzato dal Congresso che ha limitato il potere di spesa dell’agenzia per gli alimenti e le scuole.
Feeding America lamenta il taglio di 430 miliardi di dollari per alcune misure aggiuntive di assistenza alimentare dalla legge sulla riduzione dell’inflazione firmata ad agosto, inclusi gli investimenti nell’alimentazione infantile e un programma EBT da impiegare quando i pasti scolastici non sono disponibili. “Nelle versioni precedenti di questo disegno di legge c’erano priorità straordinariamente importanti per combattere la fame, che però non ci sono nell’ultima versione”, ha protestato.
RACCOLTI INSUFFICIENTI
Quest’anno, l’USDA acquisterà poco più della metà del cibo comprato al culmine della pandemia, mentre le donazioni dei negozi di alimentari e dei distributori sono diminuite e le aziende fermano le catene di approvvigionamento e riducono al minimo gli sprechi. Il Greater Chicago Food Depository, uno dei maggiori distributori di cibo alle dispense alimentari locali, prevede di ottenere quest’anno poco più di un terzo del cibo ricevuto dall’USDA durante l’anno fiscale 2021 (da luglio 2020 a giugno 2021).
E mentre le scorte di cibo si riducono, l’inflazione sta spingendo per la prima volta più americani verso le banche alimentari. Nell’area di Chicago hanno visto un aumento del 18% dei visitatori a luglio, rispetto a un anno prima. Eppure i buoni pasto costituivano meno del 2% della spesa del governo degli Stati Uniti nel 2022, secondo i dati del Tesoro. Nell’agosto 2022, l’agenzia ha annunciato un adeguamento del costo della vita a partire dal 1 ottobre, aumentando le assegnazioni mensili massime per una famiglia di quattro persone da 835 a 939 dollari al mese.
Ma molti di coloro che visitano le dispense alimentari lavorano ancora o beneficiano della previdenza sociale, cosa che li squalifica dai buoni pasto, come Michael Sukowski, un impiegato dell’amministrazione universitaria in pensione a cui stati tagliati i sussidi a causa di una pensione mensile che riceve dallo stato. “Con la previdenza sociale e una piccola pensione di 153 dollari al mese non vado lontano”, ha spiegato “la metà va per l’affitto. Poi ci sono le utenze.”
La dispensa alimentare di Nourishing Hope, che quest’anno ha visto un aumento del 40% dei visitatori, e altre banche alimentari ora acquistano più cibo a costi più elevati. Ciò ha portato a forniture modeste di alimenti di base come pane, carne e formaggio. “Il raccolto è stato esiguo, per così dire. Ma sono grata di aver avuto della roba”, ha detto Grace Melt mentre metteva i suoi prodotti alimentari in un carretto, preparandosi per un viaggio in autobus verso casa. “Talvolta devi venire in un posto come questo. A volte non ottieni niente”, ha spiegato. Pagine Esteri
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PD: idee, prima che azioni; sezioni, non circoli
Non si tratta di nomi, e non si tratta di cercare problemi da risolvere. Si tratta di filosofia, di idee politiche, di prospettive. Insomma: di avere un metodo per risolvere i problemi, non di avere tutte le soluzioni in tasca. Sezioni, cioè parti di un tutto, non circoli per giocare a bocce … o a tennis
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Taiwan: in scena (nei giochi di guerra) la guerra diversa
Tra i temi al centro del 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, c'è Taiwan. In attesa di sapere da Xi Jinping quali sono le intenzioni di Pechino, ecco come la Cina potrebbe costringere Taiwan a capitolare nel corso dei prossimi 10 anni escludendo una guerra tradizionale
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Il senso della bomba atomica per gli esseri umani
“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) La specie umana sarebbe presente sulla terza pietra dal Sole da almeno 250 mila anni ma altre teorie […]
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Il giornalismo e la minaccia del neo-populismo
Il primo dibattito dal vivo prima delle elezioni presidenziali in Brasile ha visto i candidati indulgere in un’oratoria estremamente accesa e offensiva, ma a un certo punto il Presidente populista Jair Bolsonaro ha superato tutti i limiti possibili rispondendo a una domanda di un giornalista. “Penso che tu ti addormenti pensando a me. Hai una […]
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Gli americani devono dire fino a che punto gli USA sono pronti a sostenere l’Ucraina
Il presidente russo Vladimir Putin sta giocando un gioco pericoloso minacciando di usare “piccole” cosiddette armi nucleari da teatro con potenza esplosiva, questa frazione della potenza delle bombe anti-città usate dagli Stati Uniti sul Giappone nell’agosto 1945. Ma anche la Casa Bianca e il Pentagono stanno giocando un gioco pericoloso quando “funzionari di Washington” non […]
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Dire #MIStaiACuore significa anche imparare come agire nei momenti di necessità.
Flavia Civitelli, studentessa del Liceo artistico “E.
La trappola della politica estera della Malesia e la paura della Cina
La Malesia ha recentemente annunciato il piano per reclutare addetti linguistici e culturali per le missioni malesi nel mondo, in un’apparente priorità e urgenza non corrispondenti per il suo orientamento di politica estera. Difesa come la ricerca della promozione della sua lingua nazionale e del suo potere di persuasione culturale sulla scena mondiale, questa mossa […]
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Pirates are against the new rules on crypto assets which will ban anonymous payments
Tonight, the ECON and LIBE committees of the European Parliament will vote on a complete ban on anonymous crypto payments. The latest agreement between the European Parliament and the European Council goes even further than the original European Commission’s proposal which was setting the limit at the equivalent of €1000. The new rules will impose an identification requirement for crypto-asset transactions in all amounts. Moreover, all users of hosted wallets will now have to identify themselves, as well as all users who send non-hosted funds to hosted crypto wallets.
Patrick Breyer, MEP for the Pirate Party Germany and member of the LIBE committee, comments:
„These rules will deprive law-abiding citizens of their financial freedom. For example, opposition leaders like Alexei Navalny are increasingly reliant on anonymous donations in virtual currencies. Banks have also blocked donations to Wikileaks in the past. The creeping abolition of real and virtual cash threatens negative interest rates and a shutdown of the money supply at any time. We should have a right to be able to pay and donate online without having our financial transactions recorded in a personalised way.There is no justification for this de facto abolition of anonymous virtual payments: Where virtual assets have previously been used for criminal activity, prosecution has been possible based on current applicable regulations. A complete ban on anonymous crypto payments will not have a significant impact on crime. The stated goal of combating money laundering and terrorism is just a pretext to gain more and more control over our private transactions.”
Mikuláš Peksa, MEP, Chairperson of the European Pirate Party, comments:
“In these times of war, it is absolutely crucial to still be able to make anonymous payments to support those that are the most at risk of being persecuted. Today’s decision by some Members in this house is one based on fear and misunderstanding of what cryptocurrencies really are and the ground breaking innovations they can bring to society. We should be allowed to do online what we are allowed to do offline. These double standards are outdated. I believe that a ban on anonymous payments in cryptocurrencies simply violates our core privacy rights and, therefore, this type of regulation has no place in our democratic European Union.”
Iran: la battaglia esistenziale degli Ayatollah
Il clero sciita iraniano difronte alle manifestazioni che da un mese proseguono nel Paese, non ha scelta: deve impedire qualsiasi tipo di riapertura dell'arena politica che possa incoraggiare più proteste o che permetta ai riformisti di sostenere il dialogo politico. Per il clero e per le Guardie Rivoluzionarie e i loro alleati, questa è una battaglia esistenziale che non possono permettersi di perdere
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Il Giappone e la relazione con gli USA dopo l’Ucraina
La politica di sicurezza nazionale del Giappone sta subendo un cambiamento storico a un ritmo senza precedenti, e gli Stati Uniti apprezzano. E tutto nel ricordo di Abe. Ora tenere d'occhio le prestazioni di Fumio Kishida
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20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese: quel che c’è da sapere
Domenica 16 ottobre i vertici del PCC, 3.000 delegati si riuniranno a Pechino per l'evento politico più importante del decennio: il 20° congresso del partito. Xi Jinping al terzo mandato al centro dell'attenzione per capire la Cina che sarà
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Rivoluzione in Iran?
Almeno dal 2009 e dalla “rivoluzione verde”, la popolazione giovane e borghese dell’Iran ha ripetutamente dimostrato il suo disgusto per gli anziani governanti clericali che governano le loro vite. Marciano per le strade a rischio di tutto per denunciare la dittatura brutale e inflessibile che abusa del potere rivoluzionario conferito loro dal popolo nel 1979. […]
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Anche gli Stati Uniti beneficeranno dell’integrazione europea dell’Ucraina
L’invasione russa dell’Ucraina è già ampiamente riconosciuta come uno spartiacque nella storia europea moderna. Chiaramente, il sistema di sicurezza europeo prebellico non è più praticabile e sono necessari nuovi approcci. Mentre le truppe ucraine continuano a liberare il loro paese dall’occupazione russa, sta emergendo un consenso sul fatto che la futura stabilità del continente dipenderà […]
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Spazio italiano: scelte autonome cercasi
«L’Italia sa badare a se stessa nel rispetto della Costituzione». Come possono non apprezzarsi le parole scelte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Piemonte al margine della celebrazione per il centenario della nascita dello scrittore Beppe Fenoglio! Una distanza calibrata dalle esternazioni della ministra francese per gli Affari europei Laurence Boone che lo scorso […]
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European Digital Identity: EU Parliament wants decentralized data storage and right to anonymity
Tonight, the EU Parliament’s Home Affairs Committee (LIBE) will vote on amendments to the envisaged “European Digital Identity” and “digital wallet”, calling for far-reaching changes to the Commission’s proposal. Among other things, use is to remain voluntary and alternative identification without disadvantages is to remain on offer. Service providers should, as far as possible, enable the anonymous use of their services; otherwise, self-selected, changing pseudonyms could be used for signing up to Internet services. Instead of mandating a unique personal identification number or “citizen number” throughout Europe, every Member State would be able to opt for identifiers that are different for every service. The committee also calls for decentralized storage of the contents of the personal “digital wallet” (e.g., credit card data, driver’s license, medical prescriptions) exclusively on the holder’s own device, unless the holder requests external backup and data storage.
German Pirate Party MEP Patrick Breyer (Pirate Party), who had requested comprehensive changes to protect against data trafficking and identity theft, will support the compromise:
“The great risk of the envisaged ‘EU digital identity’ is that anonymity on the Internet could be eroded and the disclosure of our personal data could become the ‘norm’. Initially voluntary identification procedures could gradually become mandatory, and identification with official identification instruments could be required much more often online than offline. To protect against such a development, we call for a ban on discriminating against non-users and a right to use digital services as anonymously as possible. Being able to use pseudonyms to sign up rather than revealing the real identity also protects vulnerable groups.I was not able to secure a majority for abolishing unique digital personal identifiers throughout Europe, but at least each EU country will have a choice. The European Digital Identity must not become a digital diary based on a lifelong identification number that can be used to record and monitor our entire digital lives!
It is a great success that the sensitive data of citizens in their ‘digital wallet’ will in the future be stored exclusively in a decentralized manner on their own device, unless they choose centralized storage. Decentralized data storage protects our data from hacks and identity theft.”
Background: The planned “European Digital Identity” is intended to give EU citizens access to public and private digital services and enable them to pay online. Under the proposal, payment data and documents such as driver’s licenses or medical prescriptions can be stored in addition to the user’s identity in the “wallet app.” It could be possible to mandate the user of biometric data such as fingerprints or iris scans to access the app. The EU service is intended to be an alternative to the login services of Facebook and Google.
After the LIBE Committee, which is exclusively responsible for the data protection rules governing the envisaged “digital identity,” the EU Parliament’s economic affairs Committee (ITRE), will take a position on the project. This will be followed by negotiations with the second legislative body, the EU Council.
EU chat control negotiations kick off: Commissioner Johansson defends controversial surveillance law before LIBE committee
Today from 3-4 p.m., EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson will officially present her controversial draft law on mandatory message and chat control to the EU Parliament’s Civil Liberties Committee (LIBE) and answer MEPs’ questions. With the law, the Commission wants to oblige providers of email, chat and messenger services, among others, to search for suspicious messages in a fully automated way and forward them to the police, citing the of prosecuting “child pornography” as reason. End-to-end encryption would have to be thwarted by scans on all cell phones.
MEP and civil rights activist Dr. Patrick Breyer (Pirate Party), who is co-negotiating the law as shadow rapporteur for Group Greens/European Free Alliance, comments:
“An indiscriminate search into the blue which violates fundamental rights is the wrong way to protect young people and even endangers them by putting their private recordings in the wrong hands and criminalizing children in many cases. Victim protection largely depends on focusing all resources on preventing the abuse and the production of abusive material. Child porn rings do not organize themselves on Facebook or Whatsapp but use self-operated forums and encrypted archives, which automated chat control completely misses. Children have a right to protection from political instrumentalization!In addition to ineffective network blocking censorship, chat control threatens the end of digital privacy of correspondence and secure encryption, the screening of personal cloud memories threatens mass surveillance of private photos, age verification threatens the end of anonymous communication, appstore censorship threatens the end of secure messenger apps and the paternalism of young people. What is not planned, however, is a long overdue obligation to delete known abuse material on the Internet or the urgently needed Europe-wide standards for effective prevention measures, victim assistance and counseling, and consistent criminal investigations.
Chat control is like the post office opening and scanning all letters – ineffective and illegal. Even the most intimate nude photos and sex chats can suddenly end up with company personnel or the police because of error-prone algorithms. Those who destroy the digital secrecy of correspondence destroy trust. We all depend on the security and confidentiality of private communication: People in need, victims of abuse, children, the economy and also state authorities.”
When the draft law on chat control was first presented in May 2022, the EU Commission promoted the controversial plan with various arguments. In the following, various claims are questioned and debunked:
1. “Today, photos and videos depicting child sexual abuse are massively circulated on the Internet. In 2021, 29 million cases were reported to the U.S. National Centre for Missing and Exploited Children.”
To speak exclusively of depictions of child sexual abuse in the context of chat control is misleading. To be sure, child sexual exploitation material (CSEM) is often footage of sexual violence against minors (child sexual abuse material, CSAM). However, an international working group of child protection institutions points out that criminal material also includes recordings of sexual acts or of sexual organs of minors in which no violence is used or no other person is involved. Recordings made in everyday situations are also mentioned, such as a family picture of a girl in a bikini or naked in her mother’s boots. Recordings made or shared without the knowledge of the minor are also covered. Punishable CSEM also includes comics, drawings, manga/anime, and computer-generated depictions of fictional minors. Finally, criminal depictions also include self-made sexual recordings of minors, for example, for forwarding to partners of the same age (“sexting”). The study therefore proposes the term “depictions of sexual exploitation” of minors as a correct description. In this context, recordings of children (up to 14 years of age) and adolescents (up to 18 years of age) are equally punishable.
2. “In 2021 alone, 85 million images and videos of child sexual abuse were reported worldwide.”
There are many misleading claims circulating about how to quantify the extent of sexually exploitative images of minors (CSEM). The figure the EU Commission uses to defend its plans comes from the U.S. nongovernmental organization NCMEC (National Center for Missing and Exploited Children) and includes duplicates because CSEM is shared multiple times and often not deleted. Excluding duplicates, 22 million unique recordings remain of the 85 million reported.
75 percent of all NCMEC reports from 2021 came from Meta (FB, Instagram, Whatsapp). Facebook’s own internal analysis says that “more than 90 percent of [CSEM on Facebook in 2020] was identical or visually similar to previously reported content. And copies of just six videos were responsible for more than half of the child-exploitative content.” So the NCMEC’s much-cited numbers don’t really describe the extent of online recordings of sexual violence against children. Rather, they describe how often Facebook discovers copies of footage it already knows about. That, too, is relevant.
Not all unique recordings reported to NCMEC show violence against children. The 85 million depictions reported by NCMEC also include consensual sexting, for example. The number of depictions of abuse reported to NCMEC in 2021 was 1.4 million.
7% of NCMEC’s global SARs go to the European Union.
Moreover, even on Facebook, where chat control has long been used voluntarily, the numbers for the dissemination of abusive material continue to rise. Chat control is thus not a solution.
Source: netzpolitik.org/2022/ncmec-fig…
3. “64% increase in reports of confirmed child sexual abuse in 2021 compared to the previous year.”
That the voluntary chat control algorithms of large U.S. providers have reported more CSEM does not indicate how the amount of CSEM has evolved overall. The very configuration of the algorithms has a large impact on the number of SARs. Moreover, the increase shows that the circulation of CSEM cannot be controlled by means of chat control.
4. “Europe is the global hub for most of the material.”
7% of global NCMEC SARs go to the European Union. Incidentally, European law enforcement agencies such as Europol and BKA knowingly do not report abusive material to storage services for removal, so the amount of material stored here cannot decrease.
5. “A Europol-backed investigation based on a report from an online service provider led to the rescue of 146 children worldwide, with over 100 suspects identified across the EU.”
The report was made by a cloud storage provider, not a communications service provider. To screen cloud storage, it is not necessary to mandate the monitoring of everyone’s communications. If you want to catch the perpetrators of online crimes related to child abuse material, you should use so-called honeypots and other methods that do not require monitoring the communications of the entire population.
6. “Existing means of detecting relevant content will no longer be available when the current interim solution expires.”
Storage service providers (filehosters, clouds) and social media providers will be allowed to continue scanning after the ePrivacy exemption expires. For providers of communications services, the exemption regulation for voluntary chat scanning could be extended without requiring all providers to scan.
7. metaphors: Chat control is “like a spam filter” / “like a magnet looking for a needle in a haystack: the magnet doesn’t see the hay.” / “like a police dog sniffing out letters: it has no idea what’s inside.” The content of your communication will not be seen by anyone if there is no hit. “Detection for cybersecurity purposes is already taking place, such as the detection of links in WhatsApp” or spam filters.
Malware and spam filters do not disclose the content of private communications to third parties and do not result in innocent people being flagged. They do not lead to the deletion or long-term blocking of profiles in social media or online services.
8. “As far as the detection of new abusive material on the net is concerned, the hit rate is well over 90 %. … Some existing grooming detection technologies (such as Microsoft’s) have an “accuracy rate” of 88%, before human review.”
With the unmanageable number of messages, even a small error rate results in countless false positives that can far exceed the number of correct messages. Even with a 99% hit rate, this would mean that of the 100 billion messages sent daily via Whatsapp alone, 1 billion (i.e., 1,000,000,000) false positives would need to be verified. And that’s every day and only on a single platform. The “human review burden” on law enforcement would be immense, while the backlog and resource overload are already working against them.
Separately, an FOI request from former MEP Felix Reda exposed the fact that these claims about accuracy come from industry – from those who have a vested interest in these claims because they want to sell you detection technology (Thorn, Microsoft). They refuse to submit their technology to independent testing, and we should not take their claims at face value.
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Pietre preziose e gioielli: guida alla scelta per il regalo perfetto
Il mondo della gioielleria è tanto eclettico quanto variegato ed è chiaro che, quando si regala un oggetto prezioso ad una persona, si dimostra un affetto ed un interesse tale da giustificare una spesa non esattamente accessibile e, talvolta, anche particolarmente esosa. Regalare un gioiello, del resto, può essere qualcosa di particolarmente sentito e personale […]
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PODCAST. Gerusalemme, polizia israeliana circonda campo profughi di Shuafat dopo uccisione soldatessa
di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 10 ottobre 2022 – Sale la tensione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dopo l’uccisione tra venerdì e sabato notte di quattro adolescenti palestinesi da parte dell’esercito israeliano e di una soldatessa colpita da un palestinese del campo profughi di Shuafat.
Gli ultimi sviluppi da Michele Giorgio a Gerusalemme.
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ANALISI. Iran. In strada contro morali anacronistiche
di Assopace
Pagine Esteri, 10 ottobre 2022 – La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti* per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
La spontanea protesta contro morali anacronistiche
Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo. Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.
La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.
Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.
Le sfide
Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.
A morte il dittatore
Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).
Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.
La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?
La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.
Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.
In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari” (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati». Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.
Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.
Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.
Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.
Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.
Mahsa Amini
Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.
Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».
Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.
Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York. Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.
L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.
Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».
Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).
Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.
Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.
Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto. Pagine Esteri
*Giornalista, esperta di Iran
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 #PNRR, nuove scuole: concluso il primo grado del concorso di progettazione
🔸 ITS e Cyber Security, al via la Rete di coordinamento per lo sv…
Legami
Le decisioni arriveranno il 20-21 ottobre, data del Consiglio europeo. Ma la decisione più importante è già stata presa da mesi, fissando una unità politica europea che solo Orban prova a mettere in dubbio. Senza neanche lontanamente riuscirci.
L’unità sulla risposta alla criminale invasione russa è già un fatto, fissata nelle sanzioni, negli aiuti (anche militari) agli ucraini e nella decisione tedesca di considerare North Stream 2 morto prima di nascere. Ieri è stata ribadita e rafforzata. Ci si capisce nulla, se non si parte da questo presupposto. Da qui al 20 il problema non è trovare l’unità, ma il consolidarla con altri passi. Come diversi ne sono stati fatti, dal 24 febbraio, e se ne faranno. Ciascun passo, ciascuna riconferma dell’unità, crea legàmi.
L’Unione europea è un poderoso acquirente di gas. Fin qui, essendo economicamente conveniente (ricordiamolo, altrimenti si sembra scemi) si è preferito che ciascun Paese si regoli per conto proprio nell’acquistare, salvo sottostare a regole comuni che favoriscono il consumatore, nel vendere e distribuire.
Difatti il prezzo del gas scendeva. La pioggia di telefonate che ricevevamo, con offerte sempre più vantaggiose, non era dovuta alla generosità, ma alla sana cupidigia, di cui il consumatore si giovava. La situazione è cambiata ed è ora conveniente cambiare musica.
Delle cose sono state già fatte, anche se l’informazione caciarona non agevola nel diffonderle: si è già fissata una soglia al di sopra della quale si tagliano i profitti delle società energetiche; si è stabilito un prelievo di solidarietà; si marcia verso l’acquirente unico (come per i vaccini). Ciascuna di queste cose comporta legàmi.
Difatti taluni (l’Olanda) li considera eccessivi. Saranno più stretti con il tetto al prezzo del gas, foss’anche come banda d’oscillazione. Saranno strettissimi con un eventuale fondo comune. Chi lamenta ritardi, chi frigna per la poca Europa, si ricordi che quei legàmi generano i vincoli contro cui ieri faceva dissennate campagne.
I sovranisti italocentrici (come i francocentrici, germanocentrici e via centrando) e i falsi europeisti perdenti hanno in comune la convinzione che quei legàmi siano una camicia di forza e le istituzioni europee una specie di istitutrice severa (meglio se tedesca, nella loro turpe fantasia). Balle. Non ci sono dictat, moniti, gelo. C’è il vincolo della realtà: un fondo comune ha delle regole, che puoi non accettare, ma che poi devi rispettare.
I veri difensori dell’interesse nazionale sono quanti capiscono che l’Ue siamo noi e non esiste un “noi” estraneo all’Ue. I pericolosi danneggiatori dell’interesse nazionale sono quanti non hanno il coraggio di spiegare cosa è necessario fare, quindi preferiscono dire: “lo chiede l’Europa”.
Spostano l’accento e al posto dei legàmi condivisi preferiscono chiedere: lègami, che altrimenti scivolo. Sostituiscono i legacci alla convenienza, sol perché raccontarono che si sarebbero battuti contro quello che favorisce il nostro mondo produttivo e la crescita economica. Si fanno legare per non dovere onorare le castronerie piagnucolose e vittimiste con cui lisciarono il pelo ai nazionalismi e all’assistenzialismo amante e produttore di povertà.
Per questo, a destra e sinistra, si sente sempre il bisogno di dire: l’Europa è divisa. E si osa ripeterlo mentre viviamo la più clamorosa dimostrazione di unità politica, di fronte a una guerra. Mai successo prima. Certo che se ne soffre e certo che il dolore non è uniforme, neanche all’interno di un solo Paese, quindi i bisogni sono diversi. Questo è il lavoro necessario, da Praga al 20.
Quel castello è noto per la “defenestrazione”. 1618, una questione religiosa (e non solo): presero i rappresentanti dell’imperatore e li frullarono dalla finestra. Ancora oggi c’è una storiella popolare: non morirono, perché sotto c’era una montagna di sterco. L’Unità europea, in quel castello, defenestri chi riporta la guerra nella nostra Europa e il Mondo alle porte dell’inferno.
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Meloni e il delicato risiko delle nomine
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, entrambi usciti malconci dalle urne, ogni giorno alzano il prezzo e l’asticella. Presidenza del Senato a La Russa, alla Camera Riccardo Molinari. Per il governo, cinque ministri a Forza Italia e altrettanti alla Lega. Solo che non tutti i ministeri sono uguali
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Meloni e la stupidità di due europeiste (sulla carta)
Ursula von der Leyen e Laurence Boone dell'Europa non hanno capito niente, e hanno affermato due inesattezze e stupidità. Con questi due atti sconsiderati, il fosso sia tra l’UE e i partiti italiani e francesi, sia tra la Francia e l’Italia, si allarga a dismisura, e lascia spazio alle fantasie anti-europeiste, che sempre più marcatamente caratterizzano questa fase della politica italiana, della signora Giorgia Meloni
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Gas e petrolio: in Africa la caccia al tesoro delle multinazionali
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 5 ottobre 2022 – La speculazione e le turbolenze sui mercati derivanti il conflitto in Ucraina hanno provocato negli ultimi mesi un’impennata dei prezzi dei combustibili fossili scatenando una vera e propria caccia al tesoro anche in alcune regioni del pianeta tradizionalmente poco battute.
Potenze grandi e piccole e compagnie energetiche sono impegnate in una competizione sempre più sfrenata per accaparrarsi soprattutto gas e petrolio ma anche il carbone, il cui utilizzo sembrava esser stato notevolmente ridotto dagli accordi multinazionali sulla salvaguardia del clima.
L’aumento dei prezzi riapre la caccia ai combustibili fossili
In particolare, negli ultimi mesi la competizione per lo sfruttamento delle riserve africane si è fatta molto serrata. Storicamente sono stati soprattutto i paesi del nord Africa a sviluppare l’industria estrattiva, diventando tra i principali fornitori dell’Europa e non solo, mentre le regioni centrali e meridionali del continente erano ritenute poco interessanti. Ma la recente scoperta di nuovi ingenti giacimenti e l’incentivo allo sfruttamento derivato dalle sanzioni europee alla Russia (e dalla conseguente chiusura dei rubinetti del gas da parte di Mosca) oltre che dall’aumento dei prezzi, hanno spinto molti paesi europei e le multinazionali dell’energia a dedicarsi all’Africa centrale e meridionale.
L’aumento dei prezzi – nonché dei profitti – e la necessità per l’Europa di sostituire i flussi che fino a pochi mesi fa giungevano da Mosca, rendono infatti interessanti progetti di estrazione e di trasporto che erano stati temporaneamente o definitivamente abbandonati per i costi eccessivi, l’alto impatto ambientale e sociale o per ragioni dovute all’instabilità delle aree interessate.
Secondo i calcoli di Reuters i giganti energetici stanno attualmente gestendo o pianificando in Africa progetti per complessivi 100 miliardi di dollari.
Già nel 2019, il continente africano ospitava circa il 9% delle riserve globali di gas e ne produceva il 6% di quello consumato nel pianeta. Tre paesi – Algeria, Egitto e Nigeria – da soli coprivano ben l’85% della produzione totale, seguiti da Libia e Mozambico. Ma nel nuovo contesto molti altri paesi stanno iniziando a sfruttare i propri giacimenti.
Gas e petrolio: la sorpresa Africa
Uno studio di Rystad Energy (società di ricerca con sede a Oslo) calcola che entro il 2030 la produzione di gas dei paesi dell’Africa subsahariana raddoppierà, trainata dai progetti di estrazione nelle acque profonde al largo delle coste. Secondo la stima, in pochi anni si dovrebbe passare da 1,3 milioni di barili al giorno del 2021 a 2,7 milioni alla fine di questo decennio. Già nei prossimi anni, l’Africa dovrebbe essere in grado di sostituire circa il 20% del gas esportato fino a qualche mese fa in Europa dalla Russia.
Tra i paesi più interessanti per le major c’è sicuramente il Mozambico; a breve dovrebbero iniziare a funzionare gli impianti di estrazione del grande giacimento di gas naturale offshore di Coral Sul, a lungo ritardato dalle violente scorribande di gruppi jihadisti. Nello sfruttamento delle risorse dell’ex colonia portoghese sono impegnate, tra le altre, l’italiana Eni, la statunitense Anadarko e la francese Total.
La Tanzania è più indietro, invece, nello sfruttamento delle sue riserve di gas naturale, che le stime finora quantificano però in ben 57 miliardi di metri cubi. Il paese ha firmato un accordo sul gas con la società norvegese Equinor e con la britannica Shell.
In Zimbabwe una società australiana, la Invictus Energy Ltd sta conducendo le esplorazioni nel nord del paese. Il colosso canadese ReconAfrica, da parte sua, ha già iniziato le perforazioni in Namibia e Botswana, in particolare nella Kavango Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), la più grande area protetta transfrontaliera del mondo, suscitando ovviamente le proteste di diverse associazioni ambientaliste.
Come ricorda Nigrizia, a settembre alcuni ricorsi sono riusciti a bloccare i sondaggi che la Shell stava realizzando nella provincia del Capo orientale in Sudafrica, un’altra zona protetta.
Le compagnie petrolifere sono ottimiste sulle attività di prospezione avviate in Kenya, Etiopia, Somalia e Madagascar, mentre aumenta la produzione in Senegal e in Mauritania.
L’unico paese africano che negli ultimi anni ha subito un consistente calo della produzione di gas e petrolio è l’Angola, che pure possiede riserve di 380 miliardi di metri cubi di gas.
Al contrario, vanno a gonfie vele le esportazioni della Nigeria, che possiede le più consistenti riserve africane e vende già il 14% del GNL che i paesi dell’Unione Europea importano. Ma Lagos ha le potenzialità per raddoppiare le forniture di gas e aumentare quelle di petrolio, di cui è il più grande produttore di tutto il continente. Nel tentativo di sfruttare a pieno le sue potenzialità, la Nigeria tenta di convincere gli investitori stranieri a finanziare la realizzazione di un gasdotto trans-sahariano in grado di portare il suo gas in Algeria e da qui all’Europa. Il progetto del Nigal è stato lanciato nel 2009 ma alcune dispute territoriali – come quella tra il Niger e l’Algeria – la mancanza di sicurezza in alcune aree e gli alti costi hanno finora ritardato la realizzazione della lunghissima pipeline su un tracciato di più di 4100 km.
La crisi attuale ha rilanciato il progetto del Trans Saharan Gas Pipeline, che però deve scontare la concorrenza di un altro tracciato – l’NMGP – che punta ad estendere l’esistente gasdotto dell’Africa Occidentale fino alla Spagna passando per i paesi costieri. Intanto, grazie perlopiù ad alcuni prestiti concessi dalle banche cinesi, il governo nigeriano è riuscito ad avviare la costruzione dell’Ajaokuta–Kaduna–Kano (AKK), un gasdotto lungo 614 km gestito dalla Nigerian National Petroleum Corporation in grado di trasferire il gas naturale dalle regioni meridionali e quelle centrali del paese.
Sul fronte del petrolio, invece, molto contestato è l’EACOP (East African Crude Oil Pipeline), l’oleodotto lungo quasi 1500 km che dall’Uganda dovrebbe arrivare sulle coste della Tanzania.
Addio lotta al cambiamento climatico
È evidente che gli interessi economici e geopolitici in ballo sono enormi e che difficilmente i paesi europei – e le diverse compagnie energetiche – rispetteranno gli impegni a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili per l’accaparramento dei quali si stanno spendendo molte decine di miliardi di euro.
Si tratta di progetti per la realizzazione di infrastrutture che dovrebbero entrare in funzione tra qualche anno e rimanere in attività un certo lasso di tempo affinché si generino i profitti necessari a giustificare i relativi investimenti.
Alla luce delle scelte di questi mesi dei governi europei la prospettiva dell’abbandono dei combustibili fossili – dai quali il nostro continente è ancora fortemente dipendente – a favore delle fonti rinnovabili sembra decisamente allontanarsi.
Se con le linee guida contenute nel piano REPowerEU la Commissione Europea ha identificato nello sviluppo delle fonti rinnovabili e nell’aumento dell’efficienza energetica la strada per sostituire il gas – la cui domanda l’UE dovrebbe teoricamente ridurre nel 2030 del 40% rispetto al 2021 – la Strategia Energetica Internazionale dell’UE sostiene la necessità di concentrare proprio sull’Africa la ricerca di nuove forniture di gas.
Cop27: l’Africa rivendica lo sfruttamento delle proprie risorse
I governi africani stanno ovviamente cercando di non lasciarsi sfuggire l’occasione creata dal nuovo contesto internazionale. Le royalties ottenute dalla vendita delle proprie risorse energetiche potrebbero riempire le casse – spesso vuote – di molti paesi, consentendogli di lanciare ambiziosi e urgenti programmi di modernizzazione e sviluppo economico.
Un’esigenza ancora più impellente se si considera che il boom demografico e il conseguente aumento dei consumi porteranno il continente africano ad aver bisogno almeno, entro il 2040, del 30% in più di energia a fronte di un aumento del 10% del fabbisogno energetico mondiale.
Non stupisce quindi che, secondo il Guardian i 55 paesi riuniti nell’Unione Africana avrebbero deciso di presentarsi con una linea politica comune al prossimo COP27 in Egitto. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici prevista a Sharm el-Sheikh dal 6 all’8 novembre sarà l’occasione, afferma il documento comune, di difendere il diritto del continente africano a poter sfruttare le proprie risorse energetiche. «Nel breve e medio termine, i combustibili fossili, in particolare il gas naturale, dovranno svolgere un ruolo cruciale nell’espansione dell’accesso all’energia moderna, oltre ad accelerare l’adozione delle energie rinnovabili» recita una dei passaggi centrali del testo.
Una richiesta più che legittima, considerando che attualmente 600 milioni di africani non hanno ancora accesso all’elettricità e che il continente africano genera solo il 5% delle emissioni globali di gas serra.
Cambiamento climatico: il doppio standard dell’Ue
Il problema è che l’UE e le istituzioni politiche ed economiche internazionali applicano un doppio standard rispetto alle questioni climatiche. Mentre Bruxelles ha reagito all’emergenza aperta dalla crisi ucraina (in buona parte creata dalla propria scelta di applicare sanzioni a Mosca e di azzerare i flussi di gas e petrolio dalla Russia) decretando una vera e propria caccia ad altri fornitori di combustibili fossili fino a resuscitare lo sfruttamento del carbone, pretenderebbe dall’Africa un rispetto integrale degli impegni contro il surriscaldamento globale.
Così mentre i progetti che permetterebbero l’accesso all’energia elettrica di decine di milioni di africani faticano enormemente a trovare finanziamenti da parte della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale perché inquinanti – ma il sostegno all’implementazione in Africa delle rinnovabili non ha sorte migliore – le potenze occidentali non lesinano risorse quando si tratta di assicurare i propri rifornimenti di gas e petrolio.
Vijaya Ramachandran, direttrice per l’energia e lo sviluppo del centro studi californiano Breakthrough institute, parla apertamente di“colonialismo verde” e spiega che i paesi ricchi sfruttano le risorse di quelli più poveri, negandogli però l’accesso alle stesse risorse in nome del contrasto alla crisi climatica.
Proteste contro la Shell in Sudafrica
Combustibili fossili: opportunità o condanna?
Comunque, la stragrande maggioranza dei combustibili fossili estratti sul suolo e nei mari africani, quindi, prende la via dell’esportazione, e contribuisce in minima parte allo sviluppo dei paesi nei quali essi vengono prodotti.
Inoltre, le popolazioni dei paesi esportatori beneficiano assai poco delle royalties; i proventi vengono spesso dilapidati da meccanismi clientelari e di corruzione incentivati dalle stesse multinazionali straniere.
Per non parlare dell’elevato impatto ambientale e sociale che gli impianti di estrazione e di sfruttamento dei combustibili fossili provocano nei territori interessati. Le catastrofiche conseguenze sull’ecosistema e sulle comunità umane in Mozambicoe in Nigeria, i paesi africani con più lunga tradizione estrattiva, la dicono lunga su quale tipo di “sviluppo” queste attività implementino nel continente africano, il più colpito finora dalle conseguenze del cambiamento climatico. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
LINK E APPROFONDIMENTI:
agi.it/economia/news/2022-04-2…
bloomberg.com/news/features/20…
theguardian.com/world/2022/aug…
nigrizia.it/notizia/energia-ap…
eccoclimate.org/wp-content/upl…
iea.org/news/global-energy-cri…
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Sentenza
in reply to Pëtr Arkad'evič Stolypin • • •informapirata ⁂ reshared this.
informapirata ⁂
in reply to Sentenza • • •la Thatcher però è comunque meglio della Le Pen per almeno due motivi:
- è morta
- nessuno in Europa occidentale può essere peggio della Le Pen
@petrstolypin
Sentenza
in reply to informapirata ⁂ • • •informapirata ⁂
in reply to Sentenza • • •ma su questo sono d'accordo: l'antinomia tra Thatcher e Le Pen è sbagliata, perché sono due visioni diversissime ovviamente ma contigue
@petrstolypin