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Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”


« A chi non darebbe fastidio vedere l’arbitro – che, sia chiaro, ha condotto benissimo la gara – la sera dopo la partita, a cena, festeggiare la vittoria di una delle due squadre che poco prima aveva arbitrato?». È da questo interrogativo, apertamente pro

«A chi non darebbe fastidio vedere l’arbitro – che, sia chiaro, ha condotto benissimo la gara – la sera dopo la partita, a cena, festeggiare la vittoria di una delle due squadre che poco prima aveva arbitrato?».

È da questo interrogativo, apertamente provocatorio, che muovono le brillanti riflessioni di Giuseppe Benedetto, consegnate al saggio “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”, edito da Rubbettino nel 2022, con la prefazione di Carlo Nordio.

Un volume agile, che si legge tutto d’un fiato, con cui l’Autore si incarica di sviscerare uno dei temi più controversi della giustizia penale, destinato ad occupare “instancabilmente” il dibattito scientifico e politico: la (comune) collocazione ordinamentale dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero.

A tal fine, lo scritto ripercorre le tappe, i dibattiti e gli scontri che hanno attraversato la storia del nostro processo penale: dalla spinta garantista sottesa alla promulgazione del nuovo codice di procedura penale, alla stagione – «reazionaria» – avviata dalla Corte costituzionale nel giugno del 1992, fino alla presa di posizione legislativa, volta a ribadire l’adesione a quell’ideale accusatorio, che, oggi, a più di vent’anni dalla riforma dell’art. 111 Cost., appare affievolito.

Un percorso culminato in un disegno rimasto sostanzialmente incompiuto, a cagione dell’assenza di un serio adeguamento dell’organizzazione del pubblico ministero al mutato rito. A stagliarsi con chiarezza sullo sfondo della ricostruzione storica sono, infatti, le ambiguità̀ e le aporie – tutte insolute – del nostro assetto processuale, in cui proprio la mancanza di un deciso ripensamento dei temi dell’ordinamento giudiziario ha finito per ostacolare la effettiva rimozione dell’ibridismo, tipico della esperienza inquisitoria, tra la figura del giudice terzo ed imparziale e quella dell’inquirente.

Con un duplice effetto, del quale le pagine di Giuseppe Benedetto, restituiscono una nitida fotografia. Anzitutto, una “giurisdizionalizzazione” silente del pubblico ministero, il quale viene comunemente (mal)inteso alla stregua di organo rappresentativo di una parte imparziale all’interno della dialettica processuale. In secondo luogo, una proclamazione meramente à la carte della terzietà del giudice, la cui collocazione ordinamentale, vicina a quella del pubblico ministero, ne “contamina” il ruolo: l’equidistanza, formalmente sancita nelle norme del codice, è tradita dalla prossimità̀ delle funzioni, dovuta alla presenza di un unico organo di governo autonomo.

Due conseguenze nefaste della contiguità̀ tra giurisdizione e pubblica accusa, che rendono subalterno il cittadino-imputato, alterando, di fatto, la struttura triadica del processo.

Come abbiamo già avuto modo di osservare in un nostro precedente scritto[1], l’idea del pubblico ministero-organo di giustizia conduce, infatti, alla creazione di una vera e propria presunzione di infallibilità̀ para- giurisdizionale di tale organo. Una presunzione a sua volta rinfocolata dalla retorica di un principio di obbligatorietà̀ dell’azione penale troppo spesso orientato verso la legittimazione di metodi procedurali a vocazione autoritaria.

Si pensi, nella prospettiva da ultimo indicata, al costante richiamo, nella prassi, al canone di obbligatorietà̀ per sponsorizzare, a vari livelli, una visione del processo caratterizzata dalla egemonia del pubblico ministero e da un ideale di ricerca della verità̀ dai connotati tipicamente inquisitori. Basti, al proposito, richiamare il rapporto tracciato dalla giurisprudenza di legittimità̀ e costituzionale tra principio di obbligatorietà̀ e poteri probatori del giudice dibattimentale anche in funzione di supplenza delle omissioni del pubblico ministero.

Un’ipertrofica estensione concettuale ed operativa del principio cristallizzato nell’art. 112 Cost. che, invece di potenziarne la portata, lo ha svuotato della propria forza concettuale, strettamente connessa alle dinamiche dell’azione.

In tal senso va letto anche l’uso anomalo del canone della completezza delle indagini, presupposto e corollario del principio di obbligatorietà̀. Anziché́ stimolare una attenta e seria riflessione sulla anatomia dell’errore e del pregiudizio investigativo, e sulle sacche di discrezionalità̀ inevitabilmente connesse alle opzioni selettive sottese ai profili organizzativi del lavoro del pubblico ministero, l’imperativo della completezza investigativa ha finito per trasformarsi nel presupposto logico da cui inferire la pretesa giurisdizionalizzazione dell’organo dell’accusa.

Ma la simbiosi “pubblico ministero-organo di giustizia” è destinata a cedere il passo all’ovvio rilievo che un soggetto deputato a svolgere funzioni d’accusa, qualunque ne sia la natura, persegue comunque un interesse di parte.

Anzi. Sul punto, le pagine di Non diamoci del tu ben evidenziano un dato fondamentale, all’apparenza controintuitivo: «più̀ il pubblico ministero è parte e più̀ il cittadino è garantito», perché «il giudice è veramente imparziale solo se l’accusatore è inequivocabilmente parte».

La struttura triadica del processo, quale conditio per la realizzazione del rito adversary, è, tuttavia, incrinata dalla commistione e reciproca contaminazione delle funzioni e delle carriere al di fuori della scena processuale. È la mancata separazione di queste ultime la responsabile delle principali storture che emergono quotidianamente dalla pratica giudiziaria e di cui il volume dà lucidamente conto: la espansione del potere inquisitorio delle procure, con la costante ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri e la estrema mediatizzazione del processo penale; nonché la conseguente assenza di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all’opinione pubblica.

Scrive, al proposito, icasticamente l’Autore: «l’avviso di garanzia è diventato sentenza non perché́ vi siano dei cattivi strateghi dell’informazione, ma perché́ il cittadino non addetto ai lavori ha difficoltà a distinguere i ruoli, pensa che i magistrati siano tutti uguali e che, dunque, se la colpevolezza è indicata dal pubblico ministero o dal giudice tutto sommato non cambia nulla. È necessaria una svolta culturale, che non giungerà̀ da sola, ma attraverso riforme che distinguano gli organi giudicanti da quelli requirenti, che rendano palese anche a un giovane delle scuole medie la differenza profondissima tra i ruoli. In questa nuova dimensione, in cui è limpido il carattere di parzialità̀ dell’ufficio di Procura, la giurisdizione non potrà̀ che essere centrale, perché́ ogni piccolo passo verso una delle posizioni in campo la comprometterebbe alla radice».

Dalla malattia, dunque, al rimedio. Ma come superare definitivamente ogni sorta di ibridismo giuridico tra le due figure, affinché la giurisdizione recuperi centralità e credibilità? È necessario risalire al peccato originale del fallimento del codice accusatorio, che, secondo la ricostruzione privilegiata nel volume, si consuma all’interno del CSM, dove pubblici ministeri e giudici decidono assieme delle sorti delle proprie carriere, cosicché «il PM di una corrente è in grado di influenzare la nomina del presidente di un Tribunale», con buona pace dei principi sanciti dalla Costituzione e della legge, che diventano, di fatto, «un nobile auspicio piuttosto che un baluardo per i diritti fondamentali del cittadino».

Di qui, la proposta contenuta nel citato disegno di legge, alla cui illustrazione è dedicata la seconda parte del libro. Si tratta, nello specifico, di un progetto di riforma che si muove lungo tre direttrici: il riequilibrio dei rapporti tra imputato e pubblico ministero; la trasparenza dei processi decisionali interni all’ordine giudiziario; la razionalizzazione del carico pendente sugli uffici di Procura.

In questa triplice prospettiva viene prefigurata una revisione delle disposizioni costituzionali dedicate alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, diretta, anzitutto, alla costituzione di due distinti Consigli Superiori, della Magistratura giudicante e della Magistratura requirente, destinati ad occuparsi separatamente di carriere, sanzioni disciplinari e trasferimenti.

Ciò permetterebbe all’organo giudicante di acquisire nuova centralità̀, affrancandolo dalle logiche odierne, in cui il Consiglio Superiore della Magistratura, dominato dal sistema correntizio, appare ostaggio della cultura dell’accusa, che è destinata a prevaricare le ragioni della giurisdizione, a cagione dell’evidente maggior peso mediatico delle Procure.

Del resto, come osserva Carlo Nordio nella Prefazione, «anche prescindendo dagli intrallazzi correntizi e dalle baratterie di cariche emerse dai recenti scandali, la ragione si rifiuta di ammettere che il pubblico accusatore possa promuovere o bocciare un giudice davanti al quale, un attimo prima, ha perorato una tesi che magari gli è stata respinta. Perché́ se decisioni così rilevanti continuano a essere prese congiuntamente, allora non stupisce che poi nel processo emergano rapporti di anomala collaborazione».

Così, l‘istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura si prefigge di garantire più efficacemente l’indipendenza istituzionale del giudice.

Organi di autogoverno dei quali, inoltre, si propone – opportunamente – di mutare la composizione, portando la componente laica da 1/3 a 1/2, senza però incidere sulla maggioranza, che rimarrebbe in capo ai membri togati grazie alla presenza di diritto del Procuratore Generale della Cassazione, nel Consiglio requirente, e del Primo Presidente della Cassazione, nel Consiglio giudicante.

Ciò consentirebbe, nelle intenzioni dei proponenti, di revisionare il funzionamento del Consiglio Superiore, allo scopo di restituirgli, insieme a un serio sistema di valutazione professionale, quell’aurea di rispettabilità̀ imprescindibile per l’amministrazione trasparente e armonica della giustizia. I membri nominati dal Parlamento, esperti in materie giuridiche, potrebbero, infatti, contribuire in modo indipendente a esprimere un giudizio sulla professionalità̀ del singolo magistrato.

Un ripristino di meritocrazia che appare cruciale alla luce dei recenti fatti di cronaca, nonché del nuovo ruolo assunto dalla giurisdizione.

Sotto quest’ultimo profilo, le riflessioni di Benedetto si lasciano particolarmente apprezzare. L’Autore sottolinea il trend degli ultimi decenni verso un radicale cambiamento del ruolo riservato alla giurisdizione, non più̀ mera esecutrice delle norme, ma soggetto che partecipa all’evoluzione del diritto. Le lacune della regolamentazione normativa, l’oscurità̀ della legge e l’immobilismo del Parlamento hanno, in effetti, finito per affidare un compito inedito al giudice. Ne discende l’esigenza, dibattuta in tutti i Paesi occidentali, di ripensare i rapporti col Parlamento, al fine di garantire una maggiore legittimazione democratica del potere giudiziario.

Ebbene, in quest’ottica si colloca l’incremento del numero dei membri laici, professori universitari e avvocati da almeno quindici anni nominati dal Parlamento in seduta comune, che potrà̀ indirettamente accrescere la legittimazione dell’ordine giudiziario, così da renderlo più̀ forte in futuro per l’assunzione di decisioni orientate al riconoscimento di nuovi diritti.

Infine, l’ultimo punto della proposta di riforma esaminata è diretto ad integrare l’art. 112 Cost. nei seguenti termini: «Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge». L’integrazione mira ad affidare al Parlamento il compito di stabilire criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, allo scopo precipuo di razionalizzare, in maniera trasparente, il carico di lavoro dei pubblici ministeri. Il che appare in linea con l’auspicio, da tempo formulato in sede scientifica, di legittimare, disciplinandone limiti e contenuti, quella discrezionalità̀ che anche oggi, nei fatti, i pubblici ministeri esercitano a causa del numero elevato di procedimenti pendenti presso gli uffici di Procura.

Si tratta, nel complesso, di un disegno riformatore equilibrato, nella misura in cui aspira a risolvere le principali contraddizioni della nostra giustizia penale, senza incorrere nella principale obiezione tradizionalmente sollevata dall’opzione favorevole alla separazione delle carriere: vale a dire quella di consentire l’esercizio di un controllo politico a discapito dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.

Non diamoci del tu ha il pregio di illustrare in maniera approfondita tale progetto, attraverso una riflessione “laica” e non prevenuta intorno ad un tema spesso ostaggio di un peculiare ostracismo ideologico e di un dibattito fondato su asserti di deciso impulso conservativo difficilmente giustificabili sul piano tecnico-giuridico.

Un approccio da cui l’Autore rifugge apertamente, prendendosi carico di stigmatizzare anche le altre obiezioni che surrettiziamente vengono mosse alle proposte di separazione delle carriere, attraverso l’analisi della disciplina della collocazione ordinamentale dei magistrati nelle più importanti democrazie occidentali.

La prospettiva comparata consente, infatti, di sgretolare alcuni “falsi miti” costruiti intorno al tema oggetto del volume, come l’idea secondo cui le carriere sarebbero divise solo nei Paesi di Common Law, o la preoccupazione circa il rischio di dare vita, tramite la costituzione di un ordine autonomo e distinto dei Pubblici Ministeri, ad una corporazione di “super-poliziotti” dai poteri illimitati.

Nell’ultima parte del libro risiedono, così, pagine preziose. Guardare all’esperienza anglosassone, tedesca, francese e portoghese significa rendersi conto di come la pubblica accusa italiana goda, in realtà, di uno status del tutto eccezionale, che lo rende, probabilmente l’accusatore più̀ potente al mondo, senza tradursi in una sua maggiore capacità investigativa e “repressiva”.

Il che testimonia l’urgenza di affrancare il dibattito italiano da atteggiamenti intrisi di stentoree affermazioni di principio, ma di sostanziale chiusura verso ogni forma di rinnovamento concettuale e culturale.

A questa impellente esigenza risponde il saggio Non diamoci del tu. A beneficio del lettore, Giuseppe Benedetto svolge al meglio tale compito, con una analisi lucida e profonda, arricchita dalla sensibilità che evidentemente deriva dal quotidiano contatto con la pratica del processo penale.

In conclusione: se nella premessa l’Autore esordisce confidando che “Non diamoci del tu” «è il libro che avev[a] in mente di scrivere da tempo», la riflessione finale del lettore è che “Non diamoci del tu” è il libro che avrebbe voluto leggere da tempo.

[1] R. Del Coco, La maschera e il volto della consulenza tecnica d’accusa, in Proc. pen. giust., 2021, p. 669 ss.

L'articolo Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



La magistratura di oggi e quella della quale l’Italia avrebbe bisogno, nel primo incontro della Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi – certastampa.it


Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, de

Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, del nostro Paese racconta di rapporti tra magistrati che vanno ben oltre quelli che la legge considera leciti. E’ questa, la deriva malata di un “sistema” (come efficacemente descritto nel libro dell’ ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Palamara) che trova il suo spunto “peccato originale” nella mancata separazione delle carriere.

E’ stato questo il tema del primo evento della sezione abruzzese della Scuola di liberalismo della Fondazione Einaudi, che prepara il campo al primo vero e proprio “anno accademico” del 2023. Ospite dell’incontro, il Presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto, che ha voluto presentare a Teramo, in “prima” assoluta, il suo libro “Non diamoci del Tu: La separazione delle carriere”, che ospita anche una interessante prefazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio e uno scritto di Leonardo Sciascia, su quella che dovrebbe essere la sofferenza del magistrato chiamato al giudizio.

All’incontro, introdotto dal presidente della Fondazione Einaudi in Abruzzo, Alfredo Grotta, che ha visto la sala dell’Hotel Abruzzi affollata da un pubblico interessato, hanno preso parte l’ex senatore Paolo Tancredi, l’ex vicepresidente del Consiglio Regionale Paolo Gatti e Andrea Davola, ricercatore della Fondazione Einaudi e autore della postfazione. Moderatrice del dibattito, la docente di Diritto Processuale Penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo, Rosita Del Coco.

Negli interventi dei relatori, che hanno anche voluto portare testimonianze personali, sono stati analizzati tutti gli aspetti negativi della mancata separazione delle carriere, cominciando dal dettato del Codice Penale – nei fatti quasi utopia – che impone al pubblico ministero di cercare anche le prove a discolpa dell’imputato. Nei fatti, non succede, e poiché la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore, non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni, la Fondazione invoca una netta divisione dei ruoli, delle funzioni e delle carriere.

Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all’altra, ma che la stessa Fondazione Einaudi considera l’inizio di un non più rinviabile percorso di vera e più profonda riforma.

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La COP27 ha creato opportunità per guadagni geopolitici?


Washington dovrebbe vedere il risorto dialogo sul clima con la Cina come una vittoria bilaterale per riparare la loro relazione e il sistema internazionale

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Trasporto turistico in Campania: la risposta può venire dal cielo!


Quanto raccontato in una saletta appartata dello scalo aereo di Capodichino di Napoli sembrava una scena di fantascienza: aerei che arrivano e partono da grandi aeroporti, collegamenti con macchine silenziose simili a taxi che si alzano in cielo per portare i passeggeri nelle mete più ambite. Via traffico, via rumore nelle strade affollate di Napoli! […]

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A certificare la brusca frenata dell’economia globale sono arrivate anche le previsioni aggiornate dell’OCSE, che nell’Economic Outlook di novembre indica una crescita del Pil in ribasso al 2,2% nel 2023 e sempre più trainata dall’Asia (come dimostra…


USA: la maggioranza vuole che la cannabis per uso medico diventi legale


I risultati di un recente sondaggio hanno rivelato che la grande maggioranza degli americani ritiene che la cannabis dovrebbe essere legale per uso medico. E c’è un forte sostegno anche per l’uso ricreativo. Un sondaggio del Pew Research Center indica che il 59% degli americani ritiene che la marijuana dovrebbe essere legale per gli adulti […]

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Francesco Rocchetti, Segretario Generale ISPI, e la giornalista Silvia Boccardi parlano con Federico Donelli, ricercatore di Relazioni Internazionali all’Università di Trieste, dei bombardamenti turchi in corso in Iraq e Siria e della relazione compl…


PERÙ. Le destre fanno pressione, Castillo in difficoltà cede sulle politiche


Numerosi i tentativi di destituire Castillo e di piegarlo al sistema neoliberista. I media pro-golpisti e i settori conservatori della società frenano il cambiamento L'articolo PERÙ. Le destre fanno pressione, Castillo in difficoltà cede sulle politiche

di Davide Matrone – Peru: il governo di Pedro Castillo in difficoltà contro le pressioni delle destre.

Pagine Esteri, 25 novembre 2022 – Pedro Castillo lo sapeva bene che non avrebbe avuto vita facile, dopo aver vinto le elezioni lo scorso mese di giugno del 2021. In America Latina se vince un governo di centro-sinistra, di sinistra o che vuole realizzare riforme progressiste, non ha vita facile. I partiti conservatori, della destra moderata e recalcitrante son sempre dietro l’angolo a mettere i bastoni tra le ruote. Considerando inoltre, che l’America Latina continua ad essere il cortile di casa degli Stati Uniti, allora non ci vuole molto per capire quali sono le politiche economiche e sociali che secondo le destre bisogna mettere in campo. Da queste parti, il modello da applicare è sempre uno: Il Neoliberismo.

È difficile uscirne. Negli ultimi mesi, due paesi latinoamericani che hanno vinto le elezioni con una proposta politica progressista non se la passano molto bene. Mi sto riferendo a Bolivia e Perù. Quest’ultimo è sotto pressione da tempo. L’intenzione delle forze politiche di destra – maggioranza nel Congresso – è quella di destituire il Presidente Castillo e stanno facendo di tutto per raggiungere l’obiettivo. Per saperne di più ho intervistato il politologo peruviano Andy Phillips a cui ho rivolto le seguenti domande.

Qual è la situazione politica oggi in Perù?

Per capire la situazione odierna del Perù bisogna ritornare alle scorse elezioni. I risultati elettoriali dell’anno passato, riflettono in buona sostanza due fenomeni esistenti nel tessuto sociale peruviano. Al primo turno non ci fu nessun candidato che ottenne più del 20% dei voti ed inoltre si ebbe un calo importante nella partecipazione al voto. Questi elementi ci parlano di due fenomeni chiari: a) la frammentazione alta nella società peruviana, b) un alto livello di sfiducia nella politica e nei politici. Inoltre, secondo i dati di Latinobarometro la Democrazia non è considerata la miglior forma di governo. Nel secondo turno, poi, si è tenuto un processo di polarizzazione, simbolico più che di contenuti politici in quanto le proposte elettorali non erano molto distanti. Tutte si inquadravano dentro del sistema liberale e capitalista. Oggi c’è un alto livello di polarizzazione nel settore politico che si evidenzia nel Congresso dove abbiamo una maggioranza di destra vicina al Fujimorismo e ai poteri costituiti di sempre del paese e dall’altro lato un governo egemonizzato da lider politici provenienti dai settori popolari e che non appartengono alle lobby storiche del paese. La società è stanca, ha vissuto negli ultimi anni una serie di crisi che sono aumentate con la pandemia creando ulteriori distanze sociali ed economiche. Tuttavia, un elemento positivo che evidenzio di questa fase attuale è il piano di vaccinazione nazionale con un 80% della popolazione già vaccinata. Inoltre, gli indici di disoccupazione si stanno riducendo poco a poco. Ma i conflitti sociali aumentano e secondo quanto dichiara la Defensoria del Pueblo, in Perù esistono oltre 200 conflitti sociali attivi tra i territori e le multinazionali. Questo dà l’idea di un paese con enormi contraddizioni ancora aperte, che continua ad essere tra i paesi più diseguali del continente. I conflitti in atto si registrano in particolare nella gestione delle risorse comuni come: petrolio, minerali, acqua, terra, fiumi, mari, lagune. Le multinazionali e le organizzazioni criminali oltraggiano e sfruttano indiscriminatamente l’ambiente e si scontrano con le popolazioni locali , le comunità indigene e i settori popolari.

Quali sono gli effetti socio-politici delle ultime proteste in Perù?

La protesta più simbolica avvenuta in Perù è quella del 14 novembre 2020. È la più rappresentativa degli ultimi anni, quando un milione di cittadini di tutto il Perù manifestarono l’insoddisfazione per la classe politica in generale, per il Fujimorismo e per il neoliberalismo. In quell’occasione ebbero un ruolo fondamentale le nuove generazioni. La grande manifestazione del 2020 aveva una richiesta molto importante e solida: una Nuova Costituzione. Una rivendicazione che veniva specialmente dai settori progressisti del paese.

Per quanto riguarda le proteste convocate dai settori della destra di sette e otto mesi fa, stiamo parlando di proteste sostenute periodicamente contro il governo con l’intenzione di destituire Pedro Castillo. Tuttavia, queste manifestazioni non portano in piazza una maggioranza sociale. Inoltre, sappiamo che una buona parte dei partecipanti sono stati pagati. Il clientelismo politico della destra porta in piazza il 70% – 80% di manifestanti in questo modo. Poi c’è un 20-30 % di autoconvocati che appartengono ai settori urbani privilegiati e in gran misura sono spinti da un forte razzismo che viene dal lontano Colonialismo.

Qual è stato il ruolo dei mezzi di comunicazione in questo anno e mezzo di Governo Castillo?

Il ruolo dei mezzi di comunicazione in questo anno e mezzo è stato vergognoso, anti-democratico, pro golpista. È stata una stampa militante e a favore dei settori più conservatori del paese. È una stampa sensazionalista che crea titoli faziosi e in modo costante. C’è un allineamento politico dei grandi gruppi mediatici coi grandi conglomerati economici del paese che finanziano le campagne elettorali delle destre e del Fujimorismo. I mezzi di comunicazione sono la voce di questa parte politica che ha la sua strategia golpista da sempre. Questa pratica dei grandi mezzi di comunicazione ha generato molta tensione coi mezzi di comunicazione alternativi e regionali che sostengono in alcuni casi la voce dei settori popolari.

Una valutazione generale del Governo Castillo

Bisogna considerare vari fattori per rispondere a questa domanda. Sebbene sia certo che il governo Castillo abbia sofferto sin dal 1° giorno una strategia di delegittimazione costante con il discorso dei brogli elettorali messo in piedi dal Fujimorismo, sebbene ci siano una serie difficoltà di articolazioni e di dialogo con l’opposizione, bisogna essere onesti e dire che tutto questo già si sapeva. Avevamo chiaro sin dall’inizio che questo governo sarebbe stato tra i più controllati e attaccati. C’era e c’è ancora una grande aspettativa nella realizzazione delle politiche sociali promesse da Castillo per il benessere soprattutto dei settori popolari del paese. Ma dobbiamo constatare ancora l’assenza e il ritardo delle applicazioni di queste politiche. Il governo non ha dimostrato un orizzonte politico chiaro e nella sopravvivenza politica ha ceduto ai settori di destra più di quanto avrebbe dovuto fare per la realizzazione delle politiche sociali. Abbiamo un governo impotente, debole senza orizzonte o visione politica, a mio avviso. È presto fare un bilancio definitivo ma si consolida sempre più un sentimento di delusione più che di soddisfazione.

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Cina, Turchia e UE insidiano il primato russo in Asia Centrale (1a parte)


Dopo l'invasione russa dell'Ucraina le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale sono sempre più fredde con Mosca. Il Kazakistan, in particolare, prende le distanze dalla Russia. Pechino, Ankara e Bruxelles ne approfittano per insinuarsi nel cortile di

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 24 novembre 2022 – Nei giorni scorsi, il Tagikistan – che pure è il paese dell’Asia centrale forse più legato a Mosca – ha firmato un accordo con la Repubblica Popolare Cinese che prevede l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte “antiterrorismo” ogni due anni. L’intesa rafforza e stabilizza la cooperazione tra i due paesi in materia militare, dopo le esercitazioni congiunte già realizzate sporadicamente in passato.
Si tratta dell’ultimo segnale di un aumento dell’influenza di Pechino nelle ex repubbliche sovietiche che, per motivi storici, culturali, economici e militari, hanno a lungo rappresentato il cortile di casa di Mosca dopo lo scioglimento dell’URSS.

La penetrazione militare cinese in TagikistanNell’area la Federazione Russia gode di un primato militare ancora forte, controllando le basi di Baikonur, Sary-Shagan e Balkhash in Kazakistan, la base aerea di Kant in Kirghizistan e l’installazione di Dushambe in Tagikistan. Ma stando a voci via via confermate, già dal 2016 la Cina ha realizzato una struttura militare in un’area dell’est del Tagikistan vicina al turbolento confine con l’Afghanistan. Le autorità tagike hanno sempre negato la circostanza, ma recentemente il quotidiano locale “Asia-Plus” ha nuovamente confermato, citando fonti militari, la costruzione del sito – grazie a fondi cinesi – che avrebbe dovuto essere utilizzato esclusivamente dalle forze di Dushambe. Secondo la testata, non solo i militari di Pechino avrebbero nel frattempo iniziato a utilizzare la base nella regione di Gorno-Badakhshan, ma avrebbero realizzato in Tagikistan tre centri di comando, cinque avamposti in prossimità della frontiera e un centro di addestramento. Già nel 2020 il dipartimento della Difesa di Washington, riferendosi proprio al Tagikistan, rilevava come Pechino stesse «cercando di stabilire infrastrutture più consistenti all’estero per consentire al suo esercito di proiettarsi a più elevate distanze». Nell’ottobre del 2021, del resto, lo stesso governo di Dushambe aveva annunciato la costituzione da parte della Cina di guarnigioni fisse per le unità di intervento rapido nel villaggio di Vakhon.

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L’invasione dell’Ucraina spaventa l’Asia centrale
L’espansione cinese in Asia Centrale è un processo, lento ma senza interruzioni, che risale quanto meno al 2013, con l’avvio da parte di Pechino del gigantesco progetto infrastrutturale denominato “Belt and Road Initiative” o “Nuova Via della Seta”.
L’aggressione russa dell’Ucraina e le difficoltà incontrate dalle forze armate di Mosca nel paese invaso hanno accelerato – per motivi opposti – il distanziamento delle cinque repubbliche ex sovietiche. I regimi locali temono che lo sciovinismo russo, incarnato dalla dottrina del “Russkij Mir” che guida la strategia del Cremlino, possa presto rappresentare una minaccia diretta per paesi che ospitano una quota consistente di popolazione russa o russofona. Al tempo stesso, i rovesci militari di Mosca in Ucraina orientale hanno appannato l’aura di invincibilità di cui godeva finora l’Armata Russa.

Il Kazakistan, enorme e ricchissimo paese scelto dalla Cina per lanciare la sua iniziativa egemonica verso ovest, è il paese che più si sta allontanando da Mosca.

Il Kazakistan si allontana da Mosca
A gennaio le truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza militare guidata da Mosca che include sei repubbliche ex sovietiche, salvarono il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev da una violenta ribellione. Il grosso dei 2500 soldati intervenuti a sedare nel sangue la rivolta – i morti furono alcune centinaia – apparteneva alla 45a brigata dell’esercito russo.
Ma l’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Tokayev a continuare a prendere le distanze da Mosca e a cercare nuovi partner a livello internazionale. Il presidente vuole trasformare il Kazakistan in uno dei 30 paesi più sviluppati del mondo, forte di un enorme territorio ricco di idrocarburi, carbone e uranio e quindi assai appetibile per gli investitori internazionali.
Il governo kazako non ha mai espresso né sostegno né comprensione nei confronti dell’operazione militare russa contro Kiev; inoltre, Astana non ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche del Donbass ed ha da subito implementato le sanzioni finanziarie, economiche e commerciali internazionali contro Mosca, mossa che ha irritato notevolmente il Cremlino. Alcuni media russi hanno infatti accusato Tokayev di aver addirittura inviato armi a Kiev tramite una triangolazione con Londra e Amman.
Astana ha annullato la parata del 9 maggio – il Giorno della Vittoria – per evitare ogni possibile sovrapposizione con la propaganda russa sulla “denazificazione dell’Ucraina”. Nelle ultime settimane, inoltre, il governo ha iniziato l’iter per consolidare la diffusione e l’utilizzo della lingua nazionale e limitare quelle del russo, ampiamente utilizzato nella scuola e nell’amministrazione pubblica nonché parlato da milioni di cittadini. Secondo vari osservatori, con la scusa di redistribuire in maniera razionale la forza lavoro, le autorità di Astana starebbero costringendo molti cittadini kazaki che tornano in patria dall’estero a insediarsi nelle regioni settentrionali del paese, quelle dove si concentra la popolazione di origine russa che rappresenta circa il 15% del totale.

Lo sciovinismo russo allarma AstanaD’altronde, le autorità di Astana sono state messe in allarme da alcune dichiarazioni di esponenti politici russi che hanno più volte messo in dubbio l’esistenza stessa di una nazione kazaka o che hanno fatto appello alla difesa delle popolazioni russofone del nord del paese. Tra questi il deputato comunista al parlamento cittadino di Mosca, Sergey Savostyanov, che ha suggerito di includere il Kazakistan in una «zona di smilitarizzazione e denazificazione» che protegga la sicurezza e gli interessi di Mosca. Ad agosto, poi, Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca, ha scritto sul social Vkontakte che la Federazione dovrebbe occuparsi del Kazakistan del nord definendo il vicino, con cui condivide più di 8000 km di confine, di essere uno “stato artificiale” e accusando il regime kazako di realizzare un genocidio contro la popolazione russa. L’ex presidente russo ha poi cancellato il post lamentando un hackeraggio del suo account, ma il segnale ha comunque allarmato Tokayev anche perché già nel 2014 lo stesso Putin aveva utilizzato argomentazioni simili. Nel 2020, in un intervento alla tv di stato di Mosca, il deputato russo Vyacheslav Nikonov aveva poi dichiarato: «Il Kazakistan semplicemente non esisteva, il Kazakistan settentrionale non era abitato e il Kazakistan di oggi è un grande dono della Russia e dell’Unione Sovietica».

Nelle scorse settimane Mosca e Astana sono stati protagonisti di un conflitto diplomatico: la Russia che pretendeva l’espulsione dell’ambasciatore ucraino ad Astana, colpevole di feroci dichiarazioni antirusse, e il governo kazako ha accusato la Russia di non comportarsi come un “partner strategico di pari livello”. Contemporaneamente Astana ha affermato che non riconosce l’annessione alla Russia dei territori conquistati da Mosca in Ucraina, ed ha dichiarato che le decine di migliaia di cittadini russi che arrivano nel paese per sfuggire all’arruolamento (o che temono di essere coscritti in una prossima nuova mobilitazione a sorpresa) non saranno consegnati alle autorità russe. Già a marzo il viceministro degli Esteri kazako aveva detto che il suo paese era lieto di ospitare le aziende in fuga da Mosca a causa delle sanzioni.

In questa situazione si è abilmente inserita proprio la Cina. A settembre, in visita ufficiale in Kazakistan prima di partecipare al vertice di Samarcanda (Uzbekistan) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il leader cinese Xi Jinping ha esplicitamente offerto a Tokayev il proprio supporto a difesa dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale del Kazakistan, riferendosi implicitamente proprio alle neanche troppo velate minacce russe.

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Astana si rivolge alla Cina e alla Turchia
Per diminuire l’ancora consistente dipendenza del Kazakistan dalla Russia, il leader kazako persegue esplicitamente una rapida diversificazione delle esportazioni del petrolio, cercando di bypassare il territorio russo e di sottrarre quindi a Mosca un elemento di possibile, forte condizionamento. Ora quasi l’80% del petrolio esportato da Astana verso l’Europa transita nel Caspian Pipeline Consortium (CPC), di cui Mosca detiene il 31%, oltretutto dal porto russo di Novorossiysk. Mentre il CPC trasporta ogni giorno un milione di barili di greggio, attraverso la rotta alternativa nel Mar Caspio Astana ne transitano solo 100 mila barili quotidiani. Se la Russia decidesse di chiudere il CPC, Astana perderebbe il 40% dei propri introiti totali. Per aumentare in maniera consistente la quota di petrolio esportata attraverso metodi alternativi Tokayev e si è rivolto alla Turchia e all’Azerbaigian.
Per la prima volta dalla sua ascesa al potere, nei mesi scorsi Tokayev si è recato in Turchia, dove ha ottenuto da Erdoganil varo di una partnership strategica e l’impegno da parte dell’industria militare turca a produrre i propri droni in Kazakistan. Come se non bastasse, Astana ha siglato con Ankara un accordo sullo scambio di informazioni militari.
Interessato al porto di Baku – snodo internazionale utile a distribuire il proprio petrolio evitando il territorio russo – Tokayev si è congratulato con il dittatore Aliyev per aver ripristinato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconquistando la maggior parte dei territori del Nagorno-Karabakh. E questo nonostante il Kazakistan sia un alleato dell’Armenia all’interno del CSTO.

Per ampliare la propria tradizionale “politica estera multivettoriale”, Astana guarda anche ad occidente, come vedremo nella seconda parte dell’articolo. – Pagine Esteri

3859688* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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La magistratura di oggi e quella della quale l’Italia avrebbe bisogno, nel primo incontro della Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi


Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, de

Pubblici ministeri che, in aula, dopo la lettura di una sentenza, dicono che “non andranno più a prendere il caffè” col giudice. Cene e incontri, vicinanze sconvenienti e, purtroppo, anche con riflessi negativi sulle sentenze. La storia, recente e non, del nostro Paese racconta di rapporti tra magistrati che vanno ben oltre quelli che la legge considera leciti. E’ questa, la deriva malata di un “sistema” (come efficacemente descritto nel libro dell’ ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Palamara) che trova il suo spunto “peccato originale” nella mancata separazione delle carriere.

E’ stato questo il tema del primo evento della sezione abruzzese della Scuola di liberalismo della Fondazione Einaudi, che prepara il campo al primo vero e proprio “anno accademico” del 2023. Ospite dell’incontro, il Presidente della Fondazione Einaudi, l’avvocato Giuseppe Benedetto, che ha voluto presentare a Teramo, in “prima” assoluta, il suo libro “Non diamoci del Tu: La separazione delle carriere”, che ospita anche una interessante prefazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio e uno scritto di Leonardo Sciascia, su quella che dovrebbe essere la sofferenza del magistrato chiamato al giudizio.

All’incontro, introdotto dal presidente della Fondazione Einaudi in Abruzzo, Alfredo Grotta, che ha visto la sala dell’Hotel Abruzzi affollata da un pubblico interessato, hanno preso parte l’ex senatore Paolo Tancredi, l’ex vicepresidente del Consiglio Regionale Paolo Gatti e Andrea Davola, ricercatore della Fondazione Einaudi e autore della postfazione. Moderatrice del dibattito, la docente di Diritto Processuale Penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo, Rosita Del Coco.

Negli interventi dei relatori, che hanno anche voluto portare testimonianze personali, sono stati analizzati tutti gli aspetti negativi della mancata separazione delle carriere, cominciando dal dettato del Codice Penale – nei fatti quasi utopia – che impone al pubblico ministero di cercare anche le prove a discolpa dell’imputato. Nei fatti, non succede, e poiché la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore, non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni, la Fondazione invoca una netta divisione dei ruoli, delle funzioni e delle carriere.

Con la riforma Cartabia, giunta a destinazione dopo una complicata mediazione politica tra posizioni molto distanti nel governo di larghe intese con a capo Mario Draghi, i passaggi di funzioni sono stati ridotti da 4 a 1, cosa che dovrebbe nei fatti ridurre ai minimi le effettive richieste di transizione da una funzione all’altra, ma che la stessa Fondazione Einaudi considera l’inizio di un non più rinviabile percorso di vera e più profonda riforma.

Certa Stampa

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Scegli il tuo benessere con i brand più amati nel settore del CBD


L’uso del CBD è in piena espansione ed è ben lontano dall’essere considerato un ingrediente new-age che si può trovare solo sotto il bancone dei negozi di medicina naturale. L’industria della bellezza accoglie il CBD a braccia aperte, utilizzandolo come ingrediente nei sieri di bellezza o nelle candele al profumo di cannabis. Secondo Google Trends […]

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#uncaffèconluigieinaudi – In questa lotta altissima per il risorgimento morale


In questa lotta altissima per il risorgimento morale dell’Italia ci saranno forse delle soste (nel Parlamento); ma a farle cessare provvederà l’incessante vigile voce del paese da Corriere della Sera, 21 marzo 1906 L'articolo #uncaffèconluigieinaudi – In
In questa lotta altissima per il risorgimento morale dell’Italia ci saranno forse delle soste (nel Parlamento); ma a farle cessare provvederà l’incessante vigile voce del paese


da Corriere della Sera, 21 marzo 1906

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Ucraina: (non)sanzioni e trattative di pace


Posto che quelle inflitte alla Russia non sono sanzioni ma ritorsioni, come in tutte le guerre da sempre, a un certo punto ci si mette d’accordo per cessare il fuoco e si iniziano trattative di pace, partendo dallo status quo. Si tratta da dove si sta

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In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il...

In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, il Ministero dell’Istruzione e del Merito si unisce alle iniziative di sensibilizzazione: oggi e domani il Palazzo dell’Istruzione si illumina di rosso, dan…



«L’Italia mai forte quando fa da sola» L’alfabeto di Draghi


Da «Whatever it takes» all’«interesse nazionale» Quanti usi per la parola, quando viene spesa in pubblico. Può blandire, imbonire, promettere, giurare, addirittura minacciare, oppure convincere, spronare, rassicurare. Qualche volta, troppo spesso, ingan

Da «Whatever it takes» all’«interesse nazionale»

Quanti usi per la parola, quando viene spesa in pubblico. Può blandire, imbonire, promettere, giurare, addirittura minacciare, oppure convincere, spronare, rassicurare.

Qualche volta, troppo spesso, ingannare, illudere, confondere. Se ne potrebbero aggiungere altri mille. Ma c’è anche un altro compito che la parola può svolgere, ed è quello non solo di precedere i fatti, ma di favorirli, accompagnarli, spingerli, renderli ineluttabili. È forse questa una delle chiavi per leggere il libro dal titolo Dieci anni di sfide , edito da Treccani, che raccoglie scritti e discorsi pubblici di Mario Draghi dal 2011 al 2022, con la prefazione di Lionel Barber del Financial Times.

Impossibile, per argomentare, sfuggire dal discorso del «Whatever it takes» del luglio del 2012, quando disse che la Bce era pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. Bastarono pochi minuti alla speculazione internazionale per capire che il gioco era finito, che il baratro alla fine del campo di segale nel quale era stata ferocemente spinta la Grecia aveva ormai di sentinella un intero continente, l’Europa, pronto a impedire che succedesse ancora.

Quante volte quella frase è stata richiamata.

Più che per celebrarne l’autore, per rubarne un pezzetto, per impadronirsi di un successo che tutti, anche se con un po’ di cleptomania, sentivano come proprio. Proprio Draghi, probabilmente, è quello che l’ha rivendicato di meno. C’è dell’eleganza e chissà, magari pure un po’ di vanità nel non autocelebrarsi. Ma c’è anche la convinzione profonda che si può essere, come popoli, artefici del proprio destino, anche quando si è sul punto di essere travolti da nemici inattesi e brutali, come la pandemia.

Lo dimostra l’intervento al Meeting di Rimini, quando ormai il suo governo era già caduto e si era a un mese dalle elezioni politiche che avrebbero portato Giorgia Meloni alla guida del Paese. Diceva Draghi, proprio riferendosi all’ora più buia della lotta al virus, con le famiglie e le imprese che non sapevano se sarebbero riuscite ad andare avanti: «Non è andata così. Gli italiani hanno reagito con coraggio e concretezza, come spesso hanno fatto nei momenti più difficili, e hanno riscritto una storia che sembrava già decisa».

Riscrivere una storia che pare già decisa è più che una sfida, non solo avverso alla pandemia, ma contro uno spettro che l’Europa si illudeva di aver sconfitto per sempre: la guerra.

Il 24 febbraio il continente si sveglia con la Russia che invade un Paese sovrano, l’Ucraina.
Ora sembra quasi scontato il sostegno a un popolo aggredito, l’adesione alle sanzioni, la collaborazione con gli alleati, l’invio di armi per aiutare la resistenza, fino a dire che la più sciagurata e improbabile delle ipotesi può vederci domani come sconfitti, ma mai come complici. Non era necessariamente così alla vigilia delle comunicazioni del presidente del Consiglio alla Camera. Incertezze, timori e compiacenze nella stessa maggioranza di unità nazionale sono fin troppo note. Le parole di questo anomalo banchiere, per un breve tratto prestato alla politica, non lasciarono spazio a interpretazioni furbesche, pur nella certezza che la linea della fermezza non avrebbe garantito la bella figura senza pagare un prezzo: «Tollerare una guerra d’aggressione nei confronti di uno Stato sovrano europeo — disse in Aula — vorrebbe dire mettere a rischio, in maniera forse irreversibile, la pace e la sicurezza in Europa. Non possiamo lasciare che questo accada».

E ancora nel settembre scorso, all’Onu, ricordava le riflessioni di Michail Gorbaciov secondo il quale, in un mondo globalizzato, la forza o la minaccia del suo utilizzo non potessero più funzionare come strumento di politica estera, serve piuttosto una nuova qualità della cooperazione da parte degli Stati.

E sotto la voce «cooperazione» c’è tanta parte del pensiero di Mario Draghi. Il suo discorso a Washington del maggio scorso lo sintetizza: «È evidente che i singoli Stati non possono far fronte da soli alle molte e difficili sfide che li attendono nei prossimi anni. Ciò che serve ora è uno sforzo collettivo, che ci unirà molto di più di quanto abbia fatto in passato». Vale per i cambiamenti climatici. Vale per la pandemia, contro la quale si combatte anche rifiutando il protezionismo sanitario e portando cure e vaccini anche nelle parti più povere del modo. Vale per l’integrazione europea, che ha bisogno di un federalismo pragmatico e ideale che sappia superare le pastoie delle decisioni all’unanimità. Vale anche quando, pensando al percorso che ha portato al Piano nazionale di ripresa e resilienza, ha ricordato, nel suo intervento all’Accademia dei Lincei, che alcuni governi, in altri Paesi europei, hanno tassato i loro cittadini per poter dare denaro a noi sotto forma di sussidi.

«Protezionismo e isolazionismo – sostiene – non coincidono con il nostro interesse nazionale. Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che recentemente spingevano a lasciare l’euro, l’Italia non è mai stata forte quando ha deciso di fare da sola». Gli interventi di Draghi per ricordare il pensiero di Jean Monnet, di Alcide De Gasperi, di Carlo Azeglio Ciampi, guardano tutti allo stesso obiettivo: l’Europa come motore che garantisce non una cessione di sovranità, ma un suo livello più alto, condizione di crescita, di pace e benessere. Spesso i suoi discorsi si concludono con un contenuto esortativo, la spinta a lavorare insieme come chiave per affrontare tutti i problemi. Credetegli, se avverrà sarà sufficiente.

Corriere della Sera

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Da settembre la Repubblica islamica dell’Iran è scossa da proteste e scioperi scatenati dalla morte di Mahsa (Jina) Amini, studentessa curda 22enne, avvenuta mentre era in custodia della polizia morale di Teheran.


Legge di bilancio figlia della premura


Per preparare la legge di bilancio il governo ha avuto pochi giorni, ma per preparare le idee con cui concepire un bilancio ha avuto anni. C’è sproporzione fra quel che si sa di dovere fare e gli strumenti che s’intendono utilizzare. Sproporzione che disc

Per preparare la legge di bilancio il governo ha avuto pochi giorni, ma per preparare le idee con cui concepire un bilancio ha avuto anni.


C’è sproporzione fra quel che si sa di dovere fare e gli strumenti che s’intendono utilizzare. Sproporzione che discende da un’inversione logica, che coinvolge i tempi e i soldi. Oltre a “premura” nel senso di prescia se n’abbia nel senso di cura

La presidente del Consiglio ha detto che con questo andamento demografico l’intero stato sociale e il sistema pensionistico non reggono. Giusto. Poi nella legge di bilancio infilano il congedo parentale allungato di un mese e la diminuzione dell’Iva sui pannolini. Ma anche il modo per andare in pensione prima, salvo aumentare (simbolici 7 euro al mese) le pensioni non basate sui contributi versati. È contraddittorio.

La natalità non crescerà perché c’è un mese di congedo. Crescere i figli ha la gittata di una ventina d’anni. E l’Iva più bassa non invoglierà. Sono cose concrete, anche benemerite, ma ininfluenti. Sono cose nate dalla finzione che non si facciano figli perché non si hanno soldi, in un Paese che spende per gli animali domestici più del doppio di quel che spende per la prima infanzia. Se vuoi affrontare il problema – oltre a non far crescere ancora il numero e il costo di quanti riscuotono una rendita senza avere versato adeguati contributi – devi guardare ai fondi europei del Pnrr, alla costruzione di asili nido e di scuole con il tempo pieno, a una formazione che renda competitivi, a impianti sportivi dove far scorrazzare chi per natura non può e non deve stare fermo, alla mobilità sorvegliata (pulmini da casa al campo sportivo e ritorno). La differenza è che le prime cose posso disporle e darle subito, per le altre ci vuole tempo. Solo che le prime sono inutili.

Il che porta al tema dei tempi. Per preparare la legge di bilancio il governo ha avuto pochi giorni, considerata la data del voto. Il che giustifica ampiamente il ritardo nella presentazione. Ma per preparare le idee con cui concepire un bilancio ha avuto anni. L’impostazione di quel che si vuole ottenere dev’essere immediata, perché si suppone sia la ragione per cui ti sei candidato e ti hanno votato; la realizzazione arriva nel tempo. Se invece provo a far vedere cosa sono in grado di fare subito, rinviando nel tempo l’impostazione compatibile con la realtà, o non ho capito che così sono su un binario morto o non riesco a conciliare quel che raccontai con quel che posso fare. Il che porta alla questione dei soldi.

Meloni ha detto che ora l’Italia può riprendere a crescere. Cresce da due anni e come non mai. Ma c’è l’altra leggenda da sfatare: non ci sono i soldi. I soldi ci sono eccome. Non ci sono tutti i soldi necessari per fare tutte le cose promesse in campagna elettorale. E fortunatamente, altrimenti avremmo più pensionati ancora. Ma i soldi del Pnrr consentono di fare un bilancio assai alleggerito sul fronte degli investimenti. È moltissimo. Semmai sarebbe bene aggiornare tutti, non solo la Commissione europea, sullo stato dei lavori. Sprecare quell’occasione sarebbe rompersi l’osso del collo.

Il pericolo della gatta frettolosa, capace d’accecare la progenie, esiste anche all’opposizione. A dire che il governo sbaglia son tutti bravi, ma non ha molto senso che il Partito democratico convochi una manifestazione di piazza contro la «manovra iniqua» nel mentre i loro ex (ex?) alleati del M5S ne convocano una per protestare contro la cancellazione (che manco c’è) del Reddito di cittadinanza. Non ha senso perché il Pd votò contro quel reddito, sicché chiarisca se l’iniquità sono poche o troppe pensioni, pochi o troppi aiuti e così via andando. Altrimenti l’opposizione diventa solo il dire No al governo, con una premura oppositoria che rimanda a un imprecisato domani la definizione di cosa, invece, farebbero loro. C’è un solo modo per combattere la miseria: far crescere la ricchezza.

Il mondo continua a crescere. Le previsioni economiche europee sono di crescita più contenuta, ma di crescita. La politica sembra essere la sola a non saper crescere, dalla lamentazione alla realizzazione.

La Ragione

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8 miliardi di ‘problemi’, tra oro nero e oro blu


“Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando” (P. Roth, Pastorale americana) Il 15 novembre scorso l’Onu ci ha comunicato che gli umani sono diventati 8 miliardi sulla terza pietra […]

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Ringraziamento: musica e parole … recenti


Gli inni del Ringraziamento hanno qualche secolo, al massimo, ma i salmi biblici di gratitudine e lode risalgono a migliaia di anni fa

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Le origini medievali della cucina del Ringraziamento


I primi americani hanno semplicemente imitato o adattato i piatti tradizionali, le combinazioni di sapori e i rituali dell'Europa del XVII secolo

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Nonostante la repressione e gli arresti, proseguono le manifestazioni in Iran. Ma i suoi esiti dipenderanno da numerosi fattori.


IRA europea“Una sfida esistenziale all’economia europea”. Così il Commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, ha ieri definito l’Inflation Reduction Act (IRA), la legge approvata ad agosto dall’amministrazione Biden per accelerare la …


Arabia Saudita: la cautela di Biden


I recenti sforzi sauditi per placare l’amministrazione Biden sulla scia del sostegno del regno al taglio della produzione di petrolio dell’OPEC + del mese scorso assumono un significato aggiunto sulla scia delle recenti elezioni di medio termine negli Stati Uniti che hanno rafforzato Joe Biden e indebolito l’ex Presidente Donald J. Trump. L’insistenza saudita su […]

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India: nessun vincitore nella corsa presidenziale del Congresso nazionale


Il grande vecchio partito indiano, l’Indian National Congress (INC), ha eletto un nuovo presidente. Questa non dovrebbe essere una grande novità, ma è la prima elezione contestata in due decenni e solo la sesta nella storia dell’INC. È anche la prima volta dal 1998 che qualcuno che non si chiama Gandhi ha ricoperto l’incarico. Ma le prospettive di questo […]

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Scozia: sfida alla legittimità dell’ordine costituzionale del Regno Unito


La Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito all'unanimità che il governo scozzese non può indire un referendum sull'indipendenza senza il permesso di Westminster. Il verdetto espone uno scontro tra la legge costituzionale del Regno Unito e il mandato democratico ottenuto dalle forze politiche scozzesi

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L’Ucraina deve poter contrattaccare contro obiettivi all’interno della Russia


Quando finalmente l’esercito ucraino si vendicherà per la continua distruzione del proprio paese colpendo obiettivi all’interno della Russia? La risposta breve è: quando i partner dell’Ucraina glielo permetteranno. Molte persone potrebbero non averlo notato, ma gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali dell’Ucraina hanno protetto la Russia dal contrattacco ucraino sin dall’inizio dell’invasione il […]

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Carte liberali, suggestioni dagli archivi della Fondazione Luigi Einaudi


a cura di Leonardo Musci – Responsabile Archivio Storico Inaugurazione della Mostra da parte del Direttore de “La Ragione” e vice Presidente della FLE, Davide Giacalone L’esposizione resterà aperta fino al 22 dicembre 2022, dal lunedì al venerdì dalle ore

a cura di Leonardo Musci – Responsabile Archivio Storico

Inaugurazione della Mostra da parte del Direttore de “La Ragione” e vice Presidente della FLE, Davide Giacalone

L’esposizione resterà aperta fino al 22 dicembre 2022, dal lunedì al venerdì dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 18.00

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60 anni di diffusione del pensiero liberale


Saluti Introduttivi GIUSEPPE BENEDETTO – Presidente della Fondazione Luigi Einaudi Intervengono ILHAN KYUCHYUK – MEP and Alde President HAKIMA EL HAITÉ – Liberal International President HIDE VAUTMANS – MEP and European Liberal Forum President Relatori ANG

Saluti Introduttivi
GIUSEPPE BENEDETTO – Presidente della Fondazione Luigi Einaudi

Intervengono
ILHAN KYUCHYUK – MEP and Alde President
HAKIMA EL HAITÉ – Liberal International President
HIDE VAUTMANS – MEP and European Liberal Forum President

Relatori
ANGELO MARIA PETRONI – Comitato Scientifico Fondazione Luigi Einaudi. La storia della Fondazione Luigi Einaudi
ANDREA CANGINI – Segretario General Fondazione Luigi Einaudi. L’Opera Omnia di Luigi Einaudi al servizio del Paese

Modera
EMMA GALLI – Direttrice Scientifica Fondazione Luigi Einaudi

Conclusioni
OTTAVIA MUNARI – Ricercatrice FLE

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I videogiochi: dal passato fino all’epoca moderna


Il mondo dei videogiochi è in costante crescita, grazie all’evoluzione delle moderne tecnologie. I videogiochi, che siano per PC o per console, diventano sempre più complessi, a partire dalla grafica fino ad arrivare alla modalità di gioco e all’interattività. Vediamo assieme come si sono evoluti i videogiochi, quali vantaggi presentano e come in Sardegna ci […]

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Il Canada e il netto spostamento contro la Cina


Secondo quanto riferito, il leader supremo della Cina Xi Jinping ha rimproverato due volte il primo ministro canadese Justin Trudeau al recente incontro del G20 a Bali. Il primo rimprovero rifletteva l’insoddisfazione del leader cinese per il fatto che il governo Trudeau avesse recentemente accusato Pechino di interferire negli affari interni del Canada finanziando segretamente […]

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Terzo posto in Esa e due astronauti per l’Italia


Che ha portato a casa l’Italia dalla Ministeriale dello Spazio svoltasi nei giorni scorsi a Parigi? «A Parigi oggi si è imboccata la strada giusta per costruire il futuro dello spazio per la nostra Europa che deve fronteggiare anche una competizione globale molto stressante dagli altri partner internazionali» ha dichiarato il ministro Adolfo Urso appena […]

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Armed groups play a central role in Libya and Yemen. Pervading weak and contested institutions, they have gradually brought their survival, profit and governance strategies under the state umbrella: warlords have become the new lords of the state.


Da oggi fino al 26 novembre torna, alla Fiera di Verona, JOB&Orienta, lo storico Salone nazionale dell’orientamento.

“A.A.A. Accogliere, accompagnare, apprendere in un mondo che cambia”, è il titolo di questa XXXI° edizione.

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Manovra, come al solito vincono gli intoccabili. Per noi c’è il bastone - Contropiano

«660mila percettori di reddito occupabili (e, chissà, forse anche i 173mila che già lavorano ma percepiscono stipendi così miseri che devono essere integrati con il RdC) vengono così segnati dal marchio dell’infamia, perché nemici della “nazione”, improduttivi, parassiti.

Bisogna dunque costringerli. E l’arma di costrizione è la fame – oltre che lo stigma. Senza alcun reddito saranno obbligati a cercare e soprattutto ad accettare qualunque lavoro, a qualunque condizione e in qualunque luogo. È una logica propria non solo del Governo Meloni, ma anche di politici come Renzi e di ampi pezzi del mondo imprenditoriale.»

contropiano.org/news/politica-…



Cina, Turchia e UE insidiano il primato russo in Asia Centrale (1a parte)


Dopo l'invasione russa dell'Ucraina le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale sono sempre più fredde con Mosca. Il Kazakistan, in particolare, prende le distanze dalla Russia. Pechino, Ankara e Bruxelles ne approfittano per insinuarsi nel cortile di

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 24 novembre 2022 – Nei giorni scorsi, il Tagikistan – che pure è il paese dell’Asia centrale forse più legato a Mosca – ha firmato un accordo con la Repubblica Popolare Cinese che prevede l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte “antiterrorismo” ogni due anni. L’intesa rafforza e stabilizza la cooperazione tra i due paesi in materia militare, dopo le esercitazioni congiunte già realizzate sporadicamente in passato.
Si tratta dell’ultimo segnale di un aumento dell’influenza di Pechino nelle ex repubbliche sovietiche che, per motivi storici, culturali, economici e militari, hanno a lungo rappresentato il cortile di casa di Mosca dopo lo scioglimento dell’URSS.

La penetrazione militare cinese in TagikistanNell’area la Federazione Russia gode di un primato militare ancora forte, controllando le basi di Baikonur, Sary-Shagan e Balkhash in Kazakistan, la base aerea di Kant in Kirghizistan e l’installazione di Dushambe in Tagikistan. Ma stando a voci via via confermate, già dal 2016 la Cina ha realizzato una struttura militare in un’area dell’est del Tagikistan vicina al turbolento confine con l’Afghanistan. Le autorità tagike hanno sempre negato la circostanza, ma recentemente il quotidiano locale “Asia-Plus” ha nuovamente confermato, citando fonti militari, la costruzione del sito – grazie a fondi cinesi – che avrebbe dovuto essere utilizzato esclusivamente dalle forze di Dushambe. Secondo la testata, non solo i militari di Pechino avrebbero nel frattempo iniziato a utilizzare la base nella regione di Gorno-Badakhshan, ma avrebbero realizzato in Tagikistan tre centri di comando, cinque avamposti in prossimità della frontiera e un centro di addestramento. Già nel 2020 il dipartimento della Difesa di Washington, riferendosi proprio al Tagikistan, rilevava come Pechino stesse «cercando di stabilire infrastrutture più consistenti all’estero per consentire al suo esercito di proiettarsi a più elevate distanze». Nell’ottobre del 2021, del resto, lo stesso governo di Dushambe aveva annunciato la costituzione da parte della Cina di guarnigioni fisse per le unità di intervento rapido nel villaggio di Vakhon.

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L’invasione dell’Ucraina spaventa l’Asia centrale
L’espansione cinese in Asia Centrale è un processo, lento ma senza interruzioni, che risale quanto meno al 2013, con l’avvio da parte di Pechino del gigantesco progetto infrastrutturale denominato “Belt and Road Initiative” o “Nuova Via della Seta”.
L’aggressione russa dell’Ucraina e le difficoltà incontrate dalle forze armate di Mosca nel paese invaso hanno accelerato – per motivi opposti – il distanziamento delle cinque repubbliche ex sovietiche. I regimi locali temono che lo sciovinismo russo, incarnato dalla dottrina del “Russkij Mir” che guida la strategia del Cremlino, possa presto rappresentare una minaccia diretta per paesi che ospitano una quota consistente di popolazione russa o russofona. Al tempo stesso, i rovesci militari di Mosca in Ucraina orientale hanno appannato l’aura di invincibilità di cui godeva finora l’Armata Russa.

Il Kazakistan, enorme e ricchissimo paese scelto dalla Cina per lanciare la sua iniziativa egemonica verso ovest, è il paese che più si sta allontanando da Mosca.

Il Kazakistan si allontana da Mosca
A gennaio le truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza militare guidata da Mosca che include sei repubbliche ex sovietiche, salvarono il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev da una violenta ribellione. Il grosso dei 2500 soldati intervenuti a sedare nel sangue la rivolta – i morti furono alcune centinaia – apparteneva alla 45a brigata dell’esercito russo.
Ma l’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Tokayev a continuare a prendere le distanze da Mosca e a cercare nuovi partner a livello internazionale. Il presidente vuole trasformare il Kazakistan in uno dei 30 paesi più sviluppati del mondo, forte di un enorme territorio ricco di idrocarburi, carbone e uranio e quindi assai appetibile per gli investitori internazionali.
Il governo kazako non ha mai espresso né sostegno né comprensione nei confronti dell’operazione militare russa contro Kiev; inoltre, Astana non ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche del Donbass ed ha da subito implementato le sanzioni finanziarie, economiche e commerciali internazionali contro Mosca, mossa che ha irritato notevolmente il Cremlino. Alcuni media russi hanno infatti accusato Tokayev di aver addirittura inviato armi a Kiev tramite una triangolazione con Londra e Amman.
Astana ha annullato la parata del 9 maggio – il Giorno della Vittoria – per evitare ogni possibile sovrapposizione con la propaganda russa sulla “denazificazione dell’Ucraina”. Nelle ultime settimane, inoltre, il governo ha iniziato l’iter per consolidare la diffusione e l’utilizzo della lingua nazionale e limitare quelle del russo, ampiamente utilizzato nella scuola e nell’amministrazione pubblica nonché parlato da milioni di cittadini. Secondo vari osservatori, con la scusa di redistribuire in maniera razionale la forza lavoro, le autorità di Astana starebbero costringendo molti cittadini kazaki che tornano in patria dall’estero a insediarsi nelle regioni settentrionali del paese, quelle dove si concentra la popolazione di origine russa che rappresenta circa il 15% del totale.

Lo sciovinismo russo allarma AstanaD’altronde, le autorità di Astana sono state messe in allarme da alcune dichiarazioni di esponenti politici russi che hanno più volte messo in dubbio l’esistenza stessa di una nazione kazaka o che hanno fatto appello alla difesa delle popolazioni russofone del nord del paese. Tra questi il deputato comunista al parlamento cittadino di Mosca, Sergey Savostyanov, che ha suggerito di includere il Kazakistan in una «zona di smilitarizzazione e denazificazione» che protegga la sicurezza e gli interessi di Mosca. Ad agosto, poi, Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca, ha scritto sul social Vkontakte che la Federazione dovrebbe occuparsi del Kazakistan del nord definendo il vicino, con cui condivide più di 8000 km di confine, di essere uno “stato artificiale” e accusando il regime kazako di realizzare un genocidio contro la popolazione russa. L’ex presidente russo ha poi cancellato il post lamentando un hackeraggio del suo account, ma il segnale ha comunque allarmato Tokayev anche perché già nel 2014 lo stesso Putin aveva utilizzato argomentazioni simili. Nel 2020, in un intervento alla tv di stato di Mosca, il deputato russo Vyacheslav Nikonov aveva poi dichiarato: «Il Kazakistan semplicemente non esisteva, il Kazakistan settentrionale non era abitato e il Kazakistan di oggi è un grande dono della Russia e dell’Unione Sovietica».

Nelle scorse settimane Mosca e Astana sono stati protagonisti di un conflitto diplomatico: la Russia che pretendeva l’espulsione dell’ambasciatore ucraino ad Astana, colpevole di feroci dichiarazioni antirusse, e il governo kazako ha accusato la Russia di non comportarsi come un “partner strategico di pari livello”. Contemporaneamente Astana ha affermato che non riconosce l’annessione alla Russia dei territori conquistati da Mosca in Ucraina, ed ha dichiarato che le decine di migliaia di cittadini russi che arrivano nel paese per sfuggire all’arruolamento (o che temono di essere coscritti in una prossima nuova mobilitazione a sorpresa) non saranno consegnati alle autorità russe. Già a marzo il viceministro degli Esteri kazako aveva detto che il suo paese era lieto di ospitare le aziende in fuga da Mosca a causa delle sanzioni.

In questa situazione si è abilmente inserita proprio la Cina. A settembre, in visita ufficiale in Kazakistan prima di partecipare al vertice di Samarcanda (Uzbekistan) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, il leader cinese Xi Jinping ha esplicitamente offerto a Tokayev il proprio supporto a difesa dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale del Kazakistan, riferendosi implicitamente proprio alle neanche troppo velate minacce russe.

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Astana si rivolge alla Cina e alla Turchia
Per diminuire l’ancora consistente dipendenza del Kazakistan dalla Russia, il leader kazako persegue esplicitamente una rapida diversificazione delle esportazioni del petrolio, cercando di bypassare il territorio russo e di sottrarre quindi a Mosca un elemento di possibile, forte condizionamento. Ora quasi l’80% del petrolio esportato da Astana verso l’Europa transita nel Caspian Pipeline Consortium (CPC), di cui Mosca detiene il 31%, oltretutto dal porto russo di Novorossiysk. Mentre il CPC trasporta ogni giorno un milione di barili di greggio, attraverso la rotta alternativa nel Mar Caspio Astana ne transitano solo 100 mila barili quotidiani. Se la Russia decidesse di chiudere il CPC, Astana perderebbe il 40% dei propri introiti totali. Per aumentare in maniera consistente la quota di petrolio esportata attraverso metodi alternativi Tokayev e si è rivolto alla Turchia e all’Azerbaigian.
Per la prima volta dalla sua ascesa al potere, nei mesi scorsi Tokayev si è recato in Turchia, dove ha ottenuto da Erdoganil varo di una partnership strategica e l’impegno da parte dell’industria militare turca a produrre i propri droni in Kazakistan. Come se non bastasse, Astana ha siglato con Ankara un accordo sullo scambio di informazioni militari.
Interessato al porto di Baku – snodo internazionale utile a distribuire il proprio petrolio evitando il territorio russo – Tokayev si è congratulato con il dittatore Aliyev per aver ripristinato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconquistando la maggior parte dei territori del Nagorno-Karabakh. E questo nonostante il Kazakistan sia un alleato dell’Armenia all’interno del CSTO.

Per ampliare la propria tradizionale “politica estera multivettoriale”, Astana guarda anche ad occidente, come vedremo nella seconda parte dell’articolo. – Pagine Esteri

3836289* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Kick-off for EU database of public domain works and digital access to scientific works


With yesterday’s budget vote, the EU Parliament approved the funding of two pilot projects in the field of free knowledge initiated by the Pirate Party’s MEP Patrick Breyer in cooperation with …

With yesterday’s budget vote, the EU Parliament approved the funding of two pilot projects in the field of free knowledge initiated by the Pirate Party’s MEP Patrick Breyer in cooperation with civil society.

The first pilot project “Public EU directory of works in the public domain and under free licenses”, is funding a feasibility study for the creation of a database of public domain works. The development of such a database shall provide legal certainty for platforms, providers, galleries, libraries, archives and museums, as well as other non-profit organizations that work with public domain or freely licensed content.

The second project, “The Role of Copyright Laws in facilitation of distance education and research” intends to strengthen schools, universities and the cultural sector. The pilot project will assess copyright obstacles for online teaching and will focus on possible adaptions to the legal framework in order to enhance an appropriate balance of the interests of the authors and the use for educational and research purposes in the public interest. In addition, public access to culture and education shall be increased, in particular by granting licenses to libraries.

Patrick Breyer, Member of the European Parliament for the Pirate Party and digital freedom fighter, comments:

The Pirate‘s fight for free knowledge has never been as important as during the pandemic, when schools and libraries often were closed. We finally need legal certainty. Business interests must no longer stand in the way of digital learning and research. The pilot projects I have proposed are an important first step in bringing the laws into line with the needs of our digital knowledge society.”

patrick-breyer.de/en/kick-off-…



ISRAELE. La destra estrema vuole religiosi dei due sessi separati agli eventi pubblici


Non chiedono una totale separazione tra uomini e donne ma la vogliono subito agli eventi culturali in cui sono coinvolti i religiosi ultraortodossi. Netanyahu ha vinto le elezioni del primo novembre ma fatica a formare il governo. L'articolo ISRAELE. La

di Michele Giorgio –

(nella foto i deputati di estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich/Arutz Sheva)

Pagine Esteri, 24 novembre, 2022 – Non si sa se l’attentato di ieri a Gerusalemme finirà per accelerare le trattative per la formazione del nuovo governo israeliano ma Moshe Gafni, presidente del partito dei religiosi ultraortodossi Degel HaTorah, ha incontrato il premier incaricato Benyamin Netanyahu per confermare il congelamento dei negoziati a causa del mancato accordo sulla distribuzione dei ministeri. Ma più di tutto per insistere sulla abolizione della legge che vieta la separazione tra donne e uomini negli eventi pubblici in Israele. «Una donna haredi (ultraortodossa, ndr) non andrà a un evento dove non c’è separazione tra uomini e donne. Che cosa vogliono quelli che all’improvviso parlano contro questo? Che le donne se ne stiano a casa?», ha spiegato Gafni a Channel 2 News affermando l’esistenza di una «persecuzione legale» per coloro che intendono praticare la separazione. Il nuovo governo israeliano non ha ancora visto la luce e gli alleati religiosi ed estremisti del leader della destra Netanyahu premono affinché sia rispettato subito l’impegno di imprimere una svolta conservatrice al paese, ad ogni livello, a cominciare dalla società. Non chiedono una totale separazione dei sessi ma la vogliono vedere applicata subito negli eventi culturali in cui sono coinvolti i religiosi ortodossi. Poi si vedrà.

La richiesta ha suscitato un vespaio. Condanne sono giunte dal premier uscente Yair Lapid, un laicista, e dalla leader laburista Mirav Michaeli che ha risposto ammonendo che è il governo che sta formando Netanyahu a rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma i promotori della separazione tra uomini e donne non si sono lasciati impressionare, soprattutto Bezalel Smotrich di Sionimo Religioso che dalla vittoria elettorale del primo novembre si è rivelato il più vorace degli esponenti della destra estrema religiosa, finendo talvolta per superare il suo alleato ultranazionalista, accusato di razzismo, Itamar Ben Gvir. Lunedì Smotrich ha esortato il nuovo governo ad «agire» contro le organizzazioni per i diritti umani che ha descritto come una «minaccia esistenziale per lo Stato di Israele». Parlando a una conferenza intitolata «Organizzazioni per i diritti umani gestite da Hamas», organizzata dal gruppo di attivisti di destra Ad Kan, il deputato di Sionismo Religioso ha intimato al governo entrante di prendere di mira i centri che difendono i diritti umani e ad usare contro di loro mezzi legali e di sicurezza. «Di fronte alla delegittimazione, all’incitamento, al terrorismo e alla calunnia, è ora di iniziare a rispondere» ha detto tra gli applausi dei presenti. Per Gilad Ach, presidente di Ad Kan, «Le nuove circostanze politiche sono un’ottima occasione per mettere ordine in questa vicenda. È giunto il momento per la Knesset di istituire un meccanismo di controllo per le Ong. I soldati non devono essere in prima linea senza alcuna protezione (legale) contro questi terroristi in giacca e cravatta».

Nei mesi scorsi l’esercito israeliano ha chiuso in Cisgiordania sette Ong per i diritti umani, tra cui la storica Al Haq, vincitrice di riconoscimenti internazionali, descrivendole come parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Israele però non ha prodotto prove concrete e definitive di questa presunta affiliazione. La destra però si scaglia anche contro le Ong israeliane per i diritti umani che denunciano violazioni e crimini commessi da soldati e coloni israeliani contro i civili palestinesi sotto occupazione militare. Bezalel Smotrich, non a caso, reclama il ministero della difesa per realizzare i suoi piani incendiari, non solo contro le Ong. Netanyahu starebbe facendo, secondo i media israeliani, il possibile per dirottarlo verso un altro ministero temendo un contraccolpo internazionale, in particolare dagli Stati uniti. Pagine Esteri

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Mondiali in Qatar, Hrw chiede un risarcimento per i lavoratori


L'organizzazione per i diritti umani chiede che anche la FIFA, non solo il Qatar, istituisca un fondo per risarcire i lavoratori stranieri abusati durante la costruzione degli stadi e le famiglie di quelli morti nei cantieri. L'articolo Mondiali in Qatar

di Michele Giorgio* –

Pagine Esteri, 18 novembre 2022 – Non solo proteste e articoli di stampa. Chiedono un risarcimento alla FIFA e al Qatar i lavoratori migranti, in gran parte asiatici, che con litri di sudore e la forza delle braccia hanno costruito gli stadi e le infrastrutture che ospiteranno da domenica i Mondiali. Altrettando reclamano le famiglie delle migliaia di manovali morti sul lavoro. A farsi carico di questa richiesta è Human rights watch (Hrw) che ieri ha presentato un video in cui parlano soprattutto lavoratori e tifosi del Nepal, paese dal quale sono partiti migliaia di uomini attirati in Qatar dalla possibilità di percepire un salario e mantenere le loro famiglie in patria. Ottenere quel risarcimento sarà faticoso, come il lavoro di 12 anni che è stato necessario per dotare il piccolo ma ricco regno del Qatar degli impianti sportivi che ospitano il Mondiale.

Hrw spiega che se i regnanti di Doha, dopo proteste e denunce, hanno istituito un fondo per risarcire, anche se solo una parte, delle famiglie dei morti sul lavoro e gli operai che non sono stati retribuiti dalle imprese di costruzioni, al contrario la FIFA ha ignorato i problemi legati all’organizzazione del Mondiale in un paese che pure è noto per le violazioni dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori stranieri. Eppure, sottolinea il centro per i diritti umani, la Federazione mondiale del gioco del calcio si prepara ad incassare miliardi dal torneo che prende il via il 20 novembre. «La strategia della FIFA di seppellire la testa sotto la sabbia e di guadagnare tempo, sperando che l’entusiasmo per il gioco offuschi le violazioni dei diritti umani, è destinata a fallire», prevede Rothna Begum, ricercatrice di Human Rights Watch.

Il costo in vite umane e lo sfruttamento dei lavoratori rendono unica la Coppa del Mondo 2022 in Qatar. Sarebbero almeno 6500 i morti secondo una inchiesta pubblicata all’inizio dello scorso anno dal quotidiano britannico The Guardian. Amnesty International parla addirittura di 15mila decessi tra il 2010 e il 2019. Senza dimenticare gli infortuni, gli infarti, i suicidi e le malattie sviluppate dai lavoratori una volta tornati a casa. Le autorità qatariote ne sono consapevoli e con ogni probabilità hanno raccolto molti dati in questi anni. Ma preferiscono, per motivi di immagine, parlare di poche decine di vittime. Sono convinte che lo sportwashing – di cui fanno uso un po’ tutte le petromonarchie del Golfo – e i gol che segneranno le stelle vecchie e nuove del calcio mondiale faranno dimenticare presto le polemiche che circondano da anni questa edizione della Coppa del Mondo.

Non tutti dimenticheranno. Per gli appassionati di calcio nepalesi le emozioni andranno ben oltre la gioia di guardare le partite. La realtà sportiva si intreccia con i sacrifici che hanno fatto tanti nepalesi partiti per il Qatar per guadagnare poche centinaia di dollari al mese lavorando per gran parte dell’anno in condizioni estreme. Manovali che non hanno goduto dell’aria condizionata, di cui si parla tanto, che hanno installato negli stadi di ultima generazione sorti dove prima non c’era nulla. Nel video diffuso da Hrw parla Hari, un operaio che per 14 anni ha lavorato in diversi cantieri, tra cui lo stadio Al Janoub. Hari ricorda che l’area di Lusail a Doha era vuota quando è arrivato in Qatar: ora è piena di torri. «Abbiamo costruito noi quelle torri», dice perentorio. Ricorda di aver lasciato il Nepal quando suo figlio aveva solo 6 mesi e di averlo visto solo cinque volte in 14 anni. «Mio figlio non mi ha riconosciuto quando sono tornato in Nepal la prima volta». In quei 14 anni di distanza dalla famiglia Hari invece ha visto e contribuito alla trasformazione del Qatar. Ram Pukar Sahani, un altro nepalese, dice di aver saputo non dalle autorità di Doha ma da un amico della morte di suo padre operaio in un cantiere qatariota. Non ha mai ricevuto un risarcimento perché secondo i medici è stata una «morte naturale» dovuta a una insufficienza cardiaca. La diagnosi della morte naturale è il pretesto che più di frequente il Qatar ha usato per negare il risarcimento alle famiglie dei lavoratori stranieri deceduti. Le temperature vicine ai 50 gradi in cui i manovali erano costretti a lavorare non sono state considerate valide dalle autorità per spiegare quelle «morti naturali».

Le proteste internazionali hanno spinto Doha ad avviare alcune riforme del lavoro e della kafala, il sistema di reclutamento in uso in molti paesi del Medio oriente che permette ai datori di lavoro di tenere i manovali stranieri in uno stato di semi schiavitù. Tanti però non ne hanno beneficiato. Quei lavoratori sfruttati, abusati e spesso non retribuiti, insiste Hrw, hanno diritto almeno a un risarcimento finanziario dal Qatar e dalla FIFA. Pagine Esteri

*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto

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